Sunday, March 17, 2024

GRICE ITALICO A/Z G

 

Grice e Gaetani – L’implicatura di Catullo -- APVD NEAPOLIM – filosofia italiana – Luigi Speranza (Martano). Filosofo italiano. Grice: “I like Gaetani, for one, he is a duke – and kept beautiful gardens at Martano – he philosophised on the ‘ottocento’, as any philosopher from the Novecento would!” Figlio di Carlo, conte di Castelmola, e Giuseppina Chiriatti. La famiglia Gaetani annovera oltre al ramo dei Castelmola, anche quello dei Laurenzana, di cui si ricorda il Barone Di Laurenzana, esponente del movimento radicale. L'insegna araldica dei Castelmola è costituita da uno scudo forgiato di due strisce blu ondeggianti che lo attraversano in senso trasversale. I Gaetani, prima Caetani, vantarono alcuni papi, tra cui Bonifacio VIII.  Il padre, Carlo, avvocato, fu ripetutamente eletto tra le file dei radicali nel Consiglio comunale di Napoli. Da Napoli attiene, fino a tutta la Grande Guerra, alla cura del patrimonio fondiario in Martano, acquisito dal matrimonio con Chiriatti. Questa infatti si era trasferita a Napoli dopo l'uccisione del facoltosissimo padre Paolo, nell'ambito di una torbida vicenda che vide infine coinvolta la madre di lei, Maria Fortunato, quale mandante, assieme al prete Mariano, dato che i due erano in tresca. Diviso il patrimonio tra le due figlie Giuseppina e Paolina Chiriatti, e la madre stessa, vennero iniziati i lavori di costruzione del palazzo Chiriatti-Gaetani. A Palazzo Chiriatti-Gaetani la famiglia venne a dimorare mentre man mano la gestione delle fortune familiari passava in capo a Gaetani, che si impegna in un'ardua opera di bonifica e di razionalizzazione colturale, culminata con l'acquisto di diversi macchinari ad alta tecnologia. E però proprio il malfunzionamento dell'attrezzatura finalizzata all'estrazione dell'acqua dai pozzi, bene capitale nelle aride campagne della zona, a determinare l'infiacchimento del capitale di famiglia e il progressivo indebitamento verso il Banco di Napoli, che culmina con la fine del fascismo.  Frattanto  Gaetani, che si fregiava del titolo di duca, a seguito del matrimonio con la duchessa d'Ascoli, Leopoldina, si dedica alla filosofia, mentre, del resto, ebbe a ricoprire la carica di Provveditore a Potenza. La sua filosofia e ispirata dalla Francia, della che fu un grande amatore, nonostante il fascismo e nonostante la sua adesione al regime, che ad un certo punto ne impedì la circolazione in Italia. Crociano, segue lo schema tracciato dal maestro, mentre l'ultimo ricordo della natia Martano fu un canto dedicato alle tradizioni grike, di cui raccomandava appassionatamente la conservazione e il culto.  Nei giorni furenti che precedettero il Referendum istituzionale appoggiò in pubblici comizi la Monarchia, e per questo pagò dazio dovendosi allontanare all'indomani del voto e rifugiarsi in Napoli, tutto teso negli studi letterari.  Altre saggi: Villon (Napoli); “Un carteggio inedito di F. Bozzelli (S. Gaetani, F.B ozzelli), L'Aquila, Masseria, Martano (Lecce); “Un bilancio letterario” (Roma); “Per onorare un maestro: il Torraca, Napoli); “Catullo” (Roma); L'Ottocento” (Napoli); “La bancarotta del rosso: commedia in tre atti, Lecce); “Per la venuta del Duce” (Lecce); “Bernardo Bellincioni, Galatina (Lecce); “Il benedettino-cistercense d. Mauro cassoni nel Tempio, nella scuola, negli studi: ), Lecce, “Ricordi di Benedetto Croce, Napoli); Vicende tipi e figure del Casino dell'Unione, Napoli); Napoli ieri e oggi: passeggiate e ricordi, Milano-Napoli); Apud Neapolim..., Napoli); Fonti storiche e letterarie intorno ai martiri di Otranto, Napoli.  "Catullo" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Catullo (disambigua).  Sirmione, busto di Catullo Gaio Valerio Catullo (in latino: Gaius Valerius Catullus, pronuncia classica o restituta: [ˈɡaːɪʊs waˈlɛrɪʊs kaˈtʊllʊs]; Verona, 84 a.C. – Roma, 54 a.C.) è stato un poeta romano. Il poeta è noto per l'intensità delle passioni amorose espresse, per la prima volta nella letteratura latina, nel suo Catulli Veronensis Liber, in cui l'amore ha una parte preponderante, sia nei componimenti più leggeri che negli epilli ispirati alla poesia di Callimaco e degli Alessandrini in generale.   Indice 1Biografia 1.1Origini familiari 1.2Trasferimento a Roma, vita sociale e letteraria 2Opera 3Il mondo poetico e concettuale di Catullo 4Note 5Bibliografia 5.1Rassegnebibliografiche 5.2Traduzioni italiane 5.3Commenti 5.4Studi 6Altri progetti 7Collegamenti esterni Biografia  Il busto di Catullo presso la Protomoteca della Biblioteca civica di Verona. Origini familiari  Catullo da Lesbia, dipinto di Lawrence Alma-Tadema (1865). Gaio Valerio Catullo proveniva da un'agiata famiglia latina che aveva contribuito a fondare la città di Verona, nella Gallia Cisalpina; il padre avrebbe ospitato Q. Metello Celere e Giulio Cesare in casa propria al tempo del loro proconsolato in Gallia[1]. Per quanto concerne gli estremi cronologici della sua biografia, San Girolamo[2] pone l'87 a.C. e il 57 a.C. rispettivamente come data di nascita e di morte e specifica che appunto egli morì alla giovane età di trent'anni. Tuttavia, poiché nei suoi carmi accenna ad avvenimenti che riportano all'anno 55 a.C. (come l'elezione a console di Pompeo[3] e l'invasione della Britannia da parte di Cesare[4]), si è maggiormente propensi a ritenere che egli sia nato nell'84 e morto nel 54 a.C., dato per certo il fatto che sia morto a trent'anni.  Trasferimento a Roma, vita sociale e letteraria Trasferitosi nella capitale, si suppone intorno al 61-60 a.C., cominciò a frequentare ambienti politici, intellettuali e mondani, conoscendo personaggi influenti dell'epoca, come Quinto Ortensio Ortalo, Gaio Memmio, Cornelio Nepote e Asinio Pollione, oltre ad avere rapporti, non molto lusinghieri, con Cesare e Cicerone; con una ristretta cerchia d'amici letterati, quali Licinio Calvo ed Elvio Cinna fondò un circolo privato e solidale per stile di vita e tendenze letterarie. Durante il suo soggiorno prolungato a Roma ebbe una relazione travagliata con la sorella del tribuno Clodio, tale Clodia.[5]. Clodia viene cantata nei carmi con lo pseudonimo letterario "Lesbia", in onore della poetessa greca Saffo, molto cara a Catullo e proveniente dall'isola di Lesbo. Lesbia, che aveva una decina d'anni più di Catullo, viene descritta dal suo amante non solo graziosa, ma anche colta, intelligente e spregiudicata. La loro relazione, comunque, alternava periodi di litigi e di riappacificazioni ed è noto che l'ultimo carme che Catullo scrisse all'amata fu del 55 o 54 a.C., proprio perché in essa viene citata la spedizione di Cesare in Britannia. Da alcuni suoi carmi emerge, inoltre, che il poeta ebbe anche un'altra relazione, omosessuale, con un giovinetto romano di nome Giovenzio. Catullo si allontanò, comunque, varie volte da Roma per trascorrere del tempo nella villa paterna a Sirmione, sul lago di Garda, luogo da lui particolarmente apprezzato e celebrato per il suo fascino ameno, situato nella sua terra di origine e che per questo induceva al poeta distesi periodi di riposo. Nel 57-56 a.C.seguì Gaio Memmio in Bitinia: in quella circostanza andò a rendere omaggio alla tomba del fratello situata nella Troade. Quel viaggio non recò alcun beneficio al poeta, che ritornò senza guadagni economici, come sperava al momento della partenza, né la lontananza riuscì a fargli riacquistare la serenità perduta a causa dell'incostanza e dell'indifferenza di Lesbia nei suoi confronti. Fu tuttavia una nota positiva la visita alla lapide del fratello, in occasione della quale scrisse il Carme 101 (a cui si ispirò in seguito anche Ugo Foscolo per la poesia In morte del fratello Giovanni). Catullo non partecipò mai attivamente alla vita politica, anzi voleva fare della sua poesia un lusus fra amici, una poesia leggera e lontana dagli ideali politici tanto osannati dai letterati del tempo[6]. Disprezzava infatti la politica di allora, dominata da politici corrotti che servivano soltanto il proprio interesse: riteneva dunque che favorire l'uno o l'altro non significasse niente di meno che aiutare l'uno o l'altro a perseguire il suo vantaggio personale. Tuttavia, seguì la formazione del primo triumvirato, i casi violenti della guerra condotta da Cesare in Gallia e Britannia, i tumulti fomentati da Clodio, comandante dei populares, fratello della sua celebre amante Lesbia e acerrimo nemico di Marco Tullio Cicerone, che verrà da lui spedito in esilio nel 58 a.C. ma poi richiamato, i patti di Lucca e il secondo consolato di Pompeo. Una nota da sottolineare è il Carme 52 dove, per usare le parole di Alfonso Traina, "il disprezzo della vita politica si fa disprezzo per la vita stessa":  (LA) «Quid est, Catulle? quid moraris emori? sella in curuli struma Nonius sedet, per consulatum peierat Vatinius: quid est, Catulle? quid moraris emori?»  (IT) «Che c'è, Catullo? Che aspetti a morire? Sulla sedia curule siede Nonio lo scrofoloso, per il consolato spergiura Vatinio: che c'è, Catullo? Che aspetti a morire?»  (Carme 52) Opera Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura latina (78-31 a.C.).  Marco Antonio Mureto, Catullus et in eum commentarius, Venetiis, apud Paulum Manutium, 1554. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Liber (Catullo). Il liber di Catullo non fu ordinato dal poeta stesso, che non aveva concepito l'opera come un corpo unico, anche se un editore successivo (forse lo stesso Cornelio Nepote a cui è stata dedicata la prima parte dell'opera) ha diviso il liber catulliano in tre parti secondo un criterio di tipo metrico: i carmi da 1 a 60, sotto il nome di "nugae" (letteralmente "sciocchezze"), brevi carmi polimetri, per lo più faleci e trimetri giambici; i carmi da 61 a 68, i cosiddetti "carmina docta" d'impronta alessandrina e per lo più in esametri e distici elegiaci; i carmi dal 69 al 116 sono gli epigrammi ("epigrammata"), in distici elegiaci.  Il mondo poetico e concettuale di Catullo  Il poeta Catullo legge uno dei suoi scritti agli amici, da un dipinto di Stefan Bakałowicz. Catullo è per noi uno dei più noti rappresentanti della scuola dei neòteroi, poetae novi, (cioè "poeti nuovi"), che facevano riferimento ai canoni dell'estetica alessandrina e in particolare al poeta greco Callimaco, creatore di un nuovo stile poetico che si distacca dalla poesia epica di tradizione omerica divenuta a suo parere stancante, ripetitiva e dipendente quasi unicamente dalla quantità (in riferimento all'abbondanza dei versi di quest'ultima) piuttosto che dalla qualità. Sia Callimaco che Catullo, infatti, non descrivono le gesta degli antichi eroi o degli dei[7], ma si concentrano su episodi semplici e quotidiani. Per giunta, i neòteroi si dedicano all'otium letterario piuttosto che alla politica per rendere liete le loro giornate, coltivando il loro amore solo ed esclusivamente alla composizione di versi, tanto che Catullo dichiara nel carme 51: «Otium, Catulle, tibi molestum est:/otio exsultas nimiumque gestis» «L'ozio per te, Catullo, non è buono;/ nell'ozio smani e ti scalmani» (traduzione a cura di Nicola Gardini). Talvolta il poeta ostenta il suo disinteresse per i grandi uomini che lo circondavano e che stavano scrivendo la storia: «nihil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere» «non m'interessa, Cesare, di andarti a genio» (carme 93), scrive al futuro conquistatore della Gallia. Da questa matrice callimachea proviene anche il gusto per la poesia breve, erudita e mirante stilisticamente alla perfezione. Si sviluppano, originari dell'alessandrinismo e nati da poeti greci come Callimaco[8], Teocrito, Asclepiade, Fileta di Cos e Arato, generi quali l'epillio, l'elegia erotico-mitologica e l'epigramma, che più sono apprezzati e ricalcati dai poeti latini.  Catullo stesso definì il suo libro expolitum (cioè "levigato") a riprova del fatto che i suoi versi sono particolarmente elaborati e curati, le poesie raffinate e curate. Una delle caratteristiche peculiari della sua poetica è, infatti, la ricercatezza formale, il labor limæ, con cui il poeta cura e rifinisce i suoi componimenti. Inoltre, al contrario della poesia epica, l'opera catulliana intende evocare sentimenti ed emozioni profonde nel lettore, anche attraverso la pratica del vertere, rielaborando pezzi poetici di particolare rilevanza formale o intensità emozionale e tematica, in particolare come nel carmen 51, una emulazione del fr. 31 di Saffo, come anche i carmina 61 e 62, ispirati agli epitalami saffici. Il carme 66, preceduto da una dedica ad Ortensio Ortalo, è una traduzione della Chioma di Berenice di Callimaco, che viene ripreso per mostrare l'adesione ad una raffinata elaborazione stilistica, una dottrina mitologica, geografica, linguistica ed infine la brevitas dei componimenti, con la convinzione che solo un carme di breve durata può essere un'opera raffinata e preziosa.  Note ^ Svetonio, Vita di Cesare, 73. ^ Chonicon, ad annum. ^ Carme 113, 2. ^ Carmi 11, 12; 29, 4; 45, 22. ^ Secondo un'indicazione di Apuleio nell'Apologia, 10, la donna a cui si riferisce Catullo rimase vedova nel 59 a.C. di Quinto Metello Celere, sicché si può pensare a Clodia. ^ Al riguardo si veda il carme 93: «Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere / nec scire utrum sis albus an ater homo» - «Non mi interessa affatto piacerti, Cesare, né sapere se tu sia bianco o nero». ^ Eccezion fatta, forse, per i carmina 63 e 64. ^ Morelli Alfredo Mario, Il callimachismo del carme 4 di Catullo, Cesena: Stilgraf, Paideia: rivista di filologia, ermeneutica e critica letteraria: LXX, 2015. Bibliografia Rassegne bibliografiche J. Granarolo, Catulle 1948-1973, in Lustrum, vol. 17, 1973-1974, pp. 27-70. J. Granarolo, Catulle 1960-1985, in Lustrum, vol. 28-29, 1986-1987, pp. 65-106. H. Harrauer, A Bibliography to Catullus, Hildesheim, 1979. J.P. Holoka, Gaiu Valerius Catullus. A Systematic Bibliography, New York-Londra, 1985. Traduzioni italiane Mario Rapisardi, Napoli, 1889. E. Stampini, Torino, 1921. U. Fleres, Milano, 1927. C. Saggio, Milano, 1928. Guido Mazzoni, Bologna, 1939. Salvatore Quasimodo, Milano, 1942. V. Errante, Milano, 1943. E. D'Arbela, Milano, 1946. Enzio Cetrangolo, Milano, 1950. Vincenzo Ciaffi, Torino, 1951. Giovanni Battista Pighi, Verona, 1961. E. Mazza, Parma, 1962. Guido Ceronetti, Torino, 1969. Mario Ramous, Milano, 1975. T. Rizzo, Roma, 1977. Francesco Della Corte, Milano, 1977. Enzo Mandruzzato, Milano, 1982. F. Caviglia, Roma-Bari, 1983. Giovanni Wesley D'Amico, Palermo, 1993. Gioachino Chiarini, Milano, 1996 Guido Paduano, Torino, 1997. Luca Canali, Firenze, 2007. Alessandro Natucci, Roma, 2008, 2020 anche in formato Kindle Alessandro Fo, Torino, 2018. Commenti R. Ellis, Oxford 1876. A. Riese, Lipsia 1884. E. Baehrens, Lipsia 1885. G. Friedrich, Lipsia-Berlino 1908. W. Kroll, Lipsia 1923. Massimo Lenchantin de Gubernatis, Torino 1928. G. Fordyce, Oxford 1961. G.B. Pighi, Verona 1961. K. Quinn, Londra 1970. F. Della Corte, Milano 1977. F. Caviglia, Bari 1983. E. Merrill, Boston 1983. H.-P. Syndikus, Darmstadt 1984-1990. Studi Paolo Fedeli, Introduzione a Catullo, Roma-Bari, Laterza, 1990. J. Ferguson, Catullus, Oxford, 1988. E.A. Schimdt, Catull, Hidelberg, 1985. F. Della Corte, Due studi catulliani, Genova, 1951. C.L. Neduling, A Prosopography to Catullus, Oxford, 1955. D. Braga, Catullo e i poeti greci, Messina-Firenze, 1950. O. Hezel, Catull und das griechische Epigramm, Stuttgart, 1932. J.K. Newman, Roman Catullus and the Modification of the Alexandrian Sensibility, Hildesheim, 1990. A.L. Wheeler, Catullus and the Tradition of Ancient Poetry, Londra-Berkeley, 1934. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Catullus hellenistische Gedichte. in Hellenistische Dichtung in der Zeit des Kallimachos, II, Berlino 1924. Mario Rapisardi, Catullo e Lesbia. Studi, Firenze, Succ. Lemonnier, 1875. Enzo Marmorale, L'ultimo Catullo. Napoli, 1952 Giancarlo Pontiggia, Maria Cristina Grandi, Letteratura latina. Storia e testi. Vol. 2, Milano, Principato, marzo 1996, ISBN 978-88-416-2188-2. (EL) N. Kaggelaris, Wedding Cry: Sappho (Fr. 109 LP, Fr. 104a LP)- Catullus (c. 62, 20-5)- modern Greek folk songs, in E. Avdikos e B. Koziou-Kolofotia (a cura di), Modern Greek folk songs and history, pp. 260-270. Catullo, Gaio Valerio, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Massimo Lenchantin De Gubernatis, CATULLO, Gaio Valerio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. 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Modifica su Wikidata Il Liber di Catullo tradotto in italiano, su spazioinwind.libero.it. Il Liber di Catullo con concordanze e liste di frequenza, su intratext.com. Le grotte di Catullo, su smugmug.com. URL consultato il 1º maggio 2019 (archiviato dall'url originale il 9 luglio 2009). Scansione metrica del Liber di Catullo, su rudy.negenborn.net. La Chioma di Berenice: traduzione di Alessandro Natucci, su digilander.libero.it. Il carme 64: traduzione di Alessandro Natucci (PDF), su classiciscriptores.weebly.com. Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Letteratura Categorie: Poeti romaniRomani del I secolo a.C.Nati nell'84 a.C.Morti nel 54 a.C.Nati a VeronaMorti a RomaGaio Valerio CatulloEpigrammistiValeriiPoeti italiani trattanti tematiche LGBTSalvatore Gaetani. Gaetani. Keywords: APVD NEAPOLIM, l’implicatura di croce. Croce, Catullo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gaetani” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice e Gagliardi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Marino). Filosofo italiano. Grice: “I like Gagliardi; I spent some time with medics at Richmond, talking Greek! Anyhow, Gagliardi shows why the Angles prefer physician – since ‘medicare’ is such a trick!” – Grice: “Philosophically interesting bit is that Gagliardi applies ‘medico’ and qualifies it with ‘morale’!” –Nacque a Marino, feudo dei Colonna, nell'area dei Colli Albani, come riferisce lMoroni nel suo Dizionario di erudizione, e come riferito dallo stesso Gagliardi nel in "L'idea del vero medico fisico e morale formato secondo li documenti ed operazioni di Ippocrate" (Roma). In effetti, il cognome Gagliardi esiste all'epoca a Marino ed è tuttora tramandato. Fu impegnato in ricerche morfologiche, microscopiche ed anatomo-patologiche a proposito delle ossa, compiendo importanti scoperte in questo campo: in “Anatomia delle ossa illustrata con le nuove scoperte", Roma) descrisse per primo la struttura lamellare delle ossa. Inoltre effettua alcuni esami e ricerche comparative tra le ossa umane e quelle del vitello. Descrisse probabilmente per primo un caso di tubercolosi ossea. La sua opera fu piuttosto lodata, e l' “Anatomia” fu ristampato. Fece importanti studi sul "mal di petto". Filosofa sull'educazione morale. Diede anche ammonimenti contro i guaritori ciarlatani e fornì alcuni suggerimenti deontologici.  Abitava nel rione Sant'Angelo, presso via delle Botteghe Oscure. In questa strada un suo servo fu ucciso misteriosamente nottetempo. Durante le villeggiature dei papi presso la Villa Pontificia di Castel Gandolfo Gagliardi ha il privilegio di offrire la frutta al papa. Alessandro VIII gli conferì un titolo nobiliare, ma non sappiamo quale.  I suoi lavori, conservati nelle maggiori biblioteche di Roma, rivestono un particolare interesse se anche duecento anni dopo la loro scrittura, il vice-direttore dell'Ospedale San Martino di Genova, Arata, diede alle stampe una lettera inedita del Gagliardi sull'itterizia. Si ha svolto un proficuo lavoro di ricerca su Gagliardi, scoprendo anche una firma del medico in margine ad un saggio discusso all'Università La Sapienza.  Altre opere: “L'infermo istruito nelle scuole” (Roma); “Consigli preventivi e curativi in tempo di contagio dati in forma di dialogo” (Roma); “Relazione de' Mali di Petto che corrono presentemente nell'Archiospedale di Santo Spirito in Sassia” (Roma); “L'educazione morale” (Roma). “Come sopra l'influenza catarrale che presentemente regna in Roma e Stato ecclesiastico” (Roma). Note: Si veda l'annotazione di “Due baiocchi” in "Castelli Romani", Bossi, Dell'Istoria d'Italia antica, Enciclopedia TreccaniGagliardi, Domenico, Luciano Sterpellone, I protagonisti della medicina, Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana,  Lucarelli, Domenico Gagliardi,  Giornale de' letterati d'Italia, Guillermo Olagüe de Ros, La "Relazione de' Male di Petto" en el ambiente anatomo-clínico romano, in Dynamis: Acta hispanica ad medicinae scientiarumque historiam illustrandam, Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Venezia, Tipografia Emiliani, Antonia Lucarelli, Memorie marinesi, 1ª ed., Marino, Biblioteca di interesse locale "Girolamo Torquati", Ordinamento universitario dello Stato Pontificio Tubercolosi ossea  Domenico Gagliardi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  1  te cose senza profondarvi in alcuna di efse, ed allora appunto diverrete più capaci di fare maggiori progressi, e tanto più se vi servirete per regolatore delle vostrej operazioni di quel saggio avvertimento feftina lente:  Esplorerò dunque con private conferenze l'animo di ciascun di voi separatamente, per meglio accercarmi di ciò,che vi farà bisogno , non potendo il Medico dare ajuto al suo Infermo s se prima non avrà ben conosciute le cagioni del suo male, e spero in oggi; e domani di potere ricavare da voi ciò, che sarà più necessario, ch'Io sappia, per meglio indirizzarvi. Ritiriamoci ora à fare il privato esame, per potere Lunedì prossimo dar principio alle nostre Giornate.  [ocr errors][merged small] [merged small][merged small][ocr errors][merged small] M  Nella quale si moftra cofa fi ricerchi d'eljena       ziale per efere Medico je ciò, che     gli rechi ornamento .  Avveddi jeri dal vostro parlare;   che non siete tutti voi di genio   uniformi,perche conobbi bene,   che tal'uno di voi non restava persuaso, & altri più ; ò meno, s’appagavano delle mie ragioni, e riflettendo, che ciò possa nascere dalla diversità delle vostre menti più o meno sublimi, & animofe. Quindi è, che prima d'inoltrarmi nel presente ragionamento, stimo necessario di premettere una breve partizione delli vostri ingegni, à fine di regolare ciascuno di voi secondo la propria capacità : Ecer  tamente , conforme nell'esterno non vi assomigliate trà voi, così ancora nell'interno sarete differenti, cioè, che non avrà ciascuno di voi la medesima capacità, & apertura di mérite ; il medesimo talento, ē spirito, la medesima memoria , e ritentiva , & il medesimo giudizio, o perspicacia d'ingegno; onde, ciò suppofto, io non potrò con la medesima misurd, e regola mostrare à tutti voi ciò, che vi converrà d'essenziale, è d'ornamento per potere diventare veri Medici. Dunque mi converrà necessariamente dividere left fenziale dall'ornamento, perche l'effenziale dovrà competere egualmente à voi, che fiete di mente più sublimi, che agli altri d'inferiore capacità : L'ornameiro poi, perche non potrà competere egualinente , nè potrà essere in tutti voi uniforme, bisognerà regolarlo fecondo la  propria capacità, e genio di ciascuir di vois con pensare al modo, che poffino l'ingegni inferiori uguagliare per altra via ancora nell'ornamento li più subliini ; E ciò servirà primieramente per dare un'ottima  direzzione alle menti di maggior capaci. tà, in farli conoscere ciò, che si debba di elli premettere d'essenziale , per poscia potersi avanzare in quello di più, di cui saranno capaci. In secondo luogoperche non si confondano, & avviliscano le menti meno sublimi, anzi per istruirle , & ani. marle insieme à fupplire con l'Arte al di, fetto di Natura,  Certo, che ognuno di voi deve avere il medesimo fine, cioè di divenire Medico; Onde dovrà unitamente con gl'altri incaminarsi per la medesima strada, e fino à tanto, ch'abbia conseguico il suo in, tento ; Mà perche chi si trova in forze maggiori trà voi è portato facilmente dal suo spirito ad uscire dalla careggiata, quindi è, che bisognerà idearsi un caso, che dia un buon regolamento à tutti unitamente, che sarà il seguente :  Vi fia trà voi chi posseda in contanti due, chi trè , e chi quattro talenti , e che voglia ciascuno per uso proprio fabricarsi una casa compita, che abbiad d'avere il medesimno uso, e la medefima  fruto  struttura, certo è, che li fondamenti converrà, che li facciate uniformi, il sopra terra dovrà alzarsi eguale, le stanze doyranno essere di numero, e capacità consimili, altrimenti non avrà la medesima struttura. In idearsi queste case non potrà l'Architetto eccedere la spesa di due talenti, altrimenti non potria senza indebitarsi compire la sua fabrica ,chi di voi hå che due foli talenti; Si dolerà facilmente con l'Architetto chi ne hà d'avantaggio, perche non gl'abbia delineato fabrica più sontuosa , à cui facilmente egli risponderà, è meglio, che litalenti vi avanzinoy che manchino, perche li potrete impiegare in ornato, e così la vostra farà più bella comparsa ; Sentendo questo voi, che avete soli due talenti vi dolerete ancora coll'Architetto, che non vi rimarrà cosa da spendere per ornarla , e perciò la voftra fabrica non potrà comparire bella al pari delle altre, vi risponderà il medesimo, abbiate pazienza , che vi darò il modo per far comparire vaga la vostra ancora al pari delle altre : Mă se per vostradisgrazia spenderete li vostri talenti senza le buone regole dell'Architettura, é voglia ognuno di voi farsi una casa à suo genio . Vois che avete quattro talenti vorrete fare il doppio degli altri, vi profonderete più del bisogno ne' fondamentis farece muri più larghi; l'alzerete più dell' altri; con tutti li vostri quattro talenti Atenterete à copritla ; con che denari poi la stabilirete? A che servirii la magnifiċenza della vostra casa , non potendola in tutto compire per renderla usuale?  Tanto peggio seguirà in voi, che possedete meno, se nella vostra fabrica spetdeste più di quello; che dovete je po tete; correreste pericolo di non poterla ricoprire, onde vi rimarria affatto infruto tuosa,  Altro inconveniente ancora potrid fascere si nell'uno, come nell'altro caso, che saria di risparmiare ne' fondamenti qualche porzione de’talenti per impiegarla nell'ornáto, iii questo modo le vostre cafe fariano sempre in pericolo di rovina. $e , con tutta la sua bella apparenzas fatta  [ocr errors] ad imitazione di quei Mercadanti, che ciò che hanno tengono in mostra , e questi sono quelli, che ben spesso si veggono fallire.  Questa fabrica , ch'ora vi hò ideato è appunto la Medicina Pratica, la quale fi deve da tutti voi apprendere , e nella medema conformità, affinche ne ricaviate un metodo di medicare uniforme, facile , e sicuro , e se in apprenderla voi, che siete dotati d'ingegno più subliine degl'altri, vorrete stendervi più in oltre delli vostri Compagni, vi confonderete con facilità con tutto il vostro bel talento, perche fzcilmente il vostro spirito grande vi farà divagare in quelle cose, che apprese in altritempi , che resivi più capaci, meglio lo capirete, & adatterete al vostro bisogno. Șia per esempio, se in questo tempo, che attendete alla pratica , vi venisse fantasia di leggere, & imparare molti, e diversi liftemi, e li varj metodi di medicare, che Lono nella Medicina , questo vi reccherà confufione, contenendo tanta diversità di pensieri,d'ideese di modi con tutto che la  7  verità delle cose sia una sola , onde con Fagione riferisce Lacuna, (a) ch'esclamava à suoi tempi Galeno : Judicij veri difficultatem liquidò oftendunt tot , tàmque variæ hærefes, quòt in Arte Medicâ reper riuntur; E tanto maggiorinente, che  quefti distogliendovi da quel bell'ordine, che voi avevate preso in offervare l'andamenti de? mali con li vostri propri occhi, vi faranno acquistare una pratica fimile alla vostra ideata fabrica, che non farà côpita, & in conseguenza non ne potrete cavare quel profitto,che ne riporteranno li voftri Compagni , li quali à cagione della  maggiore attenzione, che hanno in apprendere quella sola,non divertendosi in altro, se ne approfitteranno bene, e la loro  pratica sarà compita , e potrà avere il suo uso, giacchè al parere di Cicerone : (6) Affiduus ufus, uni rei deditus, die Ina genium ; & Artem fæpè vincit ; Sicchè in questa parte eforto tutti voi à non applia care ad altro , allora che prendete lame  pra(a) Comment 1. Aphorism. 1. ex Lecuno in Epit, (6) Cicero pro Cornel. Balb.  1  [ocr errors] pratica, che à quell'esercizio, che fate, eccettuatone alcuni tempi destinati per Ja Notomia, e per la Boštanica,  Perfezionati, che farete in detta, pratica , & appreso, che avrete un metodo facile, e più sicuro di medịcare, allora converrà di ornarla di altre cose , che abbiano correlazione con la Medicina , secondo il proprio genio , e capacità, con fermo proponimento però , che non vị abbiano da distogliere dallo studio di er fa , nè da confondere ciò, che auete con li propri occhi offeryato più volte, eţurto ciò, che avețe appreso per ornamento non l'avrete da profeflare come negozio principale, altrimenti vi distoglierà da quello , che avevate già acquistato dị buono nella - Medicina, ma sopra di cio più diffusamente ne tratteremo in ap: presto  Questą praticą, appunto acquistatą, mediante le reiterate esperienze, e diligenti osservazioni fatte intorno li Malati è quello , che fi ricerca d'essenziale nel Medico , & oltre di questa ogn'altra cosa, che s’acquisterà di più gli servirà d'ornamento maggiore : Che sia così,per consolazione di yoi, che siete d'ingegni meno sublimi, yeniamo alle prove.  La prima sarà con l'autorità d'Ippocrate chiara , e testuale ; Dice dunque , egli:(a) Ars fane medica jām mihi tota inventa ese videtur, quæ fic comparata eft, ut fingulas, da consuetudines , temporum occasiones doceat. Qui enim hoc pactó Artis Medicæ cognitionem habet , is minimum ex, fortuna pendet , fed & citrà fortunam, çum fortunâ rectè eam adminiftrabit ; Firma enim eft Ars tota Medica , cjusque prçceptiones , ex quibus conftat dr.  Consistendo dunque tutta la Medicina in sapersi ciò, che sia solito à farsi, e le congiunture de' tempi, nelle quali fi deve operare, queste chi meglio di voi le potrà sapere, avendole con li yostri propri occhi più volte osservate? e bastando ciò per bene medicare, secondo la dottrina d'Ippocrate, sarete dunque , mediante la vostra buona pratica, allora già divenuti  Me(a) Hippocr. in lib. de loc. in bom.nesa  Medici; E fe poi desiderate sentire sopra ciò più chiaro parere d'Ippocrate , legge. xe De decenti ornatu, dove così vi parla ; Sint cu in memoria tibi morborum curatio.  da harum modi, quo multipliciter, quomodò in fingulis fe habent; bọc enim principium eft in Medicina , medium, & finis = che sono appunto questi il costitutivo del. l'essenziale:  Sia all'oppofto tal'uno ornato di tut, te le scienze, nià che non abbia acquistato ancora in Medicina una buona pratica , questi non si potrà dire con tutte le sue scienze Medico pratico, perche non saprà ben mcdicare, e gl'accaderà per l'appunto, ciò, che succederia ad un'insigne Geo. grafo se volesse viaggiare senza la guida , queiti nelli bivj, ò trivj sbaglierebbe la strada , per non averne la buona pratica , e con tutto , che possedeffe la situazione di tutto il mondo, in un piccolo tratto di paese si smarrirebbe; Mà tutto questo con Pesempj più chiari ve lo farò costare,  Tralasciando di riferirvi un lungo Catalogo de' Medici , che hanno scritto in  fola  sola Medicina pratica, e che fiorirno con gran lode, mentre vissero, senza effere ornaci d'altre scienze, perche lo potre te, volendo, con li vostri proprj occhi rincontrare , leggendo i loro libri ; Vi riferirò solamente alcuni casi accaduti à Medici, ch'avevano appreffo di noi molta ftima', per essere versatiliminella buona pratica di medicare, e si poteuano annoverare trà quelli, di cui parla, Ippocrate nel libro De Arte : Viri hujus Aricis periti , re ipfi lubentiùs, quàm vero bis demonftrant ; li quali vennero al cimento con Medici di maggior grido di loro nelle altre scienze, e ciò , che ne seguì .  Gio: Giacomo Baldini ne fù uno di questi , il quale efsendo folamente un buon Pratico, e dotato d'isperimentată prudenza , era per li fuoi pingui guadagni molto invidiato da alcuni di quelli, che li riconoscevano in molte scienze superiori di gran lunga à lui, s'abbattè egli una volta in un consulto con due Medici delli più celebri nella facondia,  1  B  с рiй  e più versati in molte altre scienze,e per tal cagione poco conto facevano di lui; Ora questi avevano già premeditati li loro discorsi molto eruditi, à fine, che meglio comparisse à tutta una nobile Udienza , che vi dovea intervenire, la poca sufficienza, & infelice modo di di(correre del Baldini, furono sì lunghi li sudetti eruditiffimi ragionamenti, e s'ina oltrarono tanto in cose fuori del propofito, che in vece di dilettare annojarono tutta l'Udienza, & avvedutofi di ciò il buon Pratico, in vece di gareggiare con loro nell'eloquenza , fece un breve di. scorso, mà tutto indirizzato all'urgente bisogno, conobbe meglio degl'altri il male, lo confermò con l'autorità puntuale d'Ippocrate, fece il suo pronostico mortale, che si verificò in breve, venne alla cura , propose alcuni rimedj, e terminò il consulto con applauso uniuersale di tutta quella nobile Udienza , diccndo  : : mo, che ha discorso à proposito, e se ne partì tutto contento, e consolato.  Gio  [ocr errors][merged small] 1  1  Giovanni Tiracorda già in questo Archiospedale degnissimo Decano, che nella pratica Medica aveva quei bei lumi, che felicirano le cure ardue , si abbattè in un consulto con un Medico catedratico eruditissimo nelle lingue , c Greca in ispecie, nelle Matematiche, ed ancora nella Teologia ; L'Infermo era Oltramontano y poco prima giunto in Roma , che li ainmalaffe, ed in tempo di aria sospetta, il' di cui male fù creduto dal sudetto eruditiffimo Professore eflere una febbre etica , e con tali, erante ragioni s'ingegnava di provarlo in ispezie per il pollo basso che aveá, che fariano per certo bastate à formarne liga gran ležzione in cattedra. In tanto il buon Pratico Tiracorda penaya in fentire ciò, che conosceva non potersi in modo alcuno verificare, e dovendo egli concludere , con breve discorso fece capire essere il male del povero foratieri) una febbre maligna,e di pelimo costume, che se presto,e validamente non era foc corso farebbe morto, disse ciò, che con  veniva  B2  [ocr errors] veniva farsi con sollecitudine, e l'esito  funesto, in breve seguito , ne fù il Giu-  dice, chi di loro avesse meglio conosciu-  to il male, Riferirò   per terzo ciò, che seguì ad Antonio Piacenti mio Maestro, la di cui perizia nel ben medicare è nota , per via vere ancora molti, che furono da effo ne’loro gravi mali bene assistiti, onde per essere io interessato , non m'inoltrcrò di vantaggio in lodarlo, e lascierò, che facciano altri quella giustizia , che le sue gloriose ceneri meritano. Questi ebbe occasione più volte di trovarsi alsieme co' Professori di molto grido, per le varie scienze, che possedevano, e vedevo, che il suo configlio, ò era feguitato, ò volendosi fare diversamente  per lo più si sbagliava; Accadde una volta nella cura di un'Infermo, che pativa di un male graue di testa, creduto da esso procedere da pienezza d'umori viziofi, che nel basso ventre dimoravano, c per ciò gl’aveva proposto il dejettorio, che à ciò si oppose chi era versato più di luiin altre scienze fuori della pratica medicinale, con il motivo, che l'evacuazione glavria inolto pregiudicato. Stette egli faldo nella proposta già fatta, quale fù esaminata da altri Profeffori, e conclusa: ed eseguita che fù, l'efito moftrò d'onde procedeva il male, e chi l'aveva meglio accertato, posciache mediante l'evacuazione ne rimnase libero.  Due gran motivi si poffono dedurre dalli riferiti casi, uno di confolazione per voi, che non avete genio ; ò abilità all'acquisto di altre scienze, vedendo, che nella vostra sfera pratica; abilitati che sarete , potrete ftare à fronte con quelli di più letteratura di voi, purche abbiate prudenza , e giudizio in sapervi ben regolare; e l'altro servirà d'avvertimento à voi d'ingegno più perspicaces che desiderate apprendere tutto lo scibile, à non fidarvi folamente sù quello, ch'è ornamento Medico, dovendo ancor voi poffedere Fondatamente, al pari degl'altri, quella buona pratica Medica, ch'è la direttrice del ben curare, senza  [merged small][ocr errors] la quale sono inutili tutti gl'altri ornamenti: Consolatevi però ancor voi, che bramate d'apprenderli : perche quando saranno uniti alla buona pratica, vi ferviranno ancor'elli di scorta, e vi faranno divenire eccellenti Medici, & in prova di ciò non vi mancano esempj di cafile, guiti, che fanno conoscere quanto accrescano di chiarezza alle nostre menti le Filosofie sperimentali, la Ģeometria, l'Aftronomia, & altre scienze, che porfono avere correlazione con la Medici. na, mà per ora potrà bastarvi l'oracolo d'Ippocrate allora, che scrivendo à Tel, Lalo gli notificò: Geometria mentem acuit, e longè Splendidiorem reddit ; e nel libro de Aere, Aquis, & locis ; Ad Artem Medicam Astronomiam ipfam non minimum, fed plurimum poteft conferre ; Ben'è vero, che rari fono quelli, a'quali datum eft adire Corintum , perche tutte queste cose averle , poffederle, e maneggiarle à quel segno, che conviene, cnon più oltre non a ricerca minor prudenza di quella, che aveva il Re Mitridate iu reggere un  Coco  [ocr errors] Cocchio tirato da bravi , e numerosi de strieri, altrimenti andandosene tutte in pampani , e fiori, che non legano, produrranno pochissimo frutto, quantuns que fosse vaghiflima la loro prima ap. parenza.  Sicché parmi d'avervi à bastanza mostrato , che l'essenziale del Medico non consiste in altro, che nella buona, e soda pratica acquistata mediante le re. iterate osservazioni di ciò, che fiegua nelli progrefli de’mali, e quanto fiac. quisterà di più fia tutto ornamento.  E da questo si possono comprende reli gran vantaggi, che necessariamente nel ben medicare, non solamente li Gio. uani Praticanti, & Aliftenti ne riportano dalle continue offeruazioni , che fi fanno negli Spedali ove sono numerosi gl'Infermi, mà ancora gli Profeffori primarj, che ivi esercitano, potendo questi, mediante le reicerace osservazioni, che si fanno in lunga serie di anni, acquistare molta perizia pratica , e franchezza ancora nel medicare, conforme, che ogn'uno di esli ben se ne avvedeje lo confeffa.  E finalmente, acciocchè non resti quanto vi hò detto infructuofo,converrà, che ora vi mostri come vi dovrete contenere nell'acquistare detta pratica tutti assieme, e conformé, fi dovrà regolare ciascun di voi ; secondo la propria capacità , in quello, ch'è ornamento, mà effendo questi più punti , che meritano matura riflessione, bisognerà riportarli alla Giornata di domani, venite però tutti, e voi precisamente, ch'avere più brio, e spici:o più vivace deglalri preparati di sofferenza, perche sarà Giornata di attenzione, e mortificazione infieme.  [ocr errors][merged small] [blocks in formation] Nella quale si fà vedere ciò, che dovre farsi da tutti unitamente per ben confeguire una buona prática, e quello, che dovrà operare ciaschedino secondo la propria capacità per uguagliarsi a' Comia pagni in quello , ch'è ornamento.  Mi :  I   dispiace   nella Giornata di jeri accennato, ch'oggi vi mortificherei , perche jacula prævisa minus feriunt ; Mi persuado , che di già farete venuti preparati per sentire da me rimproveri sopra li vostri poco lodevoli portamenti, da me più volte osservati, mà abbiateci pazienza ò perche ciò G fa per voftro bene.  Ditemi di grazia à che fine venite in questo luogo pieno di miserie ? Frana camente mi risponderete : A prendere la pratica di Medicina; e questa in che modo la prendete yoi più disinvolti, & allegri , che mostrate d'esfere più spiritofi degl'altri? Con paffeggiare per lo Spe.  daledale, confabulando trà di voi sopra le novelle di queito mondo? Questo non è il modo da prendere pratica di Medicina, nella quale si richiede una fomma applicazione, mà più tosto da divertirvi: Sappiate, che lo Spedale non è luogo da perderci inutilmente il tempo in divertimenti, e svari, perche è ripieno di aria infetta, chi non brama d'approfita tarsi non si curi dimorarvi , mà se ne vada in aria migliore, e più amena di fta, che farà per lui più utile, e sicura , e non mi faccia cestar bugiardo, poiche in cal guisa continuando, non folamente daria à divedere che la Medicina sia Arte lunga , mà ancora, che non si possa in conto alcuno acquistare, essendo questo tutto l'opposto di ciò, che da principio vimostrai. 15 TMarcello disse, rimproverando li  suoi foldati, che non aveano fatto come e doveano, e poteano il loro uffizio: Mula  ta vidi Romanorum corpora, fed Romanum vidi neminem; e così ancora io potrò direfin'ora di voi: Multa vidi discipulorum  [ocr errors] corpora , fed difcipulum vidi neminem ; Spero però, che conforme servirono di stimolo a' suoi soldaţi le parole risentite di Marcello per fare, che superassero nel giorno susseguente Annibale,cosi le mie moveranno ancora gl'animi vostri in ay. venire ad operare con più attenzione, e fervore di prima scusandovi del passa  perche non sapevate ancora in che modo vi dovevate contenere ; Qual mutazione, oltreche recherà à voi gran vantaggio , si perche più prestamente vi sbrigherete, e con miglior ordine v’im. poffefferete della buona pratica Medica, à cui devono indirizzarsi tutte le vostre operazioni , sarà ancora di mia somma consolazione.  Prima però di porvi à questo ftudio pratico farà di mestiere, che possediate , oltre il buon costume, l'Istituzioni Me diche, con le quali diverrete già iniziati à questo nuovo esercizio, essendo legge d'Ippocrate di non doversi praticare altrimenti, ordinando egli (a) doppo aver  detto: (a) I* Hippocratis lige :  detto: Institutionem à puero fit moribus generofis , venendo alla Medicina pratica, Hæc verò cum facra fint , facris hominibus demonftrantur, prophanis verò nefas priùsquàm foientiæ facris initiati fuerint ; e facendo voi diversamente non potrete capire ciò, che vi si presenterà d'offer= väbile, e s’aveste ancora appreso la cognizione de'mali , vi recheria quefta un sommo vantaggio, insegnando Ippocrates ( b ) che Qui autem fignorum cognitio: nem habuerit is: folus ritè ad curationem aggredietur, caso che nò procurerete , che sia questo il primo vostro studio, e lo farere ; con discrivere in un libretto di memorie tutti li segni , che fanno venire in cognizione di quel tal determinato male, con indicarvi quali sono li essenziali ; ex. gr. dell'Angina, dell' Epátiride &c. é quelli, che sono distintivi; che fanno conoscere, se sia Colico, Ò Nefritico il male, se fia vera , ò falfa gravidanza, e così proseguendo in tutti quei casi confimili, che hanno bisogno  di (b) la lib.de Media  [ocr errors] [ocr errors] di qualche segno proprio, che meglio li faccia comprendere , e tutto ciò è necessario à farsi, perche attorno l’Infermo dalli segni si rinviene il suo niale , e questi sono neceffarj d'averli à memoria, perche all'ora non si può ricorrere à leggerli ne’libri, quando sareçe interrogati, che male quello sia ; Dovrete ancora lasciare in detto libretto di memorie molto spazio di casta bianca in ciasche, dun caso, doppo avervi descritti gl’accennati segni per notarvi ciò, che biso, guerà in appresso,  Acquistata , ch'avrete la cognizione de' mali più frequenti, e che vagano in quella stagione, e questo in breve tempo lo potrete fare , incomincierete ad osservare il modo, con il quale si curano , & in quel medesimno libretto dove avrete descritti li segni , v.g. della Punfura , capitandovi d'osservare il detto male, verrete descrivendo la cura, e mutazioni, che di giorno in giorno eslo anderà facendo, tanto in meglio, che in peggio, con tutto ciò , che offerverece  di riguardevole, mà succintamente con qualche contrasegno indicativo,per non fare scrittura voluminosa.  Di dette cure da offervarsi contentatevi di prenderne poche da principio, e le più facili , per poterle esattamente confiderare, e capire bene, quali in progresso di tempo l'anderete moltiplicando, e scegliendo secondo vedrete meglio poterle possedere , e comprendere; Avvertite però non caricarvenc troppo, nè di tralasciarle, se non ne avete veduto l'evento felice, ò funesto , quale noterere per meglio impoffeffarvi nelli pronoftici da farsi in casi consimili, nelle congiunture, che vi si presenteranno . E tutto questo è coerente al consiglio d'Ippocrate dato nella sua legge, ove dice : Ad bec longi temporis induftriam accedere neceffe eft, quod disciplina veluti gravidata  felicitèr , & benè crescendo maturus fructus efferat.  Lo studio, che dovrete fare in casa sarà di leggere solamente dui, ò trèlibri pratici de’migliori , che potreteavere si antichi, che moderni scelti dal Direttore vostro Macítro, & in quelli procurerete rincontrare se ciò, ch'avete osservato si uniformi alli loro sentimenti, e noterete, in che cosa consista il di- . yario, per domandarne sopra ciò la cagione à chi sarà vostro Direttore nella pratica, ò almeno alli Medici Affiftenti di detto Archiospedale, che sono già pratici, de' quali ancora vi dovrete prevalere in molte occorrenze, potendoli avere più pronti, e nel luogo istesso dove vi esercitate,  Mà perche le conferenze accrefcono fervore, e facilitano insieme li progressi, per cagione dell’utile emulazione, e di sentire da? Compagni qualche cosa di più, che talvolta non fi sapeva ; Quindi è, che almeno una volta la settimana vi dovrete congregare tutti insieme per conferire ciò, che ogn'uno avrà acquistato di più nel suo esercizio pratico, & à questa conferenza potria avere qualche sopraintendenza il Medico Af fiftente di guardia, che deve necessaria.  mente  [ocr errors] mente essere nello Spedale permanente ; E quando sarete disposti à tal’utile esercizio non avrete da affaticarvi in cercare luogo à propofito, conforme era neceffario prima, perche voi, che di presente ftudiate avete avuta la sorte propizia, mediante l'animo generofo , e magnitico di Monsig. Illuftriffimo Gio: Maria Lang cifi, cho con tanti suoi incominodi, c con si considerabile spesa, à publico bene, hà stabilito sì grandiosa, e nobile Libraria , ed in questo medesimo luogo, dove vi esercitate, potrete ivi radunarvi, e fare con tutti li vostri commodi l'utilissime conferenze , con quel di più, che ne potrete ricavare da'vn'abbon, dantislima scelta di libri , che vi si custodiscono d'ogni scienza, & in particolare, assai più numerofi d'ogn'altra in Medicina. Qual commodo fe l'aveflimu avuto noi, che ora fiamo avanzati negl'anni, in nostra gioventù, quanto mai ci faria stato grato; poiche per fare conferenze allora, bisognava andare in luoghi privati à dare incommodo, e pure si face  vano  vano con fervore  conforme seguì int cafa del Dottor Girolamo Brafavola, dove ogni Lunedì si teneva congreffo publico, e si leggevano un difcorso con due problemi Medici, oltre le conferenze, che si facevano fopra altre materie, concernenti la Medicina, è detto.congreffo continuò con fervore per molti anni , e con profitto di chi lo frequentava. Talmente che tutta vostra la colpa fària se voi ora che avețe derta commodità la trascuraste', non potendosi ciò attribuire ad altro, e con vostra somma vergogna, che al poco desiderio, che aveste di approfittarvi.  Vi riuscirà più commodo di fare alcune diligenze intorno alli Malati, che vi fiere scelti da offervare , prima della visita del Medico Principale, che consor feranno d'interrogarli, con descrivere ciò, che vi troverete di novità per essere sbrigati , e pronti nel tempo della visita, nella quale sentirete voi ancora il polso à tutti gl’Infermi del Quartiere per impoffeffarvi delle differenze di esia  C  e ciò  e ciò farete con qualche attenzione particolare, per meglio comprendere ciò che nel giorno vi scorgerete differente dalla mattina , e nelle visite susseguenti, ciò, che di divario dalle antecedenti, ed in ispecie se più , ò meno celeri, se più, ò meno eguali , se più , ò meno duri, se più alti , ò più basli , e molte altre differenze, che avete gia letre nel trattato de' Polfi, ed occorrendovi sopra di ciò alcuna difficoltà , non abbiare timore di spiegarvi, e di dirlo à chi vi sopraintende , perche da tutti con somma cortesia vi sarà spianata; Starete attenti quando s'interrogano li Malati nuovi per rinve- ; nirne l'idea del male, & offerverete il modo , che si tiene con quelle persone idiote, che non sanno rispondere à ciò, che si domanda loro , & apprenderete la gran pazienza, che bisogna averci, per potervene servire ancora voi abbattendovi in Gimili Infermi idioti. Vi porrete à mcmoria quell'idea, che dal Medico Principale farà stabilita à quel male, e pet non dimenticarvene la noterere in  un libretto conforme vien praticato da. gl’Afiftenti, con notarvi insieme il no me dell'Infermo, e numero del letto, invigilerete in sentire , e capir bene cutte le ordinazioni, che si faranno, con rincontrarne ancora li suoi effetti, non trascurerete di sentire ciò, che si dice del pronostico del male, e d'ogn'altra cosa concernente tal'infermità, ed in ispecie in quelli, che vi siete scelti per osservare, e facendo yoi ciò, che vi hò decco , vi assicuro , che quell'Arte, che Ippocrate chiamò lunga, la farete divenire più breve di quello, che vi credevate, potendo yoi in tal guisa con facilità non solamente apprendere il modo più sicuro di medicare , mà ancora la franchezza del ben pronosticare, conforme insegna Ippocrate : (0) Eventa igitur per experientiam cognita prædicenda, id enim gloriam adfert , c cognitu ejt. facile.  *Terminata , che farà la detta visita seguirete il Medico , che vi conduce inpratica per osservare le visite, che sono per la Città, nelle quali procurerete di fare le vostre osservazioni nel miglior modo , che vi sarà permesso.  Con il sudetto vostro Direttore, e Maestro conferirete tutte le difficoltà, che vi occorrono, con animo però decerminato d'apprenderne li loro documenti, essendo questi li semi di  quanto di buono in voi germoglierà à suo tempoo conforme disse Ippocrate nella sua legge : Doctorum præcepta feminum rationem habent, non già di contradire con pertinacia à quello, che verrà da esso detto, e risoluto, ed imiterete in ciò le Api, che succhiano il mele da' fiori, è non già le Vespi, che pungono con li loro aculei colui, à cui si approssimano. Credetemi, che la modestia, e li buoni costumi, l'attenzione, e la docilità ne? giovani formano la base stabile di tutti li loro avanzamenti, dove, che il mal costume, la pertinacia , la garrulità , e la petulanza affatto l'atterrano, elanniçhilano.  Nelli  [ocr errors] [ocr errors] Nelli tempi poi, che saranno prof fimi alle offervazioni anatomiche comincierete ad alleggerirvi dalle occupa. zioni Mediche, per attendere con più fervore alla Notomia, e procurerete in quelle vicinanze di trovare un'Indice delle oftenfioni, che fi faranno , per istudiare preventivamente ciò, che pu- . blicamente si dimostrerà, ed in oltre vi troverete presenti à tutte le preparazioni delle parti, che si faranno in privato, non solo per meglio capire , & impofseffarvi di quello , ch'avete letto, mà ancora per mostrarvene già pienamente istrutti quando le vedrete publicamente dimostrare i  Non trascurerete , essendovi occafioni d'aperture de cadaveri, di trovarvi presenti à quelle, e tanto maggior mente se avrete osservato li mali di quei poveri defonti, e se non l'avrete visitati, procurerete informarvi delle loro infermità , perche mediante tali ispezioni verrete meglio in cognizione del luogo affetto, e di qualche cagione ancora di  detto  C 3  detto male, e noterete in succinto nel vostro libretto ciò, che si farà rinvenuto in quelle di considerabile , acciocchè vi resti memoria per prey aleryene à suo tempo. Ed affinche meglio le possiate ritrovare , riporterete in un repertorio per ordine alfabetico ciò , che offeryato avrete, tanto nelle cure de inali, esiti de’madesimi, che aperture de' cadaveri, senza lasciare nè pure un giorno di non notarvi qualche cosa offervata, e questo l'andrete bene spesso rileggendo, à fine non vi scordiate di ciò, che una volta apprendeste.  Quando si faranno l'ostensioni bota taniche non occorrerà, che trascuriate l'altre vostre applicazioni mediche,perche non richiedono queste quell'attenzione, ch'è necessaria per la Notomia. E tanto più, che durano tutta una stagione, onde basterà, che per tal'effetto Jeggiare qualche libro bottanico, e con l'esercizio oculare ricontriate nell'Orto Medico le più usuali per meglio conocerle , le quali per voi possono esse  re  [ocr errors] re sufficienti con la notizia delle loro  virtù.        Impiegato , ch'avrete il primo ane  no, con fervore, in fare tutto ciò, che  fin'ora vi hò detto, ristrignerete poscia   in una nota tutti quei mali più essenziali  à saperfi, che ancora non avevate offer-  vati, à fine , che capitandovi possiate in  quelli continuare li vostri studj, imitan.   do quei Giardinieri, che vogliono for  mare un vago prato di fiori ; Questi colo  tivano tutto quel terreno, e con buona  ordinanza vi dispongono li semi, à fine  non vi resti del sodo incolto, ove non  nascono fiori , mà sol'erbe campestri,  e che li fiori, che nascono , non resting  trà loro confusi.   Quando avrete già offervato ocularmente le cure de' mali più riguardevoli, e frequenti, e quelle occorsevi di nuovo, l'avrete più volte ancora rincontrate nelle cose essenziali, uniformi, e che possederete già la Notomia, elsendo divenuti capaci di meglio discernere ciò, che fate, all'ora converrà , che  [ocr errors] vi applichiate à rinvenire le cagioni de? mali , e non prima, perche essendo tante , e così diverse tra loro le cagioni descritte dagli Autori in un medeliino male per  la diversità di sì numerosi sistemi, novamente inventati, che se Galeno à fuo tempo giudicò al parere di Lacuna che : Judicis veri difficultatem liquido ostendunt tot, tantæque variæ hæreses, quot in Arte Medicâ reperiuntur ; Che giudizio accertato ne potreste formare voi ora , che sono cotanto più cresciute, prima d'essere nella pratica bene istrutti? Oggidi li giovani sono così perspicaci, per non dire arditi, che li raziocinj, che già udirono da’loro Maestri, quali come buona femenza dovriano conservare, & aspettare, che con il tempo crefceffero , conforme ordina Ippocrate nella sua legge: Tempus omnia hæc ad plenam nutritionem confirmat, in vece di çoltivarli ora non li seguitano più, & in vece di quelli se ne scegliono delli più vaghi, onde quando ciò abbia da esfere è pur meglio, che l'apprendiate quandofiete divenuti più suficienti à farlo, ed all'ora appunto, che sarete à pieno informati dell’idee de'mali, delli loro sina tomi, del modo, che s’abbiano à curare, e dell'esito , che possono avere, perche potrete allora con più sperimentato giudizio sceglervi quel raziocinio intorno alle sudette cagioni morbose più adattabile degl'altri al vostro bisogno: Sentite di grazia come al proposito ve lo infinua Ippocrate : (d) Preclara enim res eft, quæ ex opere , quod quis didicit proficifcitur oratio ; Écon maggior chiarezza in altro lạogo , (e) dove così parla : Ncque priùs ad ratiocinationis perfuafionem quàm ad ufum cum ratione conjunctum animum adhibere ; Ratiocinatio enim in eorum, quæ fenfu comprehenduntur recordatione quadam confiftit ; ed in appreffo : Nullum ex his , quæ folâ ratione concludun- , tur fructum percipere licet , verùm ex his , qua operis demonstrationem habent, fallax enim, & ad errorem proclivis affeverario; Ed operandosi da voi in questo modo, effendo già divenuti più abili, e capaci, da un principio più accertato ricaverete un ražiocinio è certo , ò per lo meno probabile, dove che facendosi diversamente con impoffeffarvi prima d'ogn'altra cosa delli raziocinj in aria, e di bella comparsa, che possono con danno notabile preoccupare le vostre menti, e quefti effendo Icelti da voi per mero genio , fenza saperne il perche, vi faranno dedurre delle conseguenze, che vi pareranno certe , ed evidenti, le quali in atto pratico le troverete diverse das quelle ve l'eravate figurate; onde per acquistare pofcia la buona pratica vi converrå deporli, conforme è convenus to farli da altrui, che se ne sono ayveduri , per non continuare ne' loro pregiudizj, e sentite come à meraviglia fi ritrovano costoro delcritti da Ippocrate: (f) Venuste enim cognitionis intelligentia apud iftos sparsa ejš . Cum igitur hi ex neceffitate indocti exiftant eos ad utilem *xercitationem cohortor . Mà veniamo all' esempio per caminare con più chiarezza. S'idei il più bell'ingegno, che frà voi si trova, che il tal male proceda da un' acido esaltato, è da un calore eccellivo, ne dedurrà subitamente con la sua perspicacia , dunque và curato con gli alkalici, ò con gl’attemperanti. Volesse Iddio, che ciò si verificaffe , non avreste per certo bisogno d'affaticarvi tanto intorno l'Infermi per apprendere la vera pratica , perche in questo modo diverreste presto Medici; Mà non è questo il modo da caminare con licurezza, perche se quella cagione non è accertata farà neceffariamente incerta ancora la conseguenza da quella dedotta , la quale potrà talvolta produrre all'innocenti Infermi un nocabile danno, perche Gi tra{curerà di far quello, che s’è osservato altre volte effer loro di giovamento per andare in traccia à ciò,ch'è incerto, e so. lamente da noi ideato. Qual verità udite con che chiarezza si ricava da Ippocrate:(8) Quidquid artėm artificiosè di&tum  ef(d) Hippide deciørd. (e) Id, in lib.de tracept  1  efem(f) In lib.pracept:  eft, (8) Hippocr.de decobabitki  [ocr errors] eft , non autèm factum, viam, rationem artis expertem arguit.. Opinabile fiquidem fine actione infcitiæ , nullius artis indicium eft ; Opinatio enim cum præcipuè in Arte Medicâ, eâ quidèm utentibus crimini vertitur; His verò qui eâ indigent exitium afferty fi namque  fuis verbis perfuafi exiftim mant se opus ex scientia profectum novisse, quemadmodùm aurum adulterinum igni probatur,tales se ipfi etiàm produnt ; e ciò lo conferma ancora nella sua legge, dicendo, che la sola opiņione ignorationem parit . Il modo dunque praticabile più sicuro sarà di dedurre la cagione demali dalla già accertata cura ,  osservata più volte profittevole, con que’lumi, che vi darà di più la Notomia, e quando anche per questa strada non se ne rinvenisse la più certa, non potrà nascerne quel pregiudizio già accennato , perche la cura anderà a suo dovere, essendo fatta secondo le buone osservazioni pratiche; oltre di che caminando voi con quest'ordine non vi regolerete con l'incertezza dell'opinioni degl'uomini,ogni giorno variabili, mà bensi con la certezza delli giudizi di Natura, sempre più accertati , come divinamente considerò Cicerone allorche diffe : Hominum com. menta delet dies, naturæ judicia confirwsat.  Quindi è, che Pittagora non fenza cagione faceva tacere li suoi scolari sinche aveffero compiti cinque anni di studio , perche voleva , che cominciassero à parlare quando appunto capivano ciò, ch'elli dicevano , e veramente chi presto parla non ha premeditato ciò, che dice, e chi non hà premeditato ciò, che dice, parla à caso.  Per conferma di quanto vi hò detto, ed à fine non prevarichiate ora, che avere da me sentito dire qual potesse esfere il inodo facile sì, mà non già sicuro, da prestamente liberarvi dall'intraprese fatiche, v'addurrò altri sentimenti d'Ippocrate,da’quali non potrete discostarvi se vorrete essere tenuti suoi veri seguaci, dice egli ( b :) parlando in termini difare progresso nella Medicina : At vero in Medicina iampridem omnia fubfiftunt in eaque principium , via inventa eft, per quam præclara multa longo temporis fpatio sunt inventa, bu reliqua deinceps invenientur; Si quis probè comparatus fuerit, ut ex inventorum cognitione ad ipforum investigationem feratur, Qui verò his omnibus rejectis , ac repudiatis aliam inventionis viam ; aut modum aggrediatur, to aliquid Je invenise jactitat, is cùm fallitur , tùm alios fallit, neque enim iftud ullo pacto fieri poteft. Ippocrate dunque vuole, che dalle cose accertate si passi all'investigazionc di esse,per meglio discernere ciò, che in quelle non fosse ancora palese,mà non già, che dalle incerte si pasli à fare al. cuna investigazione , dicendo chiaramente, che chi farà diversamente ingannerà se stesso , e gl'altri, e tutto ciò vie. ne più precisamente individuato redarguendo quelli, che dalle cagioni incerte ne vogliono dedurre una certa cura, come si legge in appresso: At verò nunc ad cos , qui novâ quadam ratione artem ex  přo."  propofita materiâ investigant nostra revera tatur oratio fiquidem eft calidum, aut fria gidum, aut ficcum, aut humidum , quod hominem lædit , & eum, qui rectè mederi volet opporret calido per frigidum, frigido per calidum , ficco per bumidum, & humido per ficcum opitulari . Exhibeatur mihi aliquis naturâ non admodùm robuftâ , fed imbecilliore; qui triticum crudum, & inelaboratum edat , quale ex areà fuftulit, carnes crudas , & aquam bibat , ex qua victus ratione non dubium eft quin multa ,  gravia fit perpeffurus. Nàm & doloria bus conflict abitur, & imbecillo erit corpore, O ventriculus corrumpetur, nequè vitam diù tollerare poterit . Quodnàm igitur ità affecto præfidium comparandum Calidum nè , aut  frigidum, an ficcum, an humidum? Siquidem horum quodque fimplex eft. Namque fi quod lædit ab his ipfis eft diversum contrario disolvere convenit , velut ipfifatentur - Eft enim certifima, & evidentiffima medela , sublatis quibus utebatur cibis , pro tritico panem exhibere , da  pro  crudis carnibus coctas, dj insupèr vinum propi  narly  nare, neque fieri poteft , quin his commu: tatis convalefcat ; e questa accertata cura come si è ritrovata , se non dal vedere, che le sudette cose hanno altre volte conferito in simili casi?  Seguitate pure la strada calcata da' noftri maggiori, se non volere errare, per la quale ebbe origine, e si è avanzata la vera Medicina, e questa è quella dell'offervazioni, conforine chiaramente confessa Ippocrate.(i) dicendo : Neque verò pigeat ex plebeis sciscitari  fi quid ad curandi opportunitatem conferre videatur , fic enim censeo artem univerfam coma moftratam fuiffe , quod fingula ex fine abi fervata, ad eadem aggregata fuerint. Animum igitur adhibere oportet fortuit,e occafioni , qu& plerumque fe offert , quæque cum utilitate, & lenitudine conjuncta eft, quàm cum sollicitatione, & forti defenfione; e ricavate pure li vostri raziocinj dalle cagioni de' mali, dalle cure à voi note, ed in quella conformità, che più vi appagano, che ottenuti in questa guisa, se  non fi) Hipp.praceptiones .  [ocr errors][ocr errors] non dimostrativi , faranno almeno inno-  centi, non potendo recare pregiudizio  alcuno, e state fermi in tale proposito,  per l'esempio di più d'uno , conforme,  che diceffimo, à cui è convenuto mutare  li raziocinj delle cure dapoi, che hanno  osservato in pratica meglio gl'andamenti de' mali, e non prima d'allora si sono  accertati , che l'opinione era assai diver-  sa dalla verità, conforme nel suo sogno  ci fà conoscere Ippocrate, ( a ) non solo  perche li comparvero assai differenti trà  di loro, mà perche la verità dimorava  appresso Democrito, che non s'inganna-  va, e l'opinione trà l’Abderiti già pre-  giudicati, per la falla loro credenza, che  Democrito delirasse. Appreso, che voi avrete le cagioni  ancora de'mali, all'ora sarete arrivati  à qualche perfezione maggiore , poten-  do, rotto già il silenzio Pittagorico, con  fondamento parlare, e con franchezza  ancora medicare, resterà solo d'istruirvi  in che modo si dovrà contenere ciasche-   duno (a) Hippo in epiß. Pbilope.2.  [ocr errors][merged small] D  [ocr errors] duno di voi in ornare, secondo la propria capacità ciò, ch'avrete acquistato tutti in commune.  > Parlerò prima con voi di mente fu. blime, e generofa, che vi pare un troppo angusto campo la sola Medicina , onde per far conoscere a tutti la vostra maggiore abilità, volete stendervi più oltre, ed all'acquisto d'altre scienze,conforme nelle private conferenze apertamente diceste, ove tal’un di voi mostrò genio grande d'apprendere le Mattematiche, altri l'Astrologia', e chi per ornamento le Lingue straniere, & in ispecie la Grecaj e chi per divertimento ancora l'erudizioni Istoriche i  Mi dispiace d'aver sentito dire, che trà voi yi fia chi lo faccia per genio grande, perche questo vorrei, che tutto lo ponefte alla fola Medicina's qual dovrete profeffare, onde viva pur sempre caurelato , e circospetto chi di voi hà  fimit geniono che non gli faccia perdere -Hamore à cid, ch'avrà dianzi acquistaso; perch'è solito, che chi apprende congenio grande una cosa nuova, trascura   necessariamente ciò, che prima se non  per genio , almeno per impegno lo appagaya .  Io per me non posso, nè devo op-   pormi à quanto deliderate, si perche è   onefto , sì ancora perch'essendo all'ora   voi già divenuti Maestri vorrete fare à  vostro modo ; Vi dò solo questo conse-  glio, che facciate regolare la vostra in  clinazione fempre dalla prudenza , e dal  giudizio, e che non la lasciare in tutta  sua libertà, e facendo voi in questo mo-  do non potrete errare, perché le sudette  virtù mai non permetteranno, che fi din  ftacchi dalla Medicina già appresa , nè  che nel fare li nuovi acquisti gli rubi  quel tempo, già destinato per lei, e final  mente faranno in modo , che non l'ap-  prendiate à quel segno di poterle pro-  feffare , mà per solo ornamento, e per   poterne ancora voi discorrere in quella   parte , che possa servire alla Medicina.   Mà vediamo d'ajurare , e consolare insieme voi altri, che restereste altrimena  1  [merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors][ocr errors] timesti, non solamente per la separazione, che faranno da voi li vostri compagni, inà eziandio per la cagione di essa . In primo luogo parliamo chiaro intorno a'vostri difetti , per dare à ciascheduno di essi il suo rimedio , s'è possibile. Dilli s'è poffibile,perche se sarete affatto inetti, & incapaci mutate mestiere, conforme hò fatto fare à qualcheduno di simile inabilità, perche altrimenti vi affaticherete in darno fino , che viverete , mà re, ò la vostra memoria apprende con qualche difficoltà , tenétela continuamente esercitata , che migliorerà, volendo Cicerone, (b) che : Affiduus usus uni rei deditus, & ingenium, a artem fepè vincit ; ò il vostro giudizio non è pronto , ajutatelo con l'attenzione, e vigilanza, date tempo, che si farà, perche molte piante fioriscono prima, & altre sono più tardive; ò il vostro discorso è alquanto infelice, e non siete pronti, esercitatevi nclli discorsi publici , bene imparati à memoria, discorretela continuamente con li  vostri (b) Cicero pro Cornelio Balbo.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] vostri compagni più franchi di voi, fae  tevi animo, & abbiate forma fiducia ,  che il vostro timore cesserà. Aspettate  ora da me di sapere il modo, che dovre-  te tenere per adornare ancor voi l'ope-  ra già fatta , à fine di non iscomparire  trà gl'altri vostri compagni, e con ragione. Già voi non vi curate d'uscire dal-  la Medicina , in questa dunque converrà  trovare l'ornamento, che sia adattato  al vostro bisogno, e doppo fatta matura  rifeflione, non trovo miglior conseglio  di quello, che fi ricava da Prospero  Marziano Medico di grand’ingenuità ,  all'ora , che ricercando la cagione, per-  che li Medici antichi erano tanto stima-   ti, & onorati assai più di quelli, che  vivevano à suo tempo, egli fù di fenti-  mento, che procedeffe ciò   per  effer stati. glantichi versatillimi ne' pronostici, e non vi sia discaro à sentire ciò, ch'egli diffe : () Cur prisci Medici tanti habiti fint apud homines, ut non folùm primas in  Ci. (c) Prosper Martian. 2.prediff. perf.23.  e  [ocr errors] D 3  Ciuitatibus, ac Regnis tenerent , Regibus Principibusque imperarent , fed etiàm summus honos , Diisque folis præstari folitus, Medicis tribueretur, admiranda enim circà agrotos , & præftitife, & prædixise eft. necessarium ; Sicut vice versâ mirum non eft ifi nunc adeù vvilitèr tractentur, quando nèc in curando, nèc in prædicendo quidquam spectabile pr&tent noftri, cum ea faciant tantummodò, a dicant , quæ ipfis idiotis sunt manifefia, & tamèn'artis pradantiam noftrorum temporum continuò jaEtant imperiti , Medicinamque posteriores ditasse profitentur , fed veniunt excufandi, eo quod antiqua thefauros adhùc non percepere, quibus tota quidem Hippocratis do. Etrina plena eft; Verùm præfens liber, [h.c. prædiétionum secundus ) adeò abundat, ur folus paupertatem, cu miferiam artis noftrorum temporum indicare fufficiat, nam quis nostrum eft qui centefimam partem eorum cognofcere poffit, qu& antiquiores Medicos comunitèr prævidere confueviffe in hoc libro teftatur Hippocrates ; Sicchè voi per fare spicco , & essere molto stimati  nella  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] nella professione impoffeffatevi bene de! pronostici d'Ippocrate , che uniti alla buona pratica acquistata , vedrete, che vantaggi questi vi recheranno , & effendo stati ricavaci da molte offervazioni uniformi, accadute in più secoli, non vi serviranno d'ornamento inutile,mà bensi molto profittevolese necessario, e tanto maggiormente se spoglierere ancora ciò, che v'è di migliore nell'Epidemj, ed in tutti gl'altri divini libri d'Ippocrate , per mettervene à memoria più , che  potrete , å fine di serviryene secondo li i bisogni, che vi si presenteranno, e que  sto studio lo farete in quell'ore, nelle quali vi persuaderete, che li vostri compagni le terranno impiegate all'acquisto d'altre scienzcacciocchè vi cresca il fervore ad apprenderle con emulazione.  Ornati, che sarete tutti nella conformità, che s'è detto, ogn'uno di voi ne farà la bella  comparsa ne consulti, ed all'ora si conoscerà chi di voi avrà fatta i  miglior elezione del compagno, e si rina contrerà, che voi, ingegni, ch'eravatemeno apprezzati degl'altri, per la voftra applicazione, e prudenza , certamente, che non iscomparirete tra gl' altri di maggior talento di voi.  Se il modo, che vi hò proposto non farà buono, e profittevole trovatene altro migliore,& acciocche lo possiate rinvenire più commodamente sia posto ogn' un di voi in sua libertà di sceglierlo à fuo piacere. S'avete genio di studiare prima della Medicina altre scienze, cosa ne feguirà facendosi, che non potendo sapere ancora cosa vi possa bisognare vi converrà ftudiarle ex profeso, e se l'avrete apprese con genio à quel fegno, che le pofliate profeffare, ciò, che studierete in appreffo; con minor piacere , lo subordinerete alla prima, che di già possedere. te, mà ne seguirà peggio ancora, che tutto farete meglio, eccettuatone il Medico, conforme vi farò costare in appresso.  Se il genio vi porterà ad apprenderle insieme con la Medicina, che ne feguirà? Ciò appunto , che accade à chi  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] in un medesimo tempo getta in un camро  semi diversi, e mescolati , e che ne raccoglierà? Un frutto confuso, e quem sto ancora à voi potrà succedere, poiche la bella ordinanza è quella, che facilita, e felicita le grand'imprese , dove che la confusione le preverte , e le annichila.  Inoltre s'avrete studiate le Mattematiche, con gran genio , e studio profondo, e vorrete poi fare il Medico niuna cosa di Medicina vi appagherà, cercherere in essa le dimostrazioni evidenti, e non trovandole, che ne seguirà, se non sarete nella pratica ancora versatiffimi? Che per temenza d'errare vi formerete un metodo di medicare à vostro modo , con pochi rimedj, creduti da voi sicuri à non poter nuocere , e semplici, come fono Occhi di granci, Stibio diaforetico, Sperma ceti, un poco di Caffia , qualche ottava di Tartaro di Bologna, qualche Clistiero, qualche bevuta d'ac. qua di Nocera , Oglio d'Amandole dolci, Sangue ircino preparato , Corno di Cervo filosofico, Giacinto bianco , e  cofe  [ocr errors][merged small] cole simili, tutte sicure à non poter nuocere, & in questa conformità vi regolerete tanto ne' piccioli, ne' gravi, che ne' gravissimi mali. Questo è un modo sicuro, mà nell'infermità benigne, e leggiere, non già in tutti i casi gravissimi, ne' quali è chiamato il Medico per dare un pronto riparo, non già per complimento, per espugnarlo, ò almeno per retundere la sua veemenza , e questo pretenderete di farlo con cose innocenti? ch'è il medesimo, che dire con cose  attività ? Queste dunque adoprerete ne' bisogni inaggiori , ne' quali : Melius eft anceps experiri remedium quàm nullum. Rimedi sicuri vi persuaderetç, che siano quelli, che non possono fugare il male ? Questa sarà una licurezza inutile, mentre non rileva il pericolo, sarà sicurezza, per chi assicura, non già per chi deve essere assicurato , perche se in quefta borasca si sommerge la Nave,non è tenuto chi assicurò al rifacimento del perduto, mentre che và tutto à danno dell'aficurato. Un tal modo di operare  lo  di poca  [ocr errors] lo potrebbe ancora esercitare , chi non sapesse altro di Medicina , perche già ch'è sicuro non ci vorrà grand'arte per praticarlo, mentre l'arte consiste in la. per conoscere ciò, che in un caso potrebbe nuocere, e nell'altro giovare, e per questo effetto si chiama il Medico, onde essendo gl'accennati rimedi sicuri, e non potendo nuocere à ch'effetto vi sarà bisogno del Medico per darli? Oltre di che, per parlarvi ingenuamente, questo modo di medicare è assai confimile à ciò, che fanno coloro , ch’imparano la scherma, che per non offendere, nè effere offesi adoprano certe smarre senza taglio, ed in vece di punta acuta hanno ivi un bottone di ferro foderato di pelle, ò cottone , qual sorte d'arme sicura in tempo di pace, di ch'efficacia sarà all?ora, che l'inimico ci affalisce con armi pungentiffime, lo potremo offendere , à almeno difenderci da effo? Credo di nò con questa sorta d'armi sicure, ci converrà per certo adoprare almeno armi eguali, e se saranno superiori riusci.  ranno  [ocr errors] ranno migliori ; il fimile appunto succederia quando il male grave alfalisse, se questo lo voleste espugnare con l'accennati rimedi sicuri, combattereste seco con quell'armi appunto senza taglio, e fenza punta, poco atte à fare validas difesa.  E non basterà in questi casi Parme sola , mà converrà saperla ben maneg. giare, per fare que' colpi sicuri riservati a' soli Maestri dell'arte, quali come li fapreste fare se mai non aveste maneggiate simili armi, volendovene talvolta prevalere?  Sò, che questa voce di medicamento sicuro, che non può nuocere'è molto plausibile appresso alcuni, che la considerano superficialmente, mà capita bene, è molto nociva , poiche nel bisogno più urgente non è tempo di passarlela con cose di poca attività, richiedendo quello ajuti maggiori , ò equivalenti alIneno ad esso, e tutto ciò, ch'è sicuro. à  non nuocere non basta per rimuovere ciò,che nuoce, onde se non ammazzano  direttamente possono almeno indirettamente nuocere, per la cagione, che non sono sufficienti à rimuovere ciò, che puol’ammazzare. Ippocrate,che conobbe tal verità assomigliò il Medico al Governatore della Nave: questi appunto trovandosi in una borasca di mare cofa dovrà fare ? Deve in primo luogo alleggerire la Nave, con gettar via ciò , che più l'aggrava, acciocchè tando più galleggiante non venga ricoperta dall'onde; Voi già mi capircte, onde non occorrerà mi spieghi di vantaggio, potendo considerare da voi medefimi , che alleggerimento rechino a'corpi, che si ritrovano nella tempesta del inale, eripieni di viziosi umori, si piccoli , e poco efficaci medicamenti.  Io non pretendo già porvi in difcredito li dettirimedj, perche in qualche caso possono essere profittevoli : Per esempio ne' veleni corrosivil'oleofi, ed in qualche altro caso ancora grave sono utilissime le copiose beure d'acqua, e cose simili, mà che siano sufficienti questi  per  per curare tutti li mali, dicovi apertamente di nò , perche in molti mali gravi convengono altri rimedi più efficaci, conforme ordinò Ippocrate : (d) V alentibus verò morbis, valentin natura medicamenta exbibeantur ; & altrove : Extre. mis morbis extrema remedia optima funt.  Anzi, che se si tralasceranno da voi li più efficaci in quei casi, che competono per sostituirvi questi più leggieridico, che peccherete d'omissione gravemente, potendone nascere pregiudizj gravi alli vostri Inferini in trascurar ciò, che li compete,per dar loro ciò, che non può recare profitto equivalente al bifogno. E quando il solo differire un rimedio possa recare del danno, come bene avvertì il divino Ippocrate : (e). Cum enim ab omni ante aliena fit procrastinatio, tùm verò maximè in Medicina , in qua di. latio vitæ periculum affert ; quanto maggiore lo recherà l'omiffione , essendo difetto più conliderabile della dilazione  Ne (d) Hipp de loc. in hom. (e)ld.in epift.ad Crat.  Nè per cimore d'essere tacciati di omiffione dovrete fare d'avantaggio di quello , che fiete tenuti di fare, perche all'ora incorrereste in un'altro errore , non inferiore al primo, mà come vidovrete in ciò regolare ve l'insegna Ippocrate nel primo Aforismo in tal guisa: Seipfum præftare oportet opportuna, & quit decent facientem.  Se divenuti Profeffori d'Astrologia farete ancora il Medico , non vi capiterà Infermo, che non vorrete alzargli las figura del decubito, non gli darete ri. medj se non che a' buoni aspetti de' Pianeti, e fuggendo li cattivi,cosa ne seguirà? Che perdendosi l'occasione pronta d'operare, l'Infermo se n'andrà all'altro mondo à riconoscere più da vicino li suoi malefici Pianeri, stanteche Occasio præceps, à quella bisogna , che indirizziate tutta la vostra attenzione, oltre di che vi servirete d'una scienza più incerta della Medicina per accertare ciò, che in essa crederete fallace. E se ornati di tutte l'erudizioni Istoriche vorrete esercitare ancora las Medicina per far pompa in quello, che meglio saprete , & è di vostro genio, comincierete à discorrere con li vostri Infermi,ò con altri, che ivi si troveranno presenti ab Urbe conditâ fino al tempo dell'Impero Romano, e con vostro sommo piacere , il meno poi , che farete sarà di pensare all'Infermo , che avete avanti gl’occhi, à cui dovete dare ajuto.  Iddio guardi, che tal’uno di voi , ch'avefse più spirito, che prudenza, s'annojasse di far ciò, che ho detto intorno l'osservazioni Mediche, e si volesse  porre à fare il Medico senz'avere acquistato un buon metodo di medicare, affidato solo in una gran scelta di belle, ed efficaci ricette, questi sarebbe simile à colui, che custodisce delle bellissime armi, mà non le så maneggiare, ed in conseguenza caderia in uno delli maggiori errori, che si possino mai commettere nella Medicina , cioè di divenire un gran Ricettante, e de' più validi, e pronti  ri  مرور  rimedi si Chimici, che Galenici, che avemo, e non sapendo il modo d'adopee rarli l'applicheria à casa, con tutto, che fi fosse ideato d'imitare un Capitano, che per conseguire la vittoria fi serve di valorosi soldati, e questo modo d'ope, rare quanto possa riuscire dannoso, lo lascerò considerare à voi, per quando farete divenuti già provetti ; solo riflettete ora, che quel Capitano, che non sa comandare li suoi valorosi soldati, in ve. ce di vittorie riceverà bene spesso delle sconfitte, e quel troppo ardire indica ignoranza, come afferi Ippocrate: (a) Audacia verò, artis ignorationem arguit : E in altro luogo :(b) At quod temerè fit nullo modo fubfiftere videtur, sed nomen tantùm inane efle .  Non riuscendo dunque tanti altri modi ricercati da voi sarà neceilario,che seguitiate quello, che v'è stato da me proposto, con il quale farete sicuri di abilitárvi à poter divenire veri Medici  E  )quan(a) Hippocr. de lege. (b) Idem in lib. de Arte,pro ftri fore inp Ver  ner  te,  fo fe  quantunque fiatc trà voi d'abilità difu. guali, & in particolare per quel profittevole uso, che potrete ricavare dalle diligenti, creiterate offervazioni fatte intorno l'Infermi, non potendosi questo apprendere in altro modo , conforme giudicò Ippocrate : (a) Usus namque, qui in fapientia , tùm in arte ei adjuncta , doceri nequit ; e questo di quanta efficacia fia, sentitelada Cicerone: (b) Aljungant ufum frequentem, qui umnium Magiftrorum precepta fuperaf.  Mà non vorrei, che tornaste ora à contriftaryi, voi, che fiete di natura malinconici, parendovi forse troppo, quanto v’hò proposto per neceffario in acquistare la buona pratica , perche se vorrete diyentare veri Medici, ed eflere compresi nel minor numero di quelli, di cui parlò Ippocrate nella sua legge così: Medici nomine quidèm multi, re ipfa perpauci , sarà necessario, che facciate dal canto voftro ogni posibile, & à fine  pro(c) Hipp.de decenti ornatu . (d) Cicero 1.de Oratore .  [ocr errors] proseguiare con maggior fervore li vostri studj, vi mostrerò in domani quella fortuna propizia, che vi potrà toccare in premio delle vostre virtuose fatiche. Venga pure chi di voi la desidera ottenere, che gli farò conoscere quella forte, ch'è sempre favorevole, non essendo soggetta à vicende, à fine, che di efla se ne innamori.  1  [ocr errors][merged small][merged small] GIORNATA III.  Nella quale si mostra la fortuna , che deve defiderare, e procurare il vero  Medico , e la via più figura  per ottenerla,  A  D un gran cimento oggi m'espon  in volervi mostrare la vostra buona fortuna, posciache desiderandovela propizia, durevole, e senz'effere soggetta á vicende, qual potrà essere mai questa fortuna sì prospera Quando nè le grandezze, nè gli onori, nè le ricchezze, né le delizie, e piaceri,cose cotanto bramatç nel mondo, la possono in cale stato costituire ? Appena è arrivato l'uomo alle grandezze, od onori sommi, che questi cominciaio da bel principio à contriftarlo, alle ricchezze, che l'infaftidiscono, alle delizie, e piaceri, che questi ancora non gli rechino goja, e confiderabile danno: in somma si scorge chiaraméte,che Nemo fua forte contentus.  [ocr errors][ocr errors] In conferma di ciò riferisce Ippon crare nella lettera scritta à Damageto , che Multi fene&tutem exoptant, cumque cò pervenerint gemunt, nulloqae in fatu firmâ mente perfiftunt . Principes, ac Reges privatum beatum prædicant , privatus Re. gium Imperium affe&tat , qui rem publicam regit, artificem tamquàm periculi expertem laudat , artifex verò illum velut in omnia potentiam exercentem. E pur questi quan to mai avranno desiderato fimili fortu. ne, quanto vi ayranno faticato peč conseguirle, & ottenute , che l'ebbero, punto ne rimasero contenti; Ela cagione di ciò fù, che questi andavano in traccia della bell'apparenza della fortu. na fallace, non glà della di lei sostanza ftabile , e quello, ch'è peggiore , la cer. cavano ancora fuor di strada, conforme nella sudetta lettera fi legge: Rettam enim virtutis viam puram , minimèque af peram, ac inoffenfam non cernunt ; Questa via dunque bisognerà , che ancora vi mostri, acciocchè pofliate tutti ottenere il yoitro intento, ed io uscire dal mio.  E 3  cie  [merged small][ocr errors] [ocr errors] cimento con reputazione ; state attenti per non isbagliarla, perche si tratta di fare acquisto di una fortuna stabile,eterna, e non soggetta á vicende.  Che il Medico debba essere foriu. nato non vi cade ombra di difficoltà ; mentre , che se fosse diversamente, chi mai fi vorria prevalere dell'opera di coPii, al quale la forte foffe contraria , Paveffe affatto abbandonato, e che non gli piovessero addosso da per tutto, che infortunj, e miserie, da ogn’uno sarebbe certamente sehernito, e per necessità gli converria mutar mestiere, sicchè è incontrovertibile, che Oportet Medicum fe forfanatum  Mà qual fia questa fortuna, che strada dobbiate tenere in cercarla, e ciò, che dovrete fare per confeguirla , procurerò ora mostrarvi con la buona fcorta d'Ippocrate, à fine non possiate sbagliare.  Due sorti di fortune fi ritrovano descritte da Ippocrate, (e) una delle  quali (c) 110 lib.de loc:in hom.  1quali è quella, ch'è fuori di noi, & ope* ra independentemente da noi, e l'altra, ch'è sempre con noi , & opera conforme noi vogliaino .  Quella, ch'è fuor di noi così apa punto egli la descrive : Sui enim juris eft, Fortuna , nulli imperio paret , neque ad cujusquam votum fequitur; qudla poi, ch'è sempre con noi l'accenna con dire : Mihi enim foli bi fortunatè afequi , idemque infortunatè non assequi videntur , qui recte quid ei malè facere fciunt , e dependendo il bene, ò male operare da noi, la for tuna dunque, che da ciò resulta, da noi dependerà, e sarà questa per sempre inseparabile da noi medesimi.  La fortuna dunque, ch'è fuori di noi è quella, ch'è affatto cieca , e non considera il merito di chi benefica, ma dà à chi più le aggrada di vantaggio ancora di quello, che il beneficato da ella sappia mai desiderare : Talvolta ad un Contadino avvezzo å zappare la terra, fà discoprire un tesoro; capace à farlo divenire molto ricco, con tutto, che le  sue  1  E 4  fue brame fossero di pochi soldi; Ad un? altro ancora più miserabile farà conseguire una grazia nel giuoco, che lo toglierà per sempre dalle sue miserie, e tutto ciò proviene-, perche vuol fare à suo modo, giacchè Sui juris eft, nulli imperio paret  L'altra poi; che risiede in noi, è quella, che secondo, che la trattiamo ella ci corrisponderà, se la vorremo propizia , se variabile, fe peffima, propizia, variabile ; e pelima ancora l'otterremo, conforme da ciò, che Ippocrate c'insegnò li puol dedurres & ancora dall'esperienza di coloro , qui rectè quid, vel malè facere fciunt, giornalmente vediamo.  Certamente, che la prima fortuna non è quella, che deve essere desideratiz, e procurata da voi, che non dovete zappare la terra , nè tampoco dilettarvi del giuoco, ed anco maggiormente , ch'effendo cieca, forda, e per non dispensare à dovere le sue grazie ingrata ancora , questa non deve effere defiderata da voi, che dovete conseguire il premio per giu  Aizia,  stizia , ed à quel segno, che vi si deve ;  Oltre di che la sua sola istabilità bafte,  rebbe per farvela odiare, dovendo voi   defideíare una forte stabile, e permanen-  te; per non provarne le di lei vicende,   Esclusa dunque la prima forte, neceffa-  riamente dovrete contentarvi della se   conda; e tanto maggiormente, che la   potrete regolare à vostro piacere.         In trè modi dunque potrete fabri-   carvi la vostra fortuna, ò buona , ò va-  riabile , ò peffima , se la vorrete buona ,   dovrete operar bene, conforme v'inse  gnò Ippocrate nel detto libro in tal gui-   la : Fortunatè enim affequi eft rectè facere,   hoc enim, qui fciunt faciunt , ed allora cià   otterrete , quando scaccierete affatto da   voi li vizj, e farete in modo, ch'ella sem   pre ammiri le vostre virtù, e si ponga in   soggezione, quando anche non voleffe,   di operare a'vostri vantaggi. Se poi la   bramerete variabile, fatela conversare   con le vostre virtù, e con li vostri vizj,   che imparerà dal diverso modo d'opera   re, che li pratica trà esli ad effere variag   bile  [ocr errors] 2  1  ;  bile ancor essa. Qual modo l'indicd ancora con dire : (f) Ego verò fi omnibus modis ditefcere voluiffem ; cioè se per  via di virtù, e de vizj avesse voluto fare fortuna , non ad vos decem talentorum gratid, fed ad magnum Perfarum Regem proficiscerer ; con che fece conofcere ancora l'incostanza di detta fortuna, rimirandosi ella ben {peffo istabile, sì in quei fervigj, che dependendo dalla volontà di molti con la sola virtù non s'acquistano, come bene speiso l'esperimentano i Medici condotti; che nelle Corti, ove trà molti altri la provorno tale Seiano e Bellisario.Se poi vorrete farla divenite pellima, consegnatela in potere de' vostri vizj, che apprenderà da questi i loro pessimi costumi , e perima certamente diverrà, ed udite con quantas chiarezza ve lo dice egli nel libro sopracitato : Qui enim non reftè quid facis, non  fortunate afēqui poterit? quum reliqua , que æquum eft facere non faciat. Talmente, che la vostra buona fortuna, the voi  do!  (f) In epif.Abderir. Hippo  dovete procurare è quella che proviene dalle vostre buone, e virtuose opere, c questa l'avrete propizia, e ftabile fino, che vorrete , effcndo subordinata al vostro sapere, e volere, giacchè al parere d'Ippocrate nel luogo sopracitato, effa fi può felicemente conseguire, da chi sda e vuole: Et facile eft ipfam felicitèr alle. qui, fi quis fciens uti velint, d'onde faa cilmente n'è nato quel detto: Virtute dua cey comite fortuna.  Non basterà però d'avervi ciò brem vemente accennato, per potervi cons sicurezza determinare il modo , che dov vrete tenere in procurare questa buona, e tanto desiderabile fortuna, perche ciò, che vi hò detto fin'ora , non è sufficiente à farvi capire in che maniera vi dovrete contenere , allora, che sarete  Eper porvi in viaggio per cercarla, e ciò, che dovrete fare nel progresso di quello , 6 quanto di felice ne potrete riportare dalla vostra lunga, ò breve navigazione, onde sarà necessario, che per meglio esaminare li sopr’accennati punti, che cifiguriamo d'essere già presenti al porta dell'imbarco , e che nel fare detto viaggio mi serva della seguente ideata maniera per iinitare ancora in ciò Ippocrate, che dovendo andare a trovare la sua fortuna in Abdera, conforme udirete in appreffo, ancor egli vi si porcò per mare, ed in una nave non presa à caso, mà scelta da lui con molta cautela,come si legge nella lettera prima scritta à Damageto, che comincia : Cum apud te Rbodi ejem Damagete, navem illam vidi , cui Solis infcriptio inerat , quæ mihi perpulbhra , puppi probè, idoneâ carinâ inAructa , muliaque transtra habere vifa eft, tu verò eam comendabas c. cam ad nos mitrito @c. E tutto ciò, non senza gran mistero, mentre circospetto, e con il buffolo da navigare avanti gl’occhi deve viaggiare chi cerca la fortuna, e deve  per tale effetto scegliersi un bastimento sicuro.  Questo Porto è appunto il luogo , da dove s'intraprende, il camino verso il Tempio della felicità, ove dovrete por.  ancora  tarvi  1  tarvi, per conseguire la buona forte a. e queste trè navi sono già qui allestite per ogn’uno di voi, che voglia fare il sudetto viaggio , converrà , che à vostro piacere ve ne scegliate una di esse, mà prima , che facciate tal'elezione , nella quale facilmente potreste ingannarvi, fentite da me un breve ragguaglio di tali bastimenti, del loro modo di viaggiare, de pericoli, che s'incontrano, e dell' esito, che si hà della navigazione in ciascheduno di efli.  Mirate colà à finiftra, quella si chiama la nave del Sole, ivi la Prudenza regge il timane, la Giustizia invigila al buffolo , la Fortezza regola l'antenne ela Temperanza sopr'intende al tutto: ivi non risiedono altro, che virtù,e tutte attente alli loro assegnati ministerj. Per entrare in questa si ricercano due requiz fiti, e sono i Attestato di abilità, e provę di buoni costumi , altrimenti chi n'è privo, non vi fi può imbarcare.  L'altro bastimento, che stà alla deftra , li chiama la nave di Giano, questa  hà  [ocr errors][ocr errors] hà parimente buoni Piloti, che sono le accennate virtù, che regolano la nave del Sole, mà vi è solamente di male, che vi si trovano alcuni vizj, e tra questi vi è il proprio interesse, la Politica,la Menzogna, l'Adulazione, il Secondo fine, vestiti tutti di Zelo, ela Malizia, che s'infinge tutta umile, in somma vi sono con le virtù mescolati li vizj, che per dimorare insieme con esse conviene loro di stare molto circospetti, e tramutati in altri sembianti, e per entrare in detto bastimento, non si ricerca altro attestato, che dell'abilità.  Il terzo poi, situato nel mezzo, che fà sì bella comparsa, si chiama la nave felice : ivi al timone presiede la Malizia, al bussolo sopr’intende l’Inganno , lw vele si maneggiano dall'Astuzia, la Maledicenza,e l'Impostura consultano continuamente trà esse cose gravi, la Lussuria , la Gola, con tutti li vizj consimili festeggiano , ciripudiano tra loro, ed allettano chiunque vedono- ivi approfsimarsi ad entrare nella loro nave, dicen  do  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] do à tutti: Per entrare quì trà noi non si ricercano tanti requisiti; qui non serye abilità, li buoni costumi non s'apprezzano, basta, che abbiate genio à gustare de’noftri piaceri, che subitamente vi ammetreremo, e condurremo in un trata to al porto della felicità.  Vado vedendo, che tal'uno di voi è portato dal proprio genio di eleggerli questa nave, che ha il nome felice, con tutta l'apparenza di prosperità, senza pensare più oltre, conforme:(8) Magna pars hominum eft, que navigatura de teme peftate non cogitat. Mà riflettete bene à ciò, che fate, poiche non bisogna tosto fidarsi di quel bel nome, e di quella prima vaga comparsa, conviene ancora ri. flettere al fine, che può avere una simile navigazione, che ora vi spiegherò.  Si ftaccherà questa nave dal porto con allegria, mà nel viaggio incontrerà molti pericoli , perche non è regolata dalla Prudenza, e quantunque la Malizia , e l'Inganno facciano quanto pollo  [merged small][merged small][ocr errors] no,  (g) Sexeca de Traxq.Anims.sapoll.  1  no, acciocchè non si sommerga, nulladimeno questa non potrà sfuggire il passo dell'Ignominia , che stà situato un buon tratto di camino prima di giugne. re al porto della felicità, (dove bisogna neceffariamente arrivare per ottenere la buona forte) si rimira ivi uno scoglia grande, ove è la residenza maggiore di tutti li vizj, hà nella sua estremità, ver, so il sudetto porto alzate due gran colonne, ove è scritto : Non plus vltrà, affinche sappiano tutri li vizj, che fino colà possono giugnere , mà che più oltre è vietato loro il passare. Approdata, che sarà detta naye al sudetto scoglio, è su, bitamente visitata , e ciò, che di viziosa ivi si trova, con tutti'li viziosi , e vizj loro viene arrestato, non potendo anda, re più oltre simil pefte , cosa di buono vi potrà mai essere dove fono tanti vizj, consideratelo voi? Onde farà necessario, che tutto ivi rimanghi in potere de' vizj. Che faranno all'ora quei miserabili, che  s'imbarcarono in fimile navę, renduti schiavi de'proprj vizj ; qual fortunaspropizia avranno ritrovato, quando, che la loro pessima ancora l'abbandonorà, per non restare ancor essa schiava ed il tormento maggiore, che avranno, farà di rimirare con li propri occhi tra, passare quelli, che navigano ne i bastimenti del Sole,e di Giano ancora,fe chi viaggia in questa fi farà regolare dalle virtù ; oh che cattiva elezione avreste fatto mai se aveste condesceso al vostro genio ! come vi trovereste, che farele in fimili miserie , privi della libertà, e della forte? Plinio ciò predisse faggiamente, dicendo, ( a ) che Habet has vices conditio mortalium , ut advere  fa ex fecundis , ex adverfis secunda ne 2 cantur.  Sicchè fuggire, per quanto potete, i simili imbarchi , che vi conducono, non  al porto della felicità, mà bensì à quello ? dell'ignominia , e delle miserie ; onde  bisognerà, che vi scegliare è la nave del ? Sole, ò quella di Giano per giugnere ti al desiato porto della felicità, per ri,  F  tro(a) In Panegir. at Trajan.  [ocr errors] 2  [ocr errors] trovare la vostra buona fortuna  Il proprio genio vi farà inclinare talvolta d'entrare più costo in quella di Giano, con la quale crederete di poter ritrovare una miglior fortuna, à questo non mi opporrò, perche dove vi è la Prudenza , c la Giustizia, sc farete à lor modo , con tutto, che vi siano vizi ancora, questi non potranno molto nuocervi; Mà prima di entrarvi, sarà bene, che sappiate il viaggio, che fanno, si questa , à cui vi porta il vostro genio, che quella del Sole, che voi poco gradite, e che tributo portano sì l’una, che l'altra al Tempio dell'Eternità, affinche meglio fiate informati di tutto, prima , che vi determiniate all'imbarco.  S'incaminerà con prospero vento la nave di Giano verso il porto della felicità , incontrerà nel camino varie tempeste , mà la Prudenza, e la Giustizia, che la regolano, le opereranno senza il disturbo de’vizj, le supereranno tutte con la loro buona condotta; capiterannó molte, e varie occasioni assai vantag  giose,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] giose, se n'approfitterà più , ò meno chi farà ivi imbarcato , secondo, che si consiglierà con li vizj, ò con le virtù, fe darà orecchie a’yizj , & in ispecie al proprio interesse, gli dirà, che tutto può fare, fe alla Giustizia , se non quello , che deve, ch'è convenevole, e giusto, arriverà all'accennato passo dell'ignominia si fermerà per iscaricare ivi tutti i vizj, con tutto quello, che di vizioso fi ritrovi nella ricerca generale, che ti farà della nave, e se per disgrazia di chi ivi s'imbarcò, Coffe ftato guadagnato da? vizj, e fossero questi in detto viaggio divenuti arbitri della sua volontà, resterà ivi tutto l'acquisto fatto,come cosa proveniente dalla loro viziosa industria, e quel, ch'è peggio, ne seguirà del mifero passeggierofatto schiavo, ciò, che successe à chi navigò nel bastimento felice, le povere virtù con l'infelice forte abbandoneranno chi le tradì, chi le vilipese, e se n'andranno altrove à ritrovare chi meglio le tratti. Succedendo poi diversamente, è cie  l'in  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] F 2  [ocr errors][ocr errors] l'imbarcato abbia fatto tutto quello che gli fu suggerito dalla virtù fattosi il sudetto espurgo, e lasciati ivi tutti i vizj, proseguirà la nave il suo viaggio verso il porto della felicità, dove appena giunta, che si scaricherà tutto ciò, che fi porta al Tempio dell'Eternità, e lo presenterà la Gloria avanti il Tribunale della Giustizia eterna, che ivi à tal'etfetto presiede, domanderà questa, se quel tributo, che si offerisce sia stato in alcun tempo inescolato con robbe viziose , & inferce , risponderà la Gloria , che quantunque fia venuto accompagnato da' vizj, nulladimeno, che sia Rato già espurgato à bastanza nel pallo dell'Ignominia, dove tutto ciò, chew d'inquinato vi era , fù lasciato assieme con i vizj; non basta, risponderà la Giuftizia, è tributo, che ha avuto comercio una volta con cose infette, non deve andare à dirittura al Tempio dell'Eternità, fi consegni al Tempo , che gli faccia fare una lunga , e rigorosa quarantena onde bisognerà aspettare la discrezio  [merged small][ocr errors] ne del Tempo, quando le vorrà eternare!  Il viaggio poi, che fà la nave del Sole , è bensì più adagiato , perche que fta non naviga à tutti i venti, hà delle tempefte , mà le supera, perche la regge la Prudenza; non fà grandi acquisti, mà fono sicuri, perche li regola la Giustizia, nel passo dell'ignominia non si ferma punto, perche non hà seco li vizj, che la facciano trattenere per il loro sbarco, giugne finalmente al porto della fesicicà, non avendo quanto si porta per offerta avuto in alcun tempo comércio con cose infette, e viziose , appena presentato dall'Umiltà senza pompa avanti il Tribunale della Giustizia, che questa fubitamente ordinerà , che si trasporti tutto al Tempio dell'Eternità , eflendo cose pure, e non sospecte d'inquinamento alcuno, e che fi registri ancora trà gli Eroi il nome di colui, che l'offerisce, ed ecco la sua fortuna divenuta già stabile, ed eterna, per goder’ancor'effa i favori dell'Eternità.  AveteAvere già sentito il tutto, ora siete in istato di deliberarvi, e di prendere quel partito , che vorrete per consiglio mio, imbarcatevi pure nella nave del Sole, se avete tutti li requisici necessarj, che sono abilicà, e buoni costumi, e se ne siete privi, procurareli pure à tutto costo, perche farerc più sicuri di portare  offerte , fe non molto considerabili, alimeno sincere, ed affai gradite dall'Eter  nità, se lo farete di controgenio : Durum eft confcendere navim ; sappiare però, che è un quieto vivere, dove l'ainbizione non perturba la fantasia, l'ira non rode il cuore, l'invidia non consuma le mi. dolle, la superbia non accieca , e dove finalmente tutti gl'altri vizj non possono punto nuocere, ftantechè non vi dimorano, l'ingresso vi parer à duro, mà il rimanente vi riuscirà felice, e quando non aveste altro motivo di sceglierla, vi doyria animare å farlo , che Ippocrate per andare in Abdera à cercare la sua forte non fi fervi della nave felice, nè di Giano, mà benisi di questa del Sole, e la  :  CO- .  [ocr errors][ocr errors] comendò non solo prima d'averla provata, mà molto più dapoi, dicendo; (b) Cui cum Solis figno, etiam fanitatem apponito cùm re verâ , prospero numine vee la fecerit . E certamente, che prospero numine ancor in questa si navigherà per, essere regolata dalle sole virtù.  Se poi sarete risoluti di cercare la vostra forte sù la nave di Giano, procurerete almeno di non navigare à curti li venti, e terrete frenato il vostro inte. resse,acciocchè quando la Giustizia non potrà navigare , esso non ordini il disancoramento, e che quando la Sincerità vorrà operare, allora l'Adulazione non la turbi, e finalmente difautorerete tutti li vizj, che ivi ritroverete, e li porrete in catena , come tanti schiavi, altrimenti sotto specie, ed ombra di virtù v'inganneranno sempre: Fallit enim vitium fpecie virtutis,  umbra. Operando voi in questa maniera, acquisterete più gloria, che se navigate  nella (b) In 1.6 2.epift. ad Damagetum.  F4  [ocr errors] nella nave del Sole, perche vi farete saputi ancora difendere dagl'inimici domestici , e la vostra fortuna restando ammirata del vostro inodo d’oprare , vi sarà molto propizia , e gli darete voi medesimi stimolo d'invigilare à vostro favore, vedendo , che operate per eternarla; sappiate però, che in tutto il tempo di detta navigazione, vi converrà stare vigilantissimi , e non meno di quelli, che passeggiano sopra precipizj, mà à far questo hoc opus : bic labor eft.  Da queste trè figurate navigazioni, comprenderete non solo ciò, che nel corso di vostra vita vi potrebbe accadere, mà il modo ancora di schivarne ogni finiftro, che fosse valevole à ritardarvi l'acquisto della buona fortuna , perche se voi da bel principio vorrete darvi in preda a' viziosi piaceri , che progreffi mai potrete fare ? E che fortuna prospera potrete conseguire? Ed incominciando una volta à gustare le viziose delizie , non avrete più palato capace di assaporare il nettare delle vir  tù;  [merged small][ocr errors] [ocr errors][ocr errors] tù ; la malizia, l'inganno , e la frode vi sosterranno sino che gl'è à grado , mà alla tine avendo conseguito ciò, che bramavano da voi , vi lasceranno cadere, anzi forse ajuter anno, come fanno l'infidi compagni, nel precipizio maggiore delle miserie, nel quale ritrovandovi, di chi vi dovrece lagnare? forse che della vostra mala sorte innocente , quando, che voi medesimi ne licte stati glautori. La vostra fortuna non ha mancato , ella troppo hà fatto per esservi propizia, ambiva di favorirvi, mà voi all'ora la tenevate lontana, perche credevate, che il trovarvi in delizie, in ispafli, e viziosi divertimenti, fosse il miglior negozio, che potreste mai fare : E se talvolta v'infinuava la strada delle virtù con qualche stimolo interno , voi la rigettavate con dispreggio , onde meritamente esclama contro costoro Ippocrate : (c) Indoetus autèm qui eft , quomodò fortanatè affequi poffit? Si quid enim etiàm affequatur, non Memorabilem fanè fucceffum babebit ; Qui  enim (c) Hippode locis in bom.  3. A  3  [ocr errors] cnim non rectè quid facit , non fortunate affequi poterit , quum reliqua , quæ æquum et facere, non faciat;cd altrove :(d) Ego verò ut fortuna quidem quavis in re non nibil tribuo , ità certè cenfeo malè à morbis curatis , ut plurimùm adverfam fortunam contingere ; e nell'epistola à Damagero così dice, parlando di simili sfortunati viziosi: Eorum res adversas derideo,eorum infortunia intento rifu excipio. Veritatis enim instituta violant.  Se poi vorrete seguitare la strada di mezzo, e mantenervi amico delle virtù senza discostaryi affatto dalli vizj, e questa con tutto sia meno pericolosa, non è molto sicura , perche quantunque in essa farete più ricchezze, stante il fecolo corroto, il buon nome non l'acquisterete stabile, e di lunga durara, edin conseguenza incostante farà la vostras fortuna , inercèche tutti quegl’artifici usati, quelli difettucci d'adulazione di qualche bugiòla à tempo, e di quelle mormorazioncelle coperte, di quel zeloaf(d) De Arteaffettato, e giustizia con il secondo fine, modi più tosto appresi da Correggiani ozioli, che da buoni Maestri, scoperti , che saranno dagl’uomini di stima , e di senno, questi vi perderanno quel concetto, che prima avevano di voi. Oltre di ciò, che vita mai infelice sarebbe la vostra, dovendo servire à due Padroni Deo, Mammona : Deo, ch'è il Protettore delle virtù, & Mammona de' vizj: Nemo poteft duobus Dominis fervire , Deo,  Mammond . Mà dato ancora il caso, che vi riusciffe di farlo, che vantaggio ne ricavereste mai, mentre le dolcezze dell' ingenuità ve le amareggierà l'adulazione, quelle della giustizia ve le dissapo, rerà il proprio interesse, quelle del zelo l'attolicherà il secondo fine, vivereftę continuamente inquieti , stando sempre vigilanti, che non si scoprissero li vostri difetti, perche vorreste passare per ingenui , e non sareste , per giusti, e prende reste ogni arbitrio contro il dovere, con qualche cosa di vantaggio -; ficchè il partito più sicuro farà di vivere lontani  da,  1  da'vizj, e starsene con le fole virtù ; perche quantunque le ricchezze non vi pioveranno addosso da per tutto, nè l'aura popolare vi porterà molto in alto, con tutto ciò quel buon nome, quel buon concetto, che formeranno di voi gl’uomini sensati, non vi sarà mai tolto, durando sempre stabile ; perche è fondato sù le vostre virtù, permanenti sù il vostro onore immutabile, che est Splendor virtutis , come S. Ainbrogio negli Officj asserisce. Onde voi operan+ do bene otterrete la sorte stabile, conforme ve lo predice ancora Ippocrate, (e) dove così parla : Fortunatè enim affequi eft re&tè facereshoc autem qui sciant faciunt , e d'avantaggio, viverete con una somma tranquillità d'animo,perche goderete tutto quel gran dilettoyche apportano le virtù a' loro seguaci, non potendosi ciò per altra via conseguire, mentre: (f) Semita certè=Tranquilla per virtutem patet unica vitæ ; nè per questo non istabilirete la vostra casa, anziche 1  le). Deloc.in hom. [f] Juvenalis forira 10:  me  ز  meglio degl'altri, e per due ragioni, la prima, per avere fatto li voftri acquisti onoratamente con le fole virtù; l'altra poi, perche il mondo non è così spopolato d'uomini, che amano, e seguitano le virtù, quanto da alcuni si crede, effendovene di molti, onde voi, che se guitare questa buona via ò sarete pochi, ò numerosi ; se pochi, viverete bene,  perche da molti Tarete stimati, fe poi į farete numerosi, converrà, che li viziosi  ancora , ch'avranno bisogno dell'opera vostra s'accommodina alli vostri retti costumi.  Caminando dunque voi per la via delle fole virtù , potrete senza fallo conseguire la vostra buona sorte, e por trete allora dire çon ragione : Nos te,  Nos facimus  fortuna Deam, coloque locamus •  Dove che caminando voi diversamente,  appena vi sarà permesso il poter dire :   Nos facimus fortuna Deam , mundos que locamus,  Stan  [ocr errors] Nos te ,  Stanteche appena  sù l'aura popolare iftabile, in tal caso, la potrete appog. giare, nella quale non si curò punto Ippocrate di fondare la sua fortuna, come da più motivi si ricava, c primieramente, da ciò, che scrisse egli à Democrito, manifestandogli, che dal volgo, disprezzatore delle buone opere, aveva ricayato più tosto riprensione, che onore, con che fà credere, ch'egli non procurava có compiacergli da cattivarselo, affinche aveffe detto bene di lui, e l'avesse onorato, perche la sua politica solo consisteva, in operare, conforme si doveva, ed in far ciò, che solamente era decente al vero Medico, conforme fi spiegò nel primo de' suoi Aforismi in tal guisa : Se ipfum præftare oportet, quæ decent facientem; e ciò in termini prù preciâ l'individua affai meglio in altro luogo , (8) dove così dice : Neque verò gratiam, qua tibi homines demerearis subtrabo , cum fit Medici præftantia digna , eorum autem, que per Instrumenta adhibentur, & de  mon  (8) Hipp in lib de præcepto  monftrationis eorum, quæ fignificant , reliquarumque ejusmodi memoriam adeffe oportet, quod fi vulgi tibi audientiam comparare voles, id non valdè gloriosè insti. tuas , neque tamen cum ostentatione portia. câ fiat, industrie enim impotentiam arguit, neque certè probo induftriam multo labore partam in alium ufum transferri , quod per Se fola ut eligatur grata fit ; Inanem enim fucı laborem cum ambitiofà oftentationes tibi impones.  In oltre tal verità si ricava ancora , dall'aver egli ricusato il servigio del potentiffimo Rè Artaserse, mentre certa cosa'era, che se avesse desiderato d'acquistare l'aura popolare , non doveva egli ricusarlo, poiche ritrovandosi in un tal posto, senza dubbio alcuno tutta la Persia saria corsa ad onorarlo, niuno averia potuto più dir male di lui per tema di non incorrere nell'indignazione del Rè potentissimo Artaferse, onde con averlo ricusato dà à divedere, che egli non fi curava punto di dett'aura popolare, nè delle ricchezze, e fortuna, che dacssa provengono, conforme apertamente fi spiegò nella lettera scritta alli Abe deritani, dicendo ivi: Ego verò fi omnibus modis ditefcere voluifem viri Abderia tæ , nè decem quidè m talentorum gratiâ ad vos venirem, fed ad magnum Perfarum Regem proficiscerer , ybi &c.  E per far conoscere meglio à tutti, ch'egli non caminava per la via dell'aura popolare, nè delle ricchezze, mà bensì per quella della sola virtù volle portarsi in Abdera , folainente per visitare, e trattare con Democrito, e questo perche lo faccffe lui medesimo lo confesso, dicendo : (b) Eum autem gravibus , firmis moribus ele præditum intelligo ; talmente, che stimò egli fortuna maggiore quella, che sperava ottenere con trattare con un'uomo di questa sorta , per apprenderne da esso qualche buon dor cumento, non solamente de i dieci talenti offertigli dagl’Abderiti,inà ancora di tutte le ricchezze, e grandezze insie: me della Persią, & udite con quantan  chiz (h) in etir. Abderit.  [ocr errors] chiarezza lo dice : (a) Rex Perfarum nos ad fe vocavit nefcius mibi potiorem of fapientiæ , quàm auri rationem .  E finalmente , acciocchè meglio comprendiate , che quanto v'hò detto intorno alle trè strade, che vi sono per cercare la fortuna, o qual di queste dobbiate scegliere, s'uniformi sempre più con i sentimenti del gran Maestro, confermiamolo ancora con l'accennate trè vie di cercare la fortuna , contenute in detta lettera. Primieramente con il quomodocumque ditefcero ci addita un bivio, cioè tanto la strada, che conduceva in Persia , à fare acquisto di cesori, e grandezze considerabili, che quella di Abdera , che allettava all'acquisto di dieci foli talenti ; La prima di queste egli non la ftimò à proposito, perche conduceva in paesi barbari, inimici, e dove vi era la peste ; La seconda nè tampoco , perche dubitava, che quel vizio dell'inte, resse, que' dicci talenti, avessero possuto rendere servile, e schiava la sua virtù,  G  cosa (a) Hippo in epiß. Denetr.  cosa fece egli per battere su'l sicuro, fi fabricò la terza via, espurgata da ogni vizio, e prima d'incaminarti per essa la descriffe in tal guisa all’Abderiti: Mihi verò ad vos venienti , non Natura , neque Deus argentum promiserit . At nequè vos [viri Abderite] per vim obtrudite, fedlia berè artis liber â elle finite operâ . Qui autem mercede operam fuam locant, hi fcien. sias, tamquàm ex priore libertate manci. pio dantes , fervire cogunt .  Oh Ippocrate, se questi tuoi documenti fossero stati mai dati à rivedere à quel Quinto Petilio Pretore Urbano, à cui pervennero in mano i libri del dia finganno composti da Numa Pompilio , certamente che,ò l'averia fatti brugiare, conforme che fece quelli, o pure ti averia fatto quel favore , che fecero gli Abderiti al suo Democrito, che lo dichiarorno pazzo, e fi faria servito come Precote delle seguenti cognecture per dichiararti cale, primieramente avrias dedotto contro di te, che tu per portarti da Democrito, da cui non potevi sperare bene alcuno, perche appena aveva un Platano, che lo difendeffe dal Sole, ed un sedile di pietra, dove potesse sedere, mostrasti smoderato desiderio d'andarvi, conforme costa nella prima lettera scritta à Damageto , dove così dicit Navem ad nos mittito , fed fi fieri poteft, Hon remis , fed alarum remigio instruct amo res enim, eu amicitia urget. In oltre, che per  benc  andare in Persia , dove, oltre offerte sì grandiose , eri tanto desiderato da un Rè potentissimo, cu fosti prontissimo à rie cusar la chiamata , conforme costa nella lettera da te scritta ad Hiftano, senza riflettere , che quel potentissimo Rè poo teva distruggere la tua Patria per tua cagione. Chi dunque procura , ed effettua con tanta sollecitudine, ed anfietà una cosa, che non gli può recare profitto alcuno , e ricusa con altrettanta prontezza ciò, che gli può moltissimo giovare, senza considerare ciò, che può sopravenire di male dal ricusarla ; certamente, ch'egli si può condannare per pazzo. Saria stata però troppo ingiusta  que  [ocr errors] quefta sentenza di Petilio , quando l'avesse cosi pronunziata , poiche per condannare un'uomo savio per pazzo, prio mierainente si ricercano più rilevanti prove di queste : in oltre bisognava dargli le sue difefe', in cui deducesfe lc sue: ragioni prima di condannarlo, nelles quali faria stato dedotto, primieramente, che non sussisteva in fatto, che da Democrito non se ne poteva sperare bene alcuno, costando dall'Ippocratica confeffione , quanto mai di bene egli ne ficavasse , ch'è questo: (b) Tum ego  Democrite præftantisime magna hofpitalitatis tud munera mecum in Co reportabo, cùm multa me fapientia tua admonitione compleveris. Prçco enim tuarum laudum rem vertor, quod natura humana veritatem inveftigasti, a mente complexus es; Acceprâ autem à te mentis curatione discedo ; La grand'ansietà dunque di andare à fare simili acquisti, non era indizio di pazzia, ma bensì di somma prudenza , di sommo giudizio. Che poi per noneffere andato in Persia foffe censurato a torto è chiaro, mentre non avendo alcun bisogno di quanto gli poteva da ciò risultare, conforme egli confesso: (c) Nos vietu, veftitu, domo, omnique read vitam neceffariâ cumulatè frui ; Perfarum autem opibus uti , nequè mihi æquum eft; non doveva esporsi di andare à fervire popoli barbari , ed inimici, e quanto erano maggiori l'offerte, che gli faceva. no , tanto più lo costituivano loro schia, vo. E quando vi fosse andąco, cosa mai averia riportato? Oro, argento, onori sommi, e grandezze, e quetti potevano paragonarli all'acquisto, che fece, con Democrito, di dottrina, e faviezza di mente maggiore? Ed essendo egli andato per curare uno creduto pazzo, per cagione di quel medesimo ei ritornò più savio, e più dotto di quello, che era prima ; e da ciò fi può dedurre quanto mai bisogna stare cautelato à dichiarare pazzi coloro che non sono potendo queIti tali talvolta illuminare ancora i Savja  L'or(c) In epif. Hylani.  [ocr errors] L'ottima dunque di queste trè ftrade fi scelse Ippocrate , per acquistare la sua fortuna, e Pottenne profpera, stabi. le, ed eterna i poiche fino, che il mondo durerà, la fua fortuna ancora sarà ri. fplendente; per questa voi dunque vi dovete indirizzare le volere effere suoi veri seguaci, e questa ancor meglio la scorgerete, dapoi, ch'avrere nella Giornata di domani udita la gran deformi. tà de' vizj, ed il danno grande , che possono apportare questi al Medico, che caminasse per quella via , giacchè conto traria juxtà fe pofira magis elucefcunt ,  GIOR  [blocks in formation] Nella quale si tratta delli vizj , mostrando  quanti pregiudizi poffona apportare al Medico , e le in lui alcuni di esli pana fcufabili , almeno quelli, che sembrano Ermafroditi.  [ocr errors][merged small] Na dura , ed ardua Provincia og  gi intraprendo per voi, dovendo parlare contro la corrutela del tempi,  ' lati, e contro uno stile già invecerato , con tutto ciò bramando voi sapere da me il vero per non ingannarvi, dirò con Seneca ; (f) Quaramus quid aprime fa&tum fit, non quid ufitatissimum, & quod nos in poffeffione felicitatis eterna conftituat, non quod vulgo veritatis peffimo interpreti probatum fit.  Vorrei potcre scusare ancor io li vizj, conforme fanno quelli, che li rimirano solamente mascherati con gli abiti delle virtù à fine di consolarvi, sc  cofa  G4  [merged small][ocr errors] [ocr errors] 104 Dell'Idea del vero Medico. cosa difficile vi sembrasse mai il poteryene affatto spogliare. Per esempio ricoprono la bugia con il manto della prudenza , e dicono, ch'è prudenza di celare all'Infermi la verità, perche ciò fi fà per loro bene , acciocchè non si contristino maggiormente del male, che foffrono. Gli adulano ancora talvolta se defiderano qualche cosa , che non competa loro, con tutto, che possa molto nuocere, sotto pretesto d'aver carità, ed à fine, che vietandola non s'inquietino maggiormente, e così vanno ricoprendo molti altri vizi per renderli familiari, e meno deformi . Mà perche hò promesso di parlarvi con chiarezza, e fincerità, non potlo, nè devo adularvi. Li vizj li dovrete cenere per vizj; e le virtù per virtù : Li vizj, e le virtù le dovete considerare , come due linee p2rallele, che non possono in alcuna delle loro particombagiarli, come due contrarj diametralmente opposti, che non possono tra loro convenire; Dovete con. fiderare li vizj come mostri spaventofi ,  che  che avvelenano con l'alito chiunque ad effi fi avvicina , come dunque ardin, Tete d'accostarvi ad essi per ricoprirli?  Mà conceduto ancora , che si poteffero mai travestire, ditemi di grazia, viaggiorefte voi con una comitiva di ladroni, benche fossero travestiti in abito di gatantuomini, caminereste sicuri di non effere offesi da essi, con tutto, che fossero sì civilmente adornati a Certamente mi risponderece di nò: Tali apa punto fono li vizj, poniamoli addosso quelmanto, che volemo, e questo non facendoli mutare il loro perverfo costume, sempre vizj saranno, sempre nuoceranno di molto ; E siccome li Leoni, e le Tigri per quante carezze loro fi fac ciano mai deporranno la fierezza, cosi ancora al parere di Seneca: Vitia nun, quàm bona fide manfuefcuniş trasmutateli pure in che sembiante volete, anzi, che essendo questi travestiti , faranno de danni peggiori, perche non potendosi conoscere per vizj à prima vista, non li potranno subitamente scacciare da chiKabborrisce, onde ancora trà questi ayeriano all'ora maggior campo libero da machinare le loro infidie, ed acciocchè meglio putiare scoprire li loro tradimenti, contentatevi, che ve ne descriva qualch’uno di quelli , che nel Medico fono più decestabili, e nocivi, con pers mettermi che non servi quell'ording solito à praticara da chi tratta di esli , perche essendo fregolati non meritano di effere trattati con buon'ordine, ba. standomi solo di farvi capire la loro deformità, c quanto erano mai da Ippo, crate odiari, e creduti nocivi al vero Medico, mentre giudicò essere parte di buona Medicina il saperfi:(8) Qua faciunt ad demonftrandam incontinentiam quæftuofam, & fordidam Professionem ixexplebilem habendi fitim , cupiditatem, de traditionem, impudentiam , fiquidem iftas Spectant ad eorum cognitionem dc.e non già à fine di seguitare , må bensì di fug. gire fimili diferci. La bugia, inimica scoperta del ge  nerc (g) De decenti babita.  nere umano, come tratta li suoi fidi re. guaci & Li separa, scoperti che sono, dal publico, e privato commercio de viventi, fà, che niuno presti loro più fede, gli costituisce infami, e li pone il più delle volte in evidente pericolo di vita, facendoti publicare ciò, che non fù mai verità, e questa come si potrà scusare nel Medico in ispecie, in cui ella è reato più grave, che non è in altri Profeffori, sì di Legge, come ancora di Teologgia, e che ciò sia, veniamone alle prove, Dica una bugia il Procuratore al suo Cliento gli potrà pregiudicare nella robba, venendo talvolta à perdere mediante quella la sua lite ; La dica un Teologo, che abbia di già prevaricato, à chi è da lui diretto nello spirituale, gli farà perdere l'anima ; La dica il Medico al suo Ammalato, gli farà perdere la robba, la vita, e l'anima insieme , ed ecco l'esempio chiaro: Dica il Medico al suo Infermo, il di cui male si avanza : Lei stia di buon'animo, che la sua infer. mità non è di gran momento , li segni  non  [ocr errors] nonsono mortali , Ella guarirà , fi fidi di me, viva pure sicuro, e riposato ; mediante questa bugia l'Infermo non pensa a' casi suoi, non aggiusta le partite dell' anima, che premono tanto, non fà téItamento, non dinunzia li suoi crediti, è ripostini segreti, non accresce diligenze, acciò la sua cura sia allistita da Me. dici più esperti, si avanza tanto in un tratto nel male, che si sopisce, o sų aliena di mente, resta incapace à fare cosa alcuna di proposito, e se ne muore, ed ec  che ha perduto la vita , la robba, e l'anima ancora, se per ispeciale grazia di Dio non fù illuminato à pentirsi de' suoi peccati prima , che diveniffe incapace à poterlo fare, e questi sono trè reati nati da una sola bugia, la quale benche dete ta à fine di sollevargli lo spirito, in vece di ciò gli hà cagionato un'improvisas morte, per lui così svantaggiosa. Dis spongono le leggi, che li delitti sono maggiori, e più qualificati, quando li delinquenti ne hanno commessi numero maggiore, è della medesima fpeçie, ò  CO,  equivalenti, ficchè calcolandosi mag. gior numero di tali reati nella bugia del Medico, che in quella del Legista, e del Teologo, in conseguenza viene , che è più grave delitto la bugia nel Medi. co , che negl'altri due sopr'accennati Profeffori. In oltre se il Medico, per persuadere al suo Infermo, acciò prendesse con maggior fiducia il rimedio da lui propostogli, affermasse, che quel medesimo avesse giovato ad altrui, e ciò non fosfe vero , rincontrandosi poscia la verità, in che discredito rimarria ape preffo à cui disse tal menzogna, certo è, che non lo terria in avvenire più nel numero de' veri Medici, mà bensì di parabbolani,de' quali Ippocrate cosi disse: (h) Virtutis apud ipfos modus eft , id quod deteriùs eft, mendacii enim ftudium exercent ; e parlando de' Medici menzogneri così disse: (i) Quapropter veritate nudati, omnem improbitatem, ac ignominiam ing duunt. L'adulazione è vizio, che s'infinua  dol(h) In epiß. Domag. (i) Dedec.bablik,  dolcemente, e con galanteria , è un veleno , che fi beve fraposto con un'apparente netrare, e questa parimente nel Medico cresce in qualità di reato, posciacchè dica qualsifia altro Adulatores à taluna, ch'è deforme, non meno di aspetto, che povera di abilità.: Voi Giete una bellissima, una compitissima , egalantiffima Giovane, fiete eccellente in molte cose; nelle quali non avete chi vi fuperi ; le darà compiacimento bensi con formo suo diletto, ma non l'ucci derà ; Dica il Medico ad una sua Infer. ma, che desidera gustare un grappolo di uva: V. S. ne puol mangiare un poco , perche bisogna condescendere qualche volta al desiderio dell'Inferma , quod face pit nutrit , lo faccia pure liberamentes Se la povera adulata Inferma lo farà, non folamente vi averà compiacimento, e diletto per allora , mà poscia potrà ancora morire per tal cagione, non è quem sto caso già da me inventato, mentre si legge in Ippocrate seguito nella figlia di Eurianatte, che per aver gustata l'uvale crebbe non solo notabilmente il male, mà se ne morì, dice egligdoppo di avere narrato, che l'era sopragiunta la refrigerazione delle parti estreme il delirio: (1) Ifta autèm ut ferebant ex deguftata uva huic contigerat ; potrete dunque voi nel Medico scufare l'adulazione omicida per conciliarvi la grazia dell'Infermo ? Risponderà Ippocrate certamente di no, perche dice egli in termini precisi dell'adulazione nella regola dal vivere: (m) Is velut res horrenda vitari debety a gratia vitanda per quam unitas deperit.  E non solamente è reato gravissimo nel Medico l'adulazione in ciò, che riguarda la regola del vivere, mà ancora nel prescrivere medicamenti . V'incontrerete in molte contingenze, nelle quali gl'Infermi , ò glastanti proporranno riinedi, ed il più delle volte quegli, che non saranno à proposito, in questi casi avvertirete bcnc à non adulare il genia di chi li propose', mà doverete fare ciò, che il bisogno richiederà, e non altri  menti: (1) Epid.lib.3./46.2.egroting (in) Do pracipe.  [ocr errors][ocr errors] per adula  menti: Conforme ancora, se venendo  proposto da altri Medici ciò, che non vi  parerà essere profitcevole all'Ammala-  to, in tal caso non dovereste  zione tacere, e lasciar correre ciò, che  fù proposto da altrui , mà bcnsi con tut-  ta civiltà addurre li vostri motivi, cra-   gioni, che avete in contrario, à fine  venghino esaminati,essendo questo l'ob-  bligo de veri Medici, conforme Ippo-  crate insegnò, dicendo: (n) Qui quid-  quid do&trinâ acceperunt in medium profen   & facultate dicendi utuntur , ad gratiam comparati, & pro gloria,qua indè provenit decertare parati,doctrinam fuam ad veritatis lucem repurgantes.  Dell'Ateismo vizio esecrando non ve ne saria d'uopo parlarne , perche egli è cosi repugnante, che chi hà uso di raa gione mi pare assai difficile vi poffa in effo cadere, con tutto ciò, perche certe proposizioni, che sparse, e feminate alle volte fi ritrovano in alcuni libri, che vengono da lontani paesi, potriano alle  menti (n) De decohabitu.  runt ,  1  0  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] inenti di voi, che volete volare troppo i alto,recare qualche disturbo, non istimo  superAuo di dar loro sopra ciò qualche  luine, à fine stieno più circospette, e  cautelare, e particolarmente nel sentire  certe proposizioni dirette à ridurre le   operazioni animaftiche alla sola machi26 na, e struttura del corpo fatta dalla na  tura, con sì mirabile artificio, guarda  tevene pure da queste , perche hanno de l'ateismo nascosto, e tenete fermo, che en vi voglia sempre un primo Movente di  . ftinto, e separato dalla struttura, perche de quantunque la detta struttura fia necef.  faria alli moti interni, ed esterni , nulla-  dimeno senza il primo Moyente, che è   l'anima rationale nell'uomo , cessa ogni li moto regolato, come si scorge chiara.  mente ne' cadaveri, ne' quali con tutto,  che rimanga la mirabile struttura , sepa-       rata ch'è l'anima dal corpo iyi ogni mo-  le     to regolato finisce.   Nè solamente nel leggere ciò , che viene scritto converrà stare cautelati, e circospetti, mà ancora in quello fi sente  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] riferire intorno alle pazzie di coloro , che, per essere reputati di singolar dottrina , tralasciorono di credere ciò, che dovevano, perche non capacitava le loro meni materiali, se non ciò, che con li propri occhịrimiravano, ò palpavano con le loro mani, contro de' quali Sant' Agostino fortemente inveisce, chiamanı doli uomini di carne.  Spero dunque, che per quanto leggerete di male in questo genere , ò sentiFete dire, non diventerețe così pazzi , che vi vogliate assomigliare alle bestie , Je quali, in ciò, che riguarda il dare un minimo contrasegno interno d'eternità, punto non s'assomigliano all'uomo,mentrechi mai di effe ha saputo ritrovare il modo di scolpire, ed intagliare l'effigie brutale di alcuna della sua , ò d'altra fpecie, come seppe inventare l'industria umana? ed ancora in durissime pietre , per conservarla visibile, tale quale appunto ella fù vivente, per secoli innumcrabili? e ciò donde è proceduto ? se non da quell'interno desiderio , che  l'uo  )  [ocr errors] Puomo hà in fe fteffo d'eternità.  L'Ira è un vizio, che deforma li suoi seguaci, li quali conforme diffe un sayio Letterato, molto da me stimato, eriverito, fe questi li potessero rimirare nello specchio , allora, che sono nel suo furore, yedendosi divenuti così deformi, e trasfigurati in mostri,odierebbono,non solamente cal vizio , anziche se medesimi; Modo tenuto dalli Spartani,che per fare concepire orrore all'ubriachezzas conduccyano li loro figliuolini in certo tempo dell'anno, nel quale fi concedeva libertà d'ubriacarsi, in luogo publico , affinche questi vedessero , che deformę spettacolo cagionava tal vizio, per concepirne in avvenire di esso maggior spavento . Voi dunque per meglio apprendere à che segno dobbiate tenere lontana da voi l'ira, non accaderà velo moftri con parole , essendo di maggior efficacia , che rimiriate con li vostri propri occhi , in chi si trova adirato, più al vivo una tale, c tanta deformità, giacchè:  H 2Segnius irritant animos demiffa per  aures  [ocr errors] Quàm quæ funt oculis subiecta fide  "libus, E così comprenderete meglio ancora , se tal vizio sia tollerabile nel Medico, che deve avere sempre l'animo compofto , conforme comanda Ippocrate de Medico : Eum quoque spect are oportet, ut animi temperantiam excolat, non taciturnitate folùm , verùm etiam reliquâ totius vita moderatione , quod ad illi comparandam gloriam plurimum affert adjumenti ; e più chiaramente, ancora lo comanda in altro luogo, (a) dove dice: Ne quid perturbato animo facias ; Ed è la cagione appunto di ciò, perchè il Medico, che deve invigilare con somma attenzione alle cure de' suoi Infermi, non deve avere la mente turbata, per poter meglio discernere li partiti megliori, e più profittevoli, che dovrà prendere à prò de fuoi Malati, ed à tale effetto Ippocrate comanda, che sia incombenza del Medi  co (a] Inlib de decora.  co il sedare litumulti, ordinandoli ef pressamente:(6) Tumultus verbis caftiges, G ad omnia fubminiftrandi te prome  ptum adhibeas.  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Converrà però prima in voi medesimi se mai foste dall'ira predominati, che sediate li vostri interni cumuli, per poter muovere più facilmente glaltri con il vostro buon'esempio ad imitarvi.  Mà vi sono alcuni Iracondi, che credono essere cosa nociva alla salute il ceprimere in un subito li loro primi moti, onde per tal cagione lasciano termin nare il loro corso : Mà quanto questi s'ingannino lo fà vedere Ippocrate con dire :(c) Ira contrabit , cor, pulmonem in fe ipsa, din caput, & calida , bumidum; il qual testo Vallesio così la spiega : Ira eft furor fanguinis circa cor c. hinc  fit ut fervente Sanguine,cor , pulmo , & caput calefcant , & repleantur. Nimirùm fanguis fervore tumet, & venas, arteriasque tumefacit, fed ob vebementem calorem, qui illis in locis eft, co contrabitur  ubi[b] Dodec.hab. [c] 6.Epid.fe5.4.,  [merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] H 3  ubique fanguis. Undè fit, ut multis ob iram oculi, du vene frontis intumefcant, & tota facies rubore suffundarur , eo tempora pulfent , & caput doleat , quin do febris fuu perveniat . Si persuadono dunque questi, che gl'accennari danni che cagiona l'Ira à parti sì principali, sia più vantaggio di pazientarli, che di rimuoverli?  Onde non dovrete in conto alcuno farvi dominare dalla collera, e non solamente per quello che riguarda la buona direzione della cura, mà ancora li vostri proprj avanzamenti, stanteche quel povero Infermo pur troppo annojato dal suo male , avvedutofi, che ancor voi gli accrefcere moleftia, adirandovi per ogni piccola cagionc,se ne disfarà facilmente per non potervi più soffrire.  La Superbia nella Medicina à che segno sia deforme riflettetelo in Menecrate Medico, che insuperbito forfe per effergli alcune piccole cure riuscite felici, ed ayer sentito dire, che Esculapio, in quei tempi rozzi per tal cagione fù annoverato trà Dei, egli volendolo su  pe  [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][merged small] perare, scrivendo ad Agesilao Ř è de Spartani ; pose nella soprascritta : Ager filao Regi Menecrates Juppitèr ; gli calzò bene però la risposta, che gli fù data da quel saggio Rè in tal guisa : Menecrati Medico Agefilaus Rex mentis fanitatem; nè fù ciò sufficiente per reprimnere la sua superbia , mentre riferisce Leone Sansio, (d) che : Eo furoris in hoc genere delatus eft , ut quofcumque liberaffet à morbo jurejurando anté sanitatem rcceptam adıētos , Jecum deindè benevalentes adduceretistatis temporibus tamquam  fervos; atquè jatellites, eâ tamen lege, ut alius quidèm Herculis insignibus indutus ; alius Apollinis babitum gerens ; alius Mercurii perfonam fuftinens , alius aliumi mutatus in Deum, Menecratem, utpote Jovem Optimum Maäimum Dii minorum gentium sequerentur. Onde converrà, che la teniate lontana da voi , per non essere stimati pazzi, e maggiormente quando vi troverete nell' auge delle vostre prosperità , perche allora la superbia molto vi potria nuocere,  fc [d] In Florid.9.prafat.  [merged small][merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged small] H 4  se foste da efla dominati, allora vi sforzeria à distaccarvi dalli vostri più antichi, e cari amici, solamente perche vi conobbero prima, che le vostre fortune incomincialfero : E pafferia ancora più oltre allora il suo ardire, fe ella potesse dominaryi à suo modo, meiltre vi faria prendere tal compiacimento di tutte le vostre, sì grandi, che picciole opere, come se fossero singolari, e da niun'altro fattibili à quella perfezzione, che voi fatte l'avrete, senza permettervi punto d'indugiare å formarne concetto, con forine far fi deve delle cose proprie , almeno fino a tanto, che dal tempo fiano tolte dalle mani dell'Adulazione, e pofte in quelle della libera sincerità, à fines che doppo averle ben confiderate dia loro il suo giusto valore, secondo il quale , e forse meno deve stimare le cores proprie, chi si trova in prosperità di fortuna , per goder egli il favore dell'adulazione. Onde in tutti gli stati , e maggiormente in quello di prosperità, nel quale sarete più oiservati da tutti doveteseguitare l'ottimo conseglio d'Ippocrate , (e) che dice : Medicum urbanitater quamdam fibi adjunétam babere convenit, affinche possiate effere da tutti tenuti cortesi, umani , e senza superbia.  La defiftimazione, ed il disprezzo del compagno è un vizio dependente dalla superbia, onde develi dal vero Me dico abborrire, al parere d'Ippocrare: Ne superbus , do inhumanus videatur ; E tanto più , che deve essere d'animo modesto, e cemperato , di ottimi coitumi, umano, e giusto, conforme egli giudicò nel libro de Medico : E se il Si. gnore diede à voi maggior talento degl' altri vostri compagni, perche nel coufronto, che ne fate, in vece di ringraziarlo, mostrate più tolto di biasimarlo, con dire, che difetraffe in non fare uguale à voi chi è d'inferiore capacità di voi, potendo il disprezzato rispondervi : Ipfe fecit nos, & non ipfi nos; Dunque, che colpa è la mia 2 E non avendo voi ragione da dotervene meco, prendeteveland  con Tel Dedec.org.  [ocr errors] con chi mi hà fatto ; sicchè fuggire pure   fimil vizio, che può ancora paffare più   oltre,inentre da quel disprezzo,da quel-  la disistimazione nascendone il discredi-   to del vostro compagno, chi sà, che non  vi facessero divenire pessimi Medici, fer-  vendovi di caloccasione per procurare  qualche servigio di colui, che fù da voi  posto in discredito? Olère di che;chi fos-  te mai di simile viziosa natura disprez-  zeria ancora bene spesso quelli piccoli  mali, che in breviffimo tempo possono  divenire giganti con non piccolo disca-  pito della sua esistimazione.        Qando mai potessero fcufarsi, che  non credo , in alcrui li vizj spettanti alla  gola, che sono la crapula, e l'ubriachez-  za , nel Medico sempre faranno molto  condannati, perche dovendo egli gior-  nalmente opporsi a' defideri depravati  de' suoi Infermi, con ordinar foro las  dieta, come mai potrà persuadergliela,  se non gli darà egli buon'esempio? Fa-  cendo più profitto questo di qualunque  ragione, al parere di Seneca, che vuole,   che  [ocr errors] 1  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] 20  che (f) Longum iter eft per præcepta, bre  ve, & efficax per exempla. E se poi de' la vostri disordini ne fossero stati spettatori in li vostri Infermi, come mai potreste per  fuader loro il contrario, di ciò, che voi seco faceste? Se volete dunque essere ub  bediti fiate fobri, e tali certamente dooi vrete essere, se non vorrete essere peg{ giori de' bruti stessi, perche conforme  riferisce Ippocrate:(g) Sitit quidem Aper, oli sed quantum aquæ appetit, Lupus vero di.  laniato quod Je se obtulit necesario alimento, quiescit; Mà quando tutto ciò non vi bastasse vi doveria far abborrire que fti vizj la sola rifellione, che questi poffono ó abbreviarvi la vita, ò per la meno  rendervela penosa, fino, che viverete. co  Non essendovi cosa nel mondo più nociva della Lussuria, chi potrà mai scue farla negl’uomini, quando, che la vedianio sì moderata , e sì ben' regolata dal solo istinto di natura in quasi tutte le bestie prive dell'uso di ragione , alla riserva folainente di alcune poche , trà  quali (f) Epift.6. [5] In cpif.Demag:  [ocr errors][ocr errors] ti  [ocr errors] quali vi sono quelle , che più s'assomis gliano all'uomo, che sono li Scimiotti, e Gatti mamoni, rare volte li bruti à confusione de' sensuali fi  veggono  do. minati da detto vizio, se non sono proffimi à quei tempi destinati dalla natura, per la moltiplicazione della loro fpecie, solamente il Lussurioso è più brutale di effi , che non ha in ciò  hà in ciò tempo determinato, essendo in ogni tempo dominato dal suo vizio, che lo consuma , & annichila, conforme riferisce Ippocrate : (b) Ep annorum quidem temporum ordo terminus eft brutis ad choitum, at homo perpetuò insano libidinis aftrostimulatur.  Qual'estro infano di libidine faria più , che in altri detestabile nel Medico, fe non lo sapeffe reprimere con la sua continenza , posciacchè dovendo egli giornalmente conversare con donne conforme avverti l'istesso Ippocrate:() Et omni horâ mulieribus , virginibus illi occurrunt; Sicchè Iddio guardi, ch'egli non corrispondesse con tutta fedeltà à  quella (h) In epift.Damage (i)  De doc.ork  [ocr errors] per ca.  quella somma confidenza , à cui  gione della sua profeflione; viene am-  meslo, diverria ogni suo trascorso reato  gravillimo, sì proprio, che della pro-  fellione isteffa , talınente, che l'innocen-  te Medicina ancora ne faria calunniaca.  Onde voi, che desiderate far molti pro-  grelli in essa , dovrete vivere lontani, e  detestare simil vizio ; Altrimenti perde-  reste ogni speranza di fare un minimo  progresso in effa ; Converrà dunque,che  fedelmente offerviate il seguente giura-  mento d'Ippocrate : Juro &c.fed castam,  bu ab omni fcelere puram, tùm vitam , tùm  ætatem meam perpetuò præftabo.   Ecercamente, che non dovrete fare diversamente, sì per li vostri avanzamenti, che per profitto delli vostri Infermi, mentreche, come mai potreste applicare con attenzione alli vostri vantaggi, alle cure de' vostri Infermi, se le vostre menti in quel tempo divagassero altrove, e fossero distratte in linili oba brobriosi pensieri ? Confido dunque,che con la vostra prudenza, e temperanza  [ocr errors][merged small] nonnon sarete per cadere in simili reati , che sono detestati da putti, per essere mancamenti commessi in mestiere di buona fede, conforme è la Medicina,  L'Ingratitudine è vizio ancor esso detestabile, per essere aborrito ancora dalle fiere, essendosi osservata tal’una di esse aver usata gratitudine al suo benefattore ; mà questa sarebbe ancora più detestabile, se nella Medicina seguisse , che lo Scolare si mostrasse ingrato al suo Maestro, mostreria certamente, è una natura molto perversa, ò di aver perduto l'uso di ragione, mentre qual gratitudine mai potria egli sperare, che non l'usò à cui tanto era tenuto, quali progrefli mai potria fare, allontanandosi da chi gli porge la mano per sollevarlo, e promoverlo? Credo,che un simile yizio, Ò Giovani generosi farà sempre lontano dalle vostre menti, conforme deve stare dalla mente di chi spera divenire Maestro, per il motivo di non aver à ricevere il fimile contracambio da' suoi Scolari, che stimolati dal suo mal'esempio faria  facile  facile loro riuscissero essi ancora ingrati.  Quindi è, chę Ippocrate per esimere li  suoi Şcolarida un fimile obbrobriofo ar-  tentato gli faceva obligare con poliza  e promettere con giuramento le seguenti  cose: Juro , & ex fcripto Spondeo planè  obfervaturum, Præceptorem quidem , qui  me hanc artem edocuit , Parentum loco ha-   biturum , eique cùm ad viftum, tùm etiàm  ad usum neceffaria , grato animo communi-  çaturum, & fuppeditaturum, ejusque poftea   ros apud me eodem loco   9.quo germanos fratres, eofque, libanc artem addifcere volent,absque mercede, fyngraphâ edoctu  [ocr errors][ocr errors][merged small] rum &c.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Da un'altra poco inferiore ingratie tudine spero vi guarderete voi, che ambite avanzarvi per la via delle virtù , & è, che se sarete da qualche vostro come pagno fatti chiamare à dar consiglio, ò in loro assenza sostituiti à curare tal* uno de' suoi Malati , non tramerete contro loro insidie , per subentrare in sua vece , stanteche tal’enorme ingratitudia ne, non è usata, fe non da quelli, che sono ignoranti, e che diffidano per la buona via delle virtù potersi avanzare ; e per tal cagione si servono di quella del vizio ; Onde con ragione consigliava Ippocrate al Medico à non prevalersi delli Softituti ignoranti , ftanteche de’loro errori ne resta debitore colui, che li propone, in questo caso però non ne re, steria punto debitore, poiche pagheria il mancamento commesso con la sua elpulfionc , & affinche non abbiate da ri, cevere fimile ingratitudine v'iinpegnerete quanto meno potrete di promovere ignoranti, e maliziosi ,  34 0  fono  e  €  L'Invidia, che per lo più proviene dalla mancanza di ciò, che fi desidera, è da altri si vede possedere , come la po. trere seguitare senza condannare voi stesi inabili à potere conseguire ciò, che bramate , avendolo potuto ottenere un' altro vostro compagno, questa non vi avyedete, che vi fà dichiarare da voi medesimi da poco, e codardi ? Onde impiegherete aflai meglio tutto quel tenipo,e pensieri,che malamente li spregano  [ocr errors][ocr errors] in invidiare il bene altrui, con cercare di conseguire ciò, che desiderate , per le sue yie proprie, & oneste, e credetemi, che questo vizio non regna se non negli animi vili, e codardi , trà quali voi, che avete abilità, e spirito vi dovete vergognare di esservi annoverati,e tanto maggiormente, che questi viziofi furono da Democrito giudicati ancora stupidi, ed ignoranti,allorche ad Ippocrate disse:(a) Et certè fufpicor pleraque in Arte tuâ aut per invidiam, aut per ingratitudinem palàm contumeliâ affici ; & in appresso dice , Cum fint ignorantes , quod melius eft dama nant , calculoruin enim fuffragia stupidis attribuuntur, nequè ægrotantes fimùl ap  probare volent, neque ejusdem Artis focii bi teftimonio confirmare , cùm invidia obfter  Gr. Veritatis enim nulla eft cognitio, nei què teftimonii confirmatio,  Ed è certamente cosa assai difficile, i che li seguaci di simil vizio poffino con  tenersi nel semplice desiderio di ciò, che da essi è invidiato, senza passar più oltre  [ocr errors] ne  (a) In epift.Damaget.  in procurarlo ancora , e con modi ignominiofi, anziche si serviranno talvolta della calunnia, e dell'inganno, per confeguirlo, e vi pare, che simili maniere fiano degne del vero Medico rationale ? Quando Ippocrate (b) giurò, che : Medicum ratione utentem, alterum numquàm invidiosa calumniaturum? Mà che siano modi praticati solamente da quelli, che Forensem quæftum fectantur , trà quali non faria convenevole, che voi fofte annoverati.  Mà acciocchè possiate mantenervi lontani da simile obbrobrioso yizio, sarà necessario, che vi dia alcuni utili avver. timenti, che sono: Vedendo yoi avanzare qualche vostro compagno nellinegozj,è cosa nacurale,che fentiate dentro di voi un certo stimolo, che incomincicrà da principio a farvi contriftare,e questo sarà appunto il primo seme, che insinuerà dentro di yoi l'invidia per farvi divenire suoi seguaci, di questo, affinche efla non trionfi di voi, è servitevene disprone per avanzarvi ancor voi, con   imitarlo, se il detto vostro compagno  opererà conforme si deve, ò di remora,  fe vedrete , ch'egli si avanza per la via  del vizio, ed in tal caso, con riflettere  solamente, che à voi non conviene d'in-  vidiare ciò, ch'è disdicevole al vostro  onore, detto seme verrà in un tratto di-  Itrutto. In oltre sappiate, che non do-  vete rimirare solamente l'efteriore com-  parla, che fà il vostro compagno, mà  ancora dovrete rillettere à quanti disag-  gi, che talvolta soffrirà egli per effajalle  fatiche eccellive,all'inquietitudini grane  di, alla scarsezza del tempo, ch'egli hàg  che gli toglierà ancora il riposo necessa-  rio, le quali cose se tutte le rifletterete ,  certamente in vece d'invidiarlo , più  tosto lo compatirete, e direte con Vir-  gilio :    Non equidem invideo miror magis.   A tempo di Seneca vi era un certo vizio vagabondo, chiamato da lui Core curfatio, che necessitava li suoi scguaci andar girando continuamente per las  I 2  Città  [ocr errors][ocr errors] Città allo sproposito cercando li negozi senza aver prima determinato nella loro mente quali, mà solamente quei, che à ventura si presentavano loro d'avanti, e questo tal vizio lo descrive  per  un'inquieta dapocaggine, un perdimento di tempo, con non altro profitto,che d'una certa stanchezza di corpo,acquittata per tanto girare ora in quà , ora in là.  Galeno, conforine egli riferisce nel principio del suo merodo , fù da alcuni di quelli, che pareva, che l'anassero più degl'altri , stimolato fortemente à seguitare questo vizio, dicendogli, che se non tralasciava d'essere tanto indagatore del vero, e non si accomodava allo stile di quel tempo, d'andar girando tutta la mattina, à visitare per complimento li Signori, e la sera d'andare à cenare seco, non saria stato amato, nè averia contratto le loro amicizie, riferendolo appunto in tal guisa : Me verò ex iis , qui me unicè diligere funt visi, nonnulli fæpè increpant , quòd plus justo veritatis studia Jim addiétus , quafi nec mibi ipfi ufui , niec  ipfis  [ocr errors] [merged small][merged small][merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors]  ipfis in totâ vità fim futurus , nifi, & ab   hoc tanto veritatis indagande studio defi-  ftam, da manè salutando circumeam ,   vefperi apud potentes cænem. His enim   artibus tum amari , tùm amicitias conci-   liari, tùm verò pro artificibus haberi &c.   Ed in tanto non volle egli condescende-   re à farlo, perche la giudicò per cofa   impropria di chi era seguace di ottimo   Maestro, soggiugnendo in appresso da-   poi averne commendato alcuni di que-   fti : At horum nemo , nèc mane potentium  fores ipfos falutaturus , nè vefperi cænatu-  rus frequentabat , fed ficut Hefiodus cer,  cinit :     Namque alium ditem cernens cui deeft,     quod agatur :  Ipfe folum vertit tauris, & semina        ponit.  Onde fuggirete ancora voi simile vizio,  se desiderate d'essere veri seguaci d'Ip-  pocrate.       La Pertinacia, e lo spirito di con-  tradizzione sono due difetti nel Medico  di sommo rimarço, e non si possono per   con  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] I 3  conto alcuno in lui scusare ; se vi contaminasse mai il primo, vi costituirebbe ignoranti, cogliendovi quella bella proprierà, che hanno li Dotti, ch'è : Sapientis eft mutare confilium ; vi faria anche di peggio,che vi costituirebbe simili alle bestie, perche farebbe divenire ancor voi incapaci di ragione , e perciò venendo esclusi dal commercio degl'uomini savj cosa fareste infectaci di simile vizio? Se poi, che Iddio je me liberi fofte invali da quel 'cattivo spirito di contradizzione y guai alli vostri Infermi, perche venendo loro proposto da altri ciò, che si deve, e voi non volendo, che fi eseguisse , mà più tosto in vece di quello , altra cosa contraria, come anderebbe l'a cura facendosi à vostro modo, se foste ancora pertinaci? Ippocrate insegnò à questo propofito ciò che si debba Fare, e che ne risulti di male facendosi diversamentc , & è:(0) Neque fanè indecorum fuerit fi Medicus in rei præfentis anguftiâ , circà agrum verfaturz imperitiæ etiam tenebris circumfufus , alios quoque accerfiri jubeat, quo communi confilio , que in rem agri sunt disquirantur, & illi ad præfidiorum facultatem operas fuas confoTint; e cosa ne seguirà seregneranno trà di essi questi vizj? De eo munimini ambitiosè contendere, se ipfos ludibrio exponere, Sicchè voi , che sperate divenire veri Medici Ippocratici, vi converrà tenere lontani da voi tali vizj, che tanto vi potriano pregiudicare.  etiam [C] Hipp.præcept.  L'Avarizia fù talmente odiata da Ippocrate, che se avesse potuto l'averia del tutto sbandita dal mondo, poiche scrivendo à Crateva erbario famofiffimo de' suoi tempi, così appunto gli manifeftò il suo desiderio : Quod si Crateurs amaram pecuniæ cupiditatis radicem excindere poffis , ut nulla ejus reliquia extent, hoc probè teneto, quod unâ cum hominum corporibus , etiàm malè affeétos purgaremus, fed hæc quidem in votis habenda : Tanto scrisse Ippocrate, con tuttoche non gli fossero ancora giunti à notizia li documenti di Demnocrito , cheportandosi poscia alla sua cura in Abdera da lui medesimo sentì , trà quali vi fù questo contro l'avarizia: (d) Quinàm enim Leo aurum defolium in terrum abdidit? Quinàm Taurus , alienum ufurpandi cupiditate , ad prælium impetu quodam delarus eft &c. e con ragione così esclamava Democrito scorgendo l'uomo caduto in tal vizio peggiore de'bruti.  Quanto mai cresca la deformità dell'ayarizia in chi è avanzato negl'anni sentitelo da Cicerone:(6) Avaritia senilis vituperanda eft maximè : Poteft enim quidquañ effe abfurdius , quàm quo minus via restat , eò plus viatici quærere?  Mà più d'ogn'altro la saria obbrobriosa nel Medico , perche essendo stato da Ippocrate dichiarato fimil vizio per male più grave della pazzia, cgli farà tenuto non solo di crederlo tale, mà ancora di medicarlo, onde se in vece di far ciò lo procurasse, ecustodisse in femedesimo con diletto , in qual trascorso egli incorreria? E certamente più grave,  e me  [d] inefiß.Damag. [e] In Cat,Maior.  [blocks in formation] e meno scusabile faria, che in ogn'altro, per non aver egli apprezzato li documenti d'un tanto Maestro, che sono li seguenti: (f) Miserabilis sanè eft humana vita , quòd ad eam totam intolerabilis are genti cupiditas, velut hybernus flatus pervaferit, ad quem morbum infania graviarem curandum , utinàm Medici umnes potiùs concurrerent. E lo dimostra in termini precisi altrove , () dove così saggiamente consiglia : Neque verò exigenda mercedis cupiditate duci oportet, nifi ut ad artem edifcendam tuos inftruas , fuadeoque nè in eo inhumanitèr nimis te geras, fed & opum affluentiam, & facultates refo picias, interdùm gratis cures , itaùt memoris gratitudinis potiorem,quàm præfentis existimationis rationem habeas. Quòd fi thofpiti, vel egeno largiendi occafio se te offerat his , vel maximè fuccurrendum eft. Qui enim erga homines humanum fe exhibuerit, is artis amore teneri censetur. Cofa dirà l'Avaro , & altri viziosi leggendo, tanti ottimi consigli, dati loro da Ippo  crate? [f] In epif. Senar. Abderit. [5] Inlibede prai:  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] crate 2 Mi persuado; che quello appunto , che diffe Quinto Pecilio Pretore Urbano, riferito da Livio, allorche ebbe terto li libri di Numa Pompilio, che erano stati tanti secoli sepolti : Se fe eos in ignem coniecturum , perche , dos legi, fervarique non oportere; e questo perched non per altro, perche egli era Pretore, e non gli compliva, che altri sapessero , che molte cofe, ch'egli faceva erano mal fatte , poiche que' libri altro non contenevano, che di rimuovere ciò, che non era ben fatto, e ciò, ch'era sommamente pregiudiziale al popolo, trattandosi in quelli De diffoluendis falfis religionibus.  Questo vizio certamente non farà scusato da chi è di mente sana , nè da chi ben riflette à quanti disaggi mai soggiacino li miseri Avari senza potersi sapere ad utile di chi lo faccino. In beneficio proprio certamente che nò, poiche non altro, che travagli ne ricavano dal cumulare, che fanno ; A prò degli Eredi 2 nè tampoco, perche se potessero immaginarsi , che gli Eredi volessero  go  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] godere con ispendere liberamente, priveriano fubitamente dell'eredità, fic. che di questi solamence Padrone ne rimarrà l'avarizia , inentre per sodisfarla esi cumulano , c questa , che ne farà di tanti avanzi ? facilmente non sapenda servirsene li consegnerà al lusso, affinche disipandoli in un tratto ne impingui altri Avari.  Ippocrate odiava il lusso grandemente, à segno , che compose un libro contro di effo, ch'è appunto quello De Decenti ornatu , nel quale non solamente incarica à Medici di fuggirlo , mà dà ancora per cagione del lusso il modo di distinguere li veri Medici da Parabolani, de quali ultimi parlando, così dice: Si enim conventu facto ambitiofa, e quem fuofâ fuâ profeffione decipientes in urbium circulis verfantur, Quos ex veftitu , cum cæteris ornamentis, quis cognofcere poterit, quin etiam quò fumptuofiùs ornati fuerint , cà majori odio adversandi , ab eis, qui eos confpexerint , fugiendi ; dove de veri, e buoni Medici cosi ne parla : Quia  bus  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] bus non ineft exquisitus, nequè cariofus ornatus, qui fe fe excultus venuftate, cu frugalitate, non tam ad fuperfluam curiofitatem,quàm ad optimam existimationem, prudentiam, e animi moderationem compararunt , ad inceflum verò eo femper sunt habitu ; Sicchè dal Medico seguace d'Ippocrate devesi fuggire il lusso per quanto gli preme la propria riputazione ; certe mode straniere, e galanti non gli competono , come si legge (b): Peregrie nus cultus immodicus calumniam tibi com. parabit .  Tiberio s'ingannò, allorche propoftofi in Senato di proibire il gran luffo di quei tempi, essendo egli di sentimento contrario, persuadendoli, che in lasciarlo correre à briglia sciolta, da se medefimo si faria stancato, e perciò disse : Nos pudor , divites satietas, pauperes egestas in meliùs mutet; qual vergogna ne' suoi {moderati succeffori punto non si mirò mentre in Nerone si vidde à che segno s'inoltrasse il lufto. Mi persuado però,ch'egli si volesse ingannare per altro fine   politico, mentreche girandosi dal lusso  continuamente la ruota della fortuna ,  gli compliva più di vedere tante muta.  zioni di stato ne' suoi sudditi, che disau.  torato chi li cagionava, e tanto mag-   giormente che avendo questo vizio un  dominio tirannico s'uniformava al suo  governo . Tiraneggia per verità il luffo  li suoi seguaci , mentre l'impoverisce  e vuole eliggere da tutti gradimento di  quanto male fà loro. Ordina , che dalla  Persia , e dall'Indie sia trasportato un  drappo non più veduto , forza li suoi sem  guaci à prenderlo ad ogni maggior co-  ito, e fà, che oltre il gran dispendio  ringrazjno quel Perfiano, quell'Indiano  ancora, che lo portò, perche appagò il  loro desiderio , li quali ne resteranno fa-  cilmente ammirati, non meno di quello  ne rimanesse Tacito , allorche li Romani  per abbassare gl’animi dell’Inglesi, li fe-  cero assuefare à molti costumi loro, e da   essi non più praticati, e l'appresero per  foimo favore , mà ben se ne ayvide Ta-   [ocr errors][ocr errors][ocr errors] cito del fine, che in ciò si aveva dicendo: (i) Que humanitas cenfebatur, cùm efet Species fervitutis.  L'Infedeltà, e Fellonia sono vizi confederati, e detestabili in ogni qualità di Persone, mà più d'ogn'altro nel Medico, posciache ogn'uno ciò, che ha di più prezioso, che sono la vita, e l'onore glielo fida; Onde se csso mancaffe, à cui gli prestò tanta fede, che gastigo mai li potrebbe trovare de' maggiori, che lo potesse punire à bastanza , avendo commesso un reato di fimil forta, un mancamento di buona fede ? Sicchè odiateli pure simili vizj esecrandi, conforme l'abborriya Ippocrate, non volendo insegnare la Medicina à chi non aveva giurato prima sù tutte le Deità ciò,che segue, cioè: (1) Nequè cujusquam precibus adducturus , alicui medicamentum letale propinabo , neque hujus rei author cro , nequè simili ratione mulieri pellum subdititium ad fætum corrumpendum exhi  bebo,  (i) In Vita Agricola.  11) In lurejuri Hippocr.   [ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] bebo, fed caftam, ab omni fcelere puram, tùm vitam , tùm diatem meam perpetuò præftabo . Sicchè con ragione, e con giusti motivi verrà escluso chi mai in fimili vizj cadesse dall'effer vero Media co, e degno seguace d'Ippocrate,  Non è piccolo difetto nel Medico l'essere troppo curioso di quelle cose , che non fanno al suo mestiere, conforme tra l'altre sono li fatti domestici de' suoi Infermi; onde da tal vizio ye ne dovre. te aftenere,perche tal curiosità vi potria tenere distratti da quel negozio, à cui dovete principalmente applicare, ch'è il ben dirigere le cure de vostri Infermi, come y'astringe il giurainéro d'Ippocrate,ch'è questo:In quafcumque domos ingrediar , ob utilitatem Ægrotuntium intrabo.  Mà di più di questa ancora può efa fere viziosa la troppa curiosità delle cose moderne, e peregrine, e particolarmente ne' Medici giovani, che non pofsedono ancora la Mcdicina à quellas perfezzione , che fi richiede ; onde da questo vizio v'asterrete , sì perche vi fa  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] ria divagare inutilmente in cose, che ancora dal tempo non sono state ben digerite , come ancora vi terria lontani da ciò, che farà necessario di fare, cioè d'impossessarvi bene di quanto è stato da molti secoli confermato, à segno, che diverreste periti nelle novità incerte, rimanendo inesperti nell'accertate da lungo tempo , quali poscia sentendole vi giugneranno nuove ,. sopra di che mi riporto à ciò, che disli nella secondas Giornata , nella quale mostrai, come vi dovrete regolare per divenire Medici. Solo ora vi foggiugno quello, che à questo proposito ne dice Ippocrate, ed affinche meglio discerniate tutto il vizioso, per tenerlo lontano da voi: (m) Multæ namque ad ambitiofam quamdam operam comparat& videntur , ea videlicet , qua de nulla re utili quaftiones agitant ; E quali siano le cose utili nella Medicina, lo spiega in appresso soggiugnendo : Priusquàm verò ad Ægrum ingrediaris , fac cognitum habeas quid agendum fet ;.  ple(m) De dec.org.  che  pleraque enim non ratiocinatione , fed au» dia  xilio indigent : E se ciò non fosse chiaro ida  à sufficienza passiamo al libro De Fractua cioè  ris, dove parlando de' Medici , qui sao da  pientiam fibi falsò arrogant , così chiaracha mente dice : Verùm enimverò multa hoc stil modo hac in arte æftimari folent. Quod la enim peregrinum eft , nèc dùm conftat an en utile fit, confueto, quod jam norunt utile  elle anteponunt , quodque ab ufu communi day abhorret ei, quod eft probè cognitum ; e non evi vi sia discaro di sentire quanto mai à ci proposito redarguisce Ippocrate coloro, ei che vanno cercando le belle idee : (a)  ei Hujufmodi igitur , ubi præellem non tàm de vi curandi ratione cum illis conferrem, verùm, m ut auxilium ferrent audactèr peterem : Veo d. nuste enim cognitionis intelligentia apud eito istos Sparfa eft , cum igitur , bi ex necesitait; te indocti existant, eos ad utilem exercitaci- tionem cohortor, ubi prçceptorum cognitione .: deftituuntur.  L'Ozio padre di tutti li vizj, se non t; lo terrete lontano da voi, vi potria farperdere tutto ciò, che di buono aveste mai acquistato; Egli è capace di farvi nauseare le virtù , d'arrestarvi nel mezo della vostra carriera, d'abbatęrvilo spișito , e finalmente di trasfigurarvi in quella mostruosa figura, che più sarà di suo genio, e sențite appunto, come ne parla Ippocrate di questo pessimo vizio: (b) Quod enim otiofum eft , nilque agit ad improbitatem viam affectat, ad eamque rendit ; Talmente che per divenire voi yeri Mcdici, dovrete fuggir l'ozio , deftruttore d'ogni yostro bene; c per ciò farç, vi dovrete ancora astenere dalle frequenti musiche, dalli ridotti de' Novellifti, e da altri consimili divertimenti, ne? quali non si puol'acquistare altro, che dį pascere inutilmente la curiosità, ed il proprio genio , e ciò con ragione fi puol giudicare tempo perduto, perche profitto alcuno da essi non se ne ricava.  Gran infortunio sarebbe della Me. dicina, quando v'entraffe la Malizia à corteggiarla, avendo questa già impa  rato  (h) Dedecenti babits,  [ocr errors] rato adimitare tutte le bạone virtù con finzioni soprafine , ed in che guisa, ne parleremo più diffusamente in appresso; Solamente ora vi avvertirò, che se tal?  uno di yoi reftasse mai inferrato da fimi31 le vizio diyerrebbe subito uniforme à 1 quei Medici descritti da Ippocrace :(9)  Qui quidem Perfonarum, quæ in Tragediis producyntur maximè fimiles esse videntur ;  mentrechę farebbe tante comparse difi ferenti, quante gliene dettasse la sua madi lizia nelle congiunture à lei opportune , ci mà come termineria la tragedia lo moAd stra Ippocrate chiaramente doppo aver N avvertito, che Orium , ignavia mali  tiam quærunt, soggiugnendo: (d) Hi enim - Sunt, qui fora frequentant , ruditate, ac Ti infcitia sua imponentes, & circulis Civita  tum verfantes ; Talmente che per non cheffer yoi posti nel numero di Parabolani  necessariamente vi converrà fuggire , afe e detestare fimil vizio . Il timore, e l'ardire , con tuttoche K 2  sem-  (c) In Hippocratis lege.  (d) Hippoer.de dec. habitu.   [ocr errors][ocr errors] 2.  [ocr errors] sembrino trà di loro contrarj, nulladimeno vengono molto biasimati da Ippocrate nel Medico, dichiarandoli in lui per segni viziosi d'ignoranza, dicendo egli : (e) At verò imperitia malus eft thefaurus , malaque opes reconditæ iis, qui ram tùm opinione ipfi, tùm revera possident fecuritaris animi, du lætitiæ expers, timiditatis, & audaciæ nutrix; Ac timiditas quidem impotentiam , Audacia verò artis ignorationem arguit. Perloche non di potrete nè segúitare, nè scusare, nè anco sotto lpecie nel primo di circospezzione, e nel secondo di spirito, perche diversi sono trà loro il timore, e la circofpezzione, l'ardire, e lo spirito . Il timore vi farà perdere l'occasione pronta , che vi si presenterà di operare per non faperla voi conoscere, ma non già la circospezzione, che nasce dal poffe dere molto bene ogni danno , ed ogni profitto, che ne poffino risultare da ciò, che voi farete, onde questa vi renderà folamente per breve tempo irresoluti,  e fino (e) Hipp Text.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] e fino a tanto, che averete bilanciato il bene, & il male, e conosciuto, ch'avrete quale delli due prevalga , sarete prontissimi esecutori di quanto avrete deliberato. L'ardire poi per essere temerario vi porterà con violenza ad operare , onde non vi farà diftinguere quando ve ne dobbiate servire , dove, che lo spirito , che vi rende perspicaci, & accorti, Ve. lo farà ben capire , quando fia tempo. opportuno di farlo, conforme egregiamente avverti Ippocrate : (f) Temeraria namquè proclivitas, do promptitudo,quam. vis valdè fit utilis, despectui eft , at confiderandum quando bis uti liceat.  L'Odio è un vizio, che trà li maggiori può divenire il primo, quando fi stenda fino alli ultimi confini della sua iniquità, cioè alli benefizj ricevuti, pafsando allora à quell'esecrando reato , che solamente trà gl'uomini regna, esfendone le bestie più fiere esenti, conforme da tanti esempj registrari nello Istorie si può comprendere, & in ispecie  di (f) In lib.de Medica  [merged small][ocr errors][merged small] K 3  [ocr errors] [ocr errors] di quel fiero Leone , che nell'Anfiteatro Romano il' véce di divorare il suo Beriefattore condannato ivi ad bestias, lo difese dalla violenza delle altfc, mà quellos che si rende più considerabile, si è, che alle volte' , quanto č maggiore il benefizio, tanto più viene perseguitato dall'odio, giacchè al parere di Tacito: (g) Beneficia coʻusquè leta sunt , dùm videntur exfolvi poffe, ubi multum antevenere pro gratia odium redditur; Darebbe l'animo à voi non dico di seguitare' vizio sì obbrobrioso, e ripugnante' ad ogni  in il pretesto del naturale di chi lo segue , inclinato a farlo, per non potersi moderare. Senticenc però prima d'impegnarvi à ciò, cosa ne diffe ad Ippocrate, quel grand’amatore della giustizia Democrito:(b) Plerique' verò quæ natur& hoc adSéribentes Benefactorem odio' habent, co parům abeft ut indignè ferant fi debitores effe puténtur , fed eu pleriquè artis ignorantiam in se ipfis habeotes, a imperiti  (g) Annal. lib.4. [h]. Epiß. ad Damageexiftentes, id quod meliùs eft purgant intero   stupidus enim fiant suffragia. Talche il   solo sospetto d'essere infetti da un fimile   vizio, vi renderia incapaci per sempre   di quanto voi bramate conseguire.  Quanto mai sia difficile d'esprimere  tutte le trame dell'ingarinoz ed impostu-  ra, sentitelo riferire da Ippocrate in tal  guisa : (i) Difficile eft multorum malorum  machinatricem folertiam verbis exprime-  re, cum eorum fit infinitas quædami din  bis cum dolofis conimentis prava mente in-  ter le conversentur; apud eos autèm virtu-  tis modus habetur , quod eft deteriùs; men-  dacia enim amant, do in bis fe exercent,   voluptatis ftudium extollunt; legibus mini-  me parentes a   Certamente che meglio non fi poteva da Ippocrate esprimere l'inganno vizio tanto diletto da' maližiofi Impostori, mentre da questi li modi più improprj, che si praticano sono credati per loro virtù , nè fi seguita da efi altro studio, che della menzogna, nè fi atten  de (i) In epist.Domaget.  [merged small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] K 4  1.  avendo  de ad altro, che à piaceri, e diversi-  menti, fenz'alcun timore di gastigo. Le  tristizie di costoro non si pofsono mai   à bastanza esprimere, stanteche, fingen-  dosi questi Mcdicis con modi improprj.  accreditano li loro medicamenti , non   punto di rossore ne di servirsi di testimoni corrotti, che con menzogna: attestino il gran giovamento, che das quelli ne ricevettero con tuttoche non se ne fossero mai prevaluti, nè di ripromettere ne' mali incurabili quella certa salute, che non è in potere de' Medici,  , quantunque espertislimi , il farla conseguire ; In oltre giudicano graviffimi, e inortali tutti quei mali, benche di sua natura leggieri , purche rechino aglo Infermi qualche apprensione, affinche credano questi esfere stati mediante la. loro virtù risanati , e d'avantaggio , per non essere riconvenuti d'aver errato ne? pronostici, parlano con doppio linguag. gio , à tal’uno diranno, che quel tale Ammalato deve necessariamente morife,& ad altri, che deve infallantemente  mie  [ocr errors] rllanare, per avere pronto si nell'ano, che nell'altro evento chi contesti la loro, fimulata perizia in sapere ben prevedere gl’esiti de' mali; Milantano in oltre costoro i loro grand’arcani, con i quali fi vantano d'avere refuscitato molti, già fatti spediti da Medici. Solamente dico. no con verità, che in mano loro niuno. muoja, perche ridotti che li hanno in: pessimo stato di salute, abandonano li loro Infermi, non potendoli più lusingare con le solite false speranze di salute, de' quali prima fi servivano per ifmugnere le loro borse. Per inantenersi poi in creditozli pongono forto alte protezioni, e sfuggono d'incontrarsi con Medici dotti, ed esperti, non porendo ftare à fronte con chi ben sa discoprire la loro ignoranza . Al divino Ippocrate furono note alcune di queste verità, mentre egli (1) così ne parla : Qui igitus in ignorantia profundo fubmerfi funt , ij prædicta ( cioè l'operare con ingenuità) minimè percipiunt , cum Medici nomine iz  digni [] Intib.præcepat  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] 'digni re ipfà comprobent ; quàm repente  evetti fint , fortune tamén egentes per die  vites quofdam ex anguftiis emergunt viri-  que es éventu nominis celebritatem adepti  &c. ed in appreffo : Qui certè ad curatio-  nem non accedunt ; ubi vident miserabilcm  effe affectionem, c ejulatibus plenam, alio-  rum-Medicorum congreffum fugiunt; e in  altro luogo: (m) Qui igitur eos reprébena  dunt qui viltis à morbo manus non admo-  vent , non minùs adhortantur ad ea fufci-  pienda , quæ attingere fas non eft ; quàm  que fas eft , in eoque apud eos qui nomine  tenus Medici sunt admirationem fibi conci-  liant , ab artis verò peritis ridentur.   Mà crescerebbe più oltre ancora l'iniquità di costoro, quando ; che unisfcro alle loro male arci l'ippocrisiaj conforme che più volte si è osservato' ins ral'uno di essi,che postosi adosso un'abito di fimulata penitenza, e' čutto umile con li seguenti artificj procurava di maggiormente accreditarli. Introdotto, ch'egli era clandestinamente in qualche  cura  (m) in lib.de Arte,  čura, doppo di aver fatte molie insolite, ed affetrate offervazioni intorno all'Ammalato, cosi incominciava à parlare : Io coinpatisco infinitamente li Signori Medici, che lo curano s perche questo è un male'assai oscuro , e difficile à ben curarsi, non essendo ciò da cutti, fin qui scorgo , che hanno fatto tutto quello , che sapevano", nè io drdisco di biasimare ciò, che fino ad ora harino fatto, perche quest'abito ; che porto in doffo non mi permette di dir male del mio prosimo, nè di togliere la riputazione à Profeffori cotanto accreditatie tanto maggiormente, che quando anche non foffe ftato fatto a fuo' dovere ciò, che si è fatto sin’ora', non siamo più in tempo d'impedirlo, dico bene , che io peccherei mortalmente, se non' dicelli libera.. mente ciò, che debbasi fatie in avvenire, questo male à conto mio và curato in tal guisa : Primieramente gli si devono dare i tali, e tali' rimedi , e dipoi develi fare in questo modo, e ac fi opererà diversamente, io mi protesto che questo poveroInfermo se ne morirà quanto prima ; e lo.   vedrete con vostro cordoglio. É fe tal  uno degli astanti più prudente lo prega-  va d'abboccarsi con li Medici della cura,  à fine di comunicar loro questi suoi sen-  timenti, ei ricusava tal congresso, con  pretesto , ch'essendo odiato da tutti li  Medici per la sua ingenuità, e dottrina  non fariano mai condescesi à quanto di  buono egli avesse proposto, onde , che  reputava non solamente superduo tale  abboccamento , må ancora non pratica-  bile da un suo pari, che deve,per l'umil-  tà, che profetava, effere injinico delle  difcordie; onde avessero pure fatto ciò,  che ad esli pareva , e piaceva , bastando-   gli d'aver accennato il gran pericolo, ed  il modo insieme più sicuro da sfuggirlo  per mera carità di giovare à quel povero  Infermo così aggravato , non già per in-  teresse alcuno, da cui egli n'era lonta-  nisiino. Infinite confusioni cagionarono  simili parole pietose in più cure , stante-  che tal’uno de' più creduli, che vi si tro-  vorno presenti, diffe : Sentiste , con che   [merged small][ocr errors] modestia parlava quel sant'Uomo, se non fosse così scrupolofo, oh quanti errorici averia discoperti, commesli da' noftri Medici ignoranti in questa cura ! Si vede però, ch'egli intende, perche hà fatto certe osservazioni particolari intorno all'Ammalato, che non le abbiamo vedute fare da' noftri Medici. Ed altri di più consigliavano à licenziare tutti li Medici per farlo curare da esso folo, per-. fuadendofi, ch'egli l'averia certamente guarito . Quali danni ne riportino li poveri Infermi da costoro, che Medicorum congreffum fugiunt,gli espresse assai bene, e con pochissime parole Ippocrate nel sopracitato libro , dicendo ivi; Ægroti verò dolore conflictati in utrâque improbia tate natant ; cioè in quella dell'ignoranza, e dell'inganno di simili viziosi Impostori.  Quello però, che reca non ordinaria meraviglia si è, che il popolo più volte caduto à dar fede à fimili viziosi Impostori con danno notabile, & evidente della propria falute ritorna di bel  nuo  nuovo a creder loro , & à restarne insieme nuovamente deluso, conforme ancora che con tutto abbiano questi nociuto à molti, niuno contro di essi dell'offesi ne fà risentimento , e la cagione di ciò / non puol'essere altra, che godono questi quel vantaggio, che hanno le donne di mala vita, da cui ne s'allontanano molti, che da esse furono danneggiati, nè alcuno contro di esse ne fà rilentimento proporzionato al male ricevuto', e ciò cre. do, che segua sì nell'uņo, che nell'altro caso,per la vergogna,che ogn’uno di essi hà di manifestarsi con atto publico per imprudéte, onde perciò pazienta,e ţaçe.  E finalmente se per disaventura un fimile yizio contaminafle mai il Media co dotto, ma politico, oh quanti danni ancor peggiori di questi apporteria à molti, posciacchè inestandosi al ben radicato sapere l'inganno , e l'impostura , che frutti velenosi mai produrrią unas fimile pianta ? e nocenda questi senza effere creduti nocivi, non solamente trà l'idioti , mà ancora trå li più cautelati,  e cir.  )  )  e circospetti troveriano lo smaltimento, c per non diffondermi più oltrc, dirò solamente che il Medico dorco, e politico, quando che fosse divenuto Impostore, avendo egli perduto la sua ingenuità diverrebbe allora non solamente tiranno de' suoi Infermi, facendo loro arţificiosamente credere , che da esso depende lą loro falute, anziche la vita isteffa , e che non poțriano nè pure un momento di più yiyere, quando si allontanassero dal suo consiglio,& ajuto,mà ancora di tutti gli altri Professori ingenui , potendoli conculcare à suo piacere per prevalersi egli delle frodi somminiftrategli dall'inganno, alle quali non potendo contraporre le proprieşper esserneprivi,conviene loro cedere , per non sapersene schermire, giacchè Års luditur Arte. Fuggite dunque yoi, che ambite di mantenervi ingenui, e divenire veți Medici fimil vizio, e voi, à cui specta d'invigilare alla publica salute.  Non tantum tollerate nefas hanc tole lite peftem.  Ded [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Del miserabile vizio dell’Ignoranza poco sarà d'uopo parlarne, sì perche vi è già nota la sua deformità, sì ancora perche vi vedo incaminati à gran passi per la strada della sapienza,solamente vi riferirò per vostra consälazione, affinche prestamente ne diveniate veri possessori di questa, ciò, che Ippocrace à questo proposito insegnò, con una bella somi  glianza , & è: (n) Non alitèr enim ac Miniftri , & Miniftræ in domibus tumultuantes, ac ceriantes , fi quando de repente eis hera adfuerit, attoniti conquiefcunt , fimilitèr etiàm reliqua animi cupiditates malorum, hominibus funt administre, at ubi fapientia in conspectum fe dederit, tanquàm mancipia reliqui affe&tus difcedunt. Insegna parimente Ippocrate nell'iscoprire li seguaci di tal vizio il modo da conoscere li Medici ignoranti, mà di ciò non devo parlarne, perche il mio fine è diretto à detestare li vizj , fenza andar cercando li viziosi. Non però tacere devo il gran danno, che questi apportanoalla povera Medicina riferito da Ippocrate irel principio della sua legge in tal guisa : Omnium profectò artium Medicina nobilisfima, verùm propter eorum , qui eam exercent ignorantiam c. omnibus artibus iàm longè inferior habetur .  Finalmente con la Maledicenza terminerò io ancora di dir male de vizji questa è un vizio assai incivile, perche opera sempre contro li buoni costumi, e contro la civiltà , questa certamente non si dovrà seguitare da voi, venendovi da Ippocrate tanto proibita nel libro : De Medico, che in tal guisa incomincia: Hoc fcripto Medico imperamus, eo dicimus, dove tra l'altre cose, che coinanda vi sono le seguenti: Ut animi temperantiam excolat , non taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquâ totius vitæ moderatione , bom nis, ac honeftis fit moribus, & æquus in omni vitæ confuetudine fe præftare debeat ; Le quali cose come le potrete osservare, essendo maledici ? Ed affinchè meglio comprendiate quanto il ben moriggerato Ippocrate odiasse questo vizio, passia  L  mo  [ocr errors] mo à rillettere ciò, ch'egli dice nel libro  De Arte , il quale comincia così : Non  nulli turpitèr in sectandis artibus artifi.  cium suum collocant , neque id, quod facere  Se credunt meo quidem judicio obrinent , sed    Jue scientia oftentationem faciunt aci E  poi soggiugne : Qui verò ea, quæ ab aliis  sunt inventä inhoneftorum verborum arti-  ficia contaminare contendit , nequè quida  quàm corrigit,   fed à peritis inventa, apud imperitos traduçit . Is fanè prudentice exiftimationem tueri velle non videtur , fed potiùs naturam fuam, aùt ignoratiam nem malitiosè prodere : Solis enim artium ignaris, hoc opus competit, qui ambitiofiùs quidem contendunt , neque tamen improbie tate suâ ullo modo præftare poffunt, ut aliorum opera, vel recta calumnientur , vel non recta repræhendant : Eos igitur , qui in alias artes hoc modo invadunt,coerceant, fi poffint , quibus hæc cura eft, quorumque id intereft. Vedete voi à che segno odiava il divino Ippocrate li maledici, che voleya , che fossero ristretti , essendo indegni di convivere tra uomini di ono.  re  [ocr errors] [ocr errors] re. Crederei, che quanto hà detto cosi chiaramente , & al propoliço Ippocrate vi pofsa bastare per odiare un limil vizio, e tanto maggiormente se rifletterete, che quanto voi direte di male degli altri, altri ancora ne potranno dire di voi , ficchè parlate bene degl'altri, Ò tacete  Țacerò ancor Ia per non nausearvi di vantaggio nel descrivervi la laidezza di tutti gl'altri vizj, sperando , che ciò, che vì hò detto di questi pochi,pofsa baftare, per farvi prendere odio a tutti gli altri, ed à quel segno , che li viziofi lo porteranno facilmente alle virtù, qual? odio pero spererei, che in un subbito deponessero į viziosi , se spogliati per pochi momenti d'ogni loro difetto, si aboccaflero insieme con effe, allora cofa disebbono sentiamolo da Seneca; (a) Quidquid opravi inimicorum execrationem puto ; Quidquid timui Dii boni quantò melius fuit , quàm quod concupivi cum multis inimicitias gefi, & in gratiam ex odio res  L 2  dii (a) De Vita beata cap.2.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] dii buc. quid aliud quàm telis me opposui dc.  Avere inteso come parlerebbero bene li viziosi se avessero la forte dili berarsi da? loro difetti solamente per breve tempo, approfittatevene dunque voi, giacchè per sempre, se vorrete, potrete effere di mente capaci di conoTcere la loro deformità, e fuggirla. Mà quando mai credeste per cosa molto difficile di potervene affatto spogliare, fate almeno, che con le vostre virtù vi si fra. meschi solamente tanto di vizioso, quanto communemente si tollera nell'oro di lega bassa , c non più , che non arriva ad avvilirlo, nè à fargli perdere il suo vago Splendore.  Passerò ora alla seconda parte per esaminare se li vizj ermafroditi si possino alıneno tollerare nel Medico.  Per vìzio ermafrodito intendo quello, che dalla malizia , e dall'inganno viene talmente trasmutato in virtù, che difficilmente si potrà discernere, se prima non si scoprono le sue parti vergognose,  che  و  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] che fino ad ora non hanno sapuco, ne  potuto ricoprire. Sia per esempio, se la malizia,e l'in-   ganno vogliono , sono capaci di trasfi-   gurare così bene la superbia in umiltà,   l'iniquità in zelo di giustizia , che diffi,   cilmente senza l'ajuto del disinganno ,   che scopre le loro vergogne , li potranno   distinguere. Nel prino caso si serviran-   no facilmente de' seguenti artificj. Da-   rete à suo tempo voi un'opera alla luce,   ò vi riuscirà felice la cura di un male  grave, è cosa facile, che ne abbiate del  compiacimento interno, e questo avvan-  zandosi più del dovere, è facile ancora,  che palli à farvene qualche poco insu-  perbire, di quell'opera, di quella bella  cura, cosa faranno la malizia, e l'ingan-  no per farvene affatto insuperbire ? Ri.  copriranno la piccola vostra superbian  con il manto dell'umiltà , & in congiun-  tura, che sentirà lodarvi gl'insinueranno  in tal guisa à rispondere : Questo non so-  no cose degne di lode, sono bagattelle,  non meritano d'essere lodare da un Vir: L3 tuofo suo pari, sono parsi di un debbole ingegno ; Chi sentirà si limili risposte resterà sorpreso da üná tanta umiltà, ed állora maggiormente s’infervorirà dilo darvi, entrerà nelli meriti della causazed allora appunto avranno compito il loro negozio,in farvi maggiormente insuperbire, che cosa converrà fare per iscoprire le vergogne alla in ascherata superbia , per conoscere se quella umiltà sia stata vera ; ò fimulata; bisognerà ricorrere al disinganno, che la scopra. Aspetterà questi facilmente la congiuntura proposito, & in vece di lodaryi dirà tutto quello, che la finta yostra umiltà aveva già detto di voi, con qualche par, ticolarità di più, che sarà vera , sì perche il disinganno non mentisce; sì ancora perche i chi è capace d'insuperbirli, non essendo di gran prudenzaś può in qualche cosa trascorrere ; Allora sentendosi la superbia toccata sul vivo lacererà in un tratto il bel manto dell? umiltà, e da se medesima mostrerà le fue vergogne rispondendo : Come ! non  fono  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] ز  sono cose degne di lode? sono parti di  un debbole ingegno sono bagáttelle?  sono tutte cose d'eterna memoria ; voi  non le capice, perche liete un'ignorantë.  Che ne dite ? questa è quell'umiltà, che  una volta parlava così bene; è forse scu-  sabbile nel Medico avendo questa un  naturale si fraudolento? Mi persuado ,  che ora, che la conoscere ; non la scuse-  rete, anzi la biasimerete più costo. Nel secondo caso se venisse in pen-   siero à tal’uno, che Iddio non voglia, di   promovere al servigio d'un'Ipocondria-   co da lui curato qualche suo amorevole,   mà dovendosi rimovere chi attualmente  lo serve, e competencemente bene, sen-   za l'ajuto della malizia, e dell'inganno.».  non si poiria ciò effettuare. Questi cacci-   vi vizi per servirlo, che cosa faranno ?   procureranno di vestire l'iniquità con   abito di zelo di giustizia, e che diča à   quell'Ippocondriaco, ch'è vero, che   viene servito bene da quel suo Ministro,  mà che premendogli tanto la sua salute,   il suo zelo, & il suo obligo richiedono   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] gli procuri sempre li suoi vantaggi, ed in ispecie trattandosi di propria salute, e di salute, che gli premetanto, per 12 conservazione della quale il Signor Tale foggetto nel suo mestiere unico, che non hà pari, saria veramente à propofito , mà non per questo è dovere di far perdere il pane à chi lo ferve, si dice solamente, che lo sappia , che vi è chi lo servirebbe assai meglio, caso che capitasse mai congiuntura ; Fatti, che hà l'iniquità questi projetti ad un'Ippocondriaco, che non brama altro, che vivere, con tutto quel di più di male, che sentirà dire  per altre  vie di quel povero galantuomo, che lo   serve,procurate da chi vuole lubentrare;  Credete voi, che non si effettuerà fimile  tentativo dall'iniquità? Forse prima di  otto giorni farà espugnata la Piazza,  perche tanto si batterà, che si farà brec-  cia, e vi si porrà dentro, e di sì bella  impresa ne trionferà la sola iniquicà. Voglio, che sia vero , che il  Ato ne sia capace, má vediamo un poco  se il fine è stato retto, e se il zelo digiu-   stizia  1  che il propo  [ocr errors] [ocr errors][merged small] stizia ne fù egli il primo motore? Chi avrà procurato simile ingiustizia , certainente, che non sarà molto eccellente nel suo mestiere, perche chi è tale, è ancora giusto , e prudente, dunque ve ne saranno de' più esperti di lui. Ciò supposto procuriamo, che il disinganno ne faccia le sue diligenze, e questo facil. mente farà infinuare al sudetto Ippocondriaco, che giacchè hà megliorato nella mutazione di quel suo Ministro, procuri ancora di mutare il Medico , e ne trovi un'altro megliore di quello, che ha presentemente, e piacendogli tal'insinuazione, cd effettuandola, cosa dirà colui, quando si vedrà fuori del servigio? fi lamenterà forsi del torto, che gli ha fatto, avendolo tanto tempo ben servito ? mà di chi si lamenterà? dovrà dolersi di se medesimo, perche gli è stata fatta quell' ifteffa giustizia , ch'esso hà procurato foffe fatta altrui; Dà dunque a conoscere chi operò in questo modo, che non ebbe per fine il zelo di giustizia , perche questo non gli è piacciuto, mà forse ne  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] ebbe  [ocr errors][ocr errors] ebbe qualchedun'altro di quelli, che low no chiamati secondi fini, cosa ne dite voi di questo vizio ermafrodito & vi pare di poterlo scusare nel Medico; e se ve ne fofreche non credo ; tal’uno trá efi to scusereste forse ? Io per me lo scuserei nella forma appunto , che diffe di fimili viziofi Democrito ad Ippocrate: (b) Cum igitur tot indigenas; e miferas ánimas videamus quomodò eorum vitam ejusmodi intemperantja deditam ludibrio. non bao beamus 2  Molte altre frodi,tramåte dalla malizia, e dall'inganno potrei orá riferirvij fe non dubitäsli, palesate; che fosseros che tal’uno ( di voi non dico , che siete di ottima inclinazione ) sentendole riferire se ne potesse abusare; onde in ciò procurerò con Tacito più tosto Artem oblivionis , quàm memoria.  Avete già udito la gran deformità de' vizj, il danno, che apportano a'suoi seguaci, ed il non doverfi seguitare ; nè fcufare in conto alcuno , che possonofervirvi di motivi efficacissimi per tenerli lontani da vois purche non si siano di già radicati ne' vostri cuori, nel qual caso faria necessaria la gran Medicina proposta da Ippocrate per isvellere affatto li vizj, ch'è la seguente: (C) Equidem omnes animi morbos vehemences(che sono appunto i vizj) insanias reputo ; cùm opiniones quasdam, da vifa rationi fufcitant, ex quibus fanéscit s qui per virtutem repurgatur.Preparerò dunque per la Giornata di domani la sudetta Mediciija,dalla quale se ne avrete bisogno rimàrrete certamente sanatis casos che nò, preservati almeno da fimili infezioni, in avvenire . Venite tucci, che vi aspetto con desiderio ; perche sarà Giornata di molto profitto quella , in cui si parla delle virtù.  [ocr errors][merged small] [blocks in formation] Nella quale.  fi discorre dell'acquisto delle virtà, e del bene , che apportano al vero Medico , e se alcuna di effe  fi poffa in lui cenfurare  non  Vanto mai sia infelice, e miferabile  la condizione umana,lo dimostra.  110 non solamente li vizj,mà anca. ra le virtù, posciacchè li primi,che tanto nuocono, spontaneamente in noi germogliano, e le seconde, che sono così utili,  senza reiterare fatiche, & una lun. ga , & industriosa coltura si acquistano. Appena nasce l'uomo, che in lui subitamente l'ignoranza si manifesta, e quel primo vagito , che dà n'è il primo contrafegno , mentre non ne sà ancora il perche egli lo faccia : Cresce, ela malizia fi scopre, l'ira, e la gola si manifestano ; S'inoltra nella gioventù , e la lussuria si risente, e di mano in mano , che gl’anni fi avanzano, li vizj tutti un  dop  [ocr errors][ocr errors] doppo l'altro fi veggono germogliare;  Con ragione dunque disse Democrito :  (d) Totus homo ab ipfo ortu morbus eft ;  e ne assegna la cagione : Talis enim ex  materno cruore Sanie permixto promicuit  Infelice , e miserabile dunque condizio  ne umana, che per fare acquisto di ciò,  che l'è nocivo, punto non hà d'affaticar-  si, perche spontaneamente li vizj li fan-  no possessori di noi, essendo concepiti,  e nascendo con noi medesimi, e questa  è la cagione, perche erunt vitia donec  homines, dove, che per ottenere ciò ,  ch'è di nostro sommo bene dupplicate  fatiche si ricercano; La prima delle quali  consiste nello svellere da noi le tanto im-  poffeffate radici de vizj, e l'altra d'an-  dare à poco à poco introducendo in sua  vece li semi delle virtù, e ciò non basta,  perche conviene ancora di cuftodirli  fino à tanto, che siano assicurate bene le  loro radici, per non essere dove sono se,  mentari suolo nativo. E perche ò lante  virtù spontaneamente ancor voi, ccon   quel(d) In epi.2.Damaget.  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small][merged small]  quella medesima facilità non germoglia.. te in noi per renderci felici? Conosco, che voi fiere un'attributo divino, ma non per questo, vi dovęte tanto sdegnare di unirvi con noi, che siamo creati ad im. magine, e fimilitudine di Dio, conosco ancora, che per ricevervi li richiede abitazione espurgara da ogni iminondezza, pura, e proporzionata à voi, e se per questa cagione voi state lontane da noi, la colpa non sarà la vostra, mà bensì di noi medesimi, che siamo quelli, che vi impediamo l'ingresso, e che ritardiamo si gloriofe conquiste, che ci possono rendere beati, con trascurare ciò, che voi richiedete  Oggi sì, che voglio far prova di voi per conoscere à che segno liano gli animi vostri generosi, e se avere ancora acquistato l'uso di ragione , potendo, se vorrete, ciò che si trova d'infelice in voi commutarlo in prosperità, e ciò, ch'è disgrazia in fortuna: Accingetevi pure, se ne sarete sprovisti, all'acquisto delle belle virtù, se ambite divenire Semidei,  dicendo apertamente Ippocrate, (e) ches Medicus Philofophus Deo &qualis habetur ; e cosa voglia intendere per Medici Filosofi lo spiega divinamente in appresso, cioè quelli, che habent , quç faciunt ad demonstrandam incontinentiam, quatuoSam, ac sordidam profefionem, inexplebilem habendi fitim , cupiditatem , detraa &tionem, impudentiam ; che sono per l'appunto quelli, che seguirano le virtù , ed hanno in abbominazione li vizj.  Sbandito dunque , che avrete da voi ogni vizioso inquinamento, e perciò renduti più capaci dell'acquisto delle eroiche virtù, proporrò in primo luogo ciò, che concerne alla Religione, come quella, ch'è la suprema di tutte le virtù, & ancora la loro base fondamentale, in cui sono appoggiate tutte le altre.  La Religione quanto debba essere àc  cuore al Medico, sentitelo da Ippocrate: (f) Hactenus igitur cum sapientia, communionem , eorumque etiàm plurima habet Medicus, nam & Deorum cognition  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] дет  (C, &f) Hippode $65.0TMnem ipfe potiffimùm animo complectitur , cumque aliis in affe&tibus , & casibus Medicina multum Deos colere comperitur duc. e tutto ciò lo afferisce dapoi di avere insegnato, che nella Medicina vi era ancora: Superftitiofi metus aversatio preAantia Divina . E non solamente à benefizio vostro ciò converrà , che facciate , mà ancora à prò de' vostri Infermi, perche venendo ogni bene dal Cielo , nelle vostre più gravi, e pericolose cure converrà , che non vi fidiate della vostra fola perizia, mà ancora, che supplichiate Dio, che vi assista con la sua santa grazia à bene indirizzarle; qual pio sentimento si ritrova ancora descritto in Ippocrate, e dato à coloro, che disprezzando gli ajuti Divini , fi raffidavano solamente ne' loro incantesimi, à cui cosi parlò risentitamente; (8) Quos contrafacerc decuerat, facra facere nimirùm , & precari , ad Templa deducere, Diis fupplicare ; e sotto dice: Maxima ergò, fceleratisima peccata Deus expiat , dapu  rificat (g) De morbo facro..  rificat tuteláque noftrâ existit ; e non imitando voi la gran pietà di tanto Maestro come potrete essere annoverati trà suoi seguaci ?  A questa viene in seguela la Prudenza , la quale è una virtù al parere di Democrito riferito da Ippocrate, che non solamente fà conoscere, e bene distinguere il prasente, mà ancora fà prevedere il futuro: (a) At folus hominis sensus recta intelligentia eminùs splendescens. Quod præfens , & futurum eft prævidet; E questa è quella, che toglie ogni confufione, e libera da qualunque pericolo chi la poisede : Qui enim hæc ipsa prudenti cogitatione difponunt , ii & facilè liberantur , meum risum fubleuant ; E questa non si può ottenere senza prima rimovere da noi tutti quei vizj, che prevertono la nostra mente, trà quali li principali sono l'ira , la superbia , l'avarizia , l'invidia, e l'inganno, li quali sono tutti capaci di farla prevaricare, e renduta che sarà per la mancanza di  M  que(a) Epist. ad Damag.  [ocr errors] questi quieta, e tranquilla , la Prudenza con maggior facilità si potrà acquistare.  Senza questa bella virtù, regolatrice di tutte le buone operazioni, non pensate di potere esercitare la Medicina, perche come vi potrete regolare senza effa , allorche v'incontrerete in Maláci indiscreti, e disobbedienti, in mali simulati, in controversie con altri Profeffori, ed in tanti altri emergenti, che vi possono giornalmente accadere, in quali laberinti vi trovereste? in quante confufioni, se non aveste la scorta della Prudenza, quali inquietudini provereste se foste privi di sì bella virtù ? (6) Non poteft effe vita jucunda, à qui abfit Prudentia , come disle Cicerone; Cni possiede detta virtù hà quanto di buono poffa mai desiderare, ftanteche (c) Nullum Numen abest fi fit Prudentia.  Quindi è, che Ippocrate fino, che visse non solamente fi fece regolare in tutte le fue operazioni da questa virtù, come nelle sue memorie si scorge, mà consiglia li suoi seguaci , e comanda loro insieme à non discostarsi punto dal suo patrocinio, insegnando ancora il modo per acquistarla, conforme da moltislimi suoi documenti potrete comprendere , de' quali ve ne riferirò quei soli, che sono registrati nel libro De decenii habitu , dove doppo aver descritto il vestire positivo del Medico accreditato, soggiugne : Qui se fe, ex cultus venuftate , frugalitate, non tàm ad fuperfluam curiofitatem , quàm ad optimam existimationem, prudentiam, e animi moderationem compararunt; e passando à ciò, che deve provedersi di necessario  con(b) 5.Tufculon. (c) Juven.fat.10  per  il suo mestiere , lo avvertisce, che sia prudente in farlo, altrimenti : Horum penuria mentis inopiam, at detrimentum affert ; Vuole anco in appreffo, che usi prudenza in prevedere ciò, che può avere di bisogno j'Infermo, che non operi con animo turbato, che sedi le confusioni, e li tumulti, che sgridi l'Infermi disobbedienti,l'intimorisca , mà insieme con prudenza, che Blandè eos excipiendo, consoletur , confor  [ocr errors][ocr errors] [ocr errors][ocr errors] me ancora, che avverta di non li prevalere di Sostituti imperiti, affinche de' loro mancamenti non resti esso debbitore, e quelli , che opereranno in tal guisa cosa acquisteranno? Gloriam tùm apud majores, tùm apud pofteros fibi comparabunt; e finalmente insegna il modo di conseguire con facilità la sudetta virtù, soggiugnendo : Qui etfi non multarum rerum cognitionem habent , earum tamen ufis afliduo prudentiam affequuntur .  Apprendercla dunque ora, che fapete il modo facile per conseguirla , caso,che non ne foste proveduti à sufficiene za , per imitarlo anco in questa.  La Giustizia, una delle altre virtù principali confifte, al parere di Galeno , di dare à ciascheduno ciò, che gli compete: (d) Naturæ iustitiam in eo confiftere, ut quod unicuique competit distribuat ; E. questa non la potrete acquistare, se da voi non terrete lontana l'iniquità, con turti li suoi vizj feguaci, che sono le passioni, l'adulazione, ed altri, che operano tutto il contrario di ciò, che alla   Giustizia piace. Il bene, che apporta  detta virtù è dupplicato, perche non fo-  lamente benefica chi la riceve , mà an-  cora, chi l'esercita; chi la riceve ottiene  tutto quello , che deve desiderare, e  conseguire, e chi l'esercita non puoles-  sere censurato à ragione, perche le sue  operazioni saranno sempre regolare con  giustizia, e tutta quella giustizia, che  si fà , si riceve ancora da altrui, in ciò ,  che riguarda gli proprj avanzamenti  ftanteche (e ) Fundamentum perpetud coe  mendationis, famæ eft juftitia, fine qua  nihil effe poteft laudabile. Meritamente  dunque compete al giusto di fiorire co-  me la Palma : Juftus ut palma florebit,  perche conforme la Palma quanto è più  caricata di grave peso, tanto maggiore  mente sormonta , così ancora il giusto,  quanto più fi procura deprimerlo, tanto  maggiormente viene inalzato.        Questa eroica virtù non solamente  viene incaricata da Ippocrate al Medico   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] M 3  con  (e) Cicero i.de Offic.  con precetti, dicendoli : (f) Æquum autem in omni vitæ confuetudine se preo ftare debet ; e ne assegna la ragione, fog. giugnendo: Cum omnibus in rebus multum fit in justitia præfidii; mà ancora fù da lui medesimo seguitata, conforme in tutte le sue memorie si può rincontrare, trà quali per non dilungarmi, riferirò solaméte ciò,che si legge in una lettera da lui scritta al Senato di Abdera, nella quale dicc à tal proposito : Ego verò fi omnibus modis ditefcere voluiflem viri Abderita , nè decem quidem talentorum gratiâ ad vos venirem , fed ad Perfarum Regem proficifcerer , ubi Urbes tote opibus humanis refertiffime occurrissent; e ne assegna la cagione, perche ei non lo fece foggiugnendo: Regias autèm opes ignominia mihi futuras, opulentiam Patria inimicam reportaffem, quibus circumaffuens Urbium Grecia deftructor exifterem ; Antepofe dunque Ippocrate à sì confiderabiliffimi proprj vantaggi il publico bene, fù dunqu'egli perciò disinteressarissimo,e come  tale (t) De Medico.  [ocr errors] tale fece conolcere à che segno amava la giustizia, non potendolo chi veramente l'ama con prove più demostrative far costare, che con quelle dell'essere di. finteressato.  Custodire dunque la Giustizia co. me pupilla delli vostri occhi , perche questa è quella , che vi può rendere feli. ci, non potendoyi mancare cosa alcuna, quando la vostra mente sia giusta, come viene espresso in due versi esametri scol. piti sopra la Porta Romana di Marino mia Patria, Feudo Nobile dell'Eccellentiffima Casa Colonna, che sono: Hic tibi tuta quies, do que cupit odia  virtus. Defisietquè nihil, fo mens non deficit  equa ,  Infeparabile dalla Giustizia deve effere la Fortezza, pofciacchè non sempre li potrebbe eseguire ciò, che la prima dispone senza l'autorità della seconda. Ippocrate diede la legge conforme fi avevano da regolare gl'Infermi,mà ordinò ancora al Medico fuo Esecutore,  che  M 4  che in caso di trasgressione de' suoi Malati fi armasse di fortezza per farla eseguire : (8) Eumque à fuis cupiditatibus deterreat, bu fimul quidèm cum amaru- , lentiâ vehementèr increpet . E questas virtù come s’acquista ? con togliere da noi ogni timore, ogni pufillanimità, con invigorire lo spirito, e rendere l'animo pronto, & obbediente ad eseguire ciò, che li viene dalla discrera Giustizia ordinato'.  Doppio bene parimente ne nasce mediante la sudetta virtù ; Il primo è , che sono sicuri gl'Infermi curati da chi è giusto di non essere adulati, ponendosi da essi in esecuzione tutto ciò, che loro compéte, e non di vantaggio, e l'altro è, che chi la possiede ne riceve stima , erispetto,ponendo in sogezzione coloro, con quali si tratta .  Örnatevi dunque voi ancora di quefra neceffaria virtù, dovendo nelle occorrcoze resistere alli'defiderj dopravaci de voftriInfermi, male avvezziin sanità  ز  [ocr errors] à cra  (5) Hippode decenti ornatu ,  [merged small][merged small][ocr errors] * crapulare giornaliente , e dovendo  opporvi à ciò, che fuor di proposito ver-  rà motivato dagli aftanti, come potreste  resistere, se non foste armati di fortezza,  e costanza , neceffariamente caderefte  nell'adulazione con danno sì della loro  Calute', che della vostra riputazione ;  oltre di che con pochi contradittori vi  abbatterete , perche conoscendovi di  quell'animo descritco da Orazio ;   Juftum ; tenacem propofito virum.  Non Civium ardor prava jubentium, Nec vultus instantis T yramni: Mente quatit.  Per loro quiete più di uno vi lascierà  stare senza recarvi moleftia .   La Temperanza è quella virtù, che frena li noftri (moderati desiderj, e li restrigne dentro i limiti dell'onesto , e ci rende finalmente padroni di comandare à noi stessi ; Quindi è, che Democrito, fiinproverando coloro, che hanno defiderj smoderati , (h) disse : Et cùm multis dominare velint , fibi ipfos imperare ne  queunt : (3) Hipp. epif.Damag,queunt ; Senza questa bella virtù nelle maggiori prosperità non si puol godere di quelle e Alessandro il Grandes appena ebbe notizia, che vi erano più mondi, che subitamente si concristòs e perdette tutto quel contento, che forli aveva ris cavato dalle coniquifte di più Regni , perche gli crebbe subitamente il delide, rio ambizioso di fare maggiori progrefli.  Come s’acquisti questa virtù linsegno Seneca s ( b ) con dire : Sani erimus , cu modica concupifcemur, fi unusquisque se  numeret , metiatur fimul corpus , fciatquè hec multùm capere, nec diù pode ; Nihil tamen æquè tibi profuerit ad temperantiam omnium rerum, quàm frequens cogitatio brevis avi, a bujus incerti, quidquid facies refpice ad mortem ; Octima Media cina, e degna veramente di quel gran Morale per moderare i nostri sfrenati desiderj. E con ottimi sentimenti ancora si ritrova registraro in Ippocrate in tal guisa: (i) Quod fi quis omnia , quæ facit pro viribus mente verfaret, vitam ab omni  cafu (h) Epif.94. (i) Inepif. Damago  cafu immunem fervaret, se ipfe probè non fcens, fuam ipfius concrétionem apertè intelligens, cupiditatis ftudium in infini, tum non extenderet, fed naturam divitem, & omnium alumnam per ea, quæ abundè suppetunt, sequeretur. Quemadmodùm autèm optimus corporis habitus affectionum periculum denunciat s lic magnus rerum fucceffüs lubricus eft.  Elsendo dunque tanto utile questa virtù, quanto è desiderabile la propria felicità, la dovreté bramare, e procurare insieme, e non solamente per vostro proprio bene, ma ancora delli vostri Infermi; perche se sarece immersi profondamente nelli vostri fmoderati desiderj, avrete la mente sempre così distratta da quelli, che à tutt'altro penserete, che à ciò, che possa essere di profitto agli Ammalati, e se pure lo farete, farà cog mence stanca, per breve tempo, e di paffaggio, doveche avendo roli delide, rj onesti, questi poco vi affaricheranno la mente , onde avrete campo di applicare con più attenzione alle cure, e da  [merged small][ocr errors] [ocr errors] inferioris che eravate al negozio, divers sete superiori, alleggeriti che ne farete, con notabile vantaggio di chi si prevalerà dell'opera vostra.  E tanto maggiormente, che l'offervanža di si bella virtù non fù solamente incaricata da Ippocrate a' suoi seguaci, comandando loro:(2) Eum quoque Ipe&t are oportet, ut animi temperantiam excolat, non taciturnitate folùm, verùm etiàm reliquả totius vite moderatione Quòd ad illi comparandam gloriam plurimum affert.adjumenti ; Ed altrove: (m) Bonum Medicum minimè impellit ut fuam atilitatem quærat , verùm ut potiorem fuæ existimationis rationem habeat ; Itaques longè  satiùs eft à morbo fervatis exprobrare, quàm perniciosè habentes emungere ; Mà di più per darci esempio la volle egli medesimo religiosamente osservare, po. sciacchè chiamato dal Rè Artaserse, e con che promesse !.(n) Auri igitur quana fum volet, reliquaquè quibus indiget effuse  ei  (1") De Medico.  (m) De precept. (n) Ix epift... Hellefp.Præfee.  6110  ei exhibeto, di ad nos mittita, cum Perform rum enim optimatibus eodem erit honore; Şicchè la promessa confilteva in ricchezze, commodi , & onori à quel fegnio, che ne ayeise potuto defiderare, cosa rifpo e il modeftiffimo ? (0) Quàm celerrime refcribe, nos vietu, veftitu , domo, omniquè re ad vitam neceffaria cumulatè frui; Pere sarum autèm opibus uri neque  mibi  fquum eft; E scrivendo à Demetrio manifesto anche meglio la sua moderazione, di, cendoli: (P) Rex Persarum nos ad fe vocavit nefcius mihi potiorem effe fapientiæ , quàm auri rationem; Chi altro farebbe itato di animno sì moderato in fimili congiunture, che ad una chiamata di un Rè potentissimo, alle offerte sì grandiofe si fosse potuto contenere con quella moderazione Ippocratica di ricusarle? Ne crediate, che Ippocrate non considerasse li vantaggi , che ne poteva riportare, perche in congiuntura, che ricusando, per non rendere schiava - la scienza Medica delle venalità, li dieci talenti offer  [ocr errors] tigli (0) In epift.2. Hystania (p) In epift.Demetr.  .  tigli dalli Abderitani per la cura di Democrito , così loro rispose :(9) Ego verò ja omnibus modis ditefcere voluiffem viri  Abderit , ne decem quidèm talentorum gratiâ ad vos venirem, sed ad magnum Perfarum Regem proficifcerer, ubi Ürbes tot& opibus humanis refertiffimæ occurriffent dc. divitiæ non funt pecuniæ undequaquè comparat&; Magna enim sunt virtutis facra , quæ à juftitiâ non teguntur , Jedin apertum fe proferuntur. Ex morbis quajtum non facio.  Sono tutti questi esempi, che provano un'eroica moderazione di animo, una somma temperanza, e se è vero ciò, che riferisce Seneca, (r) che Platonc, ed Aristotele ricavassero più profitto dalli costumi di Socrate, che dalle sue parole. Questi del nostro Ippocrate sono tali, che possono bastare à togliervi dalIa mente ogni (moderato desiderio per farvi divenire seguaci di sì eroica virtù , come è la Temperanza, ed allora potrete con essa ridervi di quelle vagheapparenze di felicità da alcuni tanto apa prezzate, consistendo tutte in fottilidima superficie, mentre dentro di se, non altro contengono, che incommodi. Un legno dorato fà una vaga apparenza,mà dentro di se, non altro nudrisce, che molte tarle , che lo divorano, nè vi G2 discaro à sentire ciò, che ne dice Seneça: (S). Et cum auro teita profundimus quid aliud , quàm mendacio gaudemus ? Scimus enim fub illo auro feda ligna lati. tare buco omnium istorum, quos incedere altos vides bracteata felicitas eft , infpice , e disces fub iftâ tenui membrana dignitasis quantùm mali lateat . Sicchè la vera felicità non consiste nell'esterna apparenza , non nella superficie vaga, må bensì nel godere internamente una tranquilla calma, che dalla bella apparenza esterna più costo viene turbata, che dotta.  Hò cercato, come si fuol dire , per mare, e per terra un ritratto al naturale della verità  pro  per      farvelo vedere, mà non  l'hd  17 Epiß.115.   1  1  l'hò potuto ritrovare à proposito, perche, chi l'hà dipinta con il viso coperto, chi dentro un pozzo al bujo, chi l'hà profondata anco più bassa, onde non sapevo come fare per farvela vedere , non troyandola delineata in formas ostensibile . Mi venne in pensiero diricercare in Ippocrate , fe in occasione, che fù per curare Democrito l'avessi à forte potuto vedere nel suo  emi abbattei per l'appunto nel sogno, che egli fece prima di andare in Abdera , nel quale al vivo descrive la Verità , ed in quella guisa appunto, che gli comparve in sogno, (t) ve la descriverò ancora io. Gli parve di vedere, nel primo spuntare dell'Aurora una bella Dea alta, e risplendente, ornata positivamente, e senza pompa , li suoi occhi risplendevano come dui scintillanti stelle, ed avendolo preso per la mano lo conduceva per la Città di Abdera à passo lento, e finalmente nel disparire, che fece ella gli disse , ch'era la Verità , e che nel giorno  pozzo,  se(1) Is Epift.P hilop.  3  [ocr errors][ocr errors] seguente lo aspettava da Democrito do. ve dimorava.  Meritano veramente molte circo. stanze di questo misterioso logno d'efservi interpretare; La prima delle quali è la sua maestosa bellezza, e questa denota, che la verità è degna di essere da tutti amata; La seconda il suo ornamento positiuo, e senza pompa significa, che non hà bisogno di francie, nè di altri abbellimenti superfui ; La terza, li suoi occhi risplendenti mostrano , che ella abbia necessità di buona vista, dovendo vedere , e ben discernere li vizj, che la perseguitano; La quarta, con il prendere per la mano Ippocrate fà comprendere, che non vuole contraere amicizia con  gente di cattivo costume, perche bene li avvedeva, che appreffo ad Ippocrate non si accostavano nè la bugia, nè l'adulazione ; La quinta il condurlo à palli lenti inferisce, che chi vuole andare accompagnato con la verità non deve caminare in fretta, mà adagio , come faceva Ippocrate. La festa il dire, che lo  N  aYC  [ocr errors] averebbe aspettato da Democrito, dove ella dimorava, significa, che non ama le grandezze del mondo, ne vuole fare la fua comparsa, se non in quei luoghi , dove alla è conosciuta , e rispettata con fchiettezza, e sincerità.  Obella Dea, se questi sono li voftri fentimenti, date à divedere , che voi fiete troppo folitaria , modesta, e circospetta; E perche non frequentate luoghi più magnifici, e non vi fate vagheggiare publicamente ? Forse, che temete di faziare chi vi rimira con il vostro afpetto, conforme fù detto di Poppea Sabbina bellissima Dama de' suoi tempi, per non farsi vedere in publico , che col viso coperto ? E finalmente , perche non conversate con persone di sfera inaggiore de poveri Filosofi, con quali domesticamente voi trattate? Sapete come risponderà facilmente la Verità: lo son contenta di ftarmene così solitaria, perche fono troppo odiata , sentendomi dire da per tutto : Veritas odium parit ; ed io, che abborrisco di soggiacere à quest'  [ocr errors] odio, per vivere quiera , e tranquilla , son forzata nel mondo à ftarmene folie faria ; Solamente nel Cielo godo ogni libertà , ivi sono amata da tutii, ivi sono il Caduceo di eterna pace, e fapete per. che ? Perche ivi l'Invidia non mi perseguita , l'Adulazione non mi tradisce, l’Iniquità , è la Malizia non mi possono punto nuocere, come dunque posso io in Terra liberamente conversare , senza pormi à rischio di perdere quanto ho di buono, quanto ho di pregiabile, ch'è ciò, che dico. Se io comparisle da per tutto, non potrei fare di meno di non incontrarmi bene spesso con miei iniqui, e fraudolenti persecutori, e se questi, che fanno tante prede mi guadagnassero con lodare la inia bellezza, e mi facesseroprevaricare , non farei più virtù, onde per mantenermi tale, quale devo essere sono forzata vivere in folitudine con il mio bene accostumato Democrito.  Avrete da quanto vi hò descritto sin'ora compreso non solamente la bele  N 2  lezzalezza della Verità , mà ancora li suoi divini costumi, onde fi accinga pure ogni uno di voi à sposarla , perche cosa più bella , ed utile di questa non potrete ritrovare, e tanto maggiormente, ch'è affai facile à potervi fortire una simile ventura, bastandole , che finceramente l'amiate, che farà tutta vostrą. Vi avverto però, ch'ella è gelofillima, ondę vi converrà per conviverci in pace odiare la menzogna, l'adulazionc, l'iniquità, e l'inganno, altrimenti vi perderefte in un'istante la sua grazia.  Mi perfuado , che lo farete di cuore, perche Ippocrate , ch'ebbe la sorte, come dilli , di rimirarla una sola volta , ccome in sogno, ne restò così invaghito di ella, che fino, che visse l'amò fedelmente, à segno di esporsi ad evidente pericolo di perdere tutto il suo acquistato concetto; Posciacchè nella cura di colui, ch'era avvezzo di vivere à suo capriccio, e perciò facilmente fù ferito in testa, confesso candidamente di averlo curato male, dicendo , ivi : Hoc me  latuit  [ocr errors] latuit sectione opus habere , deceperunt aux sèm me future.(a)  Biasimerà taluno di quelli che amano più la loro estimazione, che la Verità questa tua confeffione publica ò Ippocrate, trattandosi di un'errore di questa forta , c tanto maggiormente, che niuno ti forzava à palesarlo, e ti diranno : Dovevi pure prevedere, che la maledicenza avrebbe fatto contro di tè quanto poteva per iscreditarti, à cui egli rifponderia facilmente, se vivesse, non mi dà faftidio, che si mormori di me, purche io non tradisca la Verità, hò voluto lasciare quest'esempio,acciocchè li miei seguaci non cadano in simile errore, e segua pure contro di me quel male ne så seguire ; Sapete, che danno ne hà riportato Ippocrate da simile confessione ? Due elogij frà gl'altri, capaci à renderlo glorioso per tutta l'eternità, che sono li Teguenti:  Cornelio Celso così ne parla di questo fatto : (b) A futuris fe deceptum  effc (a) L16.5.Epid <grot.-7. (b) Lib.8.cap.4.  N 3  effe Hyppocrates memoriæ prodidit , more fcilicèt magnorum virorum ; & fiducian magnarum rerum habentium; Năm tevia ingenia ; quia nihil habent, nil fibi detrahunt; magno ingenio, multaque nihilominùs babituro convenit etiàm fimplex veri errò: ris confeffio; præcipuèque in eo ministerio , quod utilitatis causâ pofteris traditur, ne qui decipiantur eâdem ratione ; qua quis antè deceptus eft.  Quintiliano ancora lo commenda in tal guisa: (c) Hyppocrates clarus in Arte Medicâ videtur honeftifimè fecife , dùm proprios quofdam errores confeffus eft , boc fine , nè posteri peccarent.  Certamente, che non avrebbe riportáte tante lodi Ippocrate, se avesse tenuta celata tal verità, e se non avesse confessati li propri errori, non li darebbe tanta credenza à ciò, che dice.  Dunque animateyi voi ancora à ree guitare un sì glorioso Maestro, e non remete dalla Verità , che sposerete , doverne riportare alcun svantaggio, anzi  te  (c) Lib.z. cap.8.  [ocr errors][ocr errors] tenete per infallibile di poterne voi ana cora ricavare glorie immortali.  Il difensore maggiore, ch'abbia la Verità è il Disinganno, egli è quello, che discopre ciò, che si fà contro di essa, che impiega ogni sua attenzione , & efficacia à suo prò, non prendendosi alcuna soggezione de' vizj, anco maggiori, in manifestare le loro iniquità; Hà finalmente tal possanza, che qualunque Verità più occulta la rende palese à tutti Niuno senza il di lui ajuto sarebbe capace d'avvertire alli proprj errori ; onde converrà se vorrete seguitare la Verità paffare con esso lui ancora buona corriso pondenza , rispettarlo, e farvelo vostro amico di confidenza ; Vi avverto però, che se vorrete veramente confederaryi con il Dilinganno, non dovrere effere ostinati, nè pertinaci nella vostra opinione, perche altrimenti nel meglio vi abbandonerà , onde converrà di farvi regolare in tutto da lui , e vedrete come vi favorirà nelli maggiori vostri bifogni.  Se non si fosse fatto regolare Ippo: crate da questa eroica virtù, come mai fi sarebbe potuto avvedere del sopr’accennato errore, e d'altri, e proprj, e del Medici suoi coetanei , che egli riferisce ; Certo è, che se fosse stato pertinace nella sua opinione il Disinganno non gli avrebbe fatto conoscere la Vericà qual' era , & in ispecie nel caso di quell'Ancella di anni dodici, nella quale ei confessò,:(d) Hoc cognitum eft rectè fe&tione opus habere , fecta eft autèm non velut opportebat , fed quantùm reli&tum eft , pus in ipso factum est ; Et in questo confeffa, che non fù fatto il taglio à suo dovere . Nel male di Eupolemo, chi gli averia manifeftato:(e) Hic videbatur biberari pofle, fa unicâ amplå feftione fectus fuiffet ; E perche non si fece ? Mortuus eft.  Conforme ancora nel caso di quell' Uomo quafi leproso, (f) che andando al bagno di acqua solfurea guarì dal male,che aveva, mà morì poscia Idoprico per la retrocesfione del primo; E di Scamandro, (8) à cui gli accelerò la morte un potente folutivo, come avrebbe possuto dire : Videbatur plus temporis fubstinere potuille. nisi ob vim pharmaci; E nel figlio di Teoforbo :( 6 ) Huic exulcerats est alvus fortitèr à magnâ pharmaci vehementia , moru tuus eft autèm tertiâ die poft potionem ; Nella moglie di Antimaco , à cui : (i) Datum eft potu Elatherium vehementius , quàm opportebat, pou mortua eft circà mediam noctem; In quell'uomo Eubeo, (i) il quale:Cùm bibiffèt pharmacum expurgans fres dies purgabatur, e mortuus eft ; E nel caso di Artandro, (m) il quale : Sanus erat à catapotio extinctus eft ; E finalmente in quello di Trinone , (n) lasciando di riferirne altri : Cùm ad nervum fanè parum medicamentum erodens fuiset adhibitum, opistotono mortuus eft.  Dunque queste utili memorie, che noi leggiamo in Ippocrate tutte le dovemo al Disinganno, che gliele fece cos nofcere. Ovirtù così sublime, perche ancora non consigliaste tanti altri Profeffori eccellenti, che scriveffero ancor esli con questa Ippocraticà ingenuità nello scoprire li propri errori à pofteri; Quanto bene averia apportato à noi simile verità; Hanno scritto; è vero, molo te mirabili osservazioni, mà hanno ancora con quelle più tosto cantato li loro trionfi, che compianto le altrui sventure. Fate almeno, che li secoli venturi godano di questo bene , & à voi toccherà di ereditäre ò Giovani ingenui questa purità di scrivere Ippocratica ; se vi uniformcrete conforme egli fece alli consigli del vostro disinganno:  yemo  (g) Epid.lib.5.&gr.15. (h) Ep.lib.5.&gr.17. (1) Ep. lib.s. agr.18. (1) Ep.lib.5.agro3s. (m) Lib.s. agr.42: (a) Lib.gi .gr.74  7  La Vigilanza à che segno sia neceffaria nel Medico , ne dà non piccolo contrasegno il sagrificio, che bramava Esculapio del Gallo, fiinbolo della vigilanza, volendo facilmente quell'antico Nume della Medicina far capire a suoi seguaci ciò medianto, che desiderava da essi, più d'ogn'altra cosa , la  vi  [ocr errors] )  [ocr errors] vigilanza, e con ragione, stanteche nella Medicina : 60 ) Occafio præceps; occafio in que tempus non multum ; E se à prenderla quando si presenta , non li fà con atten zione è cosa facile di perderla , con dia scapito di ciò, che si poteva ottenere in vantaggio dell'Infermo ; Quindi è, che Ippocrate dà titolo di ottimo Medico à colui solo; che prevede le cose future, dicendo :(p) Medicum prænotionem adhibere optimum effe mihi videtur ; Prenoa scens enim , & prædicens apud ågrotos, da prafentia, & præterita, & futura ; E questo non già per altra via , che  per quella della vigilanza , si può ottenere. Per conferma di ciò fà à proposito la somiglianza, che apporta Ippocrate (9) del Medico con il Governatore della nave, che si ritrova in tempeita, à cui non conviene già dormire per non sommergersi insieme con il suo baltimento trà l’onde; Ed in verità yi converrà essere nelle vostre cure molto circospetti, e vigilanti,  non  (0) Hipp.Præceptiox.  (9) De veteri Medio.   (p) Di Prenot.  non essendo sufficiente la fola vostra pea tizia , mentre che al parere d'Ippocrate: (r ) Bonis autèm Medicis fimilitudines pariunt errores , ac difficultates; E cresce maggiormente à tempi noftri tal neceffità  per cagione della separazione, che ha fatto la Medicina dalla Cirugia , e Farmacia, perche fe allora baftava una parte di vigilanza , dicendo il detto Ippocrate : Nec folùm feipfum præftare oportet opportuna facientem, verùm, e agrum, affidentes de exteriora, a' quali dovendo invigilare il Medico, acciò non trascurino di fare ciò, che da esli si deve, ora maggior obligo gli corre di dupplicarla per questa nuova aggiunta.  Nè vi riferirò, per perfuadervi ad essere vigilanti, l'esempio, che ne diede in se stesso Ippocrate, per non avervi à ripetere tutto ciò che abbiamo di esso, mentreche non fi legge nelle sue opere cosa che non denoti una somma avvedutezza, una grandissima vigilanza , & in ifpecie ne' suoi pronostici, ne'quali fi  puol (r) Epid. lib.6.dift, &:  puol dire con ragione, che ancora de Bercore collegit aurum , onde spero , che con rincontrarle ocularınente à fuo tema po, sempre più vi crescerà lo stimolo di efsere vigilanti, e tanto maggiormente ne sarete, quando in quelle leggerete, (che : Vigilantia verò &c. ad vitæ boneftatem refert . Majorem enim apud alium fibi gratiam conciliat, fi ad artem traducatur , eique decus, ob gloriam comparat ; & in appresso: Bonus Medicus vigens ipfus artis opifex nuncupatur.  Della Vigilanza è compagna inseparabile, e fedele la fatica , la quale per essere opposta all'Ozio padre di tutti li vizj, li può chiamare madre di tutte le virtù, e questa nella Medicina è cosi essenziale, che senza essa è impoflibile di poterli acquistare, esercitare, ed ampliare ,  A voi dunque, che desiderate essere veri Medici converrà accingervi à triplicara facica. La prima vi servirà per fare acquisto della Medicina; La secon  dada per impiegarla nell’efercizio di effa , ela terza finalmente per lasciare degną memoria di voi in ampliarla à quel fegno', che vi farà permesso dal vostro ingegno.  Già della prima ne fù discorso nella seconda Giornata, nella quale fù moftrato ciò, che si debba fare per conseguire la buona pratica ; mi resta fola. mente ora da soggiugnervi, che quella sola non può bastare per farvi vivere ripofati , e senz'altra briga , ftanteche quantunque, fia sufficiente per potere esercitare la Medicina, nulladimeno per essere ancor voi annoverati trà Proferfori più esperti, e capaci di dare più accertati consigli vi converrà infino al fine di voftra vita faticare in fare sempre nuovi acquisti, restandoyi tuttavia molto da apprendere, sì per incontrarvi alle volte in mali non più osservari, conforine Celso avvertì , dicendo : Sæpè vero etiàm nova incidere genera morborum , che per essere la Medicina scienza sì va#a, che niuno fin'ora ha potuto scoprire li suoi ultimi confini, nè Ippocrate, nd tampoco Esculapio, che ne furono l'Inventori , conforme egli confessa ingenuamente :(t) Ego enim ad finem Medicinæ non perveni, etiamfi iàm fenex fim, nequè enim ipfius Inventor Esculapius.  Quale appunto debba essere la seconda fatica nel professarla, così ve la descrive: (1) Crebro ægrum invife diligentem considerationem adhibeas, ut iis, qui decepti sunt per mutationes accurras; Facilior enim tibi cognitio fuppetet , fimula què te promptiùs expedies • Instabilitèr enim moventur quæ in humidis confiftunt. Questo testo è così chiaro , che non hà bisogno di dichiarazione maggiore, ris' chiedendo da voi Ippocrate nell'esercizio pratico la fatica unita alla vigilanza, e facendo voi in questo modo vi assicura, che minori brighe avrete, perche presto tirarete à fine ciò, che facendo con trascuraggine vi apporterebbe maggiori incominodi, La terza fatica è arbitraria, e viene  fo(t) In Epif.Democt (0) De decenti babiru.  [ocr errors] folamente abbracciata da quelli fpiriti investigatori, che hanno unita la vivacità dell'ingegno alla prudenza, e questi per  il desiderio , che hanno di eternare li loro nomi, riescono in tale opera profittevoli, de' quali credo , che frà voi ve ne farà caluno abile, dal quale spero non si ricuserà fatica sì gloriosa,abbracciata, e consigliata insieme da Ippocrate, dicendo: (*) Nunc verò ea , quibus summo studio prudentes incumbere debent, partim quidèm à majoribus excerpta, partim verò etiàm nunc per nos inventa ad te fcripfimus.  Nè delista taluno di voi, che sia abile à sì gloriosa impresa d'effettuarla per vedere impallidito di volto, emaciato di corpo, & invecchiato prima del tempo chi abbracciò fimile fatica; posciacchè da quell'emaciazione di corpo, da quel pallore di volto, e dal comparire più vecchio, ch'egli sia, gran benefici ne hà ritratti che sono,maggior vivacità di mente , senno, e prudenza.  Mà (x) In Epif ad Reg.Demetr.  [ocr errors] Mà quando ancora da tal gloriosa cagione ne risultasse qualche fisico svantaggio, fi bilanci qualsia peggiore, se quefto, ò pure quello, che ne proviene dall'ozio; e si vedrà senza fallo, che l'oziofi non solamente sono soggetti ad infermità peggiori di quello fieno gli ftudiofi, mà ancora , che terminano più presto la loro miserabile vita , onde non è prudenza il temere ciò, che può recare minor danno per andare in traccia à ciò, che ne può recare maggiore, e con lo svantaggio di più, che à prò degl'affaticati Letterati stà sempre preparata un' eternità di gloria, dove, che à danni de gl’oziofi una perpetua ignominia.  Non mi stenderò di vantaggio in esaminare le altre virtù , che restano perche vi si richiederia più tempo di una sola giornata, e tanto più , che poffedendo voi le già descritte vi si renderanno famigliari tutte le altre; Solamente del più bel frutto , che producono le virtù , ch'è il buon costume, non sarà fuori di proposito oggi parlarne , stante  che  che questo da Ippocrate viene stretta. mente incaricato al Medico , per farvi conoscere insieme à che segno egli lo profeffava .  Il buon costume è un'abito essence ziale per la vita civile, acquistato solamente da chi poliede un'aggregato di moltiffime virtù', trà quali risplendong la Prudenza, la: Sincerità, la Gratitu, dine , l'Umiltà, la Discretezza , la Bez nedicenza , l'Urbanità, e la Conyenienza, e questo abito deve essere continuato, perche fe la Superbia , l'Ira , l'Ambizione, & altri vizi di fimile perversa natura l'interrompono, il buon costume passa fubitamente in cattivo, Chi hà la forte di poffederlo è ricchisiino, mentre hà un tesoro, del quale quanto più ne fpende , tanto più resta in capitale ; Per csempio, chi hà il buon costume di lo-, dare, non solamente non riceve alcun discapito dalle lodi, che dispensa, mà n'è perciò egli ancora lodato. Devesi nondiineno usare prudenza in non eccedere molto con affettazione ne' buonicostumi, ftantęche alle volte, quando sono soverchiamente adoperati, e con affettazione nauseano, & in vece di apportare del bene,fanno del male, e tanto maggiormente, quando ciò viene regolato da qualche secondo fine, nel qual caso la lode istessa può essere nociva, e perciò ebbe à dire Tacito ; Peffimum inimicorum genus laudantium.  A che segno sia necessario al Medi, co il buon costume, mediante il quale viene colta ogni ambiziosa contesa, lo dimostrò Ippocrațe doppo di aver fatto , conoscere la necessità , che vi sia di consultare con altri Profeffori li mali oscuri, soggiugnendo : (a) De eo minimè am. bitiosè contendere , fe ipfos ludibrio exponere; Pofciacchè fimil maniera non è propria de' Medici racionali, mà solamente di quelli triviali, che : Forenfem queftum fectantur , conforme egli dice in appreffo.  Nè solamente il mal costume pone in discredito chi lo esercita , mà passt  O 2  per [a] De Præcept,  و  'per causa sua ancora nell'innocente Medicina la calunnia ; L'esempio è chiaro : Contrasteranno due Medici tra di loro acerrimamente, se fi debba, ò no dare un'orzata in un male acuto, se debbali, ò nò colare,fe prima debba darsi, ò doppoi il seccimo giorno, e se sia praticabile ayanti, che il male sia terminato, le quali essendo questioni inutili, e come fi fuol dire , di lana caprina , perche con l'esperienza fi può rincontrare se ne posfa feguire quel gran danno, che si figura chi contradice, onde finili contese non poffono à mio credere autenticare al  che l'imprudenza, e mal costume di chi le promove, e picciol male recheriano, se la colpa di ciò restafse trà li foli Artefici altercanti, il peggio è, che ne passa alla Medicina la calunnia; Quest'esempio non è stato inventato da me, ritrovandofi descritto da Ippocrate così bene, che non vi recherà punto di noja il sentirlo riferire : (b) Que igitur ignorantur bee funtó quanam de causâ in morbis acutis, quidam Medici toto vita tempore in Ptifanî non colatâ exhibenda perfeverents rectè fe curare existiment; Quinàm etiàm omni ratione contendunt', ne ullo modo hordeum æger devoret , quoad indè magnum fecuturum detrimentum exiftiments  morbis (b) De ration. Tic.in morbiacut.  tro,  verùm per linteum excolantes ejus fuccum porrigunt . Horum etiam nonnulli , nequè Ptisanam craffam , neque succum exhibent, ubi quidem dùm feptimum diem eger attigerit , alii verò dùm in totum morbus judicatus fuerit ; E ciò, che da simili altercazioni ne fiegua l'esprime in tal modo : At verò Ars tota magnam quidèm apud vulgum calumniam fubftinet , ut nullam omninò Medicinam efe exiftiment a kquidem in acutis morbis, in tantùm inter Te diffentiunt Artifices , ut quæ alter exhi. bet, veluti optima reputans , etiàm mala alter exiftimet.  Due ingiurie vi farei nel medesimo tempo , se pretendesli d'insegnarvi il buon costume: una saria di riputarvi male accostumati, che per  ļa Dio grazia non siete, e l'altra di credervi stolidi, ed  incapaci di ragione , per non esservi approfittati di ciò, che vi disli, detestando quei vizj, che costituiscono il mal cos ftume. Continuare di buon'animo á fuggire li vizj, e seguitare queste virtù, che vi hò mostrato, e non dubitate , perche Hi vostri buoni costumi in breve diverranno ottimi, & acciò possiate conseguire con più facilità fimil sorte vi rappresenterò alcuni costumi eroici d'Ippocrate, li quali vi potranno fervire di norma in moltissime vostre occorrenze , che vi si presenteranno facilmente à suo tempo.  Egli fù così esemplare nell'offervanza degli ottimi costumi, che non sò fe trà Medici ( alla riserva di quelli dia chiarati già Santi) ve ne sia stato, ò ve ne sia di presente , chi lo possa uguagliare  La Pietra del paragone per cono. fcere se il costume sia ottimo sono li onori, ftanteche honores mutant mores , onde quando l'onorato non cambia li fuoi costumi in peggio per cagione dell? onore ricevuto's tenete pure per certo,  che  )  che il suo costume sia ottimo. E la ca. gione di ciò è, perche con gli ottimi regna l'umiltà in grado eroico, e dove è questa , la fuperbia non s'accosta, fa. pendo per esperienza, che inutilmente impiegheria ogni sua fatica, e la superbia è quella, che perverte il buon co. stume , mà contro l'ottimo non fi ci  meriti,  )  Che Ippocrate abbia ricevuti onori fommi non trovo fi controverta da ale cuno, mentre fù chiamato dal Rè potentiffimo Serse, con promesse di ciò, che egli avesse saputo desiderare, oltre di costituirlo Magnato della Persia, fù cre duto ancora, che discendeffe dal Dio Esculapio, che fosse in grazia del Rc Demetrio', e di molti altri Potentati, e finalmente, che ricevesse dagli Ateniefi onori maffimi, non solo umani, mà ancora divini effo vivente, come costa per Senatus Consulto, ch'è questo : Ut igitur conftet Populum Athenienfem Græcis femper utilitèr confuluife , utquè dignam pro meritis Hyppocrati gratiam referat, decrevit  Poo  0 4Populus ut is magnis mysteriis ; Hor fecùs at Hercules Jovis filius publicè initiaretur, O coronâ aureâ mille aureorum coronaret tur. Coronam ipfam Quinquatribus magnis in gymnico certamine pręcone proclamante, omnibus Coorum liberis liceat non  fecùs às Atheniensium Athenis pubertatem ageres quod coram Patria ejufmodi virum proCreavit, Hyppocrates verò, ut Civitatis jis re, victu in Pritaneo toto vita tempore donetur.  E questi commi onori qual mücazione produsero ne' suoi costumi? niuna appunto, mentre non furono capaci di farlo insuperbire, come fi legge nella sua lettera , che scrisse già divenuto vece chio à Democritó : Et ego fanè plus repræhenfionis , quàm honoris ex arte mihi confecutus videor ; Vedete quanto stimava l'onori maslimi, e se s’infuperbivad punto di quelli, credendoli inferiori ad una picciola riprensione , dico picciola, perche delle grandi non n’era capace un’Ippocrate . Più gli premeva , per quanto li può congetturare dalla mede  fima lettera, la cagione delli ònori,mentre mostrava di dolersi, che eisendo diyenuto già vecchio non era potuto ancora giugnere à tutta la perfezione dell' Arre; volendoci forsi con questo far conofcere, che non sono tanto pregiabili gli onori, quanto è la cagione, che li produce, ch'è la virtù , la quale dipende tutta da noi, doveche gl'effetti di quella dipendono dall'altrui volontà; Avendo dunque Ippocrate resistito à non fare alcuna mutazione nelli suoi buoni coftumi in tanti, e tali onori ricevuti, è contrasegno evidente, che foffero arri. vati al grado dell'ottimo , nel quale solamente, come fi è mostraro, sono im.mutabili li costumi.  Che vi sia stato à luo tempo, ò dapoi fino al presente chi abbia.conseguito limili onori, non se ne ritrova memoria, per quanto fia stata cercata, onde non hà alcun'altro Medico avuto occasione, doppo di lui di mostrare ugual costanza del suo buon costume in fimili prosperità; Ricevendo dunque voi onori, faprece  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] con l'esempio di un tanto Éroe, confora me vi doyrete contenere affinche le prosperità, che ne risultano da esli , non vi facciano, conforine appunto fecero prevaricare li antichi Romani, che fusono ne' primi secoli della Repúblicas esemplari in bontà, mà avanzandoli pom fcia nelle ricchezze andavano declinando , e finalmente nell'auge delle loro felicità, e grandezze da buoni divennes ro cattivi , onde con ragione esclamò Tacito : Felicitate corrumpimur. Mi di{piacerebbe però sommamente,che simili sventure si verificassero in voi, perche goderei vedervi tutti esemplari, e degni imitatori d'Ippocrate, non solamente nella dottrina, mà ancora negli ottimi costumi  Mi rimane per totale conferma del mio intrapreso assunto di corroborare con altri esempi ciò, che hò proväto con le ragioni ancora.  Il primo de'quali sarà di farvi vedere, con quanta civiltà egli scrise de gli antichi intorno à quelle cose che effi  11011  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] non sapevano, e che furono dalla sua induftria inventate . Dice egli intorno la regola del vivere : (c) Alii quidem aliud ättigerunt, totum verò nes unus quidem adhùc ex his , qui antè extiterunt ; Neque tamen eorum quisquam reprehendendus , quòd invenire non potuerint ; quin potiùs Jaudandi omnes'; quod quædam inveftigao tione aggreffi fint ; Neque ergò que recta dieta non funt argüere decrevi , fed his , qué abundè funt cognità affentiri in animo habeo ; quæ igitur ab iis , qui antè nos fuerunt reétè di&ta funtzde bis fieri non poteft fi alitèr ferihatur, ut reétè fcribam, quæ verò non rectè dixerunt fi ea quidem , quod ità non habeant redarguero nihil profecero ; E cosa abbia fatto in questo caso lo dice in appresso, cioè: Que non rette fuerint cognita aperiam; Quin etiàm qua corum nultus , qui antè me fucrunt explicare aggreffus eft qualia fuerint demonftrabo ; Ed altrove con chę prudenza ne parla:(a) Sed nequè de victus ratione quid  quàm  [c] Dx viftus ratione lib.i.  [d] De ratione vitus in grutis.   [ocr errors] quàm effatu dignum veteres fcriptis tradiderunt , eamque , quamvis magna res fit, omiserunt s Varia tamen morborum fingua lorum genera , multiplicemque eorum divid fionem non ignorarunt quidàm. Avete of servato con che creanza , con che giua stizia; e con che prudenza ne parla un' Ippocrate de' suoi Antichi, scusandoli in ciò, che non seppero, e non pregiudicandoli punto in seguitare, e confeffare ciò, che di buono efi dissero; Si è praticato questo buon costume da alcuni de' noftri Moderni verso li Antichi? Mi pare di leggere, per dire il vero, più tosto il contrario, anzichè mi sono avveduto, che taluno di efli há palleggiato con tal fasto invidioso dace sopra quelle gloriose ceneri, che ne sono rimasto molto scandalizato, rifettendo, che Ippocrate con li suoi Antichi diversamente faceva, nė vi riferirò da vantaggio per non farvi nauseare di ciò, che essi ancora hanno fatto di bene .;  Per fecondo vedremo, come egli fi portò in quelle cose, che lo toccavanoal vivo. Gli pervennero à notizia alcune   predizioni (e) credute da Prospero Mar.  ziano suo Espositore accurato, Astro-  loggiche, che appresso gli Egizj si prati-  cavano in quei tempi, che erano alli   Greci ancora ignote, le quali non li pia-  cevano, mentre disse : Egnautèm hujuf-   modi vates effe nolo ; e con ragione, per-   che gli pervertevano ciò, ch'egli con   tanta diligenza aveva ricavato dalle  proprie offervazioni intorno alli prono-   stici de' mali, e che aveva appreso dagl'   altri, e pure con questa modestia si con-   tonne : Prædictiones Medicorum referun-   tur permultæ tùm præclar& , tùm admira-   tione dignæ, quales neque equidèm prædixi,   neque quemquàm, qui prædiceret, audivi;   e cosi destramente se ne liberò senza   contradirle . Questa maniera sì dolce   non è stata già praticata nel giugnere à   notizia tante belle invenzioni Anatomi-  che ; contro la circolazione del sangue   cosa non fù detto mai? Senza possedere   un'ottimo costume non fi può lodar ciò,   che (e) Lab.2.Prædi&ionum  [ocr errors] che perverte un'abito fatto da lungo tempo, e che si è praticato per lunga serie di anni.  Per terzo riferirò comę egli firegelaya quando era necessitato à palesare qualche errore commesso. Questo lo faceya senza individuarne l'Autore, ece cettuatone li proprj, li quali publicamente confessava , come già fentiste, parlando del disinganno, e questo, da chi vien praticato Solainente d'Ippocrate fi racconta fimile ingenuità, & in caso ancora, che abbią apportato laws morte,  Per quarto finalmente per far trionfare la sua gran bontà riferirò il giuramento, ch'egli fece, che nella Medicina à suo tempo non vi era alcun Medico razionale, (f) che non fosse di buoni costumi, e questo giuramento, chi lo farebbe à tempi nostri ? Onde bisogna neç ffariamente confeffare, che unico fia stato Ippocrate non solamente nella dottrina, mà ancora nell'ingenuità de' co  stumi; [f] In lib.de præcept,  [ocr errors][ocr errors] ftumi ; Sicchè con ogni giustizia li com. pere il principato nella Medicina, che egli da tanti secoli pofliede.  Dovrete yoi dunque per essere tee nuti degni, e veri suoi seguaci non folaa mente abbracciare,& uniformarvià ciò, ch'egli scrisfe in Medicina , mà ancora ftrettamente osservare quanto nella morale si debba fare, ftimando forG il buon' Ippocrate più necessarj li buoni costumi al vero Medico, delli suoi Fisici docu. menti, mentre questi li lasciò in libertà di ciascheduno di seguitarli, mà li primi con giuramento forzava tutti ad offer. varli esattamente, obligandoli a giurare di essere grati, di vita incolpabili, onorati, casti, giusti, modefti, pudichi, fedeli , e di somma segrerezza , e sentite sotto che pena l'obligava: Hoc igitur jusjurandum , fi religiosè obfervavero, ac minimè irritum fecero , mihi liceat cum fummâ apud omnes existimatione perpetuò vitam felicem degere's & artis uberrimum fruEtum percipere , quod fi illud violavero,  pejeravero , contraria mihi contingant ;  E quan  [ocr errors] E quanto mai il buon costume nel Medl  att  [ocr errors]  mente si può comprendere da ciò,   dice nel libro Di lege : Quifquis enim   Medicine scientiam fibi vere comparare   volet eum his ducibus voti fui compotem  fieri oportet natura, dottrina , moribus   generofiss è chiunque di questi ne farà   privo, come uomo profano, diverrà im-   meritevole gli sia dimostrata una scien-   za sì facra , conforme e la Medicina,   soggiungendo ivi : Hæc verò cum sacra  fint , facris hominibus demonftrantur , pro-  phanis verò nefas,   Sono dunque, secondo la mente d'Ippocrate , effcnziali nel Medico le virtù morali , e nientemeno di quello fieno li documenti Fisici, ed in conseguenza ancora come tali apporteranno necessaria- . mente un commo bene al vero Medico , non potendo esser tale, se non ne farà ornato à sufficienza, conforme in termi. ni precisi più diffusamente lo dimostra lo stesso Ippocrate nelli libri De Medico, © De Decenti ornatu, e nel libro De Pre  و (  9  ceptionibus , ove affinche non se ne possa dubitare l'attesta con prova legale, cioè mediante il suo giuramento, ch'è questo : Hoc namque jurejurando affirmare audeam , Medicum ratione utentem , alterum nunquàm invidiosè calumniaturum, fic enim animi impotentiam prodit. Verùm id potiùs faciunt , qui forensem quastum  seEtantur . Sicchè per essere veri Medici razionali dovrete essere ornati di virtù , e non contaminati da’ vizj , conforme sono quelli, che per essere meri mercenarj non meritano il titolo di vero Media co , quantunque fossero nelli documenti Medici versati ; e perciò saggiamente egli nel libro De Lege asserisce: Non folùm verbo , fed etiam opere Medici existimationem tueri oportet; ch'è quanto dovevo mostrarvi nella prima parte.  Se poi alcune virtù fi poffino giuftamente censurare nel Medico, che è la seconda parte del mio discorso, in qualche caso crederei di sì, conforme con un'esempio riferito da Ippocrate brevemente vi farò vedere.  P  TutteTutte le virtù hanno un fine retro, e se fi lasciano operare à tutto loro potere s'inoltrano con tanto fervore, che da alcune di esse in vece di ricavarné profitto , se ne riporterà del danno, La Giustizia, & il Zelo, tra le altre , fe si cferciçano con sommo rigore, & à quel segno, che arriva la loro autorità. Quefte sono capaci di porre cutto il mondo in sconcerto, e perciò diffe Salomone:(+) Noli effe juftus multùm; onde è necessario unirlo alla civiltà per renderle fruttuose.Simili fconcepci appunto potrebboro giornalmente accadere nella Medicina, fe il Medico si voleffe fervire della sola Giu. ftizia, del solo zelo con quell'Inferma male avvezzo in fanità à fare à fuo modo , allorche trasgredendo alla regola di vivere,fosse da esso con tutta giustizia riprefo, & afpramente sgridato di tal’erróre, cosa se ne ricaverebbe di profitto da çal giuftiffima,mà indiscreta riprensione? Se non che, ò l'Infermo facesse peggio  in; (1) Ecclef.cap.79  1  [ocr errors] in avvenire, e che senza alcun profitto perdesse ogni çispetto à chị lo riprese, ed in questo ca fo giustamente il Medico verria censurato, perche non si servi in fare una simile riprensione del prudens ziale consiglio d'Ippocrate, (a) che dice ciò, che deve fare, doppo di averlo afpramente {gridaco,& è : Simulque cum commonefaciendo , & blandè excipiendo consoletur ; & altro ve dice : Condonandum aliquid consuetudini ; Quel poco di dolce, che gli porgerà doppo l'amaro della riprélonę opera tato di bene che faràche la Giustizia usata divenga profittevole ,  Il ţimile pariinentě ne seguirà se voi, con zelo poco discreto , vorrete riprendere taluno , che sia ricaduto in mali venerci ; questo tale, quanto più lo [griderețe , tanto peggio farà , bisogna dolcemente che gl'infinuate , e gli facciate capire il danno , & il pericolo, che gli può sopravenire da fimili ricidive, le miserie, la morte penosa inevitabile saranno quelle , che, inlinuate con gius  [ocr errors] (a) In lib.præcept.  [ocr errors] dizio, lo potranno più facilmente perfuadere di fuggire simili errori, perche questi motivi restano impressi per lungo tempo nella mente , mà le gridate, che passano presto in oblivione , riescono infruttuose, perche sentendosi con animo irritato , non s'apprendono quanto: fi dovriano . Molti altri esempi potrei apportarvi, mà credo , che li riferiti pollino essere sufficienti per farvi capire tal verità ; Volete dunque, che le vostre virtù non fiano censurate , accompagnatele, e non le fare operare fole, e fate appunto conforme si suol praticare con le donzelle vistose à fine non si mormori di loro che accompagnate con altre donne più provetre , e prudenti possono trattare in privato, e comparire in pliblico senza taccia.  Mi persuado che li documenti, le ragioni , e gl'esempj d'Ippocrate, che vi (hò addotti fin'ora, saranno senza fällo sufficienti a farvi incaminare per il retto fentiero delle virtù , il quale spianato in tal guisa , fe à caluno di voi paresse tut  tavia  [ocr errors]  tavia disastroso, non occorrerà s'affati  chi di vantaggio, perche per lui non fa.  ranno à proposito le virtù, e per tanto  se ne viva pure à suo bell'agio con li  suoi vizj diletti, nè occorrerà, che in do-  mani quivi si presenti, perche voglio in  avvenire parlare solamente a quelli, che  hanno generosamente determinato d'ab-  bandonare affatto li vizj, e seguitare le   sole virtù.   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][ocr errors] G. I Ô R N Å TA V I.  Nella quale s'accenda il modo di prévalerfi   del consiglio delle virtù contra l'infidie.  de vizj, affinchè il vero Medico poffan  godere una vita iranquilla , e lasciare   di se doppio morte una gloriufi memoria :   [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] On mio contento non ordinario vi  vedo oggi, prima del solito , quì tutti preferiti; posciacchè averidoviderto nel fine della Giortiada di jeri, che chi nơn s'era già determinato di seguitare le fole viétừ, non occorreva ch'oggi forfè venuto; temevo che almeno quelli , che gliscorgevo più pensoli degli altri, foffero mancati; Mà vedendo quì ancor voi, e più ilari , e disinvolti del consue. to, è chiaro contrafegno, che le vostre menti, che si ritrovavano nelle Giornate passate ambigue, non sapendo ancora à che partito appigliarsi, abbiano già déterminato di seguitar le virtù, avendo jeri gustato, e meditato in appressoquanto di benc da elle ne possa risultaa re; Onde tutto il giubilo interno; che voi ora provares non nasce da altro, che dall'essere divenuti padroni del vostró volere. Spero dunque, che tutti inGeme äverere avuto la medesima forte d'allontanarvi affatto da' vizj, e di confederarvi con le sole virtù, e queste fatele ora padrone dispotiche della vostra voz lontà, e non temere de viżj , che fuor di voi fi ritrovano , che possano essi punto nuocervi, con tutto che vi tramaffero continue insidie per lo sdegno concepi . to contro di yoi's che ve ne siete da efti affatto allontanati , perche farà curau delle virtù il difendervi: Vi säria gran timore quando questi inimici teneilero tuttavia assediato il vostro cuore, e fiorreffero liberamente d'intorno alla voftra volontà ; Allora sì che tion potreste fidarvi delle loro insidie , ftanteche in tal caso le virtù non potriano affiftervi. Vivete dunque cautelati á non tradire. voi stesli orche ne fiece liberi; e questo seguiria facilmente quando apriste qual  [ocr errors] che segreta porta , per dove poteffero i'vizj dentro di voi tornare. Per altro faccino  pure  fuori di voi quel più , che possono s che punto non vi potranno danneggiare.L'esempio l'abbiamo chiaro ne i Romani, che fino ch'ebbero Annibale nell'Italia stiedero con ragione molto mesti, ed affitti per il timore delli gran danni , che poteva loro  apportare, mà appena partito, sollevorno lo spirito, con tutto che proseguisse à molestarli, e di niuna cola elli ebbero più spavento, che della guerra intestina, la quale alla fine fù cagione , che perdelfero la loro libertà.  Parerà oggi discorso superfluo il mio,mentre voi avêdo in abbominazione li vizj;ed essendovi dichiarati seguaci delle virtù, potrete con la guida di esse consigliare più tosto gl'altri, che aver bisogno di Direttore, con tutto ciò perche non avete à bastanza ancora acquiftato Puso di prevalervi di effe , non vi farà infructuoso il sentire da me in compendio quel bene , che à suo tempo, ed  [ocr errors] [ocr errors] in tutti i vostri maggiori bisogni , questo vi apporteranno , potendo ciò ancoras fervire per confermarvi di vantaggio della vostra lodevole risoluzione.  E cominciando prima dalla Religione, che con puro cuore profeffate , poiche  Non fi comincia ben se non dal Cielo ; Qucfta non solamente vi darà lume, e vi fervirà di scorta per quello che riguarda l'eternità, mà vi configlierà di fare fempre uniti con le virtù, facendovicon chiarezza vedere la deformità de' vizj, e li gran danni che apportano; Quindi è, che neceffariamente la fapienza deve ftare unita con la Religione, conforme diffe Lattanzio : Homines ideò falluntur , quòd aut Religionem fufcipiunt omissá Sapientiâ , aut Sapientia foli student omissa Religione , cum alterum fine altero non poffit effe verum ; Oltre di che vi farà conofcere meglio di che forta d'amici avrete da fare elezione, perche fe vi abbattete con taluno di coloro, che sono affatto increduli di ciò, che non veggono, v'in  [ocr errors] [ocr errors] finuerà, che questi non sono à proposito per voi , che ci trattiace quanto porta il mero bisogno ; ma non più oltre, perche questi sono tenuti da Sant'Agostino per tomini carnali , dicendo ; In homine carnali tota regula intelligendi est consuetudo cernendi quod solent videre credunt ; quod non folentznon credunt; conforme ancora, che fuggiare ogni altro vizioso , è che v'intrinfechiare solamente con chi è seguace delle virtù, e finalmente vi terrå fempre circospetti in non prestare fede à ciò,che leggerete, ò sentirete dire; che poffa in qualche parte alienarvi dal suo vero sertimento  Non ritrovandovi ora in istato di potere profeffare la Medicina , per non essere totalmente esperti in essa , vi converrà cercare ottimi Direttori, nella di cui elezione consigliandovi con la Pradenza , v'insinuerà, che vi appoggiate -à quell'appunto, che descrive Cicerone in tal guisa : Eft igitur adolescentis majores natú vereri, ex iisque deligere optimos, e probatisimos , quorum confilio , atque  au  auctoritate vitantur : Ineuntis enim ætatis, inscitia ferum conftituenda da regenda prudentiâ eft.  V’insinuerà d'avantaggio la giustižia come vi dovrete contenere per acquistarvi il loro affetto , che sarà, oltre l'accennato ossequio, di esser loro fede  li, e schiecti z di moftrarvi sempre pune è tutali, obbedienti, e diligenti in tutti li  affari, che v'insporranno, perche operando või in questa guisa, non solamento v'istruifanio con tutto l'amore, må vi loderanno da per tutto, dalla quale preventiva commendazione germoglieranno à suo tempo li principi delle vostre fortune', e troveretegià spianata la ftria da de voftri progreni s állorché principierete à medicáre.  Intraprendendo con questi felici principj l'attual'esercizio della Medicinás allorche' già farete divenuti esperti , non pafferă lungo tempo, che molti di prevaleranno dell'opera vostras & allora appunto li vizj vi comincieranno à muoa vere guerras e Vinvidia farà la prima  ämoà molestarvi. Questa già da bel principio vi aveva fissato adosso li suoi maligni sguardi , mà non prima di vedervi avanzati si muoverà per suscitarvi contro li suoi seguaci, e le comanderà, che spargano da per tutto, che fiere troppo giovani , che non avete ancora pratica sufficiente, e che dicano con finto zelo : Oh poveri Malati, che si pongono nelle voItre mani, se questi guariscono seguirà per miracolo, non per la vostra perizia, e se vedrà, che ciò non basti per arrestaryi ne' vostri progrelli, invigorirà allora li suoi comandi, e farà disseminare dalli medesimi, che siete veramente infelici, mentre quanti Malati vi capitano, tanti ne muojono, e che non sanno capire , come siano così pazzi coloro, che vi chiamano. Sentendovi calunniare à torto in tal guisa, cosa dovrete fare? Non altro, che consigliarvi con la Prudenza, e con la Giustizia, che vi favoriranno assai bene : primieramente vi esorteranno a non prendervene alcun fastidio, perche è affai migliore la vostra  forte  و  sorte , per essere invidiati , che non è quella delli vostri calunniatori , che non hanno chi l'invidj, mà appena tal’uno, che li compatisca. Vi consiglieranno poscia à non prendervela con quei miseram bili , e vili esecutori dell’Invidia , perche operano come suoi schiavi, non già come uomini liberi, e se foffero in loro libertà opererebbero come voi, che aba borrite simili iniquicà. Vi consiglieranno bensì à mortificare l'Invidia in questa forma, cioè, di contraporle la vostra umiltà, quando d'Invidia vedrà, che voi non siete ricorsi alla vendetta rarne il suo ajuto, mà in sua vece vi servite dell'Umiltà, resterà talmente forpresa, e confusa, che si vergognerà in avvenire di ciinentarsi più sola con voi, avyedendosi di non potervi abbattere ; mà cosa farà per non cedere? Si unirà con il Dispreggio, e con lo Sdegno per necessitarvi à ricorrere alla Vendetta. Questi vizj baldanzosi comanderanno à qualchuno de' suoi petulanti seguaci, cine vi faccia una mala creanza, e vi mo  per implom desti senz'averne data occafione, in queIto caso ricorrete subbitamente per consiglio alla Prudenza, che vi farà capire, che di tal'ingiuria , non ne doyete chiedere fodisfazione dalli seguaci del Dispregio, e dello Sdegno, perche quei, che seguitano questi yizj , come imprudeņti, sono ancora pazzi, & į pazzinon essendo capaci di discernere ciò che fạnno, non sono tenuti di renderne conto; Contro li principali dunque, & autori caderà il vostro sdegno , e questi, come vi consiglierà che li mortifichiace ? Non già con la vendetta, perche questo appunto desidereriaạo che faceste, cioè, che ricorreste ad un'altro vizio, che vi tradise, e cogliessę nel mezo per forzarvi å rendervi à loro discrezione, inà bensì con la sola sofferenza tanto da essi temuta per il grandanno, che loro apporta, & affinche lo facciate con aniino generoso vi riferirà li seguenti casi.  A Diogene Filosofo Stoico, mentre stava disputando particolarmente della collera , gli fù da un protervo giovane  fpu  Sputato in faccia , sopportò egli il tutto piacevolmente , e da savio, e solo disse: Io non vado veramente in collera , mà non lasciò però di dubitare , fe in questa occasione doveffi farlo.  Catone mentre staya difendendo una causa ricevette da Lentulo giovane seditioso ua folenne sputacchio nella fronte, egli si nettó, e rasciugò la fronte , & armato di una gran sofferenza, solo diffe: lo affermarò à tutti, ò Lentulo, che fi gabbano quelli, che negano, che tù abbi bocca. Rifettendo voi dunque all'ingiuria maggiore della vostra fatta ad uomini di tanta stima, & al modo, che si conțennero vi si renderà più facile l'esecuzione del confimile ripiego propostovi dalla prudenza , mediante il quale avvedutosi il Dispregio, e lo Sdegno, che in vece di quocervi vi hanno accresciuto ftima appresso tutti, desisteranno ancora eff di più moleftärvi, vedendosi dalla vostra sofferenza delusi, e vinti, Arriverete al fior degl'anni avan.  [ocr errors] zati già ne' commodi, & in conseguenza con più lautezza nudriti. Allora vorrà facilmente la lussuria cimentarsi con voi, e per farvi qualche danno considerabile, vitenderà molte insidie , vi farà trovare occasioni pronte; procurera, che siate con vezzi, e lusinghe adescati; Allora cosa farere?ftate faldi,perche sarà contro voi questa una gran guerra, mentre non avrete campo in quel punto preso di consigliarvi con le virid, ftanteche : Vinum, & Mulieres faciunt prevaricare Sam pientes., come ben diffe Salomone. State faldi, che è pur troppo vero, che molti si sono arrenati per questa cagione nel meglio de’loro avanzamenti : Vi converrà dunque procurare di prevenire l'infidie della lussuria, e non aspettare di cssere prevenuti da effe , e questo lo farere , quando sarete prossimi à quel tempo con chiamare à consiglio generale turte le virtù per risolvere cosa sia efpediéte,che facciate,ò di accasarvi,e con chi, ed in che tempo, ò di continuare lo Aato libero,e con che cautele maggiori,La Prudenza, e la Giustizia vi con figlieranno facilmente à prender mor glie, con il motivo gịultiflimo,che quel la vita, che da voltri genitori riceveste con voi non si estingua, mà che per la conservazione della propria specie law propaghiate ne posteri, ed à buon fine ancofa, che non abbiate tanto da impazzirvi nella vostra vecchiają à cercare l'eredi, conforme ad alcuni, che non mai fi cușorono del titolo di padre è accaduto; La sola difficoltà si rifringerà allo sciegliere chi faccia per poi , perche la Prudenza, e la Giustizia vi vorranng consigliare diversamente da quello si pratica in alcuni luoghi, dove il folico  di cercare chị abbią dotę groffa , chi sia bella, e fpiritosa; la Prudenza non vorrà, che cerchiate questo, in primo luogo, mà bensì, chi sia di buoni natali, di perfetta faļute, e di ottimi costumi, ¢ ben’educata ; e con ragione, perche non deve essere affare di minore impostanza l'accasarsi, di quello, che sia di fær compra di un cavallo; e se per comprare  un  [merged small][merged small][merged small][ocr errors] [merged small][ocr errors] un cavallo ( che non riuscendo buono fi può subitamente dar yia) fi ricerca in primo luogo la buona razza, fe fia fano, e se abbia vizio'alcuno, perche nel pro- : vedersi della compagnia inseparabile non si hanno da fare fimili diligenze Sicchè trovato che ayrete chi abbia le condizioni sudette stringete, senza più indugiare , il vostro matrimonio, con quella dote, che avrà, senza ricercarne d'avantaggio, che farete un'ottimo negozio, perche quattro faranno le doti, che prenderete, una sola apprezzata , e trè inestimabili , per non effervi prezzo, che le uguagli', e saranno, la buona nascita,la salute, e gli ottiini costumi, con la buona educazione, & avvertite à non fare diversamente , per non cadere nella sventura di Socrate, che fi abbatte in una inquietisima Santippa. Circa il tempo in cui lo dovrete fare viconsiglieranno, che non lo facciate nè troppo giovani , nè croppo vecchi, mà bensì nell'età virile, ed allora appunto, che ayrete stabilito un'assegnamento suffi  ciente  1  [ocr errors]  ciente per il inantenimento della vostra  fameglia, e non prima , pèrche si ricerca  fenno, e cominodica per effere, buon Pa-  dre di fameglia. Non troppo giovani,   per non distogliervi da vostri studj, ed  avanzamenti, ne' quali non sarete anco-  ra bene stabiliti , nè troppo vecchi, per  non lasciarli, se avrete figliuoli, troppo  immacuri, e senza avyiamento, e per  non foccombere ancor yoi fotto il peso  del matrimonio prima di quello , che  fareste vivendone disciolti , conforme  à tanti è accaduto ,  Şe poi voi adurrete alla Prudenza ,  e Giustizia li seguenti motivi, che avete   esimervida simile legame, che sono; ò che già vi è nella vostra fameglia, chi sia atto à sostenere un simil peso, ò che dubitate , che la moglie, e l'educazione de'figliuoli vi possano distogliere dalla voftra professione, qualche altro inotivo à voi folamente noto non crediare, che yi forzeranno già à farlo, vilascięrano in tutta yostra libertà, vi consogneranno bensì alla Fortezza, e Tempe  Q:  per  [ocr errors] ranza,  }  ranza , acciocchè vi consiglino, e prestino ajuto in caso, che la Luffuria vi fa. ceffe qualche violenza . Il consiglio, che quefte virtù vi daranno sarà facilmente, che siate circospetti, ed appena , che vi sarete avveduti di qualche laccio, che yi tenderà la Lussuria di troncarlo,e prima che vi poniate il piede, che siate fempre cautelati nel parlare , ę fentendo qualche parola equivoca, l'interpreciate sempre à favore dell'onestà, né la crediate detta per voi, che ricevendo qualche cortesia insolita, la crediate fatta solamente per isperimentare la vostra modestia, e non ad altro fine , onde la cancellerete subitamente, acciò la rimembranza di quella non turbi la vostra fantasia ; Che vi moftriate sempre sostenuti più tosto, che galanti in certe occasioni di confidenze, dalle quali con bel modo procuriate di liberarvene , che da certi luoghi sospetti,se ne potrete fare a meno, ne stiate lontani, & andandovi, procuriate efservi in ore, che vi fieno altri, perche al parere di Seneca : Magna pars  peccatorum tollitur fe peccaturis teftis alibi  Aat(a); ed ivi non vitrattenjate più del  bisogno necessarios e sempre con discorsi   serj, ed uniformandovi alli consigli della  Fortezza, e Temperanza non diffidate  punto della loro allistenza nelli maggio  si vostri bisogni, che dureranno lino à  tanto. che sarà in auge il fervore della  vostra gioventù .  Il vizio della gola vorrà aticor'egli  fare tutti li suoi sforzi contro di voi in  decto tempo più profpero di vostra vita,   per vedere se vi potesse adescare; e cofa   farà a comanderà facilmente à qualche-  dano de' suoi ricchi feguaci , che facen-   do uno de' fuoi sontuolillimi pranzi, o   cena; conviti ancor voi; considero , che   vi troverete in quel punto preso incri-   garislimi, perche rifletterete allora , che   le ricuserete tale invito , sarete' tenuti   per uomini incivili, che non gradite li   favori, e cortefie, che vi fi fanno; fed    l'accetterete,metterere ad un gran risico   Ja vostra temperanza , onde vi converrà   (*) Episi 11.di questo ancora chiederne preventivo Consiglio s. per aver pronto il suo fano imedio per quando vi capitaffe il bio fognb.  si Consigliandovi preventivamente con la Prudenzás.per sapere in che modo allora vi dovrete contentere, sarà facilesi chievi dica;;che se viritroverete in luoo ghi dove sia solito, e che frequentemente li Medici fiano convitati, & intervenghino in fimili bancheteis. non ricusate tali inviti s perche quelle cose, che sono folite', nou recanto alcuna aimniirazione, non facendosene caso,basterà solamente; che yi sappiate regolare con giadizio in non pregiudicare di molto alla vostra  consueta fobrietás perche nuocerestu e è  più li denti nel masticare , che la gola nell'inghiottire si e diportandovi in tal guisa,la gola avrà poco guadagnato con voi; Sepois dove voi dimorerete , non fosse in uso, mà solamente, che di rado li Medici v'intervenissero con modo al  fai civile, che lo ricusiate pure,non man.. candovi legittima scusa, mentre ò la vo(tra complessione non assuefatta à fimili disordini, ò qualche cura riguardevole, che avrete in quel tempo, queste vi potranno efiinere onestamente da qualunque taccia d'inciýiltà . 03.15  Sò che vi appagherete di tal distinzione saviazfatta dalla Prudenza, effendo. voi capaci di riflettere , che dove i Mea dici ricevono spesso simili correfie fono molto stimati, ed in conseguenza i loro difetti non sono con tanta attenzione norati da tutti, come l'opposto segue dove di detta stima si penuria.  E certamente l'esperienza hà fatto vedere, che nel secondo caso, quando li Medici si sono voluti azardare à fimili cimenti, se ne sono poscia pentiti, ftante che, ò per non essere cosa solita , ò mediante la curiosità di vedere in che modo si regolavano coloro, che tanto biafie mano la crapula, hanno ritrovato iyi molti spettatori de' loro portamenti, che li hanno posti in qualche suggezio.  R 4  [ocr errors] ne,  he', mediante la quale ; se hanno procutato di contenerli nella sobrietà, hanno. fentito de'motteggiametitizñiehte da effi graditi, e se hanno disordinato, gli sono giunti all'orecchie certi sussurri della's fervitů z che diceva : Il buon Medico che biasima tanto li disordini , egli troppo fà peggio di noi, andiamo à credere cið, ch'egli dice; Se poi taluno di elle fia restato gabbato dal vinos non hà troVato già chi l'abbia seusato ; conforme fece Seneca a favore di Catone; impuitato di fimile vizio, dicendo, che non poteva essere, che un Catone fi ubriacasses mà quando che ciò fosse stato vero, in un Catone fimile vizio faria passato in virtù .  Mà non si sono già pentiti quelli ; the civilmente ricufarono fimili inviti, mentre fattisi capaci coloro, che desideravano di vederli crapolare; dalli giusti motivi apportaci per iscusa, rimasero più tosto edificati, che disgustati da fiinili repulse, ed in segno di ciò ne diedero in avvenire attestati di maggior ftima: Ne  ро  [ocr errors] [ocr errors] potrei di questi efempj riferire alcuni a mà, per non dilongarmi troppo , ftimo bene di tralasciarli . Sicche, per vincere la gola , il partito più sicuro sarà di fuga gire l'occasioni pronte di crapolare con un'onesta ritirata , conforme la Prudene za configlia :  Stabilito che avrete il vostro itato à quel fegno che potrete ; non solo per decentemente vivere , e mantenere con decoro la voftra casa j mà ancora con la vostra economia accrescerla commodamente; allora l'ingordigia , e l'infariabia lità di cumulare vi comincieranno & muover guerra, e quello, che farà più formidabile con apparenze vantag: giofe v'infidieranno alla vita , mentre vi Itimoleranno, e vi violenreranno infieme ad accettare tutto ciò che vi si pre fenterà davanti , e fe quefto non bastera à renervi nottése giorno occupati, vi ftimoleranno à procurarne de' nuovi fervigj, e certainente non per altro fing, che per distruggere in breve il vostro inzia dividuo con una eccelliva fatica, con  una  1  250 Dell'Idea del vero Medico. una continua inquietudine di animo,con una perpetua schiavitudine, credute tutse dal Mondo pazzo per felicitàe per prosperità di fortuna  Cosa dovrete dunque fare per rimuovere da voi un sì evidente pericolo di vita, che vi sovrasta 2 Vi converrà certameute prenderci rimedio prima, che questi nemici facciano breccia nel vostro cuore., e parlamentino con il vo. ftro desiderio, perche altrimenti con lo fplendore dell'oro li guadagneranno, ed il suo rimedio ficuro farà, che quando  ' non ifta concento di ciò che hà, e vorrà procurare cofe maggiori, di consigliarvi tosto con la Prudenza, che questa facilmente lo quieterà con dirvi : Cofa bramate d'avantaggio a non avete, più di quello vi bisogna rimirate quanti altri, che hanno accor essi egual merito alvoftro, sono più attempati di voi, e pure non sono così ben proveduti, come voi fiere: Ditemi, che tempo avete , che vi avanza , quando appena ne resta tanto ,che basti per lo studio necessario's e pery il bisognevole riposo ?  E quale di questi due tempi vorrete impiegare nelle cure di più, che deside rate confeguire ? forse il primo ? La Giustizia se'ue sdegnerà per non esser vostro: Forse il secondo, che è cutro vostro & come potrete vivere s fapendo voi, che: Quod caret alterna requie durabile non eft. Riflettete attentamente, che lo le pioggie curte cadessero sopra pochi campi, in vece di ravvivarli, e rendera li più fécondi , opprimeciano più costo quanto di verde li ricopres e che la gran Providenza ,che saggiamente opera, dispensa il publico bene à prở di cucţi; facendo, che il Sole non per pochi, mà bensi per tutti risplenda', c finalmente che le taluno vorrå soverchiainente cam ricare il suo stomaco, anco di dolcissimo cibo , gli converrà ben spesso soffrire aspri dolori di ventre. Risplende molto l'oro, må riflettere ancora , ch'è più' grave di qualunque altro metallo , onde neceffariamene ammaffarne di molto non  si può  G può senza restarvi affatto oppresli id Breve sotto il suo grave peso, o per la meno perderci la propria libertà; Quindi è, che faggiamente Curio ricusò da'. Sanniti tutta quella gran quantità di oro, che gl'avevano portato 5 dicendo foro, che esso credeva cosa più gloriosa il poter comandare à chi molt'oro possedeva , di quello che fosse il possederne di molto ; volendo in tal guisa farci ca. pire, che non si poteva cumulare oro in: gran copia, e mantenere la sua libertà. Il mio configlio dunque è, che freniate il vostro defiderio, acciò non bramjata nè pure una cura d'avantaggio di quel le, che potrete commodamente reggere, e tanto maggiormente, che quefta voce Cura appresso li Latini non significa altro, che Briga, è travaglio, ex eo quod cor edat, dw excruciet, delle quali conviene ayerne folamente tante,quante baftino à poterle fofferire, e non più , verificandosi in esse più, che in ogn'altra cosa quel detto: Ne quid nimis . Sentitene però il parere della Giustizia per res  go:  [ocr errors] golarvi fino dove vi potrete stendere;  per non incorrere nella caccia d'insa-  ziabili.  Voi sarete facilmente rimasti per   ora appagati di quanto vi avrà detto la   Prudenza, à segno, che non vi curerete   sentire altro conseglio, con tutto ciò per   convenienza almeno sarete tenuti,aven-   dovi ciò la sudetta incaricato, di sentir-   ne il parere della Giustizia , intorno al  vostro regolamento, e con tale occasio-  ne vi potrete consigliare ancora sopra   un certo ripiego, che facilmente il vo-   ftro desiderio visuggerirà, cioè di all.com   gerirvi de’ servigi antichi per proveder-   vi de' nuovi di maggior vostro profitto,   e minor briga, il quale non lo dovrete   porre in esecuzione senza l'approvazio-   ne della Giustizia.   Esposto , che avrete a questa fanta virtù ciò, che bramate sapere, ella cortesemente y'insegnerà ciò, che dovrete fare intorno al vostro regolamento, che sarà di misurare in primo luogo le vostre forze , & il tempo, che vi resta libero,  [ocr errors] e poi l'impiego , che vi si presenta, e se rincongrerete le misure proporzionate trà di loro , accettatelo pure, senz'alcun timore della taccia d'insaziabili; Vi suggerirà però, che stiate bene oculati in prenderne le dette misure à suo dovere, affinchè non reftiate ingaonati, perche . altrimentiaffatto infructuofo riusciria il fuo configlio,ed acciocchè non segua un tale errore, vi darà lei medefima dug meze canne, una delle quali la troverete molto scarfa, e l'altra affai vantaggiosa; con la prima yi ordinerà, che miluriate le voitre forze, & il tempo, che vi ayanza ; con la feconda l'impiego, che vi li presenta, e prendendo voi le misure in questa guisa yi assicura la Giustizia , che non potrete errare. Doye che facendoli da voi diversamente, tutte le altre meze canne , che adoprerete ve le porgerà il yostro desiderio fatte à suo modo, e saranno tutte yantaggiose di molto quelle, con le quali misurerete le vostre forze, & il tempo, e scarsiffime quelle, delle quali yi servirete per misurare l'occasio  ni,  [ocr errors][ocr errors] ni , e questa è la cagione de? sbagli, che fi prendono contro il volere della Giuftizia , c per due capi, (primieramente, perche chi misura in cal guisa erra per abbreviare la lunghezza di fuá vita , divenendo omicida di fe medesimo, sì ancora per il danno,chie nc poffono riceveré alcunische ad ore affai incongrue, ed à mente stracca gli cocca per fimilisbagli essere curati.  In glçre vi dirà apertamente, che non dovrere in conto alcuno disfarvi delli servigi antichi per prenderne de' nuovi in fua veće, perche non avete alcuna giusta cagione di farlo , anziche facendolo, mostrereite una somma ingratitudine in abbandonare chi in temро  de' vostri bisogni vi fù grato , e chi vi favori ne' vostri avanzamenti, non con altro motivo, che de' yostri maggiori vantaggi ; se poielli, senza alcuna vostra colpa, fi alienaffero da voi , in questo solo caso, perche volenti nan fit injuria, lo potreste fare senz'alcuna taccia d'ingratitudine; e së esercitaste la  Me256 Dell?idea del vero Medica, Medicina in certi luoghi lontani, dove alcuni li prevalgono di un Medico fino à tanto, che lo vedono incominciare à far negozj, ed allora se ne disfanno per prenderne à proteggere un altro : İyi basterebbe pazientare un poco, che vi li presenterebbe l'occasione di poter: lo fare, mà dove ciò non li costuma vị convien’essere grati, e costanti, fische sarete capaci di medicare,  Con tutto che resterere per qualche tempo appagati di quanto vi hanno consigliato la Prudenza, e la Giustizia perche il vostro desiderio yerrà conținuamente bersagliato daļli sudettį ab. bominevoli vizj, sarà necessario, chcimploriate l'affiftenza della Fortezza , e Temperanza , acciò perseveriare sempre Itabili nell'offervanza di detto consiglio, & il maggior bene, che dette virtù vi potranno apportare, sarà d'infinuaryi diverse istorie di coloro, che per essere Itati insaziabili, nel colmo delle loro credute prosperità sono mancati, eche infelice memoria di esia ne fią rimasta trà  noi  [ocr errors] و  [ocr errors] noi, mentre chi ha lasciato la sua fameglia appena slattata , senza indirizzo, a senza guida, chi intricata la sua eredità , per non aver avuto tempo in vita di ben'impiegare li suoi avanzi; chi, doppa fofferta una lunghissina, e dispendiosa infermità, acquistata per li suoi grans Strapazzi , appena hà lasciato tanco, che bastasse al suo funerale; e finalmente cosa sia stato detto di tutti doppo morti, cioè, che non'ınericavano d'essere compatiti, perche erano morti per colpa loro, avendo voluto abbracciare troppo, e più di quello, che potevano reggere, çon tutto quello, che la maledicenzą gradita, e senza timore alcuno så inventare di peggio contro i poveri des fonti,  Impresli, che avrete sì spaventosi esempj nelle vostre menti, con la riferfione, che il simile seguirebbe in voi,  fc cadefte in tali errori, non temeţe più , che il vostro disiderio possa essere superato da simili vizj , perche questi gļi serviranno di un gran freno ,  R  Nelle  Nelle vostre maggiori prosperită l'Adulazione ancora vi farà doppia guerra la prima confifterà in ispargere di voi più lodi di quelle , che meriterete, per risvegliarvi contro l'Invidia , quando fi foile mai adormentata, mà trovandovi già premuniti de' buoni avvertimenti dativi dalla Prudenza, non vi potrà punto nuocere in questo primo asfalto, e se uniręcę alla fofferenza una profonda , e fincera umiltà, supererete l'Adulazione, el'Invidia nel medesimo tempo, Màvedendofi da voi la maliziosa Adulazione fchernita , adoprerà tutte le sue frodi per violentarvi ad essere suoi seguaci , e per farvi divenire per forza Adulatori, come farà mai ? Sentite bene; Pren. derà l'occasione di qualche cura grave, nella quale intervengano molti parenti, & amici dell'Infermo, e vi farà da  queiti  porre in angustie di diventare Adulatore per forza, per li seguenti impulsi : Vi dirà taluna di esli , questo male si aggrava, perche non gli fate applicare quattro vefficatorja se ne morirà senza  questo  [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small] questo rimedio, e la colpa farà tutta yostra, che trascurate un rimedio sì efficace. Un'altro vi dirà: perche non gli date una buona Medicina da tirare giù ? lo volete lasciar morire senz'ajuto? ayver, cite, se muore , fentirere, che si dirà di voi, à me basta di avervelo avvisato. Vi sarà ancora trà essi chị vi ayyertirà, che se gli cavate sangue morirà certamente, perche non gli conviene; e d'avantaggio vi dirà , che se lo cayerere lo amazerete, e derro male farà per appunto un'infiammagione interna , nella quale non conviene ciò, che viene proposto , e gli sarà necessario quanto viene ritardato. Vedete in chę angustie , in che laberinţi vi troverefte, se non aveste la Prudenza configliera ? Imitercste senza dubbio, ò quel Medico, à cui un tempo fà , fù suggerito da un'amico dell'Infermo , in un caso simile , un certo riinędio, dicendo, che lo proponeva , perche cra esso ancora mezo Medico ; A cui alquanto alterato gli rispose: & io son tutto Medico , conviene dunque, che la mecà ce  [ocr errors][ocr errors][merged small] fi: 28    1  da al tutto; Io, che sono tutto, non voglio che si dia , non si deve dunque dare; O pure quell'altro, che ritrovan. dosi in un fimile intrigo», doppo aver dette le sue ragioni , senza profitto, rifpose : Giacchè loro Signori ne fanno più di me, facciano loro la cura , e se ne andiede via, mà ciò non lodandolo la Prudenza, sentirete dunque da lei , in che forma vi dovrere regolare.  Sentendo riferire da voi questo fatto la Prudenza disapproverà molta, che chi non è Professore, ardisca così francamente di proporre, ed escludere quelli rimedj, che in mali sì gravi danno molto da pensare alli medesimi Professori provetti, e che pongano à cimento li onorati, con modi si violenti, di diventare Adulatori, e facilmente in tal guisa vi consiglierà: Dite le vostre ragioni à chi bisogna, con animo composto, e questi, ò fi appagheranno di quelle , ò nò, se ne resteranno fodisfatti, rimarrà già terminata la controversia , e potrete fare liberamente à voftro modo, se poi persisterahtio ancora ostinati nella loro opis nione , allora suggerite, che tratrandosi di un male sì grave con tante controverfie, desiderate nella cura di avere altri Professori compagni per meglio risolve. re ciò, che si debba fare ó e procurate, che con sollecitudine ciò segua y acciòcchè la lunga dilazione non pregiudichi all'Ammalato, e che ne consulti siano presenti coloro, che fuscitorno le controversie , affinche sentano con quante circospezioni sono serviti gl'Infermi, ed ancora se avranno qualche cosa di più la poffano dedurre à tutti.  Facendo voi à modo della Prudens za, non dovete avere più timore di prevaricare, perche la Fortezza vi assisterà, c consolerà insieme , l'assistenza sarà di non farvi prendere in questi casi certi : dannosi ripieghi, che sariano , in vece de' vefficanti d'applicare li senapismis di un purgante , dare un leniente, ed in tanto d'andare differendo la sanguigna , facendovi conoscere, che l'operare in questo modo non è da Medico, mà bensi  [ocr errors] 9  [ocr errors] da Adulatore, e che quancunque questi tali nelli funesti eventi fieno dall’Adulazione tenuti indocenti, e difefissorio però dalla Giustizia creduti rei di gran colpa s con tutti quelli, che ne diedero l'occasione, e vi confolerå parimente la Fortezza con dirvi: Si poffono chiamare tempi felici nella Medicina li presenti, non vedendoli ora l'Adulazione premiata à quel segno, che era ne' tempi di Galeno, nè la lincerità così vilipesa; Allora trionfavano li Medici Adulatori, erano ricchi, e potenti gerano stimati , e riveriti, ogn’uno facęya à gara di fayòrirli, eli onorati, sinceri, e docti se ne stavano abbandonati, derisi, evilipeli, e se non fosse stata la mia grand'alistenza,che prestavo loro , nè pure úgo ne sarebbe rimasto di efli, anzi Galeno isterlo, che non avesse prevaricato per quanto venivano violentati dall'Adulazione :' So, che presterete fede à quanto vi dico, mà volendovene accertar meglio di quanto fuccedeva in quei cempi leggere ciò , che Galeno riferisce nel primo del suo  [ocr errors] me.  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] metodo, che appunto è questo: Eoque jure fit cum ægrotare cçperint Medicos advocent , non quidem optimos į utpotè quos per Sanitatem noscere nunquam ftuduerunt , fed eosy quos maxime familiares habent ; quique ipfis maximè adulentur , qui du frigidam dabünt; si banc popofcerint, lavabunt cùm juferint; a nivem; vinum= que porrigent poftremò quidquid jubebitur mancipiorum ritu facient &c. itaque non qui meliùs arten callet ; fed qui adulari aptiùs novit apud iftos magis in pretio eft , buic omnia plana's perviaque funt , huic ædium fores patent ; hic brevi efficitur dives, plurimùmque poteft &c. Quali violenze oggidì sono cessate , mercèche hanno imparato molti à proprie spese à non commertere più la loro vita in mano degl'infidi Adulatori, e perciò essendo mancati per loro l'impieghi, e li gran guadagni, che in breve facevano,è mancato ancora quel grand'impulso, che vi era à dover effere Adulatori per essere adoperati, e tutto questo mi costa  per essere io la Fortezza, che affifto à quei  ز  e. lig a fe ne be he ni dy 112 to 5, 10  generofi spiriti,che abborriscono l'Adulazione , & abbandono quei vili, che se le danno in preda  Se poi non bastasse all'Adulazione d'avervi fatto violentare da parenti, ed amici, mà volesse ancora farvi forzare dall'Infermo isteffo à divenire suoi fem; guaci , in questo caso, fatte che avete le diligenze propostevi dalla Prudenza; e. che mediante quelle egli non resti appagato, la Giustizia non vi violenterà già à continuare il servigio, vi forzerà bensì à non divenire Adulatore , onde in questo caso, con tutta civiltàs procurerete ( quando l'Infermo' non deliri) di consegnare ad altri ciò, che non fà per la vostra riputazione ; ben’è vero, che questi sono casi rarissimi avendo molte altre cose da penfare l'aggravato Infermo, che di voler'essere adulato, con tut  per farvivedere, che ve ne sia stato qualcheduvo, che abbia desiderato di cllcre adulato fino alla morte, viriferirò la presente istoria : Una persona di qualità cospicua, molti anni sono, dovendosi  pro  to ciò  [ocr errors] [ocr errors] provedere di Medico; ne scelse uno tutto di suo genio, ed avendolo participato al suo amico di confidenza ; questi in vece di rallegrarsene seco se ne condolse, dicendogli apertamente, che poteva fare meglior'elezione , essendovene tanti più esperti del già eletto 3 replicò à questo: Lolo-sò beniffimo, mà hò voluto pren derne uno, che faccia à mio modo ancora quando mi trovo ammalato, perche io non poffo Coffrire quel Medico, che allora mi voglia forzare à fare à suo modo, gli rispose saviamente l'amico : Signore, chi fà à suo modo quando ft benes: conviene , che faccia à modo del Medico quando ftà male, non poffo lodare la sua elezione, con tutto che sia di suo genio, perche si tratta di Medico, à cui si consegna la propria vita, non già di un servidore di mera comparsa ; che poco importa di che abilità egli sia, mà non paffarono molti anni, che detto Signore cadde inferino di lunga , e fiftidiosa malacia, che terminò finalmente, per essere vissuto à suo inodo in un'ascelfo interno, espurgava della marcia per feceffo , la vidde l'isteffo Infermo, che diffe, non farà marcii , må bensì il pangrattato, che hò preso questa mattina lo domandò al suo Medico, che gli rispose per dargli gufto, quello appunto & Signore, e con quel pangrattato se ne mori, adulato sempre fino al fine della fua vita.  L'Iniquità, e l'Inganno confederati , nôn porerido più Toffrire, che voi godiare quella bella tranquillità interna per cagione delle vostre virtù, vorranno ancora effi con le loro frodi adoperare ogni sforzo possibile per turbarla ; ed in fare ciò vi toccheranno facilmente nel più vivo, inolestandovi in qualche cosa di vostra somma premura , e doppo di aver consultato trå fe più danni,risolve, ranno alla fine di farvi perdere il servigio di quelli, che vi sono più á cuore, € tanto si adopereranno,e con tanti mezi s'ingegneranno, che finalmente gli riufcirà ciò, che bramavano i onde voi, senza faperne il perche , e senza averne  data  و  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] data alcuna occafione , essendosi con in? sidie segrete proceduto , all'improviso vi troverete esclusi da quel servigio da voi tanto prediletto. E che farete allora? vi dolerete forse con la Giustizia ; che siete stati licenziati à torto ? Avvertite , che facendo in tal guisa imitereste Santippa, che si doleva della morte di suo marito , perche si faceva morire å torto, à cui il sapience Socrate rispose : E che desideravi forse, che io foli fatto morire à ragione ? questa appunto è la mia gloria, che sono fatto inorire à torto. Sicchè alla Giustizia non vi cooviene ricorrere, må berisi dapoi che fi sarà alquanto calmato quel senso, che neceffariamente vi avrà apportato una nuova ingrata, ed improvisa, dovrete ricorrere alla Pradenza per riceverne il suo configlio à fine di poter più spedicamente restituire all'animo vostro quella bella calma, che dall’Iniquicà, e dall'Inganno gli era stata rubata :  La Prudenza senrendo da voi tal novità vi consolerà certamente, ftate  al  [ocr errors][merged small][ocr errors] allegri, dicendovi , che questa è una's grazia, che vi fà la Divina Providenza, facendovi capire , che vi dovete alquana: to staccare da ciò, che nel mondo vi è più caro , per confidare solamente in lei, che non mai hà abbandonato chi fedelmente la serve. E di che vi dolete? forse perche perduto avete un servigio à voi caro ve ne restano pure tanti altri? com- .. partite tra questi il vostro affetto, che così non avrete fatta perdita alcuna potendone del vostro amore ricevere da molti maggior ricompensa di prima, ò pure (che sarà meglio ) questo vostro amore non gradito dagl'uomini accrefcetelo à Dio, che vi recherà molto maggior profitto di quello , che vi rendeva prima. E se veramente amate di cuore quella casa, che avete perduta g non vi dovete contristare della perdita vostra , mà bensi della sua , avendo lasciato voi, ch'eravate già istrutti da tanto tempo nelle complessioni, e mali di chi ivi conviveva per prenderne uno affatto novizio , che prima , che ne qa divenuto  1  capace à quel segno, che voi siete, vi vuole del tempo affai, & in tanto come anderà? e poi se questo nuovo eletto fù complice ancor'egli nelli segreti trattati dell’Iniquità, e dell'Inganno , che bell. acquisto , che averà fatto, prendendo uno di simili costumi in vostra vece , che fiete uomini di onore, talche non voi, mà chi vi lasciò hà occasione d'afAliggersi, perche danno à se stesso feçe, non à voi, che per essere esenti da questa briga ne ricevere sollievo ; chi è pari. mente entrato in luogo vostro , se pur? egli è complice, come disfi , ayrà molta occasione da contristarsi per la finderesi, che gli resta di non avere operato come dovea, e per il timore, che un giorno il fimile possa succedere à lui ancora.Quietatevi dunque , giacchè rammarico alcuno non vi resta d'averli mal serviti, con questa ferma fiducia, che in quel sito ( come tante volte è accaduto ) da dove la malvagità, e l'inganno hanno tolto à viva forza un virgulto , la Giustizia vi pianterà un vago, e glorioso lauro  con  [ocr errors] con questo motţo ;Ųno avulo splendidior non deficit alter; molto di più vi potrei dire, se non lo riputaffe superfluo, poiche gl’animi vostri ben moriggeräti con pochi motivi si sodisfano, e li calma. no, allorche vengono da accidenti im. provisi turbati,  Udifte come vi consolo bene la Prudenza, e con che fortį motivi , li quali fe li cerrețę impressi nelļe vostre menti, quantunque vi giungano simili accidenti in avvenire, punto non vịcontristeranno, avendo questi forza di disporre gl'animi vostri à foffrirli coftantemente, ed in conseguenza di fare, che li sudetti vizj delle loro iniquità non trionfino.  L'Ambizione yorrà ancor'effa nell' auge delle vostre fortune tentare, fe  potesse fare con yoi quaļche acquisto; s'ingegnerà di porvi nella mente idee grandiofe , viftimolerà à molte imprese, con pretesto di rendervi a' pofteri gloriofi : Per esempio , fe y'insinuerà di comporre qualche vago sistema di Medicina, qualche nuoyo metodo di medicare , à qualche altra cosa non pensata , nè tencat fin'ora da altri, e voi ricorrere subbita. mente alla Prudenza per consiglio, e vedrete come v'indirizzerà bene ; intorno à nuovi sistemi, e metodi di medicare vi farà questo dilemma: O ve ne sono trà gl’inventari de' veri,ò nò; Se ye ne sono, perche non li seguitate? che cosa yolete cercare di megliore della. verità? Se poi non vi è cosa ancora accertata in quelli, avendoyi per tanti secoli frayagliato una infinità d'uomini dotti, cosa yi persuaderete di fare di vantaggio ? non vi avvedete , che indarno faticherefte ancor voi, senza speranza alcuna di gloria, e se pure la conseguiste saria per pochi momenti; Il sistema, ed il metodo corrispondono al tutco, e quando questo non regge , e non suflifte, è se. gno evidente, che le fuc parci costitutive fono difertose; Impiegate dunque ogni voftra fatica in accertare , e rendere palese qualche parte di esli, che vi avvedrere, che sia oscura, ò che manchi, la quale benchc minima , nulladimeno una gran gloria vi apporterà, allorche l'averete accertata, e rinvenuta , e lascierete tali imprese grandi a' pofteri , che fi renderanno più facili a'medesimi, ale lorchè acquistate, saranno maggiori notizie delle loro parti costitutive,di quel, le ve ne fieno al presente; E per non effere creduți imprudenti scegliere di queste le necessarie , come avvertì Cicerone, (a) dicendo : Alterum eft vitium, quòd quidàm nimis magnum  gran  )  ftudium , multamque operam in res abfcuras , atque diffaciles conferunt , eafdemquè non necesarias; e quelle ancora, che sieno proporzionate alle vostre forze, come insegnò Orazio :(b) Sumite materiam vestrisqui firibitis    aquam.  Viribus , & verfate diù quid ferrere     cufent  Quid valeant humeri.   E perciò vi consiglierà la Prudenza d'impiegarvi in yostra gioventù intorno į a' ritrovamenti Anatomici , Chimici,  of[a] Primo de Officiis. (b] De Arte Poetica.   osservazioni Mediche e d'altre cose   utili, che richiedono ayvedutezza di  mente, buona vista , afsiduità , pazien-  za, e sanità, e questi accertati, che sono  incontrovertibili, rimangono per fem-  pre, e vi dissuaderà in detta età di dare  alla luce trattati di nuovi modi di inedi.  carc,essendo allora appunto come i frut-   ti fuori di stagione, che non hanno tutta  la loro sostanza, dovendosi ciò maturare  nell'età avvanzata, e colma d'esperienze  pratiche , dal che si può dedurre la ca--  gione, perche talvolta ne’libri,che trat-  tano di pratica , alcune cose, che vi fi  ritrovano non si verificano punto, e ciò  proviene , perche furono descritte da  Medici , che non avevano ancora tutta  l'esperienza necessaria per meglio accer-  tarle.   Vedendo questo vizio di non avere { potuto nella vostra persona fare alcun  guadagno, vorrà far prova, se per l'amore, che portate à qualche vostro figliuolo vi potesse far prevaricare, e vi anderà suggerendo à poco a poco, che avendo  S  voi  [ocr errors][ocr errors] voi de' buoni Protettori, gli procuriate, mediante il loro ajuto, qualche titolo nobile , qualche carica onorifica superiore alla vostra condizione per inalzarlo, e dargli insieme attestato del vostro amore, e benche questo non cada nella persona vostra direttamente, con tutto ciò, venendo procụrato da voi, tanto sarete tenuti consigliarvege con la Prudenza, anzi con la Giustizią-ancora , e consigliandovi con queste virtù vi diranno concordemente, che il maggior benc, che voi potrete fare a' vostri figliuo, li sarà, il procurare con ogni maggiore judustria , che divengano capaci , e meriteyoli di dette cariche, di detti titoli, che così, con poco ajuto de' vostri Protettori, potranno à suo tempo conseguire ciò, che sapranno desiderarc, e gloriosamente, venendo loro ciò conferito à cagione del proprio mcrito, ed operando voi in tal guisa , l'Ambizione nonpotrà trionfare di voi; trionferebbe bensì, quando che voi usaste violenze in procurar cose, delle quali non ne fossero  [ocr errors] me  [ocr errors] meritevoli, nel qual caso ancora quanto farete loro ottenere sarà per l'appunto consimile à quel titolo nobile, e speciofo, che si legge nel frontispizio di qualche libro, à'cui la materia rozzamente,  senza dottrina in esso trattata non gli corrisponde, che in vece ne formi concetto di esso chi lo legge, e considera, lo muoye più tolto al risos e perciò resta in un cantone derelitto, senza che alcuno più lo consideri,  L'Avarizia con duplicato pretesto di zelo vi assalirà ancor'effa, ftantechę se non avrete figliuoli, ò nipoti y’infinuerà, che facciate degl'avanzi più che potrete, à fine di stabilire qualche degna, e grandiosa memoria di voi à prò de' posteri; fe poi gli averete, li facciate ancora per lasciarli più commodi, ed in questo frete bene circospecti, poichè  Fallit enim vitium fpecie virtutis ,  du umbra; Onde appena, che in voi fentirete certi impulli, certi stimoli infolici di cumulaà tali effetei, consigliatevi con 13 S2  PruePrudenza, e con la Giustizia, le quali vi faranno capire ciò, che dovrete fare , c vi diranno facilmente intorno alla memoria grandiosa, che meditate di lasciasciare, essere meglio, che la lasciare ale quanto meno magnifica, e senza alcuno ajuto dell'Avarizia, che grandiosa con viziosi avanzi, perche tutto quel di più, che mediante il vizio l'accrescerete, in vece di apportarvi gloria , vi recherà ignominia , e che rispetto al cumulare di vantaggio per li figliuoli, e nipoti non lo facciate, perche quello lascierete loro di più,acquistato con Avarizia consumerà ciò, che avrete onestamente acquiftato, in oltre che voi siete tenuri di lasciar loro tanto, che li bafti à potersi avyanzare ancor'essi nelle virtù, stante  che :  Haud facilè emergunt quorum vir  tutibus obftat  Res angufta domi . : E v'infinueranno d'avantaggio, che Ippocrate v'insegnò' chiaramente à tal proposito ciò, che dovete fare, dicen  dovi  [ocr errors] [ocr errors][merged small] dovi: (a) Neque verò exigende mercedis  cupiditate duci oportet , nisi ut ad artem  edifcendam tuos instruas; E che quando  gli averete duplicato, ò triplicato ciò,  che fù lasciato à voi, e vi bastò per di-  venire virtuosi, sarete giudicari da tutti  per buoni Padri di fameglia, e che av-  vertiate bene, che certe ricchezze, che  superano la propria condizione, e per  altro non bastano à mantenersi in altra  sfera superiore , sono pericolosissime,  perche à cui fi lasciano , volendosi trat-  tare quefti d'avantaggio di quello, che  compete loro, preftamente le dißiperan-  no, conforme l'esperienza quotidiana lo   dimostra ben? fpeffo , per non volere   questi tali ad altro impiego applicare ,   che à quello dello dispendioso diverti-   mento, non servendo ftrertiffimi Fide-   commiffi , nè altri legami inventati per   impedirlo; ftanteche nella medesimais   conformità, che da'viventi si passeggia   sopra li sepolcri de’defonti, cosi ancora   per l'appunto si passa sopra le loro vo-   [ocr errors][ocr errors] lon(a) De pracept.  S 3.  278 Dell'Idea del vero Medico. lontà, e che quello, à cui dovrete invia gilare più d'ogn'altra cosa farà, di lasciarli virtuosi, ben’educati, e con buoni avviamenti, che allora , quantunque li lascierete con mediocri commodi, da se medesimi potranno divenire ricchi, e con questo vantaggio maggiore , che quelle ricchezze, che da se medesimi fi accumuleranno , non già le disliperan10 , conforme bene speffo in quelle , che si ereditano succede. Ponderate bene questi consigli, e servitevene, se volete in tutto abbattere l'Avarizia.  Incominciando voi à porre il piede nella vecchiaja , à cui conviene di cedere, ve ne avvedrete facilmente, quando che non potrete con quella facilità di prima reggere le voftre solite occupazioni , ed allora cosa farete? Non altro certamente che di consigliarvi con tutte le virtù, che v'indirizzinó per qual via dovrete caminare acciocchè voi , li quali sarete utili alla Republica per la lunga esperienza, che avrere, possiate più lungamente giovarle.  La  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] La Prudenza, come Maestra di tutte le altre virtù vi dirà, che non è  convenevole d'abbandonare tutti quei fervigj di coloro, che da voi per lungo tempo ne hanno ricavato del profitto nella loro salute , ed anco lo sperano in avvenire, per la fiducia , che hanno in voi, efsendo in istato ancora di potere ben'oprare , nè tampoco parte di elli , perche faria molto odiofa una tale vom ftra parziale risoluzione ; onde voi non potendo disfarvene, per non sentire ilamenti dei vostri clienti, vi converrà perfare di andare sostituendo qualcheduno, che vi poffa alleggerire almeno la fati  ed acciò abbiate facilità in eleggerlo, vi apporterà le trè malime sostituzioni , che il mondo tutto rimirò nel primo secolo della commune falurcs cioè : La prima, che fù fatta da Augusto in persona di Tiberio ; La seconda da Galba in quella di Pilona ; e la terza da Cocceo Nerva in quella di Trajano; ed in tal guisa facilmente v'istruirà , dicendovi : Nella prima Augusto ebbe una  $4  pelli  [ocr errors] pessima intenzione,inentre scelse un soggetto di reprobi costumi; un Tiberio ben noto per la sua iniquità, ed al sostituente più di ogn'altro, stanteche: (6) Comparatione deterrimâ fibi gloriam quafavisse . Nella seconda vi fù ottimo fine, perche fù eletto un meritevole, solamente si mancò ne i mezi , e di questo ne fù cagione l'avarizia di Galba, giacchè:(c) Confit at potuiffe conciliare animos, quantulacunque parci jenis liberalitate, c perciò ebbe l'esito infelices Nella terza finalmente tutti li requisiti furono ottimi, non vi fù punto di vizioso sì nel principio, che ne i mezi, e fine , e perciò fù gloriofiflima. Queste , benche fie00 state sostituzioni maflime, nulladime‘no possono servire di norina ancora nelle picciole, mentre dalla prima ne ricaverete, che vi sarà  che vi sarà poco bene accostumato; chi farà vizioso non meriterà di essere da yoi eletto ; Dalla seconda ne dedurrete, che chi elegge deve stare lontano dall'avarizia, e non esser  punto  do[b) Tasit. Annal lib. 1. [] Tacit. Hia.Jib.1.  redominato da questo vizio, se brama, che tutto vada felicemente ; Sicché la terza, in cui concorrono tutte le buone condizioni farà quella , che si dovrà imitare da voi per fare una degna elezione,mentre non fù già eletto da Cocceo Nerva Trajano per cagione di parentela , nè di {moderato amore, che gli portasse , mà bensì per il suo merito, e per la bontà de' suoi costumi, e non ebbe già per fine principale di gratificare l'eletto, mà solamente coloro , che doveano effergli. fudditi, e perciò riuscì un'ottimo Imperatore, e felicissimi tempi furono chiamati quelli del suo Impero. Non intendo già per questo di consigliarvi d'abbandonare li parenti, gl'amici, e quelli, che più d'ogn'altro ainate, perche ciò non saria ragionevole, anzi vi dico, che fiere tenuti à preferirgli ad ogn'altro eguale, ed anco qualche poco superiore à loro, conforme vi ordinerà la Giustizia isteffa , vi avverto solamente, che non vi serviate della parentela, dell'amicizia, e dell'amore per inicroscopio, acciò  ز  [ocr errors] vingrandischino di molto il soggetto, che prendete di mira per sostituirlo, altrimenti v'ingannerete , e chi lo mirerà fenza questi microscopj se ne avvederà molto benes conforine capirete anco voi istelli rimirandoli fpassionatamente ins fimile forma : E' ud verso affai trito; mà però che cade molto al proposito quello, che dice:  Quifquis amat ranam, ranam putat  effe Dianam; E la cagione fiè, perche l'amore non solamente så ingrandire il merito , mà ancora så ricoprire li difetti degl'oggetti amati. Se farere dunque voi la vostra elezione con rimirare li soggetti calig quali realmente sono 1109 alterati, per quali vi pofsono parere, non solamente sarà questa gradita , e profitcevole, mi eziandio riuscirà per voi gloriosa , conforme seguì à Cocceo Nerva, à cui la maggior gloria , che gli fia rimasta trà tante altre è quella ; di aver'egli saputo eleggere un Trajano per fuo successore all'Impero , e solo da questi ogn'uno  [ocr errors] ora comprende à qual segno giugnesfero la sua prudenza , il suo giudizio, e la sua integrità, ed essendo questi documenti della Prudenza per appunco coerenti à ciò, che Ippocrate c'insegna, cioè :(d) At verò imperitis nunquam quidquàm procurandum committes. Sin minùs ejus, quod malefactum eft vituperium in te recidet &c. non potrete da esli punto discoItarvi.  Palliamo ora all'incunbenza, che dovrà avere questo vostro sostituto, il quale essendo da voi scelto di buoni cos stumi, e dotto, caminerà in curto fecon: do la vostra direzione, onde profitcevole in conseguenza sarà , à cui l'avrete proposto, perche ne riceverà da esso un servigio alliduo, animato dal vostro prático configlio, e di questo ve ne prevalerete da principio ne'casi più leggieri, per poi, fecondo che v’andrete inoltrando negl'anni, avanzarlo ne'.gravi, con questo però, che abbiate l'occhio arrento al servigio, con visitare ancor voi di quando in quando gl'Infermi, per diriga gerli meglio con li vostri più accertati consigli , e facendo voi in questo modo non solamente non avranno fcapitato punto li voftri Infermi, anzi che più toito acquistato , restando loro tutto il voAro consiglio come prima con l'afiftenza maggiore del giovine sustituito, che da voi , mediante le vostre occupazioni, non lo potevano esiggere, e precisamente nelle ore più fastidiose, e tutto questo benefizio sapete perche lo riceveranno, ftanreche il sostituto fù scelto da voi, e da voi non preso à caso, mà bensì capato trà li buoni per il migliore, dove che se fosse stato preso per via di raccomandazioni, e senza la vostra dependenza , non caminerebbero le cose così felicemente, poiche sdegneria tal da voi independente sostituto caminare con le yostre direzioni, volendo far'egli à suo modo, e non saria picciolo favore,quando ve lo facesse, in caso di qualche controversia , di non ispargere da , che voi siete vecchi rimbambiti, e che  quan; [d] De dec.orn.  non  [ocr errors] non fiete più capaci di medicáre, per iscreditarvi con fimili menzogne, e da ciò qual vantaggio se ne riporteria à prò degl'Infermi, se non che una confusione, una inquietudine continuata , ponendosi in dubbio talvolta à chi de* due fi dovesse prestar maggior fede, se al giovane petulante, e scostumato,ò al vecchio, benche ingiustamente vilipeso; Con ragione dunquc Ippocrate inveisce contro costoro, che per vie indiretre si avanzano, dicendo: (e) Quàm repentè evecti fint, fortunæ tamèn ægentes per divites quofdam ex anguftiis emergunt utrique exi eventu nominis , celebritatem adepti, & in pejus ruentes luxu diffluunt , quæ in arte nulli rationi reddende sunt obnoxia negligunt ac.  In questo proposito il Disinganno, che hà il cuore sincero vi scoprirà un'altro pregiudizio delli massimi , che corrono trà alcuni , che non sono nella professione versati, quali credono per cosa utile nelle cure le controversie, edissenzioni trà Medici, e dicono, che essendo trà essi discordi, si scopra allora meglio la verità, confondendoli da quefti tali ciò, ch'è disputa virtuofa , utile anzichè neceffaria , dalla diffenzionc, e discordia superflua, e viziosa, nata dal mal costume . Il Disinganno vi scoprirà il tutto, e vi dirà: la disputa neceffaria è quella, che risulta da qualche indicazione dubbiofa per meglio discernerla, e questa trà Professori esperti, e di buoni costumi termina prestamente ; perche seguitandofi da elli solamente il configlio megliore, in un subito si accertano, le quali ragioni , e quali motivi prevalgono, se gl’affermativi, ò pure li contrarj, ed à megliori concordemente si appigliano ; Dovechè la diffenzione, e difcordia , che proviene dal mal costume, che per lo più viene fomentata da puntigli, e germoglia da picciole occasioni, non solamente è molto dannofa , inà perche si yà al cattivo, non mai viene affatto terminata,stanreche in simili contenzioni = Qui velit ingenio cedere nullus  eriti  [ocr errors] erit ; ela cagione di ciò n'è, perche tutto proviene dalle volontà discordi,che non amano di unirsi assieme, nel qual caso lę ragioni più valide, li motivi più evidenti, ò non appagano, ò non si vogliono capire, à segno , che alla fine annojarifi del troppo altercare, in vece della decifione letteraria fi passa qualche volta all' obbrobriosi improperj, senza ricavarne altro profiețo, che : Şeipfos ludibrio exponere , come insegnò Ippocrate , (f) € questo è per appunto quell'ideato bene', che à prò degl'Infermi se ne riportą da fimili contese, sicchè non v'è altra strada, che quella della concordia, à cus uniteci il consiglio già propostovi dalla Prudenza, & approvato dalle altre virtù entrando voi nella vecchiaja, se bramate con vantaggio,e profitto de' vostri Infermi alleggerirvi dalle fatiche, nel qual caso trovădoyi aggravati dall'ostinata Discordia , la Giustizia non vi obligherà à paziétare di vataggio,mà farete, che ogn’uno si serva pure à suo piacere ,  (6) Lib. de Praçept.  [ocr errors] Inoltrati, che poi sarete nella vecchiaja , che ve ne avvedrere pur troppo, se non vi vorrete lusingare, dalla notabile mutazione, che proverete in voi da quello , ch'eravate una volta, poiche le forze del vostro corpo languiranno, il vostro perspicace ingegno, la vostra. gran memoria, la vivacità del vostro fpirito, il discorso così spedito non si scorgeranno più quelli, che già furono, rincontrandoli ogn'uno molto mutati. In tale stato inevitabbile, cosa vi converrà fare? Non altro certamente, che d'imitare quei celebri Pittori, che per non perdere quel glorioso nome, che per lo passato aveano acquistato, allorche si avvedono, che i loro pennelli non sono più à dovere regolati dalla tremolante mano  li sospendono per trofei delle loro opere già fatte, e terminano in questa guisa gloriosamente il loro mestiere.  Seneca assomigliò faggiamente la vecchiaja alla nave, che comincia per la sua antichità à scomporsi, dicendo:  Quem  12  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Quemadmodùm in Have, que sentinam  trabit uni rime , aut alteri obfiftitur : Ubi  plurimis locis laxari cæperit , q cedere,  fuccurri'non poteft navigio dehiscenti : Ità   in fenili corpore aliquatenùs imbecillitas  fuftineri , c fulciri poteft, ubi tamquàm   in putri ædificio omnis junctura dilabitur ,  Odùm alia excipitur , alia difcinditur cir-  cumspiciendum eft quomodò exeas . E po-  tendo egualmente la detta nave, che il  vecchio, pericolare nel suo consueto  viaggio, converrà dunque ad ambedue  prendere il sicuro porto per prolungare  più, che sia poflibile il suo essere.   Mà questo distaccamento vi parerà il più duro, il più difficile di qualunque altra cosa, che averete emendata in voi sino à quel tempo; sì perche quest'impotenza insensibilmente se ne verrà ayanzando, onde in un subbito non ve ne potrete avvedere, e forse non prima di allora , che voi sarete renduti affatto inabili per la repugnanza grande , che hà Pumana natura à dichiararsi inabile, come ancora, perche non godendo più  T  quel  е  quella bella perspicacia di mente, quella pronta risolutezza di prima, non saprete così bene, come una volta, scegliere, e prontamente eseguire li buoni consigli della Prudenza, e se il buon'abito fatto non vi ajuterà allora à fare tal risoluzione, infingardamente procrastinando di giorno in giorno ad effettuarla , farete più tosto voi prevenuti dalla neceflità, di prevenirla ; Sicchè prima, che voi abbandoniate li negozj; elli averanno lasciato voi's Quindi è, che per non cadere in fimile obbrobriofa miseria converravvi, per ben consultarla, nè d'afpettare allora , che la vostra mente farà notabilmente deteriorata, nè, per eseguirla, quando sarete molto proflimni al non potere più operare, e quanto queste risoluzioni più generosamente intraprese saranno , tanto più gloriosamente, e facilmente vi riusciranno, nè crediate , che un simile distaccamento, con tutto che la nostra natura vi repugni , lo sia impoflibile à farsi, mentre lì è veduto praticare da più d'uno , e trà gli altri dalMedico Romolo Spezioli , il quale nel colmo delle sue prosperità, doppo un lungo servigio della Regina Cristina di Svezia , di gloriofiflima memoria, che continuò finche ella visse; doppo essere ftato Medico Pontificio della santa memoria di Alessandro Ottava, incaminatosi già per la via Ecclesiastica, proseguì questa, e lasciò affatto nell’auge delle sue occupazioni, e della sua età con generosa risoluzione, contento di ciò che aveva acquistato , l'esercizio della Medicina , nè alcuno de' suoi clienti si è potuto dolere con ragione di lui, perche li abbandonò è vero,  mà     per   servire folo à Dio, che con quanta esemplarità egli lo faccia , offenderei non solamente la fua modestia con riferirlo, mà temerei ancora, con fargliene molti encomj, che non restaffe à bastanza appagato chi con occhio fincero giornalmente rimira le fue degne operazioni.  Nè devo in questo proposito paffare sotto silenzio il ritiro , che fece Antonio Piacenti di felice memoria, mio di  T 2  let  [ocr errors][ocr errors] lettissimo Maestro, avendo voluto egli tra le altre fue virtù, per compimento della sua gloria collocarvi questa ancora del bel distaccamento dal mondo,e nell' istabilirlo mi disse, che lo faceva per prevenire la sua inevitabbile impotenza, ftimando , che il prevenirla fosse cosa più vantaggiosa , che d'effere da effas prevenuto per gl’esempj, che aveva offervati in alcuni , che quantunque decrepiti, e finemorati, con tutto ciò non vollero lasciare di fare il Medico' più per rendersi ridicoli appreffo li giovani, che punto non li compativano, che di effere a' suoi Infermi profittevoli, e con ammirazione di tutti ponevano à pericolo quel buon concetto , che avevano fino allora acquistato, per un tenuiffimo, c miserabbile premio, del quale non nc avevano alcun bisogno, per essere già divenuri molto ricchi.  Sicchè per isfuggire simili sventure vi converrà d'andar pensando in tempo opportuno, e quando ancora sarete con fegtimenti vegeri, à questo buon ritiro,  c fino  [ocr errors] la  e fino da quel tempo appunto, che.co“ mincierete ad alleggerirvi le fatiche, perche ciò, che la Prudenza allora vi consigliò fù tutto preordinato à questo effetto, e la prima diligenza, che vi converrà fare sarà di agiustare li yoftri affari domestici in quella forina appunto, che fogliono praticare quei saggi viandanti, che devono sempre stare allestiti per passare in remotislimi paesi, e che non possono indugiare punto, allorche sono ayyifati  per partenza. Questi tengono sempre pronto ciò, che fà di bisogno per il loro viaggio, si aggiustano le loro puntuali rimelle , e poi danno la sopraintendenza generale di ciò, che possedono à chi fedelmente lo custodisca, ed à tal ministero eleggono un proprio figliuolo,se farà prudente economo,e fenza vizj,altrimenti un'estranco di provata fedelcà, economia, e prudenza .  Dato un buon fefto , che voi averen te alli vostri affari domestici in tanto, che anderete vedendo se caininerà tutto à vostro modo , per poterlo emendare,  [merged small][ocr errors] [ocr errors] fe in qualche cosa difettasse, à fine di non avervi più da inquietare intorno ad csso , fupplicherete le virtù, che vi configlino , e preftino il loro ajuto, in questo penultimo paffo, che dovrete fare, le quali avendovi sempre affiftito per lo paflato, certamente che non vi abbandoneranno nel meglio, ed allora appun  che vi trameranno infidie la fastidiofaggine, l'impazienza, il sospetto, l'incostanza, l'amore proprio, con il soverchio timore di ciò, ch'è inevitabbile , vizj tutti, che aspettano il quando voi farete languenti non meno di corpo,che di mente, per dominarvi à fuo modo ; nel qual compaflionevole stato cosa fareste mai di buono, se non ayelte le virtù consigliere?  Queste divideranno facilmente il loro conGglio in sette parti; La prima farà il quando lo dovrete farê; La feconda il come ; La terza dovë ;La quarta con chi ; Quinta;con che preparamenti; Sesta, cosa dovrete allora fare; Ela settima, che cosa fuggire.  Primo,  ز  Primo ; circa al quando, vi dirà la Prudenza, che allora appunto facciate il vostro distaccamento, quando che proverete sensibile il peso degl'anni, che la memoria vi anderà notabilmente mancando, e che fentirete la fatica, benche allegerita, molto molesta , ed averete allora giusto motivo di pensare solamente à voi stessi , senza più indugiare à farlo.  Secondo, intorno al come lo doyrete fare, vi consiglierà la Giustizia di usare ogni maggior civiltà possibile in licenziarvi da tutti quelli, che si prevagliono di voi, con far loro conoscere, che fino à tanto, che avere potuto, non avete risparmiato nè fatica, nè incommodi per servirli bene, ma ora, che vi sono mancate le forze, il solo buon'animo, che vi resta, non lo credere sufficiente per li loro bifogni, e che li confoliate insieme, che avendoli già voi proveduti di soggetti non inferiori à voi , potranno essere da questi in avvenire affai bene affiftiti; Ne seguirannofacilmente varj atti di reciproca tencrezza, mà fate, dirà la sudetta virtù, che questi nè vi distolgano dalla risoluzione già fatta, nè vi pongano in qualche forta d'impegno d'averla in qualche loro occorrenza, ò imprudentemente da ritrata tare , ò mancar loro di parola.  Terzo, nè vi consiglieranno già , che vi scegliate qualche solitudine remota per fare il vostro ritiro, mà bensì un'appartamento assolato della vostras casa, nel quale vi sia minore strepito, anzichè vi dissuaderà la Prudenza, se aveste mai qualche pensiero d'allontanarvi dal. la Città, d'effettuarlo, per li seguenti motivi, perche ne' piccioli luoghi non potrete ritrovare tutti quei commodi, nè godere di quei vantaggi, che nelle fole città vi sono, dove il governo risiede, la civiltà, e la convenienza rcgnano, doveche al contrario questi mancano, ò almeno scarseggiano, oltre il correre rischio di penuriare di molte cose, s'incontrano facilmente de' disguki, à cagione della poca cognizione,   e civiltà, che ivi li suol praticare , & in  ispecie con quelli, che la dottrina, & il  valore l’inalzò, essendo perciò molto  dall'inciviltà odiaci, e benche Scipione  il Grande nel suo, non tutto volontario  ritiro in Linterno; (perche lo fece per  accomodarsi alla necelli:à di quei calun-  niosi tempi) avesse la sorte di essere stato  venerato da molti uomini facinorofi,che  ivi accorsero per ainmirarlo, è stato egli  quasi singolare in questo, mentre altri  furono assai diverLamente trattati, trà  quali basterà riferirne uno solo,mirabbi-  le     per   l'accidente, che vi s'incontro. Venne volontà nel secolo passato ad un' Officiale maggiore di guerra,doppo molsi illustri fatti felicemente occorsili, di ritirarsi alla sua picciola patria, già dia venvto vecchio, per godere ivi la sua quiete. Mà appena giontovi , che incon minciò ad essere deriso, e beffeggiato da quei rpstici abitatori; Ditali impropri trattamenti se ne rammaricava il valo, roso vecchio, mà per non prenderla con tanti, andava disimulando. Si suscita.  [merged small][ocr errors][ocr errors] tono in questo mentre alcuni principj di guerra, ed ecco all'improviso Inviati con sacchetti d'oro, che andavano cercando quel merito così vilipeso da quella rustica progenie, allora quel meritevole prendette spirito, e per mortificare li suoi persecutori fece spandere quell' oro alla vista di tutti, che ammirati attoniti, e confusi ebbero occasione di ravvederli del loro errore ; mà se quell' oro non compariva , il merito ivi non già risplendeva.  Mà perche avanzandovi nella vecchiaja non potrete sapere à che segno la vostra salute si di corpo, che di mente vi potranno reggere ; Quindi è, che  per compire faggiamente il corso di vostra vita, le virtù vi consiglieranno à sceglicre chi potrà essere à proposito per voi, allorche vorrete vivere solamente à voi medefimi, tanto in caso di felice, che di penosa vecchiaja , e facilmente yi diranno la Prudenza, e la Giustizia : fceglietevi å tal'effetto un Direttore spiricuale de' più dottia e discreti, che vi  COR  [ocr errors] conservi vivi li yoftri abiti virtuofi. Una amico fido, e prudente, che vi suggerisca ciò, che dovrete operare, caso che, ve ne dimenticaste , che sopraintenda.a’ vostri interessi,acciocchè non fieno trafcurati,per negligenza di chi li maneggia. Un parente amoroso, e disinteressato, per supplire all'amico, e dare anco soggezione à chi vi serve, ed un servidore abile, che vi allista con carità , amore, e discretezza, e questi non basterà , che yeli siate scelti, mà dovrete ancora mane tenerveli ben’affetti, altrimenti disguftandoli con voi , vi troverete intrigati a, e sappiate la cagione del disgusto de' trè primi, quale potria effere ; l’incommodo, senza loro utile, delle frequenti visite, e brighe continue per voi, mediante le quali annojari , fi potriano facilmente alienare da voi;mà per rimediare à quefto, non dovrete fare altro, che di fervirvi della potentissima efficacia di qualche cortesia usata loro si che, se ve ne farà d'uopo, cambierà in un tratto ogni più dura fatica in ispasso", ogni noja in  ز  piacere, ed ogni più grave disaggio in dilettevole divertimento ; caso poi, che non ve ne fosse molto bisoglio, diportandovi voi con esli grati , essi ancora verso di voi saranno più diligenti, aslidui , ed affezionati : Munera , crede, mihi placant, bomines  que, Deosque ; E renete pure per certo , che favolosi sono quei casi, che di alcuni Gentili fi raccontano, che tutto elli facevano per puro amore, e che l'incommodo maggiore degl’altri era da questi lo più ricercato; Mà però con il servidore abile, che dovrà stare affiduo con voi, per tenerlo contento, vi converrà praticare due modi, uno privativo, che consisterà in non maltractarlo nè con fatti, nè con parole, dovendo voi, che avrete bisogno di lui, acquistarvi il suo amore, e facendo voi diversamente, in vece di guadagnaryelo , più tosto lo perderefte, quando che ve qe portasse : E vero, che difettando egli, lo dovrete correggere, mà pero con maniera umana, con farglicapire'il suo fallo, non già con ingiuriara To, e caricarlo di strapazzi, perche venendo trattato da voi in tal guisa , cosa ne seguirà ? O che vi abbandonerà nel meglio, e voi come rimarrefte? O continuerà a fare peggio di prima, e voi cam fa avreste acquistato ? E l'altro positivo, che consisterà in fargli capire, che voilo amate di cuore, e non per solo vostro vantaggio , mà come fosse un vostro figliuolo, e che ciò sia, lo crederà allora appunto quando si vedrà trattato bene da voi, comandato con discretezza, c meglio di ogn'altro glielo farà capire , quando si vedrà regalato da voi con giudizio , e questo regalo non consisteria in altro, che di usargli un'amorevolezza pecuniaria , à proporzione del vostro potere, ogni anno nel vostro giorno natalizio,con promettergli negl'anni venturi sempre di raddoppiarla, e questa, con tutto che sia una gran cosa in apparenza, voi, che sarete avanzati negl’ anni, la potrete ufare con più generosità de' padroni giovani,che sperano di cains pare lungo tempo, & al servidore gli sarà grato à segno, che non lascerà cosa, che possa giovare à farvi vivere più luagamente, che non la procuri. Avrà fempre timore , che non vi disgustiare , che non patiate , & allora appunto lo avrete già interessato nella vostra vita, e nericaverete un'ottimo servigio.  pare  Quinto, oltre li preparamenti neceffarj già da voi fatti  per  sostentamento, e sollievo del corpo, vi consiglieranno facilmente, & in ispecie la Fortezza , à farne ancora degl'altri per l'animo, non meno necessarj de primi, e questi saranno di proyedervi di molta sofferen  ed ilarità, che facilmente ve ne bifogncranno , acciò non venga turbata la vostra bella tranquillità di animo, che goderere, santeche trà mali familiari dell'inoltrata vecchiaja yi fi annovera quello ancora della fastidiosaggine, e questa non con altro rimedio si puo curare  che con l'abbituara sofferenza ; E perche danneggiano ancora di molto pell’età avanzata la malinconia, & il  di  za ,  [merged small][ocr errors] disgusto; Quindi è, che per tenerli lone tani, vi è d'uopo dell'ilarità , mediante la quale solamente diverrete ad essi superiori.  Sesto , parerà forse cosa impropria à chi udirà , che voi come Medici  provetti possiate avere di bisogno allora del parere altrui intorno à ciò, che dovfete, ò non dovrete operare, mà fe ben rifletterà , che non mai fù nocivo ad alcuno il caminare con il consiglio della Prudenza, e della Giustizia in ispecie, cambierà facilmente parere , e tanto maggiormente, che niuno in caufa propria puol'essere competente Giudice e più precisamente in quella età, in cui tutto ciò, che abbiamo di meglio, allora languisce; Le virtù luderte vi diranno à tal proposito, che non crediate già,che il vostro ritiro abbia à servire per totale riposo del vostro corpo, 8c acciocchè se ne stia affatto ozioso, & infingardo, perche passereste in tal caso, da un'estremo vizioso all'altro, senza profitco alcuno, essendo questo egualmente nocivo  dell'  dell'anrecedente, perche, come ben sapete, consistendo la vita nel continuo movimento de fluvidi , che dentro il nostro corpo si aggirano , & ancora, che questo venga agevolato dalle pressioni musculari , sicchè ogni qualvolta cefferete di muovervi, non avendo tanta forza li muscoli, in istato di quiete , di propellere , neceffariamente seguirà , che detti duvidi lentamente scorreranno, e più d'ogn'altro ne' vecchi, impoveriti de' spiriti, onde in conseguenza ne verrà, che la vira iftelsa ne riceverà del danno notabile, mancandole ciò, che se le deve , per il suo più necessario prolongamento, oltre di che ne' vecchi cade un'altra necessità particolare di doversi muovere, & è, perche tendendo eli alla ficcità, li loro tendini, e legamenti, atti più dell'altre parti à contraerla , cessando di moverli si possono irrigidire à segno, che impediscano loro affatto il poter più camminare , conforme più chiaramente fi scorge in quei vecchi, che à cagione di qualche loro  [ocr errors]  indisposizione per lungo tempo forzata-  mente giacciono in letro, li quali, ben-  che abbiano superato quel male, che li  teneva al riposo, nel volere camminare   si accorgono di non poterlo più libera-  mente fare come prima. Il sudetto ritiro  dovrà servire bensì per riposo, e calma  della vostra mente, già stanca per li so-  verchi pensieri, la quale non dovrete',  nè potrete quietare con renderla affaito  oziosa , mà bensì con contracambiare   quei di già nojosi con altri più ameni , ! quei cotanto laboriosi, con altri, che  non la stanchino di vantaggio, mà più  tosto la ricreino, conforme in appresso  diremo.      Mà ritornando al moco , che vi  competerà di fare , questo sarà appunto  quello, (vi dirà la Giustizia ) che altrui  di età avanzata voi avrete consigliato,  cioè di farlo in tempi sereni, & aria ri.  scaldata dal Sole, non già irrigidita del-  la notte, & allora appunto, che il vostro  stomaco ayerà digerito il cibo, con que-  fta avvertenza di più, che avvedendovi di non potere continuare l'esercizio, a quel segno di prima, lo modererete, non tutto in un tratto, ma bensì à poco à poco, finche vi poniare in una regola di poterlo continuare, senza voftro disaggio, & à quel segno , che lo stimerete necessario , e ve lo permetteranno levostre indisposizioni, che soffrirete, & acciocchè sia continuato per quando non potrete uscire à cagione de' tempi fred. di ventofi, ò umidi,lo farete in casa. Solevano à tal'effetto una volta li vecchi praticare l'esercizio chiamato dell'attacco, che conGsteya in istringere con le mani un certo ferro foderato di corame, che era conficcato in due lati prossimi ad un'angolo della stanza, all'altezza di un'uomo, al quale attaccati , non solamente si distendevano , mà con maggior agilità ancora movevano faltellando li piedi, modo appreso forse da Eumene, che ritrovandosi assediato, per avere più agili li suoi cavalli, caso che gli fosse convenuto fuggire, in un modo assaiconfimile a questo li esercitaya, mà fù nel  fea  secolo passato già dismesso tal'esercizio,  con molti altri neceffarj alla salute,e non  se ne sà comprendere altra cagione, se  non perche, non erano commodi, stan-  teche strapazzavano il corpo', il che fi  congettura dal vedere , che da allora in  qua non si è aèreso ad altro, che à cerça-  re questo commodo, fe pure commodo   si potrà chiamare ; (soggiugnerà la Pru-  denza) ciò, che incommoda la salute ;  Commodo si potrà dire una carozza,che  posi shule Molle con cignioni lunghi, che  non isbarta punto, allorche le sue ruote  urtano ne' faili, per chi foffre il inale di  pietra nella vellica, per chi parisce bru-  ciori di orina , per una giovane gravida,  folita di abbortire, perche ò non posso-  no soffrire lo sbattimento, ò è loro no-   civo; onde :  conviene , che facciano conformc è loro   permesso; Mà per un giovane sano, à cui   lo sbattere gli conferisce alla salute, af-  sodandogli la sua buona complessione  commodo non si deve chiamare,mà ben-  si incommodo, perche presto glicla in-   [ocr errors][ocr errors][ocr errors] ز  [ocr errors] 0  el  [ocr errors] .com  commoderà. A questo proposito vi riferirò un caso terribile di un Cavaliere, il quale à cagione di propria commodità non moveva nè pure un dito, se non gli era accompagnato da chi lo serviva, fi faceva fino imboccare, quanto mai egli era commodo ; onde lo conduffe la sua pazzia à diventare un tronco, mercechè volendo una volta muovere un braccio, non lo poteva più fare,un piede nè tampoco , e come un ciocco gli convenne vivere, se pure quello vivere li  [ocr errors][ocr errors] poteva dire,  Dall'esercizio corporale ritorniamo à quello della mente, la quale, conforme dicemmo, non la dovrete stancare di vantaggio con cose laboriose ayendo voi à tal'effetto bramato, e procurato il vostro ritiro, mà nè tampoco converrà di tenerla affatto oziosa, acciocchè non ritorni à coltivare le specie antiche, non sapendo, che altro fi fare. Nel principio del vostro distaccamento, come vi suggerirà la Prudenzala terrete occupata in diverse cose, con il suo rin  par  [ocr errors][ocr errors] partimento dell'ore più proprie ad esse. Ne darete alcune agl'esercizj fpirituali à prò dell'anima vostra , secondo il configlio del vostro Direttore,qualche altra servirà per l'esercizio corpcrale, e le rimanenti alla quiete della mente faranno da voi destinate in due maniere , cioè, con leggere , ò sentirlo , e con il riposo; Li libri da leggere, proprj per tal'effetto, già ve li sarete scelti , allorche vi preparaste per il ritiro , e si può supporre, che saranno inorali, prediche, vite più esemplari de' Santi, e cose confimili, e se vi sarete serbato qualche libro Medico, questo facilmente non tratterà di altro, che del regolamento della vecchiaja, e del modo conforme si possa più agevolmente ella sopportare , & inoltrandovi finalmente nella penosa vecchiaja, non troverete maggior refrigerio, e sollievo, che di uniformarvi in tutto nella volontà di Dio, e se giornalmente farete qualche meditazione sopra la morte, vi recherà questa del vantaggio , perche divenendo perciò superiori  [ocr errors] ad effa, non vi potrà punto contristare, allorche da vicino la scorgerete venire, e tanto maggioripente se meditandola rifletterere, che se ne viene per togliervi dalle miserie, e collocarvi in un'eternità di bene, essendo voi vissuti con le buone direzioni delle virtù, non già con le lufinghe fallaci de vizj.  Settimo, finalinente, diranno le vir. tù , se volessimo rammentarvi tutto ciò, che non è convenevole, che ora facciate inolto averelimo da dirvi, solamente alcune cose vi avvertiremo, nelle quali potreste facilmente cadere . La prima delle quali sarà , ( se vorrete caminare con le buone direzioni della Prudenza ) che avendo voi una volta per giusti motivi risoluto di lasciare la Professione, non mai più dovrete pentirvenç, e ritornar di bel ouovo à profeffarla», se non in quel caso impossibile, che voi cựngiovenifte, altrimenti facendolo acquisterefte ritolo,ò d'instabili , imprudenti, ò per la meno di superbi, potendosi da ciò .cognetturare, che allora non lo facesteper impotenza, mà bensì per isdegno   concepito per non vedervi stimati à quel  segno, che bramavate di essere. La seconda, se vi venisse mai volon-  tà di mutare, senza giusta, & urgentili-   ma occafione , il vostro già fatto tefta-   mento, mà solamente per motivo di me-   gliorarlo, che non lo facciate, vi coman-   deranno la Prudenza, e la Giustizia in   conto alcuno, mentre questo saria uno   delli maggiori infortunj , che vi poteffe   allora accadere, perche se quello , che   avrete fatto in tempo , ch'eravate con   sentimenti più vegeti, ora non è di vo-   stra sodisfazione , come potrà fodisfarvi   l'altro fatto da voi , dapoiche vi siete ritirati, à cagione di debolezza , non nie-    110 di corpo,che di mente la quale entre-   rà prestamente, per essere in quella età   sospettosa nella casa della dubietà, mà    ritrovandofi ancora languida , e piena di   timore tosto le sembrerà un laberinto,   non sapendone rinvenire la strada das    uscirne, e perciò la sera penserà ad una    cosa, e depofta quella, la mattina ad un'   altra,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] V 4  altra, oggi farà di un genio, e domani facilmente di un'altro, e durando per qualche tempo così incostante, non folamente si confonderà, mà s'inquieterà ancora ; onde quel tempo, che avevate dato alla calma del vostro animo , in questo modo glielo rubbereste per darlo alla vostra inquietudine , fenza ricavarne un minimo profitto, perche se pure giugnefte à fine di stabilire la vostra ultima disposizione, sarà questa assai peggiore della prima, e se non arriverete à compirla , l'inquietudini riccute, che giovamento viaveranno apportato ? E quanto dette virtù vi hanno ordinato, l'esperienza pur troppo l'hà fatto vedere, mentre chi nel suo ritiro hà avuto simile tentazione, non solamente è vissuto inquietissimo tutto quel tempo, che aveva destinato alla sua quietc, mà hà fatto una nuova disposizione del suo avere così intrigata, così confusa, che hà dato di fe molto da dire . In niun tempo si deve andare in traccia dell'ottimo, essendo questa distruttivo del bene,  mà  [ocr errors] 1  mà in questo stato meno d'ogni altro  nel quale è molto espediente di dare  orecchie à ciò, che si legge in Tacito,  ed è : Confilium , cui impar erat fatu per-  mifit ; E certamente, che quando siete  meno capaci di risolvere, è pur meglio,  che lasciate correre ciò, che faceste di  vostro genio quando eravate più atti,  che di mutarlo divenuti meno sufficienti  ancora ad emendarlo.        Vi pregiudicherà per terzo ancora   di molto la troppa curiosità, & in ispecie   de fatti domestici , come ben vi avverri   tirà la Prudenza, perche più d'una vol-  ta sentirete cose tali, che vi turberanno   notabilmente la vostra quiete,& affinche  dal non ricercarli fi scanzi ogni pregiu-  dizio, fate., che quel vostro amico, quel  vostro parente, de' quali da principio   parlammo, gli diano il suo rimedio, ci   pensino essi, che meglio di voi lo faran-  (no , e senza inquietudine vostra. E caso  poi, che la necessità portaffe di farvenc   consapevoli sfuggano per quanto si può  di dirvelo di sera , per non togliervi   0  [ocr errors] il riposo della notte.  La quarta intorno à ciò, che dovrete fuggire in caso di qualche incommodo abituato, che da soverchi anni procedere , la Giustizia, e la Temperanza vi diranno : Ricordatevi, che una volta in altri non l'avreste curato, mà folamente mitigato; onde non facciate, che la molestia , che vi recaffe vi stimoIalle ancora à divenire carnefici di voi medesimi , con pretendere di farvelo curare, conforme à più di un Medico avanzato negl’anni è accaduto , per esserfi voluto esporre al taglio della pietra , quantunque ad altri così avanzati in età non l'averiano consigliato.Questa penfione , che Iddio hà posto sù il gran benefizio della lunga età che vi ha conceduta , vuole, che da voi fi paghi, altrimenti il fudetto benefizio mancherà prestamente 5 Limnolesti pruriti esterni , li bruciori d'orina , le vigilie frequenti, che bene spesso ne' vecchi accadono , fapete pure, che non vanno curati con rimedi eradicativi, mà mitigar ben fi  de  [ocr errors] 1  [ocr errors][ocr errors] devono con cose anodine, trå quali il  latte , amico de vecchi asciutti hà il  primato , e per essere ancora egli il pris  mo querimento, che si prende, non è  disdicevole , che non venendo à cagionc  del soverchio sonno ritardato, sia ancora  Pultimo, conforme praticò con profitto  Fabio Mafsimo nella sua età decrepiti.       Per quinto avvertimento vi con-   verrà stare molto circospetti per non   cadere in certi errori, che li vecchi li   stimano sussidi dell'età cadente, ftante-  che provando languidezza di forze fi,   portano con desiderio (moderato à pre-   valerli de’yini più generosi, e di altri   più fpiritosi liquori , intorno a' quali vi  ricorderà la Temperanza, che sapete  pure quanto di male apportino alla in-  languidita tefta , all’inaridite viscere,  e quanto di solfo communicano alli ni-  trofi fluvidi, ed in conseguenza di che   danno essi siano , che voi ben lo sapete,   onde in vece di questi vi servircte più   ļosto del perfetto cioccolato , de' buoni   brodi, de' vini gentili, e delicati, c di altri liquori consimili, presi con moderazione, e con questa distinzione , che effendo taluno di voi grasso, & avendo disposizione al soverchio sonno prenderà spesso il cioccolato la mattina, nel doppo pranzo , ò di sera il caffè , ò il the, è la bollitura di salvia , sc poi sarà dimagrito , e sottoposto à vigilie, las mattina frequenterà più tosto un brodo con la fetta del pane ivi bollita, e del cioccolato se ne servirà qualche volta doppo pranzo immediatamente, conforme ancora in vece del thè, e del caffè ricorrerà all'uso della bollitura dell'orzo abrustolato, resa grata con qualche odoroso liquore, all'emulsioni fatte in brodo , con semi di meloni , in particolare fe farà molestato da pertinaci vigilie.  Per fefto , fuggite ogni sorta di be vanda gelata, vi diranno la Fortezza, e la Temperanza , quantunque la moleIta fete, che alle volte suole travagliare li vecchi vi rendesse ansiosi di effe, perche sapete pure quanto danno vi po  triano  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] triano recare, & in vece di queste servis  teyi delle bevande attualmente calde ,  che vi smorzeranno con più facilità la  sete per quella cagione à voi nota, che  sciogliono li liquori caldi più facilmente  quei fali, che titillando le papille del  gusto non solamente le costringono, mà  recano ancora aridità à tutta la mem-  brana interna del palato , & esofago in-  crespandola à guisa di carta pecora, e  questi con il liquore caldo vengono più  facilmente sciolti, & ancora le parti ina-  ridite con più prontezza fi distendono,  doveche dalle gelate ne segue l'opposto,  e per questa cagione tali acque sono  consimili à quelle , che   Quò plus sunt potæ , plus fitiuntur aqud;  E perciò non si sà capire per qual cagio-  ne in particolare ne' vecchi sia stato dif-  messo il bevere caldo tanto praticato  dagli antichi Romani , e tanto maggior-  mente, che dall'abuso di dette acque  gelate ogn'anno ne seguono delli casi  funesti, coine ben sapete ; Dal soverchio   bere,  7  bere, con tutto che non sia gelato, ve no asterrete ancora,  effendoyi noto quanto di male possa apportare alli stomachi debilitati dagl’anni, potendo non sólamente inlanguidire li fermenti digestivi, mà opprimere insieme preventivamente quel calore, che stà per finire. L'esperienza dimostra chiaramente , che le piante annose inaffiate à suo dovere si conservano, mà soverchiamente più preftamente mancano,  Per settimo, v'avvertiranno la Prudenza, e la Giustizia di non porvi in una regola rigorosa di vivere, con il motivo della moderazione del vostro esercizio consueto , perche la natura già affuefatta da tanto tempo à quella quantità di nutrimento, vedendolo tutto in un tratto notabilmente scemare ne riceveria incommodo considerabile, costando pur troppo per esperienza , che alcuni vecchi,li quali l'hãno voluta tanto ristrignere preltamente sono mancati. Quello, che dovrete praticare sarà di guardarvi da certi cibi di dura cozzione, di cattiva  qua  qualità atti à poter nuocere , per altro nella quátirà l'anderete moderando con occasione, & avyedendovi di non poterla ben diggerire, allora l'anderete scemando, mà però lentamente, accioca chè non riesca molto fenfibile derta mutazione, perche è cosa evidente, che allora appunto, che i vecchi allentano di mangiare , poco resta loro di vita.  Peggiore di questo ancor saria, se cadefte in quella opinione tanto dangosa , che per vivere fano sia neceffario di prender cose, che non facciano escrementi, mà che con l'odore delle vivande, con qualche brodo di sostanza, si possa meglio , e con più salute campares di quello si faccia con tante altre cose piene di parti escrementose, perche la Datara vuole fi camini per le sue strade ordinarie, vuole da tutti egualmente efiggere ciò, che brama . Quell'incommodo, che vi reca nel restituire le feccie ella sà per quali fini lo faccia , non è à caso. Non n'elimè già Alessandro Magno dal suo fetore, conforme che li suoi Cor  teg  teggiani adulandolo dicevano , perche ella non sà cosa sia signoria, e grandezza fà che la morte (a) Æquo pulsat pede pauperum tabernas,  Regumque Turres.  Per tre gran benefici la natura volle , che vi fossero li tanto odiati escrementi: Primo, perche dentro di noi si facilitassero mediante queste tante digeftioni, che vi si fanno , conforme l'esperienze chimiche ad evidenza lo dimostrano, in tante digestioni fatte con il Fimo, e da quì rifletcete quanto s'ingannino coloro, che procurano anziosamente à forza di tanti reiterati purganci star-, ne senza; Per secondo, che nell'uscire che fanno impari à conoscere ogn’uno se stesso, à che segno debbasi insuperbire chi dentro di se conserva fimili fetidillime materie; E il terzo per convincere chi non credesse il primo, con farlivedere quanta fecondità questi rechino alli terreni sterili, che colsuo beneficio divengonono fertiliffimi , talche erroneaè à priori quell'opinione di potersi nudrire con cose, che non abbiano escrementi, conforme ancora tale à pofteriori si dimostra per essersi veduto chi l'hà voluto praticare divenire un marafino, che in breve fini i suoi giorni.  Per ottavo , & ultimo finalmente, ch'è forse il più forte di tutti, vi diranno le virtù : Guardatevi da quelli trè gran persecutori de' vecchi, che sono, la caduta, il catarro, & il corpo soverchiamente lubrico ; La caduta , voi sapere molto bene, che per due gran motivi è nella vecchiaja più dannosa, che in altre etadi, sì per essere li vecchi di mi. nor vigore, e li più facili à terminare la lor vita , ritrovandosi arrivati allo scorto di effa , sì ancora, perche cadendo come un tronco ciò, che viene loro percoffo riceve colpo pieno, non venendo riparato dall'agilità delle mani, nè dallo scanzo della vita , come segue ne' giovani di maggior agilità di loro, onde per evitare una simile fventura dovrete andare sempre con il vostro bastone, ne  fa  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] farere come alcuni, che l'abboriscono per mofrar braura , quando braura più tosto sembreria l'ayere in mano il bastone di comando"; onde non senza mia stero fù chiamato da’ Latini il bastonc della vecchiaja Scipio, & il prendere Sufcipio.  L’occasioni di prendere li catarri à che segno le dobbiate fuggire, l'efperienza altrui ve ne fece maestri, (vi suggerirà la Temperanza) mentre osservaIte, che chi li espose all'aria rigida, chi ftiede in luogo soverchiamente caldo, chi disordinò in cibi grossi, come sono il formaggio, legumi , & alrre cose consimili furono da essi moleftati, converrà dunque à voi ancora fuggirli, se non avrete quell'erronea massima, che ebbe quel Medico, che disordinava molto, sù la fiducia, che niuna cosa gli potesse nuocere, dicendo, che li Legislatori non sono soggetti alle leggi, mà gli convenne soffrire la morte immatura per questa sua falsa credenza; e finalmenre quanto dobbiate stare cautelati, per non incor  rere  1  rere nella foverchia lubricità di ventre,  non occorrerà vi sia suggerito, sapendo i da voi medesimi, che l'abuso de' dolciu  mi, cde'frutti producono fimile indifposizione. L'irascibile ancora spesso in, citata con l'abuso de' cibi caldi per accrescere pungoli alla bile , quanto la poffino rendere frequente nell'età avanzata lo sapete assai bene, con tante altre cagioni, che farà superfluo viliano ram,  mentate. i  Essendo voi dunque nel corso della vostra vita camminati sempre con le dii rezioni delle virtù, avete da sperare fer  mamente di potere incontrare una gloriosa morte, perche esse in quel vostro  estremo bisogno, più che non fecero in é altri,vi assisteranno; La Prudenza vi farà  soffrire ciò, ch'è inevitabile, con animo  generoso ; La Giustizia sperare quel pre7 , mio, che sarà dovuto alle vostre gloriose  opere ; La Fortezza vi darà cuore da refiftere intrepidi ad ogni patimento più duro ; e finalmente la Temperanza vi consolerà, con farvi vedere, che trà  X 2  quel  [ocr errors][ocr errors] ز  quelli molti , che vissero, pochi ne giunsero all'età voftra ; onde voi, che avrete sempre dato saggio di tanca moderazione, come potrete non contentarvi di essere già vissuti à bastanza, potendo con intrepidezza dire :  Vixi, quem dederat curfum for  tuna peregi; Sicchè felice sarà la vostra morte , & invidiabile da tutti , nè crediate che fiano per abbandonaryi queste doppo morte , perche allora più che mai saranno inseparabili da voi,posciacchè quando ancora eravate viventi si poteva dubitare, che potefte essere, ò nò, prudenti, giusti, forti, e temperari, perche in realtà potevate dare occasione à dette virtù d'alienarsi da voi, mà doppo morte, che tal cagione finì, non si potrà più dire di voi, che prudenti, giusti , forti, e temperati non foste, ficchè resteranno allora da voi eternamente inseparabili le vostre virtù. E chi mai rimarrà doppo morte più glorioso di voi? forse il ricco? questo no, perche le sue ricchezze già  al  [ocr errors] Ja morte,  allora passarono in altri, non sono più  fue; Forse il potente ? nè anco, perche  la sua grandezza è rinchiusa allora den-  tro la sua urna , & il suo potere è diven-  tato un niente; Forse chi ottenne fingo-  lari prerogative di natura , come sono  la somma bellezza, salute , e robustezza  di corpo? questi nè tampoco, perche  quelle già furono, e non sono più doppo restando un nulla , giacchè :   Quod fuit, non eft pro nihilo reputatur .  Solamente dunque chi vive seguace del-  le virtù può sperare di ritenere ancora  per se doppo morte quanto gadè in vi-  ta, e fù suo proprio , con tutta quella  gloria imınortale, che acquistò chi visse  virtuosamente, de' quali parlando Ip-  pocrate (*) così diffe : Quique hac viâ  incedunt gloriam tùm apud majores , tùm  apud pofteros fibi comparabunt, ch'è quan-  to dovevo mostrarvi.       Ed eccoci giunti al fine della festa  Giornata, e convenevole sarà di ripo-   sarci,farci, in venerazione di chi creò l'Universo, giacchè egli ancora requievit die Septimo ab universo opere , quod patrarat , do benedixit diei feptimo , & fanétificavit illum  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] X 3  (-) De decenti babita ,  è à priori (2) Horat.Carnr. odc 4   fa.  dicom (e) Hipp.de Pracepticx.   fo     quan   (1) De pracept:  fione  [d] Epidem.lib.5. @grot.28. ex Valefio. [e] Epid.lib 5. ægrot.7. (f) Epidilib.5.&gt.g.  ap(4) In epift. Abderit. (r) Epift.6.  rano  (d) In Comment Hipfoer. de Fraft.  fers (b) 18 epiß. Damogit,  alla (a) In epif Philop.  K  per(a) In lib.præcepto  ch' Th. In lib.de pracept:  fprone [b) De preception.   Set   era (b) In 2.epiji. ad Domeg.  1  F 3  i   [ocr errors] fare  1  (h) Hippocr. de veteri Medico  C2  pra(c) De decerti babits.   In.  Morale,  DE'FIGLIUOLI  e Medica DEL DOTTOR DOMENICO GAGLIAR DI  Divisa in due Parti. PARTE PRIM A  Sopra l'Educazione Morale. DEDICATA ALLA SANTITA'DI N.S. INNOCENZO XIII,  Neglectis urenda filix innascitur agris  Hor. Sat. 3. lib. I. In ROMA, MDCC XXII.  Nella Stamparia di Pietro Ferri alla Minerva.   Con licenza de'Superiori .  [blocks in formation] [ocr errors] sien L Titolo gloriofifsimo di Padre Universale , it quale viene fo  lamente attribuito all'Altissimo Merito di Voltra Santità , mi rende più  a 3animoso à consagrarle la prcfentc Opera sopra l'educazione de'figliuoli Morale, e Medica, con ferma speranza , che Ella comc zelantissimo amatore del buon costume non solamente la riceverà sotto il potentissimo fuo patrocinio; ma le farà di vantaggio godere gl'effetti della sua somma clemenza ; mercecche non permetterà già qucsta, che rimanga infruttuoso ogni qualunque suo documento profittevole allo stradamento de'figliuoli per farli divcnire amanti dellc virtù, cd aperti nemici de' vizj, essendo tal desiderio appunto il maggiore che possa avere un'ottimo Pan  dre;  mente dal principio del suo Gloriofiflimo Pontificato ha fatto la S. V. colle operazioni più gloriofe conoscere al mondo tutto; vedendosi tanto il suo Paterno Zelo, quanto la sua somma beneficenza indiri, zati folamente al giusto, ed all' onesto, gastigando i 'rei , c premiando i meritevoli: conforme appunto costumarono tanti Santillimi Pontefici suoi Antca natì di gloriofiffima memoria. Talmente che l'Eroiche Virtù in V. Beatitudine essendo ereditarie, si trovano profondamente radicate,e queste di fimin le natura debbono neceffaria,  men,  a 4  zarsi, seppure l'ottimo potranno sormontare. i Nè lì veggono nell' Antichissima , c Nobilissima Famiglia de Conti ereditarie l'eroiche virtù dc'suoi Maggiori nei foli Sommi Pontefici ;. mentre risplendono questo ancora , in tutti gli altri, c. con applausi universali; cssendosi veduti do. po la dcgnissima esaltazione di V.B. al Trono Pontificio, nc' più a Lei congiunti di Sangue la medesima nioderazione di animo, ed affabilità princicra ; assegno chc,non senza ammirazione,fan ben conoscere a tutti, che le presenti felicità non han  na  a gli animi generosi, e forti, in cui regnano abituate l'Eroiche Virtù.  In tempi dunque felici, o fortunati,ne'quali la verità svelata pud comparire avanti al Principe , godo la forte di presentarle prostrato à Santissimi Piedi di V.B. e consagrarle inficmc qucfte mie fatiche, diret. te non ad altro, che al publico bene; mostrando queste a Padri di faniglia,non folamente l'obbligo loro, ma cziandio il modo più facile d'indirizare benc i proprj figliuoli, affinche non divengano elli viziosi per. turbatori della publica quie  te.  ritevole dell'efficace Patrocinio del Principe, essendon'egli di essa vigilantissimo Custode: Contribuendo dunquc alla felicità del Principato la buona cducazione de'figliuoli , como cagione della publica quicte; affinchè là S. V. possa godere tutta quella lunga serie di anni felici , che ardentemente le bramo con ogni maggiore offequio la supplico à volerlo rendere degno del suo Supremo Patrocinio, potendo questo accrescere alle sue prove, e ragioni momento di forza bastevole a renderle più convincenti nel ripulire gli animi rozi,dano, e baciandole i Santillimi Piedi con profonda venerazione mi umilio.  Di Voftra Beatitudine  Omilifs,e fedeliss. Suddito  Domenico Gagliardi.  AL  C  On rilevanti motivi ho intrapre  so lo scrivere sopra l'Educazione de' figliuoli : primieramente, perchè leggendola Sacra Scrittura ho con chiarezza conosciuto l'obbligo grande col quale da essa viene aftretto ciascun Padre ad educar bene i propri figliuoli; ordinando l'Ecclesiastico al 30. Curva cervicem ejus in juventute, fu tunde latera ejus, dum infans eft, ne forte induret, Ego non credat tibi, Er erit tibi dolor anime . Doce filium tuum , E'operare in illo , ne in turpitudinem illius offendas; e trovandomi molti figliuoli era anch'io compreso nel numero di questi . Incominciando dunque a cercare qual modo foffe il migliore , per sodisfare a’mici doveri, benc mi avvidi alla prima, ch'era d'uopo conosce  per congetturare meglio ove le proprie inclinazioni li aveffero portati . In feguela di questo considerai, che indarno si sarebbe affaticato ogni qualunque ben’esperto educatore, se l'educando difetrasse nella esatta regola del vivere, quantunque fosse dotato dalla natura di un'ottima indole ; mercecche il nudrimento , eccedente in quantità, e qualità, potrebbe cagionargli internamente tal moto inordinato negli spiriti, che fosse capace di togliere alla sua mente quella limpidezza neceffaria a chi ha d'apprendere la buona educazione .  Si avanzò più oltre la mia mente coi suoi pensieri, cominciando a meditare se co gli ajuti medici, allorchè già introdotto negli educandi l'accennato interno sregolamento, si fosse potuto questo calmare; c con molti lumi ricevuti da Ippocrate, ove tratta de  Aere  Aere , Aquis , EX Locis , arrivò a comprendere, che potevano queste giovaredi molto in tale occasione.  Accertatomi per le fudette rifleffioni, che l'educazione de' figliuoli poteva trattarsi da un Medico provetto, appartenendo appunto ad ello più che ad ogni altro il conoscere i temperamenti, donde nascono i naturali, la regola del vivere, ed il modo di calmare gi’interni moti inordinati de’fluidi, mi accinsi a tale impresa, non potendomisi addoffare da critici, che io abbia contravenuto al documento, che insegna Orazio nella sua Arte poetica a chi brama di scrivere con profitto, cioè:  Sumite materiam veftris qui fcri  bitis æquam  Viribus , & versate diu quid fer  re recufent,  Quid valeant humeri. E per corrispondere con attenzione,  grandezza dell'argomento intrapreso, formai alla prima la seguente partizione di effo.  Divisi primieramente la presente Opera in due parti, cioè in Morale, c Medica, affinche con facilità maggiore ti riuscisse di apprendere quanto scris vo trovandolo non confuso.  Nella prima Decade troverai descritti molti avyertimenti, che dò, acciocche chi voglia accasarsi; possa provederli di ottima moglie; nè ti paja ciò fuori del nostro proposito ; perchè se non si abbatcerà in una moglie prudente, ed onesta , duc gran mali riceverà l'educazione de' suoi figliuoli; il primo de'quali sarà ereditario dicendol’ ArioIto:  Di vacca nascer cerva non vede  sti, Ne mai colomba d'aquila, nè figliaonefti E l'altro poi come potrà queste ajutarti ad educarli bene , fe non sapràche cosa sia la buona educazione, per non averla mai in se medesima sperimentata? Laonde conviene conchiudere, che la base fondamentale della buona educazione consista in iscegliersi una ottima consorte; ed avendola trovata, fi danno parimente molti documenti utili per mantenerla costante nel suo buon costume ; ed inoltre si mostra di quai modi si doverd fervire avendo sbagliato alla prima nel provedersi di effa , affinche molto minori divengano i suoi infortunj.  Nella seconda Decade principia. 1'Educazione Morale de figliuoli; ed in questa scorgeranno i Padri di famiglia quanto siano tenuti d'invigilarci, e quali inconvenienti nascono dalle loro  era,  [ocr errors] zio la similitudine de campi, nc'quali fa vedere di che pregiudizio sia questa, dis cendo:  Neglectis urenda filix innascitur  agris E che le Madri non debbansi abu, fare dell'amore verso i figliuoli, essendo questo trascorso molto nocivo allawi buona educazione, a segno che, se molti non avessero avuto l'asilo materno per esimersi da gastighi, averebbero depofti quei vizj,percui poscia divennero infelici . Troverai parimente documenti facili, e profittevoli, de quali potrà ogniuno feryirsi sccodo le diverse loro inclinazioni per educarli. E perch'è il compimento della buona educazione l'istradarli a ciò, che doveranno applicarsi, quindi è, che si tratta ancora del modo, col quale si doveranno provedere i figliuoli secondo gl'impieghi, de  que  quali si conosceranno meritevoli ; e dandosi il caso per lorosventura, che i genitori morissero, trovandosi elli di tenera età, si propone ciò, che pare conveneyole a farsi in simili calamitose cótingenze:e' per non lasciare poi in abbandono i poveri, che non ponnoricevere tutti quegli ajuti da Macstri conforme possono avere i figliuoli de'bene Itanti, fiè pensato anche ad essi per dare un ripulimento più universale contro vizj,essendo tal semenza in tutte le condizioni degli uomini perniciofiffima per la Republica.  Quattro sono gli interlocutori ideali della presente opera : Sempronio giovane molto accorto, il quale brama d'istruirsi; Mecenate , e Publio prudenti direttori, ed il Medico provetto , per dilucidare alcune cose appartenenti alla Medicina. Mi fono servito di Publio ammogliato per la sperienza grande,  chc  che si trova colui, il quale per molti an ni è vivuto in tale stato: di Mecenate sciolto da tal legame, periscoprire quel di più,chenon può eslere noto, a chi hà moglie,rimirando le cose più sincere chi si trova in disparte, enon ha abbagliato la vista dalle proprie passioni.  Inoltre raccontando Publio cioca chè costumavası fare in tempi meno rilassati, farà maggiormente conoscere la differenza de'correnti, & additerà ancora il modo, che si potrebbe tenere per emendarli,quando questi discordafsero molto da quelli . Nè potrà dolersi alcuno di quanto io con tutta sincerità procuro di darti a notizia; essendoche conforme il Medico non può trovare il rimedio opportuno al male se non forma l'idea giusta, con esaminare esattamente la natura, cagione, e gli effetti di esso, così ancora nel ritrovare isimedj ai vizj, che sono mali dell'animo  b 2 caca  [ocr errors] è necessario sapere precisamente la natura, le cagioni, e li cattivi effetti di esli ; oltre di che, non parlando io in particolare di alcuno, ma solamente in  generale diciò, che è detestabile, non si potrà dolere di me se non chi da se medefimo conoscerà d'essere macchiato di tali difetti,come a tale proposito disse S. Ambrogio ne'suoi serm.pag.102. Ego non de omnibus loquor Etc. ego neminem nomino : conscientia fua unumquemque conveniat.  Averei potuto ancor darui la feconda parte; ma per maturare meglio alcune cose contenute in essa ci è d'uopo di maggior tempo, c per iftabilirle ancor con provo più convincenti; ti baa Iti per ora un picciolo abbozzo di ella affinchè poffi da questo comprendere il progresso da me tenuto per compire una educazione più generale . Quattro sono i punti Medici prinche convenga nel tempo, che sono già  cipali, che si tratteranno nella Decali  de terza, in ordine alla buona educazione; il primo fiè quello , che deesi fare per vantaggio di essa, prima di concepire figliuoli: Il secondo, cioc  [ocr errors] in  ito lif  [merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged small] per cola  [ocr errors] concetti, e dimorano nell'utero materno; il terzo che far si debba, dati che sono alla luce, e finattanto, che dura la loro pucrizia: Il quarto finalmente, ciocche convenga allorchè sono in età, nella quale dee in effi manifestarsi l'uso di ragione , indugiando questo.  Nel primo si farà vedere assai difficile il potersi avere figliuoli di buona indole, e docili , se tra marito, e moglie regneranno continue discordie; se faranno l'uno, o l'altra di essi dediti all'ubriachezza, ed alla crapula; con dimostrare loro donde ne provengala cagione; oltre le sperienze dimostrative di ciò.  b 3  Nc  [blocks in formation] [ocr errors] Nel secondo, che non debba una deviata madre tenere la medesima vita, che faceva , prima di concepire; con mostrarle ancora gl' incomodi che può ricevere ella medesima, ed il feto, che porta riell'utero, per tal cagione, e quanto possa venire danneggiata la buona educazione da questo.  Nel terzo si farà conoscere , dati alla luce, di qual latte debbano nutrirsi, e qual regola in cffi debba tenersi, allorche saranno slattati, per deprime. re quel principio , che si scorgesse avvanzato in loro a danni della buona educazione; e qual cuftodia abbia d'aversi di esli , affinche non divengano di cattiva complessione, la quale sarebbe molto pregiudiziale alla buona educazione,  E finalmente nel quarto , vedendosi questi ne' buoni documenti morali non fare progressi, fi esamina sela  sero avere pofsanza tale da deprimere, o innalzare alcuni principj in esli, o foverchiamente assottigliati, o più del dovere sopiti; mediante i quali ne nascesse ostacolo alla mente nell'apprendere, e ritenere i documenti necessari, e questo sedebba farli con ajuti più efficaci mostrandoci anche Orazio, che Incultæ pacantur vomere sylve.  Nella quarta Decade poi troverai dieci ragionamenti sopra i vizj, e le virtù, con esaminarsi ancora ifrutti di ambidue ; e servendo questa come di una appendice all'opera, goderà il vantaggio di efsere trattata con ragioni, e documenti filosofici, medici , morali, e naturali, secondocheayerà d'voро  di essi ; & intanto si sono queste materie poste nel fine , per non dilungare troppo i ragionamenti, potendo ciò renderli tediosi; ed essendo per altro  neceffario il farc: ben comprendere a tutti quanto di buond, o cattivo nasca dalla buona, o cattiva educazione; doveva questo non trattarsi solamente di passaggio, conforme si era già fatto nelle antecedenti conferenze; ma farfene bensì particolari ragionamenti a parte per dimostrarlo con più di chiarezza, potendone da ciò risultare un infinito bene; conciosiacosache fàconoscere chiaramente il nostro Ippocrate nella risposta, che diede agli Adderiti, essere feliciquei Popolizi quali ben sapeano, che la loro sicurezza non consisteva nelle alte torri,cd in altre materiali fortificazioni;mà bensì nella bontà de Citradini,e ne'loro prudenti consigli:spiegandosi ivi : Beati profectò funt populi , qui sciunt bonos viros suaesse munimenta, nonturres,neque muros, fed fapientum. vi. rorum sapientia confilia ; É venendo interrogato Socrate nel convivio de'sette  fa  fapienti di Platone, qual fosse la più ben munita Città, egli rispose : Que bonos viros habet . Quale la più felice : In qua præfe&ti focietate conjunguntur: E finalmente qual fosse la migliore di tutte, egli disse: In qua plurima virtuti premia proposita sunt . Nè può di ciò dubitarsene, insegnandoci l'oracolo della Divina Sapienza al 6. Multitudo fapientum fanitas orbis.  Spero finalmente, che saranno ricevute queste mie fatiche con animo benigno da quei, che sono amanti delle virtù, e se faranno vilipesc da chi ha già fatto l'abito di āteporre i vizja queste,verranno da essi più costo a loro mal grado onorate; riputandole di pregionó dissimile a quelle cose solite da essi a pofporsi; mi basterà, che fiano grate a chi possiede il buon costume, ed utili a chi brama di acquistarlo, perchè gid sono divenuto capace , che nel mondo erunt vitia conec homines; con questa diferenza solamente del più, o del meno,nè io pretendo di vantaggio. Vivi costante nel bene operare per continuare ad essere felice, e far conoscere agl’infelici viziofi colla tua tranquillità di animo meglio le loro mi  serie.  Si videbitur Reverendissimo Patri Sacri Palacii Apoftolici Magiftro.  N. Barcbarius Episc. Bojanen. Vicefg:  APPROVAZIONI.  Etta, è considerata del si  gnor Dottore Domenico Gagliardi , intitolata l’Educazione de figliuoli morale ; o medica ; per commissione dei Padre Reverendiffimo Gregorio Sel. Seri Maestro del Sagro Palazzo Apoftolico; non ci hò trovarà cosa vervna , chic fia contraria alla Fede, o clic offenda i buoni costumi . Con verità bensi poffo; c debbo attestare; che una tale opera per mio sentimento è degna di uscire in luce, perchè oltre l'effere or: nata di scelta crudizione, e di soda dottrina ; può essere molto fruttuosa ; ed al publico, ed al privato, spiegandosi ia essa con dotta; e giudiziola chiarcze  [ocr errors] za la maniera di ben educare la prole, affare di somma importanza , come è ben noto a chi non hà cicco l'intendimento, ed offuscata la ragione. Cosi ne giudico ; c francamente mi persuado, che altrimente non ne giudicherà chiunque col leggerla dalla forza del vero G conoscerà obbligato ad approvare con giusta lode il zelo ben commendabile, e con eso l'erudito , e saggio faperc del chiarissimo autore, che per la publica utilità non hà ricusato di addosCarG acl colmo delle sue Mediche applicazioni una cale fatica, che ben lo palesa non meno versato negli studi più propri della sua professione, che negli altri, per cui sono degnamente accreditati i più celebri per fama di erudizione.  Io Fra Tomaffo Maria Minorelli de'Pre  dicatori Maestro di Sagra Teologia, « Bibliotecario Cafanastense  Per  P  Er commissione del P.RñoGregorio  Selleri Macstro del Sagro Palaze zo Apostolico avendo letra , e confiderata l'opera dell'Eccellentiffimo Signor Doctor Domenico Gagliardi , intitolata L'Educazione de figliuoli morale,e Medica, non avendo trovato nella medesima mala fimc repugnanti alla nostra Santa Fede, ed alla bontà de costumi, nè discordanti da i buoni fondamenti della nostra Professione di Medicina la considero degna di publicarli con la Stampa questo dì 20. Gennaro 1722.  Michelangelo Paoli  IMPRIMATUR.  Fr. Gregorius Selleri Ordinis Prædica  corum Sac.Palat. Apoft. Magift.  Delle Conferenze,  PSopra l'elezione della Moglie , e sue condizioni più essenziali.   Sopra l’età più propria, epro.  porzionata di accasarsi ; e quale sia svantaggio maggiore, farlo prima del tempo convenevole, 9 nella vecchiezza :  Dove la mostra,in che cose faa  esenziale l'uguaglianza nei Matrimonj; e quali jvantaggi nascano dalle disuguaglianze in queAte.  Sopra gli antichi costumi, pras  ticati appreffo alcuni Popoli per la generazione ; ę se sia più vantaggioso lo scoprire scambievolmente i propri  , corporali difetti , prima di sposarsi, o l'occultarli. Nella quale si mostra , in che modo si maritino le belle , le ricche , ę le deformi  quantingue povere.  Nella quale si esaminano piut  distintamente i pregiudizi, che risultano dai matrimonj fatti senza l'intervento della Pruden74.Sopra i difetti , e le virtu delle donne.   Come si debba regolare l'uomo colla moglie scelta di ottime qualità.  Come si debbano regolare i saggi  mariti con le mogli imprudenti , e viziose .  Sopra i ripiegbi prudenziali ,  che debbonsi prendere in diverse occorrenze dalle  mogli saggie , incontrandosi in viziosi, ed indiscrefi mariti,   Sopra l'educazione Morale de'figliuoli, Nella quale si mokra, che co  Ta sia edncazione , cui appartengo piid di ogni altro; e sefia necessario luogo particolare, ove debba farsi .   Intorno a quello , che debbas  farsi da Genitori per educar bene i figliuoli .  Intorno all'uffizio, e qualita dell’Ajo, e dei Maestri .   Sopra l'educazione delle Pin gliuole,   Sopra l'etd opportuna d' apa  prendersi le scienze, ed il modo più facile per accer  tarsi delle particolari inclinazioni de'figliuoli .  Sopra gl' impieghi , che do  vranno darsi da saggi Padri a figliuoli ben’educati, e dotti.  Come debbano i Padri rego  larsi nel provedere i figliuoli ingnoranti , e viziosi.   Sopra il modo di ben collacare le figliuole.   Sopra l'educazione de Pupil  li : e come debba ciascuna portarsi verso i suoi Genitorį defonti,   Sopra l'educazione de'figliuoli  poveri, e donde venga questo danneggiata . 539  [ocr errors]  Sempronio , ( Mecenate .    [ocr errors] Sem.  Engo talmente af frettato da mici cogiunti a prender moglie, che non mi lasciano vivere, sti  molandomi giornalmente di farlo; a segno che, per non poterli più sentire, sono in necessità di compiacer loro : solamente due core mi ritardano; e fono l'educazione de figliuoli, che possono nascere,e la cura, la quale fi dec avere di esli, efsendo in ciò inesperto ; per altro mi trovo già pronto a consolarli : istruitemi, Mecenate, in queste, potendo voi fare due beneficj in un tempo;cioè, d'istruire me, econsolar' efli, che tanto bramaDo le mie nozze. :  А  Mer.  Mec. Mà questa moglie,ci è già scelta approposito per voi ?  Sem. Ci sono tante giovani oggidi belle , galanti , e ricche, che essendo anche io giovane,e commodo di beni di fortuna la posso scegliere a mio genio, e fodisfazione in brevissiino tempo.  Mec. Però non sò se tutte queste belle , galanti, e ricche, faranno per cala voftra,leggendo in Ateneo che: demens eft , qui oculis uxorem accipit : come fece appunto Monimo  il quale , avendo sposata una Giovane , senza ricercare prima i suoi costumi, divenne infelicillimo marito; c dolendosi della sua {ventura con Olimpia madre di Alessandro, lo riprese della sua trascuragginc, usata nello sceglierla.  Sem. E che ! la dovrò prendere forse deforme , scoriese, e povera ?  Mec. Neanco questa farebbe al caso voftro.  Sem. E chi dunquc doverò prendere?  Mec. Una's clic lia donna di propo,   fito,  Sem,  [ocr errors][ocr errors] Sem. E quelle, che sono belle , egalanti, sono donne ancora di propofito.  Mec. Mà non tutte buone per voi.  Sem. Quali saranno quelle, che voi Itimate buone per me?  Mec. Quelle appunto, che sapranno softenere con senno, e con prudenza la metà del peso della casa, e dell'educazione de figliuoli; onde quando voi la tropaste di queste qualità avercre risparmiato la metà del penfiere dell'educazione, e cura de figliuoli; e queste sono appunto quelle Itimate appropolito da Plauto, in Stiche, ove dice: UI per  orbem cum ambulent Omnibus , os obturens , ne quis meritò  maledicat fibi. Essendo queste ornate di tutte quello desiderabili prerogative, descritte daw Seneca in O&avia. Probitus , fidesque conjugis , mores, pue  dor placeant inarito. Sem. Io credea , foffe fufficiente, che ja moglie sapeffe far figliuoli, c chou ogr’una di queste fosse a propofito.Mec. Per farli, lo credo ancheio, ma non già per educarli bene, e per adempire quanto dee' una vera madre di famiglia; essendo che per far questo liricerca, che sia dotata di senno e di prudenza' : vi avvedete voi ora del vostro errore, e che come si suol dire, ponevate il carro avanti i buovi, con istruirvi nell'educazione de' figliuoli , senza sapere ciò, che ci vuole per iscegliersi una buona moglie: e se v'incontrasto in una imprudente, garrula, e contenziosa, à che vi gioverebe il sapere educar bene i figliuoli, se quanto di buono voi operaste, ella sarebbe capace distruggere colla sua imprudenza, e garrulità ?, allor sì che fareste caduto in quella fyentura descritta dal Poeta Saririco :  Semper habet lites, alternaque jure  gia lectus In quo nupta jacet, minime dormia  tur in illo . O.pure vi abbatteste in una, che fosse di quella natura superba, descritta dal me. desimo, la quale dicesfc; Нос  [ocr errors] voluntas ;  Imperat ergo viro. In questi casi educate bene i figliuoli se potere .  Sem. La bramerei savia, e prudente, ma vorrei, che foffe anche gentile, e galante ; perche le donne di fattezze grossolane non mi sono mai andate a genio.  Mec. Se questa sarà sana , e prudente non ci hò cosa incontrario, ma se poi colla sua gentile, e delicata complesfione ci fosse unira qualche indisposizione di animo, e di corpo, il che suole alle volte accadere, non vi consiglierei a farlo. Sem. E perche ?  Mec. Vi porreste in tal caso a pericolo di fare una cattiva razza; eredicandog da figliuoli non meno il bene , che il inale di effe ; ed hò sentito da Medici, che più dalle Madri, che da i Padri questo si ritragga, per il nutrimento dato loro quei nove mesi, che li portano nel ventre nè fi può fperare,  che  [ocr errors] A 3  che dal seme velenoso del nappello nasca un giglio, o una rosa: non sarebbe poco, quando meno velenosa germogliasse quella pianta , che dee ello produrre : e poi voi, il quale vi dilettate de cavalli, dovreste sapere per isperienza, che quelli nati da cattiva razza, riescono i meno generosi; e perciò dovete anche riflettere, che il limile poffa seguire negli uomini, come lo descrisse Orazio.  Fortes creant ur fortibus , du bonis :  Et in juvencis, eft in equis patrum  Virtus : nec imbellem feroces   Progenerant aquile columbam . Sem. In maggior confusione di prima ora mi trovo, sentendo da voi , lian neceffario ancora di scegliere una donna savia, e prudente per moglie; onde, per liberarmi da tanti guai, seguiterò le vostre orme, e viverò libero da questo legame anche io, e dicano ciocche vogliono i miei parenti.  Mec. Non fatedi grazia, Sempronio, questo sproposito,  Sem.  [ocr errors][ocr errors] Sem. E voi perche l'avere fatto ?  Mec. Non aveva allora la sperienzas d'adesso ; nè mi abbatiei in consigliere sincero; e sappiate , che mi sono pentito più volte, e particolarmente avanzaadomi negl’anni, di averlo fatto.  Sem. E per quali motivi?  Mec. Perche non anderei tanto lambiccandomi il cervello in cerca del mio erede (briga dolorosa dell'età avanzata) se avesli figliuoli.  Sem. Essendo voi tuttavia robusto, farefte anche in tempo di farli.  Mec. E che vi dispiace forse la mina robustezza, che me la vorreste far  perdere? non sono più in tempo di farli; hò procurato finora di non esser ridicolo, & ora più del passato son tenuto di farlo, e voi mici varrefte far diventare per cantare di me forse ciocchè disse il Taffo di Vincilao :  Vincilao, che sì grave , e faggio innante  Canuto pargoleggia, e vecchio amants : Queste risoluzioni, Sempronio , deona fare in gioventù , per poter vedere i suoi  figliuoli bencincaminaci prima di mori. re, essendo che a me potrebbe succedere ciò che dice Plauto:  Poft mediam ætatem, qui ducit uxorem,  Si eam fenex prægnantē   fortuitò feceris , Quid dubita's quin fiet parasū nomen  puero . Poftumus?  Sem. Dunque saranno ridicoli tani vecchi, che si accasano,e con giovanette anche belle?  Mec. Io non debbo entrare nei freci altrui, debbo bensi pentire 2 cali miei, ora che ho il pieno uso di raggione, acquistato cò gli anni; ma questi sono discorsi fuori del nostro proposito, dovendo voi risolvervi a prender moglie , per non avervi a pentire poi ancor voi di non averla pigliata ; e per ciò dovere farvi ora istruire in quello, ch'è necessario per fare un ottima elezione.  Sem. E da chi?  Mec. Da colui, che la seppe far ottima , e perciò gode vita felice , e tranquilla.Sem. Ma io non vorrei, Mecenate mio, palesare alero , che à voi il mio interno; perche sapete pure qual vento spiri oggidì, che si van cercando id fecti alcrui per mantenere allegre le nostre notturne assemblee, laonde di scoprendo le mic debolezze ad un'altro, sarebbe cosa facilissima si divulgoffero fra molci.  Mec. Viverenino in tempi infelicissim mi, re in Citcà si vasta la secretezza re. gnasse in me solamente,  Sem. Mà non potreste voi solo istruire mi in cucto , essendo vomo di molta fperienza nelle cose del mondo.  Mec. In teorica potrei darvi molti avvertimenti, ma in cose pratiche nors posso consigliarvi ; perche essendo io sciolto da limil legune, no ho avuta occasione di approfittarmi in tal faccenda.  Sem. Oh quanto mira meglio colui, il quale stà in disparte, i difetti dongeschi di quello facciano i mariti! e come giudice spassionato , quanto li distingue anche meglio! Mec. Voi sapete quanto vi amo, u  per:  perciò non lascierei cosa alcuna, che non facessi per consolarvi; mà conos . cendo io, che meglio potreste essere iftruito in tutto coll'intervento di chi averà navigato felicemente molti anni per questo gran mare , perche vi amo, dico questo ; potendo egli molte cose aver conosciute in atto pratico,alle qualinon possono giungere le mie teoriche.  Sem. Se lo giudicare necessario bisognerà farlo : ma chi sarà ral'consigliere?  Mec.Ci sarebbero Publio Roscio,che per lo spazio di quaranta tre anni, e vivuto in pace con sua moglie. Massimo trentanove anni parimente, senza contendere,e Silvio Paterno trentadue;ora sceglietovi, chi volere di questi.  Sem. Oh bene avete trovati i parenti più prossimi à Noè, che sono in questa Città ! quai consigli mi potranno dare questi vecchi decrepiti, che non firicordano del seguito nel dì avanti; e poi a tempi loro non usandofi le galanti maniere constumate oggidì, a che mi fervirebbono i loro ancichi consigli , non  pra.  praticabili a tempi nostri?  Mec. Tutte queste eccezioni, che da. te loro sono in vantaggio vostro; per, che, se non si ricorderanno quello , che udiranno da voi, niuno risaprà i fatti voftri , e se, senza tante galanti maniere di oggidì, fi feppero far amare dalle loro consorti, insegnando a voi i modi, da loro tenuti, ci guadagnerere molto in saperli, e se non siete ancora informato della capacità de’vecchi, apprenderes la da Ovidio,  Jura fenes norint , dow quid liceata  que , nefasque, Falque fit inquirant, legumque exa.  mina servent. E da Cicerone , il quale, de Senectute, così parla del Vecchio: Non facit en que juvenes, at verò multa majora, meliora facit ; non enim viribus , aut ves locitate corporis res magne gerantur , fed confilio , authoritate , fententia , quia bus non modo non arbari , fed etiam auga. ri senectus folet. Laonde faggiamento l'Ecclef. al 25. dico ;- Corona fenun muba ta peritia :  Sem  Sem. Sceglietene dunque uno di quefti a vostro genio, e quello, che conoscerete più approposito per il bisogno mio.  Mec. Publio sarebbe più al caso, per. che quantunque egli meno si ricordi delle cose presenti, conforme sono tutti i più vecchi, ha felicissima memoria nel ricordarsi delle passate:e poi avendo numerola famiglia, e così bene accostuinata , saprà anche istruiryı nella educazione di essa.  Sem. Attenderò dunque con anfierà i consigli di Publio; ma faprà istruirini incio, che riguarda la cura, che si dec avere per conservare la prole con buona falute  Mec. L'esperienza, avuta in molte cõgiunture ad esso accaduce lo averà facilmente renduto capace, a darvi qualche buon consiglio in questo ancora; ma non già con tanta esattezza cõforme farebbe chi foffe profeffore di Medicina.  Sem. Sarebbe dunque bene u’interveniffe uno di questi; c difcegliere tra periti il migliore  Merg.  Mec. Il vostro Dottore è pratichiffimo, avendo avuti molti figliuoli, è anche ingenuo , e sò che vi ama di cuore, onde migliore di ello non saprei sccglierlo.  Sem. Così è: or ditemi, come doverò contenermi nelle nostre conferenze?  Mec. Domanderete quando si presenterà l'occasione tutto quello, bramate di sapere; e non vi vergognate di fare anche quesiti di poco rilievo ; perche non facendoli, rimarrete con perplessità in molte cose.  Sem. Come si farà per informare Publio,che al Dott. parlerò io modelimo'  Mec. Sara inia cura d'informarlo di tutto, e già che siamo di primavera potremo portarci al mio giardinetto, contiguo alle mura della Citrà, ove come disse il Petrarca:  Non palazzi , non teatro , e loggia ,  Ma in lor vece un abete , un faggio, un     pino,  Fra l'erba verde , el bel monte vicino ,  Levan di terra al ci el nostro intelletto , E faremo ivi due volte la settimana le nostre conferenze.  Sem. Mà non sarebbe meglio, per approfittarmi prestamente , il farle tre volte ?  Mec. Vicompiacerò anche in questo, purche le occupazioni degl’aleri lo permettano ; ma voi, Seinpronio, averete già dato luogo nel vostro cuore a qualche oggetto, perche bramate sapere con sollecitudine se quefto ci abbia da rimanere,viconsiglierei però quádo ciò fosse, a spogliarvene prima, per applicare tutto il pensiero a quella, che converra à yoi, & alla vostra casa , che vientri  per meglio stabilircela ,  Sem. Non sono determinato ancora, quantunque abbia posto l'occhio in più parti, onde posso facilmente spogliarmene affatto, e starò con anfietà attendendo l'avviso del giorno, in cui si darà principio alle nostre conferenze.  DECADE PRIMA  CONFERENZA PRIMA  Sopra l'elezione della Moglie, e fue  condizioni più ellenziali. Mecenate , Publio, Sempronio ,  e Medico.  Mec.  O notificato à Publio ciocchè voi bramate da esso, il quale vi copatisce a maggior segno;  posciache egli ancora si trovò in un fimile laberinto,allor che dovea prender Moglie, comc jeri appunto mi disse, e da lui medesimo sentirere ora con vostra confolazione.  Pub. Quantunque anch'io venifli Atimolato da mici Genitori ad accasarmi andavo nulladimeno téporeggiado d'effettuarlo;perche apprendeva fosse schia  vitudine grande la vita cognugale, ma la ritrovai, per verità, assai diversa das quello, che io mi avea figurato ; & efsendo stato sempre mio costume, anche da giovane di regolarmi col consiglio d'uomini favii , c provetti, mi portai da un di questi mio amico, che non aveva alcun interesse in cal affare, per consigliarmi seco , fe dovessi risola vermi a prender moglie, il quale uditas ch'ebbe tale proposta, cortesemente mi disse: figliuol mio è tempo ormai , che vi risolviate di farlo ; perche avendo voi già l’età di venticinque anni poiere esser capace d'indrizare una donna per la buona strada , quantunque aveste sbagliato in isceglierla nelle cose meno essenziali, e sappiate, che l'uomo savio bene spesso fa divenire la moglie non dissimigliante da lui , siccome l'imprudente donna precipita l'uomo poco avveduto : figuratevi alla prima di dover navigare per un vasto oceano dover essere voi il nocchiere, che guida la nave : sappiatevi ben regolare  nelle  [ocr errors] e di  [merged small][merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] nelle tempeste, per non sommergervi ; prendetela sana, ben accostumata, e di buon parentado, non vi lasciate abbagliare dalla bellezza, dote, e nobiltà; e risolvetevi ; perche quanto più differirete, altrettanto inaggiore sarà il morivo di pentirvi della tardanza: raccommandatevi al Signor Iddio, essendo che: A Domino autem propriè uxor bona , come disie Salomone; procuratela giovane, nè tardate di vantaggio.  Sem. Quanto mi consolo , che vi siete ancor voi trovato in fimile laberinto; e son sicuro, che perciò compatirete le mie debolezze.  Pub. Vi comparisco a maggior segno figliuol mio , fatevi però animo ; perche quantunque paja la vita conjugale alla prima di un gravissimo peso, quando però questo viene portato concordemento d'ambedue, riesce molto leggiero, an. zi foare'; e tal fortuna l'hò sperimenta. --ta io medelimo.  Sem. Vi abbatteste à caso in sì buona compagnia, o pur faceste preventivos  [merged small][ocr errors][ocr errors] diligenze per isceglierla 2  Pub. Le feci certamente esatciflimus per non operare da balordo ; perche se per provederci de' cavalli, cani, anzi di vili giumenti si fanno efatte diligenze', acciocchè siano sani , edi buona rizzi; quattro maggiormente sono neceffario queste nello provedersi di moglie, come puntualmente si trova registrato in Tcognide, Canes quidem, a afinos querimus ,  • Cyrne, dequos Generofos, cu hec quisque vult ex  bona progenie Sibi parare ; uxorem aurcm ducere  malam Ex mala progenie non curat 1. Vir bonus ; modo fibi pecunias multas  1offerat. * Sem. E qual modo teneste in farle? - Pub. Avendo posto l'occhio ad una Gentildonga modesta,non diriguale alla mia condizione, & in età nubile, miraccomunaadai di cuorc al Medico , che fa. Noriva la mia casa , acciocchè avessesavesle ben Dell'Elezione della Mog. 19 procurato di accertarsi della sua salute , avvertito à non ingannarsi, per non ave. re a fare ancor esso la penitenza del suo fallo; posciache se fosse stata mal sana, dovendola curare, briga maggiore gli averebbe apportata; senza speranza di premio straordinario ; per esserne egli Itaro la cagione, che fosse entrata in inia casa; ciò però dilli per ischerzo. m  Sem. E detto Medico, come lo potcs va scoprire, se non l'avesse avuta ini cura ?  Pub. Penetrò tanto, che mi bastò ,  Sum. Com'egli fece ;   Pub. Avendo confidenza col suo Speziale, segretamente cercò nel di lui libro maltro, se vi era descritto alcune medicamento, servito per effe lei, e non trovandovi cosa di rilievo, mi disse : ftiamo bene di salute, perche none, si è mai purgata .  Sem. E leu fosse fervita di qualches altro Speziale? Pub. Questo non si costumava di fare  in quei tempi tanto allo Speziale, quanto al Medico. Una volta, ch'essi erano ftati ammessi, fino alla morte continuavano, ed'eravamo per ciò ben serviti; imperciocchè con molto amore effi s'in. tereflavano ne i nostri vantaggi,conforme comprenderete da quanto soggiungerò. Non si appagò già l'affezzionato Medico di questa fola diligenza usata', mà volle far di vantaggio, e fu d'abboccarsi col Dottore, che medicava in quella casa,introducendo seco discorso sopra la poca salute, che godevano alcune giovani, ch'egli curava, attribuendone la cagione di ciò al poco esercizio, ch'esse facevano ; e di poi passò à domandargli, di quali rimedij egli si prevaleva per conservare in salute quella , che doveva appunto essere la mia futura fpofa, la quale in appareaza mokravas essere più sana dell'altre; cui replicò, ch'avendo ella sortito un ottimo temperaméto, no aveva d'uopo dell'opera lua, & in segno di ciò nel mal de vajuoli da ella sofferto appena cgli vi fu chiamato  nel  oel fine', tanto la natura le fu propizia , che senza alcuno ajuto medico fece il fuo corso felicemente; e con questa seconda diligenza mi accertò della buona salure, ch'ella godeva.  Sem. Questo favore toccherà à voi, Dottore, di farmelo...  Med. Non mi ponete di grazia in Gmile intrigo ; perche non essendo io si avveduto, non vorrei errare nello scoprire gli altrui difetti : e poi se îi desse il caso, che io avelli curato quella giovane, l'onor mio n'anderebbe di mezo , discoprendovi la verità delle cose con, fidateini.  Sem. Della vostra avvedutezza punto non dubito: e poi porrò la mira a qualcuna, che non fia medicata da voi; onde non mi contriftate col recufare di f.2vorirmi ; perche altrimenti sarete voi cagione, che io non prenda moglie, noa potendomi fidare meglio di alcun altro in questo, se non di voi.  Med. Per servirvi la vedrò, considererò il suo temperamento, e fisonomia;  B 3  mà  mà tante altre diligenze, praticate per Publio, non vi prometto di firle; perche ora non si costuinano più molte cose, che si facevano allora.  Sem. L'usanze buone non si debbono dismerrere mai, io mi dichiaro con voi, non per ischerzo, come diffe Publio , mà con tutto il fenno: che se non sarà fana , toccherà à voi di curarla senza fperanza di ricompensa , succedendomi per colpa vostra tale sventura'.  Mega Vorrci, Sempronio, che mi mostraste qual privilegio voi avere più del Dottore di dismettere l'usanze buone; essendo ch'è pur usanza buona riconoscere col dovuto guiderdone il Medico, il che voi volete disinertere', obbligandolo di più ad osservare quello, che fa  per voi.  Sem. Lo dicevo per animarlo, 20ciocchè lo facesse con più fervore: non già tutte le cose, che si dicono si fanno.  Mec. Questo però non è già premio , che animi, mà bensì minaccia , che avvilisce più costo ; olore di che non è già  ben  ܪ  ben fatto di proporre con tanta franchezza ciò, che non si vuole praticare,  Sem. Non parliaino più di ciò; palliamo al costume ; questo in che dee cons Giftere, avendomi voi significato, non essere necessario, che la moglie lia garbata, e galante?  Mec. Cerra cofa è, che il buon costume della donna, non dee coolisterer in questo, mà bensì in aver cura delle casa, in saperla ben reggere, e gover: nare di cui parlando ne? ;suoi Proverbij Salomone diffe : Confickeravit. Jemitas domus fue , panem otiofa non comedia Ed il Nazianzeno nei suoi documenti che da alle vergini, così dice Neque domibus cxternis olideas , neque  menfis. Ed altrove contro le donne più del doc yere ornate, così parla .  Mos eft mulieribus [res pretiofa] domi  manere  [ocr errors] Plurimum, & divinis alloqui sermonibus Telaque , fufoque ( hoc enim munus eft mulierum)Ancillis opera distribuereservos vitare ,   Labiis vincula ferre, oculis,atq;genis:   Neq; pedē exirà vestibula Sepè babere; E Menandro comico greco così dice , Intus manere mulierem oportet  oportet :: Bonam, egredientes autem foras nullius  pretii sunt . Sem. Come scopriste, Publio , che fosse di questo costume la vostra Conforte?  Pub. Avevo in quel tempo un servitore molto affezionato, & insieme accorto, diedi ad effo segretamente l'incombenza, che lo aveffe scoperio ; e fi pora tò egli così bene, che in brieve fui informHo ditutio.  Sem.' E come fece?  Pub. Conduffe, ove questi sogliono ricrearsi, un certo fuo conoscente, il quale da molto tempo serviva in quella casa, e dopo d'essersi insinuato avvedutamente appresso di lui,introdusse discor. so, come è lor costume, sopra le stravaganze de padroni, & interrogato, che l'ebbc de cractamenti, che riceveva dal  fuo  suo, passò alla giovane, di cui ne diffe un infinito bene, con individuargli alcune particolarità, le quali denotavano forfe savia, c prudente .  Sem. Questi come poteva essere apa pieno informato delle qualità della gior vane, non trattando in quei tempi lei padrone con servitori?  Pub. I servitori in ogni cempo sono ftati curiofillimi di scoprire i fatti de'padroni, & anco i più segreti', come ava vertì Giovenalc.  Scire volunt fecreta domis, atque inda timeri. E siccome sempre vi è stata qualche affezionata corrispondenza tra essi, e le donne di servigio, onde per questa via, ciocche effi nonodono, ne offervano, lo penetrano : nè è stato mai possibile, che le donne di servigio ili fiano astenute dal'non palesare i difetti del: le padrone , almeno a questi loro favo riti, per mostrare con elli confidenza.  Sem. Vi bastò quefta sola notizia ?  Pub. Procurai in oltre rincontrarl24 da più parti prima di crederla ; pofçiag  che  che udito efferii da quella casa partita disguitata una donna , fecidiella  prenderne inf rmazione, la quale contesto le medelime cose,che dette aveva il servitore; ed essendo uniforine à questo notizie il publico conceito, che di essa fi aveva nel vicinato, mi appagai del suo buon costuine ie non feci altre dili. genze intorno à questo. ni  Sem Manon sarebbe stato ineglio vi foste informato da qualche Uomo das bene?  Pub. Non lo stimai neceffario , avendo rincontrato da più parti il medesimo: e poi per dirvela giusta , chi è buonio non è curioso d'investigare gli altrui difecii; ed anco sapendoli si guarda molto bene dal publicarli..."  Sem. Il vostro Ulisse, Mecenate, sa, rebbe approposito per iscoprire gli altrui difetti in  Mec.. Ma non in questo affare, perche egli cicala troppo: si ricerca in tale affare chi sia destro, e serio , che compri, c non venda.  Sem.  Sem. Palesatemi ora , Publio, qual modo usaste nell'informarvi della prosapia della vostra Conforte ?  Pub. Vi era in quel tempo un certo sfaccendato investigatore de' fatti altrui, il quale andava curiosamente cercando le memorie delle antiche famiglie negli Archivi ; cui feci parlare dau un'amico, è che mostraffe desiderio, tanto delle notizie della mia famiglia, quanto dell'alcra, con fargli promertere un convencvole riconoscimento per le sue fatiche'; e per verità in brieve tempo d'ambidue pose in chiaro quanto circa ad un secolo a poteva tro. vare, e seorgendo verificarsi ciocchés aveva detto della mia, prestai fedes à quanto aveva ritrovato dellal, tra; e vedendo, che fiftava quasi del pari tanto nel bene, quanto nel male's non ini curai fare diligenze di vantag. gio'intorno a questo ancora potendomi bastare.  Sem. Dunque quantunque sapeste, che in quella viera qualche eccezione,  non  [ocr errors] [merged small][ocr errors] non ne faceste caso?  Pub. Mà se vi era questa nella mias ancora, come potevo farne caso, do. vendoci ne' Matrimonj servare uguaglianza.  Mec. Credete forse, Sempronio, che tutti noi descendiamo da Cerari, e che per non interrotta serie di molti secoli le nostre famiglie siano state sempre illuftri? Se li potesse ora ritrovare la de. scendenza vera degli Arsaci; e Tolomei, oh quanti di questi si troverebbero esercitare arti vili, e forse core peggiori ancora . lo per tal motivo no mi fon punto curato di far ricercare dell'albero della mia casa , se non l' ulcimo secolo ; e tanto maggiormente, che un mio amico, il quale si mostrò più curioso di me, bramandolo di due , dopo di avere speso di molto in ricercare i fatti de'suoi antenati; vi trovò alcune cose, che forse nulla li piacquero, o fece tralasciare l'opera:solamente queIto guadagno vi fece, che non milançava più la sua nobiltà , come prima.Som. Di avere però l'albero della sua casa lo stimo neceffario, affinche i  posteri seguirino i loro illustri maggiori.  Mec. Lo credo anch'io , mà però non conviene farne publica mostra , se uon cui averà trà suoi ascendenti chi abbia goduta la Sovranità, mediances la quale degnamenre merita la preminenza sopra tutte le altre una sì illustre famiglia. Potrei riferirvi à questo proposito ciò, che fece un saggio Prencipe, cui fu presentato l'albero de'suoi antenati; lo rinirò egli ben bene , & essendoli avveduto , che l'adulazione vi avca innestare alcune cose ideali, lo fè piantare profundamente in una fund Villa, atfinche da quello germogliaffed l'albero de'suoi descendenci più glorioso, essendoche lo fc piantare ivi ad onta dell'adulazione.  Med. Licredo anche utili detti albe. ri per prova della salute goduta dagli asccadenti ; posciache se il Padre mori ottuagenario , il nonno parimente in età decrepita , conforme anco l'atavo , ed  il tritayo, sarebbe questa una provas grande della perfetta falure in quella famiglia; e tanto più se questa si proyaffe ancora per parto delle donne; dove che se fossero morti giovani , e vi foffero regnati tra eli mali creditarj, farebbe far un cattivo negozio, d'incftare a piante si cattive la propria.  Sem. Riuscirà ora cosa difficile à potersi sapere i difetti del casato, col quale dov.erò apparentare, per non esserci più quegli avveduti indagatori dei difetti altrui.  Mec. Non dubitate, perche non ci è questa penuria ; sono stati, e saranno sempre nel Mondo niolti, a quali premono più i farti altrui , che i proprj, ricavandune da ciò notabile guadagno ; basterà essere loro grati, perche di quc sto vivono , per altro ne troverete molti: e poi ci sono ora tanti manoscritti, e libri anche stampati, i quali trattano delle nostre famiglie, che vi si renderà più facile di quello, che credete, à Caperlo giusto ; Sc però non averanno,  tore  scritto con passione, clivare; il che si difeerne facilmente, non potendosi mai celare questi canto , che non si scuoprano.  Sem. In questo supplicherò voia favoriemi, avendone già pratica di molte ; Ini mette solamente pensiere il mor do di scoprire ciò, che accennò il Dor  concernente all'età , che fieno viyuti, & alla loro falute, ed in questo ancora vi prego , Dottore , che mi ajutiate.  Med. Questa non è incombenza di Medico, dovendo egli cercare i vivi per 'risanarli , se sono infermi ; ma ai morti qual bene potrà apportare, ricercandoli ?  Sem. Apporterete à me il bene, le non lo farcte a defonti, con trovarmi moglic , che descenda da famiglia sana, ed in conseguenza ancora a miei descendenti.  Mec. Il Dottore ha da fare, non gli date questa briga ; vi voglio inícgnare io il modo per uscoprirlo; posciache,  fc  [ocr errors][ocr errors] se la famiglia, colla quale voi volete app arentare, sarà illustre, e di antica pro fapia, ci saranno tante lapidi sepotcrali,ove son descritti i fatti degli ascendenti , ed ivi troverete anche gli anni, che questi vissero ; se poi saranno famiglie moderne, l'invidia farà palese più di quello, che bramerete sapere di cfle , ritrovandosi ricche.  Sem. Passiamo ora all'età più propria d'accasarsi.  Mec. Voi,Sempronio, vorreste essere in un sol congresso istruito di tutto; riferrete di grazia,che Publio è vecchio, ed il Dottore ha le sue occupazioni ; non ci abuliamo della loro sofferenza.; e poi non è già vostro vantaggio di far lunghe conferenze, perche meno a apprendono li troppi documenti, di quello si faccia udendone pochi per volta ; differiamolo dunque alla seguente Conferenza.  CONFERENZ A 11.  Sopra l’età più propria, e proporzionata    di accasarsı ; e quale fia svantaggio     maggiore , farlo prima del tempo conyenevole, ò nella vec-   chiezza.  [ocr errors][ocr errors] Sempronio , Publio , Mecenate,  e Medico.  [ocr errors][ocr errors] Sem.  01, Publio , che avete avuto fortuna nel vostro accasamento, ditemi di grazia: in qual'età  cravate,quádo prédeste moglie?  Pub. Appena io avca terminato l'anno. vigelimo quinto.  Sem. E la vostra sposa qual’età avea?  Pub. Era allora appunto entrata nel vigefimo. Sem. Perche non la prendeste prima?Pub. Perche non mi pareva di avere acquistato ancora turto quel conosciméto necessario per far passaggio a detto stato. Oltre di che trovando scritto questo Sacramento per ultimo , ftimai bene d'effectuarlo dopo l'età stabilita da conferirsi il Sacerdozio, per non errare.  Sem. Ma prendono pur tanti moglie prima di questa età ?  Pub. Da ciò forse deriva , che molti fi lagnano ancora di essersi accafati ; ed è cola facile, che per non sapersi in quell'età iinmarura regolare con giudizio, e prudenza , incontrino più disastri, che consolazioni,  Sem. Dunque avendo i vecchi più fperienza, senno, e prudenza de giovani converrebbe aspettarsi a farlo fino all' età fenile.  Pub. Per altri motivi però, apportati da Euripide , non si dee aspettar tanto, dicendo egli:  Et nunc juvenes adhortor omnes,  Ne in senecture nuptias celebrantes   [ocr errors] Vix liberos procreént;nec enim voluptas     eft,  Sedres inimica mulieri fenex vir, Ed altrove,  Amarus juveni uxori fenex maritus .   Sem. Sono però accaduti à rempi noftri cafi felici ne’vecchi sposati con le  giovani, ed hanno avuto prole. 3 Pub. Questi matrimonj bisogna , che  riuscissero assai infelici anticamente;podi sciacche di Omero racconta Erodoto į nella di lui vita, che sdegnatoli egli con  tro alcune donne,che sacrificavano à Co.  rcre in un trivio, imprecase loro questo o gran male.  Audi flavi Ceres precor, hoc mihi perfi  ce votum:  Hanc numquam juveni matronam junge I  marito, Sed tremulo fit nupta feni , cui vertice  cani Fundantur crines, E non avendo saputo augurare loro infortunio peggiore di questo;qual felicisà dunque potranno essi godere? Potrà  [ocr errors][ocr errors] effere tal volta, che le donne di oggidi fieno divenute più savie di quello fossero allora; o pur,non trovando alcune di esse mariti giovani fi contentino di quelli, che possono avere , senza contristarsene punto; se pure non è qualche caso singolare questo da voi riferito , il quale non è sufficiente à formare Aato.  Sem. Bramerei in primo luogo sapere da voi , se debba essere uguale l'età dell' uomo à quella della donna, per servare in tutte le cose perfecta uguaglianza?  Pub. Appunto per cagione di proporzionata uguaglianza , non debbono essere ambidue di consimile erà , perche deesi, come ben'avvertì Euripide regolar questa dalla durazione della fccondità , non dagli anni , dicendo egli. Malum eft juvenem uxorem adolescenti  conjungere. Diuturnior autem eft marium vigor , Fæmineum verò corpus citiùs puberta. sc deftituitur .  Sem.  [ocr errors][ocr errors] Sem. Quefta differenza di età in che doverà consistere , e quanti anni doverà avere più l'uomo della donna?  Pub. Sopra questo particolare ini persuado , che non si possa dare certa, c determinata regola;contutto ciò potrà dire il Dottore, quello ch'egli ne senta.  Med. Aristotele pone la fecondità dell'uomo fino all'età di 70. anni, e quella della donna sino à 50.jma perche ora forse sono le complessioni deceriorate , e perciò non si osserva, se non di rado giugnere à questo termine, voglio  in ciò regolarmi con quello , che piu } frequentemente suole accadere,il quale  appunto è; rispetto all'uomo incirca al 60.anno ; & alla donna intorno al 40. talmente che nello spazio di 20. anni,  confifterebbe detta fecondità di più o nell'uomo che nella donna.Ciò ftabilito,  ogni qual volta nou trapali in detrá - proporzione il triplo l'età dell'uomo  sempre farà in uguaglianza g rispetto al sempo di poter generare; purche non  C 3  VCI  yenga variata da qualche indisposizione morbofa.  Sem. Sicche dunque un uomo di 40. anni farebbe- nell'uguaglianza , prendendo una giovane, che ne avesse venti?  Med. Così è: uscirebbe bensì da calc proporzione , se la prendesse di 14.anni; poiche trovandoli la donna nell'età di anni 34.avendone il marito 60. sarebbe già divenuto sterile sei anni prime di effa.  Sem. E se la donna fi accalaffe in età maggiore di quella del marito , che ne potrebbe seguire da ciò ?  Pub. Le riuscirebbe certamente pii facile di fare à suo modo; imperciocche non prendendosi quella soggezione del marito , che suole apportare di più l'anzianità, disporrebbe, tụtto à fuo piacere;ed Iddio guardi,che la diffcrenza degli anni foffe tale, che il marito le potess’essere figliuolo,allorsi,che lo vor. rebbe tenere, e regolare da subordinato in tutto à se medesima : e poi è da riflet. tersi, che difficilmente inducendoli ladonna, se nő è molto stimolata  dal senso, à congiungersi in macrimonio con ginvani di tanta disparità; onde in questo caso soffrirebbe il povero marito per molti capi penc considerabili: solamente  la gelosia, che ne potrebbe ella avere gli i recherebbe tormento grando; olere di  chc, comc vuole Leonide , sarebbe sen-  za prole, e senza moglie, posciacche egli  dice:     Conjuge nec frueris,nec   frueris fobole . Sem. Io , che non voglio tanti guai, la bramo più giovane di mie; mà diremi, Dottore, qual'è l'età competente della donna,per cffer moglic?  Med.La giovane può prendere marito allor'appunto, ch'è atca à concepire , effédo divenuta già dóna;c può succedere questo alle volte nell'età di 12. anni, altresì di 13., 0.14.3 e più tardi ancora ; onde in detço tempo porrebbe divenire sposa.  Mes. Sarebbero però quelle di 12., 0 13.anni spose immature; e non só  quanto potessero riuscire buone mogli; poi  che  [ocr errors][ocr errors] C 4  che lasciando la conliderazione di do. versi queste scegliere uno stato nel quale conviene perseverare fino alla morreu, cd in conseguenza averebbero bisogno di più maturo senno per fare detto passo: e senza riflettere a tanti disaggi, che ponno incontrare nei primi parri; doinando, come si sapranno bene regolare col marito, e nell'educare i figliuoli?  Med. Hò considerato anch'io queste difficoltà; mà dall'altro canto è da riAettersi ancora, che prendendoli così giovanette ; si possono ind rizare, come li vuole ; ed abbiano l'esempio nelle piante, le quali allorche sono tenere , con facilità grande le poisiamo piegare a nostro compiacimento ; mà non già questo accade allorche sono indurate Virgilio parlando di domar la gioventù, dice, che nell'età più tenera con più facilità succeda.  viamque infifte domandi, Dum faciles animi juvenum, dum mo  bilis ætas. Mec. Io mi maraviglio, che. voi co  [ocr errors] me  [ocr errors] meMedico non vi opponiate 'a maritag: gi di età si tenera, potendo meglio di chi non è vecfato in medicina conoscere il danno, che possa apportare alle cenere giovani similc mutazione di stato Med. Non vi maravigliare di questo, perche noi circgoliamo nel modo di vivcre colle consuetudini de? paefi', insegnandoci il nostro Ippocrate, che: dandum fit aliquid regioni, & confuetudini; e non per questo , che qualche.caso liano seguito funesto, debbong esse variure, essendoche cziandio consimili cali fe, guono nelle più adulce, pericolando queste ancora ne parti.  Mec: Lasciamo le consuetudini dan parte, e dicemi di grazia, se inariterelte una vostra figliuola in età si tenera ?  Med. Ci penserei alquanto , & anderei procrastinando il trattato , fin tanto che li assodasse un poco più negli anni; c tanto maggiormente, se non fosse ben complessa ; poiche non vorrei, che nel cominciare si prestamente à far figliuo. li , quello, che dovesse andare in suo  [ocr errors] crc  [ocr errors] crescimento , G.deviasle altrove..'  Sem. Si differiranno facilmente quefti maritaggi, per non ispropriarsi della dote, e voi alori Medici, che fiete renuti alquanto interessati, forse per ciò differirete di effettuarli. -:" Med. Non fiamo però sì ftolidi, che non riflettiamo, che la dilazione non paga debito, e che questo fodisfacendosi fpedicamente ci libera da cravagli di doverlo pagare..  Sem. Qual'età voi realmente credere più propria da prendersi marito?  Med. Se la giovane goderà prospera falute , mi persuado , che intorno al vigelimo anno lia la più convenevole ; le poi foffe gracile, si potrebbe anche in. dugiare qualche anno di più, per meglio ftabilirsi; purche non paffalse il vigefimo quinto; ftantccche facendoli talri. soluzione di accasarsi, per godere prole sufficiente alla conservazione della fami. glia , ciè d'uopo di figliuolanza, che fopraviva, e ci fiano ancora de'maschi , e ciò nello spazio di 20. anni di fecons  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] dità si può commodamente ottenere.  Semi Talmente che, chi bramasse di avere più numerola figliuolanza,gli coverrebbe prendere una giovane di 15. anni?  Med. Per istabilire bene la sua casa, non fi dee solamente procurare il nuinero defigliuoli, mà ancora la robustezza, e vitalità de'medefini; e questi,co. me vuole Aristocile nel 7. della sua politica, nascendo da Padri giovanetri, sono di poco vigors, almeno i primogeniti, i quali fogliono per lo più accafarsi. Quindi è, che Tacito, ove parle de'costumi de'Germani, dice; che tras cffi le vergini fi maricavano già adulte, cche perciò passasse ne'figliuoli la ro, bustezza dei genitori.  Sem. E l'età dell'Uomo più congrua di accasarsi, quale sarà ?  Med. Quella appunto, che si contiene erà lo spazio di 25., 30.anni;quando ciò da altro impedimento non venga ri. tardato.  Mes, Lo credo anch'io, che da molte cagioni potrà essere ritardato : im. percioche, se averà egli impieghi,i quali richiedono applicazione grande, e non si troverà sufficientemente proveduto di beni di fortuna, per sostentare la famiglia ; fe non goderà salute competente; se in casa averà molte sorelle, e madre in particolare, che fosse donna risentita, in questi casi doverà indugiare a farlo, fin tanto almeno, che si troverà in istato più opportuno, non essendo convenevole porli sotto ad un giogo di questa forta con simili impedimenti svantaggiosi alla quiere conjugale.  Semi Vorrei sapere, quali danni risulterebbono,s’io tardasli a prender moglie fino alli anni 35.  Mec. Se voi tarderete tanto, temo, * che non la prenderete più, e per ducor motivi: primièramente perche trà tana to facilmente' vi potreste deyiare, cd abbattendovi in qualche donna scaltrita , saprà ben'ella distorvi da tal penfie ro con le sue arti; e guai a voi, le fi af fomigliaffe questa a quella donna impu  dica,descritta da Salomone al 7. dc' suoi Proverbj, la quale ; ornatu meretricio prçparata ad capiendas animas; e con quali artificj ! victimas pro faluse vovi, hodiè reddidi vota mea ; idcirco egreffas fum in occursum tuum, defiderans te vin dere , e reperi ; intexui funibus lectulum meum , ftravi tapetibus pietis ex Ægypto, aspersi cubile meum mirra , a aloe br. E poi trovandovi in quell'età, farà facile, che comincierete a rifertere sù l'incertezza di poter'invecchiare, e facilmente direte ; come anderebbe allora la niiafamiglia séza’l mio stradaméto;qual pensiero , se non vi distogliesse affitto, vi renderebbe almeno irrisoluto nell'effettuarlo; onde farc à mio modo, risolvetevi, e non procrastinate di vantaggio: perche altrimenti vi seguirà cioco ch'è accaduto à me medeliino, che mi fono invecchiato senza successione. E sapere , che diranno di voi le donne, elsendovi avanzato negli anni? Questi è vecchio, che ne vagliamo fare? E perciò converrà allora, volendola prendere,  ассо  accommodarvi a chi troverete , con le condizioni che da ella vi saranno date; dove che adesso farà a vostro modo quella , che vorrete prendere.  Sem. Questo certamente sarebbe svantaggio grande per me; laonde non bisognerà perderci teinpo.  Pub. E tanto più sollecitamente vi risolverete,sentendo li pregiudizj grandi , ricevuti da cui tarda moltó a pren. dere moglie,i quali sono anche maggioridi quelli, che possono accadere à chi lo fà prima del tempo.  Sem. Quali sono, Dottore, questi Matrimonj fatti prima, ò più tardi del dovuto tempo?  Med. Li preventivi sono; se un giovanetto fi accasaffe in età di 15.9 16. anni; e li tardivison quelli, che si fanno, allorche tal’uno è divenuto già veça chio,  Sem. Quali danni apporterebbe ad un giovane lo accafarli di 15. anni?  Med. Questi accompagnandosi con, una giovanetta coetanea , non saprebbe  [ocr errors] regolare le sue operazioni; c s'egli in quello primo fervore fregolato pregiudicaffe allo proprio individuo, quanti svansaggi ne riporterebbe? E qual'indi. rizzi sarebbe capace di dare a suoi figliuoli, avendo egli bisogno di chi lo dirigeffe? E stando tuttavia in crescimeto, defraudandofi questo per il diyiamento della miglior parte del suo sanguc iinpiegata nella troppo sollecitas generazione, come potrebbe convertirli in suo beneficio ? Oltre di che noll possono fperarsi frutti perferti da simili piante, le quali non sono arrivate an. cora alla loro perfezione,  Pub. Aristotile nel 7. della sua Politica fà sopra di questo un'ottima riflerfione ; cioè, che fimili figliuoli, che pajono quasi coetanei a Padri, poco rispetto portano loro, querclandofi sovente sopra il governo della casa contro di efli.  Med. Ci sono però alcuni cafi, che debbonsi eccettuare dall'accénata regola , e tra questi sono quelli unichi ,  cd  [ocr errors] ed antichi rampolli di qualche illustre, e ricca famiglia, che per non vederlas estinta , fi procura in età tenera di accafarli. Siccome ancora, se si vedesse un giovanetto ben complesso, che comincialle a deviarhi, non avendo chi lo tenesse a freno;onde per non vederlo precipitare , converrebbe accasarlo , senza indugiare di vantaggio ; ed in questi casi li doverà prendere un'altra inisura , competendo loro piu tosto una saggias giovane, che avesse qualche anno di più di loro, affinch'essa regolaffe alcune operazioni concernenti alla salute , potendo la moglie saggia molto adoperarfi in fimili affari.  Sem. I poveri vecchi allorche foffero robufti, perche non potrebbero divenire fposi anch'elli?  Med. Perche, conforme dice Euripide.  Sed, aut feneétus Veneri valere jubet;  Aut Venus senibus molefta eft . Onde per tal cagione si accelerarebbero la inorte, çssendo anche potenti, e ritrovandosi inabili a questo , si contri-   sterebbero per molte cagioni:primiera-  mente per essersi accinti ad un'impresa,  nella quale non riescono abili perlochę  verrebbero anche derisi,e beffeggiati da  giovani, e per non vedersi corrisposti  dalle loro conforti con quelle maniere  cortofi, ch'elli vorrebbero, e final  mente per essere privi della bramatas.  prole, come descrisse Virgilio ;: Nec dulces natos, Veneris nec prçmian  noris.  E vi parc,che questi poffano vivere con-  tenti? Con ragione dunque Blepirone  appresso Aristota ne diceva:   -Heu, mihi infeliciis qui senex. cxiftens duxi uxorem.  E Menandro esprimendo le fvcnturc de?.  vecchi amanti, così fayella:    Nurde miferius poteft daramante   Seine, Hifi alius fenex amans;  Nam , qui frui cupis rebus , à quibus   Propten tempus, quomedò ille non mi     Jerefte), 06.01.10   D  Mere  [ocr errors][ocr errors] arasiit  Mec. Ia questo li credo infelici anch? io, leggendo in Catullo :  Er fenis amplexus culta puella fugit. Ed in Arenco ciocche disse Teognide, ch'è appunto.  Sero Viro juvenis uxor magna calamiras. Cymba fine anchora , effractisq; Tudensibus.  Pub. Udite ciocche dice Plauto di questi: Tum capire cano amas fenex nequif  fime? Si unquàm vidiftis pictum amantem,  bem illic eft. Ed Ovidio, ch'era informatiffimo de' genj delle donne di quei tempi, così ebbe a dire : Que bello eft habilis , Veneri quoque  convenir , stas ; Turpe fenex miles', turpe fenilis amor.  Quos petiere Duces annos in milise aforit  Hos petir in focio bella puella viro. Laonde, qnando a vecchi venitfe in fantasia di preader moglie, a configlino  con  2 con Orazio , il qualc dice :  Intermiff - Venus diu Rursùs bella moves:parce precor precor, : Non fum qualis eram.  Sem. Riceveranno questi certamente, prendendo moglie , svantaggi affaimag. giori di quelli, che incontrano i giovanerti?  Med. Senza fallo; posciacche questi, crescendo loro con gli anni il senno, u la robustezza, vanno incontro al tempo  migliore ; dove quelli sempre più u precipitano nel più miserabile : or re  dere voi, Sempronio , che danni apporta il diffrire tanto lo accasamento  Mec. Ho conosciuto però un vecchio, il qual, essendo caduto nelle reti di Venere, piangeva dirottamente la sua sventura; e volendolo io confolare, persuadendomi, che li lagnasse dell'errore commesso; cgli mi rispose : oh che fallo hò commiffo io a non prendere moglic,  quando era giovane! poiche fe valoroü so mi son portato nell'età inaridica della un vecchiezza , quanto più farei stato nel ,  [ocr errors] 2  la verde giovenile? Gli replicai però: guai à voi, se in quel tempo foste stato così dedico à fimilc piacere; posciacche vi averebbe farro inyecchiare prima del ecinpo; dicendoli dell’ainor lafcivo.  Ef juvenis juvenes, qui facit ille fenes. E per meglio illuminarlo gli apportai l'iscrizione sepolcrale di Menelao, ch'è questas Inter opus medium lafcivå mørte for  lutus; Hic fitus eft , dom init jam Menelaus  bumum ; Qui blande. Veneri visa facraverat Haud aliter vitam ponere juffus eraf.  Sem. Or ditemi : questa uguaglianza come dec essere nelle altre cose?  Pub. L'esamineremo in appresso.  [ocr errors] [ocr errors][merged small] CONFERENZA III. :2  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Dove si mostra,in che cose sia esenziale l'uguaglianza nei Matrimonj;   quali svantaggi nascano   dalledisuguaglianze in queste.  Sempronio ; Publio , Mecenate's   Medico.  M  [ocr errors] Sem.  I persuado, Publio, che non essendo seguite trà voi, clas voftra conforte, al. tercazioni,e discors  die, averece goduta la sorte di una perfectisfima uguaglianza in tutte le cose.  Pub. In tutte è impossibile poterlos ottenere ; bafta solamente , che difuguaglianza non sia nelle più esenziali, nelle quali certamente fui fortunato,ef. fendo di verificato in me il Proverbio diSalomone: Qui inuenit mulierem bonam, invenis bonum : du auriet jucunditatem à Domino  Sem. E queste quali sono?  Pub. La prima è il genio buono uniforme in ambidue: e questo non potrete credere, quanto mai trà noi foffe reciproco ; poicche, quanto io volea,senza repugnanza alcuna cra grato anche ad effa ; ed in quello poteva immaginarini, che fosse stato di sua sodisfazione, ci concorreva anche la mia, à segno, che delle nostre volontà, sen'era formata una sola ; onde di noi con ragione si poteva dire, ciò ch'è registrato nell'Ecclesiastico al 25.,ch'è grato à Dio, ed à gli uomini :  Vir, & mulier benè fibi confentientes .  Sem. Sicche dunque se vi potevate immaginare, che avesse deliderato un, bell'abito, ò una nobile Stufiglia allas inoda,voi l'avereste compiaciuta prontamente  Pub. Non desideravano le mogli queAte cose in quei tempi, ne'quali non  costu.  [ocr errors] costumavano ; bramavano bensì di avej re provisioni abbondanti di lini, cana  pc, e cottoni per farne lavorare copio  se biancherie ; di vedere fatte le provi. i sioni à tempo debito , di quanto biso  gnava per servizio di casa cutto l'anno ; di avere otrimi maestri per istruire bene i figliuoli; e servitù fedele, e benc accoltumata.  Sem. O tempi felici: non poteva io essere nato allora !  Pub. Ed io vorrei trovarmi giovane in questi coll'uso di ragionc, cd esperienza , che godo :  Sem. E la seconda quale sarà ?  Pub. Che questo genio uniforme fi ftabilisca sopra le virtù cristiane, e morali in primo luogo; c di poi in tutto le altre cose utili per lo stabilimento della casa,cd in queste è stata veramente seinpre singolare; imperciocche vedendo, che bramavo di sodisfare all'. obbligo, che corre ad ogni benestante, di sovvenire i poveri, essa ancora facea le sue parti con mia somma consolazio  D4  ne ;  ne; e nel rimanente vedendomi artento agli affari domestici, s'ingegnava per quanto poteva, di sollevarmi in molte cose ; talmentecche hò sperimentato in me ciò, che diffe. Appollonide :  Certè inter homines Non aurum , non regnum , non divitia. .. rum luxus Voluptates tam eximias prebent , Quam buni marici , & uxoris pia Volunt as jufta , & legitimè affecta.  Sem. Lo credo anch'io[facendo voi cosi]che potevare godere una perpetua felicità.  Pub. E voi ancora la potrete godere, se farete il medesimo.  Sem. I tempi calamitofi , ne'quali siamo , non lo  permettono. Pub. Se dipenderà da tempi, converrà avere pazienza ; perche farà irremcdiabile; mà se dipédeffe poi da voi,senza fallo potrete porvi rimedio: or'vediamo,da chi dipenda. I tépi calamitofi dāneggiano co carestie, pestilézcguerre, terremuoti,c tempeste ; c queste non  effens  20  [ocr errors] effendoci ora crà noi,come possono corbare il regolamento della propria casa? Onde vedere, che dipende da noi', non da tempi ; dunque à torto vi lagnate de'tempi ; essendo voi , non cfli l'origine della vostra infelicità; e se poressero questi parlare , direbbero in loro dif colpa: voi ci calunniare à torto, per ricoprire i vostri mancamenti; perche vi piace tale modo di vivere, e vi dilet.  ta, quanrunque ne moftriate un'appa. rente rammarico.  Sem. Si pratica oggidi fare diversa. mcate d' allora i conviene accomodarli ai più : bisogna averci pazienza .  Puh. Questo è un pretesto peggiore i dell'antecedente; perche voi conoscere,  che fate male; ed avere la cognizione, che non facendolo fareste felice ; porche dunquc lo fate , dipendendo da voi il farlo, ò non farlo? Ohcecità ! volere piuttosto effere imitatore di chi voi conofcete; che faccia male, che di quellig che operano bene; e poi, se voi dite che ci vuole pazićza,perche vi lagnate?  Som.  [ocr errors][ocr errors] Sem. Operavano allora cutti in questa forma?  Pub. Io non andava cercando, se vi era caluno , il quale diversamçare operaffe ; perche volendo prendere l'esempio da chi lo faceva ; questi solamente rimiravo, per imitarlo.  Mec. Sempronio mio, non vi avanzate più oltre in questo, perche Publio. vi convincerà di vantaggio ; e vi farà anche conoscere, che i vecchi non sono storditi, conforme alcuni credono; efsendo che al parere di Plutarco;la mente in vecchiaja ringiovenisce.  Sem. Vi è altro trà le cose neceffarie. da fervarli uguaglianza ?  Pub. Nella ftatura ancora ci vuoly, se non totale uguaglianza, almeno proporzione ; posciacche, se sarà la spora pigmea, ed il marito gigante , se ne avyodrà ella ne'parti, ed in alere segrete occasioni ancora ; laonde à questo proposito parlò Ovidio : Quàm malè inæquales veniunt ad aran tra juvenci,Tam premitur magno conjuge nuptas  minor. : Sem. Sarebbe dunque bene prendernc prima le misure di ambidue per formarne una giusta pariglia.  Pub. Non è ciò necessario, nè conve. niente ; perche coll'occhio ancora fi può discernere la notabile disuguaglia, za. Debbo ancora avertirvi , che li rim  cerca la proporzione de'beni di fortuna; ? perche se vi apparentaste con gence mi  lerabile, alla vostra casa coccherebbe il mantenerla: altrimenti non vi sarà pace con vostra moglic; perche la vora rà soccorrere di nalcolto, sc non potrà farlo palesemente.  Sem. E la Nobiltà dee entrare ancora essa trà le cose necessarie da ugu2 gliarli ?  Pub. Questa uguaglianza non è ftia mata essenziale , secondo il sentimcnto i di Platone, registrato nel tive del suo  Regno; ovcper teffere la tela della buo. na discendenza , cgli procura di moa strare, non ricercarli cosa più effenzia,  le  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] ke ne'maritaggi, che d’innestare le virtù  ; per esempio, al temperamento forte unire il moderato : onde potendo questa unione formarsi con inferiori di condizione ancora ; non si ricercheranno nè ricchezze, nè poffanza, nè altre credute dal mondo vantaggiofe condizioni, per tesserla a suo dovere ; come appunto lo fà contesfare à Socrates ; perche egli considerava talc affare in ordine al bene univerfale , non particolare di ciascuno ; persuadendosi, che congiungendoli in tale forma , fi potesfc porre il mondo in migliore consonanza. Ed in conferma di questo, cade in acconcio la bella concione , fatta dawa Camulejo Tribuno della plebe l'anno 310. ab Urbe condita, la quale viene riferita da Livio; e dimostra questa con vive ragioni tutti quei vantaggi, che possono apportare i maritaggi scambie. voli trà nobili, c plebei alla Republica. Io però mi persuado , che più decoroso fia, secondo l'apparenza del Mondo, fceglierla non plebca.  Mec.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec. Voi dice benc , Publio ; malo colla nobiltà fosse unito il mal costume scegliere te forte piuttosto una Meffalina, che una ben'educara, c prudente plebea per vostra consorte?  Pub. Questo poi nò ; perche in tale caso mi perfuado minor caccia, porerne ricevere, sposando una plebea , la quale col suo buon costume,.c fenno, in brieve tempo fi farebbe conoscere non dissomigliante à quelle nate nobili; doveche la nobile mal’educata , e viziola, degenerarebbe in plebea fenza fallo.  Mer. Vedete dunque, che la sola nobiltà non dee attendersi, mentre voi medesimo la posponere al buon coftu.  Sem. Vi sono esempj di nobili savj, che abbiano sposate giovani ignobili?  Pub, Molcillimi. Vifu Teodofio lin. peratore , il quale antepose la figliuola di un povero Filofofo à cutte le più nobili, riconoscendola meritevole di tale grandezza , per la fua buona educazioac. Ed Abramo che desiderò, volen  do  [ocr errors] 1  70  me.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] do prendere moglie? Uditelo das. Ambrogio : Difce quid in uxore queratur : "Non aurum , non argentam quafivis Abraham, non poffiones , fedt gratiam bons indolis : lib.i. de Abr. cap.9.  Sem. Nella bellezza, ò deformità fi dovrà cercare proporzione?  Pub. Qualche forta sarà bene di procurarla ; perche , fe diforme sarà il inarito , c bella la moglie, dirà ogni rivale, ammirato di questo; con Virgilio : Mopfo Nisa datur , quid non fperemus  amantes! ! Oltre di che in un continuo tormento di gelosia fi ponc, chi la prende éon fimile disuguaglianza; e tanto maggiormente , dicendo Giovenale :  Rara eft concordia forma, • Atque pudicitia. 21 che viene anche confermato dal Petrarca in tal guifa :  Due gran nemiche erano insieme ago gionte:  Bellezza, ed'oneftade Oltre di che poi  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Fastus ineft pulcbris, fequitur superbiaus  formam .  Sem. Nelle ricchezze fi dee cercare od uguaglianza?  Pub: Quella appunto , che fu detta i dell'ecà , cioè, che sem pre fiano ad una  certa proporzione inferiori quelle della cala, con cui volete apparentarvi,perche, come disse ben Marziale :  Inferior Matrona fuo fit, Prifce marito, 4  Non aliter fiunt femina,virque pares..  Sem. Sc uno volcffe prendere moglic in lontani paesi, e di diversi linguaggi, indurrebbe questo disuguaglianza alcuna ?  Pub. Forse che si, quando non s'incontrasse donna di gran fenno ; perche il costume , e modo di vivere differenti, prima, che si accomodino a quelli, che troveranno , possono fare nafcere molti diffapori ; se pure potranno mai uniformarli; come ne dubitano Emilio Probo : Non cadem omnibus funt honefta atque turpia , fed omnia majorum inftitusis, judicant ; nemaque nibil rectum puosat, nifi quod patriæ moribus convenit. Ed Ovidio così canto: Nefcio que nasale folum dulcedine cun  stos Ducit , immemores non finit effe fui. Beo'è vero però, che in quei luoghi, fe Veducazione delle giovani fosse mi  gliore di quella del vostro paese, forse che potrebbe questa accrescere vantaggio a voi.  Sem. Se il marito farà dotto, indur. rà disuguagliáza l'effere la moglie ignorante  Pub. Anzi più tolo disuguaglianzas apporterebbc , fe fosse dotta, ed erudi-$perche come vuole Giovenale ; Non habeat matrona , tibi qua junctae  recumbit Dicendi genus , aut curtum fermones  rotatum. Torqueat enthimema, nec biftorias soins ? omnes, Sed quædam ex libris, non intelli.  Ed udite, come dice l'Ecclesiastico di  ques  [merged small][ocr errors] queste al 28. Lingua tertia mulieres vin ratas ejecit, o privavit illas laboribus fuis ; Qui respicit illam non babebis rea quiem , nec habebit amicum in quo requieJoar.  Mec: Posso a questo proposito riferire ciò, che è accaduto a tempi noftri. Vi tù un dotto Jurisconsulto, che aveva una sua figliuola, e volle addottrinarla nelle materie legali,cd avendo acquistato detta giovane molta perizia in esso le convennc,morto il padre, prédere,inarito, e si trovò la povera giovane talniente confusa nelle faccende domestiche, che si pentiva grādemente di avere applicato allo studio, dicendo: che mi serve ora di sapere le leggi, non avendo įmparato quello, che mi conviene fapele per governare la casa?  Sem. Già fu parlato della uguaglian. za, o proporzione , ch'essere dee tra l'uomo , e la donna intorno all'età ; ina se portasse la necessità , che un attempato unico della sua famiglia dovesse prédere moglic, pornon lasciarla cftinguc:  E  [ocr errors] re  re, ditemi, Dottore , quale sarà l'età, se non proporzionata , almeno più fe. conda della donna, con cui dovesse con. giungersi  Med. Quella, nella quale più facilmente li concepisce, ch'è tra i venti, e li venticinque anni.  Sem. Orsù Mecenate risolviamoci ambidue a prendere moglie, potendo ogn' uno di noi provedersela della medesima ctà, e non permettere , che la vostra famiglia si illustre fi cftingua in voi.  Mec. Credeva essermi già bastantemente spiegato nella prima conferenza, ma voi non avete capito le mic raggioni, tornando la seconda volta a configliarmi 'l medesimo, con mostrare premura maggiore per la mia descendenza, che per me; onde vi torno a dire, che nella mia età non è più convencvole lo aceafarli; dicendo Euripide :  Verùm fonecta jubet valere Cypridem,  Et ipfa rursus senibus infensa est venus. Quindi è, che Sofocle interrogato allorch'era già vecchio s'egli esercitava  [ocr errors] a più gli atti venerei : Iddio me ne guardi  diffe, che io mi sono guardato un pezzo fa da coresti, come da una impetuofa, e violenta tirannide, Valerio Mallimo lo riferisce.  Sem. Io ne domando scusa, dichiza randomi non averlo detto a questo fi  ne , Delidero ora faperc i pregiudizj; EI che apportano ne' matrimonj le disus guaglianze; ed in primo luogo ; fe faranno di genio differenti tra loro.  Pub. Dice Salomone: Melius eft habitars in terra deferia , quam cum mulieu rerixoja, litigiofa; onde vi potrete i figurare di vedere la casa piena di con  fufione, ove regnano genj differenti; * pofciache ciocche vorrà il marito, ve  nendo ad essere disapprovato dalla mo  glie, onon fi effettuerà, o per la meno I in qualche parte verrà variato, e que  Ito medelimo darà occafionc à discordie perpetue tra effi , fe il marito non averà la prudenza di Giove , cui  Giunone si opponeva sempre come vuoo le Omero,Dum moliuntur,dum comitur annus est.  Sem. Ed il rimedio per questo, quaEin le farebbe?  Pub. Lo diremo a suo tempo. . Sem. Ho conosciuto marici alti due  palmi più delle mogli, e il doppio più i grossi, ne da questa disuguaglianza ho veduto seguirne inale alcuno.  Med. Ed io ; che fon più vecchio di voi, ho medicato più d'una di questo nel tempo, che stavano per partorire, ridotte a termine di morte, per non poter dare alla luce i loro figliuoli, se non dopo alcuni giorni , e coll'ajuto del  Chirurgo, e di queste, alcune sono pei rite. Succederà a quelle di avere parto  felice che nella gravidanza avendo fi avuta inappetenza grande, il feto si sarà  poco nudrito; e perciò rimanendo picciolo, questi non averà ftentato ran  to nel uscir fuori; o pure la cassa del o corpo della madre, con quanto è neces  sario, per rendere meno difficile il parto , sarà stato in queste proporzionato al bisogno. Ma preventivamente alcu  [ocr errors] ne di queste cose non costumandoli ri. conoscere tra noi , conforme appresso alcuni popoli li faceva, e perciò, per esimerki da tal pericolo, conviene riAeterle prima del maritaggio, toccan. do questo a'padri di famiglia.  sem. Sc un bel giovane prendeffe per moglie una donna deformc , che male potrebbe ciò apportare?  Pub. Niuno, quando però foffe egli fodisfatto, e la donna fosse prudente, e non l'avesse presa per cagione di grofsa dote; perche si farà quest'invaghito delle sue rare qualità, ed averà egli facilmente appreso da Salomone ne' suoi Proverbj, che: Fallax gratia , e vana eft pulcritudo : mulier timens dominum ipfa laudabitur.  Sem. E se il motivo di prenderla foffe Itata la dote  Mec. Seguendo per lo più simili deliderij in giovani , i quali penuriano di beni di fortuna, la pace tra essi dyrerebbe lintanto, che la dote foffe in picdi: mà appena consumata questa , allo.  ra  1  [ocr errors] racomincierebbero reciproche doglian. ef ze; quelle del marito sarebbero, diri.  trovarsi vicina la moglie deforme, e della donna di non vedere più la sua dote, Caduceo di pace tra di loro.  Sem. Dandosi però vincolata , ciò non potrebbe seguire .  Mec-Non si può ottenere questo in limili disuguaglianze ; perche vogliono tali sposi libero il danaro, per vincolarsi cili colla deformità della moglie, finche dura la doce.  Sem. Non so capire perche s'abbiad d'apparcntare con casc men facoliose ; perche questo apporterà. svantaggio nella dote.  Pub. Ma però quiere maggiore, ove entrerà limile sposa; perche quella giovane , la qual’esce da una casa, ove con gran laurezza viveva, difficilmente po  trà acomodarli alla vostra, ove 1101 i potrete con quel fasto trattarla ; onde  da ciò ne nasceranno amarezze continuc ; o pure (arece forzato , volendola consolare, ad impoverirvi prestamente.  E4  Sen.  of  [ocr errors] Sem. Il prendere una moglie nata in paesi lontani potrebbe forse recare gran vantaggio ; perche non avendo parenti vicini, sarebbe più ossequiosa al marito, nè lo disgusterebbe, e ciò farebbe felicità grande.  Pub. E voi credete, che 'l Padre fia sì sciocco, che non penserà ancora di raccomandarla à chi lia d'autorità , acciocchè le assista in caso di bisogno? c quando avesse cgli difetrato in questo, credere voi, che chi parte dal suo pae. sc, sia così insensata di non sapere col suo ingegno trovare chi la protegga in un suo urgente bisogno? Qual patrocinio cal volta sarà molto più autorevole; ed efficace di quello, potesse ricevere da suoi congiunti: non v'invaghite di straniere, se non in caso, che mancare sero donne del paese, ove voi dimorate.  Mec. Sono andato più volte rifectendo, che non sarebbe forse svantaggio lo sceglierla , non dico da paesi remoti, ma da città convicine, e mi ha mosso  que  in questo pensiero Giovenale, con dire  Malo Venofinam , quam te Cornelia  [ocr errors][merged small] Grascorum , fi cum magnis virtutibus be  affers Grande supercilium, & numeras in dos be  te sriumphos ; id Perche queste riescono più docili, eve  nendo in città più nobile, gradisco no ?: quanto si fa loro, più delle proprie cita tadine, e fogliono ancora eslerc meno dedite al luflo ,  Pub. Vi sono le sue difficultà in queste i .  ancora . Imperciocche Carone, con e tutto che fosse uomo sì faggio, quanti di guai ebbe con la sua moglie Acrorias I Paola, quantunquc povera, e nata in ¿ un villaggio ? fu questa superba, vio2 lenta , e debole di mente. Laonde a tal  propofito S. Girolamo lib. 1. in Joviniznum diffe; Nequis putet si pauperem dy  xerit fatis fe concordie providili &c. E bij maggiormēte ora che il lusso ha polto il  piede da per tutto; ne crediare che vorranno vestirc con minore pompa delle  E 2  Fu [ocr errors] Junonem autem non adeo accuso, neque  irafcor, Semper enim mihi consueta eft impedire  quidquid intelligo, Sem. Ma quale rimedio ci sarebbe in questo caso per fuggire le discordie?  Pub. Conoscendo' voi il costume di vostra moglie, che sia di contradirvi, come espresse Terenzio,  Novi ingenium mulierum  Nolunt ubi velis, ubi nolis   Cupiunt ultro. In questo caso ordinate tutto l'opposto di ciò, che bramare, per esser ubbidi  to.  : Sem. E se avesse poco fervore nellas pictà, e trascurassc alquanto gli affari domestici, scorgendo quancunque suo marito attcntiffimo a tutto?  Pub. Sarebbe segno, che avesse altre cole, credute da essa di premuras maggiore di queste , che le andasse. ro per la mente; perche non si trascurano affari si rilevanti, se non da quel. le, di cui disse Terenzio ;ciccadine, se non s'incontrerà in savie, c prudenti.  Sem. Mi piacerebbe di avere una moglie, la quale mi sollevasse con qualche storietta ; perche dunque il fatirico dice: Nec historias feiat omnes?  Pub. Perche, con sapere le donne molte storie, essendo cosa facile il poterG abusare di qualcuna di esse, niun vantaggio vi apporterebbe ; e sappiate che ci sono libri molto lascivi, i quali non comple in conto alcuno, che da esse si leggano, confessando tal verità Ovidio medesimo quantunque fosse impudico, con dire : Eloquar invitus, teneros no tange  poetas , Summoveo dores impius ipfe meas . Callimacum fugito non eft inimicus e  mori, Er cum Callimaco tu quoque Coe noces . Carmina quis potuit tutò legifeTibulli ? Veltua, cujus Opus , Cintia fola fuit ? Quis potuit lecto durus difcedere Gallo? Er mea, nefcio quid, carmina tale fo  E  [ocr errors] [ocr errors] E poi due cose non si possono fare: die vertirsi nel leggere, e reggere la casas;  e dovendo a voi premere la secondands ( conviene ch'essa abbandoni la prima ; ¢  sappiate, che Giovenale dice a questo proposito  Quis ferat uxorem,cui conftent omania?  Mer. Plutarco però dice, che sarebbe di profitto al marito d'istruire la mo* glie nella geometria, ed in alire cores o dottrinali, ed onoratissime ; perches ď allora si spoglierebbe affatto delle leg.  gierezze, e vanirà de pensieri , e si aAterrebbe dal danzarc,  Pub. Che la moglie s'istruisca nei buoni documenti morali, e di pietà da mariti è cosa ucile, e lodevole; maw,  che s'impieghi ad apprendere la geomei tria , quando fi trovare inadre di più fi:  gliuoli, non so come le potesse riuscire  avendoli d'intorno , per lo strepito ch' delli fanno ; se poi fi allontanaffe da elli ,  ecco che l'educazione loro anderebbe a male. Sarebbe ciò solamente tollera. bile in una donna itcrile, avendo servis  tà  tù sì buona, della quale si potesse ad chiusi occhi fidare, per divertirsi con tale scienza, c passare la noja che le recherebbe il trovarsi senza figliuoli; per altro se abbiamo d'aspettare , che las geometria tolga la yanità donnesca, regnerà questo difetto per sempre nelle donne : e poi la mia moglie, che nulla sa di geometria, odia la vanità, ed i balli; dunque possono fuggire detti vizi quelle ancora, che non sono geome  tre.  Sem. Vorrei sapere distintamente, che cosa fia questo matrimonio ; perche dovendomi accasare bramo di esserne informato, per non operare alla cieca in così rilevante materia ?  Mec. L'udirete da me nella venturas conferenza.  CON  [merged small][ocr errors][ocr errors] Sopra gli antichi costumi , praticati   apprello alcuni Popoli per la generazione; e se sia più vantaggioso lo scoprire scambievolmente i proprj corporali difetti ,  prima di sposarsi,   o l'occultarli..  Mecenate, Sempronio ; Publio  e Medico.  i Mec.  On mi ftéderò molto nel riferirvilan. tichissima libertà de? Greci, nè tampoco l'incestuoli  modi de' Persiani, praticati ne gli atti conjugali, per non contaminare le vostre orecchie; mentre i primi a guisa di bestie moltiplicavano, conoscendo i figliuoli solamen  te  te le loro madri, comme scrisse Tzetzes Iftorico  Gracorum priùs mulieres per Greciam,  Non quemadmodum nunc , conjungebantur legitimis viris,  Sed inftar jumentorum mifcebantur omnibus volentibus ;  Erant igitur unius naturæ tunc filii ,   Sobas agnofcentes matres , non patres, Ed i secondi non avevano orrore di esse. re figliuoli, c mariti, come riferisce Catullo, Nafcatur magus ex Gelli, matrique  nefando Conjugio , con discat Persicum aruspi  cium ,  Nam Magus ex matre, donato gigne tur oportet i  Si vera eft Perfarum impia religio.   Sem. Ma il Cielo lasciava impunici fi effecrandi delitti  Mec. Non già; perche, come si ricaya dal fudecco Tzetze furono mediante il diluvio puniti, dicendo egli in appreffo.a  Poft illud , quod in Ogygis tempore inci.  dit diluvium ,  Cecrops acceffit ad Aibenas Gracia,  Has Ashenas cū vocaffet ex Soi Ægypti,  Cum multis aliis rebus commoda vis   Gracia; Tùm lege conftituit mulieribus nuptias 5  legitimas, 1M Ex quibus filii cognoverunt duos pa  rentes. Anzi  per farvi conolcere , che la natura stessa abborrisce l'incestuosi connubj, vi posso apportare molci csempj de bruti, tra quali, non solamente il camelo lo ha in orrore, uno de' quali ammazzò il suo cuftode , che lo ingannò a coprire la madre, appena avvedutofene , coine riferiscono Aristocile , ed Eliano ; ma Plinio ancora racconta, che nellad campagna di Rieti vna cavalla avvedu  tasi di questo, immediatamente si prei cipitasse, e Varrone fcriffe, che un ca  vallo per la medesima cagione faceffe tale impeto contro il suo armétiero, che l'uccidcffe:e dell'elefante raccora il me  deliof  desimo avvenimento Nicolò Lirense.  Sem. Ma come faceano a riconoscersi i figliuoli da' Padri,avendoli cosi confufamente generaci . ; Pub. Appreffo alcuni Popoli, allorche i figliuoli aveano compito il quinto anno, quei, che più li assomigliavano a gl’incerti padri, erano tenuti da essi  per loro figliuoli; come racconta Stob. Ser. 42.  Sem. Quanto è stato peggiore il mondo in quei tempi di quello fia oggidi !  Mec. Se voi sapeste il rimanente, ftu. pirere anche di vantaggio.  Sem. Eche, vi sono state altre scelleratezze ancora?  Mac. Contentatevi di non udire altro per ora ; e lasciate simili notizie , per quando farete più proveito : passiamo aderlo a' tempi incno infelici. Ristabilito, che fu il matrimonio, s'introduffe da alcuni popoli il contratto della vendita delle loro figliuole, cioè da' Greci, Traci; Aliri, Arabi, Indiani, ed al, tri, come da Tiraquello nelle sue leggi  COS  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] · conjugali si racconta, e Sofocle intro-  o duce le donne, che cosi favellano fo-     pra dició:       Ubi verò ad pubertatem hilares perve-        nimus  Pellimur foras, atque divendimur  Procul à Diis patriis, a parentibus,   Alia quidem peregrinis, alia barbaris. De' quali parlando Pomponio Mela riferisce, che: proba , formof&que in pretio erant .  Sem. In quei tempi saranno stati con: ienti i padri, nascendo loro figliuole , e non già mesti, conforme ora sono, che debbono dotarle, mercecch'essi al-,  Jora ne ricevevano utile grande; oltre I di che saranno state anche molto più cu  stodire queste mogli a caro prezzo com* prate di quello si faccia ora, ch'effe b con grosse doti comprano noi; poiche  offervo, che se un cavallo ci costa molK to, abbiamo somma premura di esso.  Mec. L'interessati padri può effere, di che lo faceffero, ma non già i buoni, che le amavano, e perciò riflettevano,  F  [ocr errors] ancora, che se non portavano dote le loro figliuole, non acquistavano, ovc foffero entrate, dominio alcuno. Ele mogli fi ftimano c rispettano ancor adeffo da giusti, e saggi mariti , per questa modelima cagione ; e poi quelle, che portano grosse doci fanno ben farli portare rispetto anche da’mariri non favj , dicendo Giovenale : Intolerabiliùs nibil eft, quam fæmina  dives. Dicendo ancora Cleobulo appreffo Stobeo: Si babebis uxorem ditiorem , aut nobiliorem, dominos habebis , non affines. In oltre si costumava da altre nazioni ancora comprarsi dalle mogli i mariti; conforme fi ricava da Virgilio; Teque fibi generū Thethis emas omnibus  undis. E Boetio, nel lib.z. de Commenti alla topica di Cicerone, così parla.  Tribus modis uxor habebatur,usu,farre, & coemptione ; fed confarreatio folis Ponsificibas conveniebat; quæ autem in mamum per coemprionem conveperat , hæc  [merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] mater familias vocabatur &c.;  Sem. Si è costumato in alcun tempo, che non fa corsa tra contracnci dote ale cuna ne’inaricaggi?  Mec. Nelle leggi di Solone, Licur. go, e di Platone fu stabilito questo ; ben è vero però, che la sperienza has fatto conoscere, che fuccedevano più di rado i matrimonj , per non effervi il suo fuflidio dotale ; essendocche  pochi vi erano', che volessero soccomettersi al grave pero di essi, senza il follievo della dote; onde vedendoli dan ciò risultare notabile danno alla Republica , la prudenza Romana ftabilì con leggi le doti,da consegnarsi alle figliuole , per sostentare non solamente li peli del matrimonio, ma per allettare maggiormente ancora, mediante effe, gl uomini a prender moglie, come disse il Satirico, Veniunt à dote sagitsa .  Pub. Erano certamente troppo pregiudiziali fimili leggi, dalle quali lcfcludevano le dori; c perciò Aristotilo discordò dall'opinione del suo Macftro Platonc provando ne' suoi Problemi , che fia cosa obbrobriosa prendere moglie indotata ; e che sia anche gran pazzia di colui , che lo facefle , dovendo egli riflettere al peso, che se gli accresce: onde sopra di ciò interrogato Anafsandro, cgli 'rispose ; che sarebbe divenuto servo certamente colui il quale bisognoso prendeva moglie indotata; perche in vece di se solo, dovea alimentare più persone. Quindi è, che con somma prudenza fu risoluto nel Concilio Arelatcose; che non si dovesse fare matrimonio alcuno senza dotc , como riferisce il Fontanella.  Sem. E' stato costumato da nazione alcuna il prendere più d'una moglie nel medesimo tempo  ? Mec. Anzi tuttavia dagl'infedeli fi pratica ; ben è vero però, che tra eli le mogli sono trattate , come schiave , tenendosi racchiuse , e guai a voi, Sempronio, se vi fosse permesso più di unas moglie , allora vedreste in che travagli maggiori vi porrebbero le donne , che  go  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] godono la libertà, ond'è stato fantisfimo il provedimento , che unica fia la conforte.  Sem. E da chi ebbe origine, questo matrimonio in fimile forma?  Pub. Dal grande Iddio ; posciacche, crcato Adamo, formò Eva, e glicla died'egli medesimo per conforte; onde ad iinitazione di questo gran matrimonio dce ogni fedele contentarsi di una's fola compagna, e di rispettarla ancora, conforme fece il primo marito, il quza le allorche la ricevette per sua sposas, così disse : Hoc nunc os ex ossibus meis, caro de carne mea , hæc vocabitur virago, quoniam de viro fumpta eft : quamobrem relinquer homo patrem fuum, a matrem,  adbarebit uxori suæ, derunt duo in carne una; e da ciò comprendere, quale ftima li debba fare della propria moglie.  Sem. Ma tornando alle doti, queste da principio in che quantità furono ftabilire ? Mer, Non fu allora ciò determinaco,  ben  [merged small][merged small][ocr errors] F 3  ben è vero però, che in appresso, essendo divenute ecceffive, furono stabilite in una certa quantità, secondo le condizioni delle persone ;. e particolarmçate nei domini, ben regolati.  Sem. E questo viene offervato?  Mec. Qualche volta, ma non sempre; fentendosi assegnate a caluni in fommas più considerabile degl'altri,quantunque fiano della medesima condizione  Pub. Mi piacerebbe lo stabilimento fiffo , secondo lo fato delle persone, ma da che proviene questa inosservanza?  Mec. Dal lusso accresciuto, il quale effendosi anch'esso posto tra le spese necessarie per il sostentamento matrimoniale, viene anche considerato per tale da chi dee accasarsi ; e perciò dice, tanta dote io voglio , per pocer fare quello, che si costuma dagl'altri.  Pub. Qnando io preli moglie, e per qualche cempo in appreffo , & contentava ogn’uno di ricevere competente dore; perche questo lusso di oggidi non non vi era.  More  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec. A tempo ancora, che vivevas Gnco Scipione, le doti parimente erano molto proporzionate al vivere di allora , ascendendo la più pingue, quale ebbe Magulia, che fu chiamata las dotata, a cinquecento mila affi, come riferisce Valerio Maffimo.  Sem. Non erano dunque si tenui les doti ascendendo a tanta somma.  Mec. Avvertite Sempronio, che gli affi non erano già scudi; ma solamente ogo’uno di essi arrivava appena al valore di quattro de' noftri quattrini di rame; onde turci icinquecento mila afli formavano la somma di circa quattro milas fcudi de' noftri; e poi le più frequenti erano di dieci mila asli, come ebbe Tacia figliuola di Cesone , il quale non era ignobile, e cal somma appena ascendeva a scudi ottanta,  Sem. Ma da che proveniva, che corressero doti si tenui in quei tempi ?  Mec. Non da altro, che dal non efservi lusso, Sem. Ma perche non si pone dal Prin  cipe  [ocr errors][merged small] F4  cipe sopra di ciò la prammatica ?  Pub. Perche aon ci è bisogno in queIto della sua autorità.  Sem. Come non ci è bisogno?  Pub. Ditemi, Sempronio, se voi poteste senza l'autorica del Principe far cosa, che fosse anche di sua fodisfazione, vi sarebbe bisogno della sua autorità per farla?  Sem. Non ci sarebbe certamente di uopo di essa.  Pub. Or ditemi, s'è in voftra libertà, nel farvi un'abito , spenderci 50. ò pur 100. scudi , ed in una carrozzas 500.Ò 1000. in questo vi astringerà forfc il Principe alla spesa maggiore?  Sem. Certamente, che no;  Pub. Perche dunque non lo fate confiftendo in qưesto la prammatica ?  Sem. Perche gl'altri non costumano di farlo.  Pub. Or dunque domandate a questi, che pongano efl'la prammatica, non al Principe, il quale non comanda, che fi ecceda gel lufto,Mec. A questo proposito essendo ftato supplicato Tiberio , a porre moderazione all'eccellivo lusso, che correvad in quel tempo, egli negò apertamente di farlo, dicendo come riferisce Tacito: Pauperes neceffitas, divites fatietas, Nos pudor in melius muter; onde da ciò comprendete , che noi siamo i padroni di prendere quelle misure, che più ci aggradano nei nostri trattamenti ; & udite da Tacito medesimo, come mai lo espresse al vivo nel secondo de' suoi Annali: Cur ergò olim parfimonia pollebat? Quia sibi quisque moderabatur : non ritrovandoli Gneo Fabrizio, e Quinto Emilio, che un tondino, ed una saliera di argento, per servirsene nei sagriticj; per altro tenevano da se lontano ogni luflo , conforme fecero ancora i Publicoli, i Curj, i Scauri, & altri valoroG uomini, i di cui pensieri non si aggi. rayano già intorno alle ricchezze, ma bensi agli onorevoli Consolati alle me. ravigliose Dittature, ed ai Trionfi , per çimagcre immortali nella pofterità: cos  me  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] me riferisce Valerio Malimo :  Sem. Hò capito a bastanza, e conofco, che il mancamento viene da noi. Notificatemi ora, Dottore , quali sono questi difetti corporali delle donne, i quali voi meglio degli altri conoscerere:  Med. Non posso servirvi in ciò, ele sendo che quanto sò di occulco, non, debbo palesarlo.  Mec. Il Dottore è compatibile in questo, perche s'entrasse egli in disgrazia delle donne, potrebbe dire di aver finito di fare il Medico; imperciocche, comincierebbero queste a dire, che tutti di suoi infermi muojono, e perciò sias sfortunatissimo nel medicare, e di vantaggio sia un vecchio stordito, che non sappia ove si abbia la testa; e sapere purc, che queste muovono gl'animi colla loro eloquenza più di Demostene; onde lo porrebbero in una totale defiftimazione, non facendoli scrupulo alcuno di far ciò quanrunque fosse di pregiudizin grande a professori, il dicui merito effe non sanno conoscere, per vedersi  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] da effe anteporfi gl'adulatori a questi.  Med. Non è questo il motivo, che mi ritarda il palesarli, ma bensì, l'avere io qualche segreto di cal’una, che si trova con qualche imperfezione, onde non vorrei , che mi credesse manca. core di fede , figurandofi, parlaffi di lei: per altro, non mi ritarderebbe già di farlo quello, che voi avete accennato; perche, se dicessero mal di me, diverrei Medico fortunato, essendo che non me . dicando , non mi potrebbe morire alcuno, e per questo riposo ancora goderebbe la mia mente tranquillità maggio  [ocr errors][ocr errors] re.  Mec. Queste sono belle rifleffioni, ma - però ad ogn'uno piace l'effere adopera  to, e questo senza protezione difficile mente si conseguisce.  Med. Piacerebbe a me ancora quan. do ciò non distruggeffe il mio indivi.  duo ; e cercherei ancor io queste pro- tezioni, quando accrescessero dotčrina ;  ma non potendo le stelle cramandare i quci benigai inguda, ch'effe non hanno  onde  onde per tal cagione mi persuado, che queste ancora non potranno addottrinare. Voi conoscere il mio naturale ; di grazia non diciamo altro.  Sem. Se non diremo altro, non termineremo la nostra conferenza, ed io rimarrò senza essere istruito.  Mer. Vi consolerò io , ch'essendo già vecchio, niū fastidio mi prédo delle doglianze feminili, non curandofi esse più trattare meco. Vi persuaderete forse, Sepronio, che tali difetti personali occulti sieno cose grandi , essendo, che il Dottore ricusò palesarveli? questi non sono altro, per quanto mi vado immaginando, che un poco digobba, la quale viene ben uguagliata da buftini ripieni nella parte mancante . Sono qualche palmo di giunta ne'calcagni, per potere coparire al par delle altre ; qualche piaghetta,ò fistola occulta,o ferore di naso, ò di bocca ; ò pure altro impedimento, mediante il quale si rendono infeconde: Ma non crediate già, che tutte le donge abbiano fimili imperfezioni , effen,  do  [ocr errors] do solamente alcune poche queste così  imperfette.     Pub. E' certamente curioso quel caso  riferito a tal proposito da San Vincenzo  Ferrerio nei suoi fermoni. Aveva un  giovane sposato una donna , la quale  gli parea di giusta ftatura , rimase poi  cgli quando la vide porsi a letto manca-  ta in un momento per metà. Dubito da  principio, che gli fosse stata cambiata,  mà miratala bene in viso, si avvide effe.  re la medesima , onde stimò bene dirle,  cosa avesse fatto dell'altra metà della  sua persona ; l'accorta non fece altro ,  che mostrargli le sue pianelle, ò tram-  pani per la loro grandezza, che appun-  to allora si era cavati, i quali non erano  inferiori all'altezza della base di una co-  longa.   Sem. Fra tutte l'accennate imperfec zioni, niuna mi darebbe maggior faItidio del fecore del nalo, ò della bocca ; perche io, che sono dilicato, non potrete credere , che avversione ciò mi recherebbe; onde di questo , prima difpofarla, voglio ben'accertarmi in vicinanza tale, che possa scoprirlo io medefimo.  Pub. E che ? forse temete, udendolo per relazione altrui, d'incontrare las bontà di quelle donne, che redarguite, perche non avessero palesato il fetore della bocca de loro mariti, effe rispofero ; che credevano , che tutti gl'uomini odorassero in quella forma? D.Hier. in Jovin. Sem. Come si potrebbe fare per  isco. prire quefti difetti corporali occulti?  Mec. Doverebbero palesarsi reciprocamente alla prima, altrimenti, essen. do il matrimonio un contratto, vi farebbe inganno, ciò non facendosi : E fe nei contratti delle compre de' schiavi, ò cavalli, quando la frode fi scuopre, esli si possono riscindere, così mi persuado, che sia in questo, cadendo-yil'inganno in cose essenziali alla fecon- N dità; oltre poi, quando non si poteffc riscindere , quante occasioni daranno di perpetui disturbi tra di effi fimili diferti.  Sem,  [ocr errors][ocr errors] 3  Sem. Şi è dato mai il caso, che siang palesati questi prima delle nozze?  Mec. Molti esempj ci sono, e tra gli alori, quello di Crate Filosofo Teba. no, cui portando grand'amore Hipparchia, la quale aveva non inferior genio col Filosofo , che colla sua doctrina , onde richiedendolo per marito, che, fece egli ? si scoprì il dorso, cmostrolle la sua gibbosità; e di poi posto in terra il maorello, bastone, e tasca , che 2veva, le disse: Signora, queste sono tutte le mie supellectili, la mia defor mirà già l'avete veduta, onde considerate seriamente ciò, che fare per non.  avervene a pentire . La saggia donnarei plicogli, che aveva già sufficientemen  te proveduto ogni bisognevole, e confiderata ogn'altra cosa, e perciò credeva, che più bello di lui, e più ricco non fosse nato al mondo; onde che l'avesse pure condotta dove voleva , come sua moglie . Ed il simile fece ancora nel discoprire la sua gibbofità il Padre di Sergio Galba a Livia Occellina Daman  mol  per mo  molto ricca, è bella, per non ingannarla.  Sem. Bisogna, che queste non credersero deformità svantaggiosa la gobbas de’loro mariti , perche hò osservato i figliuoli di cocefti molto diritti , e belli; mà vorrei sentir riferire qualche caso di donna, che avesse scoperto all'uomo i suoi difetti.  Pub. Vi fu una giovane bellissima amata teneramente da un Gentiluomo, il quale avédola farta chiedere glie , fi scusò ella di non poterlo compiacere, onde da simile ripulsa s'accese di desiderio maggiore , per averlas; mà che fece la savia giovane, vedendo , ch'egli non defifteva ? gli fe intendere, che lei medesima gli averebbe palefata la cagione, per la quale ritardava di condescendere alle sue brame, e c011"certato il luogo , ed abboccatisi insienie gli scoprì il suo petto , e felli vedere un canchero , ch'aveva in una zinna, dicendogli,Signore, questa carne, ch'è incominciata ad incadavcrirli voi amato  [ocr errors][ocr errors] ta  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] canto! Rinase egli confuso nel rimira, re tale spettacolo, il quale frenò in gran parte quell'ardente amore, che le portava's desistendo in avvenire di farla più importunare.  Sem. lo credea , che le donne non fossero facili a scoprire i loro difetti, sarauno però rari questi esempi :  Mec. Il simile credo anch'io, e da ciò facilmente oasceranno molte contese cra mariti, e mogli , d'onde provengono i divorzj, e fe li palesaffero alla prima scambievolmente i loro difetti, forfe che non seguirebbero; posciache essendune ainbidue consapevoli, non li pom trebbero allora dolere, se non di loro medefimi.  Sem. Perche non si potrebbero fare ri. conoscere ambidue prima del matrimos nio per meglio accertarsene?  M26. Questo ripiego fu disapprovato, quantunque lo aveffe proposto Platone; onde che fi dirà apportandolo you?' Evi pare, che l'oneltà lo debba permettere? Appena le leggi Romane antiche tolle.  G  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] 98 Conf. 4. Dec. prima il rarono una tale ricognizione nell'uomo, proibendola efprenainente nelle donne: e re Platone aveffe osservato cioccheri feriscono Plinio, e Solino, che i cadaveri delle donne galleggiano sù l'ondes con il ventre all'ingiù, e degli uomini all'opposto, cercamente, che averebbe appreso dalla natura il documento di doverte, trattare con maggior onestà, vedendoli naduralmente risplendere un non fo che di modestia in eile, anche dopo morte. 1. Pub. A questo propofito lessi in Plufarco, con mią grande ammirazione, ciocch'egli racconta di quelle Vergini Milelie, le quali , divenute pazze a cagione d'influenza peftifera,che ivi vagava, erano forzate dal loro delirio a morire appiccare, e questi spectacoli giornalmente fi trimiravano nella Città di Mileto ; fenza che le preghiere, e le dagrimé de' genitori potessero impedirli; solamente il contiglio di un Savio porè rimuoverlig. e fu di procurare con decreto del Senato, che tutte quelle,che si sospendessero in avvenire , forfero esposte nude in nezo alla piazza a vita di ogniiuno:Indusfe nella fancatia di cucina te le giovani tale spavento, ufc4to sopra di ciò l'editto, che manco affatto Porrido fpettacoto, aftenendoli age'unas in avvenire di farlo ; perche concerioz per cola assai peggiore perfere veduta ignuda , benche morta, che vestica ap. piccata .  Med. Due altri fatti poffo riferire anch'io di donne savie : Polisena fu unas di queste, di cui così ne parla Euripi  de,  At illa jam moriens tamen  Multum providit , ut honeftè caderet .  Celaretque', que celare oculos virorum   oportet i Ed Ovidio ancora, nelle sue Metamor, foli, così dice della medesima , Tunc quoque cura fuis partes velare,  pudendas Cum caderet , castique decus fervare;  pudoris ; E l'altra fu Olimpia madre di Alessan  dro il Grande , che trovandoli proffiina alla morte, con i propri capelli, e vefti ricopriva ciocche l'onestà non permetteva - Acimirasle scoperto .  Sem. E chc G farà delle belle, delle ricche, e delle brutte, e povere ancora , come troveranno queste marito?  Mes, L'udirete in appreso.  [ocr errors][ocr errors][merged small] [ocr errors][merged small] [ocr errors] Nella quale si mostra, in che modo si maritino le belle, le ricche, e le deformi quantunque   povere.  Mecenast , Sempronio , Publio ,  & Medico.  Mec.  A lunga sperienzando  che hò del mondo, grá cose mi ha fatto conoscere intorno a_matrimonjoli qua,  li per essere contracti, come fu detto, hò scoperto in effi ancora i suoi scnsali , conforme fono negli alori trafichi. In quei fatti a doves re de quali già parlammo hò offervato sempre mezana la Prudenza, la le non già di approveccia di alcuna fensaria per se medesima, come sogliono  qua,  praticare gli altri sensali dc' matrimo. nj.  Sem. Quali sono questi altri?  Meci Amore , l' Ambizione, e las Bugia.  Sem. Che fofle Amore sensale Ò, 'mezano de' natrimonj' lo sapevo anch? io; ma questi alori mi giungono nuovi; e come mai l'Ambizionc potià trattare i matrimoni?  Mec. Vi sarà una giovane brutta ral. volca , e povera , c perciò Amore l'averà abbandonata'; ma perche si trove rà umfratello, che si potrebbe avanzare nelle armi, ò nelle letrere, che farà l'Ambizione? li metterà a trattare il di lei matrimonio, e con motivi si efficaci darà ad intendere , che da quel mari. taggio, ne risulteranno vantaggi tali a prò di quel giovane, cui la propong, che lo porranno in grandezze, edonorificenze molto considerabili in breves tempo  - Sem. Ma non li avvede, ch'ella è de forme  Mero  Mec. In questo l'Ambizione s'inge. gnerà di non fargliela comparire tanto brocca con mostrarli, che ci sono tante più deformi di effe, le quali pure hanno trovato marito; e di poi gli caricherà tanto le specie dell'apparence bene futuro, che arriverà ancora , quantunque. fyfle brutiifiina a fargliela comparire vaga a segno, che lo farà divenire diella amante.  Sem. Ma questi sarà impazzito, se non diftinguerà ciocche a leoli esteriori si fa palese.  Mec. Credere forse voi,che solamen. ce Amore faccia impazzire gli Orlandi? l'Ambizione ancora è capace di farlo; e questa appunto è la sensaria, ch'ella brama: cioè di vedere fuori de'suoi sen. rimenti anche gli uomini savj, e talvol? ta quelli ancora , che si stimavano capaci di dare ottimi consigli ad altri.  Sem, Ed Ainore, che fensaria ritraer da? suoi maritaggi?  Mes. Non altra ; che di vederli in brieve tra di loro disgustati, essenda,che come si luol dire per proverbio; chi per amore si prende, per rabbia li lascia.  Sem. Ela Prudenza , che ne ritrae di sensaria?  Mec. Di vederli con perfecta pace tra elli, di sentirli dire con Aufonio trai di loro : Uxor vivamus , quod viximus', dove  teneamus, Nomina, qua primo fumpfimus in than)lamo :  Nec ferat ulla dies, ut commutemur in      Ævo,  Quin juvenis tibi fim, tuque puellas   mibi. Sem. Questa per verità è un'ottima fenfaria, che volentieri si può pagare da curti,e con fomino diletro.Ma palliamo ora all’Avarizia ; com’enera questa nei matrimoni, vedendosi introdottas oggidi tanta pompa , e splendidezza in elli , che pajono più costo trattari', u regolati dalla prodigalirà sua nemica.  Mec. Cosi non ci cotraffe: : vedrete una giovane non solamenté bructa, ma  [ocr errors][merged small] anche mal sana , ricca però affai: e chi mai [poserebbe questa , con cucce le sue ricchezze, se l'Avarizia non trattasse il suo parenrado ?  Sem. E come mai ella opera ?  Mer. Si porrà d'intorno ad un bel giovane, ma povero , e gl'infinuerà, che quel partito potrebbe farlo divenia re molto riccbi e gli riempirà la testad fcema, che si ritrova, di molte, ei molte migliaja di scudi; dicendogli , che potrà allora godere, e stare allegramente; e susurrandogli qualche altra cosecca di più alle orecchie, lo farà fare in tutto, e per tutto a suo modo; fenza che gli amici lo possano più rimuovere con tutta la rectorica di Cicerone, e l'energia di Demostene.  Sem. Questi ancora mi sembra un paz-s zo. Ben è vero però, ch'è caso raro , effendoci fatto divenire dall'Avarizia i posciache i suoi seguaci non buttando il loro non sono tenuti pazzi; conformea potrà contestare il Dottore', che conos sce, che cosa fja pazzia,  Mede  [ocr errors] Med. Cilono però diverse specie di questo male; laonde se non sono di quefta fpecie di di:Sipare il loro gli Avari sa-, ranno di qualche altra; mentre alcuni di essi, per non ispropriarli del danaro , divengono tiranni di se medefimi i ed inoltre, quanti Avari vi sono stati, che per leggiere cagioni hanno dato la morce a se incdelimi , e quetti di riputere: voi forse savj? e tornando al caso proposto, à me pare, che per  avarizia coftui spreghi il meglio, che si ritrovas, ch'è appunto il fiore delli suoi anni, spofando una donna mal fana, e brutta . ..Sem, Che sensaria mai può guadagnare l'Avarizia in far questo? » Mer Ella spera di potere acquistare tanti seguaci di più, quanti poveri arricchisce per questa via, essendoche quando erano poveri, non potevano : cflere Avari, perche non avevano mo-> do da cumulare i dove che arricchiti poffono averlo ..  Sem. Mà come potrà avanzare? dicendogli, che faute, che avesse il pa.  ren  rentado, averebbe goduto, e sarebbe ftato allegramente , e questo non si può tare da quelli , che vogliono cumula  Meo. Voi non capice il parlar equivoco dell'Avarizia ; ella non già intende il godere , e stare allegramente dispendiofo , ma bensì quello di cumulare , creduto da efla , e suoi seguaci piacere , e contento maggiore di tutti gli alori"; è ben vero però, che in questi cali rimane ella fovente delusa ; posciache i giovani dislipano tanto in tali occalioni, che bene spesso si pente l’A. varizia di esservisi ingerita.  Semi Com'entra la Bugia ne'matri. monj?  Mec. In quanti se ne fanno, senza le direzioni della Prudenza essa vuole-ingerirsi, e per un verso; d per Palero ci vuole avere in questi la sua parte. 7  Sem. Si dice però communemente, che la Bugia abbia le gambe corte, onde fi fcoprirà, e non potrà perciò fare breccia. diri  Mele  1  Mec. Non è così perche non opera già sola. Se Amore per esempio trarre. rà un parentado, essa pronta vi accorre, e si affatica tanto per fare apparire quel. la giovane , per cui si tratta , savia, prudente, e di abilirà : ò quel giovane di costumi angelici, e di abilità sommas; quando per verità farà tutto l'opposto.  Sem. Mà quelto in brieve si può scoprire.  Mec. Prenderà ben ella il contratempo, e quando vedrà che i genj, mediante Amore, saranno cominciari as collegarsit, allora, ciocche ella dirà , sadà creduto per vero; nè fi pafferà più oltre per iscoprirlo, quantunque fosse falfifsimo: lo fomina in tali occasioni la Bagia si affatica tanto; che arrivò as dire un Filoloto, che s'ella non si ri-, mescolaffe à questo segno si troverebbe per certo il mondo.più spopolaco notabilinente  Sem. E come ? e perche ?  Mec. Popolandoli il mondo, median-> te i matrimonj, quando questa non aju.taffe à farli, oh quanti di meno ne le guirebbero! Onde per mancanza di effe molto fcemerebbe ; talmente ch'essad lo mantiene cosi popolato .  Sem. Non credo però; che abbia tanta parte in essi, quanta voi dite. )  Mec. Ed io credo di vantaggio ancora; imperciocche dicemi: nel mondo, quali sono più numerosi, i buoni, ò i carrivi?  Sem. Questo calcolo non so chi l'abbia fatto : ti dice bene da pertutto, che gran parte in esso vi sia di cattivi. · Men E credete voi, Sempronio, che questi trovassero moglie, se la Bugiai non ricoprisse i loro vizja:  Sem. Io credo di nò;  Mec. Dunque non facendosi tutti questi, che danno considerabile apporterebbero alla popolazione del mond?  Sem. Ditemi, che fensaria ella riceve ?  Mec. Non altra, che di trionfare allorche li scuoprono gl'inganni da efsa orditi; e li prende sommo piacere del  lc  de discordie, e dissensioni, nate da ciò tra in arirari.  Sem. Oh che razza di gusti deprava  Mic. Quéli appunto sono i piaceri, che li prendono i vizj, non confiitendo in altro, che nel vedere precipitato chiunque dura loro fede, e perciò non iè bene di prevalerli, Sempronio, della opera loro in conto alcuno. -- Semi Mirpersuado , che la Prudenza non tratterà fimili mariraggi, onde pochi faranno quelli, nel quali effa s'in. trometterà : per efeinpio, se sarà bella da giovane, lascierà trattare il suo  pa. rentado ad Ainore, ed effa fi discolto. rà.  Mec. Non è così ; perche la Prudenza non è già tanto indiscreta, che odj la bellezza, c fe vedrà, che colla beh - lezza ci fia unica anche l'onestà, ed il  buon costume, li tratterà , e concladerà infieme; ma quando poi fi ávvedesse, che colla bellezza, questi non ci fossero, allora ne lafcierà la libertà ad A  mo  more , che le marici a suo piacere :  Sem. Mà ci sono elempj di queste belle accasate dalla Prudenza?  Pub. Tanti appunto, quante donne helle hanno mantenuta la fede illibata) ai loro mariti; e di queste Plutarco ne riferisce molte, parlando delle donne illuftri į confessando ancora l'Ariosto nel canto 37. non esservene stata mai pea nuria di esse, con dire:  E di fedeli , e caste , e faggie , e forti  Stare ne fon, ne pur in Grecia, e ithead   [ocr errors] Roms,  Ma in ogni parte, ove fra gl'Indi, gl’Orti  Dell'Esperidi il Sol spiega la chioma;  Delle quai sono i pregi, e glonor mortis  Sì ch'appena di mille una finoma,  E questo perche avuto hanno a'lor tempi   I Scrittori bugiardi, invidi , ed empji. lSem. E nci maritaggi con ricche doti s'ingerisce mai la Prudenza , effendo disuguali di condizione ?  Mes. In questi ancora , quando ritrova, che amili ricchezze fono venu  te  te per vic oneste;descritre così da Sene's ca de Vila beat a cap.2 3. Nulli detractas, nec alieno fanguine cruentas , fine cujufquam injuria parias , fine fordidis quæstibus, quarum tam honeftus fit exitus,quàm introitus, quibus nemo ingemifcat , nifi malignus. E non scorgendo di mal cofume chi le poflede, li conclude ancora; perche come mostró Platone į non induce disuguaglianza disdicevole las fola disparita di condizione.  Sem. Quale farebbe questa disugua. glianza disdicevole?  Mec. Sarebbe appunto, se un nobile, per cagione della gran dote, volefse sposare l'unica figliuola map educa. ta di un vile, e sordido arcista; l qual matrimonio non solamente darebbe da dire a molti, ma ancora per lungo tempo sarebbe privo di potere conversare con uguali, chi prendesse una fimile Spofa,  Sem. Vi fuschi di Te in fimile congiuntura, che de mormorazioni solamente per qualche tempo duravano, mà  chc  che le grosse dori rimanevano per sem., pre; io però non sono di genio si vile.  Méc. Credo, che voi manterrete il decoro di Gentiluomo,má replico bensis a colui, che punto non lo consideras :: che i figliuoli ancora riinangono per : seinpre di somiglianti inclinazioni, e co. ituini; essendoli osservato in molii, che hanno voluto canto digradare dalla lo-> ro condizionc, con prendere per moglie giovani mal nate , e di poco buon co-> itume', 'credirarsi da loro descendenti » gonj vili, c plebej; cosa alai più dannoia , e pregiudiziale , di quello sieno le mediocri picchezze nelle famiglie ile luftris onůc perciò il poeta Satirico conrra di questi disle,....... 9. Scilicet expectas, us tradat mater boSo do neftosigilom  Aut alios mores, quam quos babet? E quell'altro anche canto  Infequitur leviter filia matris iter... Olere diche certi matrimonj fatti con tanta disparità di condizione, se non, averà prudenza la moglie , riescono ang che infaufti a mariti; come provò Fulvio, il quale avendo sposato una Ichigvå, fu dalla medeliina tradico, denunziando ove egli era nascosto, csendo tra i proscritti in tempo del Triumvirato ...,  Sem. Vorrei anche sapere, fela Pru-, denza tratti marrimonj didonne brurce, e ditettofe...  * Mec. Questi ancora maneggia , quando ci trova il suo conto; cioè a dire che quella da voi creduta deformità non pregiudichi a fare figliuoli, nè alla pace doinestica.  Sem. Io mi perfuado, che la brut. tezza poffa ritardare 'ambidue ; perciocche, come si potrà amare una donna deforme e non amandoti questa, come li potranno avere figliuoli, ed esserci la pace domestica di  Mec. Dovete sapere , Sempronio ; che due bellezze sono nelle donnc ; una delle quali è di fola apparenza, e perciò viene detta eftcriore, e l'altra inter, Da, la quale risicde nell'animo: la pri.  [ocr errors] ma si rende inanifesta ad og i uno, che Ja rimira; la seconda poi, quanto più si nasconde tanto maggiormente risplende'; quale di queste due voi bramerefte, Sempronio, che avesse il primo luogol nella vostra sposa ?  Sem. Quella , che porelli vedere, we godere insieme.  Meci Questa sarebbe lefterna , che per breve tempo la potreste vedere, er godere ; essendocche prettamente fier nisce, venendo da' Poeti assomigliatas alla rosas Collige virgo rofas dum fos novus, o  nova pube's, Er memor efto , ruum fic properare  tuum. Ed altri: Rofa viget breve tempus, fi autem pra           terierit    Quærens invenies.non rofas, fed fpinas.  E Seneca dinle    Anceps.forma bonum mortalibus ,  Exigui donum breve temporis ,  U velox celeri peide laberis :   H 2  8. Ed  [ocr errors][ocr errors] Ed il Petrarca ancora così ne parla  Questo noftro caducong fragil bene,  Cb'è vento ed ombra , ed ha nome   beliade. L'altra bensì, effendo radicata nell'ani. ino, non languisce in alcun tempo; anzi che in certe contingenze fa vedere quanto opera in conservare la pace domeftica. Vi potrei a questo proposito addurre molti csempj; ma quello riferito da Enea Silvio della moglie di un celebre Medico Sanesc fa al nostro propofito. Questa era molto deforme , nulladimeno, per le fue rare viciù, l'amaya suo marito svisceratamente, chiamandola la sua buona Ladiç; ed appunto d'onde possa ciò nascere lo spiega Lucrezio, dicendo : Nee divinitùs interdum ,  Venerisque sagittis , Deteriore  , fit ut a forma muliercula ametur ; Nam facis ipfa fuis interdum  fæminar factis Morigerisque modis , cu mundo corpore  cultu  Ur fucile insuefcat fecum vir degere  vitam. Sem. Ma effendoci l'efteriore , per- · che non potrebbero ancor' acquistare 1.1 bellezza interna coll'industria de’lo"ro mariti?  Moc. Onanto siete buono, Sempronio, che vi volete affaricare in merte, re "il giudizio, ove non sia ; e non sapite, che fin'ora non è bastato l'animo ad alcuno di porcelo: bisogna pregare Iddio, che non vi abbarciate in caluna, che penurj di effo; perche altrimenti è tuito tempo perduto quello, che s'impiega per farlo entrare, ove non sia.  Pub. Sempronio procurare di grazia di stare cautelato; perche questa bellezza esteriore, che voi tanto bramare, fi uniforma alle volte a quella dei tempi degl'Egizj, ch'erano belli di fuori, e e brunti al di dentro : oltre di che apprendere questo utiliffimo documento da S. Girolamo : non facilè cuftodisor, quod omnes amant,  O in quo totius popu. li vosa fufpirant; e canto maggiormen  te ,  [ocr errors] H 3  .te, che il Nazianzeno la chiama : temporis, & morbi ludibrium : Santamente, dunque l’Ecclesiastico dice: Ne respicias in muliere speciem, nec concupiscas mulierem in fpecie.  Scm. Coinc fa la Prudenza a conosce. re, che questo giudizio vi lia, ove law bellezza non regna?  Mec. Lo comprende ben ella allorche rimira una giovane modesta , circospetra nel parlare, non curiosa, ftabile, attenta , ed applicata a fare ciocche dee; onde la reputa perciò giudiziosa; mà le poi la scorge incostante, disapplicata, curiosa', garrula , c vana , que. Ito le basta per crederla imprudente, c non fi prende penfiere alcuno di essa.  Sem. Ho udico raccontare più volte, che alcune giovani pri na di maritarsi fieno ftatc tenute per giudiziose, e prudenti, ma che poi fattefi (pose sieno diveoute l'opposto di quello, che dianzi erano reputate , per avere sciolta labri. glia a tutti quei vizj, che tenevano ce.Mec. Bisognerebbe con esattezzas esaminare, per colpa di cuilia ciò provénuto , se di effe, o de i loro mariti; u se fi rincontraffe , che avessero in ciò peccato i mariti, sarebbero esse degne di compaffione, dovendo come subordinate regolarli secondo quello, che a medelimi vedranno operare; potendo ancor esse scusarfi, come fecero le don. ne Ebrce allorche furono riprese, perche fagrificavano nell'Egitto, le quali dillero : Numquid fine noftris viris fecimus? fer: 44.  Sem. Come Opera la Prudenza per concludere fimili matrimoni?  Mec. Primieramcnte con fare riflettere al giovane, che brama di accasar  fi, quale sia il fine principale del matri,-monio , cioè per ottenere figliuoli, o che questo non fi orriene mediante los bellezza, ma bensì per la sanirà del corpo;: onde che non debba quell'anceporsi a questa ; ficcome ancora cons fare confiderare i danni, che potrebbe qucla bellezza ofteriore apportare  [ocr errors][ocr errors] mariti, li quali provò appunto Uria per la bellezza di Bersabea ; ed Abramo uomo saggio per isfugirli, che cosa facelle, avendo Sara per moglie, donna. belliffima , allorche dovea andare in E. gitto, e fu , Gen.12. Novi quod pulchra fis mulier, & quod cum viderint te Ægyptii di&turi funt : uxor illius eft, interfcient me, o te refervabunt : dic ergò obfecro te, quod foror mea fis &c.: Eche quando simili infortunj, non accadersero per cale cagione , potrebbero per altro succedere dicendo Leucippo:che la bellezza sia una saetta, la quale ferisce con maggiore velocità di quellow, che viene scoccata dall'arco : e Ciro che debbali più temere questa, del fuoco, il quale non offende in qualche distan. za conforme fa la bellezza; insegnando l’Ecclefiaftico al 9. Propter Speciem mulieris multi perierunt , & ex bac concipifcentia quafi ignis exardefcit : oltre di che gli farà ben capire, che non solamente,egli viventesquefta polsa danneggiarlo , ma cziandio clinto che sarà , c  CON  [ocr errors] con qaciti motivi lo ani nerà a scize glierti per inoglie più costo la laggine, che la bella.  Sem. Mà come dalla moglie belles potrà strapazzarli il maritu defanto?  Mec. Lo comprenderete dal seguente avvenimento riferito da Petronio Are bitro. Dimorava in Efeso una Matrona, non meno bella, che stimata da tutti di fomma pudicizia ; ed essendole morto il inarito, non solamente dirottitfunamente lo pianse, mà, accompagnatolo al sepolcro, delibero volere ivi termic nare la sua vita con esso ; nè fu porabile, che i parenci , anzi il Magistrato stesso la potessero rimuovere daral penfiero. Già sofferri. avea cinque giorni di rigorosa astinenza, quando un sol. dato, il quale cuftodiva alcuni cadaveri de ladri, ch'erano stari, giustiziati vicino a quel sepolcro, si avvide di notte, che usciva un cerro lume da unas contigva casetta , ed udiva insieme ivi piangerl ; vi accorse , cd animalo vi entro, e calato che fu dove si piangeva,  ap  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Conf. 5. Dec. prima appena vedute due donne'appreffo ad un cadavero, sen tornò in dietro a prendere la sua poca cena, e ritornato che fu, cominciò a consolarle con offerire loro quel poco di ristoro, che feco portato avea. La più addolorata , la qual'era la sudetra Matrona non mostrò punto di gradire le cortesi esibizioni del feldato, anziche più costo'raddoppiava ischiamazzi con svellersi i capelli, e percuoterfi maggiormente il perto : non si perdette egli di animo per questo , ma fi accosto all'altra, ch'era la fervente , offerendole cortesemente il vino, che avea ; ed ella non fi moftro canto ritro. fa; posciache'riftoroffi con quello,e guftò ancora il cibo'; ed indi si pose ad efpugnare la pertinacia della sua padrona, e tanto le leppe dire, che alla fine la vinse, eristoroffi anch'ella. Vedendo il soldato, efferli renduta in questo, passò più oltre', e coll'ajuto della fervente gli riusci di prenderla per moglie, non dispiacendo alla vedova l'aspetto del fudecco giovane ; ¢ ciò fu concluso  frete  [ocr errors][ocr errors] frettolosainente . Dimorarono tre gior-  ni in decto sepolcro i sposi, uscendo ap-  pena di noite tempo il soldato a prove-  dere ciocche faceva d'uopo per alimca-  tarsi tutti. In questo montre da' paren-  ti degli appiccati fu portato via uno di  quei cadaveri , ed avvedutofene il sole  dato lo palesò alla sua fpofa tutto con-  tristato ; dicend le, che non era coave-  niente di aspettare la sentenza del giu-  dice , essendo egli incorso nella   pena  di vita , per la sua trascurata custodia ; on. de che gli avesse pure preparato il luo. go per fepelirlo allieme coll'altro suo inarito, essendo egli già disposto a darli la morte . Ciò udico, la compaffionevole donna rispose: non sia mai, che io abbia da vedere due de' mici carifli.  mi mariti, defonti nel medesimo tempo; desidero più costo appiccare il inorto, che di perinettcre, che il vivo perisca:  deh prediamo questo cadavero,e collo? chiamolo, ove manca quello del ladro.  Ubbidi prontamente il soldaco ; e nel  di seguente cucco il popolo f maravi. Conf. s. Doc. prim. gliò, coine inai quel njorto, così teneramente pianio, fosse stato posto sopra un paribolo:  Sem. Talmente che saranno tutte finzioni quei gran pianti, e schiamazzi, che fanno le donne vedendo morti i mariti?  Mec. Per lo più cosi credo anch'io ; perche, non avendo queste la prudenzas virile, con faciliià grande fi pongono as piangere, ma noui tono già così gli uo. mini.  Pub. Voi mostrato di non avere letto Filostrato in Sofijt.: il quale raccontas ciò, che fece Erode il Sofista nella morte di sua moglie, ch'è questo appunto. Non si contentò egli di averla pianta dirottilmamente, stando anche sopra terra, ma volle continuare a farlo tutto il rimanente di sua vita : e come se le inura della sua casa pocessero essere as parte del suo dolore, le fè tutte vestire di bruno, e la sua casa fu dall'alto al barlo così bene dipinta a color nero, chu rendca gränd'orrorc: inoltre volle, che  tutti quei, ch'erano al suo servigio fof. sero mori, o per natura, o per arte: cgli stesso si fè cignere co’carboni il vol. to, per portare ancora in fronte la di. visi del suo dolore. Tutti i suoi mobili anche i piatii, e bacili', ne' quali li lavava crano neri . Passò del tempo in questa bizaria, senza volere udire alcu. no di quei, che volcano persuaderlo a cambiare risoluzione. Lucio, che gliera amico, gli aveva più volte parlato di questa materia, mà senza frutto; allas tine una sola parola di scherzo lo guada. gnò. Le sue serventi lavavano un giorno alla fontana certe rape; le vide Lucio , e domandò , fe quelle doveano servire per la tavola del loro padrone, il che affermarono; se ciò è cosi disse Lucio ; riferitegli da mia parte, ch'egli fa un gran torto alla sua moglie, e che non dee mangiare rape bianche in casas vestita tutta di nero ; onde che si era infinitamente maravigliato , com' egli non riparasse a cosi grave disordine, dovendo il suo bere, cd il suo mangia.  [merged small][ocr errors][ocr errors][merged small] TC  re essere vestiti come lui di gramagliw; ed a queste parole cominciò ad aprire gli occhi, per vedere, e riconoscere le sue stravaganze, e questi era pur Filosofo non già donni !  Sem. Iftruitemi di grazia meglio sopra i matrimoni, fatti senza l'intervento della Prudenza, per non cadervi.  Mec. Nella: ventura conferenza vi consoleremo.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] 100, avendola me  CONFERENZA VI. 6'1 Nella quale si esaminano più distintamente i pregiudizj', che risultano dai matrimonj farci fenza in l'intervento della Prudenza.  Sempronio, Publio , Mecenate   © Medico 6,156 OL  Uanto mai mi ha contriftato la storia riferita della cru. dele donna di Efe. fo  glio considerata . Pub. Non bisogna sgomentarsi, Sempronio , per fi lieve cagione ; perche. primicramenre chi fa , le veridico lia tutto ciò , che in esta si racconta parendoini molto inverisimile , che li di lci parentis cd amici l'avessero del cute  [ocr errors] to  cata, avendo, oltre i natali,  Giulio s 1981  Conf. 6. Dec. prima  qualche concerto maggiore, per lo sviscerato amore mostrato verso suo marito; oltre di che, chi potrà mai credere, che una donna, i dopo efsere stata cinque giorni, con tanta attinenza, poreise pensare , non che effettuare ciò , che fi lppone facesse : e poi, quando' realmente fosse ciò foguito , vi posso riferire moltissini esempj dimogli fedeliflime, le quali o per vero dolore sono morte, quando videro i loro consorti estipfi, è dettero chiari atteftati del loro fincero , e costante amore. Laodamia fù una di queste, la quale mori di cordoglio sopra il çadavere di Protesilao fuo marito , ucciso da Etrore. Ed Artemisia a che segno amò le ceneri di Mausolo suo marito , che fin volle , stemprate tolle sue lagrimc, dar loro ricetto nel suo corpo ingojandole a poco a poco! 'E finalinente, per non diftendermi di vantaggio nel riferirne inolte altre : Peponilla moglie dime riferisce Xitilino, sotto l'Impero di Vespasiano, aon visse nove anni con suo marito dentro un sepolcro, ove diede la vita a due figliuoli? e questa lo tenne lontano dal supplicio, per quanto le fu permesso, non già ve lo mandò. ?  Sem. Tutto va bene; ma però, che una donna, dopo tante lagrime sparse per suo marito, l'abbia esta condannato al patibolo, mi pare grave, e detestabilc facro; posciache, se non amava quel cadavero, à che fine bagnarlo di tante lagrime? e se poi l'era ficaro, come mai ebbe tanto cuore di fare un' atto si crudele contro di esso, feuzan averle data occasione alcuna?  Mec. Quell'iniqua fantesca fu la cagione di tanta fceleratezza; impercioc" che la povera padrona, dopo cinque  giorni di dolorofa inedia sofferta, non trovando dalla morte pietà alcuna in voler porre fine ai suoi cordogli, e vedendosi imporcunara dalle preghiere di essa s’induffe à prendere quel poco diria ftoro', offertole non già da pareoti , che  I  l'ave  [ocr errors][ocr errors] l'avevano abbandonata, mà bensì da un cftranco, che fu la ruina della sua réputazione, perche chi d'altrui preode, se Iteffa vende.  Sem. Mà come! nc anco dentro il repolcro è sicura la pudicizia , ed allas prcfenza del marito defonto!  Mec. Diceva il Re Filippo, che non era inespugnabile quella fortezza, ove fusse potuto entrare un mulo carico di oro; e voi credere sicura una donna bella, guardata da una sola fancesca in luogo remoto ? quando trovandofi già languida è affalita da un soldato armato, giovane bello , ed avvenente , ristorandola col cibo , adulandola, e lusingandola insieme con dolci parole. A queIto proposito cade in acconcio il proverbio di Salomone. Mulierem fortem quis inveniet? E tanto inaggiormente, quando il marito giace estinto, e per. ciò nè può correggerla, nè punirla. : Sem. Queste ragioni non mi appaga. no punto, onde per non avere a cadere in fimili infortunj , bramerei che voi  con  [ocr errors][ocr errors] con la vostra solita ingenuità mi scopriIte molti altri pregiudizj, che potrebbero nafcere , non avendo la Prudenza parte uc'maritaggi ; e perche avete voi conversato molto in yostra gioventù , vi sarere incontrato facilmente in, più contrasti nati tra i mariti , e mogli.  Mer. Gli hò uditi certamente fpefso riferire , e letti ancora ; e quantunque non li abbia provati, per essere vivuto libero, con tutto ciò sono appicno informato di molciffimi avvenimenti in fimili materie.  1 Sem. Or dunque, in quelli fatti per opera d'Amore, senza intervento della Prudenza , che vi avere offervato di inale ?  Meo. Ne hò veduci tanti di questi principiare bene, ma poi cambiare in un tratto la bella apparenza, ed allas fine rerminare infelicemente ancora .  Sem. Come cominciali bene, e poi mutarfi? fe:  Chi ben comincia , bà la metà dell'opra?  Mec. E pur così è seguito ; impera   cioc  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] I 2  ciocche alla prima, in quel fervor di afferro, la sposa era tenuta in pianta di mano; ma appena intiepidito questo de qualche lieve cagione mutava faccia il tutto, e quel grand'amore in breve pafsava in noja, ed alla fine questa si avanzava al dispregio. Quindi è che l’Ap. piense disse: 174 Ef modus , dulci, nimis immodera  ta voluptas Tædia finitimo limite semper babet : Cerne nouas fabulos rident florente colore  Piet a, velut primo vere coruso at bumus,  Cerne diu tamen bas, hebetataque lumina fleetas,  Et tibi conspectus nausea mollis erit.   Pub. Voi, Sempronio, avete lascia. to il meglio, cioè,  Non si comincia ben se non dal Cielo. E credete, che facendosi il matrimonio per opera d'Amore senza l'intervento della Prudenza, sia esso cominciato dal Cielo ? Sem. E perche no, avendol per fine  la  la conservazione della propria specie ?  Pub. Il fine è fanto, ma il da voi proposto mezo, per conseguirlo , non è buono;non dovēdosi ricorrere ad Amore per farci conseguire una buona moglie, ma bensì a Dio, conforme c'insegna Salomone : Uxor prudens à Domino ·  Sem. Per quali motivi si avanzano di poi al dispregio?  Mec. Per molti ; lasciando in disparte l'interesse della dote (molto tenue per l'ordinario nelle donne belle) promessa, e per lo più non pagata; che suole frea quentemente turbare la pace domeftica: Il primo de' quali è il dominio, che vuole acquistare la donna bella sopra il marito; imperciocche come vuole Mcnandro :  Superba res eft pulchra mulier: E pretenderà per giustizia di poterlo efiggere mediante il favore , che gli hà fatto di prenderlo, essendofi veduta vagheggiare da tanti altri, che la bramavano per inoglie. Il secondo sarà la gelolia, che apporterà tra loro una continua guerra....  Sem. Come la gelosia, essendosi pre . fi per amore?  Mer. Amore medesimo , che li uni, per prendersi di elli diletto, s'ingegnerà di suscitarla ; e per promoverla, ba. sta, che faccia concepire ad un di effi un minimo sospetto di essere passato in altri quell'affetto , ch'egli godeva intiero; non essendo altro la gelosia al parer di Cicerone , che : Ægritudo, 6x quod alter quoque poriatur co , quod ipse concupicris, e come questa operi uditelo dal Taffo  N'arde il marito, e dell'amore al fuoco  Ben della gelosia s'agguaglia il gelo,  E va in guifo avanzando a poco , a poco  Nel tormentato petro il folle zelo ,  Che da ogni uomo l'afronde in chiuso loco;  Vorria celarlo a tutti occhi del Cielo.   Sem. Mà questa Publio potrebbe anche nalcere, quantunque la Prudenzas avesse avuto parte in detto matrimonio, Pub. Difficilmente, essendo che aves  reb  [ocr errors] rebbe ella saputo scegliere una donna saggia , che avesse colte fiınili ombre, quando fossero nate nella mente del marito, senz'occasione alcuna , e che non fosse ella stata capace di suscitarvele.  Sem. E come potrebbe far questo una donna?  Pub.Con fuggire ogni eccesso di vanità; insegnando S. Crisostomo nell’onilia 21. al popolo : Ornatus Zelotypia fuSpicionem ingerere folet; cd in appresso, che ; modeftia ornatus omnem improbar fufpicionem expellis, omni autem vinculo formius conjugium conciliat.  Sem. Vi sono casi seguiti di donne, ch'abbiano usata tanta prudenza?  Pub. Certamenre , che ve ne sono molti antichi, e moderni ancora: tra gli antichi , la moglie di Focione , di Trajano , & Alpolia moglie di Ciro, e di Arcasserse, e tra moderni. Madama di Chantal, come scrive il Padre Cordier uclla sua famiglia Santa , fu unan di quefte; posciache ella non G vede.rs giammai meglio vestita , che quando  [ocr errors] doveva trattenersi col marito; se doveva egli andar fuori, e fare qualche viaggio, non ornava mai il suo  corpo,  che quando cia di ritorno : le fu detto un giorno, troyandofi lontano da molto teippo il Barone suo marito: Madamas ogn'un crederà , ch'abbiate vendute le vostre velti, ed i vostri ornamenti, voi non li fate più comparire, come se dubitafte, che da alcuno dovessero esservi rubati: non mi parlare di questo rispose ella , pofciache gli occhi , a' quali devono piacerc,sono cento leghelungi di quà. Riferisce anche il medesimo, che la Ducheffa di Gandia Vice-Regina di Catalogna avesse una somma modederazione nel yeftiré, non curandosi di portare abiti di fera , nè con oro. Una delle sue confidenti prese parimente un giorno ardire di così favellarle: Madama di altro non discorre per tuttas questa città , che della riforina de' vostri abiti, pare', che sempre voi diveniate di minor condizione di quella, fiecc Aata ; più vi fi accrescono beni di  for  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][merged small] fortuna, meno ve ne service ; cui rispose:2 ine non dà il cuore di portare nè seta, nè oro, quando il mio marito vas sempre ricoperto di un'aspro cilizio , ed in questo anche riflettere, quanto operi il buon'esempio del marito, per frenare la vanità donnesca.  Sem. E quelli, che tratta l'Ambizione senza l'intervento della Prudenzas, che fine fortiscono?  Mec. Pellimo, stante che, non verificandosi punto quanto s'era da essa promeso, li riinane con moglie deforme, ed indotata ; e di vantaggio ancora, è con molti figliuoli sulle spalle ; ed alle volte ancora privi di elli', senza speranza di poterli ottenere, per la poca falua te di fimile consorte .  Sem. Se vi avesse avuto mano la Prudenza, come si potevano fuggire queste disgrazie ?  Pub. Avcrebbe con maggiori cautele questa consigliato, cfaininando atcentamente, che fondamento potevano avere le milácate speranze; ç rinvenute  le  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] le acree, ed insuffiftenti, averebbe dilsuaso più costo, di effettuarlo ; ò per la meno nella dubietà di cffe averebbe assicurato meglio le buone qualità dellas donna, affinche'andando le speranze a male, fosse piinasto questo di certo : di aver una donna prudente in casa,la quale quantunquc povera , come vuole Salomone. Sapien's mulier edifcat domum fuam. Ne averebbe già permesso a Tiberio, che avesse sposato Giulia, las quale oltre il disprezzarlo, come non uguale a lei; ci faceva lecito di vivere a luo piacere; conforme riferisce Tacito nel primo de' suoi Anoali. Ne tampoco Silio averebbe sposaro Meffalina, vivente Claudio, se la Prudenza vi forse intervenuta:nè già di Claudio Mellalina sarebbe stata conforte.  Sem. E li matrimonj fatti dalla solas Avarizia, che danni possono apportarc?  Mec. Maggiori di quello, che vi potrete mai perfuadere; posciache in tali casi non li sposa già la giovane, mà bensi la dote i mercè che : veniunt à dote;di fagitta ; onde considerare voi, come ella ella sarà trattata dal marito, e che amoal  re le porterà; quando l'affetto non è inndi dirizzato alla moglie, ma bensì tutto  alinero interesse ; ed avvedutali effa di E essere posposta ad una cosa inanimatas,  che dirà, e farà mai, troyandosi ricBt ca ?  Sem. Bisognerà ben, che soffrá , I ftia focto l'ubbidienza del marito .. 1 Mec. Voi fempronio non avere letto  Anafsandro , e perciò parlare in cal # guisa , il qual dice,  Si quis pauper pecuniofam uxorem 1 Duxerit, non uxorem , fed dominam  habeti  [ocr errors]   Cujus eft famulus , de feruus ;  E credete forse , che quancunque paja-   no fortunati coloro, che prendono grof. u se dori, realinente siano sempre? Oh  quanto sono infelici ! come conobbs o anche Menandro con dire :  Quisquis uxorem unicam heredem cupit  adfcifcere Divitem ,is vel irasis pænamluit Diis,  Vel inf. lix effe vult s-sub nomine for  tunati. Sem. Gran cose si dicono da questi poeti, che fono favole; lo vedo, che le grosse doti arricchiscono le cafe.  Meca Li poesi son chiamati Vates da’ Latini, qual voce significa anche indo. vino, ed in questo ho osservato , che per lo più l'hanno indovinato; oltre di che tra efli vi sono stati Filosofi celebri. Io non nego, che qualch’uno prendendo groffe doti Gi sia potuto arricchire; essendosi però incontrato con moglie saggia; mà quanti li fono finiti di fpiantare per questa medesima cagiore, elsendosi abbattuti in mogli imprudenti?  Sem. E come ciò può accadere, prendendofi quantità grande di danaro in fimili matrimoni?  Mec. Per questo medelimo segue;po. fciache addolorato diceva Demenao. Argentum accepi ; dote imperium ven  didi. Laonde, comandando esse , sono capaci di darli fondo, con difsiparlo in bre  ale  fon ve tempo.; ed eccovi appunto il guadagno, che si ricava da effe.  Sem. Questo però seguirà , quando di incontreranno mariti, che non sapranno farG ubbidire.  Mec. Porrà accadere agl'altri ancora dicendo Giovenale;  Intolerabilius nihil eft , quam fæmina EI  dives, i Ed andare a cozzar con queste ? andate  le a riprendere; ed affinche Gate meglio  informato ; udite ciocche dice a questo & propofito Artemone,  fazio, ut fcias Quid periculi fir dotata mulieri convi  cium dicere. Si potranno con facilità maggiore reg. gere bensì quelle, che non averanno portata dote, come si ricava da un detto greco: Sponfa indotata non habet libertatem,  fiuè audaciam loquendi. Sem. Questo ardıre lo potranno avere forse le belle.  Mec. Lo hanno le brutte ancora re  [ocr errors][ocr errors] fa  [ocr errors] saranno ricche , e superbe , come vien riferito da Gellio , Me miferum, qui Corbulam duxi , &  talenta decem Nanam , mulierculam, cubitalem, cujus  Superbia adeò intolerabilis eft! Sem. Ed in che cosa potrà gettare il fuo la moglie, dovendo essere soggetta al marito?  Mec. Chi è ricca, come abbiam detto, non vuole stare soggetta ad esso; onde vorrà spendere a luo modo : se vedrà, che una sua uguale condurrà tre servitori, ella per la sua grossa dore, pretenderà condurne sei, bramerà anche gli abiti di inaggior valuta; Carrozze più nobili, e suntuose s e vorrà effe. refrattara in tutte le cose con magnificenza superiore alle altre; e se il marito non si troverà commodo di farlo, elibirà cfla medesima la sua dore , per fupplire a quanto bisogna ; e durando molto que, fta vita , anderà in malora la dore , con tutto il capitale del inarito . Or vedete , che fortuna s'incontra nel prendersi  grof.  [ocr errors][ocr errors] is grosse doti, e che svantaggi ne riceveranno da questa anche i loro figliuoli.  Sem. In questo io vorrei mostrare spirito, e farla fare a mio modo.  Pub. Vi voglio riferire un caso a quefto proposito assai curioso ; Una certas giovane, che si trovava ricca dote, la prima sera , che cenò col suo marito , non volle gustare cosa alcuna , e ftando in tavola molto contristata, le fù domandato ; da che ciò provenisse , e qual occasione la rendeffe così meftas,' ella rispose; come volete, che io man.  gi, se non vi è l'uomo nero, che ini ser1 va in tavola ; e non hò piatti d'argen  , proporzionati alla dote, che hò portata : il marito le rispose, che nel giorno seguente averebbe fatto trovare più d’un uomo nero, i quali l'avercbbero servita , come desiderava : fec'egli comparire nel tempo del delinare due mori ben neri , acciocche la servislero, s'icfierà per tal cagione la giovane a segno, che si levò di tavola , e nacquero da ciò infiniti disturbi tra di elli,onde vedete voi, Sempronio, che vantaggi risultano dall'essere risentito in fiinili contingenze: bisogna pregar Iddio, che la moglie ricca, sia ricca anche di senno, aliriinenti la casa andrà in malora , quantunque avesse portato il doppio di dote.  Sem. Hò udito sempre dire, che las metà della dore non si possa alienare, e che li fidecommiffi rimangono sempre in piedi; come dunque potranno seguire l'accennati dilapidamenti?  Mec. Il lusso però oggidì hà usurpato il privilegio di poter alienare ogni reliduo dotale, e di svincolare ancora ogni più stretto fidecoaimiffo .  Sem. Mà in che modo?..  Mec. Si fingono pericoli di case, che stanno per cuinare, e per tal cagione di toglie ogni più stretto vincolo, posto sopra i capitali: mà passiamo ad altro, perche questa è materia molto lagrimevole.  Sem. Talmente che a derro vostro re alla moglie ricadesse quaich'eredità;  con  [ocr errors][ocr errors] converrebbe rinunziarla, per non incorIf rere in fimili fventure ?  Mec. Muta faccia il cafo ; perche la moglie, ch'è vivuta qualche anno col marito, trovandosi molti figliuoli, ed a vendo già passato quei primi fervori del. le nozze , ne' quali si spende molto, non averà genio più a dissipare, ed effen• dosi assodata nel governo della casa, se  pur farà qualche sfarso di più , sarà con i moderazionc , e proporzionato al suo Itato,  Sem. Or io ho capito, come si abbia da scegliere la moglie, che sia di tutto proposito ; cioè nè povera , nè riccas, e che abbia più cervello, che bellezza,  acciocche non si abbia da dire di essaie : quello mi fu raccontato una volta, che  dicefle la scimmia , effendo entrata nella bottega di un arteficet, che lavorava modelli di cera, ove prendendo nelle inani una bella cesta, dopo di averla ac  carezzata, e baciata, mettendo den| tro di essa la mano, c trovatala vota  gridò: Oh che bella gefta, mà de manca il cervello !  K  Pube  [ocr errors] Pub. Or sì, che voi la capite per il suo verso; e scegliendola di questa forta allora sì, che farere forçunato, e potrete dire di avere presa una grandislima dote , conforme è succeduto a me: evi voglio raccontare ciocche ini seguì nel tempo , che io era sposo : mi fù domandato da un mio, amico, che dote io avca ricevuto, e trovandomi sodisfatto delle buone qualità della mia compagna , gli rispofi ; che credeva di aver ricevuto cento mila scudi ; rimase egli ammirato , sapendo , che io non eras folito di milantare le mie cole, nè fimile dote fi costumava allora, folamente mi replicò: in che corpi li avete ricevuti? cui soggiunfi, in contanti dieci mida, ed in giudizio il rimanente ; egli di pose a ridere; cd io non ho avuta sin ora occasione alcuna di contristarmi di ciò.  Sem. Desidererci ora sapere, che altri miali, poffa apportare la Bugia , concludendo etsa il matrimonio?  Mec. Se lo-traria di passaggio , non suolo apportare danni molto conlidera  1  i bili; mà se poi s'interna nelle cose cffen  ziali, guai a chi si fida di essa ; pofciache se ricoprirà i mancamenci d'una donna impudica a segno, che quel povero uomo, che la vuole sposare, la creda una casta Penelope ; effettuandolo diverrà infelice; e se vorrà fare com  parire le ricchezze dello sposo affai e maggiori, s'ingegnerà ben ella di pro:  curarlo, e con infolite maniere : che non ha fatto a giorni nostri in fimile afa fare! e arrivata fino a fingere le note dell'avere, nelle quali vi erano regiftra  ti molti crediti fruttiferi , senza il no* i me de? debitori; con pretesto, che si  celavano questi , perche , essendo fiignori di qualità, non volevano essere  nominati; e nebanchi ancora non è arrivata a fare apparire grosli depositi in  faccia di Tizio', i quali erano mere imei prestanze, che nel dì susseguente tor  navano a credito di Sempronio suo vefo posseditore?  Sem. Bisognerà dunque vivere molto caurclaro'nci trattati de matrimonj,per  K 2  non  [ocr errors] non essere dalla Bugia tradito sin  Mer. Udite di più : se una poverad giovane sarà ingannata da esla's facendole apparire il suo futuro sporo ricco; che tenga carrozza; si trovi las cafa ben fornita di preziose suppellettili, a segno che le faccia credere che quel partito sia una gran fortuna; cadendo. vi in effettuarlo, in un tratto si avvede. rà, che il cutto fù mera apparenza; pois che appena consumato il matrimonio, sparisce il palazzo incantato di Armida, e li cavalli, o carrozza tornano al fuo padrone ; : e per vivere conviene dar di mano alla sua dore, trovandosi il mari10 fpiantato. Vi voglio raccontare una storiella, nella quale scoprirete l'astuzia usata da uno di questi miserabili,che con inganni giunse a sposare una ricca giovane. Se ne stava egli nel giorno fta. bilito per le nozze penlierofo , e mesto, a segno che la Suocera si mofle a domandargli cosa egli aveva; cui replicò, che certamente non aveva cosa alcuna ; fco. perte, che furono di poi le fue miseric,G dolse leco la medesima, ch'era statas da esso ingannata ; replicò il ribaldo: fignora lei si ricorderà benissimo, che's  io le diffi nel tal giorno, domandando i mi cosa io aveva, che niente le replicai?  che occasione dunque ella ha da dolerlei dime , se le palesai la verità, con dirle', che nulla avea.  Sem. Accadono questi cali?  Mer. Cosi non accadeffero, anzi ve ne sono de'peggiori ancora.  Sem. E quali sono ?  Mec. Volendo la Bugia accasare un giovane deviato, che farà? comincie. rà a lodare il suo buon costume, la sua  modeftia, a fegno, che lo farà compa0  rire in iftato d'innocenza cadendo las  povera fpofa a credere questo, tuttaa  allegra acconsentirà, non solamente al  matrimonio, mà sicuramente ancoras  converserà seco; non dico altro, che  in breve diverrà un cadavero, median-  tc i quel malo ;-col-quale l'averà mal  concia.     Şom. Sono vesiquefi cali, Dottore?   Med  K 3  Med. Accadono, e non di rado;quando però liamo avvisati in tempo, diamo loro il suo rimedio ; ma allorche il malfattore vuol fare da Medico., la finisce di stroppiare con quei secreti, che talvolta averà egli in se medelimo provati , i quali applicati in una compleffione gentile, essendo rimedji mercuriali, potranno in vece di giovamento apportarle danno notabile.  Pub. Questi pregiudizj tempo fà non seguivano; imperciocche, se allora cal uno cadeva in fimili mali, îi faceva prima curare , e risanato, ch'era perfertamente prendeva moglie.  Sem. Talmente, che questa Bugia ne matrimoni cagiona danni molto confiderabili, ond'io procurerò di tenerlas lontaga allorche tratterò il mio accalamento.  Mec, Bisognerà, che stiáre però molto avvertito; posciachc comparirà travestiça; e sotto specie dį verità per ins gannarvi. Sem, Io fona un bell'umorcänon cres  derò  1121  N  derò allora all'istefa verità, per non di ingannarmi, giacche la Bugia fi vestu dei suo manto.  Mec. Alla verità conviene prestarlo d  fede in ogni tempo, mà però vi è il modo da discernerla, quando cssa sia pura , ò simulata.  Sem. E come?  Mec. Quando voi vedrete ingrandire le cose assai più di quello , che fieno ve. risimili, ivi ftà nascosta la menzogna, e datele la tara di due terzi meno di quello vengono rappresentate, che così di poco sbaglierete. E se vedrete poi in  alcune altre ufarsi artificj, c diligenzu u maggiori, di quello, che convenga,  per farvele credere, e voi togliete tre terze parti a ciò, che fi dice, e credete solamente quello , che rimane, che così l'indovinerere.  Sem. Dovendo io prendere moglie poco fastidio mi prendo dei difetti de  gli uomini , vorrei bensì sapere quei i  delle donne, da' quali doverò guardarini.  K 4  Mer.  [ocr errors] Mec. Nella ventura Conferenza farete istruito in questi.  Pub. Bisognerà fargli conoscere ancora le virtù di esse, affinche fappia difcernere quali siano le buono.  [ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] CONFERENZA VII.  Sopra i difetti, e le Virtù  delle donne.  Sempronio , Medico , Mecenate  e Publio ,  M  Sem.  I persuado Dottore, che niuno meglio di voi conoscerà les imperfezioni delle donne , effendo voi  meglio di ogni altro informato de' naturali, e tempera menci loro.  Med. Secondo il parere di Democri. to, le povere donne soffrono , per cam gione dell'utero, seicento mali di più degli uomini ; come si legge nella lettem ra da esso scritta ad Ippocrate', over Sexcentum arumnarum mulieri auctorSem. Io non voglio sapere da voi li mali dell'utero, ma bensì quelli dell'animo, non quelli, che sono ad effe di moleftia, ma quei che possono altrui ancora nuocere, conforme sono i loro vizj.  Med. Di questi ogni uno, che per qualche tempo le abbia trattate , ne può effere bastantemente informato . lotor110 poi al temperamento delle donne, vi poffo ben dire, che una volta fu promossa questa gran disputa ; qual foffe più caloroso, l'uomo , ò la donna, e dipoi essersi molto dibattute le ragioni dell'una, e dell'altra parte, fu detto, che quando la donna non fia di temperamento più caldo di quello dell'uomo , non si possa mettere in dubio che non sia più callida di esso ; cioè a dire più astuta  Pub. L'aluzia però, quando non è maliziosa, c fraudolenta, non entra tra i difetti deteftabili; dicendo Teren. zio in Andria i  Aftutum fallere difficile eft.  [ocr errors] [ocr errors] 201  [ocr errors][ocr errors] Onde questa può ftimarsi avvedutezžas,  Jodata dall'Ecclesiastico al 19. Aft ut us  agnoscit fapientiam.     Mec. Nelle donne però farà sempre  detestabile, non essendo quefte fcarse   di malizia, e d'inganni, al parerc di Se1  neca in Hippolyto : 1  Sed dux malorum foemina , d fcelerum artifex,  E di Plauto in milite :   Quid pejus muliere ; atque audacius?    Quid? Nibil.  E l'Ariosto così ebbe a dire di effe  Non siate però tumide, efastofe  + Donne per dir,che l'uom fia vostro figlio,"   Che dalle spine nascono le roje,  E d'una ferid'erba nafce il giglio.  Importune', Superbe , e dispettose  Prive di amor; di fede , e di consiglio;  Temerarie , crudeli, inique, ingrate ,  Per peftilenza eterna al mondo nate.   Pub. Piano di grazia , Mecenaco; cliente perche parlando in tal guifa', correcc  pericolo di essere lacerato dalle donne  come fucceffe ad Orfeo, di cui parlaw   Pla  1  Platone ne' suoi simposj. Per tal unas, che sia stata cattiva tra effe , con questo vostro modo di parlare cosi generale, pregiudicate a tante illustri femmine degne di eterna memoria, anzi che as vostra madre medefma, e con essa a voi ancora. Leggere,le opere di Cristina Pisana, è di Lucrezia Marinelli, che troverete ivi, quanti più iniqui, escellerari uomini vi sono stati, che donne ; onde ci comple stare cheri; e tanto maggiormente, che le donne cattive, fono appunto come le vipere, le quali, sc non vengono compresse, o con altri modi irritate, non mordono già , nè avvelenano; ina gli uomini perverfi, non sono già così, assomigliandoli al lupo quel detto greco: homo homini lupus: da cui non giova punto l'allontanarsi ; perche ello va cercando di danneggiare. E parliamo con tutta sincerità; avete voi veduto mai alcuna donna andare di. predando i.paffaggieri per terra , ò per mare, conforme, fanno gli uomini E giacche avere apportato l'Ariosto con  [ocr errors] 1  [ocr errors][ocr errors] tro di esse, perche non riferite ancoras el ciò, che dice a loro favore? che apporDe tai nella conferenza quinta, ch'è appunto :  E di fedeli , e caste, Saggie, e forti  State ne fon ne pur in Grecia,e in Roma; ti Ma in ogni parte , ove fra gl'Indi , 6  "gl’orti  Dell'Esperide il fol spiega la chioma,  Delle quai sono i pregi, e gi’onor morti,  Si ch’appena di mille una fi noma ,  E questo, perche avulo hanno a lor sempi   Iscrittori bugiardi , invidi , empj. E finalmente doverebbe bastare ciocche dicono Socrate, e Platone di esse per  frenare la lingua di chi ne dice male, 1  cioè, che sono capaci molce di effe d? amministrare la republica ancora .  Mec. Bisognerà dunque credere, che le donne non abbiano difetti, per non  pregiudicare a qualcuna , che tra esse fia ed Itata buona?  Pub. Io non pretendo difendere les cattive , ma fulamente cancellare lo buone del numero di queste, nè voglio  fcu  1  scusare i vizj, chc insidiano le donne ; ma se le Virtù non isdegnano di accompagnarsi con effe, come posso tenerle çelate in pregiudizio di cante? e precisamente di quelle di cui l'Ecclesiastico al 26. ne fa gloriosi encomj,chiamandole : Lucerna splendens ; columna aurea super bafes argenteas ; fundamenta æterna: Laonde , Mecenate, non dobbiamo in conto alcuno dir male delle donne; poffiamo bensì censurare quei difetti, che le perseguirano; perche facendo in tal guisa non fi potranno dolere di noi le buone , le quali non danno a' vizj ricerto; no tampoco, se taluna cadeffe a darglielo, farà contro di noi risentimen. 10 alcuno, per non dichiararsi da se medelima viziosa : e regolandoci con que. Ita norma faremo conoscere, che non odiamo le donne, ma bensì quei vizj, che da loro medefimc debbonli odiaren come loro capitali nemici.  Sem. Iftruitemi dunque, Mecenate, sopra questi vizj, scorgendovi molto informato di effeMec Di alcuni ne fono informato; ma cutti tutti io non li so: perche mi fido' guro che siano tanti appunto, quanti so. i no i caratteri Cineli: vi posso riferire li  più principali , che doverebbe fapere ogni marito, per potersi ben regolares scorgendoli nelle mogli. Il primo di  questi è la Vanità, la quale ha un gran i seguito di altri vizj, a se fubordinati,  mà cominciamo ora da questa, che die ď poi parleremo degli altri.  Sem. Che cosa è precisamente, ed in che consiste questa vanità? :)  Mec. Credo, che fia un vižio, tanto in esse, quanto negli uomini effeminati, diretto a procurare ftima maggiore, che competa loro in genere di bellezza.in c. 10,4:19.fi  Sem. Spiegatevi di vantaggio affinche possa comprendere meglio quanto avete detto.  Mec. Ciocche dilli mi pare chiaro', con tutto ciò mi spiego più diffusamente , e dico: che se una donna, ò-un uomo effeminaco deformi procureranno  pre  all  prevalersi di superfui abbellimenti a fine di comparire belli, pretendendo das ciò ricevere stima maggiore nel concetto delle persone intorno alla loro bel. lezza. Questi saranno vani.  Sem. Dunque le belle non saranno vane, non avendo d'uopo di fienili abbellimenti.  Mec. Ponno cadere queste ancoras in detto vizio ; quando paresse loro di non essere tanto belle, che abbiano a rapire il cuore di tutti, e perciò effe credessero colla vanità di potere diveairvi a quel segno.  Sem. Come fono numerose le donne di questo genio?  Mer. Poche sono quelle, che non lo abbiano ; la moglie di Publio è tras quefte, che odiano la vanità.  Sem. E che! la vostra moglie, Publio, non si ornava, come le altre , quando era giovane ?:  Pub. Si ornava in quella forma, che io desiderava, a fine di compiacermi,non già per fare pompa di fa con altri.  Sem.  [ocr errors][ocr errors] 1  1  Sem. Come vi contenevate per firla di perseverare in cotal guisa? posciache a  alcune per breve tempo incominciano a farlo, mà dipoi vedendo le altre , che  fi adornano, b-lasciano trasportare dal i mal costume anch'efle  Pub. Avevå ella fomma venerazione alle fentenze de' Santi Padri, ed affinche meglio le comprendeffc, l'erano da me spiegate : onde adducendole sopra ciò quella bella sentenza di S. Cipriano, che dice : Non eft pudica, qua affeet at animum "altorius movere , etiam Jalva corporis caftitate ; fi afteneva ella perciò dal vestire con pompa, dovendo uscire di cafa,  Sem. Se faceffero tutte cosi, andrebbe la maggior parte assai positivamente  vestira ; imperciocche li mariti per non u ispendere, non direbbero già loro, che  fi ornassero, e studierebbero giorno ,' notte fentenze contro la vanità.  Mes. Che male ciò apporterebbe loro 2 Sem, Non altro, che si farebbe di ef  fe oggidì poca ftima; essendo che, chi non fa la lụa comparsa, come le altre, non è punto contiderata ,  Mec. E te taluna la faceffe con inde. bitarti, chi sarebbe di queste due più considerata , la yana, ò la modefta?  . Sem. Certamente quella, che più di ornaffe, perche niuna và cercando, come questa comparsa si faccia , effepdo molto noto quel detto : Unaè bibe'as, quaris nomo, Sedopor.  tet babere. Mec. Si cercano, come anche voi di. ceste, più i fatti altrui oggidi, che i proprj; onde per questo motivo yi ammetto, che sarebbe più considerata la ya-na , che la modefta; e poi quando quefti non si cercassero, non credo già, che i mercanti vogliano donare il loro; onde dipoi,che averanno aspettato un pezzo, forzati a domandare giudicialmente il loro nelle publiche udienze vi pare, che possa stare celato? ell'essere conf. derata in questo modo, vi pare, che posla apportare decoro , ò vituperio?  Pub,  [ocr errors][ocr errors] d  Pub. Senza queste vostre rifellioni, di forma cattivo concetto delle vane solamente a rimirarle, şi era ornata Thamar c deposti avea gli abiti yedoyili  più modefti, e Giuda quando la vide i in quella forma, che concerto ne fè di  effa? Suspicatus eft efe meretricem: Genef. 38. vedere dunque yoi, Sempronio, come sono considerare le vane da parenti anche più congiunri?  Sem. Dicemi, che altro pregiudizio apporti questa yanicà ?  Mec. Quando esce fuori de' suoi limi. ti, hà due altri vizj, che per l'ordinario noll'abbandonano, e sono la prodi. galità, e l'impudicizia  Sem. Sono queste certamente due peflime compagne, le quali possono apportare gran male, infidiando alla ro. ba, ed all'onore; mà è seguitata da alţri vizj?  Mer. E più correggiata la yanità das cu efli, di quello sia un Generale di esser  cito da 'suoi Officiali, posciacche 120 fuperbia, l'invidia, il dispreggio, l'ineganno, con molti altri di questa perversa natura, a vicende la servono, onde chi è vana, è anche superba , invidiosa , dispreggiatrice, e fraudolenta, tramando sempre inganni, e frodi.  Pub. In conferina di questo, diffe S. Crisostomo. In Gen.fim Homilia 41. A corporis cultu innumera frunt mala , arrogantia, que intus nafcitur, defpectus proximi , faftus spirisus, animą corruptio, voluptatum illicitarum fomes &c.  Sem. Questa vanità fino a che segno potrebbe tollerarsi nelle donne?  Mec. Sarebbe certamente indifcreto quel marito, che non tollerasse alla moglie giovane una mediocre vanità, quantunquc da questa fi poffa facilinente fare passaggio alla grande ; dee bensi per tema di ciò egli ftare vigilante, affinche non trascenda questa i suoi limiti, li quali le vengono prefissi dall'onesto: e lidee questa tollerare ancora, affinche s'inducano alcune più facilmente a pren. dere marito. Pub. Sant'Agostino riprese rigorofa  men  [ocr errors] [ocr errors] mente Eudicia per voler andare troppo ncgletta nel vestire, e le fè incendere, che averebbe dimostrata umiltà maggiore con ubbidire a suo inarito , che a vestirsi di panno vile, per lo spirito di contradizione , esclamando il Santo :  quid absurdius, quam mulierem de bumi. I li vifte  fuperbire ? Sem. Come li conoscerà, che questa trascenda i limiti prefilli dall'onesto a    Mer. Allorche una donna vorrà rico-  prirsi di gioje, e di oro, e quello è peg.  gio, senza riflettere se le sue entrate lia-  no sufficienti a poter fare tante spele,  venendone di ciò ripresa da Ovidio poe-  ta lascivo, dicendo: Quis pudor eft cenfus corpore ferre Juos?  Ed altrove.   Gemmisque auroque teguntur  Omnia , pars minima eft ipfa puellae fui.  E Properzio dice anche di più.    Matrona incedit cenfus induta nepatum   Pub.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] L 3  Pub. Seneca al 7. de Benef. dice ancora : Video uniones non fingulos fingulis auribus comparatos; jam verò exerci14 aures oneri ferendo funt ; junguntur interje, & infuper alii binis fupponuntur Non faris muliebris injania viros fubjegerat , nifi bina ar terna patrimonia auribus fingulis pependisent. Ma meglio di ogni alero S. Ambrogio : De Nabut. Ifrael. cap.s. lo fa capire . Dele&tantur compedibus mulieres dummodo auro ligentur non putant onera effes fi pretiofa funt: non pusant vincula efi, fi in iis shefauri corufcant : delectant de vulnera , ut aurum auribus inferatur, do margarita depen. deant c. E finalmente conchiude . Non parc unt dispendio , dum indulgent cupidisati. Laonde fantamenre dice l'Ecclefiafte ; Averre faciem tuam à muliere compta.  Sem. Må se sarà nobile , non potrà fare di meno, quantunque le sue rendi. te foffero tenui, di non ornarsi pomposamente, vedendolo praticare da chi è mcno дobile di ella.  Mece  [ocr errors] Mes. Ditemi per cortesia, forle che questa sua nobiltà, senza danaro, potrå fodisfare il costo di tante pompe?  Sem. Mi perfuado che nòsmå pare una certa cosa, il comparire meno delle alo tre, alla quale, chi è nobile non si può accomodare. Mec. Anzi queste , per  fár comparire maggiormente la loro nobiltà, non doverebbero soggettarsi a cose vandag per far conoscere inlieme, ch'essa rin fplenda assai più dell'oro, e delle gioje. Sencite, ciò che diffe a tale proposito la saggia moglie di Focione ; come riferisce Plutarco nella di lui vita. Şi trovava un giorno questa illuftre Dama ins conversazione di altre donne, ornate tutte pomposamentes vi fu chi le disse: perche non era venuta essa ancor adornata come le altre, cui rispose : che le bastava per ornamento la virtù di suo marico, al che non seppe che replicare la più curiosa, e vana delle altre.  Pub. A questo proposito dice Aristocile, che il buon ornamento nelle don  ne', non debba già consistere nella pompa, mà bensì nella modeftia, e nel modo onesto, e decente di vivere ; il quale fu da Aspasia praticato, come riferisce Eliano , quantunque ella avesse avuto per  mariti due gran Monarchi; cioè Ciro, & Artafferse, ciò non ostante fi feppe ella così bene guardarc dalla soverchia curiosità, e pompa, che recò am mirazione a tutto l'universo. Elodando Plinio la moglie di Trajano, non seppe apportare fatto più glorioso di queIto a suo favore: che di efferli, come donna mantenuta sempre lontana dallas vanità superflua.  Sem. E se l'entrare fossero sufficienti, potrebbe dirsi vana una, che trascendeffe i sudet i limiti?  Mec. Se la vanità non fosse unira col. la prodigalità, forse che in questa, se non trascendeffe molto, sarebbe rollera bile, ma il vizio della prodigalità non le permetterà moderazione alcuna; posciache: Prodiga non sentit pereuntem fæminas fenfum. E poi credete voi, che'l fine, per cui fi orna a quel segno, fia sempre onesto? non lo credetre già Seleuco , quel gran Legislatore de' Locri, il quale fè quefta legge; che non fosse permesso ad altre donne di ornarsi pomposamente, se non a quelle che volevano amoreggiare, e fare anche di peggio; e sappiare , che, fù questo un gran rimedio contro la vanità; posciache divenne quel Dominio per qualche tempo modeftiilimo, spor gliandosi le donne delle loro fupes Aves pompe. Quindi è, che da saggio padre operò Lisandro, come riferisce Plutara co, con rimandare a Dionilio tiranno le preziose vefti, che aveva mandate in dono alle sue figliuole, con tutti gli altri ornamenti; con fargli incendere; che averebbero più tosto tali ornamenti viruperato le sue figliuole, in vece di or. narle.  Sem. E le ricchissime, che non soggiacciono al pericolo d'impoverire,perche non poffono fare tutto quello sfara fo, che bramano?  1  [ocr errors] tutte  Mec. Non tutto quello, che si può, è convencvole a farli. Giovanna di Navarra consorte di Filippo il Bello, trovandosi in Burges, mortificò molte Dame, che andarono a visitarla con abiti sontuofiffimi , dicendo loro. Credeas effere in questa città io solamente la Reging, mà ne trovo mille.  Pub Chi brama servirsi bene delle proprie ricchezze, non dee impiegarle per  fodisfare le sue voglie, ed in cose superflue ; dee ancora pensare and quelle, che sono maggiormente necef• farie, che ornano l'anima, come insegna S. Cipriano dicendo : locupletem te effe dicis e utere divitiis , fed ad bonds are tes; divitem te fentiant pauperes &c.  Sem. Se taluna fosse deforme , potrebbe ornarli più dell'onesto per comparëre bella e  Mec. Faccia pure quanto può la deforme , che fempre scoprirà di vantage gio la sua deformità; e guai a quelles, povere damigelle, che vi harno a conbattere, perche rimirandofi allo fpero  [ocr errors]  chio, deteriorare più costo con quelli   abbellimenti, che li pongono, si per-  suadono, che per difetto di effe ciò deo   tivi', non sapendo bere addattarli, ed  a questo proposito cosi parla Giove-  nale,     Quid Pfecas admifit , quænam eft culpa puella  Si tibi difplicuit nasus tuus?   Sem. Consideriamo i sarti quanti rimproveri riceveranno di vantaggio  Mer. Vi fù uno di questi gli anni scorfi, che avendo portari alcuni abiti ad una ricca, e deforme, ed allorche se li provava , diffe, che non erano ben fata ti; perche non le stavano bene al viso ; quel povero uoino vi ebbe un pezzo fof. ferenza, må alla fine le disse : Signora io gli ho fatti a misura della sua vita , alla quale vanno benissimo , non già del suo viso; onde questa non è colpa mia , mà deila natura, se non stanno bene  ad effo.  Sem. E le brutte, è belle, che siano adoperando i bellectiglo fanno per vanitá a  Moc.  Mec. Questo certamente è molto dubioso; posciache, se lo fanno per essere stimate più belle, s'ingannano, mentre ogni uno, che le rimira, le tienes per copie mal dipinto, non già per ori . ginali, e voi sapete ; quanto lieno più  timati gli originali delle copie, quantunque pajano ben colorite; e poi quel mal odore, che tramandano quegli unguenti posti sul viso, come le possono rendere amabili? ed udite Plauto, come ne parla, Vei fefe sudor cum unguentis fociavit  illico, Ibidem olent, quafi cum una multa jura  confundit coquus, Quid oleas , nefcias ; nifi id unum male  olere intelligas. E Giovenale così dice: Interea fæda aspectu , ridendaque's  multo Pane tumet facies, aut pinguia popeana Spirat, hinc miferi vifcantur Labra  marici. Ed in appresso;  Tal  Tot medicaminibus , coctaque filiginis       Offas  Accipit , & madido, facies dicetur anni   ulcus ? E guai a queste se intervenissero al giuo, .co, che inventò Frine, riferito da E rasmo lib. 6. Apophtegn.pofciache si troverebbero confufe, e mortificate. Ef sendo ella in conversazione di donne; tra quali ben si avvide effervene non poche bellettate , introdusse il giuoco del1e penitenze, uscendo a forie chile doveffe comandare; e toccando a lci, ordinò, che fosse portato un gran carino pieno di acqua', e che ciascuna dovesse ja varsi il viso, come ella faceà ; 'non poterono le altre scufarfi, effendoli'impegnate ad ubbidirç, e ne seguì da ciò tal metamorfofi,che li domandava il nome ad alcune non riconoscendosi più per quelle , ch'erano prima.  Pub. Bisognerebbe , che leggeffero S.Ambrogio : Examer. 6. cap. 8. per illuminarsi, ove dice : Deles picturam' mulier , f vultum tuum materiali candore,oblinius, fi acquifito rubore perfundas : ila la pi&tur a via, non decoris eft ; illa pi. Eura fraudis , non fimplicitatis eft ; illance pictura temporalis eft, aut pluvia, aut Judure fergiiur : illa pi&tura fallit, de ripit, ut neque illi place as , cui placere de  laderas , qui:nielligit non tuum, fed alicnum effe, quod placeas, & tuo displiceas auctori , qui vidiet opus fuum efl deletun; ed apporia inoltre, lib.i. de Virginibus, un dilema affai calzante a questo propofito, dicendo, fepulchra es, quid abscomderis? fi deformis, cur te formosam effe mentiris? neç tud conscientia , nec alieni gratiam erroris habitura?  Şem. Lo faranno çalvolta le bruite per ricoprire ļa ļoro deformità.  Mes. Quanto s' ingannano queste; posciache in vece di ricoprirla più costo in tal guisa la rendono palese a tutti; cfsendo che non potendo mai fare in modo, che non si conosca ciocche di più del naturale si sono poste sul viso, das Joro medesime si discuoprono per defore mi, çon pregiudizio anche delle bells,  Şe  [ocr errors] [ocr errors] se ciò facessero; perche saranno queste ancora credute di ayere difetti tali, che abbiano d'uopo di essere ricoperti; E se poi la deformità proveniffe dall'improporzione delle parti, che non è male da biącca, come la potranno rimcdiare? posciache converrebbe in tal calo inventare il modo da profilare mcglio il naso, ristringere la bocca, e di slargare la fronte, ed a questo non potendo ațrivar esse senza maggiormente deformarli, perche dunque li pongono a garreggiare col Divino Artefice, che così le formò per fini a lui ben ooti?  Sem. Hò udito però, che quelle, che cadono in fimile errore, sia impoffibile, che possano più aftenersi dal non farlo, e queste in che modo le coayincereste Publio?  Pub. Sono certamente infelici quelle donne, che non piacciono a se medefime , come disse S. Cipriano , de Bon. Pud. femper eft mifera, que non fibi places qualis eft. Onde queste difficilmense potranno convincerli; con tutto ciò,  quan:  Tollens ergo  quando' mai godessero un momento di mente tranquilla , domanderci loro, se amano più la bellezza dell'anima, è quella del corpo, e dicendomi, come è più verifimile , ch'amino più quella dell'anima , apporterei loro ciocche dicc S. An:brogio : in Examer 6. cap. 8.  ergo membra Ch ifti faciam membra meretricis? Abfit, quod fi quis adulteret opus Dei; grave crimen admittit , grave eft enim crimen , ut pures, ut melius te bomo , quam Deus pingat . Grave eft , ut dicat de te Deus, non cognofco 16lores meos , non agnofco imaginem meam, non agnofco vultum, quem ipse" formavi, Rejicio ergò quod meum non eft , illum quare, qui te pinxit , cum illo habeto confortium , ab illo fume gratiam, cui mercodem dedifti. Quid refpondebis ? ed udite ancora quanto lo detefta S. Cipriano de Habit wirg. Manus Deo inferunt quando illud, quod ille formavit, reformare,  transfigurare contendunt , nefcientes quod opus Dei eft omne quod nafcitur:Diaboli, quodeumque mutatur ac, tu te exi,  Jimas impunè Laturum tam improbare meritatis audaciam Dei artificis offenfama Ut enim impudica circa bomines, du inn cefta fucis lenocinantibus non fis ,' corruptis, violatisque, qua Dei funt péjor adultera derineris dc.  Sem. Quelle, che fi bellettano, mi persuado certamente, che non averanno uditi gliaccennati sentimenti di queisti Santi; perche in verità, sc riflettes sero attentamente a ciò , che questi di cono, fi alterrebbero dal farlo; mà vor: rei sapere in oltre da voi, Dottore, se pollano queste lordure, che si pongor Ho le donne sul viso, essere di nocumento alla loro salute?  Med. Sono senza dubio molto dannosi; perciocche se il tingerfi solamenrei capelli ha apportato a molte la mor- to, come riferisce Gal. de comp.medic. fec. locos , cap.3. de tinet.capil. oye dice: Non folum enim in periculo verfatas fape frio -fæminas ; fed mortúas ex perfrigeratione capitis per hujufmodi pharmaca induéta , Ed Aczio parimeate afferisce , libr. 6.  M  CAP  1  cap: 57. di averne vedute morire alcune per tale cagione apoplettiche, e tabide; quanto più facilmente potranno es. fere danneggiate da cosmetici , ne' quali entra il solimato? E posso io asserirvi di avere veduta più di una di queste divenute , ò asmatiche, ò apopletriche, à paralitiche, ò idropiche in érà proverra; senza poi quel danno, che suode recare in gioventù a tutte , ne' loro denti ; e gignive; nè preftino fede a coforo, che fabricano belletti, quantun. que dicano di averli fatti fenza folimato, poiche le gabbano.  Sem. Si che dunque aon gioveranno ne per l'anima, ne per il corpo? Mas come si doveranno regolare i poveri mariti , fe queste fi oftinaffero in voleres tutte le cose alla moda 2  Mer. Io non farei altro, che spiegare loro i seguenti vèrsi di Properzio ar. vocato di effe : * Quid juvat arnato procedere vitta ca  pillo  Et tenues Cos vete movere finns ?Aut quid orontea crines perfunderes      mirra?  Teque peregrinis vendere muneribus ?  Naturęque decus mercato perdere cultu?  Nec finere in propriis membra nitere   bonis estir's Ed altroye: Nunc etiam infectos demens imitance  Britannos Ludis, o caterno gincta colore caput, E soggiunge :  Ut natura dedit, fic omnis recta figura,  Turpis Romano Belgicus ore colar E Plauto ancora, che pone in derisione queste  tante variazioni di mode : dicendo in Epidico  Quid ifta ? Quo quotannis nomina in      In veniuntur noua  * Tunicam rallama tunicam spilam    Linteulum, Cæcisium,  Indosiatam, Palegiatam. Calšbulan,   aut Crocotulam. er. Pub. Allai meglio facente, Mecenate, a fare intendere loro ciò che dice San Cipriano dihi de babitu Kirginum ; ovewi  .  Ceterùm fi tu te fumptuofiùs cumas, per publicum notabiliter incedas , oculos in se juventutis illícias', fufpiria adolefcentum poft te trabas , concupifcendi libidinem nuFrias, peccandi fomitem yuccendas, ut fi ipfa non pereas, alios tamen perdas, velut gladium te, du venenum videntibus se prabeas * excufari non potes , quafi mente cafta fis, do pudica s redarguit te cultus improbus id impudicus ornatus , conforme lo fa conoscere Aufonio in Delia, od ei Delia, nos miramur ,'eft mirabile ,  quod tam Diffimiles eftis ruque , fororque túa ; ?> Hæc habitu casta , cum non fit caffats  videtur, Tu preter cubium nil meretricis habes. Cum caffi nores sibi fint , buic cultus  honeftus, Te tamen, cultus damnat, caftus  cam.  Sem. Parfando ora all'ira , queltas noir mi pare, che abbia tanto dominio i nelle donne, quanto negli uomini, aven  do  [ocr errors] do veduto adirati più questi, che quelle alcune volte, che mi sono abbattuto seco in Gimili contingenze. x  Mec. Non doverebbero certamente le donne adirarfi ; pofciache divengono allora talmente deformi , che più non si riconoscono , .quanto mai li erasfigurano; onde avendo effe in orrore la deformità, doverebbero anche odia. re la cagione di essa ; Ma yoi , Sempro, nio, le averete facilmente trovate in bonaccia, non già in tempo di furore ; e perciò dite, che vi pajono gli uomini più colerici di esse; fe però vi foste abbattuto nel vedere adirata Ja moglie di quel povero, Grammatico riferito lepidamente da Ausonios diversamente para lcreste ; mentre di essa cosi dice: Anma', virumque docens, atque arma  virumque peritus':' Non duxi uxorem , fed magis arma do  1  ܢ ܀  Namque dies fotos y Botafque ex ordine  ! noctes :: Liribus oppugnat a, meques meumque  Ata  [ocr errors] M 3  giam !  Atque , ut perpetuis dotata à Marre  duellis risin Arma in me follit , nec datur ulla  quies: Jamque repugnanti dedam me, wide  nique victum Jurget ob hoc folùm, jurgia quod fuOltre di che Salomone, che non 'mentisce, dice ancora: non eft ira fuprà iram mulieris .  Sem. Non saranno però ofinate les donne, che averanno i marici più rifenciti di effe , e non tanto buoni, come era il sudetto Grammatico? 0:0,  Mec. L'oftinazione alle volte liavanza tanto in effe , che le rende incorre. gibili, come comprendercte ancora dal feguente avvenimento riferito dal Poga gi. Vi fu una di queste» che dopo ave. rc ricevuto moltisms bastonate da fuo marito, non potendola far ritrattare dall'ingiuria, che gli facea, chiamaadolo pidocchiofo,la calò anche nel poz . 30, fin tanto che poteva parlare sem..  pre  [ocr errors] pre fu percinace nel medesimo disprego gio ; finalınente, avendo anche la te. ita fommersa nell'acqua, colle unghie de deti grosli soprappoftę gli faceva cenno di quello , che averebbe colla voce pronunziato , se avesse potuto Oltre di che il vizio della vendetta facilmente di collega con esse, dicendo : Giovenale:Vindicta  Nemo magis gaudet , quam femina.   Sem. Le finzioni, e le menzogne and che segno s'internano acll'animo dona, nesco ?  Mec. Nelle donne scaltrite più affai, che nelle milense:Ben è vero però,che se s'incontreranno in mariti accorti, apporteranno loro gran danno le proprio finzioni, e menzogne; come appunto seguì alla moglie di Teodofio à allas quale avendo egli donato un pomo di eccessiva grandezza , volle ella gratifi care con esso uno de principali Signori della corte, il quale due giorni dopo mandollo in dono all'Imperatore ;quantunque mostrasse apparentemente di gradirlo n'ebbe per ò egli intern rammarico;perloche essendo cornato dipoi dall’Imperatrice, domandandole, se riteneva più quel bel pomo; gli rispose, che lo aveva mangiato, ed avendola pregata, che avesse fatta matura riflessione a quanto diceva, ella ostina. tamente confermava il suo derto; allo. ra l'Imperatore per convincerla lo fè portare in sua presenza, ele disse: Voi Giete una finta donna ; ne mostrò in av. venire feco più confidenza .  Sem. Hò uditi con molto mio rammarico i difetri donnefchi; consolatemi ora voi, Publio, con riferirmi le Virtù delle donne, ed in ispecie qvelle, che ponno apportare profitto alli mariti. & Pub. La Prudenza, e l'Amore Gince. ro sono le principali virtù, che debbono risplendere nelle mogli.  Sem. Ma di queste Virtù sono capaci Je donne? Pub. Non può dubitarf di ciòyinenero  le  le ftorie non solamente profane, ma faa cre ancora lo confermano, e presentemente vediamo anche risplenderé mole cisime di effe con fimili virtù.  Sem. Perche duaque fi dice tanto ma le delle donne  Pub. La cagione di ciò la trovo in Euripide, il quale dice:  Miferrimum eft muliebre genus , femel  Nam , quæ peccant etiam immeritis   Dedecorifque funt mulieribus, com   municant vituperium, Mala non malis , Ma questo, e un abuso grande, ed in. giusto posciache contro di noi altri uomini non si costumà addollarsi a' buon il vituperio de' cattivi, e qual ragione dunque vuole, che ciò militi contro di effe ? Ovidio però le difende da tale in. giusta maledicenza con dire:  Parcite paucarum diffundere crimen ist  Spectesur meritis quaque paella fuis.   Sem. Voglio credere che donnes prudenti vi siano ffate ayendo udita  rasa  omnes:  raccontare molci saggi farci delle Porzie, Cornelie , Paoline, e  Paoline, e di altre ; Mà di queste , che con amore sincero abbianoamato i loro mariti vorrei udirne riferire qualche altro csempio per meglio accertarmene.  Pub. Vi posso fodistare in questo picnamente, e principiando dal grande, e fincero amore', che mostrarono a loro mariti carcerarile donne Spartane;men. tre queste andando a visitarli li ferono vestirc de iloro abici, ed effc rimasero carcerate: pafferò poi a riferirvi, ciocche fè Cabadis Reina di Persia, la quale parimente liberò suo marito carcerato con vestirâ ella de' suoi abiti, e rima. nere priva della sua libertà , c vita ancora · Riferisce parimente il Tarcagnota un fatto molto riguardevole a tales proposito. Avendo ottenuto per capi. tolazione di uscire solamente le donne dalla città di Vespergia cariche di quello, che più loro piaceva, abbandonando queste oro, e supellectili preziose, she avevano, trasportarono sulle spal.  le  [ocr errors][ocr errors] le i loro più congiunti. Ed udite finalmencé un esempio singolare dell'amorce sincero di una saggia Regina, riferito dal Padre Cordier · Roberto Re della gran Bertagna si trovava ferito con una laetta velenata , fu giudicato da’Medici per unico riinedio il farla succhiare da cui avesse voluto esporre la propria vita, per salvare quella del Re ; la Regina sua moglie fi mostrò prontislima di farlo, ma non voleva in conto alcuno il Re permetterle, che si esponesse a tal pericolo. Chę fè l'amorosa moglic ! aspetto, che fosse addormentato , ed allora appunto, sciolta la ferita , succhiolla intrepidamente, e con tanto felice successo, che rifano il Re, senza riportarne nocumento alcuno l'amorosa Consorte...  Sem. Persevereranno queste prudenti, ed amorose consorti semipre nella. medesima forma ?  Pub. Se faranno i mariti prudenti in faperle bene diriggere, lo fåranto, come udirete nella seguente ConfeTenzi. CONFERENZA VIII.  Come si debba regolare l'uomo    colla moglie scelta di ottime   qualità.  Sempronio , Publio, Mecenase ,  e Medico  M  Som.  perfuado, chief sendo la giovane di ottimi costumi,non civoglia grandparte nel regolarla, po  sciacche da se mca delima sapra ben governarsi.  Pub. Non è già così , Sempronio ; quantunque sia buona, ci vuole anche attenzione in reggerla , affinche non divenga cattiva , perche conforme fi dice, che prendendo marito, muci sta10, può anche cambiare costume; im,     [ocr errors] L2perciocche il corso è di molti anni, é fi dee navigare in un mare, nel quale s'in. contrano de' scogli, e continuando la metafora , descrittami da quel vecchio, che la donna sia la nave; questa quan. tunque non abbia difetto alcuno, da se fola, e senza chi la indirizzi, a fola di: screzione de' venti , che sono i suoi pen• ficri, non può giugnere al defiato porto della felicità , onde conviene, che l'uomo faccia da nocchiere, e non dor ma; quantunque fia bonaccia..  Sem. Infegnatemi, dunque come do. vrò regolarmi, per non errare?  Pub. Potrò riferirvila direzione del la quale io fteffo mi sono servito, eve: drete, fe questa vi aggrada. ' Sem. Avendola voi posta in esecuzio. nc felicemente, poffo fperarne anch'io profitto.  Pub. Ebbi alla prima quest'avverte11za di non addomesticarmi seco in ecceso fo, ma solamente, quanto bastava per -farle conoscere, ch'io l'amava , c perciò la rispettava , ferviva, ed oporava s  mà  mà çon tenere sempre un tale qual den, coroso fuftegno. Procurava in oltre, ché non iscopriffe il mio debole, c per fare prova del suo afferto, di quando in quando, mi facea da essa scorgere penberolo, ed alle volte ancora alquanto mesto: non li assicurava ella di ricerca. fc la cagione di ciòs solameore dopo qualche giorno, faccosi animo, mi diss fe: Signore, yorrei vedervi allegro, comc debbono essere i spost ; fe poffo io sollevarvi in cosa alcuna , eccomi pronta': comandatemi, ed indirizzatemi che non ricoferò di obbedirvi . Mi senti a tale corcese offerta immediatamente giubilare il cuore, e le rispoli con faccia ilare : Signora viringrazio delle obliganti esibizioni, che voi mi fate, u vi afficuro , che me nc prcvalerò, avendomi molto sollevato con questo voftro -corcese parlare : E guitai immediatamente di quella confolazione registrata nell'Ecclesiastico al 26. Gratia mulieris -Sedula delectabit virum fuum, copaiba ljus impinguabit .  Sem.  6  [ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse entrata in sospetto , che voi non l'aveste amata?  Pub. Questo non poteva crederlo perche, come diffi , la rispettava, cd onorava con particolare artenzione ; cd essendo ella prudente, ben fi avvedeva, che della sua persona era sodisfattiffimo;  sospettava bensì, come mi riferi dipoi, il che da altre cagioni ciò veniffc ; u  con bel modo tanto fè, che alla fine un i giorno, dapoi avere presa meco confia  denza maggiore , interrogandomi sopra ciò, seppe da me la cagione de' mici turbati penfiori ; cioè : che questi dcrivavano dal timore, che io aveva di non cffere ancor baltantemente capace di cducare bene i figliuoli, e di non sapere mantenere fino alla morte il reciproco affetto coniugale a quel segno, che fi dovea .  ! Sem. Che rispofe ella?  Pub. Con volto ilare mi replicò, che a questo dovea anch'effa contribuire la sua parte , ic perciò ca ayefli pur deposto la metà di detti pensieri , ch'erano tuoi.  Sem.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se vi aveffe risposto ; penfiamo ora a darci bel tempo : figliuoli non po abbiamo quando quefti nasceranno Gi farà, come li potrà, non ci contriftiamo ora di quello, che non è presente.  Pub. Non fi parlava così in quei rempi, ne' quali il divertimento non erao anche divenuto affare creduto rilevan. te, ed essenziale, che richiede sfe giornata intera ; era bensì creduco effenziale il provedere quanto faceva d'uopo, ed il prevedere ciocche poteva fuccca dere. ... Sem. Vi manrenne la parola data di sollevarvi , quando sopravenne il bisagno  Pub. Fè anche di vantaggio, pofcix che fcoperto ch'ebbi il suo buon animo, un giorno così le parlai: Signora mia, voglio, che camminiamo di buon conia certo in reggere la casa ; abbiamo tansto assegnamiento, che può bastare as Amantenerci nel nostro stato decorosamente ; pofliamo tenere tre fervitori, due per lei, ed uno per mc , una ser  [ocr errors] vente, ed una matrona, ed avere la  noftra carrozza, che serve ad ambiduc; of dividiamo ora l'incumbenza: voi pen+ ferere alla tavola, alle biancherie, ed  io al rimanente ; dell'esazioni voglio  ne fiare anche voi consapevole per vom  ftro governo ; ficcome ancora dell'esi-  to, per caminare di buon concerto tra  noi nello spendere: debiti non voglio  ne facciamo, nè avanzi considerabili  fino a tanto, che abbiamo l'assegnamen.  to fiffo , c non amministriamo tutte le  rendite; e basterà , che solamente po-  niamo da parte ogni anno qualche cosa,  per fupplire alle stagioni fterili, alle ritardate rescoffioni, ed alle spese straor-  dinarie, per non ritrovarci allora bilo-  gnosi di danaro : All'educazione de' fi-  gliuoli penseremo concordemente, al-  lorche Iddio li manderà.   Sem. Ed essa accettò queste brighe ?    Pub. Anziche mi ringraziò ; mo-  strandofi contentissima, per averla po-  fta a parte del governo.    Sem. E se aveffc risposto; io non vo- glio ingerirmi in questo affare ; pensateci voi, col maestro di casa; perche non voglio prendermi questo tedio?  Pub. Sarebbe stata troppo ardıca simile risposta in quei tempi, ne quali crano molto rispettati dalle mogli i mariti , contentandoli vivere subordinate ad effi , e non succedca già come dice l'Ecclefiaftico al 26. Mulier si primatum babeat , contruria eft viro fuo; perche qucfta maggioranza non la godevano.  Sem. Mà come riusciva in quelle cose , che le toccavano di fare?  Pub. A maraviglia bene; posciache aveva la matrona , ch'era donna savia, e consigliandosi con essa lei, divenne in breve tempo espertisfima in tutte quelle cose, che le appartenevano.  Sem. Chi potrà trovare oggidi quefta matrona non costumandosi più tal servigio ? e poi quando anche si trovassc, diventerei ridicolo, se prendesi, per servire mia moglie, la matrona .  Pub. Perche ridicolo? forse che fa. rebbe cosa mal fatta?  Som.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. Non dico mal facta , mà effendo in disufo , farebbe segnato a dito, chi l'introduceffe.  Pub. Mà da chi? forse da' savj, u prudenti?  Sem. Non credo da questi ; mà bensi da tutti quelli, che non costumano te. nerla.  Pub. Or io di questi non mi prendcrei soggezione alcuna; mi dispiacereb. be bensì , che i savj biasimassero le mie operazioni ; imperciocche possono farvi altro dispetto costoro,che non son savj, che di non conversare con esso voi? E che perdita da ciò riceverefte? ogni qual volta questo provenga, non per cagione di cosa malfatta, mà più tosto decorosa, ed onesta, che sono vantag. giose per voi ; nel qual caso efli li renderebbero meritevoli della censura de' savj. Io vi poffo ingenuamente confessare, che se non fosse stata in cafa mia la matrona, che avesse indirizato da pria. cipio la mia consorte , non averci già goduta quella tranquillità di animo fpe  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] rimentata fino al presente; posciacche questa matrona essendo nata civilmente, e così ancora trattata da me, dando alla mia conforte buoni conligli, la istruiva ottimamente, e perciò non vi è stata occasione alcuna di discordie tra noi; il che non sarebbe già seguito, se fi fosse configliata con qualche donnas ordinaria, e giovane, da cui facilmente pellimi consigli averebbe ricavati.  Sem. Questa matrona itava al fervia gio attuale?  Pub. Quantunque fosse falariata, era però distinta dall'altra donna, che mi serviva, e faceva molce cofe spontaneamente di più di quelle, che le toccavano, per l'amore, che portava alla casa, ove sperava terminare i suoi giorni; non costumandofi licenziare queste , fe non per cagioni assai gravi, le quali raro volte accadevano ; e quando la Signora partoriva , essendo pratichisimas; non li può esprimere , che aflistenza le prestava in tutto quello, lc occorreva ; ed in tempo di malattie cra singola  re;  2  re; oltre di che nell'educare bene i figliuoli, e le femine in ispecie, cra mol. to eccellente, sapendosi far amare, a rispettare insieme: or vedere voi quali danni ha apportato privarsi di effe.  Sem. Mà perche è stato dismesso si buon fervigio ?  Pub. Io precisamente non lo sò, può essere, che sia noto a Mecenate.  Moc. Io ho udito riferire più voltes che queste volessero fare troppo lezelaati, e perciò fi fia verificato in esse la favola di Efopo, ove parla del trattata di accordo fatto tra il lupo, e la pecor ra,contro la soverchia custodia de' cani; e per verità, vi erano alcune, di esse, che facevano la guardia alle figliuolo più di quello , che facciano i cani alle pecore; -mà questo non era motivo fufficiente per dismettere un servigio cotanto utile al decoro, ed onestà dellas casa, conosciuto ciò, anche da Tibullo quantunque molto lascivo, mentre egli consigliò: At tu cafto precor maneas, fanétique pue  Aft  [ocr errors] dorisa  N3  Affideat cuftos fedula femper anus .  Sem. Come regalavate, Publio, fperso la vostra sposa?  :- Pub. Oltre le mancie solite del Natale, e del giorno mio natalizio, che consistevano in dodici piastre per.volta, e quando si riscotevano grosse somme, fempre qualche moneta di oro le davas, perche mi è piaciuto , ch'ella 'manegiafle danari.  Sem. E che ne faceva 279  Pub. Quando arrivava a cumulare la somma di cinquanta scudi , creava un cenfo, e la metà del frutcabo di effo dispensava a poveri, c fi verificava in lei ciò, che dice Salomone delle donne savie: Manum fuam aperuit sinopi , & palmias suas extendit ad pauperem , dell'altra si serviva per vestirdi:. ;1  Sem. E le fpilte non se l'era riservate ne' capicoli matrimoniali? LifPubi Questo non costumava allora... non facendofi tanto consumo di effe,come 'oggidì, che liveste alla moda .  Sem. Eche a non fi vertiva alla moda in quel temposPub. Si vestiva all'usanza propria det [ paese, quale era di non cangiare sì di  sovente, quella , che correva.  Sem. Non è questa la vera moda, mà bensì quella, che oggi si porta da paeli stranieri, ed indi a pochi meli, venen, done un'altra, la prima non si usa più , perche le ultiine sono quelle , che dilectano, ed appagano gli occhi .  Pub.E degli abiti di vecchia moda anche in buono essere che fe ne fa?  Sem. Si esitano a quel prezzo, che fi trova, e con discapito grandissimo,  Pub. Come costa questo vestire all? ultima moda , perche io, che vivo all antica, non ne sono in formato ?  Sem. Costa assai per verità, essendo che bisogna pagare sempre di più del suo valore quel drappo di nuova moda; mà ad alcuni ciò non da fastidio, perche i mercanti sono cosi cortesi', che lo danno in credenza. ti ''p  Pub. Questa , per parlarvi con tutta fincerità, mi pare la vera moda diandare in malora; perche estendo sì cari,  Conf. 8. Dec. prima ed il mercante volendo alla fine essere pagato, che si farà allora , non essendovi danaro per sodisfarlo?  Mec. Si mucerà paese, e per verità quando questa nuova moda non era tanto in uso non si vedevano già i galant' uomini , divenuti per essa miserabili, nè mutare paese, essendo per loro poco sicuro quello, ove vestirono a tutta moda.  Sem. Con chi coversava la vostra fposa ?  ? ? Pub. Con i suoi parenti più proflimi , li quali in giorni festivi, in occasione di male , ò di altri bisogni venivano as visitarci, ed altresì noi con effi loro facevamo.  Sem. Ma non recavano noja fimili conversazioni  Pub. Anzi erano di sollievo grandislimo; essendoche i capi di casa fi ritiravano in disparte a difcorrere fopra gť iatereffi domestici; consigliandosi tras loro, per meglio regolarti, nel far colcivare la campagna, ne irinvestimenti  da  da farsi, e nel governo economico della casa : le donne poi colli ragazzi, ftavano divertendosi tra loro.  Sem. Ed in che?  Pub. Nel domandare , che profitto facevano i figliuoli,che belli premj avevano avuti da loro maestri, e come fi portavano le figliuole ne' loro lavori, i quali bene spesso portavano seco queste, per farli vedere ; e ciò serviva per  eccitar emulazione tra elli a portarli meglio in avvenire, lodandosi, e premiandos ancora chi s'era portato benc.  Sem. In detto tempo a costumavad giocare?  Pub. Questo non fi faceva , eccettuato, che in tempo di carnevalc.  Sem. Si giocava alle ombre in detto tempo?  Pub. Questo si costumava ; posciache ove si giocava, non vi era Sole .  Sem. Voglio intendere colle carte di fpade , bastoni , coppe, e danari.  Pub. Queste ne pur si conoscevano in quel tempo da esse, e se l'avessero co  no  [ocr errors] nosciute', non averebbero giocato con carre tantó-misteriose, le quali fanno vedere , che le spade, i bastoni, e le coppe , malamente adoperate consumano tutto il danaro ,  .. Sim. Ele conedie li udivano allora?  Pub. Queste erano frequentare', ò'da curiofi forestieri, è da paesani ožiofi per  alcro le donne se n'altenevano ; e se non era più, che qualche rappresentazione facra, fatta di giorno, avevano rossore di comparirvi.  Sem. Eli passeggi si costumavano ins quel tempo?  Pub. Passeggiavano ancora, mà per essercitare iutto il corpo a beneficio della salute , non già come si fa oggidi, per 'indolirli folamente la schiena , a cagione di tanti inchini, che Gi fanno, fenza muovere un paffo.  Sem. Lecafe, come erano bene a dobbate  Pub. Asai meglio', che non sono adesso, rimirandovisi appcfi nelle pareti di effe akuni quadri di carte', ches  er  [ocr errors][ocr errors] ga in  erano le piante delle tenute, che si possedevano,dalle quali & ricavava groffi ffimo frutto, ed allora non vi era tanto luffo; poiche loro, ch'oggidì s'impie  in apparenze superflue d'indorature, e nelle vanità alla moda, fi ipendeva in quei tempi assai meglio in compre diterreni, e di alcre cose fructifere. Ne si commettevano già furti di piatti, fottocoppe , bacili, candelieri, ed altri vali di argento ; perche questi allora. erano. assai meglio custoditi ; effendo pochi elli, che gli aveano, e perciò di rado ancora venivano adoperati. -Sem. Sapete Mecenate, che mi crovo confuso a cagione di questo racconto fatró da Publio, riflettendo a ciò, che sarebbe più utile , mà non lo potrò seguitare, per il diverso costume introdotto oggidi ; e dichiarandomi volere vivcre così, non troverò moglie; dall' altro canto a seguitare il modo, che si tiene, sono arrivato a comprendere , che è molto dannoso per cutti i verfi. Dunque che dovrò fare?Mec. Di non isbigottirvi punto per qucsto. Scegliete voi il modo, che credece migliore, e dichiaratevi pure apertamence , che questo volete seguitare e troverete ciò non oftante moglie, u forse senza d'uopo di ricercare tanto al minuto il costume; posciache quelles giovane,che si contenterà di essere tratcata in questa guisa , sarà certamente fac via, e bene accostumata .  Sem. Mà se le altre non la vorranno trattare per non seguitare ciocche effe fanno, come si troverà ?  Mec. Che pregiudizio risulterà a voi & ad effa da questo, che farebbe la voftra fortuna? anzi voi medelimo lo do. vreste procurare, affinche non la deviaf. sero dai suoi doveri.  Sem. Or io così farò, e dica ogn'uno ciocche vuole ; perche hò uditi molti mariti sospirare frequentemente; da che provenisse questo, non lo só precisamente, sò bene, che senza cordoglio non ti sospira . Or ditemi , che altro doverò fare per mantenerla costante nel  fuo  [ocr errors] suo buon costume ?  Pub. Nun altro, che di non darle al. cun mal'esempio, e di tenerla continuamente occupata in devozioni ; affari do. mestici; e nell'educazione de' figliuoli; perche la vita oziosa è pessima, dicenda l'Ecclefiaftico: Mitte illum in operationem, ne vacet; multam enim malitiam docuit otiofitas .  Sem. Come mi dovrò contenere intorno alla devozione?  Pub. Le darete in questo voi huono esempio ,' conforme richiede l'obligo voltro ; imperciocche tanto io , quanto la mia conforte cravamo favoriti dal medesimo direttore spirituale , c trequentavamo sovvente le nostre devozioni ; la sera poi colli figliuoli, e servitù fi recitavano alcune preci, e li leggevano anco libri fruttuosi per l'anima, ed in oltre da noi si sovvenivano bene spelso i poveri, e da ciò ne hò ricavato quel bene, che si trova registrato nell'Ecclefiaftico : Mulieris bona beatus Vir, numerus enim annorum illius duplex .  Sen.  .  Sem. In che altri affari domestici la tenevate occupata ?  Pub. Effendomi avveduto , ch'aveya desiderio di copiosa biancheria , ordinavo, che fossero proveduti nelle fiere canape, lini , e cottone, é veden. dole si rallegrava molto, e li faceva filare, e reffere a suo modo; e ciò per verità la teneva impiegata qualche ora del giorno , ingegnandosi ancor essa di filare , ò d'inaspare; e facendosi le bucate in casa, rinnacciava a maraviglia , quanto ne aveva bisogno, affieme colla matrona ; ed io rimirandola cosi diligente ne godevo fommamente, vedendo verificarsi in essa quella condizione ancora di donna saggia, descritta da Salomone: Quafivir lanam, d linum, operara eft confilio manuum suarum.  Sem. La conducevate in Villa?  Pub. In certe belle giornate lo praticavo; anzi che le faceva vedere le nostre tenute, e tutti quegli stabili, che la casa godeva in campagna, con istuirla ancora, sopra quello che si poteva  fars  [ocr errors] fare di van aggio, per renderli più frutriferi; sopra di che ne ricercavo ancora il suo parere, da poi che la vidi ben, informata di tutto  Sem. E qual bisogno avevate di configlio donnescovoi, che fiece sì esperto in tali affari?  Pub. Il prendere consiglio giova agli inesperti, e non pregiudica mai a i pratici; e poi sapere voi il mio fine qual’ era:che, se Iddio mi avesse chiamato a se prima di essa fosse riinasta informata. di tutte le cose: e sappiate, che le povere vedove sono gabbate da loro miniftri, quando non si trovano informace degl'interessi domestici; il che non legue già allorche fanno ciò, che debbas farsi. Ne crediate già , che sia cosa im, propria alle donne d'essere informate della campagna, ponendo tra le condizioni di saggia donna Salomone anche questa : Consideravit agrum, a emis eum: De fructu manuum fuarum planiavit vineam. Sem. Nell'educazione de' figliuoli,  che  [ocr errors] che diligenze usavate  Pub. Eravamo tanto io, quanto essas attentiffimi a tutte le loro operazioni, per poterli di ogni minimo difetto correggere da principio; eflendo che le piante velenose fi svellano alla primas con facilità grande dalla terra,mà allorche sono ben radicate v'è d'uopo di maggiore facica. E riflettendo che tanto si fà, e quanta industria si pones per ridurre docile un cavallo da maneggio, mi pare che questa sia più necessaria d'impiegarla a pro de' figliuoli, da quali vantaggi maggiori si ritraggono senza fallo, che da cavalli .  Sem. Come viriusciva facile il correggerli?  Pub. Per verità facilisimo, perche erano docili ; e questo beneficio l'hò riconosciuto dal buon naturale della madre, il qual passò anche ne' figliuoli; scorgendoli bene spesso all'opposto i vizj de genitori paffare ne' figliuoli  ancora.  Sem. Quale induftria usavate nel di. riggerli ?un canto viera l'altarino con tutti li suoi  Pub. La prima fu d'istruirli nella pie-*** Tu tà cristiana, e d'insinuarla bene ne'lo. si ro cuori ; primieramente col buono  esempio, e poi colle parole; ed era vely ramente di consolazione grande il vede  re quei figliuolini attenti, e divoti nel fare orazioni ; e di poi, per meglio afficurarmi delle loro naturali inclinazioni, aveva fatto preparare per divertirli varie cose in una stanza spartata , ove in  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] arneli; sin altro l'armariuccio con certe armi di legno tinte, che sembravano di ferro ; vi erano ancora in altra parte din versi giocarelli puerili, ed altrove qual che libretto in una picciola scanzia ; c nelle ore di recreazione li conducevo ivi, affinche si divertisfero. Quei ch'erano portati dal genio all'Ecclefiaftico, correvano alla prima all'altarino, el ornavano in quella forma į che l'ayeano veduto in chiesa; e ciò serviva per renderli maggiormente attenti alla devozione: altri poi secondo le loro incli  O  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] na.  nazioni si divertiyano, coi libri, è   colle armi,e di rado alcuni di efli li spas,   favano co i giocarelli; e stava attentifli-   mo osservando quelli, che persevera-   vano nel medesimo genio ; perche con-   forme averete ancora voi osservato, non   è fempre uniforme l'inclinazione de’ra-   gazzi, e mi sono finalmente accertato ,  che quelli, ove il genio li portava ,  sono stabiliti in esso divenuti adulti,col-  tivava però sempre le loro inclinazioni,  vedendole disposte al buono.  1 Mec. Gli Archieli foleano condurre   i loro figliuoli ad una fiera, per com-   prendere i loro genj, e quei, che ve-  deano desiderosi di provederli de' libri,   li mandavano all'Accademia, quei poi ,   che aveano compiacimento a rimirare   le armi, li deftinavano   per       la   guerra Sem. E le figliuole, che facevano ?  Pub. In altra ftanza fi syariavano,afliftite ò dalla Madre,ò dalla Matrona,ove erano coscinetti, per commodo das cucire ; ferri da fare calzette, piccio.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Dell'Elezione della Mog. arr le conocchie, ecommode per filare ; e diverse pupazzine vestite, ò da spose , ò da monache ; ed ivi ancora chi affifteva loro', fcorgeva Vinclinazio ni, ch'avevano", rimirando a’ quali di queste cose le portava il genio ; ed in fatti quella, che si fè monaca, non si divertiva in altro, che in ispogliare, e rivestire la sua pupazzetta in abito da monaca, e l'altra, che prendette marito , sempre giocolava colla sua pupazzetta vestira da sposa .  Sem. Felice coppia! non saprei anch' io abbattermi in simile compagnia.  Pub. La troverete anche voi cercandola, perche non è già estinta nel mondo la razza di quelle di cui parlò l'Ecclesiastico al caj. 26. Mulier fortis obleEtat virum fuum, de annos vitæ illius in pace implebit.  Sem. Sì bene, mà se per mia sventura m'incontrafí in una , che non fosse così buona; che doverò fare in sal caso ? Meca, L'esaminereino nella venturas  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] conferenza, nella quale meglio anche apprenderete il modo, che dovrete tenere in, fare perseverare la buona, co(tante nel suo lodevole costume avendola scelta per vostra conforte,  CON,  the  te  CONFERENZ A IX.  [ocr errors] Come si debbano regolare i faggi    mariti con le mogli imprudenti,   e viziofe.  Publio , Mecenate , Sempronio ,  & Medico  Pub.  O, ch' hò navigato lungo tempo per questo vasto Oceano degli ammogliati, posso servire di  fida scorta a voi,che doyete entrarvi. Le maffime principali, che dovrete tenere sono queste : primieramente di operare più col buono esempio, che con semplici parole, confessando Platone, ed Aristocile che maggiore profitto fi ricavava da ciò, che si vedeva fare a Socrate, che da' suoi morali documenci. Quindi è, che'Plutarco ne' suoi ammaestramenti matrimoniali ebbe a dire: che non preten. da il marito di far divenire la moglie buona economa , s'egli coll'esempio non le mostrerà efferlo anch'effo : onde non recherà maraviglia, ciocche diffos Ovidio. Dum fuit Artrides una contentus ,  illa, Caffà fuit , vitio eft improba fuftaus  viri. Mec. L'esempio però di Socrate appresso la sua moglie Santippe nulla giovava,  Pub. Sapete perche ? Si abbatte il una donna talmente pazza, che dovea più tosto essere legata colle catene, che ammonita con esempi, e parole : mà di questo ne parleremo a suo tempo. Or proseguendo il mio discorso; in secondo luogo deesi togliere ogn'occasione, che possa farle cambiare di buona in cattiva, perciocche quantunque ottima da principio, per trascuraggine del marito può divenire peffima, ed in che  mo  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] modo uditelo da Euripide.    Sed nunquam nunquam [ neque enim,  femel dicam  Oportet prudentes, quibus eft uxor,  Ad uxorem in domibus accedere finere  Mulieres, ipfæ enim præceptores funt         malorum.  E che più ! Levina donna da principio  caftiffima per   la libertà, che le diede suo marito di andare vagando per il mondo , quanto , quanto si mutaffe  mutasse , sentitelo da questo Épigramma. Cafta , nec antiquis cedens Levina Sabinis,  Et quamvis tetrico triftior ipsa viro,  Dum modo Lucrino , modò fe permitrit       Averno,  Et dum Bajanis fæpè fovetur aquis,  Incidit in flammam, juvenemque fequuta , relicto     Conjuge, Penelopes venit, abiit Helena.  E d'onde ciò avvenne, se non dalla li.  bertà, che le diede il marito ? Nè Mef-  salina averebbe già commessa quella sì  enorme scelleragine di sposarli con Silio   [ocr errors][ocr errors][ocr errors] publicamente, e nel palazzo imperia, le , fe Claudio Imperatore l'avesse condotta seco ad Oftia; del qualc attentato parlandone Tacito arrivò a dire : laborabit annalium fides; c credete forse , che se Ottone non avesse lodata a quel segno la bellezza di Poppea Sabina sua moglie alla presenza di Ncrone, glie l' averebbe tolta ? non già ; ma il pazzo arrivando a dire, nel levarsi dalla menfa dell'Imperatore, che se ne andavas lieto a trovare sua moglic stupore di bellezza, a lui solo concedura, e desiderata da tanti, e volete chc Nerone, udendolo non s'invaghisse di essa ?  Sem. Averanno forse da tenerli chiu. se le mogli per far verificare, ciocche disse il Satirico ? Pone feram choibe , fed quis custodiet  ipfos Custodesē cauta eft, & ab ipfis inci  pit uxor. Pub. Io non intendo dire questo, mà folamente di trattarle, come diffe Tacito del popolo Romano , che: nec tam,  tam  [ocr errors][ocr errors] fam feruitutem pati poteft, nec totam libertatem , cioè colla misura di mezo, discreta, e giudiziola e finalmente conviene compatire molte leggiere debolezze di effe con non farne calo, di quelle particolarmente, ove non si scorge malizia, e cattivo fine ; ¢ quando mai vi fosse d'uopo di rimedio, non dee questo darsele in publico, nè con istrepito contenzioso, e riflettere a ciò, che dice Plutarco; che Venere fù collocata dagli antichi vicino a Mercurio, affinche con arte, ed avvedurezza , e non con violenza in tali faccende li procedesse ; e lasciando il profano da parte, vediamo che rispetto avesse a sua moglie il nostro primo padre Adaino : dipoi di avere detto, ch'era una porzione di se medesimo; cioè: cara de carne mea; soggiunse « quamobrem relinquer bomo patrem fuum , & matrem, &adbarebit ukuri sud, do crunt duo in carne una Gen. cap. 2.  Sem. Questo però mi reca gran tercore, perche se Adamo trattò così bere  sua  :  sua mnoglie, ed erano nel Paradiso terrestre ; ne- ella poteva essere stata crea . ta da mano più perfetta , contuttociò ingannò suo marito a segno , che tutti noi ce ne risentiamo, che farà dunque una figliuola di essa in questo mondo?  Pub. Fu fedotta però dal serpente, allorche Adamo dormiva, onde apprendetene dà ciò questo documento: di non dormire, quando vi sia il serpente, che tenti sedurre voftra moglie.  Sem. Mà qual serpente ci sarebbe, se io sposarsi una giovane, che da zitellas aveffe dato sempre saggio di somma mo. deftia ; ed appena entrata in casa mias, cominciasse a dire ; voglio un'altro abito alla nuova moda: queste gioje non; sono legate all'usanza; voglio lo scarabattolo, come hanno le altre mie  pari; qual ferpente la tenterebbe in questo caso, per farla parlare in tal guisa ?  Pub. Sarebbero due non che un fojo, li serpenti; cioè l'eccessiva vanità, e l'ambizione proprie ò insinuate,e quefti converrebbe scacciarli,er.  [ocr errors] Sem. Ed in che modo?  Pub. Voi averece già scelta la giova. CH  ne nata da? savj, e discreti parenti, and mutt  quali avrete facilmente manifeftato l'animo voftro , in che forma la vorretes trattare; accordandomi ciò, mi pare, cosa quasi impossibile, che una giovane  ben'educara possa alla prima avanzarsi Q  a domandare imperiosamente ciocche be brama ; se pure non sarà stata mal con  figliata; da qualch’una poco prudente, i  onde per ovviare questo, converrà , che alla prima stiate attento di non farlas trattare , se non con quelle, che voiconoscerere savie, e prudenti, delle quali potrete essere sicuro, che non sarà configliata a questo; ò pure se voi medelimo nolle darete mal'esempio ; conforme a questo proposito avvertiscePlutarco, ne? suoi precetti matrimoniali, oye dice'; vir corporis ftudiofus, uxorem reddit la  sciviori cultui deditam ; voluptuofus amas, toriam, & libidinofam ; boni , honestique  amator , modeftam , & honeftam: E sog. giugae di vantaggio; nè putes à super,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] mo,  fuis , profusifque fumptibus uxorem temperaturam ; fi te ad hæc omnia minimè contemnentem confpiciat', quin potiùs auratis poculis , pietifqae cubiculis, mulorum, & equorum phaleris gaudentem videat ; non enim fieri poteft, ut à mulieribus luxus removeatur, quo viri circumfluunt . Sem. Mà come farà praticabile il pri  se terrà visite publichce ove ogn' una farà a gara di comparire con mag . gior pompa dell'alere?  Pub. Se conoscerete, ch'ella abbias la prudenza della moglie di Focione, di cui già parlammo, permetteteglielo pure liberamente; perche farà della natura di quella , di cui parla l’Ecclefiaftico al cap. 26. Mulier fenfata, tacita non eft immutatio eruditæ animæ : mà per al. fro, se non farà di tal senno vi porrete ad evidente cimento di essere forzato a tractarla meglio delle altre , e con pompa maggiore, per esfere sposa novella.  Sem. Ma queste non si potranno fuggire; imperciocche lo potrebbero incon  fra:  [ocr errors] trare inimicizie, ricusa adofi ; ò per la a meno li darebbe moito da dire à tuttaa la città.  Pub. Se non si potranno fugire, e voi  permettetele.  [ocr errors] Sem. Mà facendolo poi bisognerà , che seguiti ciocche praticano le altre.  Pub. Non è da porsi in dubio.  Sem. Consigliacemi dụnque, che dovrò fare.  Pub. Non mi dà l'animo.  Sem. E perche ?   Pub. Perche scorgo più volonterolo voi di queste visite, di quello che sarà la voftra sposa, compiacendovi forse, che si vedano le vostre grandezze, e sono molti del vostro genio', che mostrano in apparenza dispiacimento di tal cosa, che internamente con ardenza la bra. mano; e fanno come diffe Tacito di Ti. berio : Specie recufantis vebementiffime cupiebat.  Sem. Mà è possibile, che non ci siad mezo termine per isfuggire queste prime vifte, senza che rimanga alcuno disgutaco?  Pub.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] Pub. Si potrebbe questo trovare,ogni qualvolta però non abbiate voi compia. çimento di averle. di Sem. E questo quale sarebbe?  Pub. Di condurre la vostra sposa fuofi della città in distanza tale, che non rioscisse facile alle altre di venirla a visitare.  Sem. E chi sà, se la sposa fi contentasse di questo?  Pub. Non vi contenterete voi ; perciocche una giovane bene accostumatas farà ciocche vorrete : toccate voi ora colle mani, che i mariti sono per lo più arrefici delle loro ruine, e non le povere mogli.  Sem. Mà andando fuori, e poi tornando , faremo nei medefimi termini di prima, rispetto à queste visite :  Pub. Così credo anch'io ; pofciache vorrete fodisfare allora al desiderio,che avere di riceverle; mà udite di grazias, ciò che ne potrebbe nascere di buono da questa vostra lontananza dalla città : Che intanto voi col vostro giudizio po  tre  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] trefte istradarla in modo , che non sarà  poi facile, che diça , qucsto voglio, po:  sciache le potrete far ben conoscere i  precipizi , che nascono dall'ecceffivo  lusso, ed i danni, che apporta l'ambi,  zione;ed averefte inoltre in quelto men.  tre, che dimorerete in villa , tempo op:  portuno d'istruirla ancora nella buona  economia, la quale è l'unico antidoto  contro la prodiga vanità.     Sem. Insegnatemi dunque, che dovrò  fare fin tanto che staremo in villa?   Pub. Contratto, che averete trà voi quel santo amore conjugale, le farete comprendere, che guadagno abbia recato alla vostra casa l'efferyi portaticolà, e che per farle conoscere , che voi non l'avete fatto già per avarizia , ma per esimervi bensì dalle confuloni, u disturbi, che nascono da tante visite, e rivisite, che si costumano, donare ad effa la metà di detta somma avanzatas; affinche ne faccia una soccita di animali, ò la rinvesta a suo piacere, c commodo, e procurerete , che facendosi detta foccita, non abbia questa disgrazia alcuna per più anni, con foggiacere voi as quei discapiti, che l'inclemenza delle Stagioni potrebbero apportarle, e vedrete in atto pratico y qual amore effa. porrà all'economia. Le prime impresfioni sono quelle , le quali radicateli negli animi foftri tanto del bene', quanto del male, difficilmente fi cancellano più, mentre che,  Quo fuerit imbut a recens feruabir odo  rem  Tefta diu.  Sem. Questo mi piace affaislimo; perche mi concilierà l'amore di essa, edonerò senza fare discapito alcuno ; mentre ciocche dono, rimane in cafa; mi farebbe discaro bensì, quando andaffe in börfá de mercanti: Mà se in progrefso di tempo desiderasse qualche abito , come mi dovrò regolare?  Pub. Dovrete invigilare di provederla preventivamente di ciocche è necefsario al decente ornato, secondo il voItro grado ; affinche non sia forzatas  [ocr errors] chiedervi cosa alcuna .  Sem. Mà se ciò non ostante lo facesse, hò da negarglielo?  Pub. Se voi la scorgerete attaccatas, al danaro non glielo negate , questo si, che in vece di spendere voi, date la moneta ad ella, acciocche la spenda a suo modo,  Mec. A questo proposito posso riferire un caso accaduto. Venne voglia ad una donna civile di farsi una certa scuffia alla moda; il di lei marito, ch' era accorto , non glie la negò; ben è vero,  che le diede il danaro nuovo di zecca per farsela ; ella cominciò à con, tare, e ricontare dette monete, li le parvero assai belle, e perciò non  s’induceva à spenderle ; le domandò į egli pallato qualche tempo, se fi cras  ancora fatça la scuffia; cui rispose, che non aveva potuto trovare cosa appropo.  fito; le replicò : fatela quando vi piaci ce, perche il danaro è vostro, e se lo Ha volere impiegare in altro, fate voi; mà ella non lo spese già per goderselo.  P  Sem :  [ocr errors] le qua  [ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse liberale ; che non fa. ceffe conto del danaro ?  Meo. In questo caso pariinente non mostrare renitenza in sodisfarla ; dite bensì, che commetterete fuori, e farété venire merletti più belli, e più alla moda di quei, che sono in città; perche intanto, ò le passerà la voglia di farsela, ò si murerà la moda , come si vede giornalmente accadere, e potrebbe anche darli il caso, che un giorno fi rendeffe capace di ciocche disse Crate, Filosofo : che ornamentum eft, quod orhaf:ornat autem quod mulierem boneftiorem reddit. Quindi è, che secondo quel detto greco :  Mulieri ornamentum mores, e non  [ocr errors] durum  Sem. E se le venisse tentazione di porfi qualche manteca nel viso, per comparire più vaga?  Pub.Ciò non dovrete tolerarlo in conto alcuno riso.it  Sem. Che averò da fare? sgridarlas .forse, e mortificarla inleme  Pub.  [ocr errors] fa  Pub. Questo poi nd; pofciache me. no verrece seco alle brutte, meglio semnot pre farà per voi, ed affinche possiate di in ciò regolarvi con prudenza, vi rifeac rirò per convincerle dolcemente, cioc  che dice Zenofonte nell'economico, ch' è questo: Die mihi uxor, nonne hisce legibus matrimonium inivimus, ut quod effet utrique faculsatum, invicem communica. remus ? annuit illa . Jam ait , fi poftquam tu tuam portionem bonæ fidei contulifes, ego pro veris gammis fiétitias , prò auro puro, adulterinum darem , prò torquibus aureis vitrum auri bracteis oblitum prò monilibus folidis , ligna 'auro, argen to, incruftamentis obducta, num boni confuleres, aut judicares , me plus tibi contuliffe ; fi talibus technis tibi imponerem, quam fi quod baberem', uti eft in medium conferrem? quod illa excipiens , cave , inquit, ne mibi talis fis , neque enim te ex animo amare pollem; quo audiio ille fic perrexit : atqui nos in hoc potisimum convenimus, ut alter alteri corporum Noftrorum copiam faceremas, quod  P. 2  [ocr errors][ocr errors] h  cum  Pub. Nira maltrattato ?  cum uxor annuiset. Sum ne, inquit , tj bi gratior, aut carior futurus, fi corpins boc, uti eft, nullo medicamento vitiatum Communicem, an fi os,oculofque minio infestos tibi ofculandum preberem? At ego in. quit uxor; minimum nunquam attigerim, neque fucatos oculos gratius, quam tuos afpexerim . Et mihi , ait ille , puta mentem eamdem effe: nec tam mentito (quem tu cerufit, fib:oque inducis) colore delectari, quam tuo nativa. Quo tam commado fermone caftigata mulier abjecit omnia tectoria, formaque medicamenta . Onde di questo convincentissimo ragionamento vi potrete anche voi prevalere per ridurla a suoi doveri, senza contendere seco,  Sem. E se diveniffe fastidiosa, iraconda, e garrula, che dovrò fare?  Pub. Tutto l'opposto di quello , che farà lei, imperciocche altrimenti sarà la. casa vostra un continuo inferno.  Sem. Come si potrà praticare questo  Pub. Non vi potrà fare mai peggio di uxor.  unda ,  quello, che faceva Santippe a Socrate,  e pure la sopportava , come viene dea  scritto da Bigo poeta :  Ferendum eft  Socratis exemplo quodcumque peregerit  Xantippen, fiquidem convitia multas       moventem ,  Cum blando argueret, fædatus defuper  Nil nifi deterso, poft tanta tonitrua,   dixit Vertice, se pluviam non ignorante se  quutang Sem. Bisognerebb’essere però Socrate per sopportare tanta ingiuria .  Pub. Cominciando ad operare da Socrate potreste anche voi divenire simile ad esso ; posciache interrogato per qual cagion'cgli sopportava tanti strapazzi ricevuti dalla sua insolente moglie, rifpofe : Cum illam domi talem perpetior , infuefco, dw exerceor ,'ut ceterorum quoque foras patulantiam, et injuriam facia liùs feram; laonde con sopportare l'in  giu  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] P 3  [ocr errors] giurie della vostra moglie, diverreste Socrate anche voi.  Sem. Mà se fosse altera , ambiziosa di commandare, e non volesse fare ciocche dal marito le veniffe ordinato  Pub. Socrate sopportava questo ancora ..  Sem. Mà voi, Mecenate, che non fieţe Socrare, che fareste?  Mec. Vi posso riferire ciocche fecero alcuni in fimili casi, e con profitto . Vi fu una certa vedova, cui erano morti trè mariti, a cagione dei gran disgusti dati loro da essa ; non trovava questas più alcuno, che la volesse prendere per moglie, un giovane alla fine, sapendo ch'era divenuta inolto ricca la volle sposare ; mà cosa fè questi ? ordinò, che fosse trovato il cavallo più indomito, che fosse nella città, con ordinare al fuo cocchiero, che nella mattina feguente alle sue nozze lo avesse fatto andare furiosamente per il cortile del suo palazzo, e che avesse di poi eseguito puntualmente ciocche da esso gli fareb,  be  1  be stato comandato; in quella macci  na il cavallo fè furie grandi ; venne cuole riosità alla sposa di vedere da che pro  cedesse quel gran rumore, che udivano in  si affacciò alla feneftra, e nel medesimo tempo ancora vi accorse lo sposo, il quale domandò al cocchiero , la cagione di ciò, cui rispose : Signore, è unas beftia, che non si può domare, e perciò ogni giorno farà il medesimo; allora egli comandò, che fosse trucidato, conforme crudelmente seguì; la povera sposa rimase attonita da sì risoluto comando, c voltatosi lo sposo verso di effa , le disse : Signora mia, quando le bestie non G poffono domare è necessario di venire à queste risoluzioni : das dovero, che mutò ella modo di vivere, e di leone divenne agnella. Vi fù parimente una moglie assai disobediente,alla quale avendo ordinato il marito, che non fosse uscita di casa ogni giorno, e tornata di  notte,  mà vedendo , che colle buone non ricavava profitto alcupo; udite un giorno quello le fece nel  [ocr errors] P 4  tor  tornare a casa : teneva'pronte le forfici, e le recise i capelli, dipoi le disse : oh adesso andare fuori di casa quando volete, che farete una bella comparsa : sapete  voi, che se ne aftenne, ed in avvenire fu più obediente a suo marito.  Sem. Vedete voi, Publio', che con mostrarsi risentito, si possono anco togliere i difetti donneschi?  Pub. Questi sono casi rariffimi, che felicemente riescano : I più frequenti però fanno vedere il contrario. Nacque una volta competenza tra il Sole e l'Aquilone, a chi di loro fosse riuscito più agevole, a togliere da dosso il mantello ad un viandante : si adoperò con tuttas la sua violenza il secondo, mà, ftringendoselo alla vita chi lo portava , non fu mai possibile farglielo lasciare : cominciò dipoi il Sole, senza usare violenza, a percuoterlo coi suoi continuati raggi ; refiftè egli per qualche spazio di tempo ; mà alla fine & spogliò non solamente del mantello, ma del giuppone ancora; e da questa ápologo.com,  pren:  [ocr errors] i prenderete se riesca più utile la violenob za , ò la piacevolezza continuata per ri  muovere i difetti donneschi : ed Ovidio  che le conosceva bene,così canto:   Define, crede mibi, visin irritare vetado  Obfequio vinces aprius ipfe tuo.   Sem. E se fosse ostinata in non volere cedere mai, mai , allorsì , crederei , che fosse d'uopo prevalera di quel rime  dio contenuto in questi due versi : .. Rendon più frutta donne , afini , e noci  A cbi ver loro ha le mani più atroci .  Pub. E da cui apprendeste, Sempronio, modo sì ingiusto, e villano das trattar le mogli? forse che dall'indiscreto Ercolano Sanese ? il quale, conforme racconta il Dolce nel secondo del. le istituzioni delle donne, avendo comprati certi tordi , mentre li stava mangiando con sua moglie, le diffe ; se aveva mai veduti tordi più grassi di quelli ; vi replicò la moglie ; ch'erano merli, mà , volendole far capire il marito, ch'erano tordi, non fu mai possibile, crsendofi oftinata nella sua falsa credenza;alla fine, dopo le contese, l'Ercolano fi avanzò a percuoterla col bastone, il quale non tolse già la sua pertinacias; posciache in capo all'anno disse al marito, che in quella medesima sera era Itata così malamente trattata per quei maledetti merli, ch'egli diceva essere tordi ; e convennegli fare l'anniversario ancora , con batterla nuovamente, come accadè in molti anni seguenti. Or vedere, che profitto apportano le battiture alle donne pertinaci? Poteva l' Ercolano crederli anche per storni; perche ciò non diminuiva loro già il sapore: mà, se fosse egli stato sotto la censura di Catone, non averebbe certamente commesso fimili attentati; imperciocch'egli voleva, che i mariti, che percuotevano le mogli, foffero puniti col medesimo gastigo, che si dava a coloro,che rubavano nei tempi dei loro Dei, come riferisce Plutarco. ES. Crisosto. mo nella umilia 26. epift. prima D. Pau. li ad Corinthios, così dice: Neque verberandam uxorem dico , abfit: ultima  nam  [ocr errors] 201  [ocr errors][ocr errors] namque ignominia eft non ejus qui verbe-  ratur , fed qui verberat &c. e dipoi ,  vos viros illud admoneo , nullum fit tam  magnum peccatum, quod ad verberan-  dum uxorem vos compellat , per lo che  meritamente cantò il Guazzo:   Offende il Cielose il santo amor discioglie  Quel che con empia man baste la moglie.   Sem. E se si credesse impudica, li ha da fare da Socrate in permetterglielo ?  Pub. Questo poi nò : fi dee bene fare da Socrate in non ingannarsi nel crederla cale, quando non fosse ; perche alle volte la gelosia fà travedere le ombre per corpi; e fa credere, anche le menzogne rapportate da uomini sceleraci per cose vere; ed udite a tale proposito questo prodigioso fatto. Si trovava al servigio di S.Elisabetta Regina di Portogallo un paggio di ottimi costumi, u perciò da effa amato, di cui si prevale  va per suo elemofiniero ; fu questi ca* lunniosamente imputato appreffo al Re  di soverchia confidenza verso la sua pa.  drona, ed anche reciproca di essa verso .  di  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] di lui ; fu data credenza alla calunnia ; onde il Re adirato fè ordinare ad un  fornaciaro, che avesse gettato dentro l'ardente fornace il primo paggio, che nel di seguente gli mandava; comandò dunque all’innocente , che si portafíe colà; mà perche udà sonare la campana di una chiesa, mentre era in viaggio, la sua devozione lo spinse ad andare verso quella parte ove si trattenne in ascoltare più messe qualche spazio di tempo; mà, perche il Reviveva impaziente di udire il successo, ftimò bene inviarvi l'altro paggio calunniatore, il quale, essendo arrivato il primo , conseguì il meritato gastigo, ch'era preparato per l'innocente : ed arrivato poi il secondo portò al Re l'avvifo, di essere ftato ubbidito; e risaputali poscia las cagionedal Re, perche fosse egli indugiato tanto, ben si avvide della sua innocenza, e della giustizia di Dio. Viene riferito dal P. Crodier.  Sem. Mà corne potrò conoscere d'a. vere occafione di dubitarne con fondamento?  Pub  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Se voi per esempio non ufafte a ad  Jei tutta quella fedeltà dovuta , ò pure  se per cafî faceste conversare gioventù in più vistosa di voi, e con tutta libertà;  allorsì forse forse, che, se non fosse più, che la carta Penelope, ne potreste alquanto dubbitare.  Sem. Ed in questo caso, che dovrei fare per correggerla , e gaftigarla ancora bisognando?,  Pub. Bisogna , ch'esaminiamo prima chi foffe il reo principale in questo caso, se voi, ò essa?  Sem. Sarà essa lei , perche io voglio, che sia pudica.  Pub. Voi volere, chefia, e fate ogni possibile, che non lia.  Sem. E come?  Pub. Con darle primieramente mali esmpio col vostro cattivo modo di operare; e poi con darle commodo di fare ciocche ella vuole. Credetemi, Semipronio , che le donne, se non hanno il  cattivo esempio dato loro di mariti, ad ditficilmente s'inducono a far male,  Scn  3  d  Sentite ciocche dice a tale proposito  Euripide,     Stulla quidem fumus mulieres, non       nego,  Cum autem infit hoc animis , peccat ma-   ritus Faftidiens connubia , imitari vult Mulier viruń, co aliui parare ama  fium. Ed operandosi in questa guisa , tutto questo procede per colpa de' mariti, e sentitene ora il parere de' Santi Padri, | S. Agostino così dice , lib. 2. de adult. conjug. Periniquum effe videsur , ut pudicitiam vir ab uxore exigat, cum ipse non exhibeat , ed inoltre dice , ui quales volumus uxores noftras invenire , ipfe nos inveniant , du fi intactam quærimus, intatti fimus ; c Lactanzio, de vero cul. cap. 2 3. Exemplo continentiæ docenda uxor, ut fe caftè gerat , iniquum eft enim, út id exigas, quod ipse præftare non poffis; e poco in appresso, uxorem ejus qui circa corrumpendas alienas uxores occupatur , exemplo ivcitatam, aut imitari se putare,aut vindicare; e l'uomo di Dio Giob  così parla , fi deceptum eft cor meum fue 2 per  per muliere, a fi ad oftium amici mei infi  diatus fum , fcortum alterius fit uxor mea, od fuper illam incurventur alii , e notare  quella parola alii, che denota, che non sarà un solo.  Sem. Ma se per colpa mia non venisse, ed ella fosse sì pazza , che volcsse trau dirini, che dovrò fare? 1 Pub. Questo sarebbe caso rarissimo, s poiche avendola scelta di famiglia ono  rata; non facendole mancare cosa alcu. na, e non dandole veruna occalione di tradirvi, sarebbe una grandiflima ini. quità , fe lo faceffe ; in questo caso dunt. que da principio dovere stare vigilantes alla di lei custodia con fare molte caure diligenze.  Sem. E da che me ne potrò avvedere?  Pub. In primo luogo dal suo affetto til vero, che s'intiepidirà verso di voi, ef  sendo che questo non può portarlo a dụe gel medesimo tempo  Sam.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se fosse finta, come potrò di. stinguere il vero dal fimulato affetto ?  Mec. Con un poco di tempo ve ne av. vedreste beniffino, con dirle, che volete fare un lungo viaggio con essa lei, e cominciando a porre all'ordine ciocche fa di bisogno, per farvi conoscere risoluto ; può essere, che da principio diffimuli, onde se vedrete, che in progresso di tempo ella li contristi, almeno in assenza vostra , credere pure,  che qualche cattivo pensiere le va per las mente, essendo quaGi impollibile , che chi hà simili attacchi, non si rammari. chi allorche dee allontanarsi; e tanto maggiormente, quando non abbia avu. ta in altri tempi repugnanza alcuna di viaggiare .  Sem. Io che dovranno confiftere l'accennate diligenze ?  Pub. Principalmente in vedere, che fidata servicù voi avete in casa ; posciache, se farà al vostro servizio qualcuno bizarro, che faccia spese disorbitanti, di questi non vi fidate punto, che non  ten  [ocr errors] di tenga mano, perche d'onde gli vengoo? no l'entrate da spendere tanto, non ba  stando la sola paga per far queste ? licenziatelo dunque alla prima, e se il ma  le da ciò procedeffe , tal volta potrebbe in questo solamente bastare.In oltre sareb-'.  be anche ben fatto, sospettando voi dela la di lei fedeltà, d'intraprendere qualche viaggio ad onefto titolo di devozio  ne; con andare a visitare qualche Santi  tuario ; ed in tale occasione le userere, delle cortesic più del ordinario, per riscaldare quell'affetto, che si era inties pidito verso di voi; e fatela girare un gran pezzo, che così le ritornerà il rens no, che aveva incominciato a perdere; e voi sapete, Dottore , quanto bene può apportare il viaggiare in questi casi.  Med. Certo è, che allontanandoci da quell'oggetto, che turba l'animo postro, può quefto più facilmcórc cálmarfi , conforme lo conobbe anche Proper: zio dicendo : Unum erit auxilium mutatis Cinthia terris  Quan  1  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Quantùm oculis, animo tàm procul ibis.  Amor. Ma per addurvi autoricà più propria vi apporterò ciò , che ne dice Cornclio Celso : Mutare debere regiones , fi mens redis , annua peregrinatione effe jaDandos.  Sem. Hò da farne alla prima risenti. mento, cominciando a sospeccarne con fondamento  Pub. Questa è materia molto gelofa ; onde con prudenza grande doverà cratcarli, e con molta circospezione.  Mec. Così credo anch'io, rifetten. do a ciò, che dice Ausonio: Toxica zelotipo dedit uxor maca ma  wire. Sem. Mà se il caso si avanzasse tant' oltre, che mi accertalli di tale misfatto?  Pub. Due rimedi ci sarebbero, un  o legalc, cl'altro suggerito dalla somma prudenza , o fancità,  Sem. Lasciamo il legale ; l' altro qualid? Pub, Marc'Antonio Filosofo Impera  [ocr errors] bi tore prudentissimo diffimulò, come rac  conta Giulio Capitolino ; il gran torto 1 fattogli da Faustina sua moglie, dicenddo di esso : tantùmque abfuiffe , ut de cas  ejufque adulteris fupplicium ex lege fumeret, ut illos fibi non ignotos (gran virtù  in chi tutto poteva ) pra ceteris ad ve#rios honores, & magistratus promoveret s  du in iis Tertullum, quem cum ea prandena sem aliquandò deprebenderat. E S.Paolo Eremita, come vien riferito da Socr. in fripart. historia lib. 1. cap. 2. Avendo ritrovato la sua moglie adultera, che fec' egli. Nil aliud , quam tacitè subrifis, jureque jurando affirmavit , fe nunquam cum ca concubiturum , ad adulterum au  tem; tibi, inquit , tam babeto, & cuma 1 difto adberemum abiit .  Mec. Rimali sorpreso da maraviglia, Dottore, quando lesti nel lib. de cap. util. ex adverfis , come mai il vostro Carda  no autore di esso ;' uomo sì celebre, vi * abbia posto gli utili , che ne' possa ri  portare il marito dalla moglie adultera ; pour essendoche quanto da fimile misfattorisulta , è tutto danno, e' vituperio.  Med. Non parla ivi il detto autore dell'utile onesto, e decorofo , mà bensi di quello, che si ricava (per servirmi della frase di Tacito) Ex induftria facinorofa ; ed avendo egli intrapreso l'affunto di ricavare da tutte le avverGità quell'utile, che ponno dare, da questo non si poteva ritrarne altro che un vàntaggio viziolo e detestabile chiamandolo egli medesimo:surpe auxilium.  Sem. E se li moftcafie gelola di me?  Pub. Sarebbe segno, che molto vi amasse, nel qual caso, facendole cono. fcere, che sono vani quei sospetti, che concepisce di voi, che vivete, comes debbono i buoni mariti, farebbe colas facile, che deponeffe tal gelosia.  - Sem. Ma se non vivefli offervantiflimo, ed andafli in qualche luogo un poco fospetto, solamente per divertirmi , mà fenza fare inale alcuno 1  Pub. Evoi tralasciate di andarvi,che così cesserà ancora.la gelosia; altrimensi quel vostro divercimento xi.cofterà  са  [ocr errors][ocr errors] caro , togliendovi la pace domesticas; e rifertere di grazia allo spaventofo fuccesso seguito nell'isola di Lenno; ove, le donne per gefolia z ch’ebbero, che i loro marici fi foffero invaghiti di alcune belle schiave, congiurarono contro di essi talmente, che divennero ftudiofamente tutte vedove in una notte : oltre di che, udite ciò, che dice l’Ecclefiaftico al 26. Dolor: cordis , do luctus mulier zelotipa : :  Sem. Mà se pretendeffe poi,che io so. disfaccffi al debito matrimoniale di vantaggio , che fosse convenevole, cho dovcrò fare?  Pub. Avendola voi scelta di buoni coo stumi, non avere da temere questo ; se pures non ile darete occasione di farlo!  Sem. E quale sarebbe questa ? 15,368  Pub. Potrebb’essere il gran confumo di cioccolata , e pistachiara , di rosolà, e vini generosi, e di altre cose, che  accendeffero il sangue , che si faceffe in * casa vostra ; orde basterebbe , che lo  toglie te via ; imperciocche,  [ocr errors] Sine Cerere , Bacco friget Venus .  Sem. E se questo rimedio non baItasse?  Pub. Allor conviene ricorrere alla prudenza , con farle ben capire, che quello sarebbe il modo da farla divenire prettamente vedova ; e che per non farle provare una così infelice fyenturas, dovete opporvi alle sue eccedenci brame...  Mer. Ad un certo marito, che si tro. váva spesso in fimili angustie , gligiovò molto il fare l'astrologo, posciache non mostrava già di opporli a quanto deside, rava la moglie, ma bensì le diceva , ch' cra d'uopo trovare prima nell'Effemeri. di, se in quel punto G farebbe generato figliuolo sano ; ed alle volte le dava ad intendere, che sarebbe nato cieco, altresi zoppo, onde in questo modo operava tanco, che li bastava per indurre a fare a suo modo la credula moglie .  Sem. E se non volesse applicare a farai domestici, come mi doycrò conteacre ?  Pub.  7  [ocr errors][ocr errors] #1 Pub. Bisognerà , che voi claminiace boy  bene d'onde ciò provengà ; pofciache,  se nascesse per cagione di qualche indis1  posizione di testa sopravenutale il non ad potere applicare i converrebbe, che  voila comparifte, cd in tal caso potrcbI be fupplire la matróna a quanto ad ella  spettava, 18  Sem. Si che dunque non potrò fare di meno di non provedermi di questa matrona , potendonc avere bisogno grande di essa?  Pub. Questo non è da porta in dubbio, fe bramercte, che la direzione della vostra casa vada bene, e non vorrete voi medefimo fare da donna',  Sem. E se non provcnifle dall'accennata cagiones  Pub. Doverete anche informarvi, se ciò procedeffe, perche qualcuno voftro favorito le volefle fare da sopraftante, il che non sarebbe conveniente, ed in tal calo to doverefte ammonire a defi. ftate, quando nollo vogliate rimuovere, ed allora vedretc, cho e Ha sarà appli  ciui  1  [ocr errors] cata, ò pure , se si divertisse ia altre cose per dare sodisfazione a voi, ael qual caso non potrebbe applicare alli facci domestici : per esempio, se vi veniffe voglia, che imparasse, a sonare, a cantare, e ballare, ò pure qualche linguage gio straniero , certamente, che non potrebbe ella applicare con attenzione a tante cose ; onde mutando voi fimile pensiero la vedrete tornare attentissima alle cose domeftiche,  Sem. Mà se non vi fosse alcuna delle fudette cagioni , mà che per il suo catcivo nacurale volesse inquietarmi con operare da pazza, che doverò fare?  Pub. S. Crisostomo insegna in questi casi gell’amilia 26. epist. 1. D. Pauli ad Corinthios, che cosa si debba fare: cioè quello, appunto, che pratica un buono agricoltore nel coltivare il sao campo, il quale, fe lo conosce sterile, procura di ajutarlo con industria, per farlo divenire fecondo ; e non per questo, sem mentato che abbia ivi il grano, nafcendovi dell'erbs.catcive, si duglefe. co, perche le abbia prodotte ; mà beni sì con sofferenza grande le carpisce a po  co a poco , senza danneggiare punto  quel seme di frumento, che ivi vede - germogliato. Or perche non si ha dad  praticare il medesimo colla moglie? fors' ella è meno meritevole del campo di ricevere simili ajuti ? è forse il seme umano inferiore a quello del frumento? ed udice ciò, che dice il fudeko Santo: quotiescumque aliquid molefti domi contigerit, fi quid uxor peccaverit , confolare, cu noli marorem augere Licèt enim omnia proiicias, nibil, moleftius continger, quàm non, babere benevoham domi uxorem; licèt quodcumque dixeris peccafuni, nuha lum magis dolendum , quam cum uxorlu Jeditionem habere. Quod fi inuicemones ra ferenda funt , multo magis uxoris, fi pauper fi, noli exprobrare fistulta, noli ei infultare ; fed efto modeftior . Etes nim tuum membrum et Garo una fa&i cfis. Sed falta eft cbrid auracundai Igitus dolendum eft , nox irafcendum ut e poi soggiunge. Quod fi vorberaveris  [ocr errors][ocr errors] exafperabit morbum ; afperisas enim mare fuetudine , , non alia afperitate disolui  Sem. E sc le veniffe voglia di vedere tutte le comedie , andare a' festini , c di frequentare tutti gli altri divertimenti, che doverò fare  Pub. Arendola alla prima assuefatta diversamente, come potrà venirle tale volonca ? E quando in particolare averà più figliuoli, ò pure farà anche gravida: non li potrebbe dare altro caso, che le faceftc mutare costume voi mcdefimo, divenendo curioso , c vagabondo : mantenetevi costaoce nel ben operare i ch'ella ancora persevererà nelles medefima forma; ed usatele ancora in quei tempi qualche amorevolezza di vantaggio, per tenerla contenta .  Mer. Questo lo credo anch'io ben fatto, avendo conosciuto un certò marito , cui era discaro, che la sua moglie, c figliuole fossero andate alle comedies & ad altre publiche feste, mà che cosas egli faceva ? in cambio di questo , leroy  [ocr errors] o galava in quei tempi frequencemente,  dando loro l'equivalente a quello , che  averebbe potuto spendere in fimili died vertimcoti; e quantunque ad effe dispia  cesse per allora di non andarvi, nulladi. meno vedendo quelle insolite cortelier,  si consolavano, e terminato poi ch'eras # quel tempo, diceva la madre alle fi  gliuole : nulla averemmo guadagnato di buono , se fossimo state alle comedie, dove che da non averle vedute, ne ab. biamo ricavato molto; e poi per verità erano una volta proibice alle donne certe feste notturne, come da Tito Livio, lib.g.Dec.4. fi ricava,che in compendio, e questo: Viri per noctem fæminis, dousenere etati turpiter miscebantur . Qua nc comperts , fuere S.C. fublata, din mulros animadverfum fuit. E Svetonio lo conferma nella vita ancora di Octaviano Augusto  Sem. Ditemi finalmente, se uno avefin se pensiere di sposare una vedova , come du fi doverebbe regolare in diriggerla ?  Pim. Se questa averà avuto un mari  [ocr errors] Ate condizioni unite è cosa difficilissima  ,co saggio, sarà facile parimente, che un altro faggio marito la poffa regolare, mà elsendo stata assuefatta di fare a sno - inodo, non si potrà mai piegare a far diversamente : posciache una pianta assodata con cattiva piega, non si può più addirizare. Io non consiglierei a prendere queste per moglie,se non chi(quando fosse tuttavia in età di farlo) si trovarfe molti figliuoli, e non avesse tempo d'invigilare attorno ad effi; e che fosse pienamente accertato, che la detta vedova avesse dato faggio di somma prudenza in casa del defonco marito; e che in oltre non avesse figliuoli proprj, nè fosse più in iftato di farli, e li trovaffe prospera falute; mà chi abbia tutte que  di trovarla dall'altro canto non essendoci queste, si prepari-pure a soffrire molti travagli, chi vorrà applicare a fimili matrimonj , poiche queste fogliono effere troppo scaltrite .  Sem. Vado riflettendo, che molti di Q uesti buoni consigli non saranno prati  [ocr errors] [ocr errors] [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] cabili nei nostri tempi, onde se I ddio non ci provede , non sò come potremo più softenerci in avvenire .  Pub. Perche non sono praticabili forse che non dipende ciò da voi?  Sem. Dipende da me , mà è dura cosa di essere il primo riformatore degli abusi.  Pub. Non si fanno già queste riforme colla corda al collo, come disponevano le leggi di Ligurgo; c poi non sareste già il primo voi , essendoci i Curj oggidi ancora, ma questi non si rimirano già per non averli da in mirare; onde questo sarebbe appunto quello , che vi doverebbe animare a farlo : posciachei non volendovi gli altri seguitare, non riferterebbero con attenzione a quello, che voi operafte.  Sem. E nella ventura Conferenza sopra clie fi tratterà?  Pub. Bisognerebbe confolave quelle povere mogli-faggie, che G abbattono in mariti viziofi, ed insegnare loro coinc debbanfi contenere in simile sveninca.CONFEREN ZA X.  Sopra i ripieghi prudenziali, che debbonsi prendere in diverse occorrenze dalle mogli saggic, incontrandosi in viziosi, ed indiscreti  mariti.  Sempronio , Publio, Mecenate ,  € Medico. Semi mag Iferitemi , Publio ,  quali sono i vizj,de'  mariti cattivi. Pub.  Questi sono molti, e forse non minori  di quelli delle mogli pellime : iinperciocche , fe farà egli trascurato, da tal difetto ne verrà il precipizio di tutta la casa: se prodigo peggio che peggio : se avaro , farà mancare ancora quello , che sarà necefsario : fe fcapestrato, guai a quella povera moglie, che dovrà combattere  fe  [ocr errors] [ocr errors] seco : se giocatore , fi porrà a peri. colo in una sola notte di perdere quan, to egli possiede : se lascivo, non li con. tenterà dell'onesto : fe affatto impotente, poco amore per lo più suole avere verso la moglie : sc goloso fuori dimo. do, oltre di soggiacere a continue in. fermità , sarà oppresso anche da dobbiti. Or vedere in che miserie Gi troveranno le saggie donnc in mano di costoro ? E se per disgrazia fi abbattessero ancosa in taluno debole di senno, che avesse appresso di se qualche servitore fcal. trito, il quale lo dominaffe, c lo facesse fare a suo modo, oh quanti disaggi se converebbe soffrire !  Sem. Come dunque li doverà regolare una donna saggia , ed attenta col 04rito trascurato ?  Pub. Con ama rlo teneramente, quancunque fi avveg ga della sua trascurag. gine.  Sem. E come lo potrà fare?  Pub. La prudenza le infinuerà di far. lo, per vedere , fe per questa via lo po  acres  [ocr errors][ocr errors] réffe indurre ad essere applicato,, perciocche, fe per sua sventura facefle il contrario, e cominciasse a sgridarlo , certamente ch'egli si mostrerebbe assai più trascurato ; e credete pure per  co. fa certa, che colle buone più profitto ne ricaverà, che irritandolo.  Sem. E se vedeffe , che ciò non ostanu Te', continuasse ad cssere trascurato , doyrå ella perfeverare in questo grand'amore? ... Pub. Senza fallo ; anzi che, invece di scemarlo; più costo, glie lo dee accrescere; poscia sche, se non sarà più , 'che'affatto iosensato , fi avvedrà alla fine, che lo ama di puro caore ; ed accertatoli di questo, come potrà fare di meno di non amarla anch'effo ? Platone, allorche gli fu riferito, che Zenocrate Two scolare enipiamente parlaffe di esso, * *ffpofe : non essere credibile : ut quem tantoperè amaret , ab eo invicem non di  ligeretur; ed intal proposito dice Sene• Ed Lpift.g. Ego tibi monftrabo amatorium Dane medicamente fine berba , fine ullius  0  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] er veneficæ carmine ; fi vis amari , amau. :l Ed udite anche ciò, che dice S. Ago  stino : Nulla est major ad amorem in vitai tio , quam prævenire amando.  Sem. E che le gioverà questo reciproco amore , quando le cose domestiche andranno di male in peggio?  Pub. Assai più di quello , che voi credete; imperciocche quando sarà ac. certata di questo reciproco amore, ed informata insieme dei disordini domestici, in certe congiunture, che le donne fanno prendere, lo saprà con dolci  maniere ben'effa illuminare. f Sem. Ed illuminato , che fosse, se  non sarà capace di operare di vantaggio, a che gli potrà servire ?  Pub. A molte cose ; imperciocche prenderà ben' ella un'alera simile congiuntura, e ne otterrà ciò, che saprà bramare; che farà appunto il maneggio dispotico della casa : e vi pare, che questo amore abbia operato poco a far. le spuntare tanto dominio? Sem. E se glie lo negasse ?  R  Pube  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Non è possibile, che ciò faccia, se pon farà più che inumano .  Sem. E se fosse ?  Pub. Allora converrebbe prendersi altre vie, senza però scemare punto del suo cordiale affetto.  Sem. Queste quali sarebbero ?  Pub. Essendo egli trascurato sarebbe cosa facile, che potesse la saggia donna trovare qualche buon canale fecreto,da far penetrare a chi comanda lo stato, nel qual li trova quella infelice casa.  Sem. Basterà poi questo , per farlo divenire applicato?  Pub. Oh quanto opera tale istanzas fatta da faggia, e pudica moglie ! si udirå all'improviso dichiarato unEconomo al trascurato marito, e si verificherà in Jui il proverbio di Salomone : Qui ftultus eft ferviat fapienti ; ò pure quell’al  feruus fapiens dominabitur stultis filiis : e recherà ammirazione, che non potrà penetrare, donde fia provenuta tale istanza, non potendosi egli mai persuadere, che l'abbia procurata la sofferentiffima moglie. Ed ecco rimediato    a tutto senza strepito, e concesa alcuna;  non dovendosi a queste esporre le fag-  gie donne; conformc lo dimostra il la-  crificio, che costumava presso i gentili  farsi 2 Giunone Dea delle nozze, cui  non ardevano già le vittime, alle quali  non era stato prima levato il fiele, eget-  taro via , per denotare, che non deb-  bano mai marito, e moglie adirarsi in-  fieme.     - Sem. Qualche volta però è riuscito  alla moglie, che ha mostrato perto , di  ottenere ciocche voleva da suo marito.   Pub. Sì bene dal marito prudente,mà non già dall'imprudente , e vizioso . Santipre non averebbe già fatto fare a fuo modo , fe invece di Socrate foffe stato marito suo l'Ercolano, di cui parlammo ; e ragionando noi ora de' mari. ti viziosi, e mogli saggie, nulla gioverebbe a queste,il  mostrare petto;anzi facendolo doverebbero cancellarsi dal numero delle prudenti. mi Se fosse prodigo, come ella si  [ocr errors] dovrà contenere ?  Pub. Oltre di amarlo, come si è detto di sopra, dovrà guardarsi dal riprenderlo soverchiamente, e con modi aspri per non irritarlo maggiormente; insegnando Plutarco, che l'austerità della donna dee, come quella del vino , renderá giovevole, e grata , non già amara, e dispettosa, conforme quella del. l'aloe.  Sem. S'indurrà facilmente la moglie, per goder ella ancora de' suoi fcialacqui, a non riprenderlo.  Pub. Non è così ; perciocche la donna faggia patisce fuori di modo, nel vedere dilapidarsi la casa; anzi che procurerà di non goderli per quanto può, u fi conterrà nel vestire pulita si, ma senza alcuna vanità; mostrando Plutarco, che l'unico mezo per acquistarli la grazia del marito, fia la vita esemplare, lontana da cutte le vanità superflue : cu quando il marito, la volefie forzare a far diversamente, sarà capace di scusarfi con un santo pretesto di divozione,  dal  [ocr errors][ocr errors] dal quale venga moffa a vestirsi di unj abito votivo, cd accompagnerà ancor'a questo astinenze, ed orazioni, per ottenere da Dio la grazia , che il marito fi ravvegga.  Sem. E le ciò non ostante, egli continuafle nella medelima forma , non sarebbe pur ineglio, che godesse ancor essa, potendo in tal guisa dar gusto as suo marito?  Pub. Non lo farà essendo prudente; perciocche considererà , ch' essendo due a dilapidare, più prestamente si darebbe fondo a tutto ; mentre due deAtrieri, che concordemente corrono al precipizio, poco indugiano a cadervi; dove che, quando uno di essi è refio, lo può ritardare di vantaggio.  Sem. Sin ora però non iscorgo riparo alcuno.  Pub. E credere voi, che il marito , vedendola così ben composta, e così esemplare nella modestia, a lungo andare non s'illumini? Quello esempio, çh'egli avrà continuamente avanti gli  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] occhi, sarà di tanta efficacia , che finalmente lo farà rayvedere : ed udite ciò, che dice Euripide a cale proposito:  Domiperdam etiam virum probibet  UXOR  Bona , ci conjuncta , fervat domum. Mà meglio ancora apprenderete tal verità da S. Crisostomo in Joan. Homil.60. Nil potentius muliere bona ad inftruendum, & informandum virum, quodcumque voluerit : neque tam lenitèr amicos, neque, magistros , neque Principes patietur, ut conjugem admonentem , atque consulentem . Habet enim voluptatem. quamdam admonitio uxoria, cum plurimùm amet, cui consulit. Multos poffums afferre viros asperos, immises per uxores mites redditos, & manfuetos; ipfa enim mensa, lector. E conclude:fi prudens erit, & diligens, omnes vincot.  Sem. Tutto questo bene si potrà ottenere, allorche avrà dilapidato ogni cosa; ed à che le potrà giovare l'effersi tanto affaticata, allorche averà ricevu., to il colpo facade?  Pub.  [ocr errors] Pub. Non è così, Sempronio ; perche se indugiass’egli molto à ravvedersi, non già trascureranno i propri parenti ò pure  colui, che aveffe con autorità suprema a porgervi riparo, mossi dalla gran sofferenza della saggia donna.  Sem. Ma non sarebbe rimedio più speditivo, che intentasse la donna il giudizio contro di esso, per farlo dichiarare dilapidatore?  Pub. Questo non farà mai chi è saggia; perche considererà molto bene, che dopo un simile paffo non vi sarebbe più pace tra loro : e poi diciamola giusta, per via di liti, se facesse il marito comparire, che in vece di effere dilapidatore, fosse più costo economo, che cosa se li potrebbe fare ? sapete pure, che i raggiri non mancano.  Sem. Quale sarebbe dunque il rimedio per ovviare fimil male , quando colle buone non si potesse ottenere ?  Pub. Di porre un'altra testa capace à governare bene la casa, in vece di quella, che governava male, qual sarebbeappunto un'altro Economo, per fare verificare ciò, che dispone l'Ecclesiaste: Servo fenfato liberi serviant .  Sem. Io bisogna, che parli, come la intendo: ho veduto alcuni Economi in breve tempo arricchirsi con queste ainministrazioni; onde non vorrei, che simili economati servissero di apparenza; mà che poi in sostanza le cose continuaffero nella medesima forina ad andar male; con questa differenza solamente; che quello , che si deteriora, non apparisca, passando nascostamente in borsa dell'Economo; il che mi perfuado , che possa esser'errore peggiore del primo ; mentre facendolo il padrone confumerebbe il suo ; mà l'Economo fi  apo proprierebbe quello degli altri.  Pub. E di quelli , che hanno amministrato con ucile considerabile dell' economato, ne avete veduto alcuno?  Sem. Di questi ancora.  Pub. E de' prodighi , chi avete osservato, che non abbia dissipato tutto il  fuo?  Serg  Sem. A lungo andare niuno. meh Pube Or dunque complirà alla Repu  blica, che vi sia detto economato; e 1 particolarmente , se la moglie sarà pruI dente, e non vorrà anch'essa approvece ciarsi di qualche cosa; nel qual caso i non potrà già l'Economo fare dispotica  mente a suo piacere, avendo ch’invigi  li attentamente alle sue operazioni : 0 i poi se questi si arricchiscano, ponno far  lo con altri impieghi onoratamente , essendo uomini di somma abilità.  Sem. Mà non sarebbe meglio, che separasse la sua dote, e riconoscesse il fuo?  Pub. Queste voci di mio, e tuo non sonavano bene alle orecchie di Platone; e le detesta Plutarco in bocca delle mogli, volendo che tanto il bene, quanto il inale sia comune tra efli: ed io credo, che questa reciproca comunanzas fia molco vantaggiosa per il marito; pera che se la moglie crederà per sue ancora tutte l'entrate della casa, non ispenderà con tanta facilità queste in cose sus  per:  [ocr errors] perAue , essendo le donne di natura tenacissiine nello spropiarsi del proprio.  Sem. E se foffe Avaro a quel segno, che per ingordigia di cumulare moltoro facesse mancare il bisognevole alla moglie, ed a' suoi figliuoli ?  Pub. Questo non dovrebbe farsi, e da persone civili maggiormente, essendo padri di famiglia ; tanto per non dire a’figliuoli mal'esempio , quanto perche dee l'uomo civile lasciare a posteri gloriosa memoria di se medesimo; questa non si acquista già mediante l'oro viziosamente radunato; perche non sarà più suo dopo morte, passando all' erede, per lo più prodigo, il dominio di effo, il quale scialacquandolo ravviverà bensì l'ignominiosa memoria dell'Avaro, che lo cumulò; dicendo ogn'uno allorche lo vedrà spendere malamente in bagordi , crapole, e luffi : vedere dove và l'oro dell'Avaro ? onde à che gli sarà servito l'effere stato tiranno di se medesimo nel cumularlo, e che bei vantaggi ne avrà riportato ? Quindi è, che  non  0.  non senza inistero fà da un'ombra del suo inferno domandare il Dante all'Avaro.  Dicci , che 'l sai, di che sapor è loro 3  Mec. Se l'avesse doinandato à Crasso, averebbe risposto francamente, ch'era molto amaro amaro, come dice il Petrarca.  E vidi Ciro più di sangue avaro ,  Che Crafo d'oro,e l'un, e l'altro n'ebbe  Tunto alla fin, che a ciascun parves   amaro. Mec. Fu data una bella risposta à colui, che trovandosi presente al sontuoGislimo funerale fatto dal figliuolo generoso al Padre zvaro, domandò ad un suo amico : che averebbe detto il defonto se fosse risuscitato, ed avefle veduti tanti lumi di cera ardere nel medesimo tempo, quando egli vivente, in casa sua, non pocea Coffrire , che più di una lucer, na di olio ardeffe ; cui rispose : nullas certamente, posciache tuito s'impic-. gherebbe in estinguere prestamente col suo fiato quei lumi, affinche non li logoralsero di vantaggio; ayerebbe bensi  [ocr errors][ocr errors] mu  mutato con sollecitudine il testamento; perche tal generoso erede non gli sareb. be piaciuto.  Sem. Vorrei sapere, che dovrà fare la povera moglie, e come lo potrà amare, trovandosi priva del bisognevole?  Pub. Ciò non oftante conviene, che lo ami, lo serva, e gli faccia tutte le maggiori finezze poslībili, con mostrarne anche piacere de' suoi sordidi avanzi, fintanto che sarà divenuta padrona del suo cuore per regolarlo à suo modo.  Sem. E questo appunto egli defidererà; mà in tanto la meschina patirà doppiamente, facendolo di contragenio.  Pub. Abbia un poco più di sofferenza; perche guadagnato , che avrà l'animo di esso, farà allora ciocche vuole, essendoci moltissimi esempj di Avari fatti divenire anche prodighi dalle mogli; onde quanto sarà più facile a renderli persuali, di dover fare le loro convenienze:  Mec. Si racconta dal Sabellico un ingegnosa maniera, della quale si servi ladem faggia moglie di un Signore molto avatro. Questi per ammassare quantità im  mensa di oro, che si produceva dalle di miniere, scoperte nel suo dominio, tei nea impiegati à tal opera tutti i conta  dini, che coltivavano la tèrra ; e perciò n'era nata grandissima carestia, per la quale correva pericolo di essere tagliato in pezzi l'autore di essa, se las iaggia moglie colla sua prudenza non lo aveffe illuminato. Questa dipoi di csferfi ben internata nel suo affetto fè dan molti artefici formare coll'oro tante vivande, quante n'erano necessarie in un sontuosislimo banchetto, e perfezionare segretamente che furono , invitò fuo marito à definare nel suo appartamento,  e portatovig rimase egli ammirara allas  prima, nel vedere quel sontuoso imbardimento di vivande, tutte di oro, e fi persuadeva, che ciò fosse itato fatto per ; una.vaga prima comparsa ; mà rimirane. do in appresso, che non compariva a'.tro, che oro in varie forme di vivaride lavorato , le disse ; Signora ;, e quan  do  do verranno le vivande da potersi mangiare ? Replicogli la moglie, che trovandosi tutti li contadini applicati alle miniere , non si attendeva più à coltivare la terra ; onde bisognava accomodarsi à mangiare oro, perche de' soliti comestibili già si penuriavad affatto ; fi avvide egli del suo errore , e fe dismettere tal lavoro per attendere à quello, ch'era più neceffario, e dopo piamente utile per la conservazione del suo individuo.  Sem. Essendo il marito scapestrato , che cosa dovrà fare l'infelice moglie?  Pub. Arinarsi di' una santa sofferenza con amarlo più, che sia possibile .  Sem. Maltrattando però anch' ellas con fatti, econ parole; non sò, come potrà continuare ad amarlo, e fopportarlo.  Pub. Non potendosi cimentare seco la saggia moglie, non potrà farne di meno; perche altrimentine anderebbe sempre  di sotto ; come accennò Ovidio nel secondo de' Fasti:  Quid faciet? pugnet? Vincetur fæmina  pugnans • E parlando altrove d'Ipemnestra , le fe dire : Che deggio io far del ferro? in che con  viene Coll’armi una donzella 2 io più conformi Ho le braccia , le man, la forza , ib  cuore  All'ago, all'apo , alla conocchia, al  fufo, Che all'armi crude, e bellicosi ferri . Laonde sempre meglio farà à soffrire', 1 andandolo bensì illuminando a poco ad  poco con dolci modi, mediante i quali le fiere stesse depongono la loro crudel. tà; e s'egli non averà un cuore più cru  do di quello delleone , non incrudelirà - certamente contro di essa, raccontando  Plinio di questo animale : ubi sævis, in  viros, plus, quam in fæminas fremeres 1 veluti natura eum docuerit mulieres mi  tius, quam viros elle tractandas. E for tuttavia perseverasse à rampognarla, si  serva di quell'avvertimento, che diero  no  [ocr errors] no i capitani di Ciro ai suoi soldati : che venendo i loro inimici alla zuffa gridan. do , con silenzio gli avessero accolti ; mà se tacendo, andassero efli ad inveftirli gridando; dal che ne cavo Plutarco layvertimento, che debbano tacere le donne, allorche vedono i mariti adiraci; quando sono mesti bensì debbano animarli, e dar loro sollievo con affettuose, ed efficaci parole.  Sem. Voglio credere, che la moglie manierosa lo possa addolcire à fine, che seco non contrasti; mà fuori di casa come lo potrà trattenere, che non prenda impegni di duelli, ò di riffe ?  Pub. Quello , che seguirà fuori di casa, essa non potrà cercamente impedirlo, essendoche non dee andargli appreffo; lo domerà bensì in questo caso qualcun'altro, perche vexatio dat intellecium ; onde maltrattandolo qualcuno, ò effo altri, in ambidue i modi  potrebbe mettere giudizio; poiche, feri. ceverà, oh quanti mutano vita dopo di avere fofferta qualche disgrazia confi.  de.  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors] derabile , e se offenderà altri, il gasti. go ancora, che gli sovrasterà lo potrebu be far ravvederc .  Mer. Hò conosciuto molti di questi , che hanno perseverato qualche tempo nelle loro stravaganze, e poi si sono domati, e particolarmente quei, che hanno sofferte considerabili sventure.  Pub. Alcuni di questi ancora si ravveggono allor , che divengono padri di numerosa famiglia, crescendo loro il pensiero di provederla , e particolarmente avendo molte figliuole ; onde non dee mai la saggia donna disguItarsi con fimili mariti; dee bensì raccomandarli al Signore , che li faccia ravvedere , ed abbandonando le vanità mondanc, attendere al governo dellas sua casa più diligentemente, che sia poflibile.  Sem. Essendo giocatore, come dovrà regolarsi con esso lui ? converrà che lo seguiti anch'essa per darli sodisfazione?  Pub. Per andare in rovina prestamente, cosi potrebbe fare.Sem. Forse che nò; perche tal volta perdendo uno, vincerebbe l'altra, e maggiormente, che sogliono le donne vincere sempre ; onde potrebbero andare le cose compensate, e senza veruno discapito.  Pub. E se perdessero ambidue, bella compensazione , che seguirebbe! Le donne possono vincere con licurezza solamente quando si contentino di fares perdite maggiori,terminato il giuoco, è prima di principiarlo; per altro sono anch'esse soggette alle perdite.  Mec. E curiofo,ciò che accadette una volta in mia presenza : giocava un mio amico con una donna alquanto atrempata, ed avendo egli carte superiori, io gli disli, che non le avesse scoperte, e fi foffe fatto vincere, giocando con una donna. Questi mi rispose, che non las teneva più per donna altrimenti, avendo passico li quaranta anni, mà bensì per uomo.  Sem. Or ditemi , che cosa debbas fare?  Pub.  [ocr errors][ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Amare, e sopportare il marito, ed i suoi difetti.  Sem. Questa è la solita canzona; mà intanto in una notte potrebbe giocarsi tutto il suo; ed allora che le averebbe  giovato l'amare, ed il sopportare? I.  Pub. Dite voi dunque ciò, che dovesse fare per darvi più opportuno riparo .  Sem. Diricorrere, farqi sentire con iftrepito, per impedire, che non potefse più giocare.  Pub. Oh bene ! É non sapete voi, che nitimur in vetitum ; onde questo sarebbe à appunto il motivo di fargliene venire  maggior desiderio di prima ; e se avesse dismesso per lo passato il giuoco à meza notte, di farglielo durare in avvenire sino à giorno, per fare dispetto all'imprudente moglie.  Sem. Mà che dovrà fare questa infei lice donna?  Pub. Non altro, che sofferire , ed amare, più che mai, ed udite ciò, che dise S. Ambrogio Sec. Offic. Quid tam  ino.  [ocr errors][ocr errors] S 2  S  [ocr errors][ocr errors] inolitum , atque impreffum affe Etibus humanis, quam, ut eum amare inducas in animum, à quo te amari velis?  Sem. Penurierà la casa del necessario, non si pagherà la servitù, i debiti cresceranno, le tenure deterioreranno, anderà tutto da male in peggio, e questo sarà appunto il frutto del soffrire , ed amare.  Pub. Forse , che lo schiamazzo della moglie, quantunque giugnesse à quel fegno descritto da Virgilio: Fæmineum clamorem ad. cæli fidera's  tollunt. potrebbe dare riparo à tanti mali? certo che no, mentre, come dicemmo, diverrebbero maggiori. A tal pro- en pofito cade in acconcio la risposta , che diede il Re Filippo à coloro, che lo fti- dic molavano à muovere guerra ai Greci, i quali beneficati da esso sparlavano della sua real persona, che fu quefta : Quanto peggio farebbero , se fossimo nemici la loro ?  Sem. Però se io fosfi ne. suoi piedi,  [ocr errors] non  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] non potrei essere così amoroso di un marito, che procura di mandare la casa in malora.  Pub. E che fareste dunque di vantaggio? 50  Sem. Sei iniei parenti non mi volesseed  ro dare ricetto in casa loro , me ne sta  rei in un appartamento separato , e pro. 1  curerei di non trattarlo più; perche, come si suol dire : occhio non vede, cuor non duole.  Pub. Sarebbe questa certamente una gran pazzia conosciuta anche da Eui ripide per tale; mentre egli fa dire ad  Giunone; non esserci altro rimedio più  opportuno , di questo, per riconciliare  gli animi, che il conversare insieme ,  dicendo:   Ho disegnato a lunghi lor contrasti  Ho giammai di por fine con un modo   Segreto, e nuovo a lor, unırli insieme. i Onde qual vantaggio riporterebbe dallo  ftare lontana dal marito, e di abbandonare affatto il letto nuzziale , fe non di eternare le discordie? e se non sapete,  che  [ocr errors] S 3  che cosa guadagna la donna , con fare la disgustata, udirelo da Salomone: Qui confundit domum fuam poffidebit ventos ; onde fi ritroverà alla fine colle mani piene di vento, e questo sarebbe appunto tutto il guadagno, che averebbe fatto.  Mec. Io, che in mia gioventù sono fato amico di qualche giocatore , il qual faceva grosse perdite , in occalione, che taluno di effi mi riferiva le sue sventure, non potevo contenermi di non domandare, se la sua moglie n'era consapevole, e mi dicea, non avere potuto farne diineno di non palesargliele, allora, che dovendo fodisfare la grossa perdita già fatta , gli era convenuto più volte chiedere le gioje, per impegnarle, non trovandosi pronto il danaro; cui replicavo : che schiamazzi averà fatto ella trovandosi doppiamente disgustata ; e rimaneva ammirato nell'udire, che qualcuna di effe con prontezza grande glie le dava ; e di vantaggio mi riferiva, che non vi era già pericolo, che la trovasse colcata, quando cornava quancunque avesse tardato molto; anzi, che con faccia molto allegra li dava la buona sera, allorche lo vedeva comparire; e mirallegravo seco dellas buona sorte, che godeva nelle sue sventure, essendosi abbattuto in una sì prudente moglie; ne mi poteva contenere, avendo seco confidenza, di non riprenderlo in tale occasione con dirgli:c voi siete sì crudo, che non avete comparfione di farla ogni sera tanto parire: troppo fo, mi dicea egli ; perche se non pensasli ad essa talvolta, che mi trovo sotto nel giuoco,chi sà quando lo avessi terminato, e che perdita maggiore avessi fatto ; allicurandomi inoltre che di tanti incomodi, che le aveva recati , ne averebbe avuta viva rimembranzada à suo tempo, per farla godere, se soprayiyeva ad esso, pensando di lasciarlas erede, non avendo figliuoli; conforme appunto è seguito ; onde la sua sofferen· za ,  fu alla fine rimunerata . Sem. Ed in quei giocatori, che avevano le mogli risentite, vi siete mai abbattuto?  Mec.  [ocr errors] S4  Mec. In questi ancora, e domandan. do loro, che dicevano le mogli allorche sapevano le loro grosse perdite, vi fu tra questi chi in tal guisa mi rispose : il maggiore tormento, che io abbia allorche fo qualche groffa perdita è di vedere inviperita mia moglie, cui chiedendo le gioje, per impegnarle, me le hà sempre negate ; mà io l'hò mortificata con vendere altre cose, ch'erano di sua somma fodisfazione ; affinche conoscesse, che io era il padrone.  Pub. Vedere dunque , Sempronio , quanto sia meglio soffrire in questi casi, che fare risentimento; e voi Mecenate, di grazia cessate di dir male più delle donne, avendo confeffato, che vene sono delle prudenti ancora .  Mec. Sono però queste di fimile natura rariffime, non contentandosi per lo più le mogli di farli impegnare le gioje, e particolarmente à sodisfare per le perdite fatte nel giuoco .  Sem. Come debbonsi le mogli regolare, quando scorgogo i mariti diviati a  Pub  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] mente,  Pub. In niuna altra occasione si conosi  sce meglio la donna saggia , quanto in fi questa ; imperciocche le tocca sul più 1 vivo; onde doverà adoperarvi cutta la  prudenza poffibile per divertirlo. Sine tanto, che il fatto sarà secreto, non dee darsene per intesa; e se taluna lv rapportasse , che viene tradita da fuo marito , dee ella replicarle con risentimento: ch'egli l'ama , e crede ferma  che per questa cagione non le possa fare un simile torto, dee però servirsi dell'avviso, per rincontrare dalle mutazioni , che scorgesse in lui , tanto nell'affetto, quanto nella stima verso di lei, se debba prestarle fede.  Sem. Doverà dunque lasciar correre trascuratamente, senza darci riparo , male fi considerabile, una donna in particolare, che non gli da occasione alcuna di farle simile torto?  Pub. Ho udito dire da' Medici, che ci siano alcuni rimedi , che sono peggiori del male, al quale si applicano ; onde non vorrei, che questo fosse uno  di quelli; palesatemi dunque voi qual credereste in questo caso essere il suo ri. medio più valido , quando non vi piacciano i più beoigni .  Sem. Di fuggirsene immediatamente in casa de' suoi genitori, con animo di non tornare più da suo marito.  Pub. Questo appunto sarebbe uno di quei peffimi rimedi, posciacche dandofegli campo libero in avvenire di fare, ciò, che vuole, accrescerebbe non folamente il male antico, mà ne produrrebbe, anche degli altri, che sono las totale discordia conjugale, ed il divul. garsi da pertutto ciò, che non è bene, venga publicato.  Sem. Che cosa dunque ella dovrà fa  , per non morire accorata , dimorando in casa del marito ?  Pub. Conyerrebbe , in questo caso principalmente , ch'ella ben apprendesse quel consiglio dato da Platone as Zenocrate, qual fù : che sacrificate alle grazie , per essere più avvenente, che per lo passato ; e così con dolci manie.  re  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] re  [ocr errors][ocr errors] re potrebbe facilmente conciliarsi il suo affetto ; dicendo Salomone che: Mulier gratiofa invenit gloriam. E quali debbano essere queste dolci maniere ; non occorre, che mi diffonda per istruirne le donne, cfsendone di effe maestre: diro solamente, che se la palma, ch'è un albero insensato arriva, come vuole Plinio, à piegarsi, allorche stà vicino alla sua palma femina , volete , che il marito ancora non si renda alle piacevoli maniere di una saggia moglie? Fu interogata Livia Drufilla da una Dama, perche faceva fare ad Augusto marito suo ciò, ch'ella volea ; così rispores : perche fo volentieri quello, che io conosco essere di Cesare in piacere, e non ricerco i fatti suoi , come racconta Dio.  ne.  Sem. E se faceffe praticare per casas una sua qualche donna Atraniera, come la potrà tollerare ?  Pub. Anzi la dee, per non irritare maggiormente l'animo di suo marito, e farle corresie ancora, mostrando di non essere consapevole di cosa alcuna ; conforme appunto fè Terzia Emilia moglie del maggiore Affricano, la quale, non solament’egli vivente, diffimulò di fapere,  che suo marito amaya una fuas schiava, mà dopo la morte di esso las fè libera, e la diede per moglie ad un suo liberto ; come racconta Valerio Massimo. Ed Omero riferisce di vantaggio, che la moglie di Antenore aveffe egual cura di un figliuolo fpurio di esso, di quello , che avea de proprj, per non disgustarfi suo marito. Plutarco ancora racconta nel libro delle donne illuftri, che Stratonica si prendesse il pensiero di educare bene i figliuoli di Dejotaro suo marito, quantunque  forsero nati da Elettra sua serya : oltre poi quello, che dice la facra Genefi di Sara, ė di Rebech ab 16. & 30.  Sem. Questo però non lo porrà mai fare una moglie di spirito ; non potendo questa soffrire un simile torto .  Pub. Quefte, che hò riferite , avevano spirito, cprudenza; ne mi persua  [ocr errors][ocr errors][merged small][merged small][ocr errors] deco,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] derò, che possiate darvi à credere , che - Olimpia madre di Alessandro il Grande lie  non avesse spirito, e pure questa , venendole rapportato, che Filippo suo marito era talmente invaghito di una giovine di Teslaglia, che si credea communemente, foffe ammaliato ; volle conon scerla , ed appena veduta, che l'ebbe le disse : Tecum enim philtra babes, quanto mai le parve bella ! e non fu questa picciola finezza il dire ad una sua rivale, che rapiva il cuore di tuti.  Mec. Io so, che alcuna di queste per aver ricevute.cortesie obbliganti dalle saggie mogli, sono fervite di mezane , per riconciliare l'affetto era effe,e i loro mariti : altre poi, che hanno ricevuto strapazzi,sono state cagione di odj mag. giori tra essi ; onde seinpre hà giovato alle mogli saggic, di non inafprire maggiormente la piaga con irritarla.  Pub. Un'ottimo ammaestraméto vien dato à queste da Plutarco, ed è di non allontanarsi mai dal marito, perche facenda altrimenti, la rivale diverrà af  for  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] soluta padrona, non solamente del letto mà ancora della casa tutta,  Sem. Mà durerà sempre questo disordine ?  Pub. Non durerà, perche la prudente moglie saprà vincere col tempo las violenza dell'altra, come ben cspreffe Ofeo Poeta :  Capitur ergo ab infirmis celer,  Aquilamque brevi testudo vincit. E la testuggine appunto, essendo Gimbolo della donna onefta, non recherà maraviglia, se questa ancora frenerà il volo dell'aquila, con aspettare però l'occafione opportuna, la quale potrebbe essere, allorche li fa dimora in villas, ove l'amica non fosse presente; ed il maggiore argomento che potesse addurre per allontanarlo dall'amore impudico, sarebbe appunto di fargli conoscere colle buone, il cattivo esempio, che ne prendono i figliuoli; con insinuargli ancora,per giuoco,quel detto di una pudica donna, tratta å forza dal Re Filippo: deh lasciami andare, gli disse, per  [merged small][ocr errors][merged small][merged small][ocr errors][ocr errors] na ,  Il che tutte le donne , portata via la lucer  sono simili ; mà se poi imitasse * quella prudenre Gentildonna Sicilianad  di cui fa menzione Lodovico Vives, nel *' lib. 2. de Christiana fæmina , quanto mai u lo renderebbe à se affezionato? Questas  andava osservando ciò , che facevano i servitori, che fosse al padrone marito suo più grato, e quello ella facea di sua mano studiosamente; se bene talora con estrema fatica fua, quello poi , ch'era di meno travaglio, fatica, e noja, comandaya à servitori.  Sem. Mà quando non fosse deviato altrove il marito, che cosa porrà fare la i donna savia , à fine, che non ecceda con i essa lei in pregiudizio della propria falute ?  Pub. La saggia donna non dovrà mostrarsi renitente à fodisfare le brame di E fuo marito ; ben è vero però, che dee'as 1  poco a poco, andargli dolceinente infio nuando il danno, che potrebbe appor  tare l'immoderata frequenza degli arti conjugali , potendogli questi abbrevia  Per que  .  re anco la vita con danni notabili della  sua famiglia ; e starà ben ella circospet-  ta nell'ordinare vivande, calorose per  la mensa, ed ancora nel tenerlo lonta-  no dallo frequente uso del cioccolato,  erosolì.     Crescere res poset nimiùm damnofa   libido. Come vuole Ovidio . Sem. Prometteste, Dottore, di mo. strarmi sino à che segno poffa giugnere l'uomo in pagare il debito matrimoniale senza discapito della propria salute.  Med. Epicuro, Democrito , Averroe, ed altri Filosofi ancora credettero, che sempre sia molto dannoso l'uso venerco : Altri poi lo credono solamente, allora, ch'eccede i limiti dell'onesto.  Sem. Or io non voglio andare cercando malanni ; per battere al sicuro mi contento starmene senza prendere moglie ; perche la propria salute mi dee premere molto più della moglie.  Med. Ditemi di grazia , Sempronio, senza andare in collera : Voi che avete fpiriti generosi, fe venisse un esercitoDell'Elezione della Mog. 289 per distruggere la vostra patria, per salvare la propria vita, abbandonereste la difesa di essa é o pure vi porreste ad evidente pericolo di morte per difenderla ?  Sem. Sarei un gran codardo, quando l'abbandonaffi; dovendo per sua difesa porre à pericolo la vita con tutte le mie sostanze  Meda E per conservare la vostra specie, la quale può difenderla ne' suoi bisogni, perche ricusate di farlo? non ponendo già ad evidente pericolo, nè vita , nè roba , contenendovi dentro i limiti della moderazione, esponendovi in tal caso solamente à pericolo di soffrire qualche moderato, e breve disaggio: e se voftro Padre fosse stato di questo sentimento  come farefte voi  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] naro ?  Sem. Converrà dunque farlo ; mind u questa moderazione nell'uso venereo, in che doverà confiftere?  Med. Primieramente in fuggirlo più, che sarà possibile la state: dicendo Cel. co 10, aftate in fptum, fi fieri poteft, abftinen.  ,  dum ; e nell'autunno dice : neque autumno utilis venus eft ; nel rimanente poi dell'anno non abufandovene sarà sempre meglio per voi,  Sem. Mà da che potrò comprendere tale abuso?  Med. Dalla stanchezza, che riceverete dopo di esso, perseverando questa, per qualche tempo, nella forina , che descriffe Ovidio di averla osservata in un amante Vidi ego cum foribus laljus prodiret  amator Invalidum referens ; emeritumques  latus, Sem. E cadendo io in questo, che rimedio averò da praticare?  Med. Aftenervene per qualche tempo, dicendo Virgilio nella Georgica;  Nulla magis vires industria firmat Quam Venerem, cæci fimulos aver  tere Amoris, E di questo niuno meglio, che voi ne potrà essere giudice s purche sia la voItra mente libera, e non preoccupatas  dall  [ocr errors] [ocr errors] dall' estro libidinoso .  Şem. E per fuggire questo, qual ri# medio sarebbe opportuno ?  Med, Il vitto moderato, e la moglie - favia sono i veri antidoti per indurre moderazione nelli cimenti di venere.  Pub. Vedere dunque , Sempronio, quanto possa giovare una saggia donnas nel fare prolungar la vita à suo marito ? prendetelo dunque à buon fine, quan  do la vostra moglie vi frenaffe in que1 fto, facendolo per noftro bene.  Met. Or io non vorrei starmene raffi, dato alle donne sopra di ciò; perche affai di rado fi riceverebbe da effe tale beneficenza;vorrei più tosto prendere l'efeinpio dai bruti, i quali , toltone quei tempi prefisli loro dalla natura, non si ac.  costano più alle femine, nè tampoco ef: se appetiscono i maschi; ed udite come  lo conobbe bene Democrito riferito ,  Dottore, dal vostro Ippocrate nellas u lectera scritta à Damageto; Anniversa  riorum temporum ordo, brutis quidem danimantibus coitus finem adfert , homo  T2  verò  [ocr errors] [ocr errors] verò infano libidinis stimulo continenter agitatur.  Sem. Dandosi il caso, che il marito fosse impotente, ne viverà contristatas la povera moglie di questo?  Pub. Prescindendo dal rammarico, che averà, trovandosi priva di figliuoli, credetemi , ch'essendo prudente, non fi prendera di ciò fastidio alcuno;perche considererà ben'ella, che quel momentaneo diletto è compensato da molti altri tormenti, che îi soffrono, non solamente nelle cattive gravidanze, e laboriofi parti , mà quello, ch'è di travaglio maggiore, nell'educar beoe i figliuoli , de' quali taluno alle volte riesce scapestrato laonde se rifletterà à ciò che dice l’Ecclefiaftico al 16, Utile eft mori fine filiis quam impios habere, aidarà pace essendo priva di elli.  Sem. Io conoseo alcune di queste sterili, che non fanno alcro, che sospirare; eso che volentieri introdurrebbero il giudizio del divorzio. Pub. Ed io conosco più di una  di  que  [ocr errors] 2  fte,  fte, che si trovano nella medefima nave, le quali stanno contentiflime, e pensano perseverare col suo marito fino allas morte, quantunque sia impotente. E forse credono quelle , che il tentare questo divorzio sia qualche delizioso divertimento ? Sappiano, che converrà loro esporsi à prove, e recognizioni , che danno molto da cicalare per tutta la citrà. Ed inoltre, facendo ciò, mostreranno ancora di essere libidinose,deliderando avere più validi mariti.  Sem. Mà coine ci potrà essere pace i tra simili conjugi?  Pub. Se la moglie sarà prudente, non i ci sarà discordia alcuna ; perche vedenÛ dofi il marito così impotente, procurerà per altre vie divertirla , se non  fürà del tutto disamorato.  Sem. Mi persuado , che poco averà · da dolerâi la moglie del marito goloso , * quando però faccia anche ad essa gufta10 re qualche delicata viyanda?  Pub. Non è così; perche la donnas prudente di questo fi rammarica al parodi tutti gli altri difetti, essendo che fis mile vizio persevera per lo più fino allas morte ; onde con facilità grande può far impoverire; conforme si legge nell' Ecclesiastico al 21. Qui diligit epulas in egeftate erit, qui amat vinum, Q pin. guia non ditabitur . Oltre poi imali, che suole apportare alla salute.  Sem. Mà comc ci potrà dare rimedio ?  Pub. Conosco anch'io, che farà cola difficile il poterlo affatto rimuovere, mà la prudenza, e l'ingegno donnesco potranno darvi bensì qualche riparo , con guadagnarsi l'affetto del suo marito, il quale acquistato, se le réderà à poco à poco facile à titolo di sanità, d'introdura, re qualche moderazione ia effo : avvertali però, che la servitù rimanga in qual. À che parte compensata di quegli avanzi della mensa , de' quali soleva partici- ; parne, altrimenti questa per tal cagione sarà capace suscitare discordie traefo sa, e suo marito, con inventare infinite menzogne,  Sem.  11  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Sem, Ed abbattendosi con mariti di la mente debole, come hanno da fare per di rimuovere dalla loro grazia certi servis I tori favoriti, che li dominano ?  Pub. La donna, che colla sua pru. denza può giugnere à rimuovere dal cuore di suo marito caluna, che lo porfedeya indebitamente, con quanta facilità maggiore potrà allontanare questi,quando voglia abusarli della dilui grazia ; ed in ciò non occorre istruirla di vantaggio, essendone espertissimas; basterà solamente accennarle , che faccia passaggio delle cose leggiere, e nelle gravi norf operi con violenza grande, per non porlo in impegno di sostenerlo ; mà venendo l'occasione opportuna in qualche fuo trascorso rilevante, gli faccia conoscere , ch'ella non opera per passione, ma bensì per suoi vantaggi.  Sem. E se aveffe anche la Suocera cartiva , la quale consigliaffe suo figliuolo à Itrapazzarla , che cosa doverà fare?  Pub. Di sopportarla , amarla , erispettarla , come costuma fare con fuo  [ocr errors] [ocr errors] marito ; perche non nascono già per altra cagione le discordie tra suocera, u nuora , che dalla gelosia , che hanno le madri , che i figliuoli amino più le mogli ch'esse, da cui ricevettero l'efsere  Sem. Mà se ciò non ostante continuarse à fare il medesimo, non sarebbe me. glio di metterla in discredito appresso il figliuolo, à fine che non le desse più credenza ?  Pub. Questo non dee fare la donna saggia'; dee bensì riflettere à ciò, che, fi costumava nella città di Lepidi in Affrica per meglio imparare à soffrire. Racconta Plutarco, che ivi era costu  che nel giorno seguente alle nozze la sposa mandasse à domandare alla suocera una pentola, la quale le venivad negara ; e questo si facev'à fine che, non G sdegnafre, le in avvenire le avesse negato alcuna cosa.  Sem. Converrebbe ora discorrere fopra le stravaganze grandi, che nascono tra i marişi çattivi, cle mogli peffime ,  [ocr errors][ocr errors] me ,  [ocr errors][merged small] Pub,  [ocr errors] Pub. Non è certamente neceffario parlarne ; posciacche, à chi darebbes l'aniino di consigliare costoro, che sono incapaci di ragione ? Bisogna, che tra loro si aggiustino, e fogliono per lo'. più essere concordi', perche niuno di loro può rinfacciare all'altro i difetti, elsendone ambidue colmi . Il danno è bensì de' poveri figliuoli , che non si educano bene, tanto per l'esempio cattivo, che danno loro, quanto per la direzione, della quale eli penuriano : ben è vero però, che quando questi li avanzano alle discordie', non effendoci mezo capace à poterli più riconciliare tra loro, solamente l'autorità del prencipe può impedire le rovine maggiori che possono nascere per i dilapidamenti delle loro sostanze, 'à fine și non vedea ce mendichi i loro discendenti.  Sem.Sarebbe però un vantaggio grande, che tutti i mariti catrivi prendesse. ro mogli (imili ad essi ; perche alloran per i buoni rimarrebbero le buone solamente.  Pub.  Pub. Succede frequentemente così , essendo questi portati dal loro genio ad amare simili ad essi, secondo il pro-. verbia : aqualis æqualem delectat, ý semper à fimili fimile amatur. Il che viene confermato dal Nazianzeno , di. cendo:  Pulli quidem pullis amici , coruique  corvis ,  [ocr errors] Et furnis sturni , puro autem pretiofus.  eft purus : Meglio però di tutti l'insegna l’Ecclesiaste: Diligit fimile fibi , dow omnis homo fimilem fibi, omnis caro ad fimilem fibi conjungitur, omnis homo fimili sui sociabitur. Onde se accaderà, che una catciva giovane prenda un buon marito non sarà già di sua volontà, mà verrà bensì sforzata da' parenti à farlo, e das quefto nc nascerà quello appunto, che, dice l'Ecclefiaftico al 26. Mulieris ira , o irreverentia , & confufio magna: on- ; de guai à chi toccherà limile infortunio. ;  Sem. Mà che potrebbe fare chi li trovafle in simili miserie?Pub. Di prevalersi di quest' ottimo consiglio, riferito.da Gel. in Sat.Menip. Vitium uxoris's aut tollendum , aut ferens dum ; perche : Qui tollit vitium, uxorem commodiorem præftat , qui ferte se fe meliorem facit.  Sem. E cui riuscì il potere far questo in core rilevanti ?  Pub. Tra gli altri à Socrate; come ris ferisce Plutar.de Choib. ira: il quale avendo seco à defináre Euridemo, quando nel meglio si alzò in piedi Sancippe , e dopo di avere caricato di villanie socrate roversciò la tavola in terra; onde Euridemo si alzò in piedi addolorato per partirli; cui Socrate disse con gran Aemma: non accadè poco innanzi in casa tua, che una gallina yolando fece l' isteffo ? e pure niuno vi fu , che li contriftaffe disinile avvenimento; perche dunque voi ora lo fate 2  Sem. Non si è parlato Gin'ora, come fì abbiano da regolare le povere donne per iscegliersi un buon marito Pub. Nom dçe la donna sceglierli as  suo  suo compiacimento il marito; mà bensì riceverlo da' suoi più congiunti, e di questo ne parleremo nell'educazione de' figliuoli, mostrando le diligenze, che doveranno farg da' padri å fine di provederle bene.  Sem. Spererei di sapere scegliere las moglie, ora che ini trovo in ciò istruito; mà sposata che l'avefli mi troverei intricato nell'educare i figliuoli, quando Iddio me li concedeffe, non avendo ancor appreso à bastanza il modo das regolarmi per bene diriggerli.  Pub. Nella seguente Decade tratteremo di questo.  [ocr errors][merged small] Sopra l'educazione morale de' figliuoli  CONFERENZA PRIMA  Nella quale si mostra, che cosa sia educazione, cui appartenga più di ogni  altro; e se sia necessario luogo    particolare,ove debba farsi.   Sempronio , Publio , Mecenate  e Medico.  [ocr errors] Sem.  N che consiste l'edu-.  cazione? Pub.  Nello svellere da gli animi de' tcneri figliuoli tutti quei  vizi, che spontaneamente germogliano in elli, e nell inestarvi in loro vece i preziosi gerini delle virtù ; effepdoche, come ben'er  preffe Virgilio nella Georgica parlando degl'innesti ; Pomaque degenerant , fuccos oblita priores,  sem. Come! in noi spontaneamente nascono i vizj!  Pub. Non è da dubitarnę mentre nascono molti vizj con noi medesimi insę. gnandoci il Profeta : Ecce enim in iniqui, tatibus conceptus fum ; du in peccatis concepit me mater mea; verità conosciutas, anche da' gentili ; posciacche Orazio così scriffe:  Nam vitiis nemo finè nafcitur. Optimus  Qui minimis ur getur . E Democrito, che ; totus homo ab ipfo are fu'morbus eft ; ed inoltre, che secondo l'età in noi germogliano i vizi propri di effe, i quali se non saranno a tempo dçbito estirpaţi, quei della puerizia fivedranno adulti nelle altre età; ma vie peggio ancora, che vedo verificarsi ciò che diffe Orazio nell'Odę 6. lib.3. cioè i  Ætas parentum pejor avis tulit  Nos nequiores, mox daturos   Pro  ille eft,  Sopra l'educ. de figliuoli. 303 Progeniem vitiofiorem , E da ciò comprenderece à che segno debba essere ora l'educazione più esatta di prima.  Mec. Ed io che soglio conversare spesso co' miei amici ho veduto più di una volta, in occasione, che questi as. pertavano qualche visita di soggezione, verificarli ciò, che dice Giovenale nella satira 14,  Hofpite ventura ceffabit nemo tuorum ;  Verre pavimentum, nitidas oftende co-       lumnas,  Arida cum tota defcendat aranea tela,  Hic lavet argentum, vasa aspera fer-   geat alter,  Vox domini fremit inftantis, virgam.  que tenensis.  Ergo mifer trepidas ne stercore fæda cao  ning Atria difpliceans oculos veniensis amici, Ne perfufa luto fit porticus, tamen  uno  Semodio foobis , her emendat fervulusE quel ch'è peggio ancora , che vedo verificarli appresso alcuni ciò, che se  gue :  14  [ocr errors][ocr errors] Illud non agitas, ne sanctam filius      omni.  Afpiciat fine labe domum, vitioqae ca-        rentem,  Sem. Vi concorre altro alla cattivas   90 Educazione, che la trascuraggine ulata in non eftirpare à tempo debito gli ac GE cennati difetti  Pub. Potrebbero anche renderla peg el gior e i cattivi esempj dati a' figliuoli, luz dicendo Giovenale nell'accennata satira.  Sic natura jubet velociùs, du citiùs nos  Corumpunt vitiorum exempla domeftica       magnis  Cum   subeant animos auctoribus . Quali cattivi esempi potrebbero a’proprj accrescere gli altrui difetti .  Sem. Mà come possono essere capaci in di cattivi esempi i teneri fanciulli non distinguendo questi ancora il bene dal male?  Pub.  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Dice Plutarco nell'educazione de' figliuoli, che s'imprimono gli ammaestramenti in elli conforme appunta fanno nella cerà molle i sugelli, e che perciò il divino Platone saggiamente avertisce le balie à non raccontare loro  favole di ogni sorta , mà solamente u quelle, che ponno essere giovevoli al  buon costume;confermandoci ciò S.Ba,  filio, il quale, scrivendo à quei dellas  città di Neocesarea , confessò loro di  ellere debitore di una buona parte della  sua divozione alla nutrice, la quale,non  perdendo mai alcun sermone di S. Gre.  gorio, li serviva di molti belli derti uditi  da esso in tutte le congiuntùre, che se  le presentavano per imprimnerglieli benc  nel cuore ancora tenero ; laonde saggia-  mente diffe Focilide :     Mentre fanciullo lei, virtute impara ,  Ma oltre il malesempio', pregiudicano  anche ad elli molto le carrive insinua.  zioni,   Sem. Ma questi mali esempi non sa. ranno dati già loro dai genitori, quants  [ocr errors] 3  ci  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] cunque fossero viziosi; perche vediamo i ciechi desiderare i figliuoli bene illuminati, ed i zoppi, che questi liano liberi, e spediti al moto: ne tampoco infinueranno loro cose cattive.  Pub. Così appunto dovrebb’essere, e pure ciò non liegue ; posciache alcuni hanno voluto insinuare à i loro figliuoJini l'invecchiati difetti da' quali esli erano contaminaci. Vi furono due di questi, di cui fa menzione Enea Silvio libr. 1. comment.; che dediti all'ubriachezza procuravano , appena slactati ch'erano i loro figliuoli, di affuefarli al vino facendone gustare loro de' più generofi, che si trovassero; ed uno fti, persuadendosi , che non averle il suo figliuolo bastantemente bevuto vino di giorno, volle di notte, in tempo chc dormiva,farglielo ingojare con un cannellino; mà perche sonnacchioso corceva la bocca ingiuriò aspramente las moglie ; dicendole, che non era suo fi. gliuolo legittimo, per non affomigliarsi ad esso, cui tanto piaceva il vino. E vi  [ocr errors] ed uno di que  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] re  [ocr errors] recherà orrore il sentire di vantaggio bu quello, che riferisce S. Gregorio di un li esecrando bestemmiatore il quale ingi  nuava ad un suo figliuolino di cinque anni di ritrovare bestemmie anche infoJite, e riferisce ancora il gastigo , che da Dio ricevette per sì detestabile dclitro,  Mec. Mà senz' and are cercando gli antichi esempi ; non ci è stato à giorni noftri un Padre, che premiava de' suoi figliuoli quello, che cimentandoli co  i suoi fratelli, rimaneya vittorioso nel d  fare à pugni ? cosa tanto crudele , che non fi racconta già praticata da Gladiatori Romani tra fratelli,  Sem. Le Madri però non saranno state così perverse nel mal'educarli,  Pub. Queste ancora sono state colpevoli di ciò; scrivendosi di Draomirad, : Principessa molto vana, che per colpa  fua diveniffe Boleslao parricida, e fratricida ; dove che il fratello Vinceslao  educato da Ludimilla sua ava molto fagi gia, e pia divenne un Sanco , come nela  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][merged small] la sua vita si riferisce; e da ciò comprendere quanco di profitto apporti la buona educazione.  Mec. Questo non è da porfi in dubio, scorgendoli anche ne bruti profittevole; mentre racconta Plutarco, che Licur. go per fare conoscere tal verità a? Spartani fè comparire due cani , uno de quali era avvezzato per la caccia, e l'altro, dedito in tutto alla sua naturale inclinazione, non attendeva ad altro, che à leccare pentole di cucina, e nel mede: simo tempo à vista loro fè portare anche una lepre, ed un carino di broda : nel vedere il primo fuggire la lepre li pose a seguirla ; e l'altro se ne andò verso il catino; soggiungendo egli a’Spartani: così faranno appunto i vostri figliuoli ancora , se saranno, ò nò istruiti. Quindi è che avendo Tolomeo Re di Egitto domandato ad un Savio quale foffe las negligenza maggiore, che regnava tra gli uomini, egli prontamente rispore : ch'era la trascuragginc nell'educare i figliuoli, mercecche da questa infinitimali ne potevano nascere:  Sem. Mà à chi dev'essere più à cuore questa educazione?  Pub. A coloro, cui dev'essa maggiormente premere, che sono i genitori, e questi debbono con industriose, e diligenti manière spogliarli d'ogni difetto, e d'andare ne i loro teneri cuori  giornalmente istillando il prezioso liy quore delle virtù, senza desistere mai;  essendoche, come avvertì Plutarco questa voce costume , pronunziata in lingua Greca, significa anche continuo esercizio, onde da ciò si può comprendere che non ci vuole trascuraggine nell'educare i figliuoli. Riferisce Orazio Flacco, le diligenze in ciò usate da suo padre; verso di lui lib. 1. Sat. 6. che furono. Sed puerum est ausus Romam portare  docendum; Ipfe mihi cuftos incorruptiffimus omnes Circum doctores aderat , quid mulia?  pudicum, Qui primus virtutis bonos , fervavit ab omni  Non  11  [ocr errors] V 3  [ocr errors][merged small] Non folùm facto verùm opprobrio quo  que furpi. Santamente dunque ordina Salomone ne' suoi proverbj : erudi filium tuum , do refrigerabit te, & dabit delicias anime tudo  Sem. Mà le saranno i Padri talmente occupati, che non abbiano tempo das poterlo fare?  Pub. Se averanno occupazioni più riLevanti di questa, saranno compatiti, caso che nò, sono tenuti di farlo, e non facendolo meritano la riprensione del vecchio Crate,qual disse;contro costoro: Dove andate meschini, d voi, che nel cercare di farvi ricchi movete ogni pietra; e nondimeno de' voftri figliuoli, a' quali lieto per lasciare le vostre facoltà, vi prendere poco pensiero ; al che sog. giugne Plutarco, che questi operano in quella maniera, come se alcuno governaffe bene le sue scarpe, e de i piedi non fi curaffe punto. Or ditemi di grazias qual potrà essere l'occupazione più riguardevole di questa ?  Sem.  [ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Sem. I publici affari, per esempio, oltre il decoro personale, i quali ricer. cano somma attenzione, e si può dalli buona amininistrazione di questi ricavarne molta gloria, e molto lustro, vantaggiosi ai figliuoli ancora,  onde  perciò non potranno distrarsi per educarli bene.  Pub. E questo lustro, e gloria se si  estingueffe nc'figliuoli mal educati qual i acquisto averebbero fatto i Padri? Gli  Ateniesi nelle feste di Cerere faceano un misterioso giuoco, ed era , che comparivano avanti l'alcare quei destinati ad effo à prendere ivi un luine acceso, qual dovea porgersi ad un'altro , che in una decerininaca distanza lo stava aspettando, per consegnarlo ancor esso ad altri, che in egual lontananza lo atrendevano: se il detto lume si foss' estinto prima di giugnere all'ultima mera , era in libertà di ogni uno beffeggiare colui in inani di cui si estinguěya. E Platone fu di se. timento nelle sue leggi, che : gignentes, alentes liberos vitam tanquam  1  [ocr errors] lampada alii aliis tradunt. Or figuratevi ancor voi, che questo splendore, che voi dite debba passare ne' posteri; come rimarrebbe colui , che per la sua malas educazione lo estingueffe ? in che ludibrj egli li troverebbe venendo da tutti, beffeggiato ? e sapendosi, che vi ebbe colp’anche la poca applicazione del padre in educarli, dirà facilmente qualcuno : quanto era meglio un poco meno di luftro, mà più durevole nella sua descendenza.  Mec. Da questo dunque procederà, che alcuni figliuoli di uomini illustri sono di costumi tanto diversi da efli , che pajono più tosto nati dal disonore, averanno quelli facilmente difefcato nell' educarli.  Pub. Plutarco ne adduce ancora un alıra cagione credendo egli che i fi. gliuoli degli uomini illustri divengano facilmente superbi, ed arroganci; e lo comprova coll'esempio di Diofanto figliuolo di Temistocle, il quale solevas, dire ne cerchi, che tutto ciò, che li fos  se  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] se piaciuto sarebbe anco al popolo d'A. tene piaciuto; perche quello , che voleva egli voleva la inadre; e quello che la madre Temistocie, e quello che Temistocle anco tutti gli Ateniefi.  Sem. Credo però , che più comparibili polfano essere le Madri se diferteranno in deira educazione, essendoche alcune di esse hanno impiegato turte le ore del giorno in adornarli, in ricevere, ò fare visite, in passeggi , ò conversazioni; talmente che pochissimo tempo potrebbe rimanere loro di badare a' figliuoli,quando non foffero diftrarte an. che nel giuoco .  Pub. Già sono capace, che premono oggidi ad alcune più i divertimenti, che i propri figliuoli. E vi pare, Sempronio, che debbanli queste scusare? Non averanno certameote occasione alcuna di lagnarli , se faranno questi cartivas riuscita ;. perch'esse vi hanno difettato non solamente colla trascuraggine, w cziandio col mal esempio dato loro ies S. Girolamo scrivendo a Leta non diffgià, che foss'esfa scufabile, dando a'figliuoli mal esempio, mentre così parla: Nihil in te, & in patre suo videat , quod fi fecerit peccer .  Sem. Non si potrebbe supplire coiu Maestri, & Aij alla propria trascurag  gine?  [ocr errors][ocr errors] Pub. Si potrebbe in caso di necessità; mà però è assai differente l'industria,che adoperano i propri genitori da quellas, che sia l'altrui, ed eflendo questa à proporzione dell'amore , quanto maggiore sarà quella de' propri genitori, che più di ogni altro li ainano? Si suol dire ingeniofus amor , e questo appunto è quello, che li ricerca nella buona edu. cazione .  Sem. Se dunque li può supplire, saranno scufabili quei genitori, che sostituiscono in loro vece chi lo faccia.  Pub. Non per questo però debbonli affatto allontanare da efsa, senza averci qualche sopraintendenza particolare, e non usando questa non si potranno mai scusare,  Mer.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Meg. Siete Publio troppo rigoroso, e questo credo , che proceda , perche voi foste l'educatore de' vostri figliuoli; mà non sono ora più quei tempi felici , ne' quali si pensava di lasciarli più rosto ben educati, che ricchi; non sarà poco, che abbiano ora i figliuoli un Ajo di ti. tolo , che non li lasci almeno precipi. tare in tutti i vizj ; onde da alcuni, che sono arrivati a conoscerlo a è trovato quel santo ripiego di porli nei seminarj, assai giovanetti, e prima che la malizia fi avanzasle in elli.  Pub. Or io non mi sono curato di porre i miei figliuoli in questi seminarj; perche ho voluto fare a modo del Profeta , il qual dice : Filii tui ficut novelle oliva. tum in circuitu menja tuk. Sono questi seminarj fantissimi,istituci ostimi per ap: prendere il rimore di Dio, mà oh quanto fà di più quel Padre amoroso , ed actento, quella Madre faggia, e divora, in educarli in tutto , avendoli appreffo di loro ! e questo ben lo conobbe Orazio ringraziando suo padre della buo  V  è  C.  na sua educazione in tal guisa .  Laus illi debetur,à me gratia major; perche : obiiciet nemo fordes mihi .  Mac. Voi aveste però la fortc,, che vi furono i vostri figliuoli, tanquam novelle olivarum ; perche, se riflettiamo alli rami di elli, sono simbolo di pace , e tali appunto sono li vostri ellendo dotati di ottimo naturale ; fe al frur. to, è vero  ch'essendo immaturo , inolto amaro, ma questo con industria diviene anche dolce, ed il fimile è seguito in elli, essendo giovani; se poi final. mente al sugo, che da' suoi frutti maturi si esprime, ch'è l'olio, questo non fà alcun movimento, solendosi dire per proverbio : è cheta come l'olio , e contimnili à questo sono anche i vostri figliuoli, contro de' quali aon si è senci. to alcun richiamo fin'ora, e spero, che trovandosi già avanzati negli anni , cresceranno sempre più in bontà: mà se in vece di novella olivarum Iddio ve li avelse dati, come piante di mirto, questi non iftavano bene in circuitu menja tud.  Sem.  [merged small][ocr errors][merged small][merged small][merged small][merged small][ocr errors] [ocr errors] Semi E per qual cagione, producendo il mirto un fiore gratissimo ?  Mer. Sì bene, mà però senza alcun frutto, ed è pianta dedicata à Venere, e tra esli facilmente si annidano i serpenti, e se fossero ftati di limile cattiva natura i vostri figliuoli, Publio, come vi fareste contenuto con efli loro?  Pub. Gli averei ben domati io; perche più fieri de'Leoni non potevano già essere, e pur questi coll'arre divengono mansueti, e vi assicuro, che non averei fatto da cerusico pietoso; avendo appreso da Salomone il rimedio qual'è; nos li subtrabere' à puero disciplinam ; fi enim percufferis eum virgâ, non morietur. ** Més. Sapete pur, che Dione, con forme racconta Plutarco nella sua vita, per il soverchio rigore usato , e fatto ufare, nell'educare il suo figliuolo, fu cagione, che per disperazione cgli si precipitasse da una finestra : il rigore paierno non è sempre moderato , per cagione, che il più delle volte questo parsa dal soverchio amore, al foverchio  (de  [ocr errors] 9  [deg no ; e poi i Padri vorrebbero in un tracto estinguere tutti i difetti de’loro figliuoli, e questi han d'uopo di tempo preparatorio non meno, che le valide medicine, come fa il Dottore.  Med, Questo è veriflimo, perche dandoli un violento rimedio, senza prepa, sare prima gli umori, danno maggiore potrebbe apportare ; quindi è che il noItro Ippocrate c'insegnò : Corpora cum quis purgare volucrit oportet Auida facere ,  Pub. Però se Neocle non avesse usato tanto rigore , con arrivar sino à privare della sua eredità il figliuolo , certamente, che la Grecia non avrebbe avu.  PC to il gran Temistocle, il quale ritrovan. doli in tali angustic ricavò dalla necefficà la virtù, essendo che bene spesso : veWatio dat intellectum .  GULE Mec. Questo esempio appunto fa conofcere, che sotto padri tanto rigorofi non possono educarli bene i figliuoli ; fpc posciache avendolo diseredato lo mandò ancora fuori di casa, e perciò averàalırove trovato chi lo cducasse con più discretezza; e poi questo fu un bene per accidente, il quale assai di rado rie. sce con tanta felicità, rimirandosi dall' altra parte infiniti, che discacciati da' propri genitori , datisi in preda maggiormente de vizj, terminarono infelicemente la loro vita negli spedali, ò disperati, di trovare modo da vivere, presero il soldo militare, per foftentarli in quel breve tempo, che vissero .  Pub. Or io sono di questo parere, che debbano i propri genitori educare i loro figliuoli; perche, se saranno buoni , e docili, riuscirà facile l'educarli; re poi perversi, ed ostinati niuno credo, che potrà usare diligenza , ed attenzione maggiore di cfli: saprete pure quel che seguì tra lo scolare, ed il maestro, fingendo il primo di studiare diceva sotto voce : tu credi, che io studj, e non istudio, al quale sotto voce anche risspoodeva il secondo : e cu credi, che jo mi curi di questo che nulla mi preme. Mec. Voi dite orcimamche, perche  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] fete capace di farlo, e fiete anche pru.  dente, mà come pretendete esiggere  tutto questo da un Padre imprudente, e  vizioso, il quale non rifletterà punto à  quel saggio documento di Giovenale  registrato nella Satira 14. il quale è:Maxima debetur puero reverentia, so quid  Turpe paras, nec tu pueri contempferis   annos,  Sed peccaturo obfiftat tibi filius infuns,  Nam fi quid dignum cenforis feceris ira,  Quandoque fimilem tibi ; te non corpore  Bantung  Nec vuleu dederit, murum quoque filius, & cum  Omnia deterius tua per veftigia peccer.     Pub. Allorsì, che converrebbe tro-  vare chi foffe capace di farlo , per la ra-  gione, che Giovenale medefimo appor-  ta successivamente nella Satira da voi  citata : Unde tibi frontem, libertatémque parensis  Cum facias pejora fenex? Wacuumque       cerebro   Jam  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Jampridem capul huc venioja cucurbito  quçrat . Mà però, che l'educatore insieme coll' educando dimorassero in propria casa.  Mec. E se in casa propria, oltre il mal esempio, la laurezza del vivere ritardassero i loro progressi?  Pub. Confesso,che in questo caso converrebbe mandarli fuori, ed in paesi anche remoti; acciocche il mal esempio, e la trascuraggine grande de' genitori, colà non giungeffero.Mà è possibile, che questi, a' quali non dev'esser cosa di maggior premura di questa, possano as proprio compiacinento dare mal efempio a' figliuoli? e poi se non sono prudenti, perche s'inducono à divenire Padri ? Certa cosa c,che i figliuoli mal ducati non apporteranno loro altro, che confulione, dicendo l’Ecclesiastico al 22. Confusio pat.is eft de filio in disciplinato.  Mer. Il mondo oggi corre cosi, mol. ti sono. Padri di nome, e solamente perche li hanno generati , onde perciò con  vie.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] X  viene ricorrere ad altri Padri savj, u prudenti , che gl' istruiscano, e fuori del proprio nido , essendo ora gran parte de' genitori divenuti imitatori de' corvi, è dello struzzolo, che gli abandonano, non già delle aquile, che con tanta attenzione istruiscono i loro polli.  Pub. Polliamo dunque conchiudere , che se i genitori saranno capaci, e diligenti nell'educare i loro figliuoli, niu. no meglio, di efli potrebbe farlo; e fe nella casa paterna si vivesse, come conviene non sarebbe d'uopo cercare altro luogo per educarli,potendosi con profit. to istruire in effa.  Sem. Che doverà fare il buono educatore, sia Padre, è estraneo, per isvellere da efsi i difetti?  Moc. Questo lo vedremo nella seguente Conferenza.  CON  [merged small][ocr errors] Intorno à quello, che debba farsi da'        Genitori   per  educar bene i figliuoli.  [ocr errors] Mecenate , Sempronio , Publio ,  e Medico  [ocr errors] мес. .  L peso maggiore, che abbiano i Pa. dri , mi persuado che sia l'educazione dei figliuoli s  perche si tratta di navigare sempre contro acqua, dovendo opporsi bene spesso alle loro cattive inclinazioni, e superarle à forza d'ingegno; e si trovano alle volte torrenti si rapidi, che si rende assai difficilc poterli alla prima superare.  Sem. Non mi fono risoluto fin ora di prender moglie; perche hò consideratoanch'io le molte difficoltà, che s'incontrano in questi tempi à ben’educare i fi. gliuoli , ne' quali vedo , che appenas slattati che sono, pretendono di fares à lor modo, senza avere alcun riguardo à quanto viene ordinato loro da'genitori .  Mec. Non vi sgomentate per questo ; Sempronio mio, essendoci il suo rimedio , quando chi sopraintende há prudenza, e la prendere, come li suol dire, la lepre col carro. Vi dirò io sci avvertimenti generali, che vi potranno molto giovare, allorche sarete Padre di famiglia ; nel particolare poi sarete meglio istruito da Publio.Ed il primo farà; che tanto voiquanto la vostra con. forte diare loro buono esempio.  Sem. Ed in quali cose ?  Mer. In tutte ; perche se voi sarete in continue discordie con vostra moglie, come potrete correggerli, quando mai foffero discordanti tra fratelli? se vorrete, che non disordinino nel nutrirsi, come lo potranno fare vedendovi cra  po  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors][merged small] polare giornalmente se li bramerece divori, come potranno essere, se non mostrerete voi coll'esempio, ciò, che volete , ch'essi facciano 3 E scoprendovi tutti dediti agli spasli, e piaceri, come pretenderece,che siano applicari allo studio, divagandosi ancor elli collaa mente nel pensare di fare il simile quanto prima , per imitarvi? non fate 10 una parola, che quel difetto,che volete da effi (vellere lo rimirino in voi medeliini, dovendo voi imitare Agricola, quando fi portò al governo dell'Inghilterra , allorche si trovava molto rilassata, il quale prima da se medelimo cominciò à dare il buono esempio.  Sem. Ed il secondo qual sarà ?  Mec. Di trattarli ugualmente tutti, senza mostrare parzialità benche minima verso alcuno.  Sem. Che male potrebbe apportare questa parzialità paterna  Mes. Infinito ; percioche usandola voi, non solamente darette occasione di odio tra fratelli, ed ecco, che invece  [merged small][ocr errors] che il pre  ce di svellere da esli i vizj gli accrescere. ste di vantaggio, mà ancora, che il diletto sarebbe meno attento degli altri ad approfittarsi de' vostri buoni docu. menti, persuadendosi egli, che' compacirete i suoi difetti, per l'amore, che loro mostrate, e gli altri,dal mal esempio di questo, che profitco farebbero ? Igenitori debbono : imitare il Sole, e la Luna , che risplendono ugualmente as benefizio di cutri : e sappiate che la parzialità, che usò David per Ammone fu la sua ruina ; impercioche questa lo fè divenire incestuoso, e quell'amore troppo tenero, che fè trascurare tal mi. sfatto,incitò Abfalone à divenire fratri. cida; mancamenti tutti derivati dalla connivenza paterna.  Sem. Il terzo qual sarà ?  Mec. D'accomodare l'animo vostro alla dolcezza, ed al rigore secondo le occasioni, che vi si presenteranno.  Sem. E queste quali saranno ?  Mec. Se voi li vedrete attenti , e che & approfittino dei buoni documenti che  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] avete dati loro, in quel tempo sarà opportuna la dolcezza; mà se poi vedre. te, che trascurino, e diferčino, dovrete servirvi del rigore per correggerli.  Sem. In tutti i loro trascorsi mi dove. rò contenere ugualmente severo? ,  Mec. Ci sono alcuni difetti, de' quali non si dee far caso, essendo prudenza alle volte non darsene per inceso; altri sì, benche minimi in apparenza, non debbonsi lasciare impuniti : per esempio una tal inavvertenza, nata più tosto da disapplicazione, che da disubbidienza è compatibile; mà non già una benche picciola bugia , ò una finzione maliziosa anche minna, dovendosi quefte con risentimento svellere affatto dow principio ; perche se prendono piedes non li svellono più ; ed in correggerli di queste non dovete usare il rigore alla prima, mà bensì colle buone far loro confeffare la verità, e conoscere il mancamento, e dipoi con risentimento ainmonirli, facendo loro capire , per quan. to sarà poflibile, la deformità grande  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] di tali vizj, con non perderli sopra quefti più di mira ; concioliacosache come insegna l’Ecclesiastico al 20. Mores hominum mendacium fine bonore : du confufro illorum cum ipfis fine intermifione .  Sem. Il quarto quale sarà ?  Mec. Di essere tanto voi, quanto las Madre sempre concordi in ammonirli; perche se un di voi li coreggerà, e l'altra li vorrà scusaro, non solamente non fi approfitteranno della correzione , mà prenderanno animo di far peggio, trovando chi li difenda ; ed in questo errore fogliono cadere frequenteinente le Madri con danno evidente della buona educazione; come par che l'accenni Salomone ne' suoi proverbj al 29. Puer qui dimittitur voluntati sur confundit miirem suam : ond'effe , per non cadere in questo, debbono imitare quelle faggio miatrone del testamento vecchio tra le quali che non fece Sara per l'educa. zione d'Isac, Rebecca di Giacob, od Anna di Samuele ; siccome ancora Sansa Monaca, S. Celinia, che fecero ofetime educazioni de' figliuoli, dilendo-   ne da queste nati un S. Agostino, un  S. Remigio: tra le quali merita anche   di essere annoverata la pia , e zelance  Madre di S. Andrea Corfini, che non  desistè giammai d'industriarsi Gintanto,  che non lo vide di lupo cambiato in  agnello.   Sem. Riferitemi ora il quinto.  Mec. Dovete parimente tener celato l'amore, che portate loro, ne tampoco con quotidiani gaftighi far loro credere, che Giete disamorato affatto verso di essi ; perche il soverchio amore li farà prendere troppa confidenza con voi ; ficcome alli continui gastighi facendovi il callo,non li prezzeran più . Quella correzione risentita , fatta à suo tempo, cou parole, che li pungano, serve as molei di stimolo maggiore ad operare bene, più di quello che facessero le sferzate . La scimmia, allorche si moftras madre sviscerata de suoi parti,con troppo ftringerseli al lato li uccide, e questo segue per lo soverchio amore, che  por  [ocr errors] porta loro , non già per isdegno. Il destriero più generoso colle continue sferzate divien reftio. Ordinariamente de Madri sogliono peccare di troppo affetto , ficcome i Padri di soverchio rigore; e da ciò ne viene , che più amorosi li portano i figliuoli verso le Madri, che verso i Padri, de'quali hanno bensì maggior timore.  Sem. Ed il sesto finalmente ?  Mec. Di non farli trattare in assenza vostra con persone, che possano distrug. gere quanto di buono avere in esli inlinuato; posciache debbono anche credere, che cutti abbiano da operare in quella forma, che voi prescrivere , che elli vivano; e se per disavventura udiranno da qualche malvagio consigliero maslime contrarie alle vostre , quanto male apporterebbero queste infinuandosi in quelle tenere menti, e non atte ancora à ben discernere qual sia il veleno, e quale l'antidoto. Ne vi starò so-. pra di ciò à riferir esempj, perche di Umili miserie ne accadono giornalmen  tes  [ocr errors] E  te, come voi ben sapere ; vi addurrà solamente ciò che si osserva in un certo  animale (come riferisce il Salier Hs: - Juppon:) che dimora in una montagna  del regno di Gotto nel Giappone, il   quale è in grandezza, e figura fimile al  lupo ; viene però ricoperto da un pelo  morbidiffimo al par della seta, e la sua  carne è delicatissima al gusto;entra que-  sto animale bene spesso nel mare; mas   se     per   fua (ventura s'inoltra molio in effo, diviene pesce, ricoprendosi di squame, de' quali essendone stato presentato uno al Re di Gotto, che per metà era divenuto squamoso, e nel rimanente conservava il suo morbidissimo pelo, fè ciò conoscere tal verità. Or se il conversare co pesci può far divenire un'animal si morbido anch'effo squamoso,che farà l'innocente giovanetto conversando cou cattivi? Che apprenderà di buono da quel lacche vizioso? da quel cocchiere scapestrato, è da altri viziosi? quando non facesse altro discapito, imparerà a correre, ò pure à guidare land  carrozza, oh che belle prerogative di un giovane nato per governare, e reggere qualche parte del Mondo! Quindi è che rettamente ordina l’Ecclefiaftico al 7. Difcede ab iniquo , & deficient man la abfte. E S. Agostino scrisse che : fitcilius eft fortem stare in martyrio, quam in pravå societate .  Sem. I Genitori, Publio , debbono ugualmente essere à  parte  dell'educazionc  Pub. Certamente, che sì ; mà però in modo, che uniforine vada la dettaa educazione, e perciò debbono in tutto portarli concordeinenre: si possono bene tra loro dividere alcune incombenze; per esenipio la Madre, essendo assidua, e non vagabonda,averà maggior campo d'infinuare loro , ed anco di fare apprendere in primo luogo ciò che riguarda alli precetti Divini , dovendoli allan sofferenza donnesca questa lode, che, per non attediarsi punto in replicare le medesime cose infinite volte, riescono in ciò lingolari, cd in segucla d'iftruir.  [ocr errors] li nel Galateo oon affetrato, e vano, ma bensì nel serio , ed in quello, che insegna ciò, che appartiene ad un gentiluomo cristiano, il quale non solamente è diretto alle cose mondane, mi alle divine ancora; e sopra tutto al rispecto, e venerazione, che si dee à Dio in ogni tempo, come dispone l’Ecclesiastico al 2. Serva timorem illius, do in illo veterafce; perche soggiunge: Quis enim permanfit in mandatis ejus , & dereli&tus eft? aut quis invocavit eum, & difpexis ilum?  Sem. Ed il Padre quale incombenza doverà prenderli ?  Pub. Essendo un poco grandicelli, e come li fuol dire già smammari, dee il buon Padre cominciare ad iftruirli in modo, che possano riuscire graci, ed utili alla Republica, come faggiamence viene avvertito da Giovenale : Gratum eft , quod patria civem , popu  loque dedifi Si facis,ut patria fit idoneus, utiliser E per fare questo dev'essere vigilaore',non solamente à rimuovere da elli certi primi difetti, che sogliono in quell'età manifeítarli, come sono la pertinacia , e disubbidienza , con certa vivacità di spirito contenziosa , e questo farlo più tosto con uno sguardo severo , e con minaccie, che con percosse in sì tenera età ; e qualche volca ancora il togliere loro parte della colazione è un gastigo molto profittevole ; 'mà divenuti, che saranno alquanto più capaci dee istillar loro maslime nobili, cd onorate, e replicatamente, à fine, che se le imprimano bene nel cuore.  Pub. E queste quali sono ?  Pub. La prima, ch'è la più essenzia. le, sarà di amare sopra tutte le creature Dio, e di venerare tutci i Sanri, con fare loro comprendere , che tutto il bene, che abbiamo, viene da Dio, e che non amandolo, non lo potremo da esso conseguire, non potendo avere altro, che lui, che ci soccorra nei nostri maggiori travagli: dicendo appunto l’Ecclefiaftico al 33. Timenti deum non occur.  rent  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] rent mala, fed insentatione Deus illums confervabit, & liberabit à malis ,  Sem. E dopo questa ?  Pub. La seconda farà di amare il noftro prossimo come noi medesimi, e di non fare altrui ciò, che sarebbe discaro à noi stesi ; e far loro di vantaggio capire, che ognuno sarebbe miserabile in questo mondo , se non fosse soccorso dal compagno : e venendo l'occasione di comprare qualche cosa,andare infinuan. do loro in quel punto questa verità, che se quel povero uomo non avesse faticato per noi, se sarà farto per esempio , noi . anderemmo nudi , ò vestiti al più di pampini , con mostrar loro ancora, che conviene sodisfarlo delle dovute mercedi , affinche possa vivere per averci à servire con puntualità un'altra volta : Capitando lavoratori di campagna farà bene che conprendano,che se quei miserabili non iftassero di giorno al sole, e di notte allo scoperto,non si mangierebbes quel bel pane , nè li berebbe quel buon vino, che ci portano in tavola, onde  [ocr errors][subsumed][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] degli altri.  che debbonsi con prontezza sodisfare, acciocche possano con amore attendere à coltivare la terra, che li produce mediante la loro industria ; e non perdere alcuna delle occasioni , che capitano per meglio imprimere in quei teneri cuori l'amore verso il prossimo, clas puntualità in fodisfare quanto si dee a' poveri mercenarj.  Sem. Offervo però quei, che sono più puntuali in sodisfare,peggio serviti  Pub. Non è così, Sempronio, può effere che vi sia taluno, che operi con questa ingratitudine, mà nell'universalc offervo, che chi ben tratta è ben tractato, e poi non ci dee già muovere à ben operare il proprio vantaggio; mà bensì, perche in coscienza liamo tenuti di sodisfarli puntualmente, ed udite che grave eccesso commette colui , che traIcura di farlo : Panis egentium, dice l' Ecclesiastico al 34. vita pauperum eft : qui detrabit illum bomo fanguinis eft. Qui aufert in fudore panem, quafi qui occidis  pre  [ocr errors] proximum fuum . Qui effundit fanguinem, e qui fraudem facit mercenario , fratres '. funt.  Mec. Queste massime sono certamen. te necessarie , affinche divenuti adulti non si facciano guadagnare dal mal esempio di alcuni , che costumano di fa. re ciocche non conviene ; e sarebbe anche necessario nel medesimo tempo d’in. finuare ne'loro animi la benevolenza neceffaria verso la servitù ; affinche la possano riscuotere reciproca dalla medefima ; perchè, conforme chiaramente fa conoscere Seneca nell' Epistola 47, è falso quel detto : Quot servi tot hoftes , dicendo egli : non habemus illos boftes, fed facimus; per non tratçarli in quellas guila: Quemadmodum tecum fuperiorem velles vivere. Onde io sono camminato sempre colle massime di questo grande Uomo nel inorale ; che il servitore: 60lat magis dominum , quàm timeat, e për cagione di ciò assegna:quod Deo fatis eft, quod colitur, eu amatur ; onde che più di questo noi non dobbiamo esiggere,  Y  da  [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] da noftri servitori, e tanto più che non paseft amor cum timorë mifceri.  Pub. Dice questo grand’uomo cercamente il vero ; perche se non farà reciproco l'amore tra il servidore, ed il Padrone, avendo continuamente questi. al.lato,continua sarà ancora l'occasione prossima di rammarico tra efl ; e fatto che averà l'abito in questo, non potrà più aftenersi di non contriftarlo, per ogni lieve cagione.  Sem. Dunque, Mecenate, al parere del vostro Seneca non si potranno licenziarei servitori, chcli porteranno male?  Mec. Non pretend' egli questo ; ma folamente, che non fieno i Padroni in fervos fuperbiffimi, crudeliffimi , dow contumeliofiffimi ; come pocrete vedere nella citata Epiftola. Sem. Essendo però noi li Padroni, toccherà ad efli soffrire qualche noftra ftravaganza .  Pub. Dobbiamo anche noi riflettere, fino a che segno possano quest' esferes forferte da cali perchè se le nostre stra-,vaganze fossero grandi, e continue, ci   renderemmo noi meritevoli di riprenfio.  ne : vietandoci l'Ecclefiaftico il farlo al  4. ove così dice: Noli effe ficut leo in doa  mo tua evertens domesticos tuos, & oppria  mens fubjeétos tuos . E c'insegna di van-'  taggio , come ci dobbiamo portare co")  fervitori senfati al settimo , dicendoci :  sonladas fervum in veritate operum, ne-  que mercenáriun danten animam fuam.  Servus fenfatus fit sibi dilectus , quas ani:  ma sua ; ne defraudes illum libertate, nebo   que inopem derelinquas illum,   - Sem. Ma se divenissero a noi importu.   ni, contradicendo a quello, che noi bra.  miamo di fare, doveremo anche collea  rarli?   Pub. Se saranno fedeli, e parleranno per zelo a bneficio voftro, dovrete non solamente tollerarli, ma eziandio amar-, li più di prima; perche farà segno, che non vi adulano,facendo cosa ucile a voi, quantunque la considerino svantaggiosa a loro medefimi, con moftrarne voi dispiacere ; ed udite l'oracolo dell'Eccle  siasti  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Aico al 33. Si eft tibi seruus fidelis, fortis bi quafi anima tua : quasi fratrem , fic cum tracta , quoniam in janguine anima comparasti illum. sibaforis eum iniuftè, in fugam convertetur. É cosa averete acquistato con perdere per vostro capriccio un servitore tanto fedele? quando ne trovarete un' altro fimile ad eiro ? & abbiate da me questa certa notizia, che l'adulazione ne' servitori, si è avanzata a questo segno , per il dispiacere,che alcuni Padroni mostrano nell'udire la verità fincera : laonde esli, per non perdere la loro grazia , vengono forzati ad adularli , c tradirli insieme. Ma vorrei, che questi, che hanno a male di udire da fervitori la verità, facessero attenta riflessio. be a quello che dice Giob al cap-31. che è questo: Si contempla fubire judicium cum Servo meo, e ancilla mea, cum discepia. rent adversus me : quid enim faciam cum Surrexerit  ' ad judicandum Deuse du cum quaferis quid respondebo illi ? Nunquid non in utero fecit me ; qui & illum operatus eft, & formavit me in vulva unus?  Semp.  Sem. Quando però saranno grandi li figluoli li scorderanno di questi utili avvertimenti .  Pub. Non sarà così quando il Padre, oltre il rammentarli frequentemente', li praticherà esso ancora, dal di cui buono csempio comprenderanno meglio, che debba farli così..  Sem. Vorrei sapere , Publio, fe il Pa. dre possa condurre i suoi figliuoli a vedere le maschere?  Pub. Anzi dee farlo, con que sta avvertenza però d'imprimere ne loro cuori , che quei,che con sembianti sì deformi, e spaventofi si trasmutano,sono paz. zi, e che quei sconci gefti, e parole oscene,chc dicono, sono tutticffetti della loro pazzia, con infinuare loro, che divenendo effi grádinon lo facciano per non essere anch'elli tenuti pazzi. Sole. vano i Spartani fare ubriacare i schiavi, c li facevano vedere a loro figliuoli, af. finchè prendessero orrore all’ubriacheza za da quelle pazzie, che da fimile get tc agitata dal vino fi commetreyades  rem  ied effendo riuscito a quelli profittevole; fperarei, che facesse il fimile anco a quefti, e tanto maggiormente non avendo il mal'esempio da i genitori, perchè se ne aftengono , cd essendo veriffimo quel detto : Quo fuerit imbuta recens fervabit ode  Tefta diu. Impreffe che faranno da principio ne' cuori de' fanciulli fimili verità, difficil. mente si cancelleranno più.  Sem. E crescendo negli anni, & avan. zandosi nella capacità, che averaano da fare i genitori?  Pub. Di prevenire tutti concorde mente i mali, ne'quali potessero cadere; insegnandoci l'Ecclesiastico al 18. Antò languorem adhibe medicinam , per lo che doveranno porre un antemurale a vizj in questa forma: Già efli averanno cominciato ad aver l'uso di ragione, e potranno comprendere qual fia il male, & il beno,cominciando a conoscere gli effetti dell’uno, e dell'altro; : onde venendo loro questi meglio spiegati comprende  ran.  ranno con più facilità qual mostro orrendo sia l'uomo vizioso, e quanto preggiabile sia colui, che abborrisce i vizi, quanto odiati da cucci siano i primi, ed amati li secondi, prenderanno in questa forma ancor efi orrore al vizio; efe non averanno compagni più che cattivi, i quali vadino seducendoli, come potrà cflere, che non s'incamminino ancor'eff per  la buona via ? ed una volta, che fi sono incamminati per essa colla grazia di Dio, e con l'occhio paterno vigilante sarà cosa difficile il discostarsi più das quefta .  Sem. E delle massime di onore, e de puocigli cavallereschinon ne discorrere?  Pub. E che credete voi , Sempronio, che le massime di Dio non siano anch'effe di onore, e cavalleresche? Impoffel fatevi bene di queste, che tutte le altre vengono di seguito ; non sapete voi, che la prima vircù : Eft vitium fugere, fapientia prima Stultitiâ caruifle. Datemi uno , che abbia in orrore il via zio, cche lo fugga, che io lo crederò perfetto in cutro.Sem. Io credeva, che queste matsime dovessero servire per i figliuoli, che s’indirizano alla vita religiofa,non per quel. li, che debbono vivere nel mondo, ove senza aver un poco d'inganno pare, che non a polla convivère;  Pub. Quanto ficte in errore ; perchè ugualmente sono necessarie le mailime di Dio per i Religiosi, che per i fecolari, dovendo tutti indirizarci per la via dell' ecernità ; nè crcdiate che godano quelli, che vivono,come voi dite al mondo, van. taggio alcuno di più di coloro, che ope. rano come si dee; anzi sono infelicillimi , & uditelo dall'oracolo dell'Eccle. {iastico al 2. V & duplici corde , d. labiis fceleftis, du manibus malefacientibus, peccatori terram ingredienti duabus viis. Va disolutis corde, qui non credunt Deo; & ideo non protegentur ab.co. Va his, qui perdideruns Justinentiam, & qui dereliquerunt vias rectas, diverterunt inue vias pravas. Et quid facieni cum infpicera esperit Dominus ? Se dunque lo mafime del mondo faranno differenti da queste  abban,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] - abbandonatele puré , che non fanno per voi , perchè come vi troverete senza il -Patrocinio di Dio?  Sem. Dicemi, se in casa ci saranno,oltre i genitori, altri parenti, li doveran. no ancor questi ingerire nell' educazione  Pub. Questi ancora , ma però più con dare loro buon' csempio, che con pas role; posciache è cola inolto difficile, che tutti questi siano uniformi nelle buone direzioni di effa'; oode fe taluno di questi-inlinuasse tal cosa, la quale sembrasse differente a quella , che udi da'genitori, o ficonfonderebbe, o per lo meno non prestérebbe la dovuta crea denza a quanto verrà foro insinuato da suo Padre, è questo lo mostrerò col segucnce. esempio . Nel domare i pola Icdri [ che "polledrucci anco possono chiamarsi i figliuoli, avendo bisogno'ral volta ancor esli di effere domati ] fcfaranno diversi li cozzoni, non folamen te ci vorrà più tempo in renderli docili , ma ancora potranno correre pericolo di  pren.  [ocr errors][merged small] -prendere qualche vizio ; perchè fentendo, oggi una mano più gravę, nel di seguente altra più legiera,e certe speronate differenti dalle altre , pon comprenderanno così bene quello , che doveranno fare; e cal, volca inasprendoli diverranno anche restj. Se questi paren. ti fossero tutti uniformi, e caminaffero colle medesime direzioni, potrebb'effere meno male, ma sempre meglio farà , che sia uno solo quel complesso , & armonia vaiforme de propri genitori savj, e prudenti, da'quali una sola volontà li forma.  i 37. Sem. Voi, Publio, che avete educa. toi vostri figliuoli da voi medesimo, in, segnatemi di quali documenti xifiere servito per iftruirli nelle þuo be creanze, cda cui gli apprendelte per potermene ancor'io prevalere a suo tempo 2  Pub. Per non crrare mi sono servito di quci, che non possono fallire, aven, doli ricavati dalla Sacra Scritsura.  Sem. E che parla quefta ancora delle buone creanze, che debbono insegnarli a'figliuoli?  Pub.  [ocr errors][ocr errors] Cena  Pub. Divinamente ne tratta l' Eccle. El di  fiaftico al 31. ove dice: Utere , quafi himo frugi iis , que tibi apponuntur , ne cum manduces multum, odio babearis; cela prior  causa disciplina , el noli nimius effe, ne * forsè offendas. Et fi in medio multorum fe.  disti prior illis , e exsendas manum fuam , nec prior pofcas bibere.  Sem. E del rispetto, che debbe avetfi a Maggiori, ne parla ?  Pub. Di questo ancora al 32. dicen. do: Adolefcons loquere in quâ causå vix', fibis interrogatus fueris ; babeat caput rée Sponfum fuum ; in multis efto quasi infciusi, audi taceus fimul' quçrens •  • In me dio Magnarum non presumas, & ubi sunt fenes non multùm loquaris : talmente che leggendo voi attentamente la Sacrae Scrittura , potrete divenire un'ottimo educatore de i vostri figliuoli.  Sem. Vorrei sapere ancora qual vizio giudicace peggiore di tutti gli altri, in un uomo civile, è facoltoso, sopra il quale fia d'uopo d'invigilarci più, che negli altri, per porerlo affatto svellere da figliuolis  [ocr errors] Pub. Io ho stimato sempre tutti i vizj per pesimi, non effendoci alcuno di effi tollerabile; quello però, che ho sem. pre proccurato di svellere con più attenzione da miei figliuoli, è stato l'avarizia; perchè ho sempre creduto, che, crescendo questa avesse superato tutti gli alcri, figurandomi l'avaro come una lacuna,che assorbisce in fe moltiffimi rivi, che debbono scorrerc ad inaffiare, e rendere fecondi molti campi; onde che, stagnando effi, possono apportare notabile danno a molti, c.quel ch'è peggio con danno notabile di chi li divia: ed udine, come a propofito l'efpreffe \'Eccicfiaftico al s.F4 & alia infirmitas peffima, quam vidi fub Jole : divitia conservala in malum Domini fui , pereunt enim in afflictione peffima, & in appresso miserabilis prorsùs infirmitas : quomodo venit,fic revertetur . Quid ergo prodeft ei , quod laborauit in ventum ? Cunétis dicbus vitæ fua comedit in tenebris , & in con ris multis, & in ærumna, aique friftitiâ ed il perche lo efpresc Orazio con dire Jemper Avarus eget.Sem. Ora io, che ho udito tanto, non sarà mai pericolo, che divenga avaro , sembrandomi la vita di questi infelicissima . E tornando all'educazione: se il Padre non fosse capace di educare, ela Madre fosse poco prudente, chi si dove. rà sostituire in loro vece?  Mec. Buoni Maestri, è se saranno ricchi , potranno provedersi anche dell' Ajo, di cui discorreremo nella ventura Conferenza.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] CONFERENZA III.  Intorno all'uffizio, e qualità dell'Ajo,  Ĉ dei Maestri:  [merged small][ocr errors] V  [ocr errors] Sem.  Ual'è l'uffizio dell'   Ajo ?   Pub. L'Ajo dee at-   tendere precisame-   te al costume, ed   a ciò ch'è ordina. to ad effo.  Sem. Ed al Maestro, che apparticoche di fire ?  Pub. Oltre quello, che riguarda il costume, dee ancora insegnare loro le scienze, & tutto quello, che ha da premettersi per il conseguimento di elle. Semp. Ma non potrebb’essere anche  Ajo  Ajo il Maestro, giacche attende questi al costume ancora ?  Pub. Alcuni lo praticano ; altri poi più facoltosi provedono di Ajo, è dit Maestro i loro figliuoli , credendo il far ciò diligenza maggiore.  Semp. Ma realmente, chi di quefti fa meglio?  Pub. Se s'incontrasse un uomo versacissimo nell’una, e nell'altra profesione , mi perfuado :, che questi foffe di profitto maggiore, ma per essere raris : fimi quefti,quindi è, che chi può li provede dell'uno, dell'altro.  Sem. Che condizioni dee avere l’Ajo?  Pub. Dovcado egl'istruire nel costume, lo doverà avere anche otti  mo in priino luogo , dovrà essere prus Idente, ed accorto, industrioso, e diri  piego prontojalliduo, crudito nelle ftoorie, non molto colerico, sostenuto, che di abbia ancora parti da faríi amare , fia  prarichissimo delle cose del Mondo , e se fosse versato in medicina, sarebbe anche ile requisito.  Sem.  [ocr errors] Sem, -Mà trovare tante parti in un uomo farà cosa molto difficile.  Pub. E perciòi rari fono quei , che facciano l'uffizio loro come si richiede; contenrandoli', alcuni Padri di averly nobile sì, mà nel riinanente , come si diffe; folamente di citolo, battando loro di avere l'ombra , e non tutto l'effenziale di efia, persuadendosi , che questa possa essere sufficiente.  Sem. E come, anderebbe Gmil'educa. zione?  Pub. Quafi nella medesima maniera , che se non ci foffe chi la dirigeffe , porendo fare l'educando a fuo modo .  Mac. lo so, che dovendosi provede re un Signore di qualità dell'Ajo, furongli proposti diverli ; trà quali vi era un nobile ,'mà poco erudito; un Poera infigne ; ed un eccellente Geografo, ed Aftrologo insieme ; niuno di questi volle al suo fervigio ; ricufando il primo, per il motivo, che di nobiltà il suo figliuolo nè aveva a sufficienza ; al secondo oppose , che Aimava fi fosse potuto  trop.  U troppo divagare dal suo ufficio chi at  tendeva a comporre poemi, nè volle il che terzo, perchè dubitava che l'aveffe fated  to troppo girare colla mente, non che avendo altro , che discorrere seco, che  di cielo, e di terra: alla fine gli fu pro* posto un buono Istorico, eccellente Fi.  losofo, e Matcematico , questi disse fà al mio bisogno: perchè gli mostrerà come fi dee yiyere cogli esempi altrui, l'insegnerà a tirare le linee recte , ed a prendere col compasso le misure giuste 3 ; e lo fermo al suo fervigio,  Sem. In qual'età li dee porre sotto la cuftodia dell'Ajo l'educando?  Pub. Più prestamente, che si può.  Sem. Mà 'non sarebbe fpefa superdua questa , ponendosi in età, nella quale non è ancora capace di comprendere i buoni documenti?  Pub. Non li chiama mai spesa super, fua quella, che & fà per educare i pro· pri figliuoli, essendo ucilisfimo rinvesti. ·mento,perciocchè, acquistato che averanno elli le virtù si troveranno un gran tesoro, e non soggetto alle vicende della fortuna; ed in quella età, quantunque non comprendano i buoni documenti, nulladimeno questi in qualche parte, cominciano ad imprimerli nella loro mente oltre;di che quanto gioverà, per conoscere le inclinazioni nacive l'averli ayuci in custodia da çenerį anni?  Meç. Si disse tempo fà di uno, che gettava il danaro avendo posto l’Ajo al figliuolo di età adulta, e divenuto già alquanto vizioso, perchè non averebbe allora potuto egli più emendarlo, aven. do prelo già possesso in esso i vizj.  Pub. Questo lo credo anch'io ; per. chè le piante tenere sono quelle , che si possono piegare a proprio compiacimento, dove che le già cominciare ad assodarfi vogliono crescere co’loro di. fepti , quantunque ci si adoperi ogni in. duftria per emendarli. Quindi è che l'Ecclefiaftico al7.così ordina. Filii ribi sunt, Erudi jllos, & curva illos à pueritia illorum.  Sem.  nes  [ocr errors] Sem. Qual onorario si dee dare all' ile Ajo ?  Pub. Non ci è danaro, portandosi be  che uguagli il beneficio, ch'egli apporta , onde deefi generosamente trattare,  Mec. V'era un’mio amico', che solea dire che se avesse trovato un educatore, a suo modo , per i suoi figliuoli, non solamente lo averebbe trattato assai bene, mà di vantaggio gli averebbe anche la. sciato nn grosso legato nel suo tcftamento , per maggiormente animarlo ad impiegare ogn'industria poffibile pro de fuoi figliuoli,  Pub. Costui mostrava conoscere cer. tamente l'utile maggiore de suoi figliuoli; perchè ben comprendeva, che rimanendo dopo la sua morte efli bene educati quancunque fossero alquanto meno ricchi di beni di forcuna , sarebbe questo stato compensato dall'utile assai più riguardevole, che risultaya loro dalle virtù acquistate, posciache al pa. rere di Cicerone.Ora:pro Sexto: virtus in  [ocr errors] tempeftate fava quieta eft,lucer in tenebris , expulsa loco manet tamen, atque hş. ret in patria , Splenderque per fe semper, neque alienis unquam fordibus obfolefcit , quale sorte cerçamente non godono le richezze.  Sem. In qual modo si hanno da prevalere della loro industria, e prudenza nell'educarli?  Pub. Secondo l'età si debbono anche regolare. Nè teneri fanciulli con maniere foavi debbono insinuare loro quello, a che dicemmo essere tenuti i propri genitori, ę fucceffivamente fecondo vedranno i narurali così debbono opcrare  Som. Di quante fpecie possono essere questi naturali?  Pub. E quì presente il Dottore, che meglio di me potrà fodisfarvi ; iftruite, lo di grazia in questo brevemente e con termini chiari da capirsi da ogn'uno :  Med. Secondo la diversità de temperamenti sono varj ancora i naturali ; posciache questi da quelli in gran parta  des  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] derivano, ed effendo quattro le specie bi principali de temperameati a quattro  sorte ancora si potranno ridurre li naturali de figliuoli, cioè all'igneo , o biliofo, che dir vogliamo , al femmatico, al melanconico, o al soverchiamente allegro, detto fanguigno. Ci sono poi altre specie subalterne, che nascono dalle diverse mescolanze dei liquidi, che nella massa umorale predominano, de quali ora non ne parlo.  Sem. Per meglio distinguerli dunque i  doverebbe l'Ajo essere Medico ancora.  Med. Cimancherebbe questo d'averci anche da impazzire co'ragazzi, forse che non ci danno da fare a bastanza allora che sono infermi?  Sem. Questi naturali sono sempre uniforme in tutte l'età?  Med. Sogliono variare fpeffe volte nelle mutazioni di esse, offervandoli ciò manifeftamente. Sem. E  per quali cagioni? Med. Perchè varia la massa de Avidi, secondo che ci avanziamo nell'età  acquis  [ocr errors][ocr errors] 2 3  acquistãdo energia maggiore alcuni fer, menti col crefcere gli anni, ficcome questa si può scemare ancora accostandoci alla vecchiaja.  Sem. Come si dovrà regolare con chi è di naturale biliosoa,  Med. In quefti, per quanto si può, è sempre meglio servirsi della dolcezza ; poscia che colle afprezze maggiormente si accendono, ed allora divengono pertinaci.  Sem. E se di questa si abusaffero?  Med. Allora la dolcezza dell' Ajo dee cambiarsi in rigore per far loro conofcere , che nel mele, e nel zuccaro ancora è nascosto l'amaro.'  Pub. Di questo già raggionammo baftantemente nella paffata conferenzas istruendone i Padri, onde non stiamo.a dilungarci di vantaggio  Med. Siami permesso di aggiungere, a quanto fù detto, una mia rifeflione, ed è quefta : che le severe correzioni riescono più utili fatte a sangue freddo, canto per profitto dell'educando quanto per vantaggio dell'Ajo , che può senza ira insinuargli le sue più mafurate ammonizioni , e restano anche maggiormente iinpresse ricevute di mattina a ventre vuoto, essendo la mente anche più limpida, dove che ricevute allorche si trovano già agitati dall'errore commesso, non sono cosìcapaci di comprenderle.  Sem. Come si doverà contenere co' sanguigni.  Med. Questi sono più facili de primi ad educarli  ; perchè sogliono essere difinvolti ;basterà tenerli frenati in certi eccelli , ne quali potrebbero cadere', di soverchia allegria, e curiosità, ed avvicinandosi all'età giovenile tenerli lontani da cose veneree .  Sem. Che potrà fare il povero Ajo allor che sono grandicelli, ed averanno quei stimoli, che fanno prevaricare anche i saggi?  Medi Il miglior antidoto , che fias contro li stimoli della lussuria c, di condurre qualche volta i giovani ne noftri  Spe.  [ocr errors][ocr errors][merged small] 24  spedali , ed in tempo, che si faccias qualche amputazione di parti genitali putrefatte, a cagione del morbo gallico: e cercamente induce loro tale spavento sì crudele spettacolo, che si sono alcuni di questi spogliati affatto di fimili pensieri, per l'orrore conceputo allorchè udirono, che da donne era ve. nuto quel tanto male, e che per esse conveniva soffirire sì atroce tormento di ferro, e di fuoco, e di vantaggio di non essere più uomo.  Sem. Ec i malinconici come vanno trattati?  Med. Questi appunto sono quelli , che fanno fofpirare non solamente i poveri Aji, mà ancora noi quando essi sono malati; perchè hanno un naturale stravagantissimo, é maggiormente fe regierà in elli qualche porzione di umore chiamato atrabilare : bene è vero però, che nell'età tenera non hà tal'umore. quella energia, che si manifesta colcrefcere essi negli anni, e questi ò danno al byono, e divengono eroi, ò al pessimo ,  elo.  [ocr errors] [ocr errors] e sono molto iniqui, e perversi; debmit bonsi dunque con grande industria  queili  fti trattare, e senza usar loro molta vios  lenza, e più coll'affiduirà , e colli efemin pj fatti da lor medesimi leggere, o rifei riti di persone viventi da loro cono, of sciute, che con aspre sferzate;debbonsi  anche tenere divertiti, & applicaci a più cose, alle quali abbiano genio.  Sem. Come divertiti, & applicati, parendo queste cose contrarie  Med. Divertiti, dico, con far loro prendere aria amena , conducendoliins  villa più frequentemente degli altri, & i applicati alle volte a cose diverse dallo studio, come farebbe il suono, il  quale se sarà di loro genio li può tenere lontani da que pensieri tetri, che occupa  no continuamente le loro menti; ma di o questo converrà discorrerne più diffusamente a suo tempo.  Pub. Egliflemmatici come van regolati ?  Med. Questi sono quelli, che se non faranno onore all'Ajo gli recano almeno  poo  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] pochi travagli; perchè fogliono essere pacifici, e tardi d'ingegno: Ben'è vero però, che nelle mutazioni dell'età sogliono alle volte sciogliersi, e divenire un poco più spiritosi, e fare ancora com  petente riuscita.  [ocr errors] Sem. Come suole essere, Publio, di profitto l’Ajo, facendo anche da Maeftro, nelle scienze ?  Pub. Se terrà lo stile praticato da Mae. Ari, riuscirà egregiamente come dicemmo ; ma se vorrà poi insegnare colla medesima maniera le scienze, che insinua il buon costume,anderà tutto peffimamente.  Sem. E perchè  Pub. Lo stile tenuto dagli Aji in istruire nel buon costume è d' infingare tutto in voce, il quale nulla giova per fare loro apprendere con fondamento le frienze ; perchè queste sarebbero superficialmente adattate , & à quella guifas appunto, che G soprapone loro ridotto in fogli al legno, il quale col tempo di. sperdendol rimane legno ciò, che mo.  Atraa  [ocr errors] tre ftrava di essere oro, dove che il Maes po stro, professore esperto, procura d'in=  finuarle nella mente colle sue regole, e collo scritto, affinche abbia pronto il comodo di ricordarli di quello , che si  fosse mai dimenticato. G Mec. Ora comprendo da che fia  pros ceduto, che viaggiando molti anni fono udj in una Città discorrere alcuni giovani co molto spirito in ogni scienza, i quali per essere di poca età mi recarono ammirazione ; ma avendo avuto curiosità alcuni anni dapoi di sapere se profitto maggiore avessero farto, mi fu risposto, che avevano più tosto deterio.  rato; bisogna dunque che il loro Ajo gli de aveffe istruiti a braccia , e non con fon10 damento.  Pub. Nerone, che fu istruito da Seneca in questa guisa, fece alla prima las < sua bella comparsa, ma terminò poi u peffimamente.    Sem. L'autorità dell' Ajo sin dove fi  Atende?    Pub. Tanto'oltre, quanto quella del Padre,dovendo essere amplifima, a fine che f. rendano ossequioli, & obedienti ad effo,  Mec. Le Madri però sono quelle, che procurano di ristrignerla,imponendo loro, che non li gastighino, nè li sgridino, ma che li compatiscano se non si approfittano de’loro documenti; e questo lo fanno per rimore, che non fiammalina, e bene spesso,per questo timore di male ideale , ne nasce il certo male della possima educazione loro ; perchè per non disgustarle gli Aji fanno a lor modo, comportando quanti difetti efG hanno: le saggie madri però lasciano che li gastighino ad arbitrio loro, eli correggano secondo il bisogno , conoscendo queste per isperienza, quello che per dottrina ancora conobbe Salomone al prover. 22.  ftultitia colligata eft in corde pueri, d virga disciplina fugabit Cam •  Sem. Debbono usare distinzione alcu, na in questo, secondo l'erà ? Pub. Essendo l'Ajo prudente saprà re.  go:  ne  [ocr errors] golarsi anche in questo , & accomoderă i il gastigo secondo l'erà, econ quei mo.  di, che conoscerà effere all'educando più sensibili ; per esempio se lo scorgessc goloso, il fargli sottrarre qualche pietanza in tavola gli sarà di gran gastigo ; se giocoliero, togliendoli quell'ora di divertimento, lo toccherà lül vivo; e fe averà un certo roffore in sentirsi sgridare, questo sarà appunto l'opportuno suo gastigo ; in somma il migliore sarà quel. lo, che si renderà più sensibile.  Sem. Può l’Ajo per qualche suo af. 1 fare allontanarsi da effo ?  Pub. Per quanto meno farà possibilu dee farlo; perche non mancano scelerati adulatori, i quali, per guadagnarsi la grazia de padroni giovani,infinuano loro ciò , che può dilettarli , quantun. que lia pregiudiziale, e per ciò se mai doveffe allontanarsi da effo per qualche tempo, dee avere di chi possa fidarsi in sua assenza .  Sem.E qual sorta di divertimento deb, bono permettere loro?  [ocr errors] [ocr errors] Pub,  :: Pub. Tutti quelli, che non sono viziofi, e fono ad esli geniali, per esempio il giuoco delle boccie, della palla, del volanıę, ed altri, anche più laboriosi di questi, competenti alla loro età.  Sem. Nel tempo che sono direrti li fi. gliuoli dall’Ajo possono i Padri educarli ancor effi?  Pub. Se saranno capaci di uniformarfi alle buone direzioni dell'Ajo, pofranno qualche cosa contribuire ancor essi, L'incombenza loro però è di offeryare qual profitco facciano, e di sentirne anche il parere di più persone capaci sopra i loro buoni progrefli , esaminati che li averanno; per altro scorgendo, che yą. da tutto a lyo dovere non debbono con fondere i figliuoli con documenti diffc. reori, ne contristare l? Ajo con varjare il loro metodo; bafterà la loro vigilante  Lopraintendenza ; mà muta quando non vogliano come doverebbero, effimedelimi in tutto instruirli.  Sem. Bramerei ora sapere le condi. zioni che doyerà avere un ottimo Mae. Aro  Pub.  [ocr errors][merged small] [ocr errors] 101  Pub. In primo luogo dev'essere di via ta esemplare, dotto , c prudeme , siccodel me è necessario ancora, che abbia buo  na comunicativa, per farsi ben capire,  fia sostenuto, diligente, e si sappia far 1 amare, e temere, e sia anche pratico  delle tristizie de figliuoli, per non farq gabbare da effi.  Sem. Trovandogi un uomo di tante buone qualità potrebbe anche servire I per maestro di casa, ed elascore nelme,  desimo tempo; perchè facendosi ben ca. pire, indurrebbe più facilmente i debi,  tori a pagare ciò, che debbono particos e larmente ora, che sono tanto renitenti di farlo,  Med. Questo e uno degli errori mal. fimis perch'essendo talunò ottimo per un impiego 2 con darglicne tanti fi fa in modo , che divenga trascurato in tutti; essendo grito quel detto; Pluribus intentus minor eft ad fingula fenfus. Or io coftumo questo s chi mi serve., faccia solamente l'ufficio suo ; perchè considero,' che non sia poco,che li riesca in una sola  cosa,  cosa, ed ho provato con isperienza, che se taluno procura ingerirsi in più, confondendole tutte , ne pur una ne farà bene.  Pub. Voi Sempronio vi figurate, che fia picciolo affare l'insegnare a figliuoli le dottrine , e ben picciolo il generarli, mà non già il farli divenire uomini eccellenti; perchè in un istante si generano, e con poca fatica , mà per bene addottrinarli non solamente vi è duopo di molti anni, mà ancora di attenta , ed induftriosa applicazione . Per abbozzare una statua ci vuole poco, mà per ridurla a somma perfezzione numero infinito di sealpellate di più ci vogliono; C riflettendo voi al valore della statuas abbozzata, ed a quello della ridotta a perfezione, ben comprenderete il van. tagio di più che ne ricaveranno i vostri figliuoli dal Maestro, che istruisce con profitto.  Sem. Io lo dicca a buon fine ; perchè risparmiandosi qualcheservitore,mi riufciva più comodo di fargli un buono af4 fegnamento , acciochè viveffe contea. to.  Pub. Glie lo dovete fare senza accrom (cergli maggiori brighe, se bramare, to che la statua da voi abbozzata abbia iti ma , e valore grande,  Mec. Veramente in quei casi conviene deporre l'avarizia', ed ogni parkmonia ; e non fare come quel Padre sciocco riferito da Plutarco, che domandando ad Aristippo ; quanto paga. mento ricercava per ammaestrare il suo figliuolo, udendo domandare inillo dramme rispose ; questo è troppo ; perchè con mille dramme potrei comperarç  un servo; çoi saggiamente replicò: duna que averai due servi, tuo figliuolo, e  e quello, che comprerąi: facendogli conoscere, che se non era bene ammacftrato, sarebbe diyenuto un servo il fuo figliuolo ancora.  Sem, Quale farà l'incombenza del Macftro?  Pub. Gjà per quanto appartiene al co. fune seguirerà quello, che si è detto  CON  [ocr errors] Аа  1  con cominciare prima da Dio ;' nel rima, nente poi lasciate pensare ad esso, per; che avendolo scelto pratico, e dotto faprà secondo l'età, e capacità andarlo itruendo come fi dee: bensi voi di. chiaratevi apertamente com voftri fi, gliuoli alla sua presenza , che volete,che lo ftimino, ed obbediscano da Padre, con dargli ogni più ampla facoltà di cor.  eggerli, e gaftigarli severamente in ralo di bisogno; perchè bramare di riconofcere per figliyoli solamente quei , che studieranno, e faranno passata nelle ccienze 1 Mec. Quanto fu mai eroico l'atto, che fece l'Imperatore Teodosio ; impercioche avendo scelto Arsenio per Maestro del fuo figlinolo, ed avendogli detto; Pofthac tu magis pater ejus quam ego, come riferisce il Baronio all’A.380-avvenne un giorno, che passando Teodo, 'fio per la camera, oye Arsenio faceva la repetizione a suo figliuolo, osservò , che il Maestro fe ne stava in piedi, e lo [colaro affifos ne bo potè coptcnere di  non  [ocr errors][ocr errors] non dimostrare ad Arsenio il suo dispia çimento ; veramente gli disse ini avvcdo, che voi non sapere far bene il vo. ftro uffizio ; tenete, tenere il grado di Maestro, e non di scolaro : Sagra Mac fta , replicò Arsenio, non sarebbe punto convenevole, che io mi ponelli a se. dere per dar la lezzione ad un Imperatore; ciò udito Teodofio tolfe la Coro, na di capo al suofigliuolo,c comando ad Arsenio , che fedesse ; & ad Arcadio suo  figliuolo, che stasse in piedi colla testad á scoperta, fin tanto che il Maçstro gli parlaffe ,  Sem. E se non faceffero tutto quello i profitto, che io defiderasli, che averò el da fare?  Pub, Vedere, Sempronio, parliamo chiaro, i Padri yorrebbero dopci in bre. yiflimo tempo  i loro figliuoli, onde in quefto non abbiate tanta fretta, lasciateci porre il sempo neceffario per impof  sessarsi bene; må se poi vi accorgette, nel che oon dare tempo al tempo non li apejet profitrassero, doveţe esaminare d'onds  A a 7  prox  ,  [ocr errors] erro  [ocr errors] [ocr errors] provenga la cagione, e se saranno più Hgliuoli, vedendo , che taluno di edi li  di approfittaffe, e gli altri rimanessero indietro, la colpa non sarebbe del MaeItro, ma bensi dei figliuoli, e che non applicassero, o che non fossero di mente ancor capace di apprendere. * Sem. E se la cagione venisse dal Mae. Itro, che fosse disapplicato , contenzio, so, o troppo bestiale ?  Pub. E'voi trovarene un'altro į mas non date fede loro alla prima ; perchè dopo , che averanno ricevuto il gastigo verranno a piangere da voi, el dole.  che il Maestro fia bestiale; ma non diranno già la cagione giusta; per çui li ha gastigati; ed in questo caso avvertite a non dar mai ragione a loro trovandosi presenti,anzicon volto afpro sgridageli , e dite loro che lo averanno meritato : informatevi però bene come è andato il fatto , per ritrovare la verità.  Sem. Ma venendo per colpa de figliuoli che averà da fare?  Pub,  ranno,  Pub. Se saranno disapplicati, vedete ancor voi di usarci diligenza , con promettere loro premi per animarli ad essere più attenti ; e fe poi venisse dall'incapacità in qualcuno, bisogna averci pazienza; e rimirate le dita delle vostre mani, che ancor’esse non sono uguali , e pur la mano turta insieme fa l'uffizio suo; così parimente sarà la figliolanza, quando venga secondo la sua capacità impiegata bene.  Sem. Dolendosi il Maestro di questo, e dichiarandosi di non poterci aver più pazienza?  Pub. Confolatelo, & animatelo ad averci ancor effo pazienza, conforme conviene, che P abbiate ancor voi  Mec. Si doleano con Antipatro i MaeAtri, che i suoi figliuoli non volevano per tante fatiche, e diligenze usate loro , approfittarsi punto dei loro documenti, e per consolarli egli dicevan che vi era un paese nel mondo, ove le parole si gelayano in tempo di verno appena uscite dalla bocca, a cagione digio  freddi ecceffivi, che le racchiudevano nell'aria, ma appena comparfa la primavera,fgelandoli queste allora si udivano.. Non dubitate , diceva loro » che verrà ancora in essi la primavera ; ed alloras queste parole, che odon'ora da voi , fi Igeleranno ancor effe; continuate pura parfare , per  , per uđitne all'ora di vantago Sem. Dovero comparire nel cempo , che si fa scuola?  Pub. Anche, frequentemente s per ve. dere che si fa, per aninarli insieme a portarfi bene, c tenerli in freno.  Sim. Stimate neceffario ohre di tea net loro il Maestro di mandarli alle fouo: le publiche?  Pub. Per godere di quei vantaggi, che apporta l'emuluzione può essere utile : debbonfi però avvertire due cofe; la prima , che vadano sempre accompa. gnati dal reperirore, perchè del fetvis rore in curto non vi dovete fidare, poa tendolo indurre fare a lor modo:Pal. tra poi che fixno vicini in feuola a come  pa  [ocr errors][ocr errors] mpagni bene accostumati, perchè ivi po.  trebbero divenire maliziosi trattando  con carrivi. eri  Mec. Bisogna ancora stare molto cau., telato nello scegliere questi reperitori, detçi comunemente Pedanti, perchè  vi è stato tra esfi cal’uno, che insegnaya of  a' figliuoli il fare la fabbatina , il giuoco delle carte, & altri vizj in vece delle virtù; e vi è stato chi di questi ancora così iniquo , che ha  procurato, che abbandonaffe il figliuolo la casa paterna , dopo d'ayer rubaro al Padre qualche fomma di danaro considerabile, e seco conducendolo fuori di stato , per ispre. garla. Onde se non si sappia che siano di ottimi costumi, non debbonli consesgnare ad effi i propri figliuoli, per non ricevere quella riprensione, che fece Diogenç Sinopio a quei di Megara, dicendo loro, come riferisce Eliano, che fi contentava di essere più rosto un ariete della lor mandria, che loro figliuolo, perchè a custodire quello impiegavano uomini fedelilimi, & ad iftruire questi  ripų  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] A a 4  riputavano abile chiunque fi folfe loro abbattuto dinanzi.  Sem. E le figliuole fi debbono regola. re nella medesima forma? :)  Pub. In alcune cose non vanno regolate così, conforme udirete nella seguente Conferenza.  w  CON  [ocr errors][merged small][merged small][merged small] Semn.  He differenza cie  tra l'educazione dei С  figliuoli, e quella delle figliuole ?  Pub. Primieramen:  te, che queste,non dovendosi incamminare per la via delles fcienze , non hanno d'uopo di tanti maeftri; e poi essendo diverli i loro vizj, e naturali inclinazioni,debbonsi quefticon differenti manicre correggere ,  Sem. ' quali sono questi vizj delle figliuole  22 Pub. La vanità par che nasca con lo ro, quçfta opera, che moltissime di  effe  [ocr errors] cffe sino dalla nascital  par  che mostrino compiacimento in fegtir lodare la loro bellezza : ha poi la maggior parte di cffe, un certo difpreggio, il quale viene da alcuni creduto per vivacità di fpirito; altre poi fin d'allora moftransi vezzofe, e molto affabili; e vi sono ancora di quelle, le quali danno a divede. re appena nate la loro dispettosa rozzez. za , contrafegni tutti non leggieri di ciò, che possa nell'età pid avanzata ope. rare la loro naturale inclinazione.  Sem. Di correggere tali difetti cui partiene principalmente  * Pub. Alle Madri, che con affiduità amorosa aflifton loro ; dovendo i Padri portarsi giornalmente fuori di casa per affari, che li tengono alle volte lungo tempo occupati; c quefte avendo bisogno di una affidua cuftodia da niuno meglio, che dalle Madrila poffono riccvc, re: debbono però i Padri per quaaco fa. rà perineslo lorosinvigilarci attenicamene te anch'effi. Sem. Che dovranno fare le Madri in quella tenera età, nella quale ne put capiscono ciò che loro si dice?  Pub. Poffono far tholco, con impea dire ancora, che non rimirino , ed odino ciò che non è convenevole; perchè quello, che mostrano inclinazione alla vanità; non bisogna cominciare ad ornarle vanamente, pe å far loro certi ýczzi disdicevoli, perchè s'imprimono quelle vanità, e quegli atti con facilità grande in si tenera età; quelle bensi che mostrano dispettosa rozzezza pof. fono follorarli con fimili vezzi  per  inco minciare a poco y a poco a renderle più  [ocr errors][ocr errors] umane.  [ocr errors] Sem. E di poi cominciando a capire , che dovrà farsi?  Pub. Allora farà tempo d'incomina ciare a far loro apprendere , che la bela lezza della donna non confiste ja altro che nella bontà de'coftumi.  Sem. Oh capiranno beneche cosa dano costumi le picciole figliaole?  Pub. Non importa, perchè quantunque allora pon lo capiscano, nulladime  nos  [ocr errors][ocr errors] no ,  effe continuando ad udirlo a fuo tempo ben lo comprenderanno; basta che allora non si secondino le innate inclinazioni loro viziose.  Sem. Mà fe la Madre avesse compiacimento di essere stimata bella, c fpiritofa, e forse anche vana , come potrà istruire la sua figliuola diversamente da sè medesima, e che non abbia da compiacerli anch'essa di ciò ?  Pub. Ora entriamo nei guai grandi, perchè se la Madre non diriggerà bene tal affire, l'educazione anderà pellina  menic.  Sem. In questo caso che dovrà farsi?  Pub. Quello appunto, che fù da me praticato, di provederli d'una buona matrona ; e se questa fù utile alla mia famiglia, essendovi la Madre capace, evigilance,  ; quanto più sarà geceffaria in questo caso, che voi mi rappresentare ?  Sem. Lo credo anch'io; dunque essendo duopo provedersi della matrona, ditemi quai requisiti dovrà avere per far bene l'uffizio fuo ; perchè essendog  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] dismesso questo buon servigio, non si potranno trovare con facilità quelle , che siano esperte.  Pub. Non dev' essere giovane , nè vecchia , mà di età conlistence,  Sem. Perchè non vecchia , pocendo quest' avere maggiore sperienza del mondo?  Pub. E vero , mà la vecchiaja ancora la può rendere più fastidiosa , e meno attenta : e poi se dovrà cuftodire le vostre figliuole, che hanno da nascere, chi sà se fosse allor viva ; e vivendo farebbo decrepita , quale età non lega.molto colla gioventù, e perciò non sarebbe ad effe accetta,dec ancora essere di buo. ni costumi, e pia,di parentato civile, ed onoraco , prudente , discreca, attenta, affezzionata', che sappia ben cucire di bianco , leggere , fcrivere mediocres mente, e che non sia curiosa di leggere: libri profani, e lascivi. p9  Sem. O che mal farebbe, se leggere ancora l'istorie profane, potcado fervire si di effe per meglio iftruirlo?  Pub,  -1  Pub. Le storie profane non tutge conferiscono alla buona educazione, el, fondovene alcune molto nocive ad essą come già dicemmo, onde chi sà, che prendendo diļetto in udirne riferire alGuna di queste, non prendessero amo, re anche l'educande a simile lectura  Sem. E se sapesse la lingua francese , o spagnuola, non sarebbe maggior van taggio , per insegnare loro quel parla. xe , che oggidi è tanto in uso ::Pub. Che pretendete ? forse di mari, farle in Francia, o in Ispagna ?  Sem. Non lo dico per questo fine, mà veáendo qualche lignora di quei paeli , o trovandoli con alcuna , che la parlasse, sarebbe da esse capita, e por trebbero risponderle.  Pub, Voi vorreft'educare le vostre fi, gliuole per far pompa del loro spirito , e non vi accorgete, che quefta non è la sua strada; e qual nccefficà avete,cheessa converfino , e tratejno con gence ftraniera s volere forse, che apprendano į cofumi loro diffepsadi dai noftri?  Sem,  [ocr errors] [ocr errors] GB  [ocr errors][ocr errors] Sem. Non bramo quefto, mà hò sentito dire , che sia vantaggio grandes e l'avvezzarle disinvolte, e spiricosc, perchè più facilmente fi maritano queste,  Pab. Voi prendereste moglie di spiritofa, e disinvolta  Şem. Io non già, ora chc sò come debi ba sceglierli.  Pub. E perchè dunque volete incam, minare le vostre figlie per una yia , che voi la ftimate non recta e non vi avve, dere , che in ţal guisa mostrarefte di amarle poco a  Sem. Il saper ricamare ancora mi per, suado, che la requisto necessario nella matrona :  i Pub. Per far che ? per educarle forse nella vanità e non sapete, che cosi fa comincia bel bello ; posciache dalla sem ta fi paffa al’oro, e dall'oro alle perle  per formarne ricami di gran valore.Cor. 4, nelia madre dei Gracchi fe conoscere  a quella gentildonna Capuana, la quale 0  era alloggiata in sua cafa, allorchè moArolle i ricami ida effa farsi,per mio fvario.  bano essere i layori delle Madri, con farde yeder i suoi figliuoli, ed in qual forma da effa fi aducavano, che non era già nelle vanità, mà bensì nelle virtù .  Sem. Bramerei almeno , che sapesse insegnar loro un poco fuono, e di canto,  Pub. Questo poi sarebbe peggio, per: che l'educherebbe cantarine, & im. parandolo per vostro syario, non lo di fimparerebbero già, per non dilectare an, che gl'altri.  sem. Contenendom’io in questo vo. fro antico rigore mi farefte mutare il mondo.  Pub. Io non pretendo tanto : voi mi vichiedere del regolamento della vostra cafa ;c chcaforse pretendece che da queta debba prendere la norma tutto il mondo a facciano gli altri ciò che vogliono , mi basterebbe di ottenere, che voi, che ricercate il mio parere appren. deste ciò, che dovrete fare,  Sem. Io resto perfuafiffimo di quanto dite per benefizio mio, ma sifetto añ,  cora  [ocr errors][ocr errors] cora nel medefimo tempo a quello , che li il mondo dirà, operando diversamente  da quanto ora li costuma dalla maggior parte .  Pub. Qual parte del mondo stimate voi, che sia più saggia, la maggiore, o la minore?  Sem. Ho udito sempre dire, che sia la minore,  Pub. Or dunque; perchè da voi medelimo volete porvi nel numero de i meno saggi? deh seguitate la più sana , e non vi prendere fastidio alcuno dell' altra , quantunque sia più numerosa :  prendete di grazia la mira verso quò eundi dum, non quò itur.  Sem. Rimango persuaso, e quanto m'insegnafte voglio risolutamente fare. Or ditemi per mia istruzione ; scelto che averò questa matrona , della quale voglio provedermi prima di prendere moglie, che averò da fare io, e qual' incumbenza apparrerrà ad essa ?  Pub. Voi, allor che le consegneretç la vostra figliolanza, le direte: che Bb  fia  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] lia cura sua d'istruirla principalmente nella pietà , e devozione, e che rimuova da essa tutti i difetti allorche li ye desse comparire , senza indugiarvi un momento ; anzi che meglio farebbe an. cora, se preveniffc al bisogno con semi, narę anticipatamente ne’loro animili preziosa semenza delle virtù, e che per questo procuri di non perder la mai di vifta : e vedendo ch'ella li porti diligen. te nel suo uffizio usatele più gratitudine, affinche non habbia da parerle penosas quella vita tanto soggetta, che farà ; e credetemi, che il premio è il maggiore incentivo a farci fare con amore quelle cose, che senza di esso ci parrebbono molto penose.  Mec. Questo è certiffimo, posciache chi mai li porterebbe il primo a scalare una muraglia, difesa da tanti nemici are mati, se non se {perasse da questo un premio grande ?  Sem. Fatto che avrò le mie parti, in che forma essa adempirà le sue ? Pub.. Nato che sarà alcuno de' vo  [merged small][ocr errors][ocr errors] ftri figliuoli, principierà il suo minister ro con invigilare, venendo lattato,dal...  la balia, a quanto sara necessario, con i fare anche da soprabbalia , nè permetteo ra già, come dicemmo, chc oda,quan  tunque non le comprenda ancora , cer, i te canzone amorose, nè pure, che fifli  i suoi occhi innocenti a'rimirare certi datti scomposti, & indecenti; perchè  quantunque non siano allora da esso conosciuti per quel che sono , nulla dime, no in progresso di tempo, conforme fi apprendono le parole, così ancora può  insinuarsi nell'animo qualche cintura noSeminaciva di tali difetti; e procurando, che D in vece di quelle oda, e rimiri cose  profittevoli,cd oneste, delle quali se ne i apprenderà alcuna particella, resterà  questa a benefizio dell'educazione, e i procurerà ancora nel tempo della lacta  zione colle buone sue maniere , di prin-  cipiare ad affezionarselo.    Sem. Che dovrà fare dipoi ?   Pub. Già toccherà ad effa slattarlo, e * si perderà il sonno più di una notte. B b 2  Sem,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] liri  Sem. Sarà bene, acciocche non lo perdiamo anche noi, di tenerlo in qualche mezanino lontano dalle nostre stanze,  Mec. Per questa cagione sono andato io più volte in collera co i miei amici , avendo osservato lontani dal loro appartamento i figliuoli anche lattanti,per timore, come dicean'o , che non turbarsero il loro riposo, e diceva loro: pere dete pur tanto tempo, e vegliate tanto per il giuoco, e continue conversazioni, oh bene non potete vegliare un poco pe’ vostri figliuoli? E se non lo volece perdere voi, cui tanto debbono premere , vi persuadete forse, che le donne mercenarie di servigio vorranno perdere il fonno? Dormiranno ben bene, e lasciefanno piangere chi vuole; ma da questo quanti mali ne saranno seguiti lo faprà meglio il Dottore.  Med. lo dalle offervazioni fatte sono arrivato a conoscere questa verità ; che più fortunati siano nel mascere, e nel imorire i poveri, che i ricchi; perchè quelli dalle proprie Madri sono lattaţi, eand custoditi diligentemente con amore;docal ve che questi sono consegnati alla indi  screta servitù, e trattati assai diversadai mente in tutto ; e posso riferire a que  fto proposito di averne curati alcuni,che caduti dal letto, per trascuraggine del. le balie , ebbero a perdervi la vita , ed altri, per il gran pianto fi allentarono , negando cal volta loro il latte le balie, allorche ne avevano bisogno; e per avere loro ripercosso secretamente il lat. time, quanti ne sono periti? Giccome ancora quanti ne sono morti af gati per averli tenuti negligentemente nel proprio letto ? avvenimenti tutti, che afa sai più di rado G odono accaduti tra po  veri , quantunque questi siano assai i più numerosi, che i bene stanti. Della  morte dei ricchi non parlo, perchè ave. rete uoi medesimo osservato questi, be  ne spesso, per li soverchi, e conculcati : rimedj, dati loro, più facilmente , che  i poveri perire, & alle volte in mano de  Ciarlatani.    Pub, Se voi dunque avercte amore   per  [ocr errors][ocr errors] Bb 3  per i vostri figliuoli non li terrete lontaa ni dalle vostre stanze in ogni tempo per. che tal vicinanza darà stimolo maggiore alla matrona di avere per loro più attenzione , & all'altre donne di fare me . glio il loro uffizio.  Sem. Riferitemi ora il modo, che doverà tenere in appresso per conoscere meglio s'ella, operi a suo dovere?  Pub. Già fu discorso, ma non sarà mai a bastanza, di quello, che dovrå farli intorno ad imbeverarli ben bene del fan. to cimor di Dio, e crediate pure per cofa certa, che questo è il fondamento principale della buona educazione; efsendo esso solamente capace di rimuovere tutti i vizj, non porendo questi far breccia ove si ricrova benradicato: è vero però, che questo feme santo noni basta piantarlo solamence, na decli col. rivare sempre con atrenzione, e fervore, acciocche non perisca, essendo che a poco a poco germoglia ne teneri par. goletti, ed in questo doverete aricor voi invigilarvi. In seguela poi dovrà,  appe  19  and appena che le figliuole faranno capa.  ci, tenerle impiegate ad apprendere qualche lavoro di quei necessarj a saperG dalle donne, che sono il cucire , far calzerte, cessere, e filare, e questi disporli secondo l'ctà, e capacità loro : nel medesimo tempo impareranno a leggere, e di poi a scrivere, e questa sarà l'incumbenza , che dovrà avere intorno al lavoro,  Sem. O ben le donne civili, e nobili averaono da teffere, e filare che han. no forse da procacciarsi il vitto con que. fti lavori  Mer. Intorno al filare non avete occasione di risentirvene, perchè è torna, ta l'usanza di farlo ; non sò però se per bizzarria, o per profitto ; averere pur veduto, Sempronio, nelle case civili conocchie sì ben fatre , che fanno venire la voglia di adoperarle anche a noi al. tri uomini.  Sem. Queste le ho veduce certamente, ma però stare oziose, onde mi perfyadeva, che fossero state fatte per col  locarle dentro i loro scarabattoli nonri: mirandole punto adoperate .  Mer. Nonaveranno filato in presenza vostra, perchè non avendo voi moglie non era tempo ancora, the imparaste a filare alla moda.  Pub. Le caste donzelle in questo s'im: piegavano anticamente, e tralasciando di riferire, che lo facessero Penelope, Lucrezia , & infinite Matrone Romane; Alffeandro Magno fi vestiva co gli abiti teffuti dalle fue Sorelle, come racconka Curzio ; & Augusto non portò già altri abiti , che quelli, che dalla sua Moglie, Figliuola , e Nepoti erangli ftati fatti, come riferifce Svetonio: Onde se no li vergognavano queste di farlo, per qual motivo potranno aftenersene le tanto inferiori ad effe ?  Sem. Ma fe non avessero genio di fardo , tanto più non vedendolo praticarea alle Madri?  Pub. Questo genio può farfi venire con riferir loro qualche bell'esempio, & appunto de racconta uno il Surio nel di  fe  fecondo di Maggio, che se coinincies ranno a gustare le cose di Dio sarebbe assal a propogto: dice dunqu'egli, che andando S. Antonino Arcivescovo di Firenze, per una contrada di qite!la città vide un buon numero di Angeli, che  formavano come un corpo di guardias e sopra il tetto di una povera časa ; li ven  , ne in pensiere di catrarvi, e di riconoscere l'occasionc y per cui meritava canto favore da Dio; non vi trovò, che und Madre con tre sue figliuole , le quali filavano per guadagnarsi un poco di pane, e stavano con gran modestia : vedendo il Santo il bisogno , che avevano, fc loa to una buona limosina :-Dopo qualche tempo ripassando per la medesima strada vide, che la stessa casa era ricoperta di piccioli folletti, armati di tutti quei stromenti, che fogliono portare li dediti alla libertà del mondo : entrò, evide le medesime, che passavano il tempo a ridere, scherzare', e motteggiare , e fare le belle: Riferito questo, si poa trebbe soggiungere loro, che se Iddiogradisce canto il non stare in ozio in quelle, che sono miferabili, quanto più lo gradirà in effe, che spontaneamente, e fenza bisogno alcuno lo fanno e credetemi, che non mancano modi per fare applicare le figliuole, effen. do queste più docili demaschi.  Sem. Oltre il lavoro, che averanno da fare di vantaggio ?  Pub. In tutte le cose deve esservi la buona ordinanza, la quale tutta dcpende dal sapersi ben compartire il tempo , onde queste essendo pratiche divideráno Je ore def giorno in questa guisa ; la pri. ma della mattina , dette che saranno le figliuole, e veftite di tutto punto, sarà impiegata al servigio di Dio con fare orazione, o sentire qualche cosa di quanto esso vuole da noi; ciò fatto dcefi ristorare colla colazione moderata il corpo, per poi passare quelle ore de. ftinate al lavoro; e terminate queste , conviene di fare alquanto esercitare il corpo in cose non violence, e permettendolo il tempo, in aria con affatto  [ocr errors] rac  [ocr errors] .. 395 K tacchiusa. Avvicinandosi poscia l'oras  del definare converrà prendersi il nutrimento a proporzione dell'età, e poi dopo di questo è neceffario godere alquan. to di riposo, per potere alle ore destitiate tornare al solito lavoro.  Sem. Sino a qual'età possono i maschi ftare sotto la custodia della matrona?  Pub. Fin tanto appunto, che, cono. scendo le lettere dell'alfabeto, possono consegnarli al Maestro, per tenerli in quelle ore , che dovrà far egli scuola fotto la sua custodia; ben è vero peròs che non essendovi l’Ajo,possono ritornare, per quelle ore, destinate al diverti  mento, sotto la cuftodia della medelima $ matroni.  Semi. Nascendo tra fratelli, e sorelle qualche contrasto come doverå regolarli la marrona?  Pub. Sogliono i fanciulli vivaci essere molesti alle forelle, e da ciò ne nascono bene spesso trà loro reciproche aleercam zioni, mà se la matronal manterrå fotenuta a segno, che non pregdano les  [ocr errors][ocr errors] confidenza , avendone rimore di essa, difficilmente si avanzeranno a contendere tra loro, ma caso che la sua efficacia non bastasse,dee di ciò farne consapevole il Padre, o il Maestro , affinchè pensano a prendervi il più opportuno rimedio con tenerli separati. .  Sem. Crescendo le figliuole in età, e scoprendosi in esse qualche differto donnesco, come li dovrà regolare la matrona per estirparlo?  Pub. Non aspetterà quefta , essendo prudente, che giungano fimili diffetti a manifestarsi ; perchè come dicemmo procurerà con preventivi ripari di ab. batterli prima che si manifestino.  Sem. Venendo le figliuole negli anni , ne' quali sogliono alcune cominciare a contristarsi, e fofpirare, che averà da fam rela matrona?  Pub. Le figliuole ben' educate difficilmente cadono in fimili debolezze; ma quando mai ciò seguisse in alcuna, alJora si conoscerà il senno, e la prudenza della matrona; posciachè si saprà inters  !  [ocr errors] e nare nella sua confidenza per consigliarl  a far cose non disdicevoli alla sua condi* zione,ed a lasciarsi regolare dal suo amo.  roso Padre. 3 Sem. Ma non sarebbe meglio, quan.  do si vedellero contristate, porle in monastero per compire l'educazione?  Pub. Se sarete sicuro , che colà possano vivere con più ritiratezza, che in casa vostra , ed abbiano migliori direttrici cui dia l'animo di calinare le loro passioni, potrebbe farsi ; mà se poi vivessero con libertà maggiore, qual vantaggio ne ricaverebbero ?  Sem. Vivono colà tanto ritirate, che la porta di rado si apre; ne viene permefso l'ingresso libero ad alcuno.  Pub. Qucfto non basta se gli occhi, c le orecchie staranno maggiormente aperte; perche per esse po lono entrare le cagioni de' sospiri: e poi voi, Sempronio,mostrate di non fidarvi della voftra matrona , la quale totalmente dipende da voi, enon diffidate punto di tanţe servenci de’monafterj, sopra le qua;  [ocr errors] di autorità niuna yoi avere.  Sem. Sarà ben vigilante in questo chi averà cura dell'Educayde,  Pub. Voi y’ingánate$épronio, se crede, te,che l'altrui vigilanza superi quella de genitori attenti , e capaci : onde mi perJuado , che nella casa paterna queste ftiano meglio , che altrove,  Mec. Voi dite bene,Publio , che fiee te capace di custodirle come li dee, mà datemi un Padre, ed una Madre, che ad ogn'altro pensino, che all'educazione delle figliuole , e tanto maggiormente se non averanno una tale donna capace , e fedele a ben diriggerle, o saranno prive di Madre, la sola casa pater. na sarà sufficiente a custodirle?  Pub. Credo certamente di no.  Mec. Or dunque, che fi hà da fare in questo caso per non lasciarle a discrezio. ne dell'infida servitù ? o bisognerà, chę qualche faggia parente la conduca in casa sua, o porle in monasterio , sotto Ja direzione di saggia Maestra, Pub. Non è questo il rimedio appro;od  [ocr errors][ocr errors] priato al loro male, che congste in una gran passione , la quale non si : può rimovere da esse senza cósolarle.Ne  certamente si cureranno già di ricevere i queste in casa loro le saggie parenti : e  ricevendole le imprudenti qual vantaggio ne potreste Iperare ? E ponendole in monaftcro sotto la cura di faggiaMaestra  qual bene potranno ricevere da essa ef$ sendo tra loro discordanti di genio ? fa  rebbe più capace tal una di queste di sedurre altre compagne,a far che si unifor  massero al suo genio , più tosto, che di u mutarlo; onde nè ad esse, nè al monastero oi tornerebbe conto , che vi entrassero, 1 Intorno poi al sudetto riincdio ne parleremo a suo luogo , e tempo,  Şem. E quelle figliuole, che non avea se ranno le accennate paflioni ponno eduei carsi ne monasteri?  Pub. Se i loro genitori sarın capaci, ed attenti, e viveranno all'antica, non fra farà d'uopo cercare altra casa , che las  paterna per educarle, come dicemmo parlando de figliuoli della Conferenzís  [ocr errors] 1, della presente decade ; mà se poi foffe il contrario,non sarebbe buona per esse, ¢ converrebbe anche fanciulle racchiu. derle in monafterio, affinchè si discostas sero dalrimirare i mali efsempj domesti ci, specialmente quei, che potrebbero dalle Madri ricevere ,  Sem. Vorrei che mi diceste, Mecena, te,in che possono difettare le Madri nella educazione dellc figliuole?  Mec, In due cose principali, che so. no l'eccessivo amore che portan loro,e la libertà che vogliono mantenere per  fare ancor esse tutto a lor modo. L'amore non le permetterà di contriftarle, ne riprenderle, e la libertà,che vogliono godere , le disanimerà a procurare di farle .vivere diversamente da quello ch'esse .coftumano, e vi voglio riferire un caso seguito in mia presenza, Si trovavano in una conversazione alcune gentildonne în tempo di carnevale , le quali domandavano l'una l'altra quante volte avevano condotte, le loro figliuole alle commediese per verità non udj già che alcu  na  if ve le avesse condotte poche volte; vi fù f, bensì la più attempata dell'altre, che hin disse in tempo ch'ella era zitella rare tudi volte G costumava condurvele, e se non # era modeftiffima l'opera, che si recitava cui non potevano già udirla le zitelle; vi fù  chireplicò ancora che non si poteva oggidi far di meno di non condurle;perchè altrimenti fi contrifterebbero tanto, che non ci si potrebbe più vivere ; non dico altro,che vedo il mondo andare da male in peggio come predisse Orazio.  Sem. Oh consideriamo come anderà l'educazione delle cittadine , e dello à plebce !  Mec. Sappiate, che a queste fi è dato da qualche tempo in qua un'ottimo regolamento, essendosi aperte scuole publiche in ogni Rione, e mantenute  dalla generosità del nostro Prencipe , - ove vengono dirette da Maestre molto  esemplari numerose figliuole,molte delle quali si tratrengono ivi tutto il giorno; onde non solamente hanno occasione tutte di apprendere il fanto timor di Сс  Dio,  Dio, ed il buon costume, ma eziandio d'approfittarli in molti lavori dooneschi utili, e necessari per la casa , tenendoli in oltre lontane da quelle occasioni, che potrebbero in esse introdurre difetti; onde fpererei, che quando questo fanto istituto giuagesse ad eliere sufficienre anche  per le più miserabili, un'infinito bene, e più universale se ne porelle ricevere  Sem. Bramerei ora di sapere quale sia il tempo più opportuno d'apprendersi de fcienze?  Pub. Si parlerà di questo quando ci rivedremo,  [ocr errors][merged small] [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] 1  Sopra l' età opportuna d'apprendersi le scienze, cd il modo più façile per accertarsi delle par. ticolari inclinazioni  de' figliuoli,  Sempronio , Publio , Mecenate ,  & Medico,  [ocr errors] Pub.  A proporzione delle cose li può chiama.  re ànima del monL  do ; essendo che questa lo mäntic  ne, clo fà risplen. dete : sconcerto grande certamente formano quelle cose, che sono prive di efsa. Se per sua sventura veniffe genio ad uno, che avesse voçe rauca abituata di fare il Musico,non doverebbe certamen  Сс 2   quali deb  bago    Z  S  Semo    1  1   [merged small][ocr errors] [ocr errors][merged small]  3.  onde  to   H  fpo.   F 2   Dum  Sem,  A 2  Mec.  127. ÇON:  IOI  ani  te egli effettuarlo ; perchè non troverebbe, quando anche giugnesse a saper cantare, chi si prendesse diletto del luo ingrato canto. Converrà dunque in tutte le cose prendere la sua proporzione giu. sta, con proccurare attentamente, in fare ciò, di non ingannarli.  Sem. L'erà dunque proporzionatas ne' figliuoli per apprendere le scienze quale sarà?  Pub. Quantunque secondo il loro spi. rito, e capacità deel cio regolare ; nulladimeno prima di dodici, o tredici anni farà difficile, che questa sia proporzionata ; e tanto maggiormente, che debbonsi prima applicare ad imparare la lingua latina , per meglio intenderle.  Sem. Ho sentito dire da qualcuno, che la lingua latina li potrebbe imparare come Gi apprendono gli altri linguag. gi, o nella manicra, che s'impara la lingna nativa, o dipoi col sentir parlares altri che la possiedono.  Pub. Vedete , Sempronio, se voi bra. mate fare da buon Padre di famiglia, sia.  tc  * t'e a mico di fare poche novità nell'edu  care, & istruire i vostri figliuoli, e fere vitevi di questo avvertimento,che i Maa rescalchi, che non inchiodano i cavalli  da essi ferrati, sono quelli, che pongono il chiodo nella guida vecchia · Anzi che vi dico di vantaggio,che se vi abbaca  tefte per vostra disgrazia in Maestri, che $ volessero sperimentare modi nuovi per  addottrinarli, non vi prevalete di loro; i perchè avendo i vostri figliuoli perduto ; tempo in mano di questi, converrebbe farli tornare da capo.  Mer. Vi fu a questo proposito un cer. to Maestro di musica, chiamato Timor  teo, che pretendeva doppia mercede & da quei, che avcano imparato l'arrej 1 senza buoni fondamenti , adducendone op per cagione , che doppia facica glicon  veniva fare ; cioè, che disimparasfero  essi ciò che avevano appreso, e poi d’indi fegnare loro le vere regole dell'arte :  onde se dupplicata riuscirà la fatica a Maestri nel caso , che non avessero pre. sa la strada diritta, il fimile seguirebbe Cc 3  an.  [ocr errors][ocr errors] anche a voi per doverli far dilimparare ciocche malamente apprefero.  Pub. E poi,che cosa averebbero a fa. re i figliuoli allorchè non hanno ancora la capacità di apprendere le scienze e quando mai ne acquistassero alcuna parte di esse, seguirebbe ciò per la felicità di memoria ; ina non capirebbero già quello che elli avessero appreso, nè tampoco saprebbero prevalera di quel documento generale,non ben capito,in molte particolari contingenze; onde tal'età non sarebbe proporzionata per fare acquisto delle scienze.  Sem. Ma se caluno avesse ingegno, e capacità maggiore degli altri, perchè non potrebbe questi esserae capace anche nella tenera età ?  Pub. Dee benli avvertirsi di vantag. gio in questi se.convenga allora porli a fimili laborioli studi ; perchè il buono agricoltore , quancunque abbia un campo fertilissimo, a suo tempo vi getta il seme, e lo fa riposare ancora , per non vederlo divenire sterile, e poi chi  sà  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] si, che non sia un fiore senza frutto quello, che comparisce prima del suo  tempo 2 e che poi allorche gli altri,erci đuti di minor ingegno si vedranno cari,  chi di frutti, questi non si rimiri spogliaco di efi? ricordiamoci, che: nil violentum durabile.  Met. Aveva un giovanetto di questi fatto una bella composizione in lode di un gran Personaggio, e recieztala alla  sua presenza con tanto spirito, che ne. i rimase ogn’uno degl’ascoltanti ammira  to; il meno ingegnoso, é fpiritoso, che vi era tra efli , domandò al suo Maestro, che ivi si trovava presente, sçra ftaja  composta dal detto figliuolo, cui rispoe fe di fi ; e voltatosi egli a quel Personag  gio gli dise : fogliono alcuni avere spirito, c capacità grande da giovanetti,  la quale perdono poi avanzati che sono o negli anni. Udendo questo il figliuolo 1 rispose prontamente a costui: ma voi  Sigaore, da giovanetto bello spirito, c | capacità che averete ayura ! Rimafer  quel Signore in vdir si propra, ed argu  Сс 4  ta   ta risposta, la quale fe credere a tutti la composizione essere fata fua. ,  sem. Questi ingegni dunque , per quanto ho udito, averanno d'uopo più tosto di ritegno, che di stimolo.  Pub. Voi non dovere dubitare di ciò, vedendolo praticare giornalınente nella vostra scuola di cavalcare, ove tra i precerci, che averete avuci , vi sarà questo, di non lasciare la libertà del freno a quei destrieri , che sono più fpiritoli degli altri.  Sem. Come mi dovrò regolare per conoscere, che sieno i figliuoli proporzionati più ad una, che ad altre scienze?  Pub. Dovrece principalmente fare esplorare il loro genio ftabile qual Ga, eriflettere,fe corrisponda questo alla loro capacità, e disposizione naturale.  Sem. Come si potrà conoscere, che fia stabile questo genio ?  Pub. Ciò di discerne benissimo; pofciache i figliuoli dalla più tenera età cominciano a mostrare le loro inclinate egli effettuarlo ; perchè non troverebbe, quando anche giugnesse a saper cantare, chi si prendesse diletto del luo ingrato canto. Converrà dunque in tutte le cose prendere la sua proporzione giu. sta, con proccurare attentamente, in fare ciò, di non ingannarli.  Sem. L'erà dunque proporzionatas ne' figliuoli per apprendere le scienze quale sarà?  Pub. Quantunque secondo il loro spi. rito, e capacità deel cio regolare ; nulladimeno prima di dodici, o tredici anni farà difficile, che questa sia proporzionata ; e tanto maggiormente, che debbonsi prima applicare ad imparare la lingua latina , per meglio intenderle.  Sem. Ho sentito dire da qualcuno, che la lingua latina li potrebbe imparare come Gi apprendono gli altri linguag. gi, o nella manicra, che s'impara la lingna nativa, o dipoi col sentir parlares altri che la possiedono.  Pub. Vedete , Sempronio, se voi bra. mate fare da buon Padre di famiglia, sia.  tc  * t'e a mico di fare poche novità nell'edu  care, & istruire i vostri figliuoli, e fere vitevi di questo avvertimento,che i Maa rescalchi, che non inchiodano i cavalli  da essi ferrati, sono quelli, che pongono il chiodo nella guida vecchia · Anzi che vi dico di vantaggio,che se vi abbaca  tefte per vostra disgrazia in Maestri, che $ volessero sperimentare modi nuovi per  addottrinarli, non vi prevalete di loro; i perchè avendo i vostri figliuoli perduto ; tempo in mano di questi, converrebbe farli tornare da capo.  Mer. Vi fu a questo proposito un cer. to Maestro di musica, chiamato Timor  teo, che pretendeva doppia mercede & da quei, che avcano imparato l'arrej 1 senza buoni fondamenti , adducendone op per cagione , che doppia facica glicon  veniva fare ; cioè, che disimparasfero  essi ciò che avevano appreso, e poi d’indi fegnare loro le vere regole dell'arte :  onde se dupplicata riuscirà la fatica a Maestri nel caso , che non avessero pre. sa la strada diritta, il fimile seguirebbe Cc 3  an.  [ocr errors][ocr errors] anche a voi per doverli far dilimparare ciocche malamente apprefero.  Pub. E poi,che cosa averebbero a fa. re i figliuoli allorchè non hanno ancora la capacità di apprendere le scienze e quando mai ne acquistassero alcuna parte di esse, seguirebbe ciò per la felicità di memoria ; ina non capirebbero già quello che elli avessero appreso, nè tampoco saprebbero prevalera di quel documento generale,non ben capito,in molte particolari contingenze; onde tal'età non sarebbe proporzionata per fare acquisto delle scienze.  Sem. Ma se caluno avesse ingegno, e capacità maggiore degli altri, perchè non potrebbe questi esserae capace anche nella tenera età ?  Pub. Dee benli avvertirsi di vantag. gio in questi se.convenga allora porli a fimili laborioli studi ; perchè il buono agricoltore , quancunque abbia un campo fertilissimo, a suo tempo vi getta il seme, e lo fa riposare ancora , per non vederlo divenire sterile, e poi chi  sà  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] si, che non sia un fiore senza frutto quello, che comparisce prima del suo  tempo 2 e che poi allorche gli altri,erci đuti di minor ingegno si vedranno cari,  chi di frutti, questi non si rimiri spogliaco di efi? ricordiamoci, che: nil violentum durabile.  Met. Aveva un giovanetto di questi fatto una bella composizione in lode di un gran Personaggio, e recieztala alla  sua presenza con tanto spirito, che ne. i rimase ogn’uno degl’ascoltanti ammira  to; il meno ingegnoso, é fpiritoso, che vi era tra efli , domandò al suo Maestro, che ivi si trovava presente, sçra ftaja  composta dal detto figliuolo, cui rispoe fe di fi ; e voltatosi egli a quel Personag  gio gli dise : fogliono alcuni avere spirito, c capacità grande da giovanetti,  la quale perdono poi avanzati che sono o negli anni. Udendo questo il figliuolo 1 rispose prontamente a costui: ma voi  Sigaore, da giovanetto bello spirito, c | capacità che averete ayura ! Rimafer  quel Signore in vdir si propra, ed argu  Сс 4  ta  ta risposta, la quale fe credere a tutti la composizione essere fata fua. ,  sem. Questi ingegni dunque , per quanto ho udito, averanno d'uopo più tosto di ritegno, che di stimolo.  Pub. Voi non dovere dubitare di ciò, vedendolo praticare giornalınente nella vostra scuola di cavalcare, ove tra i precerci, che averete avuci , vi sarà questo, di non lasciare la libertà del freno a quei destrieri , che sono più fpiritoli degli altri.  Sem. Come mi dovrò regolare per conoscere, che sieno i figliuoli proporzionati più ad una, che ad altre scienze?  Pub. Dovrece principalmente fare esplorare il loro genio ftabile qual Ga, eriflettere,fe corrisponda questo alla loro capacità, e disposizione naturale.  Sem. Come si potrà conoscere, che fia stabile questo genio ?  Pub. Ciò di discerne benissimo; pofciache i figliuoli dalla più tenera età cominciano a mostrare le loro inclinapo  [ocr errors] ruti zioni, & in proseguimento di essa li van.  no spiegando meglio, & alla fine avvici. nandosi al tempo di risolversi , la palesano espressamente, ed in questo caso è  veramente stabile, e fissa. Oh quanto die   si conobbe bene fin da suoi teneri anni  il genjo di Marco Catone : posciache  quanrunque venisse violentato con fiere  minaccie a fare cosa da esso creduta di-  sdicevole da Quinto Popedio Latino, si  mantennc sempre costante nel suo senti-  mento; il di cui animo intrepido G. avan-  zò, crescendo negli anni; posciache  condotto alquanto più grandicello, da  Sarpedone fuo pedante a casa di Silla  per visitarlo, e vedendo nel cortile di   decto palazzo la lista de' proscritti, eb.  be a dire : è possibile, che non vi sia chi  ammazzi un tiranno sì crudele comes  Silla? domandò egli al suo pedante un  coltello, dicendogli , che ad esso fareb-  be riuscito facile il poterlo uccidere ;  perchè fi poneva a sedere accanto a lui  come riferisce Valerio Massimo,    Sem. E se nell'ecà genera avessero mo.   stra,  strato qualche inclinazione ad una scien. za, e poi dopo qualche anno li fossero invogliati di qualche altra , ed alla fine, venuto il tempo da determinarli, voJeffero apprenderne alera differente da queste, che doverà farsi?  Pub. Questi sono di genio istabile , e non li fiffano mai, onde a qualunque fcienza si applicheranno, non sarà mai di lor piena sodisfazione , ed in questo caso consigliatevi con chi ben conosce. rà il loro talento, come sono i Macítri, e da esli comprenderete in quale fcienza ciascun di loro potrà riuscire più atto, e fare in modo , che in quella fi applichi.  Sem. Ma fe moftraffero non avervi genio ?  Pub. Questo si fa venire con far suggerire loro, che quella scienza , la qua. Je si crede proporzionata alla loro abilità, sia la più bella, la più nobile, la più utile, c la più dilettevole, che li accomoderanno senza indugio a volerla apprendere.  Sem.  [merged small][ocr errors][merged small] Sem. Sarebbe necessario, che m'in formaste ancora sopra la facilirà , che uno possa avere in apprendere più una scienza, che un'altra  Pub. Se voi scorgerece un figliuolo serio, e prudente, per quel che potrà portare la sua età, divota', e che inclis ni all'ecclesiastico, questi pare nato per istudiare Teologia, Se serio parimente, e prudente , volonteroso di studiare, s che tal volta nelle picciole altercazioni nare tra fratelli effo fi frapponga , e mostri voler giudicare , chi di loro abbia corto, o ragione , a questi fate pur  studiare Legge, che diverrà un'altro Bartolo. Se poi obiecterà , sarà riflessivo, tirerà frequenti conseguenze , questi averà cutti'li buoni requisiti per divenire un'eccellence filosofo . Se lo vedrere ingegnoso in adattare, e difporre i suoi giocarelli puerili, prendere misure di alcune cose, il suo genio lo porterà ad apprendere le Marcematiche ; conforme seguì in Protagora, ed in Biagio Pa. fcali:c fs lo mirerete sonrinyamente  ap  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] applicato a disegnare, o rimirar picture, la sua inclinazione naturale lo porterà a fare il Pittore : finalmente se lo vedrete afliduo nel tempo, che qualcuno sia malato in casa, e desideroso d'allistergli, c stare con attenzione ad ascoltare ciò, che dirà il Medico, il genio, e l'abilicà lo portano a studiare Medicina.  Sem. Se sarà nobile però come potrà effere Medico, non costumandoli das pertutto che questi esercitino cale pro feffionc  Pub. Dunque sarebbe affai fortunato uno de’vostri figliuoli; se fosse Medico; perchè essendo singolare , che stimas grande averebbe egli, e che belli acquisti apporterebbe a casa vostra ?  Sem. E se tal uno morteggiaffe, che odoraffero questi alquanto di cattivo?  Pub. E voi fate, ciò che fè Vefpafiano a Tito, allorchè riseppe, che aveva ciò motreggiato, quando pofe la gabella fopra l'orina , cioè di fargli odorare i danari, che da detta imporzione furono esatti, e trovò il buon figliuolo,  che  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] il modo di medicar cavalli, alcuni nou  3 che non avevano alcun cattivo odore, Dita ed il (mile seguirebbe anche in questi.  Mec. Vorrei sapere da voi, Sempro>nio, se vi sia stato alcun nobile, che abbia imparato a medicare cavalli?  Sem. Che voi non lo fipete! essendo. !ci quel vostro amico, che non solamen  te lo sà fare, mà anco l'esercita , peel rò nobılmente.  Mec. Oh Dio buono,per medicare le bestie s’ha da impiegare senza alcun moc  teggiamento un nobile ! e per curare un -2.14 uoino tanto più nobile di esse hà d'ave. mai retinore di essere motteggiato! più no  bile dunque farà creduto da questi of l'esercizio del Manescalco, che quello  del Medico, giacchè quello è esercitato da nobili, e questo da essi viene abbor. rito?  Pub. Hanno dato alla luce libri,sopra bili, tra quali vi è Pasquale Caraccioli Cavaliero Napolitano, e Marino Gir, zoni Senatore Veneto ; laonde potrebbero meglio impiegarsi i nobili nello  elpi scrivere di medicina, per imitarc Corne. lio Celso nobile Romano.  Med. Vi è stato anche a giorni nostri Roberto Boile nobile, e ricco Inglese , il quale non hà risparmiato, ne spefa , ne fatica per accrescere la filosofia fperimentale ; e quanto di bene egli abbia fatto, le sue opere lo mostrano , avendolo queste renduto glorioso a’posteri .  Mec. In questo particolare bisogna , che io parli contro di noi medesimi : per ispregare le nostre ricchezze in lussi, lo facciamo prontamente ; per impiegarle poi a beneficio della viriù, non ci sappiamo indurre, perchè pajono ad alcu. ni spregate, quantunque realmente non fiano. Mà torniamo al nostro assunto.  Sem. Vorrei sapere dal Dottore, da che proceda la varietà dei genj .  Med. Questo secondo il mio debole fentimento credo , che da temperamenti poffa in gran parte derivare, perchè colui , ch'è malinconico averà genio as cose serie, il bilioso ad altre più risoluto, il demmático gradirà la quiete, ed  1  [ocr errors][ocr errors] il sanguigno amerà la varietà delle cose,  e poi rifletto, che l'arie ancora, ove al-  cuni nascono, ponno contribuire molto  alla determinazione de genj, essendoche  vi sono alcuni luoghi,ove quasi tutti at-  tendono ad un solo metiero, ed in un   tal clima li osservano genj affai differen,  ti dall'altro; ben è vero però, che alle  volte ancora le altrui fortune fanno ve.  nire il genio più ad una cofa , che ad  un'altra per esempio l'essere un semplice  Soldato divenuto Generale, ha fatto  venire il genio a più d'uno di seguitare  la guerra : l'avere lasciato un Medico  ricchezze considerabili, ha dato moti-  vo a molti di applicare alla Medicina   ed il fimil è accaduto nell'altre profes-  sioni. Leggo però che nella Cina, cd  in alcuni altri dominj fuori dell'Europa  quefi genj sono già fissati , non essendo  permesso ad alcuno il fare differente me-  stiero da quello di suo Padre., e perciò   colà igenj sono stabili non potendoli   yariarere a suo modo.     Şem. E se quedo genio, che taluna   do  [ocr errors] de'figliuoli hà, non corrispondeffe alla sua capacità, che doverà farsi?  Pub. Questo suole per lo più corrifpondere, quando nasca spontaneamente, e aon da impegno; perchè ci potrebb' essere taluno, che avendo genio il suo compagno di applicare, per esempio alla legge , e questa quantunque non geniale nulladimeno per non discoftarli da esso, volesse anch'egli ftudiarla , ed in questo caso, vedendo voi, che non avesse quell'abilità, che tale profes. fione richiede, potreste farlo allontanare dal detto suo amico per qualche tempo, senza che penetrasse il perchè, e così il genio , che nasce dall'impegno,fi muterà facilmente, quando non vi concorra anche il proprio .  Sem. Come mi potrò allicurare, che fia proporzionato il genio, e l'abilità alla scienza , la quale bramano di acquiItare ?  Pub. Niuna cosa vel potrà far meglio conoscere , che lo profitio , che faran. no ja quclle, perché è impossibile che  con  [ocr errors][ocr errors] di concorrendovi l' abilità , ed il genio ,  questo non si faccia anche da principio,  ed accertato, che voi sarete di ciò vivea te pur quieto di mente, che ci è la sua of proporzione.  Sem. E se non ci sarà detto profitto, G doveranno levare da questa per porli ad apprendere alcra scienza?  Pub. Conviene maturare bene fimile si risoluzione, per conoscere meglio don  de proceda il non farsi profitto, poten. do ciò nascere da due cagioni, cioè,o da fimulata inclinazione, o da inabilirà : se provenissc dalla prima potrete fare  da qualche loro confidente scoprire i qual fia la loro propria inclinazione, ;  dove il genio li porti, e prima di perdere maggior tempo ponereli in quellas ad essi geniale ; se poi nascerà dalla inabilità, ovunque li porrete, questa farà sempre impedimento al conseguimento di essa.  Sem. E se procedesse dall'essersipenriti, ritrovandola più difficile di quello, che se l'erano figurata ? Dd  Pub.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] Pub. Questi cenereli per istabili, poltroni, che poco di buono ne potrete tiçayare; perchè ovunque gli applicherere , sempre faranno il medesimo, non avendo fermezza , ge sofferenza per la fatica, Sogliono però alle volte alcuoi di questi rimetçerli nella buona strada , quando ciò venisse da una certa pufillanimità di cuore , onde farà bene di ajugarli da principio con buoni repetitori, mediante i quali animandosi , prosegui. ffono poi con profitto ,  Sem. E se non ayeffe taluno genio a fofa alcuna, come mi doyero regolare  Pub. Vi potrete con questi regolare a yostro modo , ogni qual volca či liau Pabilità, e l'ingegno ; perchè sogliono alcuni per modestia in tutço , e per tut: to forromergersi al volere paternoję queIti riescono per lo più virtuofi , ogni qual voltą abbia l'ayerţenza di farli applicare a quella scienza, che Gia proporzionata al loro talento, come già di. femmo Sem. Stimate bene che nel tempo,i che applicano alle scienze si possano , pare per loro divertimento, far applicare al plin suonogal canto, o ad altri civili diverčia 0,1 mçnti? open Pub, Şe li yoletę far divertire day * quells, fateli applicare anche a questi , A Colui, che applica, e li approfita in  cose ferie , non bisogna distrarlo con  çosę amene, perchè le prendeffe cal vol. i ha genio grande a queste come ande,  rebbero , Sempronio mio, le serie an  zi che, se ne moftrassero efli genio,dove. a fe da questo diftorli, con dire loro, che  approfittati, che saranno nelle scienze, * yoi medelimo volere, che si divețiano o in quelle, ed in turti gli alțri civili orna  mengi . In un caso solamente fi potrebbe ciò permettere, cioè quando il figliuolo fosse di temperamento molto malin. conico, e çetro per solleyargli l'animo contriftato,  Sem. E se la foyerchia applicazione allo {tudio danneggiasse la salute, che converrà farsi, Dottore? Med. Primieramente procurerere, DI?  che  [ocr errors][ocr errors] illbuono per evitare i nocu.  che si moderi ciocche sarà eccessivo;perchè quello che non fi può apprendere ia un giorno, fi apprenderà nell'altro, e fe voi vedrete , che ciò non basti, levateli affatto dallo studio ; perchè è me. glio il figliuolo fano, quantunque fias ignorance, che dotto divenuto inabile a godere il frutto delle sue faciche: e non vi fate dare ad intendere da parabolani, che a forza di rimedi possa superarsi tal incomodo, perchè in tal caso averà due nemici, che lo perseguiteranno;cioè l'applicazione soverchia, ed il rimedio da taluno credulo, o malizio. menti di effa, quando lo specifico rimedio consiste nella totale rimozione dall'applicazione:  Sem. Approfftrati che saranno i figliuoli, che dovrà fare il buon Padre di famiglia per provederli bene?  Pub. Ci penseremo trattanto, e la di. scorreremo in appreffo. CONFERENZA VI.  [ocr errors] Sopra gl' impieghi, che dovranno darsi da faggi Padri a' figliuoli  ben’educati ,, e dotti.  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub.  o sviscerato ainore de Padri verso i figliuoli, li fa bene spesso cadere in mol. ti eccelli, e partis  colarmente allorche questi nascono ; pofciache fino da quel punto di figurano alcuni di efi , e senza alcun fondamento, di far loro ottenere grandezze, & onori confiderabili, e per ciò allora dispongono d'indirizare il primo per l' Ecclesiastico, a fin che giunga a sublimi posti; di acca fare il fe  con  el  Dd 3  [ocr errors] condo , e fargli ottenere una groni lima dote : d'incamminare il terzo per un generalato di esercito: ed al quarto ; c quinto di dat per moglie figliuole ereditieres e ricche, acciocche poffano passare la quelle famiglic ad ereditarne archie il cognome. Se tali chimere, senza verun fondamento ideates riuscisfero , oh chie bella cosa che sarebbe! l'averebbero con quefti modi certamen. té accomodati tutti affai bene : mà benedetta sia quella volta, che pur una di queste si verifichi in tutto ; posciachè al destinato per l'ecclefiaftico viene genio di prender moglie; a quello per la moglie di farsi ccclefiaftico, o religioso; all'altro per condurre eserciti d'imparate a guidar bene un biroccio ; o muta i fei; ed agli altri destinati, pet rostegno di famiglie altrui, di rovidare, per quanto poisono s la propria , con giuochi , é bagordi ; a quali si darino in preda : e sapete ciò da che nasce dal non avere i Padri appreso bene da Salomone al 16. quello che debbatio fare , qual'è? Cor.  bos  st bominis difponii viam fuam, fed Domini eft. n diriģere grefus fuos; onde per voler fare to tutto da se medesimi, perciò non poffo. ! nio avere buon fine i loro disegni . of Mec. Questo l'ho confiderato anche dio più volte, in occasione, che seativa I dire a Padti: questo l'ho già destinato i per la tal via ; e quello per quell'altra s # conforme ch'elli fossero stati arbitri del  la Providenza Divina , che regge turto, a difpofitoti assoluti delle inclinazioni  de figliuoli ; é volendo ammonire sopra di ciò talun di quefti , mitróncava il dia scorso con dire che già poneva da para te gli assegnamenti necessari, e che pensava ancora alle fpefe straordinarie ; per i quando avessero conseguito quelle caris  che; che bramavano di fare orretiere 2 figliuoli; ed era quelto trent'aniti primas che le potessero conseguirt , onde mi sembra vano le loro menti teatri di commedie, ove fiori personaggi paffeggiano ·  Sem. Non ci averanno dunque das penfare, i Padri allorche nascono i Ai gliuoli di far conseguire loro vantaggi? DI 4Pub. Non hanno allora da pensare a questo, mà bensì di proccurare, che divengano abili a conseguire quella buona sorte , che Iddio 'averà preparata a meri. tevoli : e perciò fantamente un saggio Padre aveva in una tela fatti dipingere i suoi figliuoli colla sola camicia, e con questa iscrizione.  Tocca a Dio lo stabilire  In che guifa han da vestire . Volendo significare , che a lui non toccava fare altro, se non ricoprirli colla ca. micia, affinchè non comparisfero affatto nudi ; nel riinanentę poi si uniformavi colla volontà di Dio, acciocche li avesse rivestiti a suo modo, e che questa prima copertura non consisteva in altro, che nella buona educazione , alla quale dovea cffo pensare; onde non prima , che fiano educati, ed istruiti questi nelle virtù,possono i Padri comprendere, che voglia Iddio disporre di eli.  Sem. Qual di questi il Signore Iddio averà disposto per acca farsi? E sem. Quello , che conoscerece più (e  frio, sano, e sensato, e che averà inclina. kizione a questo, perchè avere pur  udito bu qual capacità , e segno ci vuole per prenaf dere moglie?  Sem. Se il primo genito , al quale si suol dar moglie, non avesse tutte queste condizioni, e foffe volonteroso d'accasarsi, che si averà da fare?  Pub. Se gli mancaffe la sanità, o faviezza sarebbe segno, che Iddio non vo. lesse; e voi potreste sostituire ad esso chi fosse più capace..  Sem. É se ci fosse il maggiorasco, che ma potrò far io venendo egli chiamato as  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Pub. Farete dal canto vostro tutto quello , che potrete ; perchè non manca. no, ripieghi in simili contigenze, per farlo rinunziare a questo, con serbarli un buon assegnamento; mà se poi non vi riufciffe converrà averci pazienza; perchà vostra non è la colpa , mà di chi lo chiamò a questo, che non pensò a tanto.  Sem. E per l'ecclesiastico, chi dielli a doverà incaminare,  Pub,  [ocr errors] Pub. Il più docilc, dotto, e divoto.  Sem. E se non avess' egli tal genio ?   Pub. Sarebbe segno che Iddio non lo volesse per questa via, e voi sostituitene un altro ad effo, che l'abbia , quartunque foffe men dotto; o pute incominciatead istradarlo per questa via alla lon. tana, che può essere's che tal genio gli venga .  Sem. É quale sarebbe questa via  Pub. Quella della Avvocatura, se fará inclinato alle materie legali; mà non to fare Avvocato di dome, perchè cið (crvirebbe a nulla.  Sem. Come mi dovrà regolare in far questo?  Pub. D'incaminarlo per la medesima via , che calcarono quelli che sono riufciti eccellenti in tale professione ; i quali ne'primi anni cominciarono a rivolta. fé protocolli negli offizj de Notari.  Sem. Mà una persona nobile non potrà far questo.  Püb. E percið non potranno forfe giugnere ancora alla perfezione di quellig che lo fecero:  More  [ocr errors][ocr errors] Med. Vannio pure alla guerra ventu. fieri moltissimi nobili con pericolo giornalmente di morte, e cominciano meri fanci di volontà; perchè dunques non possono fare ancor questo, nel quale non li incontra un fimile pericolo, ed il fine ancora, è retrissimo,onoratiffimos crfendo diretto all'atimigistrazione della giustizia ?  sem. E dipoi che dovranno fare  Pubs Prendere pratica delle cause appreffo i migliori Curiali , ed esercitari in questa, passare a prenderla dagli Avvo. cati con iftare sotto la loro dettatvra , se forà bisogno : e finalmeiite im poffeffati, che saranno in detta pratica ascoltare attentamente per qualche tempo i Giudici de primi tribunali; ed allor si, che po. tranno porsi a fare gli Avvocati , tros Vandofi colmi di doctrina , e di sperien2à.  Sem. Esercitato che averanno l'Avvocatura che faranno ?  Pub. Avendo acquistata perizia maga giore in tal ministerio , c per averlo lom  de.  [ocr errors] deyolmente qualche tempo esercitato , potranno per giustizia , non già per grazia pretendere i migliori posti della Republica, e di grado in grado avanzandosi, potranno conseguire ciò, che bra. mano:  Sem. E’lsudetto genio come verrà ?  Pub. Chi averà amministrato con rettitudine la giustizia, sarà senza dubio rimunerato da Dio; se lo fè a Salomone per avere solamente mostrato desiderio di esser giusto,fupplicandolo di ciò,come fi legge al 3. dei Rè: Quia poftulafti ver. bum hoc , bu non petiffi tibi dies multos ; nec divitias &c. ecce feci tibi fecundum Sermones tuos &c. fed, hæc que non poftulasti, dedi tibi : divitias fcilicet, do gloriam; ed udite ciocche dice per bocca d'Isaia al 51. Facite justitiam &c. ed ins appreffo: Beatus vir , qui facit hoc; e nel libro della sapienza al primo : diligite ju, ftitiam , qui judicatis terram ; come volete dunque che, a questi non dia las vocazione ancora di servirlo; cffendogli sì grata la sua servitù.Sem. Se taluno di eisi volesse farsi re, ligioso, che dovrò fare?  Pub. Non altro ch'esplorare se fia vera vocazione, o soggestiones perchè se farà vera vocazioneld, dioè, che lo chiama; onde a questa non dovete opporvi s perchè si sono veduti gastighi assai evidenti fulminati contro chi si è opposto al Divino Volcre , : Sem. Come mi porrò accertare di questa vera vocazione ?  Pub. Dovete alla prima mostrare res nitenza in dargli permissione, che lo faca cia : conducerelo continuamente con esso voi, ed informarelo sinceramente di tutte le difficoltà, che potrebbe in. contrare nella vita religiosa ; come anco delle astinenze, ad altre penitenze, che tra effi fi costumano, con doverfi privare della propria volontà, allorchè sarà religioso; e se si manterrà sempre saldo, é costante nel suo proposito, crem dete per certo, che farà vera vocazione.  Sem. Mà non sarebbe bene, che lo condücelli alle conversazioni, alle comig  me  medic, ed ai passeggi per divertirlo me, glio, caso che lo vedcili malinconico?  Pub. Questo poi non dovretç fare ; perchè allor îi che perderebbe quanto di buono egli acquisto nell'educazione; e non facendoli poi Religioso vi farebbe fofpirare, per averlo voi con defii mo: di improprj sedotto , E non crediatę gia che facendosi Religioso, per vera vocazione,egli viverà infelice, anzi che sarà il più contento, e felice degli altri, per, che godono questi , quando non abbia. no ambizione, ed altri attacchi mog, dagi, sommą tranquillità d'animo,  Sem, Sicchè dunquc sarebbe bene, che facefî venirç a qualcun aloro ancosa la yolontà di farsi religioso, giacchè elli vivono così feļici, e particolarmense a quelli, che fossero incapaci di alcu, no impiego della Republica .  Pub. Ayversite, Sempronio, di non far questo, con modi suggestivi, per fini mondani; come sarebbero, per far di, venire gli altri fratelli,che sono al secolo più facologi mediapre l'augumento delo  la  la sua parte șinunziara , o perchè non saperç a che impiegarlo, mentre questo non piacerà a Dio, onde contentatevi di dare solamente a Dio quelli, ch'esso yuole, e non quelli che non fanno per voi, come sogliono pure troppo effettuar re alcuni, che sc hạnno raluno de figliuo, li difertosi, o di poco fennolo consacra no a Dio, essendo questo il sacrificio apo punto di Çaigo , che gli daya le vittiine più magre, e tanto maggiormențe chę essendo questi turti suoi operarj? come volere, che poslano fervirlo bene, se non avranno capacità sufficiențe di farlo?  Mec, Sarebbero dunque, come quelle vittime, che si offerivano agl'Idoli di Moloc, ed a quello di Sapurno dai Gentili, che morivano nelle loro braccia jufocate senza esser capaci di alçro, che di piançi.  Sem. Se paluno & volçís'elimçre da qualunque impiego per starsene senza pensare a cosa alcuna,che averò da fare?  Pub. Coltui bramerebbe darG all' ozio, e non è volontà di Dio, che stia  l'uo  l' uomo ozioso leggendosi nella Geneli al 2. Pofuit eum in paradiso voluptatis, ut operaretur, e se in luogo di delizie non volle , che stesse ozioso l'uomo , come lo permetterà nel mondo? quando allorchè ye lo pose gli disse : In Judore vultus fui vefceris pane tuo, donec rever. teris in terram ; quale poi fa il danno, che apporta l'ozio uditelo dall'Ecclefiastico al 33. Multam malitiam docuit otio. fisas; e maggiormente questo può nuocere a chi hà beni di fortuna', perchè essendo l'ozio il padre di tutti i vizj, che ne seguirebbe da questo? Allorsi che la buona educazione gli gioverebbe poco; onde per ovviare a ciò potreste farli suggerire, se bramasse entrare in corte ove fi sta per lo più a sedere , gon si fatica, ne fi applica a cose di rilievo, discor, rendosi bensì delle novelle della città, e del mondo,e li fà una vita neghittosa,la quale farà facilmente confacevole al suo genio, e perciò, che la provasse un poco: caso poi, che ricusasse questa ancora, allora vedete a chc aveffe genio, e la.  [ocr errors][ocr errors] sciateglielo fare, perchè  sempre sarà meglio, che faccia qualche cosa', che stia coralmente in ozio ; e tra gl'impieghi onorevoli ci sono la pittura, nella quale alcuni malinconici i sono con genio esercitati : il lavoro alcorno : il dar las vernice indiana , ed altre cose simili , confacevoli a chi non voglia intraprendere affari di suggezione, ed udite ciocchè consigliava ancora San Girolamo Epist. ad Ruftic. Vel fifcellam texe junco, vel canistrum piecte viminibus ; più costo che ftare ozioso.  Sem. E se tal uno di essi volesse applicare a far negozj di cambi, e ricambi, edsagl’affitci'de dazj, averò da permetterglielo?  Pub. Ci penserei prima d'accordarglielo; non solamente perchè nostro Signore Gesù Cristo levò S. Matteo da far simili esercizj, mà ancora, perchè questi impieghi, che mediante un fallimento, o altri accidenti del mondo ponno scomodare di molto, non sono negozj licuri, anzi azzardolidimi in chihà da perdere molto del suo ; che questo lo faccia chi poco può discapitare di proprio gl’è tollerabile.  Sem. Avendo taluno genio alla caval. lerizza, e li dilettasse di mantenere più cavalli di quelli, che Geno necessarj,averò da collerarglielo?  Pub. Essendo tal genio diretto alle bestie, quando fi eccedesse nel numero , o nell'amore verso di effe, non sarebbe tollerabile:nel numero, perchè al parere del Petrarca: in Dial. de equo; Quot equorum mores totidem equitum pericula; e nell' amore, perchè gl'uomini quantūque grádi, che vi cadettero, furono di ciò biasi. mati; tra’quali Alessandro, Augusto, ed altri. Quindi è, che faggiamente dispone il Deutero.al 17. Rex non multiplicabit fin bi equos ; or dunque come potrà ciò permcttersegli, essendo anche dispendioso?  Sem. Vado or riflettendo come G rę. goleranno quei figliuoli educati benc da Maestri,criusciti eccellenti nelle scienze, se non averanno i Padri attcari, e 'capaci di dar loro direzioni buone in  [ocr errors] j  tempo, che debbono prendere stato : © che faranno ancora quci nati da Padri poco nobili, e meno ricchi,effendo d'uopo riflettere a tante cose per accomodarli bene?  Pab, La gran providenza di Dio supa plisce a questo; effendoche : bong menfi fuccurrit Deus,Allorchè questi faranno divenuti capaci,cd abili, da loro medesimi comprenderanno qual ha il volere Divino, ed avanzandosi colla loro prudenza giugneranno felicemcate fin dove Iddio averà disposto, che arrivino.  Sem. Io sono rimasto sorpreso allo volte nel vedere cerți mal educati, e poco dotti , ed anco per vie indirctte , giu. gnere a gran posti; ed altri, alle volte quanrunque di vita esemplarc, meritevoli, e capaci, rimanere indietro,  Pub. Questo ancora è un arcano della Providenza Divina ; posciachc essas I tollererà , che caļuno s'avanzi per queste ich vie; mà che ? vedendosi questi nell'au, ge  delle loro fortunc cadere a terra, çi i fa credere, che senza il Divino ajuto  for  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] formino la statua di Nabucdonosor, 12 quale mediante un picciolo falsolino s' atterra, come appunto provò Sejano. I E quelli poi, che rimirate non avanzarsi, avendo merito, Iddio conosce, che quel posto,che voi credere, che compete. rebbe loro, e non lo conseguiscono, non fàrà per loro,effendoche, oc'incontrerebbero delle disgrazie, o pur sarebbe dannoso alla loro eterna salute, e di  quefta verità non dubiterere punto ; perchè alle volte: honores mutani mores, ondes chi sà, che in questi non seguisse cosi? se volete udire altre ragioni sopra di ciò leggete Seneca che tratta diffusamcnte di questo nel libro:quare bonis viris mala accidant cum fit Providentia .  Sem. E che dice di più di questo?  Pub. Tra le altre cose urili dice la Pro. videnza Divina a coloro, che di ciò si prendono rammarico al cap. 6.Quid habetis quod de me queri pofitis vos, quibus recta placuerunt? Aliis bona falsa circum. dedi , animos inanes velut longo , falla. rique fomnio luff, Auro illos , argento ,  ebo  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ebore ornavi: intus boni nibil eft . Ifti quos profęlicibus aspicitis fi non quâ occurrunt, sed quâ latent videritis, miferi sunt , fordidi , turpes ad fimilitudinem parietum fuorum extrinfecus culti . Non eft ifta folida, sincera folicitas: crufta eft, quidem tenuis . It aque dum illis licet  ftare, co ad arbitrium suum oftendi, nitent , da imponunt cum aliquid incidit , quod difurbet; ac detegat , tunc apparet quantum alta , ac veræ feditatis alienus Splendor absconderit. Vobis dedi bona certa, manfura quanto magis versaveritis , & undique inspexeritis,meliora,majoraque permisi vobis , metuenda contemnere , cupienda fastidire. Non fulgetis extrinfecus : bona veftra introrsum obverfa sunt . Non egere feu  licitate fęlicitas veftra eft. Ferte fortiter, bc.  · Sem. Sin ora abbiamo discorso intorno al modo da provederli senza soccorrerli di proprio , vorrei , che ora m’ istruiste come mi doverò regolare con efli loro nel sovvenirli, vivendo io, e dopo la mia morte ?  Pub,  [merged small][ocr errors] Ec 3  Pub. Questo è un prudente quesito, e dev'esaminarsi seriamente, dependendo da questo il mantenimento ancora della buona educazione acquistata ; posciache bene spesso conforme diffe Tacito: felicitate corrumpimur.  Sem. Come dunque mi dovrò regola. re coll'ammogliato ? perchè non vorrei pensare al suo mantenimento , fentendo giornalmente molci dolersi de loro Pa. dri, che non li provedono in tempo opporcuno di quanto fa loro bisogno; oltre di che sò ancora, che così pensa mio Padre trattarmi.  Pub. Voi dovrete affegnargli unas convenevole, c fufficient entrata, che pofsa baftare per il suo mantenimento ; con questa considerazione di vantaggio di accrescerla, secondo che anderà mul. riplicando la famiglia.  Sem. Mà non averà d'avere qualche cosa di vantaggio del bisognevole?  Pub. Qualche cosarella credo anch' io di fi, perchè accadono alle volte certe spefarelle impensace, alle quali nonfi farà dato il suo equivalente assegnamento; mà per altro non debbono i buoni Padri di famiglia essere molto generoli co'suoi figliuoli ammogliati.  Sem. E per qual cagione?  Pub. Perchè dagli affegnamenti soprabbondanti ne nascono il lusso, las crapola, e cento altri vizj.  Sem. Mà se farà ben’educato non caderà in questi trascorsi .  Pub. L'essere ben’educato opererà , che questi non si dolga del conveniente, e giusto assegnamento fattogli da suo Padre ; mà per altro fate, ch'egli si ritrovi denaroso, troverà ben più d'uno, che gli li porrà d'intorno per farglielo spendere in cose voluttuose, onde toglieregli affatto l'occasione di far questo, che vivererc voi più quieto , ed egli più fano  Sem. Si dovrà quest'ingerire nell'amministrazione dell'azienda ?  Pub. Anzi sarà necessario, che lo facciate istruire in tutte le cose, dovendo egli, non solamente dopo la vostra mor  [merged small][merged small][ocr errors] te reggere la casa , mà eziandio se mai per disgrazia voi v'inabilitaste; o pure per la soverchia età volerte attendere alla quiere.  Señ. Ed agl'altri figliuoli dovrà farsi assegnamento per farli vivere da se ?  Pub. Questo nò: li doverece bensì voi provedere di quanto farà loro'bisogno, al più, che vi potreste stendere; sarebbe d'assegnare loro un tanto per vestirsi, con qualche cosarella di più, mà non già con prodiga mano ; perchè l'abbondanza del danaro è la rovina dei giovani, anco ben educati, e credetemi, ch' io sò qualche cosa in questo particolare, e Mecenate ne sarà tal-volta informato più di me.  Mec. Voi dire la verità, poichè se un figliuolo di famiglia maneggierà danaro, sarà corteggiato da più d'uno, e tentato da questi a prendersi divertimenti d'ogni genere, dove che se non averà, questi Teduttori faranno come le formiche, che non li accofano ove gon è grano ; come dille Ovidio.  Hora  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Horrea formicæ tendunt ad inania  nunquam Nullus ad amisas currit amicus opes. Sem. Guadagnando taluno di questi, dovrò continuare a fare con effo lui quello, che fo con gl' altri?  Pub. In questo caso voi potreste fargli da economo , affinchè non ispregasse, con rinvestire in faccia sua i suoi guadagni , per animarlo ad accrescerli; ed infieme, per eccitare gli altri fratelli ad imitarlo; e continuerete voi a mantenerlo, essendo la casa non bisognofa ; mà se non bastassero l'entrate al comune mantenimento, il figliuolo bene educato spontaneamente vi soccorerà col proprio guadagno; non potendol prevalere del consiglio di Solone, come riferisce Plutarco: che solamente i figliuoli, abbandonati da loro Padri, non fossero tenuti, allorche questi avessero avuto bisogno di esser soccorsi da figliuo, li, efli didarglielo.  Sem. E se uno de miei figliuoli foffo; destinato a qualche giverno, o 'alera  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] ca.  [ocr errors] carica dispendiosa,per servigio del Prencipe?  Pub. In questo caso,Sempronio , con. verrà,che voi facciate tutti li sforzi por. fibili in soccorrerlo, anche oltre il bisognevole:e per queste cótingenze debbo. no i buoni Padri avere cumulato danaro per prevalersene, e non bastando, pofsono anche fare debito; perchè questo si chiama rinvestimento, che a suo tempo, oltre il decoro , recherà anco utile alla casa.  Sem. Vediamo ora come dovrò lasciarli dopo la mia morte, ed in primo luogo come averò da contenermi coll' ammogliato; se lasciarlo padrone libero, o usufruttuario con fare la primoge, nitura ?  Pub. Lasciandolo voi, che sia arrivaco in età affodata, e senza vizj, attento alla casa, e versato nel maneggio di effa, potreste anche fare di meno di legarlo con fidecommisso; con tutto ciò, perchè non potrete sapere i naturali de' figliuoli, che da esso nasceranno,  e se  [ocr errors] e se sarà in tempo, per qualche accidca: te di poterlo far esto, non sarebbe male d'istituirlo, con lasciare ad esso qualche porzione libera, per fargli conoscere, che non diffidate della sua bontà, ed at. tenzione in moltiplicare la roba.  Sem. Ed agl’altri, che dovrò lasciare  Pub. Un Ogorevole mantenimento per potere decentemente vivere fecon. do la loro condizione, ed a colui, che foffe capace di avanzarsi nelle cariche, qualche cosa libera per poterlenc prea valere ne'suoi urgenti bisogni , quando le averà ottenure ; må dite che farefta di vantaggio voi, Mecenate ?  Mes. Avendo veduto , che alcuni apa pena eftinti i genitori , quantunque fora to la loro dirczione foffero ftati mode  tariflimi in tutto, pull adimeno pelle o pompe funebri, clutto incominciarona di a slargarli in modo, che non mostravano o essere più quci di prima , cosi ben disci· plinati nella parhimonia ; questo dico mi o farebbe, avendoqualche rimedio, acciocche non foffe in tutta libertà loro di manifestare quel ge nio ch'era quando vivevano i padri fie mulaco,a fine di precluder loro affatto la via di darsi all'eccessivo lusso.  Pub, Sapete pure quanto sia difficile il volere regolare le cose canto al minuto dopo morte ? e quante disposizioni si fanno, che non fi osservano dagli eredi? or come potrete far mai, ch'elli allora fieno buoni economi di quello, che non è più vostro?  Mec. Tutto va bene, mà però certe cose possono farfi eseguire anche dopo morte , perchè li dispongono in vita, ed allor'appunto, che sono proprie; onde perchè non le potrei conseguire difpo. nendo, che si dovesse ogn'anno rinvestire una parte dell'entrate, la quale io credelli soprabbondante al loro decente. sostentamento?  Pab. E che pretenderefte farne di tal vincolato investimento?  Med. Vorrei che dovesse servire per dotare le figliuole ; e credetemi, che  que  [ocr errors] [ocr errors] queste doti d'oggidì, che sono divenute eccessive, sono la rovina delle care, onde quando queste non si dovessero linen. brare da' capitali mi persuado, che sarebbero esenti dal deteriorare per questa parte. Farei ancora assegnamento maggiore a Cadetti, di quello, che alcuni costumano di fare, e particolarmente a quei, che sono ben incaminati per la strada della letteratura, o militare, non servendo questo scarso, ed insufficiente assegnamento ad altro, che a fare maggiormente spregare a primogeniti, godendo più grosse rendite del loro bisogno con pregiudizio de progressi altrui, perchè in sostanza tutti debbonli, e gualmente considerare per figliuoli, e fenza demerito alcuno dell'amore paterno portandoli tutti seco rispettofi.  Sem. Voi Mecenat vorreste reftringere tanto i poveri Primogeniti, che poco rimarrebbe loro per vivere, perchè una parte dell'eredità paterna la vorreste porre a moltiplico, ed oltre di questo  pre  [ocr errors][ocr errors] pretendere ancora di accrefcere gli assegnamenti consueți de Cadetti;onde stencerebbero i poveri Primogeniti a vivere anchę mediocremente,  Mer, lo non hò preteso di appor. car ļoro danno alcuuo, ma bensi più fofto giovamento, liberandoli dallas penosa briga di dover pensare alle dori delle loro sorelle, e figliuoic, facendo trovare queste pronte in tempo , che ne potranno avere biso, gno,  Şem, Sę tante deligenze si dovranno praticarç per li figliuoli ben educati, e dosti , che doverà farsi per quei , che non si farango approficcati nell'educa, zione, e nelle scienze  Pub. L'esaminaremo ia appreso,  SON  [ocr errors][merged small] Come debbano i Padri regolarsi nel  provedere i figliuoli ignoranti,  ç yiziosi,  Publio , Sempronio , Mecenate ,  & Medico.  [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] Pub.  Alomone non solamente notificò il giubilo grande,che godono i Padri allorche vedono i lo  ro figliuoli ben di. sciplinati , come al 23. dc suoi Proyerbj dice ; Exultat gaudio paser jufti : qui fapientem genuis lætabitur inco; Må eziandio espresse il rammarico, che ne hanno quei , che li vedono viziofi al decimo ferrimo ove dice ; Ira patris filius ftultus,  dolor matris, qua genuit eum. Quindi  è, che  è, che l'Ecclesiastico al 16. conchiude: Utile eft mori fine filis , quàm impios habe  re.  · Sem. Questi cattivi , e viziosi forse non averanno avuto dircttori nei loro teneri anni, che gli abbiano ben'educari.  Pub. Ci sono di quei, che l'ebbero an. cora, e pure da essi niun giovamento ne riportarono  Sem. Come è possibile questo?  Pub. Dovete voi sapere, che quando il vizio è radicato nel cuore de figliuoli, e che di la si propaga al capo, ardua impresa fi renderà il poterlo svellere, perchè fi rende allora effo quali padrone della volontà ?  Sem. Mà perchè questi non possono. coll'educazione estirparsi dal cuore, e dalla mente quando di effa fi foffero impoffesfati ancora è  Pub. Ardua impresa, come disi farà prenderla con vizj chiamati da Salomone nelle sue Parabole al 2 2. Stultitia colligata in corde pueri; e tanto maggior. io figliuoli, pensare allnde  mente quando chi n'è contaminato non coopererà ancor ello per rimuoverli?  Sem. E come potrà farac di meno, avendo avanti gli occhi canti buoni esempj, ed udendo saggi documenti , e ragioni convincentisfime !  Pub. Si trovano questi talmente accecati, e sordi, che non veggono, nè capiscono nè esempj, nè ragioni ; e queIto nasce ancora dal loro naturale , egenio perverso, che in vece di apprende. re, e vedere con loro profitto li fà porre in deriGone quanto odono, e veggono, come saggiainente insegna Salomone al 15. de suoi Proverbj: Stultus irridet disciplinam patris fui, qui autem cuftodit increpationes astutior fiet.  Sem. Questi genj perversi donde nascono ?  Pub. Dalla poca cognizione dell'onefto, e del vero bene , e da questa deriva, che credono ogni qualunque cosa, che appag! la loro volontà, per onesta, quautunque sia detestabile, ed avendo, fatto in tal falfa ccedenza l'abito, quc  FF  Ito  [merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] Ito palsa in naturalezza, e genio, per es. ser divenuta la loro fantasia quasi consimile a quei cristalli con artificio lavorati, che fanno comparire le cose proporzionate,e belle per i isconcie,e le íconcie per belle , e proporzionate .  Sem. Indicatemi ora qualcuno di que. Iti vizj tanto perversi.  Pub. Se voi scorgerete in un fanciullo certa crudeltà ferina, qual fù di colui, che con un ago cavava gli occhi a cerci uccelli : d'altri che feriva col coltello, o bastone il compagno, e scorgendo sgorgare sangue maggiormente s'infieriva: o pure una certa inclinazione a trafugare, e nascondere cose non comestibili , prese anco da qualche scrigno: l'essere pertinace, e perseverante nel non dire mai verità, e fare qualche danno per imputarlo altrui; overo quantunque corretto,e gastigato più volte il continuare tuttavia a non volere apprendere cose di Dio, con avere dispiacere di sentirne anche parlare ; imparando ben l'altre dannose al buon costume : non rispettare  [ocr errors] i i genitori , anzi beffeggiarli di più quanworld do sono da elli correcci; e tutti questi di  fetti crescendo esli negli anni vedendosi avanzati più rosto, che diminuiti, credete pure, che limili vizj sono già divenuti padroni del cuore , e della volon. tà.  Mec. Vi fù uno di questi, che in età di cinque anni ammazzò con coltello un  fuo compagno, e non essendo capace, i per  essere di sì tenera età, di gastigo, o proporzionato a tal'eccesso, commesso anche con crudeltà  per  li rinovati colpi, a che gli diede, fu fatto caftrare in pe  na da quel Prencipe dominance, dicendo egli, che non voleva razza di simili fiere nel suo dominio .  Sem. Mà hò udito riferire più volte, che pur si rendono máfuete le fiere ache o più crudeli; com'è poflibile dunque, che  questi, in qualche modo, dall'industrias umana non si possano domare? esaminiamo di grazia, se vi poress’essere qual  che rimedio, per rendere mansueci anco o questi, o pur datemi sopra cio, per mio  Ff 2  re  regolamento, qualche buon consiglio ; perchè , fe Iddio per gastigarmi mi desse un di quefti figliuoli, io sarci il più infelice uomo tra tutti i vivenci.  Pub. Lo credo, e perciò bisogna, che cominciare da or'a supplicarlo, che non vel dia , ed essendo egli sì misericordio. fo, potrete dopo reiterate preghiere an. che sperarlo ; e voi, Dottore, avete alcun rimedio di quelli, che chiamare eradicativi per isvellere questi vizj?  Med. Se non foffero cotanto radicati spererei disì, mà farò qualche studio particolare , anche intorno a questi, per vedere se G trovasse alcuno specifico, almeno, che potesse minorar loro tant' orgoglio ,  Pub. Se si trovaffe questo sarebbe gran vantaggio ; perchè allora coll'educazione li potrebbe fare qualche cosa di più, se non in cutti, almeno in alcuni di esli , onde pensateci seriamente, e fare qualche sperienza tractanto , per riferire a suo tempo ciò, che averete ritrovato giovevole.  Sem.  [ocr errors] .  Elio Sem. Mà intanto insegnatemi almeno แบ่ง quello, che li potcffe fare di vantaggio 11  nell'educare questi, perchè poi, che averà ritrovato qualche rimedio il Dotcore, mi informerà di quello.  Pub. Se fi potesse discernere in tempo, che prende il latte quel figliuolo,in cui la crudeltà volesse fare progresi, la prima cosa che farei, sarebbe, di mutargli la nutrice, se fosse donna risentita , e tiera, ed in vece di questa gli farei dal Dottore scegliere un latte di balia pacifica , e femmatica; effendocche di ciò me ne porge morivo quello, che seguì all'Imperatore Commodo, il quale per essere stato nudrito da una donna rifen  tita, e barbata come un uomo , data* gliela affinchè diveniffe generoso; mà in  vece di questo divenne un gladiatore ,  per non dilergarfi di altro, che di sangue, j  e di caroificine, ed hà ben creduto talun che appunto detta balia fosse figliuola di gladiatore.  Med. Olrre lo sceglierla proposito,fi potrebbe anch'essa far nudrire di erbe,ed altri cibi di tenue sostanza, e toglierle ache affatto l'uso del vino, e slattato che fosse il fanciullo converrebbe non fargli gustare, ne vino, ne carne per alcuni anni; mà è cosa difficiliffima, per non, dire impossibile , a conoscer quisto ne? bambini.  Sem. A questi sarebbe bene, fin dalla tenera età cominciare ad usarglı gran rigore per vedere di domarlo?  Pub. Se si verificasse realmente che le vespe muojono nell'olio, e risuscitano nell'aceto,converrebbe,per estinguere vizj li perniciofi, valerli più costo del dolce lenitivo, che dell'afpro pungente; contuttociò per assicurarsi meglio con. viene regolarfi secondo gli effetti, che produrranno in loro i gastighi ; essendoche xlcuni fanciulli nella tenera era acora s'infieriscono allorchè fi veggono perciotere colla sferza, onde senza  pro ditco alcuno questi di batterebbero, come insegnò Salomone : ne suoi Proverbi al 27. fi contuderis ftultum in pila quafi pofanas feriente de super pile, non aufes retur ab eoftultitia ejus Semo  erli che  Sem. Ponendosi questi per la buona via , con deporre gran parte della loro fierezza, si potrà sperare, che divengano buoni?  Pub. Dee sempre temersi, che possano ricadere nel medesimo eccesso, non potendosi ne anco alle bestię togliere af. fatto la fierezza nativa, quantunque mostrino essere divenute mansuete.  Mec. Riferirò a questo proposito ciò che seguì di un Leone : questo era divenuto apparentemente fi mansueto,chę girava per tutta la città senza recare molestia ad alcuno; mà abbattendosi un giorno in un macellaro , che portava sulle spalle un gran pezzo di carne , se gli avventò alla vita, lo ferìgravemente colle unghie,e se non era pronto a dargli la detta carne,l'averebbe anche sbranato. Così mostrò la sua fierezza , che teneva di anzi celata.  Sem. E quelli , che mostrano inclinazione al furto ?  Pub. Questi ancora, se Iddio non gli ajuta', termineranno malamente la  lor  [merged small][ocr errors] Ff 4  loro vita; effendo cosa assai difficile, per non dire impoffibile, il poter svellere af. fatto tal vizio ; perchè quanrunque alcuni non siano forzati dal bisogno, las cattiva loro inclinazione li porta a rubare,  Sem. Si possono questi gastigare colle sferzate ?  Pub. Così fi dee fare, perch'essendo vili di natura, enon superbi come i primi , dalle percoffe possono ricevere profitto,almeno in aftenersene per qual  che tempo.  Mec. Abbiamo l'esempio di colui , che condannato a morte per ladro, conducendosi al paribolo fè premurofiffima istanza di rivedere sua Madre, ed oricnura che l'ebbe, avicinoffi tanto ad essa, che coi denti le svelre un orecchia, dicendole: per colpa voftra io vado al paribolo, perchè, fe foffi ftato da voi ga. ftigato da piccolo, non vedreste tale spettacolo, ne tampoco io soffrirei queIta ignominiofa morte. Pub. E neceffario ancora condurli a  31  2  vedere far giustizia, e con tal occasione insegnare loro qual gastigo meritano quei, che rubano', e che in oltre sono semprc miserabili questi infelici, come ben conobbe Salomone al is, de' suoi proverbj:Alii rapiuni non fua, & femper in egeftate  funt , Mec. Un simile obbrobrioso speccacolo indusse una volta gran terrore ad uno quantunque ftolido mendico ; poscia che per essere stato giustiziaco un monctario falso, aveva una collana appesa al collo di dette monete falsificato da esso, e credendo il mendico, che per quelle monete foffe fatto morire , al. lorchè taluno gli esibiva una moneta di argento, la ricusava con allontanarli da eslo , contentandofi solamente di quelle di rame, che non le aveva vedute appese in quella collana di vituperio.  Sem. Mostrando poco rimor di Dio , e meno rispecto a genitori?  Mec. Questo appunto, essendo il vi. zio peggiore di catti, diviene incorrig. gibile per opera de'genitori.  [ocr errors][ocr errors] Sem. E per opera di chi fi potrebbe emendare?  Mec. Polemone essendo giovane fu viziofiffimo a segno che si portò un giarno alla scuola di Zenocrate, non già per apprendere da esso alcun buon documento, mà bensì per disturbare più tosto quei, che aveano genio d'apprenderli; avvedutofi di ciò il saggio filosofo, cominciò a favellare sopra il vivere onesto, e li vantaggi, che da esso firiportavano, e con tali convincenti ragioni , che rimase sorpreso il vizioso giovane a segno, che abbandonò i suoi viziosi compagni per seguitare Zenocra. te, da i di cui buoni documenti, u modo di vivere esemplare, si cambiò da peffimo , ch'egli era , in ortimo, e da ciò ne deduco, che ancor voi non dovete indugiare un momento di più, essendo il figliuolo in età capace, di non mandarlo in qualche esemplare seminario , affinchè , co'i documenti, e colli buoni esempj apprenda , e miri ciocche fare gli convenga; e proccuracedi non farlo tornare più a casa vostra, se non averà mutato costume , e state ancor voi lontano da esso, mostrandovi dif. gustato del suo modo di vivere'; e sapranno ben quei buoni' directori, ayvezzi a domare fimiliceryelli, allertarlo al bene, e con modi più spedienti correggerlo, e punirlo, affinchè li emen. di.  Pub. Debbono parimente i Padri ftare cautelati nel gastigare i viziosi loro figliuoli, divenuti grandicelli, perchè fi potrebbe dare il caso, che questi sentendosi percuotere, fi rivoltassero contro di effi , e li znaltrattassero ancora :  Sem. Se per disavventurà de poveri genicori rimanessero questi incorriggibi. li , che fi averà da fare per provederli?  Pub, Udite come mai parla bene a in questo proposito l'ecclesiastico ál 22.  Confufio Patris eft de filio indisciplinato: onde come potrà mai in simile confun fione régolarsi egli con prudenza! Certa cosa è, che per prender moglie questi  non sono buoni ; per Rcligios- neanco; .  de  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] de maneggi della Republica non sono capaci; talmente che non sapranno, che impiego potessero far loro ottenere.  Sem. Perchè non sarebbero buoni a prendere moglie ; pofciachè chi sà, che divenendo capi di casa non mettessero giudizio ?  Pub. A voi darebbe l'animo di convivere insieme con costoro, se vi foffero compagni  Sem. A me difficilmente.  Pub. Or dunque, perchè volere porli a convivere con una giovane senza fpe. rienza? ed a che vica infelice fiespor. rebbe questa con marito si vizioso? E poi roi procurate fare il poffibile per togliere da effo i vizj, e non essendovi ciò riuscito , pretendere forse far razza de suoi difetti In quanto poi, che il prendere moglie li possa fare mutar coItume, non è credibile ; perchè, se Mulieres faciunt prevaricari fapientes, che faranno a vizioli di questa specie? Ne fi potrà persuadere alcuno, che questi tali non abbiano già provato le dissolu.,  sez:  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] tezze di Vegere, perchè i vizj al parere di Seneca non vanno mai foli; e se quem ste non hanno moderato il loro orgoglio, che più potranno acquistar di buono conginngendosi in matrimonio Il dir poi, che si prenderanno il pensiero dei loro tigliuoli nell'educarli, questo è lontano dal vero ; perchè li vorranno bensì allevare limili adelli, e quando ciò non riuscisse loro palcsemence, mediante le diligenze usate in contrario dalle Madri, faranno il possibile nasco, ftamente di conservare in effi, alincno in propri difetci, acciocche non li dica, che non liano loro degni figliuoli; come ap parisce dagli esempj dell'ubriaco, e de beftemmiatore riferici di sopra .  Sem. E qualcuno di questi perchè non si potrebbe indirizzare per la vian Ecclefiaftica  Pub. Peasate voi che questi abbias vera vocazione di caminare per queIta santa via.  Sem. Mà se G dichiaraffe, che a volesse indirizare per essa , e mi pregafle,  che  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] che gl'impetrafli qualche pingue beneficio, averò da ricusare il farlo 2  Pub. Certamente che sì, perchè quefi farà mosso dall'intereffe, cioè dal conseguire l'utile del pingue beneficio, non già dal servire a Dio, come far dovrebbe ; onde farà non diffimile a colui, che brama prendere moglie, non per il fine del santo Matrimonio, mà per l'intereffe della pingue dore, che si ritrova colei , che vuole sposare.  Mec. A proposito di groffa dote fece una donna accorta una bella burla al suo futuro sposo: Ella era per verità alquanto deforme, e perciò più d'uno dicca al giovane, che la voleva prendere, il qual era molto bello, che l'aveffe rimirata meglio prima di sposarla,cui rispondea, che li bastava di effettuare il matrimonio , per dare di mano alla grossa dore , che aveva; per altro, che di tal moglie punto non si curava i Fù ciò riferito alla giovane, la quale fe portare da una sua damigella, allorchè fi dovea spofare, una grolla borsa di danaro in Chiesa, ed  aspete  [ocr errors] [ocr errors][ocr errors] aspettò , che il Parroco avesse domandato allo sposo se la voleva,il quale udito ciò disse, senza indugiarvi punto: disi; allora l'accorta donna si fe sporgere la preparata borsa , e tenendola nelle mani, allorchè fu ricercata anch'essa del suo consenso, nulla rispondeva ; ne fi sapeva che fine doveffe fare quella borsa; perchè il futuro sposo si speranzava, che dovesse servire per un publico donativo per  effo , ed i Chierici, che fosse la mancia per loro : alla fine stimolata più volte a rispondere ella disse; se questo fignore si è dichiarato volersi sposare collas mia dore, questa, mostrando la borsa,essendo parte di essa, mentre non risponde, è segno , che non lo vuole qual consenso dunque hò da dare io s'egli brama la mia doce, e non già me? e così confuso, e mortificato partì il giovane ; onde non vorrei , che facesse il beneficio ancora il Gmile, di ricusarlo, facendo con esso l'amore a cagione della sua dote.  Pub. E poi dovreste anche rifletreredi quanto scandalo sarebbe un ecclefiastico vizioso , dovendo cgli essere lo fpechio de'buoni costumi; ne fperace , che questi,che si muovono per fimile fine possano divenir buoni ; ponno divenire benli peggiori impiegando il danaro sa. gro in cose viziose.  Sem. E se caluno di questi volesse applicarsi al governo della Republica, c chiedesse il mio ajuto,per poter e ottencre qualche posto per via di favori, e di regali; perchè non ho da compiacerlo?  Pub. Questo ne tampoco doverete fare, perchè se fosse d'uopo amministrar la ! giustizia,nó direbbe già egli quello, che diffe Giulio Cesare : che per un Regno di poteva far torto alla giudizia, perchè lo farebbe per assai meno, effendo ano che  capace di farlo per sodisfare an folo de suoi viz); onde tanto voi, quanto chi vi avesse contribuito entrerette a parte di tutte l'ingiustizie, ed iniquità chia capace di commettere un vizioso.  Sem. Che dunque doverei fare , per non vivere da disperato , quando avelli alcuno di questi?  Pub.  [ocr errors] Pub. Mandarlo alla guerra per fargli provare come Gi vive, cd alle volte  qucIta è l'unica medicina di questi cali; perchè se fono fanguinarj possono faziarsi del sangue de nemici; se attendono alla rapina nc'saccheggiamenti possono sodisfare la loro ingordigia;se poco cimorati di Dio, e niente rispettoG a genitori, vedranno quanto temere Gi debba , e rispetrare un Capitano quantunque non gli abbia creati, o generaci; onde poirebbe essere, che il Signore Iddio gli toccaffe il cuore, e facesse comprende, re, che se tanto li fa per un uomo , quant. to di più fi doverà fare per Iddio, e per chi lo gencrò !e sappiate , che dalle lega gi di Mosè venivano questi condannati ad esser lapidati dal Popolo, come nel Deuteronomio al 21. Si genuerit homo filium contumacem, da proteruum, qui non audiat Patris , aut Marris imperium, co coercitus obedire contempferit, appraben. dent cum, ducent ad seniores civitatis illius, & ad portam judicii , dicentque ad ços c. lapidibus eum obruet populus Civis  Gg  tatis  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] taris, ut auferatur malum de medio ucStric. onde in vece di vedere fimile spettacolo sarà pur meglio mandarli alla guerra, la quale faggiamente fu difi. nita: Infolefcentis generis humani tonfura.  Sem. E se ricufaffe di andare alla guerra ?  Pub. E voi figuratevi, che vi sia già andato, e fatto prigione ; onde rinchiudetelo in qualche fortezza : non avendo però commessi ancora reati gravi , affinchè non siano puniti dalla giustizia con morte ignominiofa; conforme qualche volta è seguito; e tenerelo ivi fin tanto che camperere, che così farcte sicuro, che non commetterà gravi eccelsi, trovandosi guardato, e custodito , Non bisogna però, che prendiate cal risoluzione a sangue caldo, mà fateci matura riflessione : c regolatevi ancora col consiglio di qualche faggio , e buono amico,  Sem. Per dopo la mia morte comes avero da disporre le cose ?  Pub.  Pub. Con lasciare a cattivi figliuoli ma solamente tutto quello, che non potrei te cogliere loro, non per odio persona  le; mà de loro vizjicon questa condizio. ne però , ch'effendosi ravveduti, dopo un triennio di vita esemplare, poffino godere un tanto dei frutti della vostra eredità; e perseverando nel ben operare abbiano ancora d'avere qualche accrescimento maggiore ; qual perdano intieramente, ed immantinente, ricornando a menare vita scandalosa.  Sem. E se fingeranno di essere divenuti buoni a fine di poter godere quel i frutto maggiore?  Pub. Non sarà meglio, che facciano così,che operino sfacciaramente male ? de l'interno Iddio solamente lo rimira ; le  l'esterno appena è palese a gli uomini, i  quali di questo solamente pouno appa-  garsi; e poi vi è stato qualcuno ancora ,  ch’hà incominciato a menar vita mi-  gliore , per conseguire qualche premio,  che poi si è ravveduto da dovero.    Mec. Vi è l'esempio di quel Soldato,   che  [ocr errors][ocr errors] bu  COM  [ocr errors] [ocr errors] che si racconra essere stato convertito da S.Francesco Saverio : Questi era un pessimo uomo, ed iracondo a segno, che non averebbc sofferta una parola anche indifferente, che non l'avesse appresa detta per lui, e volesse anco vendicarsene . Le ainmonizioni, ed esortazioni faccegli dal Santo nulla giovavano; alla fine li disse mostrandogli una moneta di oro, se voleva guadagnarsela rispose francamente di sì : or sù dunque replicò il Santo venire meco , e giriamo d'incor. no l'esercito ; Io la porterò in mano, affinchè la miriate, e voi non avete a fare altro, che di sopportare con pazienza quello, che udirete dire contro di voi. Fù dato principio alla grande ope. ra,ed egli rimirando con occhi tifi l'oro, si rideva di quanto male udiva contro di sè, e cerininato felicemente il giro, guadagnò il premio. Allora il Santo tiratolo da parte gli disse: figliuolo mio per una si vile mercede voi avere potuto sopportar tanto, e per un Dio non poteie sofferire una minima particella diquesto ? il Signore Iddio in quel punto $ gli toccò il cuore , e fi ravvide per sempre.  Sem. Mà se poi i difetti de' figliuoli non fossero gravi a questo segno, e fos. sero di quelli, che pure non disdicano ganto, per essere divenuti ormai familiari, potrebbero con questi proporsi a sudetti ministeri, ed impieghi ?  Pub. Spiegatevi apercamente, quali voi intendere per questi vizj familiari?  Sem. Per esempio se caluno di esli avesse principiato da 14: 0 15. anni a dimorare la maggior parte della notte fuori di casa, e quancunque suo Padre l'avesse più volte ammonito, che non lo facesse , ed effo ciò non oftante continuafle ; contraeffe debiti; e perchè è figliuolo di famiglia, non potendosi obbligare, facesse obbligazioni dette pagherà. con grandissimo difcapito, senza data , per  firmarla dopo la morte di suo Padre; ed altre cosarelle non tanto familiari; come dir male del profimo , di mancare alle volte alla parola data ; ne  ga:  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] GS 3  [ocr errors] gare ciò, ch'egli averà avuto; e se riyscirà , di gabbare il compagao nel giuoco; con altri piccioli vizj di questa forte?  Pub. Cofarelle, piccoli vizj voi chiamate questi! E non riflettere,che quando il giovane li sarà abituato in questi ugua. glierà egli taluno de vizioli di primo rango: ad uno che sarà avvezzo  la  maggior parte della notte dimorare fuori di sua casa, e sarà giovane, voi volere impetrare beneficj Ecclesiastici, ed im. picghi gelosi della Republica ? Và forse a studiare in quelle ore, o a farsi la disciplina negli oratorj, quando i studj, e questi sono ferrari ? e come vi persuadete, che possano adempire l'obbligo loro, effendo scarf di dottrina , e di buoni costumi, ed applicati a cose, in cui per la meno inutilmente si perde il tempo a e fatta che averete rifcllione agli altri loro vizj, che avete apportati ; consigliatevi colla vostra coscienza se lo potrete fare : mà esaminiamo di grazia donde ciò proceda, e se sia solamente colpa de figliuoli canto deviamento.  Sem.  [ocr errors][merged small] Sem. É' loro certamente; perchè hò sentito lagnarsene i Padri di questo, col. le lagrime su gli occhi.  Pub. Questo fu il pianto del coccodrillo, che piagneva il suo figliuolo allorchè lo aveva ucciso: come si sono portati questi Padri nell'educarli?  Sem. Certa cosa è, che tante diligenze, quante ne hò udite nelle nostre conferenze,non le han faute.  Pub. Or dunque, se non gli hanno educati bene, a dolgano della loro trafcuraggine, perchè viziosi li vollero efli.  Sem. Mà che averanno da fare ora?  Pub. Questa penitenza appunto, che Iddio manda loro;di sopportare figliuo. li viziogi .  Sem. Ci sarà pure qualche rimedio?  Pub. Ciè certamente, ed è questo; di fare alli piccioli nepoti ciò,che non fece. ro a loro figliuoli, cioè di educarli bene; perchè altrimenti, non essendo capacii loro Padri di fare questo, i vizj non li fyelleranno mai dalle loro famiglie:  Sem. Voi diceste,che questo cocchi al Padre,  Pub,  [ocr errors][merged small][ocr errors] Gg 4  Pub. Sibene quando sia capace di farlo, e vi pare , che questi viziofi fiano abili ad educare i figliuoli a suo dove-' re? Il loro mal esempio come permetterà, ch'essi apprendano le virtùd Onde quantunque schiamazzino alle volte redendo i loro figliuoli viziosi,č incerco se lo facciano per zelo di amore, o per invidia , perchè non possono essi più con. tinuare fimile vita rilassata essendo vecchi.  Sem. Io hò cap to a bastanza , ed ora compreоdo la cagione; perchè nell'universale non si possono affatto estirpare i vizj, mà voglio approfittarmene per casa mia, per non avere anche io a fare il pianto del coccodrillo. Ma le povere figliuole come si doveranno provedere? essendo gran disgrazia loro, quando capitassero in mano di simili viziofi.  Pub. Esamineremo anche questo , nà non è ora tempo ; perchè richiede affare si rilevante lungo ragionamento.  CON  [merged small][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] Pub.  Onfesso ingenuamente che non séza rigione alcuni Pa. driffi contristano ál. lorchè nascono tan,  co loro figliuole ; perchè il penfare a collocarle bene non è piccolo intrico, chiamandoli questo affare dall'Ecclefiaftico al 7.opera grande dicendovi: Trade filiam, & grandes opus feceris, o bomini fenfato da illam; posciache saranno state educate alcune di effc col timore di Dio, senza lusso ,c vagità, modeste comc fi dee, istruite inquanto è necessario per il buon regolamento di una casa; mà che servirà loro tutto questo , se capiteranno in mano di un marito imprudente , vizioso, ed indiscreto! e fimile appunto a quello , ch' ebbe quell'innocente Giustina , il di cui Epitatio sepolcrale è questo.  Immitis ferro secuit mea colla mari.  [ocr errors] Dum propero nivei folvere vincla pedis  Durus, ante thorum , quo nupér   nupta coiur,  Quo cecidis noftrę virginitatis honos.  Nec culpâ meruisse necem bona Numina testor,  Sed jaceo fasi forte perimpia mei  Discise ab exemplo Juftine , difcite pa.   tres  Ne nubat fatuo filia veftra viro. Or vedete Sempronio, che gran facenda è questa !  Mec. La conobbe afrai bene Democr. appresso Stob. dicendo: Qui bonum generum nactus eft invenis plium, qui verò, malum, fimul & filiam perdidit: quindi è,  che  [ocr errors] che saggiamente fù conligliato da Temiffocle quel Padre, che desiderava das effo fapere , cui dovesse dar per moglie l'unica sua figliuola; se al dotto povero, o al ricco vizioso, replicò egli a mè aggrada più l'uomo, che ha bisogno di ricchezze, che le ricchezze , che hanno bisogno di uomo : come dice Val. Mas.  Sem. Mà quando si sono fatte le dili. gen ze necessarie, e fiè già rincontrato, che sia imprudére, e vizioso chi la vuole perché non si esclude fimile soggetto ?  Pub. Se voi sapeste quante fraudolenti manifatture Gi fanno, per avere unas giovane savia per moglie, stupireste; anzi quante più d'imperfezzioni hanno i giovani, che vogliono accasarli seco, tanto maggiormente queste si adoperano, tanto si fa,che alla fine riesce fimile facenda.  Sem. Mà chi sono questi, che faranno tante manifatture , non essendo capace un fimil giovane di farle ?  Pub. Se non sarà cgli, saranno ben’i suoi congiunti , i quali raffidati, che per  [ocr errors] [ocr errors] Il fingo della futura sposa cffo possa divenire saggio, tanti ponti di oro le faranno , che alla fine caderà a dire di sì.  Sem. Mà i genitori come lo permetteranno?  · Pub. Saranno ancora effi sforzati a chinare la cesta, quando colla linguas non poteffero arrivare a proferire quel doloroso sì.  Sem. Saranno dunque anche i suoi genitori poco prudentia  Pub. Oh bene : non fiete voi ancora a pieno informato dal mondo; mà ne ben Mecenate.  · Mec. Ne sono pur troppo, anzi fono arrivato a conoscere , perchè fi dica insa geniofus amor; avendo scoperto, che amore aguzza l'ingegno de fuoi fenfali, e rende anche artificiofa la lingua alla menzogna .  Sem. Mà che potrebbero fare questi, quando il Padre steffe faldo in non volergliela dare?  Mes. L'ingegno agguzzato fi ferve dell'autoricà, e la dispone in modo , che  [ocr errors][ocr errors] niuno più degno di merito si affacci a chiederla, per rispetto di colui, col quale si tratta : e sapere pure, che in questi cali, per non fare inimicizie, non li vicne mai alla negativa scoperta , potendovi costringere ad addurre un ignominiofa cagione,per cui far non si vuole: Siprude bensì un mezzo, termine, quale è che la giovane pensa di farsi monaca; laonde in questo mentre dal sudetto pretendente fi fanno affacciare tutti li peggiori, ed i più scapestrati giovani, che siano nella Città a chicderla,e cutci inferiori di condizione ad ello; talmente che il Pae dre , che la vorrebbe maritare, trovan  dofi annojato, alla fine li piega, per non che trovare soggetto migliore, che la fac. i cia domandare : e tanto più, che si tro  verà circondato da consiglieri già guadagnati da chi la pretende.  Sem. Sarà dunque peggiore , e più id svantaggiosa la condizione della donna nell'accasarsi , che dell'uomo.  Pub. Non ci è dubbio alcuno, perchè l'uomo non è ricercato, ne violentaco  per  [ocr errors] en  [ocr errors] per parte della donna, mà beasi effa da chi la brama.  Mec. Può essere,che quando voi prendeste moglie ciò non li coftumaffe ; mà ora posso dirvi di certo,  che questo li pratica, essendo seguito in persona mia, che ho avuto più d'una richiesta fe.voleva accasarmi colla tale, senza ricer  carla.  Sem. Or io quantunque non fia versato sufficientemente nelle cose del mon. do, procurerei segretamente di trovare un giovane favio,quantunque meno ricco, e la darei a questi; perchè sposata , che fosse,hò sempre udito dire, che: multa facta tenent, così finirebbe ogni conresa.  Pub. In somma in questi casi, chi più sà, più s'inviluppa nelle difficoltà; onde alle volte riescono migliori certe risoluzioni fatte senza tante rifellioni ; c voi Sempronio, non avete detto male; mà non saprete già scegliere questo giovane savio così all'infretta; converrà dunque che l'impariats,     ed  [ocr errors][ocr errors] Ff 3   Ес   Pub. .  [ocr errors] 1  [ocr errors] 1  Sem. Come si doverà dunque fare per conoscerlo?  Pub. Il Padre che ha figliuole da mai ritare dev'essere un Argo, per rimirare  nel medesimo tempo cento giovani, ed offervare i loro andanlegri.  Mec. Oggidì però non è necessario averne tanti ; perchè con soli due occhi moltissimi difetti li possono ritrovare ne giovani, ed in breve; quantunque non corrano quei calamitosi tempi, che accenna Giovenale alla satira 13. Humani generis mares sibi noffe volenti  Sufficit una domus , paucos confus  me dies, do Dicere te miferum poftquam illic vec  [ocr errors] neris,  [ocr errors] Pub. Fatemi piacere dunque voi, Mecenate,d'istruirlo in questo giacchè fiece più pratico di mè nel discernere i giova. nili mancamenei correnti; perchè a tempo mio la gioventù viveva diversamen. te, e perciò fi ftentava più in iscoprire i loro difetti. Mec. Lo faro, perchè non voglio, ri  CU:  [ocr errors] cusandolo, che vi confermiate nellas credenza di qnello , che di me sospettafte,che io fia nimico delle doone,poscia. chè io ammiro la virtù in alcune di esse, e perciò non vorrei, che questa mancafse affatto, abbattendosi in viziofi mariti: onde se voi, Sempronio,vedrere un gio.. vane accompagnarfi, e conversare continuamente con taluno, conosciuto da voi per vizioso y tencte pur ancor esso per tale, senza fare altra diligenza; verificandoli quel proverbio:all'accoppiar ti veggio.  Sem. E se fi desse il caso, che questi non converfaffe con altri?  Mec. Questo è difficile oggidì, che fi conversa tanto; mà se caluno fuggisse le conversazioni,mirate bene la sua firo. nomia, e se la scorgerete tetra , e inalinconica tenerelo pure per uomo infociabile, e non senza i suoi difetti proprj; se poi foffe allegro, disinvolto, e non converfasse oggidi con altri, formatene buon concetto di esso; perchè lo farà a cagionc , che non troverà coma  pa  de pagni bene accoftunati uguali ad effo.  Sem. Vorrei qualche altra regola,per meglio potermene avvedere ; perchè se non conoscefli per viziofi quei, co’quali egli conversalle, potrei ingannarmi.  Mes. Se voi vedrete un giovane stare in chicfa con poca divozione, e discorserc ivi co i compagni comc farebbe in piazza, questi farà poco timorato di Dio; se frequenrerà le feste, cd i passeggi, e rimirerà con grand'arrenzione le donne, in cui si abbaite, farà egli effemminato ; se dispreggerà i suoi compagni, cvorrà avere sopra di essi una certa superiorità , farà superbo ; se li piacerà vestire con pompa , sarà vanos se poi oggi dirà una cosa, c domane ne farà una alıra, farà incostante; e finalmente se frequenterà i ridotti, ove si giuoca , gran genio egli avrà a questo vizio; in somma da se medesimo colle sue operazioni manifeftcrà i suoi difetti.  Sem. Starei fresco, se aventi d'accomodare una mia figliuola in questi tempi, dovendo fare tante diligenze; mi cor.  H  vers pa  [ocr errors] verrebbe prendere la fantcrna di Diogene, ed andare per la città dicendo: homi. nem quæro, e caminare più di un giorno per trovare, chi fosse in cucco; e per turto, senza alcun de'detti diferci.  Moc. Mà chi non vuole affogarla , dee anche servirsi del cannocchiale del Galileo,che scuopre le macchie del sole.  Sem. Io mi persuado, che se i Padri, c le Madri riguardassero al minuto curti i differti , pochi troverebbero moglie.  Mer. Sarebbe questo la fortuna de i giovani; perchè non trovandola allorsi che incomiacierebbero a spogliarfi do loro vizj, ed in breve diverrebbero bene accostumari, ed a tale proposito posso riferirvi ciò , ch'è seguito in una riguardevole città. Affinchè iCadetti andassero con più fervore, di quello faccano , alla guerra, cominciarono le donnc a non ammettere alle loro conversazioni coloro, che non avevano fatte almeno dues campagne in gucrra viva ; conciofiacofache li reputavano vili, e codardi.Servi tale renitepza di Aimolo grande a tutta  la  Die la gioventù per andare alla guerra;  segnoche pochi furono quci, che non Si seguitassero i primi, che vi andarono: " or se una fimile ripulsa molte canti ad  andare incontro alla morte; dovrebbe certament’essere di stimolo maggiore, per andare incontro alla vita migliore, quando questi non trovasfero inoglie.  Pub. Vedete voi,Semprouio,che sconcerti sono questi, di non potere con facilità come prima trovare mariti a proposito per le figliuole, c.questo da che na. sce, se non dalla cattiva educazione  della gioventù ? rifecrcte dunquc quano co debba premcre questo affare anco alla Repubblica,  Sem. Io lo scorgo molto bene; mà che fi dovrà fare ritrovandoci in queste an.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mec. Quello che disse quel Filosofo, che presc per moglie una donna allai picciola, allorchè fu interrogato, perchè l'avesse scelta così, egli rispose : perchè del male conveniva prenderne il minore: il fimile anche dirò io de'mariti difetto  Hhafi; di prendere quei che hanno vizj me. no considerabili , che fono appunto quelli che riescono men disdicevoli alla condizione del galantuomo.  Sem. Maritandofi dunque con questi, che buona direzione doverà darfcle da genitori?  Mes. Debbono i genitori allorche le maricano non seguitare quel caccivo costume di alcuni , che le consigliano a farli rispectare, e ftare sostenute con tutti, di non farli sottomettere alla prima, perchè diverranno, così facendo, infelicissime, quantunque portassero groffa dote, mà le consiglino bensì nella forma, che fecero i genitori di Sara, allorchè la consegnarono per isposa al secondo Tobia con groffa dore; ed uditc ciocchè fecero Tob, 10. Apprebendentes parentes fo. liam suam ofculari funs eam, & dimiferunt ire monentes eam, bonorare foceros, diligere maricum, regere familiam, gubernare domum, da se ipsam inreprebensibilē exhibere.  Sem. E se un Padre avesse tre , o quattro figliuole, che si volessero mari  tare  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] tare cuite, chc dovrà egli fare, non efrendo molio ricco?  Mec. Maricarle , con dar loro quella dote più congrua, che può.  Sem. Mà li scomoderebbe troppo privandosi di sì considerabile somma di danaro, o quantità di roba, che con. veniffe dar loro maritandole turce.  Mec. E come potrebbe farac di me00?  Sem. Potrebbe farlo beniffimo con efortarlca fará Monache.  Mec. E se non Gi volessero fare?  Scm. Non mancano modi al Padre accorto, che ci facciago, o colle buones ocolle cattive.  Mec. Padre voi chiamare colui, che vuole sforzare la volontà delle figliuole? chiamatelo Padrigao, non accorto, màcrudele; perchè qual delitto hanno queste commesso da chiuderle in vitas. contro il loro genio?  Sem. Come chiuderle in vita, trattantandosi'di darle, e consagrarlo a Dio?  Mes, Non si chiama darle a Dio ,  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] qualia  quando la loro volontà non ci concorra, nè consacrarle a lui, quando non ci sia il lor consenso : questo li chiamná porle a penare continuamente, non avendole iddio chiamare a questo stato : ( guai a quei Padri , che lo faranno, perchè del bene, facendone tanto poco, che non basterà loro , punto non ne parteciperanno: del male si che ne faranno partecipi di molto, essendo capaci di farlo, trovandoli in iftato di disperazione. E fappiate, che mi fù riferito un caso orribile di una di quelle, fatta Monaca per forža, la quale , quando ebbe eseguito quanto defideraya il Padre, lo chiamò alle grate del Monastero, cgli disse alle orccchie : fignor Padre or farcte conten. to, che mi avere levata di casa.in  que: fto mondo non ci rivederemo più ; må bensi nell' altro ed in pellimo luogo, perchè ci danneremo ambiduc . E che vitupero è questo ; per far godere i maschi, li hanno da porre in disperazione Je feminine? Se voi non potere dar loro dieci mila sçudi di dorc, dategliene me  no,  [ocr errors] cina  no , ed acca sacele; quando volontaria. mente non siano inclinate alla vita reli  giosa. Non vi chiederanno già quel tal e giovane per i sposo, mà vi faranno dire  bensì, che la loro vocazione sarebbe di  accasarli . Starà dunque al Padre marii tarle a chi più gli aggrada ; mà so ben io da che ciò procede.  Sem. E da chc?  Mec. Dall'eccellive doti, che corrono, le quali oltre il dispendio,che apportano per le spese grandi, che si richiedono allorchè â prendono, angustiaao ancora quando hango a darli altrui nel maricarsi le figliuole.  Sem. Or io non voglio nell'anima. mia questo peccato ; fe li vorranno maricare cutte, le lascierò mnaritare; mi diremi: che dote farebbe proporzionata, Publio ?  Pab. Quella , che fi foleva comune. mente costumare prima , che foffero inse dal Prencipe , come già dicemmo ; e  se  [ocr errors] Hh 4  feaveste da trattare co persone discrete, potreite anche di loro francamente, che non vi curate di tanti lussi, e perciò volece dare quella dote, che si costumava in quel tempo, che questi non vi erano: o fi contenteraano, e voi averete fatto doppio negozio, essendovi anche accertato di appareatare con gence discreta , e capace; se poi non lo vorranno fare , averete scoperto , che non sono a proposito per vostra figliuola, volendo clli vivere con pompa , e lusso eccellivo.  Sem. Questa dote li dovrà consegnare libera ?  Pub. Questo poi nò; perchè potreb. be alienarli , c restare la voftra figliuola indotata,  Sem. E se non vorranno concludere il matrimonio fenza la dote libera?  Pub, E voi sconcluderelo affatto ; perchè è un pessimo segno, quando si pretenda questo, denotando che ci sia bisogno in quella casa di danari. Questo sì, che sposata che farà, consegnare allo fpolo quanto gli avste prometo; perechè non porrere immaginarvi mai, quan. ti difturbi aascono tra conjugi per quem fta benedetta dote promessa, e non pio gaca ; provando bene spesso le povero mogli, per tal cagione, molti mali trace tamenti.  Sem. E se non mi trovali il danaro pronio?  Pub. Prendcrelo più costo ad interesse, e perciò i saggi Padri di famiglia sogliono essere buoni econoini, con met. tere da parte ogni anno qualche fommi di danaro, per essere anche puntuali allorchè locano le loro figliuolc; e fanno coato allora di fare vantaggioso rinvs. Itimento.  Som. Sarebbe dunqne bene, che s'iq. dutriassero i Padri di famiglia coi trafichi, e s'impiegaffero con fervore in fare confiderabili avanzi.  Pub. Di far qucfto non sono cenuri in costo alcuno; bilta ch'elli non fcia. lacquino le loro rendire, perchè li poslono anche fare avanzi congderabili in questo modo , ellendo che: Parfimonias eft magnum veftigab.  Sem.  [ocr errors][ocr errors] 1  [ocr errors] di ;  Sem. Almeno lo doverebbero fare, avendone molte da maritare.  Pub. Neanco; perchè il buon Padre re, ed avendole educate bene,molti concorreranno a prenderle, e con onesta doto,perchè porranno a cõro la buona educazione per qualche migliajo di scudi, essendo realmente essa l'equivalente;onde saggiamente diffe. Plauto in Aulu. Dummodo morata rectè veniat dotata      eft fatis, ed Orazio nell'ode 24.li: 3.  Dos eft magna parentum  Virtus, metuens alterius oiri  Certo federe caftitas.   Sem. Oggidi vogliono però dote, e non chiacchiare.  Pub. Sì quelli che s'innamorano della dote , o vogliono spendere più della loro pollibilità ; quelli però, chcbramerango avere una moglie saggia, conlide. reranno in primo luogo le sue buone qualicà, e di queste faranno maggior ca. pitale, che della dore, la quale è mero bene di fortuna, dove che quelle, non  fo  [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] solamente non sono soggette alle sue in-  costanti vicende, mà sempre crescono  di valore , onde faggiamente Orazio eb-  be a dire nella r. Epistola.  Vilius argentum eft auro , virsusibus au-   [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Sem. E se il Signore mi delle', in 32stigo de mici peccati, una figliuola risentita', vana, pronta, loquace, contenziosa, che con tutta la buona educazione non si fosse potuta mutare,  volendo questa marito, che averò da fare?  Pub. Trovarle uno simile a Socrate, che fu li sofferente colla sua dispetrosa Sancippe ; cioè a dire un giovane sodo , prudente, non iracondo, mà soItenuto.  Mec. Vi fu però quel filosofo,il quale diede una sua figliuola simile a questa ad ug fuo nemico, e ricercato perchè avesse ciò fatto , rispose : per gastigarlo :  Sem. Doverò in quello caso conte. nermi nella moderata dore ?  Pub. Per levarvi di casa una figliuo: la di questa forra, non dovete reftare per  dat  [ocr errors] . 492 Conf. 8. Deco feconda la doro, perche date allo sposo un grande osso da rodere, onde, è di dovere, che gli diate ancora un poco più di polpa, per consolarlo , cd a fine, che ci abbia ancora un poco più di soff:renza.  Sem. E se questa, la prima volta , che contrastasse con suo marito, tornaflc a casa mia ?  Pub. Voi immediatamente dovete rimandarla a casa sua, senza darle alcun ricetto, e sgridarla ancora; acciochè non fi avezzafle a farlo più in avvenire ; con dirle apertamente, che colà hà da mori. re, perche se il Padre comincierà a dar. le ricetto, è finira; ogni giorno seguirango'nuovi sconcerti, e perciò il Profeta saggiamente disse: Obliviscere domum Pa. tris tui.  Mec. Un saggio Padre in fimile avveniincnto fè questo: Si portò egli medelimo colla sposa dal genero , e gli disse. Per grazia vi chieggo, che per questa prima volta le perdoniate per amor mio, nà se mai succederà cosa fimilc in avvemire, datele pure quel gastigo, che vor.  гс  [ocr errors] rece; perchè io non intendo più inters porre nè pur una minima parola a suo favore ; anzi che non la reputerò più per mia tigliuola , trasgredendo i vostri, e miei comandi. Ella , che credeva, che suo Padre fosse scco andato per isgridare fuo marito, perdè l'orgoglio a segno, che in avvenire muco modo di vivere.  Sem. Se avelli una figliuola brutta, c mal fina, e volelle marito, che avcrò da fare?  Pub. Primeramente vi dovrete informare col vostro Dottore,se possano i suoi difetti pregiudicarle nel pártorire, con porre a risico la sua vita ; accertato che farete di questo , che non poffa seguire, maritätela pure nel miglior modo, che potretc, darele anche buona dote  per avere un uomo di propofito.  Mec. Vi fu molti anni sono una lice per cagione, ch'essendosi sposata senza il consenso de suoi Genitori una giovane, perchè il di lei Padre pretendevas darle la dote stacutaria, e lo sporo ne chiedeva di vantaggio ; essendo che oltre gli altri difetti , che aveva era statas sempre senza denti : giunse queftas istanza all'orecchie del Prencipe , il quale ordinò  che fossero alla rolitas dote accresciuti duc mila scudi di più , per uguagliarc i difetti, che aveva la sudetta sposa.  Sem. Mà se non si affacciaffe alcuno, che li voleffe, non si potrebbe stimolare a farsi Monaca?  Pub. Questo sarebbe peggiore facrificïo dell'altre, che volevare dare a Dio, essendo stata rifiutata da tutti gli uomini; e militando per questa ancora le medefine ragioni, non lo dovete fare ; se non farà chiamata da Dio a questo stato; onde la potrete tenere in casa vostra , e procurate, che ha servita più degli altri voltri figliuoli:non dovendo voi permetrcre che all'interne sue imperfezzioni, vi si aggiungano anco gli esterni (trapazzi.  Sem. E con quelle che averanno la vocazione di farsi Monache, come mi doverò contenere ?,  Pub.  [ocr errors] Pub. Primieramente di far esplorare beo bene la loro volontà , per accertarvi, le lia vera vocazione, c non disperazione ; perchè alcune in questa cadono alle yo!ce, e precisamente quando non possono avere quel marito, che bramano; e scoperto che ayerere, che siano chiamate da Dio,adocchiare tre, o quat. tro Monasterj de più osservanti, į di  diversi istituti, e fare ad effe leggere le i loro regoles acciocchè sappiano ciò,che - doveranno fare ; e dipoi dice loro, che  fi scelgano quell'istituto,che piace loro, e fatele pur monacare.  Sem. Sarà bene di tenere loro una conversa  per  forvirle? Pub. Sc alcuna fosse stroppia, venendole permesfo,fatelo, per altro non inno. vate cosa di vantaggio di quello, che ivi fi suole praticare dalle altre ; questo sì che dovrete far loro il livello costumandosi, e consegnarlo, acciocchè lo faccia. no riscuotere a loro modo,affinchè nó ab. *biano da stare dopo la vostra mortc all' indiscretezza de fratelli, i quali foglio  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] no essere molto trascurati in soddisfarle, e trattatele in modo, che nő abbiano bi. sogno di soccorso altrui; perchè così viveranno staccatiffime dal secolo.  Sem. E se qualcuna volesse imparare a cantare,efsendol già dichiarata di far. fi Monaca?  Pub. Non permetterei quefto ; perchè, se poi fi mutasse , ilche sarebbe cosa ficile cantando delle belle ariette, voi rimarrette colla cantarina in casa; ditele bensì che lo imparerà allorchè larà Monaca, perchè ivi averà delle altre compagne ancora, colle quali si potrà esercitare per meglio apprenderlor  Sem. E se volesse viaggiare un poco per il mondo , prima di chiudersi?  Pub. Questo neanco firebbe ben fit. to ; perchè col viaggiare si può vedere, e trattandosi,udire più d'una cosa, che po. trebbero rimuoverla dal suo fervore, e. quando questo desiderio procedesse per cagione di divozione, conducerela in qualche luogo de più vicini,ove sia qual. chc divoro Santuario, per consolarla .  Soma  1  '1  Sem. Se bramasse vestirsi da sposa prima di monacarsi, e ricoprirli di gioje, hò da permetterlo ?  Pub. Alifte por motivo di potersi fare l'antichissima consuetudines per altro doyendofi sposare col Signore , non mi pa.  jono simili abiti da esso graditi, mà ben. † sì i più modefti: Una sola riflessione in & favor di ciò ci potrebbe essere, che si  portassero per dispreggio, facendo vedere allorchè li spoglia di esli per rivestira dei sacri, che li rinunziano tutte le pompe, e vanità mondane.  Sem. Rimanendo redove le figliuole , averò da riceverle più in casa inia?  Pub. Effendo uscire da casa vostra, ed essendosi già dimenticate, come vuole fil Profeta,di essa, non siete più tenuto di  riceverle :- e perciò fi foleva ancora nei Kriti degli átichi Romani praticare colle  Spose di muoverle nell'uscire dalla casa  paterna più volte in giro affinché si die : menticassero affatto di ritornavi più . 4  Sem. Mà se rimaneffero vedovc affai giovani,e senza figliuoli,che averebbero da fare così solc li Pub.  [ocr errors] Pub. In questo caso, se volessero corparvi, mostrerebbe essere crudele quel Padre, che ricusaffe riceverle.  Sem. E volendoli queste rimaritare toccherà al Padre penfarci?  Pub. Lo ponno fare senza il di lui consenso; bene è vero però, che le fuggie figliuole fogliono col consiglio pacerno regolarsi in tutte le cose, ed in particolare in affare di tanta premura , conforme è questo.  Sem. E se avesse più figliuoli anche pargoletti potrebbe penfare il Padre prima di morire a qualche ripiego, affinchè fossero questi ben' educaci;perchè rimaritandoli la loro Madre poco penlicro Gi prenderebbe di effi il Patrigno nell'edu. carli.  Pub. A questo ci vuole un poco di tempo per rillerrerci bene, onde ne pare leremo nella seguente.i Sopra l'educazione de Pupilli: e come debba ciascuno portarsi verso i  suoi genitori defonti.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] Mec.  A pena maggiore, che possa avere il Padre moribondo, essendo egli in sen. timenti, mi persua  do che sia questa: di lasciare i figliuoli pargoletti, dubicando, che non solamente possano esserc danneggiati nella roba, mà ezian. dio nell'educazione; posciache rifletterà facilmente , che quando la Madro pallasso alle seconde nozze, poco penGaro li prenderebbe di elli il Patrigno, ela  pro  propria Madre molto certamente farebbe dividendo l'affecto per merà trà elli , cd i figliuoli gencrati col secondo mari. to. Laonde la loro educazione Iddio sà comc anderebbe.  Sem. Mà ti è pur bastantemente proveduto 'a tali sventure, con Tutori, e Curatori ; come dunque potrebbe andar male l'educazione di effi, venendo cosi bene affiftiti?  Mec. Può essere , che a tempi antichi li Tutori fossero di giovamento a Pupil. li : oogidì però tra questi fanno nulla i mediocri; fanno bensì del gran male i cattivi, e gli occimi, che operino all'antica sono così pochi, che non sò se arriveranno al numero di quelli buoni , di cui parla Giovenale :  Boni quippe homines numero vix funt  totidem quof  Thebarum poriæ , vel divitis oftia Nili.  Sem. Udii pur da voi , Publio, nella Conferenza decima della decade passa. ta;effere utili alla Republicà gli Economi; or come dunque i Tutori, essendo  an  [ocr errors][ocr errors] anch'elli Economi, possono apportarc e questo gran mile.  Pub. Tra l'Economo, ed il Tutore ci è differenza potabile; conciofacosache all'Economo non appartiene l'educazione de figliuoli; ed essendo egli splendidamente riconosciuro delle sue fatiche procura di servire con somma fedeltà, per accrescere, o mantenersi almeno il credito acquistato , a fine di essere ados, perato in altre fimili contingenze; essendo che per profeffione lo esercita ; dove che il Tutore, dovendo anche invigilare alla educazione , vedendosi poco, O nulla riconosciuto delle sue maggiori fatiche, non è cosìgeloso della sua estimazione in cal ininisterio , per non cu. rara  punto di fimile briga inutile , fpecialmente chi non opererà per virtù, la qual'è da pochi seguirata, e maggiora mente se non si vede rimunerata secondo il sentimento di Giovenale, il quale dice:  Quis enim virtutem ample&titur ipfam  Prema fi tollis?   Laon.  [ocr errors] 0  li 3  Laonde non recherà maraviglia se eras efli vi saranno de cattivi.  Sem. E questi, che mali potrebbero apportare, Mecenate?  Mer. Primieramente di lasciar fare a figliuoli ciocche eff vogliono , e poi ponno prendere tanto amore alla roba de’Pupilli, che se vogliono, possono arri. vare ad appropriarsene buona parte di cffa.  Sem. Edin che modo ?  Mec. Faranno comparire debiti antichi, i quali furono gia pagati, ed accordandoli con detti finti creditori, fi divideranno per metà il furto, dando loro indietro l'antiche ricevure ; lascic. ranno vendere all'incanto i corpi più frucciferi , ed effi vi faranno offerire sot. to mano ; & farà cal vendita, nella quale farà grossa senfaria a lor favore; faranno rinvestimenti con persone fallite , e non senza considerabilitimi approvesci loro; in somma, per non infpiegarmi di vantaggio, sarebbe assai meglio, che questi non ci fossero ; perchè almeno se spregasscro  i figliuoli anderebbe per sodisfare i ca.  pricci di chi n'è padrone.     Sem. Costumeranno di far questo i più  bisognofi.   Mec. I bisognosi lo faranno per biso . gno, ed i non bisognosi per arricchirsi di vantaggio.  Sem. Mà è possibile, che nel Mondo ci sia gente così iniqua che lo faccia?  Mec. Questa è questione di fatco; di. cendomi il mio Procuratore , che giornalmente accadono liti di rendiinenti de'conti in cause de Pupilli, e che si vedono prodotti certi libri di amministrazione così intricati, per ricoprire le magagne, che ben si scorge essere stati fatti così da gente molto maliziosa .  Sem. Talinente che voi non lodate, che si diano a Pupilli questi Tutori?  Mer. I cattivi certamente noa posso lodarli.  Sem. E quali saranno i buoni?    Mec. Quelli, che ricuseranno di ac-  cettar qucfte brighe    Sem. I cattivi non sono a proposito, i buoni non vogliono accettarle ; dunque bisognerà cadere a prédere per necelfità i mediocri, che non fanno nè bene nè male. Oh confideriain corne p')trà andar bene l'educazion de figliu li !  Mec. E perciò doverebbe ogni b:100 Padre di famiglia aver un amico confidente di lom na integrità, è che fosse anche informato de fuoi interelli, e que. fti impegnarlo da molto tempo prima ad accettare, se li delle mai il caso, ch' egli morisfe in tempo, che i suoi figliuo. li avessero bisogno di guida, che voleffe fargli carità di tenerli, ed allevarli, come se foffero fuoi ; senza però discapito di borsa; ed è cosa facile , che prene desse allora l'impegno di farlo, perchè fi lusingherebbe, che ciò non fosse per seguire in breve.  Sem. Signor Mecenate mio, scusate. mi, se passo taor'olore; vedo oggidi il mondo così corrotto che dubiterei molto, che l'amico si ponesse anche in luogo di Padre con isposare la moglie del l'amico rimasta vedova .  Mec.  [ocr errors] Mec. Questo non doverebbe farli da un buono amico,  Sem. Questo ancora è di fatto, conoscendone qualcuno , che lo hà bevislimo praticaco, e lo sò con tutto che io ab. bi. meno anni di voi.  M:c. Losò anch'io; mà questo diceva per vedere di fuggire il maggiôr male; or dunque bisogna conchiudere, che doppia disgrazia lia, quando i Padri muojono giovani,  Sem. In fimile intrico dunque o biso. gierà , che il Dotcore trovi rimedio, che in tal erà non si inuoja , o pure tro. Vire chi poffi fedelinente indirizire cali Pupilli: avete voi, Doctore , un simile rimedio ?  Med. Rimedio per non morire non si è trovato fin'ora; ben è vero però, che a prolungare la vita con tenersi lon, tani da cerci spropositi massicci , che possono abbreviarla, a questo si può are rivare.  Sem. Ed in che modo  Med. Contenendosi con moderazione   nel  [ocr errors][ocr errors] nell'esercizio conjugale; perchè ci so. no taluni, che si pongono alla disperata in tale facenda, come se nel dì seguente la moglie dovesse essere loro rubata, senza avvederfi, che ruberà la morte elli alla moglie , continuando tal vita; oltre poi tanti altri disordini accompagnati a queste. Bisogna dunque, che viva re. golato chi ha figliuoli di tenera età , e non li fidi della gioventù ; perchè que. sta tradisce bene spesso, e che consideri il danno, che apporterebbe alla sua famiglia , con morire prima d'invecchiarli.  Sem. Questo si può fare ; mà se non baftaffe ? perchè hò veduto morire anchci giovani non aminogliari , e ben regolati ancora ; che doverebbe dunque farli per terminare la vita non tanto dolorosamente?  Pub. Hò udito riferire, che in alcune città vi lia una specie di magistrato , composto di persone di sperimentata integrità, le quali invigilano a questo ; onde introducendoli trà di noi potrebbe  con  consolar molto i Padri, cui seguiffc fimil e disgrazia duplicata, per lasciare i figliuo  li non atti ancora a poterli da se regola  [ocr errors] re.  [ocr errors] Sem. Questo mi piacerebbe, e vi prometro, che procurerei ach'io di entrare in derto magistrato.  Pub. Se vi avelli da porre io, due di difficoltà ci avrei ; la prima , che fiere  troppo giovanezessendo cariche da con. ferirsi a persone di provetta e à, e l'al  tra perchè voi lo chiedete, essendo che A finili impieghi, doyendosi conferire a  solimericevoli, aleuoi di questi più toe $ fto li ricusano, che li domandino; ed è a cosa cerca , che colui, che brama un ins  cumbenza, non solamente senza lucro, mà di molto incomodo ancora', qualche fine vi hà per lo più vantaggioso per se.. medesimo, il quale potrebbe rendere infructuoso ogni vantaggio, che da ello, si speraffe .  Serth Che averebbero da fare quefti?  Pub. Primieramenre d'inventariare fedelmente tutto quello, che avesse la.  [ocr errors] sciato quel defonto, di eficare poi il superfluo , e non fruttifero, e rinvestire il ritratto in faccia de Pupilli , con fare le cose chiare, e senza procacciarli emolumento alcuno .  Sem. E che altro?  Pub. Di dare fefto immediatamente all'educazione; con porre nel migliore feminario i maschi, se saranno di erá ca. paci, e le femmine in un Monastero dei più csemplari.  Sem. Ele rendite chi le amministrerà? • Pub. Un ministro salariato, che fia capace, o più secondo l'azienda che foffe, i quali rendessero esatto conto ad uno dei detti sopraintendenti dell'ope. rato ogni settimana, per potersi poi, da più di elli congregati ogni mese, risol. vere gli emergenti più difficili, che ac. cadeffero.  Sem. E degli avanzi, che si farebbe?  Pub. Andarli rinvestendo , allorche foffero arrivati ad una certa somma, con tutte le dovute cautele acciocchè fosse. ro fatti a ragione veduta.Sem. Nello stabilirli poi divenuci adulti chi ci penserebbe?  Pub. Quci deputati medesimi, che sopra intendono all'amministrazione.  Sem. E se caluno di questi avesse figliuolo , o figliola, ed apparenrasse cilin eli: 0 pur faceffe quello che fu obiettaco a Tutori.  Pub. Vi sarebbero sopra di ciò, le suc regole, in quali casi li dovesse proibi. re, o ammettere tra esli l'apparentarli; perchè quando mai fossero eguali, che male farebbe l'appareatare con gente scelta, e capace a bene dirigere. Oltre di che con qual amore di vantaggio liarebbe amministrata quella roba ; ¢ qual educazione più vigilante riceverebbero questi in cal casoBafteşebbe, che non entraffero poveri in detra soprainten denza affinchè non seguissero casi disdif cevali, che daffero occalione di inormo, rare , ed essendo questi scelti nobili, c bencftanti, non li indurrebbero a far quelle cose, che furono obiercare a Tucori, c tanto più ch'essendo molti a for  pra  [ocr errors] sopraintendere difficilmente tra questi vi sarebbe chi potesse, anche volendo, defraudare iPupilli in cosa alcuna per la vigilanza degli altri.  Sem. E se in detta amministrazione seguisse qualche disgrazia, chi sarebbe teauto-a risarcirla?  Pub. O questa seguirebbe casual. mente, senza colpa altrui, ed in questo caso non sarebbe a ciò tenuto alcuno , mà se poi ci fi scorgesse inalizia ; il delinquence farebbe obbligato a risarcirla.  Sem. A fare ottenere loro buoni impieghi, e provedecli di cariche proporzionate alle loro condizioni, e capacità, chi vi doverebbe pensare, fatti aduki ?  Pub. Il medesimo inagiftrato, atinchè con ragione di potessero chiamare quei, che lo compongono veri Padri della Patria, cgran sollevatori de Pupilli ; mà divenuti questi capaci sapranno da se medesimi farli strada per il conseguia mento di effe.  Sem. Sino a quale ctà doverebbero Rarc fotto tal depucazione?  Pub.  11  [ocr errors] Pub. Le femmine fino a canto,che fora ossero collocate ; i maschi poi non sareb* be male in tempi si calamitosi, che vi  stessero fino a tanto, che fossero atti, è 1 capaci di sapersi regolare da se mcdefifoto mi nell'amninistrazione de loro beni.  Sem. E se caluno di questi rimaneffe d incapace di operare a dovere?  Pub. Affinchè non dilapidaffe il fuo, converrebbe tenerlo soggetto sin tanto, i che vi fosse chi porelle prendere partii colare direzzione di effi, come sarebbe di qualche fratello di giudizio , o altro pa• from rente ricco; pio , ed onorato.  Sem. Mà questi pareori, perchè non potrebbero anch'elli prendersi il pensie. iro di amministrare detta roba de Pupilli, alineno lin tanto, che foffe ftabilico fimile magiftrato?  Mec. I Parenti , Sempronio mio, talia dc quali però, sono peggiori degli altri,  perchè prendono maggior contidenzas colla roba de fuoi parenti è perciò facilmente se l'appropriano;onde di questi non vi prevalec, se non quando li scor  gere  gerete con lunga sperienza, che siano ve. ramente difinteresati,  Pub. dove sono andati quei parenti antichi , che avevano premura maggiore della roba de loro congiunti,che della propria : hò veduto io alcuni di que. Iti mettere fuori somme confiderabili di danaro per folicvarli nelle loro angustic, ed ancor fenza alcuna usura ; ve ne fu uno tra gli altri, che prese l'amministrazione di un luo cognato, il quale eras quali che fallito, e lo ripose in piedi, con liberarlo da tutti i debiti da esso fatti, che ascendevano a fomma molto considerabile.  Sem. Ritornando alla grand'opera di cariià del sudetto Magistrato , mi perfuado, che in quei luoghi, ove li costu.  i Padri morranno senza avere da pensare all'indirizzo , che dover ango • avere i loro figliuoli divenuti Pupilli.  Pub. Occalione non hanno di ricerca.. re altri inodi : posciache questo Magiftrato pensa non solamente a diriggere i Pupilli ricchi, ma anche quei che riman  goo  [ocr errors] gono con mediocre commodo.  Sem. Oh luoghi fclici, ove la morte non reca tanto cordoglio, divenendo ivi l'amore, e l'autorità paterna a guisa di  fenice, che rinascono, ed alle volce più i profittevoli a figliuoli di quello, che fos  fero prima a cagione dei Padri trascura#ci, e nel costume , e nell'economia , e se  per questi ancora ci fosse qualche cenfoi se, quanto anderebbero meglio le cose?  Mer. Voi, Sempronio, che non avein te ancora piena sperienza del mondo  vorrelte aggiustarlo in un tratto ; come fogliono fare alcuni zelanti giovani , allorch' entrano a governarne qualche particella di efto. Abbiare de me questo configlio, cavato da Licurgo, che nelle riforme bisogna camminare affai lenta. mente, e con molta circospezione , per non cadere in peggio.  Sem. Che doveranno fare i figliuoli per mostrarâ grati verso i loro genitori defonti?  Pub. Due cosc, la prima è di mante, gere nel mondo la meinoria onorovolsdielli, e l'altra, che maggiormente preme, di alleggerire le loro pene, che possono foffrire nell'altra vita.  Mec. La prima dagli Egizi li praticava con imball mare i corpi de' loro genitori, e questi conservavano anco gli atavi , i tritavi, con quel auiero maggiore degli ascendenti, de quali furono eredi, e con quanta stima, c vencrazione universale! che se ac loro sommi bifogni avessero avuto necessità di danari, impegnando una di queste mumie, ne trovavano quanti facevano loro bisogno ; perchè avevano il pensiere di riscuoterle in breve. Gli antichi Romani ancora fabricavano tempj alle memorie de’loro Padri, o per lo meno ftatue per mano di eccellenti scultori.  Sem. Come si doverà fare per mantenere viva la memoria de genitori?  Mec. Se sono stati illustri per le loro rare virtù, e maneggi, debbonsi anche imitare da figliuoli, per fare scorgere a chi non li conobbe, di essere le loro virtù passare in effi; insegnandoci l’Ecclelia.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] ftico al 11. che in filiis agnofcitur vir.  Sem. E se avesse dato alla luce opero letterarie , doverà imitarlo in queste ?  Mer. Certamente più in queste che pcll'edificare ville sontuose, posciache quelle di Cicerone, e di Seneca fono già da gran tempo distrutte, ma non già i loro libri, i quali continuano i loro anni sempre più gloriofi alla fama.  Pub. Fù interrogato un favio, se fosse più defiderabile l'acquistare un regno, o l'avere dato alla luce qualche operas dottrinale, utile a posteri; rispose egli che la seconda ; perchè della prima non pofsiamo eslerne altro, che meri usufrutruarj, privandoci della proprietà di esso la morte, dove che della feconda ne Gamo perpetui poffeffori ,accrescendo più tosto la morte il valore di essa, e perciò con ragione diffe Giovenale : fat. 8.  Libera fi dantur populo fuffragia quis să  Perditus ut dubitet Senecam preferre Neroni. Sem. E se non avessero fatto cofa al-  cuna memorabile ? Kka   Mer.  [ocr errors] Mec. Debbono i figliuoli incominciare a farl’elli ; perchè diccndoli poi fatte dal figliuolo del rale, anco i genicori faranno partecipi della gloria di efsi.  Sem. E se fosse stato un gran Capitano, ed il figliuolo non avesse quel coraggio, che si richicde in tal carica ?  Mec. Procuri egli di uguagliare la fua gloria in cose concerncati alla pace; perchè si dira:il Padre fè prodezze grandi in guerra, e questi le ha fatte in affari di  pace.  Sem. Lasciando debiti più del suo capitale dovrà il figliuolo fodisfarli del fuo, quando avesse? · Mec. Certamente che sì, per non farlo dichiarare fallito ; e di vantaggio le fors' egli ne paeli Elvetici, per non riceverne infamia; cottumandog colà gaftigare anche i defonci , che per malizia feceto più debiti del loro capitale.  Sem. E se avesse ricevuto fuo Padre qualche ignominioso gastigo?. Mec. Doverà egli allontanarli dos  quel  qu I paesc, per non udirne dir male pui blicamente, non potendolo scusare;  per altro se fosse stato' cattivo a quel fcgno , che non avesse meritaco‘limiles  ignominia,doverà colle opere buone, e a gloriofe cancellare ogni memoria po.  co buona di esso; perch' essendo pro? prietà della luce scacciare le tenebre  così ancora delle buone operazioni pre  fenti è di cancellare la memoria delle 8  carrive passate.  Sem. E se lo avesse privato dell'eredi. tà parerna doverà farannullare il testa. mento , avendo ciò fatto senza cagione?  Mec. Sofferendo ciò farà credere, che  certamente lo faceffe fenza cagione , . i poichè facendo altrimenti, se non l'ebbe  allorchè lo fè, la previde, per dichia. rarsi dopo la sua morte il figliuolo concrario alla sua volontà, e di ciò ne dierono un memorabil'esempio i figliuoli di Metello, i quali, quantunque esclisfi contro le leggi, non vollero,per riverenza dovuta ai Padre , far istanza alcuna in contrario.  Sem.  Kk 3  Sem. Se un Padre ainoroso de fuoi figliuoli, ed anche pio, volesse, allorchè stà vicino à morte, far distribuire qualche fomma confiderabile di danaro a poveri , ma perchè l'amore verso i figliuoli lo portasse a farne effi consapevoli, per vedere se fossero contenti di ciò, come dovranno contenerfi in fimi. le affare? - Mec. Uniformarsi in tutto , e per tutto al volere paterno , c sappiate che Iddio non solameate gradirà tal atco , mà lo rimunererà ancora .  Pub. Un caso prodigioso si racconta a questo proposito nel Prato spirituale di un uomo dabene, e fomnmo elemosiniere', il quale, ritrovandosi vicino a morte, chiamò il fuo figliuolo, cui dopo avergli fatto vedere una gran somma di danaro disse:figliuolo,che gradirete più, che vilasci questo danaro, o pure, che vi deputi Gesù Cristo per vostro curatore rispose il figliuolo: averò più accaro il mio Gesù per curatore : ciò udito fece dispensare a poveri tutto queldanaro: cosa fè il giusto, e supremo Cu. ratore? Si ritrovava in Costantinopoli, ove egli dimorava , uno de'principali, ch'aveva una sola figliuola, la quale per essere ricchissima veniva da molti desiderata per moglie ; il gran Curatore dell'orfano ispirò alla Madre di essa, che infinuaffe a suo marito, qualmente la loro figliuola avesse più bisogno di un uomo faggio, che di ricchezze, e che maritandola a qualche Signore correva pericolo ch'ella fosse malamente trattata: Piaccque cal consiglio al marito , il qnale repplicolle : preghiamo dunque Sua Divina Maesta, che glielo dia a foo compiacimento, ed andare voi in  quefto punto alla Chiesa a supplicarla,e có. ducetemi quello, che immediatamente entrerà in Chiesa dopo di voi ; qual fù appunto il pio, e generoso pupillo, dal suo grã curatore arricchito in un istáte.  Mec. Or vedere voi, Sempronio, ch' effetri buoni produce l'uniformarii colla pia volontà del Padre, e quanto si è detto del Padre doyerà aacora inrcn.  der,  [ocr errors][merged small][ocr errors] Kk 4  dersi della Madre, in tutto quello, che apparterrà a figliuoli.  Sem. In che doverà con Gftere il bene che sono tenuti di fare i figliuoli, per l'anima dei loro genitori?  Mec. In sodisfare in primo luogo tutti i loro debiti, e legati pij, ed adempio re prontamente le loro disposizioni.  Sem. Må se non ci saranno danari pronti, si averanno d'alienare gli effetti? vi saranno pure i suoi tempi da sodisfar-, li con commodo ?  Mer. Sapete che detti effetti , ne' quali ci è debito; non vanno considerati come propri, e per ciò, non entrando nell'eredità a favore dell'erede, che gli dee importare, che si vendano ? fe poi li vuole appropriare a se, ci prenda danari sopra, se non gli hà, e fodisfaccia chi dee averc;; e se per cagione di detta dilazione quella povera anima penaffe in. tanto,  oh che bcll'amore moftrerebbe il figliuolo per suo padre, lasciandolo cor. mentare ! Il più chiaro contrafegno di affetto verso fuo Padre è questo, di ob  be  [ocr errors] Les bedirlo sollecitamente in fodisfare cioco che diipone li faccia seguita la sua morte  Pub. Or io sono di questo parere, che non si debba aspettare fino alla morte a  fodisfare i debiti contratti, c le opere o pie, che si vogliono fare, e maggior  meate mi sono confermato in questo leggendo, che vi fosse un certo uomo civile sì, mà assai povero, non avendo altro, che quattro Sparvieri avvezzati alla caccia, coi quali si alimentava; vc  nendo egli a morte chiamò tre suoi fi& gliuoli, ene lasciò uno per ciascuno, di  cendo loro, che il quarto lo vendeffero,  e ne facessero tanto bene per l'anima sua  morto che fosse. I detti figliuoli il di  venente, per vivere se ne andarono alla  caccia coi quattro uccelli, uno de quali  seguitando la preda non tornò più : co-  minciarono a contrastare tra loro di chi  fosse il perduto, ed ogn'uno giurava, che  quello, che era ritornato, ed aveves   sulle mani era il suo ; fi accordarono alla  fine, che il perduro era quello , che do-  veva impiegarli in beneficio dell'anima   del  [ocr errors] !  [ocr errors][ocr errors] del loro comune Padre ; il quale rimase privo di quel bene.  Sem. Oltre di questo doveranoo far altro?  Mec. Avere giornalmente una viva memoria di essi, col raccomandarli a Dio in tutte l'orazioni, che faranno, fervencemente; perchè non è picciolo il bene, che da cfli ricevettero, conGitendo in tutto il loro etlere, e ciò facendo oltre il sodisfare a propri doveri, daranno anche chiaro indizio deila loro buona cducazione.  Sem. Vorrei sapere da voi , Publio, so la vedova possa essere capace di ben’ educare i propri figliuoli,parendomi che da principio ne dubitaffe Mecenate, con dire, che non farebbe poco a dividere il suo amore materno tra i primi figliuoli, e gli altri avuti col secondo marito,  Pub. Perchè nò ; quando ella perseyerasse costante nello stato vedovile, fosse dotata di senno, e prudenza, ftesse attenta , ed avesse petio da farsi ftimare, c rispettare da efl, e Mecenatc parlò  del  na delle vedove , che prendono altro mari  to, non di quelle di cui diffe Ovidio,  [ocr errors] che.  bes  01  ol  Sustinent in viduâ triftia figna domo.  Sem. A trovare però oggidi chi sia il dotata di tante virtù sarà cosa molto difficile, dicendo di queste Giovenale. Rara avis in terris nigroque fimillima  cygno.  Pub. Si a voi, Sempronio, che forse of anderete solamente in cerca de diferti ili donncschi, mà non già a chi brama di  trovare le virtù, per approfittarsene, o gi ainmirarle; e non crediare già, che ogbe gidi le virtù sieno affatto efiliate dal d mondo, anzi sappiare, che quando paa re, che i vizj (i dilatino maggiormente, do allora è il tempo , ch'esse li affaticano in  trovare ricetto dai più lavj, per risplendere maggiormente : ed io vi poffo finceramente palesare, che ci sono presentemente alcune vedove, le quali vivono con tanta csemplarità , che ponno uguagliarsi alle antiche matrone, delle quali i Scrittori fecero tanti grandi elogj.Sem. Bisogna che queste vivano molto ritirare ; c da ciò trascerà che, da me non son conosciute, laonde notificatemi chi sono, affinche possa anche io fodar. le, ed onorarle, come meritano , ed apprendere insieme dalle loro operazioni qualche urile documento.  Pub. Mostrare certamente troppa cu. riosità , Sempronio, con volerle conoscore', e se avete deliderio di apprendere qualche documento dalle loro operazioni , questo lo potrete appagare con udire le relazioni dell'operato da esse, e tanto maggiormente, che queste non operano a fine di acquistare gloria, må bensì di bene istruire i loro tigliuoli, e perciò non fi curaro punto di essere lodate da alcuno, ed a voi è vietato anco il farlo dall'Ecclefiaftico al 2. dicendo : Ante mortem non laudes hominem quemquam.  Sem. Informatemi dunque del modo, che questo hanno tenatoy e tragono in educare i figliuoli? Pub. Quefte , Sempronio , sono quela  le  res  ope  mogli,che amarono di vero cuore i loro  mariti, e perciò appresero da Didone  ciò, che rifeșisce nel quarto dell'Enei-  di Virgilio :   Ille meos primus qui me fibi junxit ame-  Abftulit ille, babe ai fecum, fervetque sepulchro.  laonde quantunque rimase vedove nel  più bel fiore degli anni, non vollero  giammai acconsentire a rimaricarsi ; inà  bensì rimirando ne'figliuoli qualche par.  ic de’loro genitori collocarono in elli, per   tal cagione cutto il loro materno affetto;  e non li potranno mai baftantemente   esprimere le deligenze da esse usare a   pro dei loro vantaggi ; posciache , ia cu-   ftodire, ed accrcfcere le sostanze di  clli, che cosa non fanno mai?   Sem. E come possono , essendo mancato il capo di casa, crescerle?  Pub. E pure ciò non ostante , l'hò osfervato in più di una di effe, c quello, che mirende ammirazione, senza fordida economia , perchè mantengono illo  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] ro  to grado decoroso, senza scemarlo puoto: laonde sono meritevoli di quell'encomio, che fè Cicerone a Craffo , ed a Scevoli, chiamando il primo moderatiffimo nello fpendere fra i fplendidi , e l'altro splendidiffimo tra i moderati ; vi potrei anche dire di vantaggio, che avendole osservate e faccillime jipitatrici del bombice, il quale per formare la sua casa poge tutta la sua miglior softanza in essa, onde spero, che l'imiteranno anche dopo morte, con divenire farfalle per volarsene più speditanicnte al Cielo.  Sem. Hò udito esaggerare tanto cótro il luffo nelle passare conferenze ; como mai queste si fanno così bene regolare in tempi, ne quali ci troviamo.?  Pub. Vidifli parimente in quelle , se ben vi ricorderete , che non mancava presentemente ancora, chi viveffe net costume ancico, e che non si osservalle da tutti chi operava in tal forma ; perchè pochi erano l'imitatori di efli, c da ciò nasce, che queste di regolano con  tan.  tanta aggiustacezza, perchè vivono a  quella usanza, e se li vagliono di qualby che cosa dello presente, lo fanno con  gran moderazione, e più per salvare una certa apparenza, a fine di non singolarizzarsi, che per vanità.  Sem. Mà nell'educarli di che norma si servono ?  Pub. Di quell' appimnto, di cui già i parlammo , ina con grandiilima atten#zione ; folamente di vantaggio hò osserte vato, che avendo quefte già bene im  bevuti i figliuoli del rispetto dovuto ad  effe ne'ceneri anni, divenuci poscia più ci adulti, deposto il rigore priiniero si so  no servite più costo della piacevolezza ; coli ed in questo modo hanno continuato  ad elggere curta la venerazione ad else dovuta da figliuoli.  Sem. E nel provederli d'impieghi comc li porrano?  Pub. Volelle Iddio, che con tanto fervore operaffino noi alori Padri conforme esse fanno' in questo; effendoche  taluna li ha così ben accomodaci , che :  non  non si è renduta loro fenfibile la perdita fatta del Padre, trovandosi presen!emente in istato tale, che possono contentarsi.  Sem. Oh fortunati figliuoli; se io fossi nei loro piedi , non mi dimenticherei gianımai di tanto beneficio ricevuto da effe.  Pub. Ed io pasferei più oltre, cioè a riflettere i disaggi, che averano sofferto, per fare conscguire questo bene,e quanto averanno cenuto occupata la mente co’pensieri, e quante vigilie averanno sofferte. Or ditemi, vi pare che qucftc, che operano in tal forma, si possano paragonare alle antiche Porzie , alle Cor. nelie, alle Avie , ed alle Pauline che cosa fecero quelle più di queste, che meritarono la corona di pudicizia, pero effere vivate nella stato vcdovile esem. plarissime e  Sem. Certamente che meritano qucm Ite ancora di esser coronate, e credecemi, Publio , che questo vostro racconto mi hà sommamente confolatozed animato ingeme a prendere moglie; perchè se io arrivafli á scegliermi una di queste, morrei certamente men contristato , avendo chi supplirebbe le mie veci nel ben educare i figliuoli.  Mec. Abbiamo finora parlato della cducazione dei figliuoli de benestanti, e di quelli de' poveri non abbiamo fatta menzione alcuna.  Pub. Conyerrà certamente discorrere anche di questi, essendo cosa essenziale ondc lo porteremo alla ventura Conferenza.  [merged small][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] CONFERENZA X.  Sopra l'educazione de' figliuoli poveri, e donde venga queita  danneggiata.  Publio , Mecenate , Sempronio ,  i Medico.  Pub.  He bella cosa fareb.  be , se nel monС do ognuno viveffe  conforme richiede l'obbligo cristiano:  di non fare altrui, ciò, che a se dispiace: oh bell’armonia, che nascerebbe da questo allorsì che ciascuno potrebbe vivere ad occhi chiuli, non trovandosi chi ingannasso il coinpagno ; c tanre sorte di supplicj , inventare per reprimere', c. gastigare la malizia degl'uomini rimarrebbero affas.  [ocr errors] to oziose; e li ministri di Giustizia a che | servirebbero, essendo ciascuno retrislimo  giudice di se medesimo? Oh felice, c mi fortunato vivere che sarebbe, essendo  ritornato il secol d'oro, nel quale come  lo descriffe Ovidio ne suoi fafti.    Proque metu populum fine vi pudor ipfe regebar, Nullus erat justis reddere jura labor.  E Giovenale nella fac. 6.   Cum furem nemo timerer  Caulibus, aut pomis, tu aperto vive.ret borte,  Mà quanrunque fiafi tanto affaticato  Platone per farlo ritornare , appena c  rimasto ogni suo pensiero riposto nel ga-   binetto delle sue Idee, senza recare vei runo profitto; onde si può conch iudere,  che questo probabilmente non tornerà  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors][merged small] Sem. Mà non fi potrebbe almeno far ritornare quello di argento ? perchè a sopportare da gran tempo in qua il secolo di ferro, già divenuto rugginoso, fembra dura , ed insoffiribile cola.  L12  Sem.  [ocr errors] Pub. Questo è difficile; e non meno, che a far divenire un pezzo di ferro argento; intorno al cui lavoro tanti ci si affaticano indarno. Non sarebbe poco se a questo di ferro,che noi abbiano, il quale ben diceste, che sia divenuto rug. ginoso, se gli potesse dare una ripulitura, affinchè non comparisse tanto deforme, come presentemente par, che sia diveDuto •  Sem. Facciamolo dunque ; ma da che parte di esso si doverà principiare?  Pub. Da quella più tenera, come abbiamo fatto finora nei nobili, cioè dalla tenera gioventù, ove la lima può più facilmente attaccare : cominciate voi dunque a portarmi il lavoro, che io li. merò.  Sem. Qiello , che' mi premerebbe più d'ogni altra cosa, sarebbe che in. cominciassimo a ripulire un poco i servitori.  Pub. La ruggine in questi è troppo dura; come volete voi, che limi, efsendo di già quefti divenuti adulti; por  [ocr errors][ocr errors] tatemeli giovaneci, che io cominciero limarli.  Sem. E come potranno questi allora discernerli? Offervandoli, che ne pur i loro figliuoli hanno genio a fare tal meftiero; ideandosi tanco i Padri, quanto effi, allorchè cominciano a conoscere i vantaggi della vita civile, di voler parfare ad effa,con avanzarli di condizione.  Pub. Dunque se non si sà precisamente chi voglia incaminarli per questa via, cominciamo da tutti i figliuoli poveri , che cosi comprenderemo quelli da incaminarsi in cursi li mestieri nel inedeliino tenipo.  Sem. Che doverà farfi in questi prima di ogni altra cosa ?  Pub. Quello appunto, che già dicem. mc:infinuare bene nell'animo loro il fan.  to timor di Dio, base fondamentale di O tutte le virtù morali, e cristiane  Sem. E chi doverà far questo? th Pub. I loro genitori.  Sem. E se questi non ne avessero appreso tanto, che hastaffc loro ? Pub. Ci sono i Parochi de'quali è incombenza,non solamente di proccurare, che fieno istruiti i figlioli, mà anche, i genitori medelimi,  Mec. Se ci fosse un fol pastore in una gran greggia di pecorelle, molte ne divorerebbero di più i lupi ; onde come potranno baltare questi, che sono pochi a tanci?  Pub. Ci sono i Maestri, che supplisco. no ancor ela.  Mec. Mà quelli che non hanno modo da tenerli?  Pub.Sogovi tante scuole per i poveri, che possono ben ivi apprendere ciocche appartiene a questo  Mec. Mà fe trascureranno di andarvi, ed intanto innoltrandosi i vizj come firi. medierà?.  Pub. Colgastigo, che servirà dierempio agli altri, che non ci cadano, ed a tal effetto ci è per questi la casa di correzione, ove sono severamente morti. ficati. Mec. Vorrei, che vedeflimo, Publio ,  se  [ocr errors][ocr errors] fc ci fosse modo di non avere rovente bisogno di limili gastighi; perchè vado rifcttcndo, che molti pochi sono correcti da eso ; e quantunque ci licno le forche alzate, tanto i delicti fi comincitono gel inedefimo tempo.  Pub. E che prerendete forse, che nel monda non feguano delicti?  Mec. Non pretendo tanto, mà solamente che sceinino questi più notubilincnte, ed in conseguenza ci sia meno duopo digastigo.  Pub. E come fareste per procurare che minor numero deili presenti ne leguillero?  Mec. Vorrei in diverse parti della cietà scegliere i più caritativi ; e pii artetici, che ci foffero in ogni profeflione, ed a questi consegnare , e raccomandare più di uno dei giovanetti, arrivati in età di poter cominciare ad apprendere i principi di quell'arte, alla quale 'mostraffero inclinazione, ed abilità.  Pub. E prima di detto tempo chi ne averebbe il pensiero di andarli istruendo nel beo operare ?  Mr.  [merged small][ocr errors][merged small][ocr errors][merged small] [ocr errors] Mec. Ci sono pur tanti pii, cd esemplari operarj , zelantisfimi del buon costume, cui non recherebbe gran briga l'invigilare sopra di elî, con un ben regolato ripartimento, li quali per rimediare a'disordini maggiori, che incontrasfero doverebbero avere chi desse loro assistenza, e braccio autorevole; e credetemi, che dupplicato bene da ciò ne risulterebbe: cioè, che non anderebbono in quelle ore vagabondando per la città, e li approfitterebbero insieme di molti buon iavvertimenti, e cosi la gregge averebbe pastori a proporzione del fuo bisogno: e fapere pure, che quantunque tanto si operi da questi zelancisfimi nello svellere i vizi già adulti, nulladimeno per lo più poco, o niente di frutto da cfsi si ottiene , onde mi parrebbero fatiche con profitto maggiore queste impiegate, allorchè i vizi sono anco teneri, potendosi allora con più facilità sradicare; che quando sono già adulti,senza tralasciare però d'invigilare a fradicare anche questi assodati.  Pub.  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Pub. E chi manterrebbe detti figliuoli da quei artefici; acciocchè l'istruiffero fin tanto, che il loro lavoro meritalse premio ?  Mer. Sarebbe facile qui tra noi a trovarsi il modo, essendoci si numerose, e considerabili limosine di pane , da diftribuirli a poveri; nè si potrebbe dubicare in conto alcuno, che questi non folsero tali ; onde sarebbero con giustizia , e profitto impiegare in essi ; nè potrebbero gli altri dolerli, perchè verrebbero anche distribuite colla discreta propora zione rispetto agli altri bisognosi invalidi; ne apporterebbero gran briga cinque, o sei ragazzi di questi, provedusi già di pane, avendoli in bottega; ecenendo loro gli occhi sopra, non potrebbero andare vagabondando in cerca de vizj conforme facevano.  Pub, E'pensiero questo da macurarsi meglio per discernere, che vantaggio conliderabile potesse apportare.  Sem. E se avessero genio di studiare?  Mec.  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] Mer. Di questo ne discorreremo nel fine.  Sem, Or ditemi dunque quali sono i vizj familiari a ragazzi poveri ?  Mec. Possono essere innumerabili, se non sono sradicati alla prima da qual. cuno, e tanti appunto, quante sono l'erbe dannose , & inutili, che nascono in una siepe abbandonata da chi la coltivi. Posciache questi poffono essere primieramente affatto ignoranti dei misteri della Santa Fede; non hanno in bocca altre parole, che difonckte, appreses per istrada, e ral volia per essere figliuolini nè pur fapranno i loro ligniti. cati ; fi afsucfaranno da teneri anni al rubare, e cominciando dalle core commefibili faran passaggio all'altre ancora ; diverranno poi tanto impertin nenti, che daranno fastidio a tutti; bu. giardi , fraudolenci, bestemmiatori, e malizioli a segno, che quabrunque fico no di dieci, e undici anni saranno già capaci in pratica di tutti i vizj concernenti alla luffuria .  Puo.  [ocr errors]    [ocr errors][ocr errors] De   i buos  [merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors]  prove, e do  po  [merged small][ocr errors][ocr errors] Sem. Ma è poflibile, Dottore, che in sì tenera età facciano questo?  Med. Io più d’uno di questi ho vedy. to venire zoppi all'ospedale per ca. gione di buboni gallici, che avevano acquistati con tali viziose  ritrovata la verità gli ho anche mol. to bene sgridati.  Sem. Da che diviene questa gran facilità di cadere in fimili vizj?  Med. Lo spiegò Socrate a Teodata bellissima meretrice,allorche li gloriava di superarlo nel saper sedurre più facilmente essa i suoi scolari,di quello avess' cgli potuto fare colla sua dottrina in rimuovere dal suo amore i suoi drudi, con risponderle,che lo credeva , nè punto fi maravigliava di ciò; perch'ella li tirava all'ingiù , & a seconda del precipizio con poca sua fatica dove ch'egli dovendoli tirar fuori da questo aveva d'uopo impiegarvi fatica maggiore; come riferisce Eliano,  Sem. Oh so, che crescendo questi vizj con gli apoi, quanci mali effetti eli  pros  [ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors] [ocr errors] 540 Conf. 10. Dec. feconda produrranno ! riempiranno per la meno le galee di genec facinorosa, se pur que. fti non anderanno sulle forche; onde conosco anch'io, ch'è troppo necessa. rio darci riparo, altrimenti di questi viziosi ne toccheranno ad ogn'uno per servitori, o per arrifti: ma come fi potrebbe fare almeno , che non cre. scessero di vantaggio?  Mes. Se non li trova il modo, che non vadano vagabondando per le piazze, e di cenerli lontani da quei, che fono un poco più adulti di essi, sempre correranno tali pericoli; e perciò lag. giamente ordinò Ligurgo, che i figliun. li fossero allevati per i villaggi, e gli Egizi non li faceano porre alla mensa per cibarsi, se prima noa avcano corso a piè nudi due, o cre leghe. Ed appresso i Parci, se i loro figliuoli non avevano colla frezza colpito, e fatto cadere il pane, che posto avevano in luogo eminente, non facevano gustar loro altro; conforme ancora facevano le donne dell'Isole Baleari, ma colla fionda, c  CO:  [ocr errors][ocr errors] così li tenevano occupati , affinchè non aveflcro campo di avanzarli ne'vizj. Ma trovandosi tra noi impicghi con direttori discreti, sarebbero questi affai più profitcevoli; potendoli eziandio formare scuole d'apprendere arti, dove fossero istruiti, e nella pierà, & in quel mestiero al quale applicassero di genio ; ma per opere sì magnifiche crè cose si ricercano , le quali sono ; l'autorità del Prencipe ; valido soccorso; & allistenza allidua di uomini pii, ezclanti del buon costume.  Sem. Ma vi è pur S. Michele a Ripas grande ove si fa tutto queito; perchè dunque andate cercando altro?  Mec. Abbiamo certamente tal Ospizio Apostolico utiliffimo, esantißimo, ove col timor di Dio G avvezzano, e si approfittano ancora in diverse arci, era sendo usciti di là molti , ch'erano prima senza indirizzo, e modo da softcocarli, divenuti capaci d'alimentare se medesimi, e le loro famiglie; ma questo folo non è sufficiente per educare tutri i  [ocr errors][ocr errors][ocr errors][ocr errors] nigliuoli poveri, che sono nella Città; nè è poffibile moltiplicarne canti altri confimili ad effo, che foffero fufficienti; onde bisognerebbe trovare un modo praticabile , acciocche fossero istruiti nella medesima forma, ma senza ag. gravio di spesa equivalente alla proporzione di quella .  Pub. Tutto si potrebbe fare, ma però se non si toglieffe prima quello , che dasse loro mal' esempio, gioverebbe a nulla.  Meo. Questo è veriffimo;.perchè entrando caluno al servizio, quantunque fosse semplice, e di buon costume ,' fe cominciarse a comandargli il suo padione certe cose, che non li possono dire in pubblico, effendo indecenti, como potrebbe far di ineno obbedendolo as non divenire ancor esso diviato ? effen. do che: a bove majori discit arre minor , Se quantunque foffe sobrio, e vedeff: continuamente banchettare , & a vesse tutto il commodo da disordinare anch' effo, come non diverrà gologfimo? E  par  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] last particolarmente se si abbatteffc in chi, come dice Giovenale,  Radere tubera terra  Boletum condire, codem in jure na,   tantes  Mergere facedulas didicit Sco ap  Et cana monstrante gula. Se si accorgerà poi, che manchi di pa. rola, imparerà anch'esso a farlo dicen. do: se lo fa il mio Padrone, ben lo posso far arch'io , perchè farà forse oggi  di civiltà prar carlo. Voi dunque, Semi pronio, vidolete attorto dei servirori;  doleceri bensì dei padroni, che gli ac-  coltumano viziosi.    Sem. Ma io   per  la Dio grazia non fò di questo, e pure mi sono capitati molci cattivi fervitori.  Pub. Saranno stati prima corrotti da altri padroni se non gli avete corrorti voi, e perciò imparare a non mutarli tanto spesso , potendovi abbattere ins peggiori, i quali non sarebbero più correggibili:  Barbatos licet admoveas, mille inde magiftros.Mec. Non solamente i servitori si approfittano del mal'esempio de' padroni, ma tutti gli artisti, e mercanti ancora, dandosi da caluno di esli a questi, invece del danaro, che avanzano, certe mercaozie, le quali non trovano ad clitare, e le pongono a prezzi altissimi, e da ciò essi imparano ad alterare i conti, ed in che forma !  Sem. Ma ci sono pure i periti, che li rivedono, e tarano?  Mec. Si bene, ma però elli l'informano, e fanno ben loro capire, che hanno ricevuto, a ragione di contanti, assai di meno di quello pretendevano di aver dato loro, a cagione dei prezzi alterati delle robe ricevute.  Sem. Sicche faranno un bel guada. gno questi , che daranno roba in vece di danaro; e ditemi, Dottore, se ciò si pratica collo Speziale ancora ?  Med. Taluno per quanto ho udito lo fa.  Sem. Consideriamo, che buone medicine daranno loro questi, che sono così malamente pagari.  Med.  Med. Li poveretti troppo fi sforzano die a servirli bene; ma certa cosa è, che vo  gliono starci in capitale almeno, c peri ciò non daraano già loro i migliori ri1 nedj.  Pub. I mercanti Moscoviti, prima che it fosse data loro la libertà di uscire dal El Regno, avevano una bella maniera di  contrattare, la quale era di chiedere soSelamente il giusto prezzo delle loro mer  canzic, e guai a colui, che l'avesse altea si raco; posciache sarebbe caduto in pene sd gravissime.  Mec. Sicoftumerebbe tra noi ancora, 1 se correffe puntualmente il danaro; må  dovendosi tener morto questo più anni, e poi pagarfi Iddio sà come, bisogna pur, ch'ella pensino al modo, che debbo.  no tenere per guadagnarci ; diano dunSe qne i primi ad edi buon csempio, che fa  raono imitati.  Sem. E per fare, che i servitori non divengano viziosi, olcre il non dar loro  mal'esempio, che si potrebbe fare di e vantaggio ?  Mer.  [ocr errors] Mm  Mec. Bisogn' anche procurare, che non abbiano occasione di addocrinarli in certe cose, che mal'interpretate da efli, da buone che sono potrebbero divenire pesime; e vi riferirò a tale proposito un esempio. Si abbatte un giorno un mio amico, che seco aveva due fervi. tori, ad udire un certo discorso morale, fatto da un buon religioso, mà molto semplice, sopra il furto, e venuto al par. ticolare, a che fomma questo doveste giugnere per essere peccaminofo , avvedutosi egli, ch'erano attentissimi i suoi fervitori in udirlo, chiese incontinente licenza,con iscusa di dover fare certo ur. gentislimo negozio in quel punto;mà come egli,ini riferì il negozio era, che non udifícro questi , che li potesse con ficura coscienza rubare una anche minima cosa, perchè, come diceva, costoro l'averebbero reiterato tante volte in un giorno, che in breve mi farei impoverito.  Pub. Mi persuado ancora, che non convenga dar loro il comodo di approvecciarsi malamente, con fidarsi alla sjeca di cili, dando loro gran maneggio;  per  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] perchè la comodità appunto fà l'uomo ladro.  Mec. Vi era uno di questi, il quale prendeva cutto all'ingrosso, e con vantaggio grande, e dipoi lorivendeva a minuto, ed a prezzo rigoroso al suo padrone, e vi faceva giornalmente guada. gno considerabile, scusandosi in far ciò, ch'era  per  sua industria , perchè non gli aveva ordinato di far questo il suo padrone. Onde ingannavasi costui in credere di non aver obligata, ad effo tutta la sua industria, come difatto avea .  Sem. Sarebbe dunque riuscito van taggioso per loro se avessero studiato , ed appreso le buone dottrine.  Mic. Se avessero fatto questo non si porrebbero a servire, come dice uno di questi al suo padrone, allorchè lo sgrida, ch'era un ignorante, cui replicó: signore se fossi dotto non servirei , mà bensì averei chi mi servisle.  Sem; Ne hò però ayuti di quei, che sono stati alla scuola, e sapevano anco ra un poco di latino. Ner. [ocr errors][merged small][ocr errors][ocr errors][merged small][ocr errors] Mm 2  Mec. Mà che serviva loro questo?  Sem. A nulla ; mà però se non mori. vano i loro Padri si sarebbero tirati aranti nello studio, e forse sarebbono riusciti uomini dotti. Mer. Vorrei, ch'esaminaflimo ora qual fosse meglio: chei figliuoli dei poveri s'incaminassero per la strada delle lettere , o pure fi ponessero da principio ad apprendere le arti,  Sem. E che pretendereste forse voi impedire, che ogn’uno non s'incamini a suo bellagio per la via, che giudica per se più vantaggiosa? Capece pure, che vi sono stati molti plebci , che sono riusciti in esso come accennò Orazio  fat.6.1.  Multos fape viros nullis majoribus oj  tos,  Ei vixise probos , magnis du honoribus  auctos. Mec. Questi non saranno stati però miserabili, perchè dice ancora GioveHaud facilè emergunt quorum virtutibus ebfas.Res angufta domi.    e poi se taluno di questi, inà molto  di rado, è riuscito, oh quanti sono andati  a inale! onde vorrei, che vedeffimo quali  di questi fieno quelli , che possono essere capaci di compire questa carriera, ed a  quali non getti conto. Perchè il sen.  tiere delle scienze, é assai lungo , ed  crto, ed ha difficile ancora il suo ingres-  so; come bene lo descrive Silio Italico  dicendo.   Ardua faxofo perducit semita clive ,  Aspera principio, nec enim mihi fallera,  mos est, profequitur labor ad nitendum intrare volenti. Onde chi non potesse caminarvi fino al fine, che farcbbe trovandosi nel mezo di esso ? non vorrà tornare indiccro per vergogna, nè potrà ivi foftentarli., per essergli mancata la provisione neceffaria; onde non sa a che partito appigliarsi; dove che la via delle arti, efiendo assai più piana, e più breve, ed ancomeno dispendiosa, li renderà più facile, e  [ocr errors] Mm 3  van.  vantaggiosa a questi di poterla cerminare.  Sem. Sicchè dunque farà meglio, e più vantaggioso per loro d’incaminarsi per il sentiero delle arti, giacchè questo si renderà più facile a poveri di compirlo.  Mec. Così credo anch'io, perchè almeno giugneranno a guadagnarli il pa. ne più spedicamente, e con minor pericolo di rimanere inesperti .  Sem. Come pensate voi di fare questa scelta, di chi sia capace d’incaminarsi per essa, e chi per l'altra più piano delle arti .  Mec. Se per esempio ci fossero figliuo. li di mediocre talento de poveri artisti, o di vedove, che appena colla loro fati. ca arrivano ad alimentarli parcamente, questi sarebbero perduti, volendoli incaminare per la trada delle scienze, e maggiormente, se saranno i loro genitori avanzati negli anni ; perchè morendo questi, chi li softenterà trovandoạ nella carriera a qualcuno di quei, che sono nel  principio del camino può essere, che;  torni indietro, econ ripugaanza grande si ponga ad apprendere qualche arre,  quelli, che saranno però più inoltraci , vergognandosi di farlo, come si trove. ranno i meschini, non avendo chi più li sostenri ? talmente che per procac. ciarli il vitto saranno costretti di fare ogni viltà, purchè salvino l’apparenza del proseguimento di tale impiego , ch' esli si avevano figuraco di voler esercitare; laonde poftisi in doslo una toghetta,ed un perucchino, ne quali consiste il loro capitale, tutti lindi si porranno , essendo ignoranti, a far da guasta mestiere: e vi pare che questi possano apportare utile alla republica, stroppiando cause, se prenderanno la via legale ? e quello ch'è peggio , che se per quella della medicina s'incamineranno quanti ne animazeranno impunemente ? Olere poi il discredito, che ne riceverebbono professioni (i nobili, per cagione di essi.  Sem. Mà perchè se ne prevalgono di questi?  Mec.  [ocr errors] Mm 4  Mec. Perchè la maggior parte, chc litigano sono ignoranti; e simili a questi ancora sono quelli, che si trovano malati; onde come potranno discerneru questi a che segno giunga la di loro abilità? ctanto più, che quantunque penuriando di dottrina i guasta mestieri, non si trovano già scarû di malizia, per dare ad intendere lucciole per lanterne quando vi sia duopo, essendo questi gran; mensognieri.  Sem. Quali voi crederefte, Mecenate, che potessero incaminarli per la via del le scienze con sicurezza maggiore?  Meo. Quelli solamenre a quali il Padre morendo in questo mentre , poresse lasciare 'ranto, che fosse sufficience a poter terminare i loro studj, cche fossero di buono ingegno; perchè se non saranno cali gertato averebbero quel danaro, e rimanendo mendichi, ed ignoranti, questi ancora fi porrebbero a fare molce viltà, e perciò l'Ecclesiast. al 27. csclama. Propter inopiam multi deliquerunt; de'quali così ebbe anco a dire ORAZIO.  Ma  Magnum pauperies opprobrium jubet.  Quiduis ad facere et pari, Virtutisque viam deferit arduam.   Sem. A chi toccherebbe di farne la prova del loro ingeg:10 , e capacità ?  Mec. Niuno meglio de' loro maestri , che li avessero cominciati ad istruire sarebbe più a proposito; mà taluni di questi alle voltc consigliano i poveri Padri con poca carità a fare proseguire loro l’opera mal’incominciara .  Pub. Sapere, Mecenate, che non è disprezabile pensiero questo da voi apportato, e rifletto ora anch'io, che il voler porre con tanta facilità i poveri all'acquisto delle scienze possa essere una delle cagioni, che ritardano più tosto la buona educazione, e mi inaraviglio che non si dia già dato opportuno riparo a questo inconveniente,  Mec. Sicte pur pratico del mondo, e non riflettere , che non tutto arriva all' orecchie di chi vi può dare rimedio,perchè se vi giugnessero tutte le cose, quanti buoni regolamenti si prendereb  [ocr errors][merged small] Res  nale fac. 3:bero dalla vigilanza di effo.  Pub. Che imparassero i figliuoli de’ poveri, a leggere, scrivere , e l'abaco lo stimerei necessario ; mà che questi poi si applicassero alli studi delle scienze, non avendo nè capacità necessaria, nè modo da foftentarli, ora che voi ave. te mostrato tanti inconvenienti lo stimo dannoso anch'io.  Sem. Come fecero Publio, quei celebri filosofi antichi, i quali erano affatto privi de’beni di fortuna, a divenire così dotti; efsendomi stato raccontato di Diogene, che  appena  avesse una botte per  difendersi dall'inclemenze dell'aria : e di Socrate, chę altre di calcare sem, pre la terra co’piedi nudi, appena venisse ricoperto da un sordido mantello.  Pub. Affinchè meglio comprendiate la verità di quanto diffi, dovete sapere, che considera AQUINO la povertà in due maniere ; ove parla : Contra genti. Jes; cioè: aut ex coactâ neceffitate, aut ex propriâ voluntate. Questi filosofi da voi mentovati erano poveri; perchè non  [ocr errors][ocr errors][ocr errors] si curavano punto de'beni della fortuna,  e riputandoli dannosi non istudiavano  di cumulare richezze, quantunque das  queste 'venissero adescati . Mentre , che  non fece Alessandro il grande per ri-  muovere dalla sua bramata povertà  Diogene , quantunque in darno? Quan,   . to non fi adoperò Archelao per fare divenire ricco Socrate ? mà egli per liberarsi dalla di lui generosa importunità li fè intendere , che in Atene a vile prezzo  si vendevano le farine, e che colà le acto que nulla costavano; e perciò questa voin lontaria povertà, non folamente non li * contristava, mà serviva loro più tosto  di ajuto per la filosofia; come riferisce 1 Stobeo, fer.93, che confeffalse, l'isteiro  Diogene . Anzi Epicuro passò più oltre,  come si ricava da Seneca nell'epift. 2 1.   persuadendosi egli,che la volontaria poi vertà , la quale si uniforma alle leggi di  natura , non debba riputarsi povertà, į inà più tosto ricchezza superiore a tutte 3 le altre, di qual sentimento , oltre molti  altri filosofi, fù ancora Democrito; men  [ocr errors][ocr errors] tre  tre venendo egli interrogato, come ri. ferisce Scobeo, qual fosse il vero modo da divenire molto ricco, rispose : con divenire povero di desiderio.  Sem. Potrebbero dunque i nostri poveri figurandoli volontaria la loro forzata povertà, divenire Filosofi ancor efli.  Pub. Non è più quel tempo antico, nel quale i poveri si contentavano audrirli di solo pane, ed acqua , o di sole erbe, come riferisce Eliano, che faceffe Diogene; onde questa povertà volontaria, senza un special dono di Dio si renderà impollibile a conseguirsi .  Sem. Vorei sapere, perchè questa povertà forzata abbia da ritardare l'acquisto delle scienze, c la volontaria più tosto da promoverlo?  Pub. Perchè la forzata contrifta fortemente l'animo,apprendendo chi la sof. fre di essere infeliciffimo, dove che la volontaria, riputandoli per feliçità da cui si gode, lo rende sommamente cranquillo : Laonde chi mai coll'animo con,  [ocr errors] tristato potrà applicare a cose tanto serie, conforme sono le scienze ? le quali richiedono attenta meditazione da cui brama d'approfittarsene. Quindi è, che Aristotile nel primo della sua Etica ebbe con ragione a dire: Impoffibile eft indigentem operari bona; e più chiaramente nel secondo della politica. Impossibile eft inte digentem ftudio vacare ; c non potendosi i poveri di spontanea volontà chiamare in digentes,non milita contro di esli l'autorità di Aristotile; perchè questi hanno ciocche, fà d'vopo al loro necessario sostentamento, ed è ciò sufficiente per effi , avendolo fatto conoscere Socrate, riferito da Stobeo al serm. 95. allorchè diffe: Si res 'mea mibi non fufficiunt, du ego ipfis fufficio, as fic etiam ipfa mibi; al opposto i poveri, che non hanno povero il loro desiderio ancora , non li appagano punto di ciò, chè si trovano, braman. do sempre di vantaggio, sembrando loro quanto hanno per esli insufficiente, c per tale cagione vivono perperuamente contristati. Or ditemi, Sempronio, se  [ocr errors][ocr errors] avere da dire altro intorno al morale?  Sem. Non altro certamente intorno a questo, e credo di avere udito tanto, che se me ne approfitterò saprò scegliere la noglie approposito, ed allevare nel buon costume anche i miei figliuoli, che nasceranno. Mi rimane solamente di sentire dal dottore, quali vantaggi potrebbe apportare all'educazione la filosofia, e specialmente in quei figliuoli, che ricalcitrano nello approfittarfi de buoni documenti morali. FIL. Di questo ne tratteremo domani. – “I have a train to catch.” Grice: “I like Gagliardi. In honest Italian prose, he manages to write a treatise for the week: the first day (or giornata) and so forth. It is an empirical ethical treatise along Aristotelian lines of the type I classify as ‘is’ rather than ‘ought’. Recall that the fundamental question I pose for pragmatics is why maxims ought to be followed rather than being, as they are, mainly and ceteris paribus followed! My answer to that is in three stages, and the first ‘answer, dull and empirical’ is that the maxims ARE, as a matter of EMPIRICAL fact, followed. This far Gagliardi goes – and succeeds!” – Grice: “He wrote extensively, knowing British parents, how a father must take care of his son, or at least find him a good tutor!” Domenico Gagliardi. Gagliardi. Keywords: “a dull (if at a certain level adequate) answer to the fundamental question about the conversational categoric imperative”; moralia, etica, mos, ethos – Grice on morality – morals – educazione – “We learn not to tell lies from our parents” Hardie, Ethica Nichomachaea, la formazione del carattere.  “Empirical fact we’ve learned since childhood and it would be difficult to diverge from the practice” – “This is a dull empirical.” --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gagliardi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.  

 

Grice e Gaio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Accademy. Although he appears to have enjoyed a significant reputation, next to nothing is known about him. Porfirio mentions commentaries on Plato by Gaio that may have been edited by his pupil Albino.

 

Grice e Galba – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Mussonio: deportato da Nerone, pardonato da Galba – Deportato da Vespasiano, pardonato da Tito.

 

Grice e Galeno – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Brought to Rome by Antonino.

 

Grice e Galetti – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Filosofo. Emporium.

 

Grice e Galilei – Eppur si muove -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pisa). Filosofo. Galileo Galilei. Grice: “His father was, like mine, a musician.” – “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. Personaggio chiave della rivoluzione scientifica, per aver esplicitamente introdotto il metodo scientifico (detto anche "metodo galileiano" o "metodo sperimentale"), il suo nome è associato a importanti contributi in fisica e in astronomia. Di primaria importanza fu anche il ruolo svolto nella rivoluzione astronomica, con il sostegno al sistema eliocentrico e alla teoria copernicana. I suoi principali contributi al pensiero filosofico derivano dall'introduzione del metodo sperimentale nell'indagine scientifica grazie a cui la scienza abbandonava, per la prima volta, quella posizione metafisica che fino ad allora predominava, per acquisire una nuova, autonoma prospettiva, sia realistica che empiristica, volta a privilegiare, attraverso il metodo sperimentale, più la categoria della quantità (attraverso la determinazione matematica delle leggi della natura) che quella della qualità (frutto della passata tradizione indirizzata solo alla ricerca dell'essenza degli enti) per elaborare ora una descrizione razionale oggettiva[N 6] della realtà fenomenica. Sospettato di eresia e accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, Galilei fu processato e condannato dal Sant'Uffizio, nonché costretto, il 22 giugno 1633, all'abiura delle sue concezioni astronomiche e al confino nella propria villa di Arcetri. Nel corso dei secoli il valore delle opere di Galilei venne gradualmente accettato dalla Chiesa, e 359 anni dopo, il 31 ottobre 1992, papa Giovanni Paolo II, alla sessione plenaria della Pontificia accademia delle scienze, riconobbe "gli errori commessi" sulla base delle conclusioni dei lavori cui pervenne un'apposita commissione di studio da lui istituita nel 1981, riabilitando Galilei. La casa natale di Galilei  Abitazione all'800  Abitazione in via Giusti Dal libretto di battesimo di Galileo riportante come luogo "in Chapella di S.to Andrea", si credeva fino alla fine dell'800 che Galileo potesse essere nato vicino alla cappella di Sant'Andrea in Kinseca nella fortezza San Gallo, il che presumeva che il padre Vincenzo fosse un militare. In seguito fu identificata casa Ammannati, vicino alla Chiesa di Sant'Andrea Forisportam, come la vera casa natale. Nacque a Pisa, figlio di Vincenzo Galilei e di Giulia Ammannati. Gli Ammannati, originari del territorio di Pistoia e di Pescia, vantavano importanti origini; Vincenzo Galilei invece apparteneva ad una casata più umile, per quanto i suoi antenati facessero parte della buona borghesia fiorentina. Vincenzo era nato a Santa Maria a Monte, quando ormai la sua famiglia era decaduta ed egli, musicista di valore, dovette trasferirsi a Pisa unendo all'esercizio dell'arte della musica, per necessità di maggiori guadagni, la professione del commercio.  La famiglia di Vincenzo e di Giulia, contava oltre Galileo: Michelangelo Galilei, che fu musicista presso il granduca di Baviera, Benedetto Galilei, morto in fasce. Dopo un tentativo fallito di inserire Galileo tra i quaranta studenti toscani che venivano accolti gratuitamente in un convitto di Pisa, fu ospitato "senza spese" da Tebaldi, doganiere della città di Pisa, padrino di battesimo di Michelangelo Galilei, e tanto amico di Vincenzo da provvedere alle necessità della famiglia durante le sue lunghe assenze per lavoro. A Pisa, Galilei conobbe Bartolomea Ammannati che curava la casa del rimasto vedovo Tebaldi il quale, nonostante la forte differenza d'età, la sposò, probabilmente per metter fine alle malignità, imbarazzanti per la famiglia Galilei, che si facevano sul conto della giovane nipote. Successivamente fece i suoi primi studi a Firenze, prima col padre, poi con un maestro di dialettica e infine nella scuola del convento di Santa Maria di Vallombrosa, dove vestì l'abito di novizio. Vincenzo iscrisse il figlio a Pisa con l'intenzione di fargli studiare medicina, per fargli ripercorrere la tradizione del suo glorioso antenato Galileo Bonaiuti e soprattutto per fargli intraprendere una carriera che poteva procurare lucrosi guadagni.  Nonostante il suo interesse per i progressi sperimentali di quegli anni, la sua attenzione fu presto attratta dalla semiotica, la logica, e la matematica – lo studio del segno -- che comincia a studiare dall'estate del 1583, sfruttando l'occasione della conoscenza fatta a Firenze di Ostilio Ricci da Fermo, un seguace della scuola matematica di Tartaglia. Caratteristica del Ricci era l'impostazione che egli dava all'insegnamento della matematica: non di una scienza astratta o formale, ma di una disciplina materiale che servisse a risolvere i problemi pratici legati alla meccanica e alle tecniche ingegneristiche. Fu, infatti, la linea di studio "Tartaglia-Ricci" (prosecutrice, a sua volta, della tradizione facente capo ad Archimede) a insegnare a Galileo l'importanza della precisione nell'osservazione dei dati e il lato ‘prammatico’ della ricerca scientifica. È probabile che a Pisa abbia seguito anche i corsi di filosofia naturale (fisica) tenuti dall'aristotelico Bonamici. Durante la sua permanenza a Pisa arriva alla sua prima, personale scoperta, che chiama l' “iso-cronismo” nelle oscillazioni di un pendolo. Rinuncia a proseguire gli studi di medicina e anda a Firenze, dove approfondì i suoi nuovi interessi, occupandosi di meccanica e di idraulica. Trova una soluzione al "problema della corona" di Gerone inventando uno strumento per la determinazione idrostatica del peso specifico dei “corpi”.  L'influsso di Archimede e dell'insegnamento del Ricci si rileva anche nei suoi studi sul centro di gravità dei solidi. Cerca intanto una regolare sistemazione economica: oltre a impartire lezioni private a Firenze e a Siena, andò a Roma a richiedere una raccomandazione per entrare nello Studio di Bologna a Clavius, ma inutilmente, perché a Bologna gli preferirono alla cattedra Magini. Su invito dell'Accademia Fiorentina tenne due Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno, difendendo le ipotesi già formulate da  Manetti sulla topografia dell'Inferno. Galilei si rivolse allora a Monte, matematico conosciuto tramite uno scambio epistolare su questioni matematiche. Monte e fondamentale nell'aiutare Galilei a progredire nella carriera universitaria, quando, superando l'inimicizia di Giovanni de' Medici, un figlio naturale di Cosimo de' Medici, lo raccoma al fratello cardinale Francesco Maria Del Monte, che a sua volta parlò con il potente Duca di Toscana, Ferdinando I de' Medici. Sotto la sua protezione, ebbe un contratto triennale per una cattedra a Pisa, dove espose chiaramente il suo programma, procurandosi subito una certa ostilità nell'ambiente accademico di formazione aristotelica. Il metodo che sigue e quello di far dipendere quel che si dice da quel che si è detto, senza mai supporre come vero quello che si deve spiegare. Questo metodo me l'hanno insegnato i miei matematici, mentre non è abbastanza osservato da certi filosofi quando insegnano elementi fisici. Per conseguenza quelli che imparano, non sanno mai le cose dalle loro cause, ma le credono solamente per fede, cioè perché le ha dette Aristotele. Se poi sarà vero quello che ha detto Aristotele, sono pochi quelli che indagano; basta loro essere ritenuti più dotti perché hanno per le mani maggior numero di testi aristotelici [...] che una tesi sia contraria all'opinione di molti, non m'importa affatto, purché corrisponda alla esperienza e alla ragione”. Frutto dell'insegnamento pisano è “De motu antiquiora”, che raccoglie una serie di lezioni nelle quali egli cerca di dar conto del problema del movimento. Base delle sue ricerche è il trattato, pubblicato a Torino, “Diversarum speculationum mathematicarum liber d Benedetti, uno dei fisici sostenitori della teoria dell'impeto come causa del moto violento. Benché non si sapesse definire la natura dell’impeto impresso a un corpo, questa teoria, elaborata da  Filopono e poi sostenuta dai fisici parigini, pur non essendo in grado di risolvere il problema, si opponeva alla tradizionale spiegazione aristotelica del movimento come prodotto del mezzo nel quale il corpo animato stesso si muove. A Pisa Galilei non si limitò alle sole occupazioni scientifiche: risalgono infatti a questo periodo le sue “Considerazioni sul Tasso” che avrebbero avuto un seguito con le Postille all'Ariosto. Si tratta di note sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi volumi della Gerusalemme e dell'Orlando furioso dove, mentre rimprovera al Tasso la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico di questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del fantasma poetico. La morte del padre lo lasciando l'onere di mantenere tutta la famiglia: per il matrimonio della sorella Virginia, dovette provvedere alla dote, contraendo dei debiti, così come avrebbe poi dovuto fare per le nozze della sorella Livia con Galletti, e altri denari avrebbe dovuto spendere per soccorrere le necessità della numerosa famiglia del fratello Michelangelo. Del Monte intervenne ad aiutare nuovamente, raccomandandolo al prestigioso Studio di Padova, dove era ancora vacante una catedra dopo la morte di Moleti. Le autorità della Repubblica di Venezia emanarono il decreto di nomina, con un contratto, prorogabile, di quattro anni e con uno stipendio di 180 fiorini l'anno. Tenne a Padova il discorso introduttivo e dopo pochi giorni cominciò un corso destinato ad avere un grande seguito presso gli studenti. Vi sarebbe restato per diciotto anni, che avrebbe definito «li diciotto anni migliori di tutta la mia età. Arriva a Venezia solo pochi mesi dopo l'arresto di Bruno a Venezia. Nel dinamico ambiente di Padova (risultato anche del clima di relativa tolleranza religiosa garantito dalla Repubblica veneziana),  intrattenne rapporti cordiali anche con personalità di orientamento filosofico lontano dal suo, come Cremonini, filosofo rigorosamente aristotelico. Frequenta anche i circoli colti e gli ambienti senatoriali di Venezia, dove strinse amicizia con Sagredo, che Galilei rese protagonista del suo Dialogo sopra i massimi sistemi, e Sarpi, esperto di semiotica. È contenuta proprio nella lettera  al frate servita la formulazione della legge sulla caduta dei gravi. Gli spazii passati dal moto naturale esser in proportione doppia dei tempi, e per conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come ab unitate, et le altre cose. Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto. Galileo tiene a Padova lezioni di meccanica: il suo “Trattato di meccaniche” dovrebbe essere il risultato dei suoi corsi, che avevano avuto origine dalle “Questioni meccaniche” di Aristotele.  A Padova Galileo attrezza con l'aiuto di un artigiano che abitava nella sua stessa casa, una officina nella quale eseguiva esperimenti e fabbricava strumenti che vendeva per arrotondare lo stipendio. Perla macchina per portare l'acqua a livelli più alti ottenne dal Senato veneto un brevetto ventennale per la sua utilizzazione pubblica. Da anche lezioni private e ottenne aumenti di stipendio: dai 320 fiorini percepiti annualmente passa ai 1.000.  Una nuova stella fu osservata d’Altobelli, il quale ne informò Galilei. Luminosissima, fu osservata successivamente anche da Keplero, che ne fece oggetto di uno studio, il De Stella nova in pede Serpentarii. Su quel fenomeno astronomico Galileo tenne tre lezioni, il cui testo non ci è noto, ma contro le sue argomentazioni scrisse un opuscolo Lorenzini, sedicente aristotelico originario di Montepulciano,su suggerimento di Cremonini, e intervenne a sua volta con un opuscolo anche Capra. Interpreta il fenomeno della ‘nuova stella’ come prova della mutabilità dei cieli, sulla base del fatto che, non presentando la "nuova stella" alcun cambiamento di parallasse, essa dovesse trovarsi oltre l'orbita della Luna. A favore della tesi si pubblica “Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova. Ronchitti difende la validità del metodo della parallasse per determinare la distanza minima di cose accessibili all'osservatore solo visivamente, quali sono gli astri. Rimane incerta l'attribuzione del dialogo, se cioè sia opera dello stesso Galilei o di Spinelli. Compose due trattati sulla fortificazione, la Breve introduzione all'architettura militare e il Trattato di fortificazione. Fabbricò un compasso, che descrisse in “Le operazioni del compasso geometrico et militare” (Padova). Il compasso era strumento già noto e, in forme e per usi diversi, già utilizzato, né Galileo pretese di attribuirsi particolari meriti per la sua invenzione; ma Capra lo accusa di aver plagiato una sua precedente invenzione. Ribalta le accuse di Capra, ottenendone la condanna da parte dei Riformatori dello Studio padovano e pubblicò una Difesa contro alle calunnie et imposture di Baldessar Capra milanese, dove ritorna anche sulla precedente questione della nuova stella. L'apparizione della nuova stella crea grande sconcerto nella società e Galileo non disdegna di approfittare del momento per elaborare, su commissione, oroscopi personali, al prezzo di 60 lire venete. Peraltro, e messo sotto accusa dall'Inquisizione di Padova a seguito di una denuncia di un suo ex-collaboratore, che lo aveva accusato precisamente di aver effettuato oroscopi e di aver sostenuto che gli astri determinano le scelte dell'uomo. Il procedimento, però, fu energicamente bloccato dal Senato della Repubblica veneta e il dossier dell'istruttoria venne insabbiato, così che di esso non giunse mai alcuna notizia all'Inquisizione romana, ossia al Sant'Uffizio. Il caso venne probabilmente abbandonato anche perché Galileo si era occupato di astrologia natale e non di astrologia pro-gnostica o previsionale.  La sua fama come autore di oroscopi gli portò richieste, e senza dubbio pagamenti più sostanziosi, da parte di cardinali, principi e patrizi, compresi Sagredo, Morosini e qualcuno che si interessava a Sarpi. Scambia lettere con Gualterotti, e, nei casi più difficili, con Brenzoni. Tra i temi natali calcolati e interpretati figurano quelli delle sue due figlie, Virginia e Livia, e il suo proprio, calcolato tre volte. Il fatto che si dedicasse a questa attività anche quando non era pagato per farlo suggerisce che egli vi attribuisse un qualche valore. Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono. (if you see that p, because you want that p). Non sembra che, nella polemica sulla "nuova stella", Galilei si fosse già pubblicamente pronunciato a favore della teoria elio-centrica di Copernico. Si ritiene che egli, pur intimamente convinto copernicano, pensasse di non disporre ancora di prove sufficientemente forti da ottenere invincibilmente l'assenso della universalità dei filosofi. Tuttavia, espressa privatamente la propria adesione al copernicanesimo a Keplero – che aveva pubblicato il suo Prodromus dissertationum cosmographicarum scriveva. Ho già scritto molte argomentazioni e molte confutazioni degli argomenti avversi, ma finora non ho osato pubblicarle, spaventato dal destino dello stesso Copernico, nostro maestro. Questi timori, però, svaniranno proprio grazie al cannocchiale, che Galileo punterà per la prima volta verso il cielo. Di ottica si erano occupati già Porta nella sua Magia naturalis e nel De refractione e Keplero negli Ad Vitellionem paralipomena, opere dalle quali era possibile pervenire alla costruzione del cannocchiale. Lo strumento fu costruito indipendentemente da Lippershey, un ottico tedesco naturalizzato olandese. Galileo decise allora di preparare un tubo di piombo, applicandovi all'estremità due lenti, ambedue con una faccia piena e con l’altra sfericamente concava nella prima lente e convessa nella seconda. Quindi, accostando l’occhio alla lente concava, percepii l’astro abbastanza grande e vicino, in quanto essi apparivano tre volte più prossimi e nove volte maggiori di quel che risultavano guardati con la sola vista naturale. Presenta l'apparecchio come sua costruzione al governo di Venezia che, apprezzando l'invenzione, gli raddoppiò lo stipendio e gli offrì un contratto vitalizio d'insegnamento. L'invenzione, la riscoperta e la ricostruzione del cannocchiale non è un episodio che possa destare grande ammirazione. La novità sta nel fatto che Galileo è il primo a portare questo strumento, usandolo in maniera prettamente logica e concependolo come un potenziamento del sentire – il vedere. La grandezza di Galileo nei riguardi del cannocchiale è stata proprio questa. Supera tutta una serie di ostacoli concettuali (cf. Galileo sees that the star is nice +> without a telescope – I could see the cow from the window) -- utilizzando suddetto strumento per rafforzare le proprie tesi.  Grazie al cannocchiale, Galileo propone una nuova visione del mondo celeste. Giunge alla conclusione che, alle stelle visibili ad occhio nudo, si aggiungono altre innumerevoli stelle mai scorte prima d’ora. L'Universo, dunque, diventa più grande; Non c’è differenza di natura fra la Terra e la Luna. Galileo arreca così un duro colpo alla visione aristotelico-tolemaica geo-centrica del mondo, sostenendo che la superficie della Luna non è affatto liscia e levigata bensì ruvida, rocciosa e costellata di ingenti prominenze. Quindi, tra gli astri, almeno la Luna non possiede i caratteri di assoluta perfezione che ad essa erano attribuiti dalla tradizione. Inoltre, la Luna si muove, e allora perché non dovrebbe muoversi anche la Terra che è simile dal punto di vista della costituzione? Vengono scoperti i un satellite di Giove, che Galileo denomina “la stelle medicea”. Questa consapevolezza l’offre l'insperata visione in cielo di un modello più piccolo dell'universo copernicano. Le scoperte furono pubblicate nel Sidereus Nuncius, una copia del quale Galileo invia a Cosimo II, insieme con un esemplare del suo cannocchiale e la dedica dei quattro satelliti, battezzati da Galileo in un primo tempo Cosmica Sidera e successivamente Medicea Sidera («pianeti medicei»). È evidente l'intenzione di Galileo di guadagnarsi la gratitudine della Casa medicea, molto probabilmente non soltanto ai fini del suo intento di ritornare a Firenze, ma anche per ottenere un'influente protezione in vista della presentazione, di fronte al pubblico degli studiosi, di quelle novità, che certo non avrebbero mancato di sollevare polemiche. Chiede a Vinta, Primo Segretario di Cosimo II, di essere assunto allo Studio di Pisa, precisando. Quanto al titolo et pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di Matematico, che S. A. ci aggiugnesse quello di “filosofo”, professando io di havere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura. Il governo fiorentino comunica a Galileo l'avvenuta assunzione come «Matematico primario dello Studio di Pisa et di” “Filosofo” del Ser.mo Gran Duca, senz'obbligo di leggere e di risiedere né nello Studio né nella città di Pisa, et con lo stipendio di mille scudi l'anno, moneta fiorentin. Galileo firma il contratto e raggiunse Firenze.  Qui giunto si premura di regalare a Ferdinando, figlio del granduca Cosimo, la migliore lente ottica che aveva realizzato nel suo laboratorio organizzato quando era a Padova dove, con l'aiuto dei mastri vetrai di Murano confezionava occhialetti sempre più perfetti e in tale quantità da esportarli, come fece con il cannocchiale mandato all'elettore di Colonia il quale a sua volta lo prestò a Keplero che ne fece buon uso e che, grato, concluse la sua opera Narratio de observatis a se quattuor Jovis satellitibus erronibus, così scrivendo. “Vicisti Galilaee” -- riconoscendo la verità delle scoperte di Galilei. Ferdinando ruppe la lente. Galilei gli regala qualcosa di meno fragile: una calamita armata, cioè fasciata da una lamina di ferro, opportunamente posizionata, che ne aumenta la forza d'attrazione in modo tale che, pur pesando solo sei once, il magnete sollevava quindici libbre di ferro lavorato in forma di sepolcro. In occasione del trasferimento a Firenze lascia la sua convivente, la veneziana Marina Gamba, conosciuta a Padova, dalla quale aveva avuto tre figli: Virginia e Livia, mai legittimate, e Vincenzio, che riconobbe. Affida a Firenze la figlia Livia alla nonna, con la quale già convive l'altra figlia Virginia, e lascia Vincenzio a Padova alle cure della madre e poi, dopo la morte di questa, a Bartoluzzi.  In seguito, resasi difficile la convivenza delle due bambine con Ammannati, Galileo fece entrare le figlie nel convento di San Matteo, ad Arcetri (Firenze), costringendole a prendere i voti non appena compiuti i rituali sedici anni. Virginia assunse il nome di suor Maria Celeste, e Livia quello di suor Arcangela, e mentre Virginia Galilei si rassegna alla sua condizione e rimase in contatto epistolare con il padre, Livia non accetta mai l'imposizione. La pubblicazione del Sidereus Nuncius suscita apprezzamenti ma anche diverse polemiche. Oltre all'accusa di essersi impossessato, con il cannocchiale, di una scoperta che non gli apparteneva, fu messa in dubbio anche la realtà di quanto egli asseriva di aver scoperto. Sia Cremonini, sia Magini, che sarebbe l'ispiratore del libello “Brevissima peregrinatio contra Nuncium Sidereum” da Horký, pur accogliendo l'invito di Galilei a guardare attraverso il telescopio che egli aveva costruito, ritennero di *non* vedere alcun supposto satellite di Giove.  Solo più tardi Magini si ricredette e con lui anche Clavius, che aveva ritenuto che i satelliti di Giove individuati da Galilei fossero soltanto un'”illusione” prodotta non direttamente dal corpo di Galileo mai dalla lente del telescopio. Quest’obiezione e difficilmente confutabile. Conseguente sia alla bassa qualità del sistema ottico del primo telescopio, sia all'ipotesi che la lente potessero deformer la vision natural all’occhio nudo. Un appoggio molto importante fu dato a Galileo da Keplero, che, dopo un iniziale scetticismo e una volta costruito un telescopio sufficientemente efficiente, verifica l'esistenza effettiva dei satelliti di Giove, pubblicando a Francoforte la “Narratio de observatis a se quattuor Jovis satellitibus erronibus quos Galilaeus Galilaeus mathematicus florentinus jure inventionis Medicaea sidera nuncupavit”. Poiché i gesuiti del Collegio Romano sono considerati tra le maggiori autorità scientifiche del tempo, si recò a Roma per presentare le sue scoperte. Fu accolto con tutti gli onori da Paolo V e da Cesi, che lo iscrisse nei Lincei. Galileo scrive a Vinta che i gesuiti avendo finalmente conosciuta la verità dei nuovi Pianeti Medicei, ne hanno fatte da due mesi in qua continue osservazioni, le quali vanno proseguendo; e le aviamo “riscontrate con le mie” e si rispondano giustissime. Però, a quel tempo non sapeva ancora che l'entusiasmo con il quale anda diffondendo e difendendo le proprie scoperte e teorie suscita resistenze e sospetti precisamente in ambito ecclesiastico.  Bellarmino incarica i matematici vaticani di approntargli una relazione sulle nuove scoperte fatte da un valente matematico per mezo d'un istrumento chiamato cannone overo ochiale e la Congregazione del Santo Uffizio precauzionalmente chiese all'Inquisizione di Padova se fosse mai stato aperto, in sede locale, qualche procedimento a carico di Galilei. Evidentemente, la Curia Romana comincia già a intravedere quali conseguenze avrebbero potuto avere questi singolari sviluppi della filosofia sulla concezione generale del mondo e quindi, indirettamente, sui sacri principi del cristanensimo. Scrisse il Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua, o che in quella si muovono, nel quale appoggiandosi alla teoria di Archimede dimostra, contro Aristotele, che i corpi galleggiano o affondano nell'acqua a seconda del loro peso specifico non della loro forma, provocando la polemica risposta del Discorso apologetico d'intorno al Discorso di Galileo Galilei di Colombe. Al Pitti, presenti il granduca, la granduchessa Cristina e Barberini, allora suo grande ammiratore, diede una pubblica dimostrazione sperimentale dell'assunto, confutando definitivamente Colombe.  Galilei accenna anche alle macchie solari, che sosteniene di aver già osservate a Padova, senza però darne notizia: scrisse ancora, l'Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, pubblicata a Roma dall'Accademia dei Lincei, in risposta a tre lettere di Scheiner che, indirizzate a Welser, duumviro di Augusta, mecenate delle scienze e amico dei Gesuiti dei quali era banchiere. A parte la questione della priorità della scoperta, Scheiner sosteneva erroneamente che le macchie consistevano in sciami di astri rotanti intorno al Sole, mentre Galileo le considerava materia fluida appartenente alla superficie del Sole e ruotante intorno ad esso proprio a causa della rotazione stessa della stella.  L'osservazione delle macchie consentì, quindi, a Galileo la determinazione del periodo di rotazione del Sole e la dimostrazione che il cielo e la terra non erano due mondi radicalmente diversi, il primo solo perfezione e immutabilità e il secondo tutto variabile e imperfetto. Infatti, ribadì a Federico Cesi la sua visione copernicana scrivendo come il Sole si rivolgesse «in sé stesso in un mese lunare con rivoluzione simile all'altre de i pianeti, cioè da ponente verso levante intorno a i poli dell'eclittica: la quale novità dubito che voglia essere il funerale o più tosto l'estremo e ultimo giudizio della pseudofilosofia, essendosi già veduti segni nelle stelle, nella luna e nel sole; e sto aspettando di veder scaturire gran cose dal Peripato per mantenimento della immutabilità de i cieli, la quale non so dove potrà esser salvata e celata». Anche l'osservazione del moto di rotazione del Sole e dei pianeti era molto importante: rendeva meno inverosimile la rotazione terrestre, a causa della quale la velocità di un punto all'equatore sarebbe di circa 1700 km/h anche se la Terra fosse immobile nello spazio. La scoperta delle fasi di Venere e di Mercurio, osservate da Galileo, non era compatibile col modello geocentrico di Tolomeo, ma solo con quello geo-eliocentrico di Tycho Brahe, che Galileo non prese mai in considerazione, e con quello eliocentrico di Copernico. Galileo, scrivendo a Giuliano de' Medici il 1º gennaio 1611, affermava che «Venere necessarissimamente si volge intorno al sole, come anche Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da tutti i Pittagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente[N 36] provata, come ora in Venere e in Mercurio». Difese il modello eliocentrico e chiarì la sua concezione della scienza in quattro lettere private, note come "lettere copernicane" e indirizzate a padre Benedetto Castelli, due a monsignor Pietro Dini, una alla granduchessa madre Cristina di Lorena.  L'horror vacui Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Vuoto (filosofia). Secondo la dottrina aristotelica in natura il vuoto non esiste poiché ogni corpo terreno o celeste occupa uno spazio che fa parte del corpo stesso. Senza corpo non c'è spazio e senza spazio non esiste corpo. Sostiene Aristotele che "la natura rifugge il vuoto" (natura abhorret a vacuo), e perciò lo riempie costantemente; ogni gas o liquido tenta sempre di riempire ogni spazio, evitando di lasciarne porzioni vuote. Un'eccezione però a questa teoria era l'esperienza per la quale si osservava che l'acqua aspirata in un tubo non lo riempiva del tutto ma ne rimaneva inspiegabilmente una parte che si riteneva fosse del tutto vuota e perciò dovesse essere colmata dalla Natura; ma questo non si verificava. Galilei rispondendo a una lettera inviatagli nel 1630 da un cittadino ligure Giovan Battista Baliani confermò questo fenomeno sostenendo che «la ripugnanza del vuoto da parte della Natura» può essere vinta, ma parzialmente, e che, anzi, «lui stesso ha provato che è impossibile far salire l’acqua per aspirazione per un dislivello superiore a 18 braccia, circa 10 metri e mezzo. Galilei quindi crede che l'horror vacui sia limitato e non si chiede se in effetti il fenomeno fosse collegato al peso dell'aria, come dimostrerà Evangelista Torricelli.  La disputa con la Chiesa Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Disputa tra Galileo Galilei e la Chiesa. La denuncia del domenicano Tommaso Caccini. Il cardinale Roberto Bellarmino Il 21 dicembre 1614, dal pulpito di Santa Maria Novella a Firenze il frate domenicano Tommaso Caccini lanciava contro certi matematici moderni, e in particolare contro Galileo, l'accusa di contraddire le Sacre Scritture con le loro concezioni astronomiche ispirate alle teorie copernicane. Giunto a Roma, il 20 marzo 1615, Caccini denunciò Galileo in quanto sostenitore del moto della Terra intorno al Sole. Intanto a Napoli era stato pubblicato il libro del teologo carmelitano Paolo Antonio Foscarini, la Lettera sopra l'opinione de' Pittagorici e del Copernico, dedicata a Galileo, a Keplero e a tutti gli accademici dei Lincei, che intendeva accordare i passi biblici con la teoria copernicana interpretandoli «in modo tale che non gli contradicano affatto». Bellarmino, già giudice nel processo di Giordano Bruno, tuttavia affermava che sarebbe stato possibile reinterpretare i passi della Scrittura che contraddicevano l'eliocentrismo solo in presenza di una vera dimostrazione di esso e, non accettando le argomentazioni di Galileo, aggiungeva che finora non gliene era stata mostrata nessuna, e sosteneva che comunque, in caso di dubbio, si dovessero preferire le sacre scritture.  L'anno dopo il Foscarini verrà, per breve tempo, incarcerato e la sua Lettera proibita. Intanto il Sant'Uffizio stabilì, il 25 novembre 1615, di procedere all'esame delle Lettere sulle macchie solari e Galileo decise di venire a Roma per difendersi personalmente, appoggiato dal granduca Cosimo: «Viene a Roma il Galileo matematico» – scriveva Cosimo II al cardinale Scipione Borghese – «et viene spontaneamente per dar conto di sé di alcune imputazioni, o più tosto calunnie, che gli sono state apposte da' suoi emuli».  Il papa ordinò a Bellarmino di convocare Galileo e di ammonirlo di abbandonare la suddetta opinione; e se si fosse rifiutato di obbedire, il Padre Commissario, davanti a un notaio e a testimoni, di fargli precetto di abbandonare del tutto quella dottrina e di non insegnarla, non difenderla e non trattarla». Il cardinale Bellarmino diede comunque a Galileo una dichiarazione in cui venivano negate abiure ma in cui si ribadiva la proibizione di sostenere le tesi copernicane: forse gli onori e le cortesie ricevute malgrado tutto, fecero cadere Galileo nell'illusione che a lui fosse permesso quello che ad altri era vietato. Comparvero nel cielo tre comete, fatto che attirò l'attenzione e stimolò gli studi degli astronomi di tutta Europa. Fra essi il gesuita Orazio Grassi, matematico del Collegio Romano, tenne con successo una lezione che ebbe vasta eco, la Disputatio astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII: con essa, sulla base di alcune osservazioni dirette e di un procedimento logico-scolastico, egli sosteneva l'ipotesi che le comete fossero corpi situati oltre al «cielo della Luna» e la utilizzava per avvalorare il modello di Tycho Brahe, secondo il quale la Terra è posta al centro dell'universo, con gli altri pianeti in orbita invece intorno al Sole, contro l'ipotesi eliocentrica.  Galilei decise di replicare per difendere la validità del modello copernicano. Rispose in modo indiretto, attraverso lo scritto Discorso delle comete di un suo amico e discepolo, Mario Guiducci, ma in cui la mano del maestro era probabilmente presente. Nella sua replica Guiducci sosteneva erroneamente che le comete non erano oggetti celesti, ma puri effetti ottici prodotti dalla luce solare su vapori elevatisi dalla Terra, ma indicava anche le contraddizioni del ragionamento di Grassi e le sue erronee deduzioni dalle osservazioni delle comete con il cannocchiale. Il gesuita rispose con uno scritto intitolato Libra astronomica ac philosophica, firmato con lo pseudonimo anagrammatico di Lotario Sarsi, attaccava direttamente Galilei e il copernicanesimo.  Galilei a questo punto rispose direttamente: fu pronto il trattato Il Saggiatore. Scritto in forma di lettera, fu approvato dagli accademici dei Lincei e stampato a Roma. Dopo la morte di papa Gregorio XV, con il nome di Urbano VIII saliva al soglio pontificioBarberini, da anni amico ed estimatore di Galileo. Questo convinse erroneamente Galileo che risorge la speranza, quella speranza che era ormai quasi del tutto sepolta. Siamo sul punto di assistere al ritorno del prezioso sapere dal lungo esilio a cui era stato costrett, come scritto al nipote del papa Francesco Barberini. Galileo resenta una teoria rivelatasi successivamente erronea delle comete come apparenze dovute ai raggi solari. In effetti, la formazione della chioma e della coda delle comete, dipendono dall'esposizione e dalla direzione delle radiazioni solari, dunque Galilei non aveva tutti i torti e Grassi ragione, il quale essendo avverso alla teoria copernicana, non poteva che avere un'idea sui generis dei corpi celesti. La differenza tra le argomentazioni di Grassi e quella di Galileo era tuttavia soprattutto di metodo, in quanto il secondo basava i propri ragionamenti sulle esperienze. Galileo scrisse infatti la celebre metafora secondo la quale la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi “(io dico l'universo)” mettendosi in contrasto con Grassi che si richiamava all'autorità dei maestri del passato e di Aristotele per l'accertamento della verità sulle questioni naturali.  Giunse a Roma per rendere omaggio al papa e strappargli la concessione della tolleranza della Chiesa nei confronti del sistema copernicano, ma nelle sei udienze concessegli da Urbano VIII non ottenne da questi alcun impegno preciso in tal senso. Senza nessuna assicurazione ma con il vago incoraggiamento che gli veniva dall'esser stato onorato da papa Urbano – che concesse una pensione al figlio Vincenzio – Galileo ritenne di poter rispondere finalmente, nel settembre del 1624, alla Disputatio di Francesco Ingoli. Reso formale omaggio all'ortodossia cattolica, nella sua risposta Galileo dovrà confutare le argomentazioni anticopernicane dell'Ingoli senza proporre quel modello astronomico, né rispondere alle argomentazioni teologiche. Nella Lettera Galileo enuncia per la prima volta quello che sarà chiamato il principio della relatività galileiana: alla comune obiezione portata dai sostenitori della immobilità della Terra, consistente nell'osservazione che i gravi cadono perpendicolarmente sulla superficie terrestre, anziché obliquamente, come apparentemente dovrebbe avvenire se la Terra si muovesse, Galileo risponde portando l'esperienza della nave nella quale, sia essa in movimento uniforme o sia ferma, i fenomeni di caduta o, in generale, dei moti dei corpi in essa contenuti, si verificano esattamente nello stesso modo, perché «il moto universale della nave, essendo comunicato all'aria ed a tutte quelle cose che in essa vengono contenute, e non essendo contrario alla naturale inclinazione di quelle, in loro indelebilmente si conserva».[65]  Dialogo Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Galilei comincia il suo nuovo lavoro, un Dialogo che, confrontando le diverse opinioni degli interlocutori, gli avrebbe consentito di esporre le varie teorie correnti sulla cosmologia, e dunque anche quella copernicana, senza mostrare di impegnarsi personalmente a favore di nessuna di esse. Ragioni di salute e familiari prolungarono la stesura dell'opera. Dovette prendersi cura della numerosa famiglia del fratello Michelangelo, mentre il figlio Vincenzio, laureatosi in legge a Pisa si sposa con Sestilia Bocchineri, sorella di Geri Bocchineri, uno dei segretari del duca Ferdinando, e di Alessandra. Per esaudire il desiderio della figlia Maria Celeste, monaca ad Arcetri, di averlo più vicino, affitta vicino al convento il villino «Il Gioiello». Dopo non poche vicissitudini per ottenere l'imprimatur ecclesiastico, l'opera venne pubblicata.  Nel Dialogo i due massimi sistemi messi a confronto sono quello geo-centrico e quello elio-centrico. Tre sono i protagonisti: due sono personaggi reali, amici di Galileo, Salviati e Sagredo, nello cui palazzo si fingono tenute la conversazione. Il terzo protagonista è ‘Simplicio,’ un commentatore di Aristotele, oltre a sottintendere il suo semplicismo scientifico. Simplicio è il sostenitore del sistema geo-centrico, mentre l'opposizione elio-centrica è sostenuta da Salviati e Sagredo. Il Dialogo ricevette molti elogi, ma si diffusero le voci di una proibizione. Riccardi scrive ad Egidi che per ordine del Papa il “Dialogo” non doveva più essere diffuso. Gli chiedeva di rintracciare le copie già vendute e di sequestrarle. Il Papa adirato accusa Galileo di aver raggirato i ministri che avevano autorizzato la pubblicazione. L’Inquisizione romana sollecita quella fiorentina perché notificasse a Galileo l'ordine di comparire a Roma entro il mese di ottobre davanti al Commissario generale del Sant'Uffizio. Galileo, in parte perché malato, in parte perché spera che la questione potesse aggiustarsi in qualche modo senza l'apertura del processo, ritarda per tre mesi la partenza; di fronte alla minacciosa insistenza del Sant'Uffizio, parte per Roma in lettiga.  Il processo comincia con il primo interrogatorio di Galileo, al quale Maculano contesta di aver ricevuto un precetto con il quale Bellarmino gli avrebbe intimato di abbandonare la teoria elio-centrica, di non sostenerla in nessun modo e di non insegnarla. Nell'interrogatorio Galileo nega di aver avuto conoscenza del precetto e sostenne di non ricordare che nella dichiarazione di Bellarmino vi fossero le parole “quovis modo” (in qualsiasi modo) e “nec docere” (non insegnare). Incalzato dall'inquisitore, Galileo non solo ammise di non avere detto cosa alcuna del sodetto precetto, ma anzi arriva a sostenere che nel detto Dialogo mostra il contrario di detta opinione del Copernico, e che le ragioni di Copernico sono invalide e non concludenti. Concluso il primo interrogatorio, Galileo fu trattenuto, pur sotto strettissima sorveglianza, in tre stanze del palazzo dell'Inquisizione, con ampia e libera facoltà di passeggiare. Il giorno successivo all'ultimo interrogatorio, nella sala capitolare del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, presente e inginocchiato Galileo, fu emessa la sentenza dai inquisitori generali contro l'eretica pravità, nella quale si riassume la lunga vicenda del contrasto fra Galileo e il cristanesimo, cominciata con lo scritto Delle macchie solari e l'opposizione dei cristiani al modello Copernicano. Nella sentenza si sostiene poi che il documento fosse un'effettiva ammonizione a non difendere o insegnare la teoria copernicana.  Imposta l'abiura con cuor sincero e fede non finta e proibito il Dialogo, e condannato al carcere formale ad arbitrio nostro e alla pena salutare della recita settimanale dei sette salmi penitenziali per tre anni, riservandosi l'Inquisizione di moderare, mutare o levar in tutto o parte le pene e le penitenze. Se la leggenda della frase di Galileo, «E pur si muove», pronunciata appena dopo l'abiura, serve a suggerire la sua intatta convinzione della validità del modello copernicano, la conclusione del processo segna la sconfitta del suo programma di diffusione della filosofia, fondata sull'osservazione rigorosa dei fatti e sulla loro verifica sperimentale – contro il cristenesimo che produce esperienze come fatte e rispondenti al suo bisogno senza averle mai né fatte né osservate – e contro i pregiudizi del senso comune, che spesso induce a ritenere reale qualunque apparenza: una filosofia che insegna a non aver più fiducia nell'autorità, nella tradizione e nel senso commune e che vuole insegnare a pensare. La sentenza di condanna prevedeva un periodo di carcere a discrezione del Sant'Uffizio e l'obbligo di recitare per tre anni, una volta alla settimana, i salmi penitenziali. Il rigore letterale fu mitigato nei fatti. La prigionia consistette nel soggiorno coatto per cinque mesi presso Palazzo Niccolini, a Trinità dei Monti e di qui, in Palazzo Piccolomini a Siena. Quanto ai salmi penitenziali, Galileo incarica di recitarli, con il consenso della Chiesa, la figlia Livia, suora di clausura. Piccolomini favore Galileo, permettendogli di incontrare personalità della città e di dibattere questioni scientifiche. A seguito di una lettera che denunci l'operato, il Sant'Uffizio provvide, accogliendo una stessa richiesta avanzata in precedenza da Galilei, a confinarlo nell'isolata villa del Gioiello, che possede nella campagna di Arcetri. Si l’intima di stare da solo, di non chiamare ne di ricevere alcuno, per il tempo ad arbitrio di Sua Santita. Solo i familiari poaaono fargli visita, dietro preventiva autorizzazione: anche per questo motivo gli fu particolarmente dolorosa la morte di Livia. Poté tuttavia mantenere corrispondenza con amici ed estimatori: a Diodati consolandosi delle sue sventure che l'invidia e la malignità “mi hanno machinato contro” con la considerazione che l'infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più sublime grado dell'ignoranza. Da Diodati seppe della versione in latino che Bernegger anda facendo a Strasburgo del suo Dialogo e gli riferì di Rocco, purissimo peripatetico, e remotissimo dall'intender nulla di filosofia che scrive a Venezia mordacità e contumelie contro di lui. Questa, e altre lettere, dimostrano quanto poco Galileo avesse rinnegato le proprie convinzioni copernicane.  Dopo il processo scrive e pubblica “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti la mecanica e i moti locali”, organizzato come un dialogo che si svolge in quattro giornate fra i tre medesimi protagonisti del precedente Dialogo dei massimi sistemi: Sagredo, Salviati e Simplicio. Nella prima giornata si tratta della resistenza dei materiali. La diversa resistenza deve essere legata alla struttura della particolare materia e Galileo, pur senza pretendere di pervenire a una spiegazione del problema, affronta l'interpretazione atomistica di Democrito, considerandola un'ipotesi capace di rendere conto di fenomeni fisici. In particolare, la possibilità dell'esistenza del vuoto – prevista da Democrito – viene ritenuta una seria ipotesi scientifica e nel vuoto – ossia nell'inesistenza di un qualunque mezzo in grado di opporre resistenza – Galileo sostiene giustamente che tutte le cose discendeno con eguale velocità, in opposizione con Aristotele che ritiene l'impossibilità concettuale di un moto in un vuoto.  Dopo aver trattato della statica e della leva nella seconda giornata, nella terza e nella quarta si occupa della dinamica, stabilendo le leggi del moto uniforme, del moto naturalmente accelerato e del moto uniformemente accelerato e delle oscillazioni del pendolo. Intraprende corrispondenza con Bocchineri. La famiglia Bocchineri di Prato aveva dato una giovane, di nome Sestilia, sorella di Alessandra, per moglie al figlio di Galilei, Vincenzio.  Quando Galilei incontra Bocchineri, questa è una donna che si è affinata e ha coltivato la sua intelligenza, sposa di Buonamici, un importante diplomatico che diventerà buon amico di Galilei.  Bocchineri e Galilei si scambiano numerosi inviti per incontrarsi e Galilei non manca di elogiare l'intelligenza di Bocchineri dato che sì rare si trovano donne che tanto sensatamente discorrino come ella fa. Con la cecità e l'aggravarsi delle condizioni di salute è costretto talvolta a rifiutare gli invite NON *SOLO* per le molte indisposizioni che mi tengono oppresso in questa mia gravissima età, ma perché son ritenuto ancora in carcere, per quelle cause che benissimo son note. L'ultima lettera mandata  di "non volontaria brevità". «Vide / sotto l'etereo padiglion rotarsi / più mondi, e il Sole irradïarli immoto, onde all'Anglo che tanta ala vi stese / sgombrò primo le vie del firmamento. E tumulato nella Basilica di Santa Croce a Firenze. Il Cristenesimo mantenne la sorveglianza anche nei confronti degli allievi. Quando i seguaci diedero vita al Cimento, esso intervenne presso il Granduca, e il Cimento e sciolto. Convinto della correttezza della cosmologia copernicana, Galileo era ben consapevole che essa fosse ritenuta in contraddizione con il testo cristiano che sostenevano invece una concezione geocentrica dell'universo. Il cristanesimo considera le Sacre Scritture ispirate dallo Spirito Santo, la teoria eliocentrica poteva essere accettata, fino a prova contraria, soltanto come semplice ipotesi (“ex supposition”) o modello matematico, senza alcuna attinenza con la reale posizione dei corpi celesti. Proprio a questa condizione il “De revolutionibus orbium coelestium” di Copernico non e condannato dalle autorità ecclesiastiche e menzionato nell'Indice dei libri proibiti. Galileo si inserì nel dibattito sul rapporto fra scienza e fede con la lettera a Castelli. Difese il modello copernicano sostenendo che esistono *due* verità necessariamente non in contraddizione o in conflitto fra loro. La Bibbia è certamente un testo sacro di ispirazione divina e dello Spirito Santo, ma comunque scritto in un preciso momento storico con lo scopo di orientare il lettore verso la comprensione della vera religione. Per questa ragione, come già avevano sostenuto molti esegeti tra i quali *Lutero* e Keplero, i fatti della Bibbia sono stati necessariamente scritti in modo tale da poter essere compresi anche dagli antichi e dalla gente comune. Occorre quindi discernere, come già sostenuto da Agostino, il messaggio propriamente basato nella fede dalla descrizione, storicamente connotata ed inevitabilmente narrativa e didascalica, di fatti, episodi e personaggi. Dal che seguita, che qualunque volta alcuno, nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono litterale, splicito, potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contraddizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora. Poi che sarebbe necessario dare a Dio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti di un corpora quasi-umanio, come d'ira, di pentimento, d'odio ed anco tal volta la dimenticanza delle cose passate e l'ignoranza delle future.” Lettera alla granduchessa di Toscana. Il noto episodio biblico della richiesta di Giosuè a Dio di fermare il Sole per prolungare il giorno era usato in ambito ecclesiastico a sostegno del sistema geo-centrico. Galileo sostenne invece che in quel modo il giorno non si sarebbe allungato, in quanto nel sistema  geo-centrio la rotazione diurna (giorno/notte) non dipende dal Sole, ma dalla rotazione del Primum Mobile. La Bibbia deve essere re-interpretata e bisogna “alterar” il “senso” delle parole, e dire che quando la Scrittura dice che Dio ferma il Sole, voleva dire che ferma 'l primo mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a fatica idonei a intender il nascere e 'l tramontar del Sole, lo Spirito Santo dice al contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati. Nel sistema elio-centrico la rotazione del Sole sul proprio asse provoca sia la rivoluzione della Terra attorno al Sole, sia la rotazione diurna (giorno/notte) della Terra attorno all'asse terrestre. Quindi l'episodio biblico ci mostra manifestamente la falsità e impossibilità del mondano sistema aristotelico e Tolemaico, e all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano.. Infatti se Dio avesse fermato il Sole assecondando la richiesta di Giosuè, ne avrebbe necessariamente bloccato la rotazione assiale (unico suo movimento previsto nel sistema copernicano), provocando di conseguenza - secondo Galileo - l'arresto sia della (ininfluente) rivoluzione annuale, sia della rotazione terrestre diurna prolungando quindi la durata del giorno. A questo proposito, è interessante la critica proposta da Koestler, in cui sostiene che Galileo sape meglio di chiunque altro che se la terra si fermasse bruscamente, montagne, case, città, crollerebbero come un castello di carte. Il più ignorante dei frati, senza sapere nulla del momento di inerzia, sape benissimo quel che succedeva quando i cavalli e la carrozza frenavano di colpo o quando una nave finiva contro gli scogli. Se si interpreta la Bibbia secondo Tolomeo, il brusco arresto del Sole non aveva effetti fisici degni di nota e il miracolo rimaneva credibile al pari di qualsiasi altro miracolo. In base all'interpretazione di Galileo, Giosuè avrebbe distrutto non soltanto gli Amorrei, ma la terra intera! Sperando di far passare queste sciocchezze penose, Galileo rivela il suo disprezzo per gli avversari. Fece analoghe considerazioni in lettere a Dini, le quali destarono preoccupazione negli ambienti conservatori per le idee innovative, il carattere polemico e l'ardimento coi quali Galilei sostene che alcuni passi della Bibbia dovessero venir re-interpretati alla luce del sistema copernicano. Le Sacre Scritture si occupano di Dio. La filosofia naturale, che fa indagini sulla Natura si fondarsi su «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni». La Bibbia e la Natura non possono contraddirsi perché derivano entrambe da Dio. Di conseguenza, in caso di discordia apparente, non sarà la scienza a dover fare un passo indietro, bensì gli interpreti del testo sacro che dovranno cercare al di là del “significato” splicito superficiale (explicatura). Le Sacre Scritture sono conforme soltanto "al comun modo del volgo", ossia si adatta non già alle competenze degli "intendenti", ma ai limiti conoscitivi dell'uomo comune, velando così con una sorta di “allegoria” il “senso più profondo” di un enunciato.. Se il “messaggio” “letterale” diverge da un enunciato del filosofo naturale, non lo può mai il suo “contenuto” "recondito" e più autentico, ricavabile dall'interpretazione delle Sacre Scriture oltre i suoi “significato” più epidermico. Circa il rapporto tra filosofia e la rivelazione, celebre è la sua frase: «intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l'*intenzione* dello Spirito Santo essere d'*in-segn-arci* come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo», usualmente attribuita Baronio. Si noti che, applicando tale criterio, Galileo non avrebbe potuto usare il passo biblico di Giosuè per cercare di dimostrare un presunto accordo tra testo sacro e sistema copernicano o la supposta contraddizione tra la Bibbia e il modello tolemaico. Deriva invece proprio da tale criterio la teoria di Galileo secondo la quale esistono *due* sorgenti di *conoscenza* che sono in grado di rivelare la stessa verità che proviene da Dio. Il primo è le  Sancte Scritture, scritte dal spirito santo in termini comprensibili al "volgo", che ha essenzialmente valore salvifico e di redenzione dell'anima, e richiede quindi un'attenta inter-pretazione delle affermazioni relative ai fenomeni naturali che in essa sono descritti. Il secondo è questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), scritto in simboli», che va letto (decifrato) secondo la ragione (non la fede) e non va pos-posto alle Sancte Scriture ma, per essere *ben* o corretamente interpretato, deve essere studiato con gli strumenti di cui Dio – nostro genitore -- ci ha dotati: sentire, il giudicare, il discorrire. Nella disputa filosofica di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalla autorità di luoghi delle Sancte Scritture, ma dall’esperienza sensata (a posteriori) e dalla di-mostrazioni necessaria (dall’assiomi, a priori): perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la Natura – la fisi dei grecchi --, quella come ‘dettatura’ (dictature – dettato ed impiegato) dello Spirito Santo, e questa ‘dettatura’ come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio, nostro genitore.” La filosofia – regina scientiarum – La ‘materia’ della filosofia la rende d'importanza primaria (metafisica come filosofia prima, filosofia naturale come filosofia seconda. La flosofia non pretendere di pronunciare giudizi su una verità specifica (la porta e chiusa). Al contrario, se una certa esperienza non si accorda con un assioma, allora e quest’assioma che deve essere ri-letti alla luce della experienza. Non vi può essere, in definitiva, dis-accordo tra ragione ed experienza, essendo, per definizione, entrambe vere. Ma, in caso di *apparente* contraddizione su un fenomeno naturale, occorre modificare l'interpretazione dell’assioma per adeguarla all’esperienza.  Aristotele – con il suo geo-centrimo -- non differe sostanzialmente da Galileo. Aristotele ammetteva la necessità di rivedere l'interpretazione dell’esperienza. Ma nel caso del sistema elio-centrico, Bellarmino sostenne, ragionevolmente, che non vi fossero una prova conclusive a suo favore. Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo (o nostro sistema pianetario) e la terra nel terzo cielo, e che il sole (elio) non circonda la terra (gea), ma la terra circonda il sole, allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che “non l'intendiamo” – cf. Grice on metaphor and ‘My neighbour’s three-year old is an adult”), che dire che sia “falso” (‘You’re the cream in my coffee”, “My neighbour’s three-year old understands Russell’s Theory of Types”) quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata. L’ esperienzia di visione – osservazione -- con gli strumenti allora disponibili, della parallasse stellare (che si sarebbe dovuta riscontrare come l’effetto dello spostamento della Terra rispetto al cielo delle stelle fisse) costituiva invece evidenza contraria alla teoria elio-centrica. In tale contesto, Aristotele ammetteva quindi che si parlasse di una teoria o ipotesi o modello elio-centrico solo “ex suppositione” (come ipotesi matematica geometrica o aritmetica). La difesa di Galileo ex professo (con cognizione di causa e competenza, di proposito e intenzionalmente) della teoria geo-centrica quale “reale” descrizione fisica del sistema solare e delle orbite dei pianete si scontrò quindi, inevitabilmente, con la posizione ufficiale d’Aristotele. Tale contrapposizione sfociò nel processo a Galilei, che si concluse con la condanna per veemente sospetto di eresia" e l'abiura forzata delle sue concezioni astronomiche.  RiAl di là dal giudizio storico, giuridico e morale sulla condanna a Galilei, le questioni di carattere epistemologico filosofico e di “ermeneutica” che furono al centro del processo sono state oggetto di riflessione da parte di Grice. che spesso ha citato la vicenda di Galileo per esemplificare, talora in termini volutamente paradossali, il suo pensiero in merito a tali questioni. Contro Feyerabend, sostenitore di un'anarchia epistemologica, Grice sostenne che Aristotele si attenne alla ragione più che Galilei, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della teoria elio-centrica. La sentenza aristotelica contro Galilei e razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revision. Questa provocazione sarà poi ripresa da Ratzinger, dando luogo a contestazioni da parte dell'opinione pubblica. Ma il vero scopo per cui Grice espresso tale provocatoria affermazione e "solo mostrare la contraddizione di coloro che approvano l’eliocentrismo di Galileo e condannano il geo-centrismo aristotelico, ma poi verso il lavoro dei loro contemporanei sono rigorosi come lo erano gl’aristotelichi ai tempi di Galileo. Nel corso dei secoli che seguirono, l’aristotelismo modifica la propria posizione nei confronti di Galilei. Il Sant'Uffizio concesse l'erezione di un mausoleo in suo onore nella chiesa di Santa Croce in Firenze. Benedetto XIV olse dall'Indice i libri che insegnavano il moto della Terra (“e pur si muove”) con ciò ufficializzando quanto già di fatto aveva fatto Alessandro VII con il ritiro di un dicreto.  La definitiva autorizzazione all'”in-segna-mento” del moto della terra e dell'immobilità del sole arriva con un decreto della Sacra Congregazione dell'inquisizione approvato da Pio VII.  Particolarmente significativo risulta il contributo di Newman, a pochi anni dalla abilitazione dell'insegnamento dell'eliocentrismo e quando le teorie di Newton sulla gravitazione risultavano ormai affermate e provate sperimentalmente. Newman riassume il rapporto dell'elio-centrismo con Aristotele. «Quando il sistema copernicano comincia a diffondersi, quale aristotelico non sarebbe stato tentato dall'inquietudine, o almeno dal timore dello scandalo, per l'apparente contraddizione che esso implicava con una certa autorevole tradizione? Generalmente si accetta che la terra e immobile e che il sole, fissato in un solido firmamento, ruota intorno alla terra. Dopo un po' di tempo, tuttavia, e un'analisi completa, si scoprì che Aristotele non aveva deciso quasi niente su questioni come questa e che la scienza fisica poteva muoversi in questa sfera di pensiero quasi a piacere, senza timore di scontrarsi con l’adagio, “Master dixit””. Newman compie della vicenda Galileo come conferma, e non negazione, di Aristotele. E certamente un fatto molto significativo, considerando con quanta ampiezza e quanto a lungo fosse stata sostenuta dai aristotelichi una certa interpretazione di questa affermazione fisica geo-centrica, che Aristotele non l'abbia formalmente riconosciuta (la teoria del geocentrismo, ndr). Guardando alla questione da un punto di vista umano, e inevitabile che essa dovesse far propria quell'opinione. Ma ora, accertando la nostra posizione rispetto all’esperienza, troviamo che malgrado gli abbondanti commenti che fin dall'inizio essa ha sempre fatto su Aristotele, com'è suo compito e suo diritto fare, tuttavia, è sempre stata indotta a spiegare formalmente Aristotele o a dar loro un senso di autorità che l’esperienza può mettere in discussione. Paolo VI fece avviare la revisione del processo e con l'intento di porre una parola definitiva riguardo a queste polemicheGiovanni Paolo II auspicò che fosse intrapresa una ricerca interdisciplinare sui difficili rapporti di Galileo con la Chiesa e istituì una Commissione per lo studio della controversia tolemaico-copernicana nella quale il caso Galilei si inserisce. Il papa ammise, nel discorso in cui annuncia l'istituzione della commissione, che"Galileo ebbe molto a soffrire, non possiamo nasconderlo, da parte di uomini aristotelichi. Si cancella la condanna e chiarì la sua interpretazione sulla questione teologica scientifica galileiana riconoscendo che la condanna di Galilei fu dovuta all'ostinazione di entrambe le parti nel non voler considerare le rispettive teorie come semplici ipotesi non comprovate sperimentalmente e, d'altra parte, alla mancanza di perspicacia, ovvero di intelligenza e lungimiranza, dei filosofi aristotelichi che lo condannarono, incapaci di riflettere sui propri criteri di interpretazione di Aristotele e responsabili di aver inflitto molte sofferenze a Galilei. Come dichiara Giovanni Paolo II, come la maggior parte dei suoi avversari aristotelichi, Galileo non fa distinzione tra quello che è l'approccio scientifico ai fenomeni naturali e la riflessione sulla natura, di ordine “filosofico”, che esso generalmente richiama. È per questo che Galilei rifiutò il suggerimento che gli era stato dato di presentare come un'ipotesi il sistema di Copernico, fin tanto che esso non fosse confermato da prove irrefutabili. Era quella, peraltro, un'esigenza del metodo sperimentale di cui egli fu l’iniziatore. Il problema che si posero dunque i aristotelichi era quello della compatibilità dell'eliocentrismo e Aristotele. Così l’esperienza, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi suppongono, obbligava gl’aristotelichi ad interrogarsi sui loro criteri di interpretazione di Aristotele. La maggior parte non seppe farlo. Il giudizio pastorale che richiedeva la teoria copernicana e difficile da esprimere nella misura in cui il geocentrismo sembrava far parte dell’insegnamento stesso d’Aristotele. Sarebbe stato necessario contemporaneamente vincere delle abitudini di pensiero e inventare una pedagogia capace di illuminare il popolo. La storia del pensiero scientifico del Medioevo e del Rinascimento, che si comincia ora a comprendere un po' meglio, si può dividere in due periodi, o meglio, perché l'ordine cronologico corrisponde solo molto approssimativamente a questa divisione, si può dividere, grosso modo, in tre fasi o epoche, corrispondenti successivamente a tre differenti correnti di pensiero: prima la fisica aristotelica; poi la fisica dell'impetus, iniziata, come ogni altra cosa, dai Greci ed elaborata dalla corrente dei Nominalisti; e infine la fisica galileiana. Fra le maggiori scoperte che Galilei fece guidato dagli esperimenti, si annoverano un primo approccio fisico alla relatività, poi noto come “relatività galileiana”, la scoperta delle quattro lune principali di Giove, dette appunto “satelliti galileiani” (Io, Europa, “Ganimede” e Callisto), il principio di inerzia, seppur parzialmente.  Compì anche studi sul moto di caduta dei gravi e riflettendo sui moti lungo i piani inclinati scoprì il problema del "tempo minimo" nella caduta dei corpi materiali, e studia varie traiettorie, tra cui la spirale paraboloide e la cicloide.  Nell'ambito delle sue ricerche di matematica – geometria ed aritmetica -- si avvicinò alle proprietà dell'infinito introducendo un celebre paradosso di Galileo. Galilei incoraggiò Cavalieri a sviluppare le idee del maestro e di altri sulla geometria con il metodo degli indivisibili, per determinare aree e volumi: questo metodo rappresentò una tappa fondamentale per l'elaborazione del calcolo infinitesimale. Quando Galilei fece rotolare le sue sfere su di un piano inclinato con un peso scelto da lui stesso, e Torricelli fece sopportare all’aria un peso che egli stesso sapeva già uguale a quello di una colonna d’acqua conosciuta fu una rivelazione luminosa per tutti gli investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che essa deve costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria. Galilei fu uno dei protagonisti della fondazione del metodo scientifico espresso con linguaggio matematico e pose l'esperimento come strumento a base dell'indagine sulle leggi della natura, in contrasto con Aristotele e la sua analisi qualitativa del cosmo. Hanno sin qui la maggior parte dei filosofi creduto che la superficie della luna fosse pulita tersa e assolutissimamente sferica, e se qualcuno disse di credere, che ella fusse aspra e muntuosa fu reputato parlare più presto favolusamente, che filosoficamente. Ora io questa istessa lunare asserisco il primo, non più per immaginazione, ma per sensata esperienza e necessaria dimostrazione, che egli è di superficie piena di innumerevoli cavità ed eminenze, tanto rilevate che di gran lunga superano le terrene montuosità. Già nella lettera a Welser a proposito della polemica sulle macchie solari, Galilei si domandava che cosa l'uomo nella sua ricerca vuole arrivare a conoscere.  «O noi vogliamo specolando tentar di penetrar l'essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d'alcune loro affezioni»  Ed ancora: per conoscenza intendiamo l'arrivare a cogliere i principi primi dei fenomeni o come questi si sviluppano?  «Il tentar l'essenza, l'ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell'intender queste sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de' particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall'uno all'altro. La ricerca dei principi primi essenziali comporta dunque una serie infinita di domande poiché ogni risposta fa nascere una nuova domanda: se noi ci chiedessimo quale sia la sostanza delle nuvole, una prima risposta sarebbe che è il vapore acqueo ma poi dovremo chiederci che cos'è questo fenomeno e dovremo rispondere che è acqua, per chiederci subito dopo che cos'è l'acqua, rispondendo che è quel fluido che scorre nei fiumi ma questa «notizia dell'acqua» è soltanto «più vicina e dependente da più sensi», più ricca di informazioni particolari diverse, ma non ci porta certo la conoscenza della sostanza delle nuvole, della quale sappiamo esattamente quanto prima. Ma se invece vogliamo capire le «affezioni», le caratteristiche particolari dei corpi, potremo conoscerle sia in quei corpi che sono da noi distanti, come le nuvole, sia in quelli più vicini, come l'acqua. Occorre dunque intendere in modo diverso lo studio della natura. «Alcuni severi difensori di ogni minuzia peripatetica», educati nel culto di Aristotele, credono che «il filosofare non sia né possa esser altro che un far gran pratica sopra i testi di Aristotele» che portano come unica prova delle loro teorie. E non volendo «mai sollevar gli occhi da quelle carte» rifiutano di leggere «questo gran libro del mondo» (cioè dall'osservare direttamente i fenomeni), come se «fosse scritto dalla natura per non esser letto da altri che da Aristotele, e che gli occhi suoi avessero a vedere per tutta la sua posterità. Invece i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta.A fondamento del metodo scientifico quindi ci sono il rifiuto dell'essenzialismo e la decisione di cogliere solo l'aspetto quantitativo dei fenomeni nella convinzione di poterli tradurre tramite la misurazione in numeri così che si abbia una conoscenza di tipo matematico, l'unica perfetta per l'uomo che la raggiunge gradatamente tramite il ragionamento così da eguagliare lo stesso perfetto conoscere divino che la possiede interamente e intuitivamente. Però...quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina. Il metodo galileiano si dovrà comporre quindi di due aspetti principali: sensata esperienza, ovvero l'esperimento distinto dalla comune osservazione della natura, che deve infatti seguire a un'attenta formulazione teorica, ovvero a ipotesi (metodo ipotetico-sperimentale) che siano in grado di guidare l'esperienza in modo che essa non fornisca risultati arbitrari. Galileo non ottenne la legge di caduta dei gravi dalla mera osservazione, altrimenti ne avrebbe dedotto che un corpo cade più rapidamente tanto più è pesante (un sasso nell'aria arriva prima a terra di una piuma per via dell'attrito). Studiò invece il moto dei corpi in caduta controllandolo con un piano inclinato, costruendo cioè un esperimento che gli permettesse di ottenere risultati più precisi. Anche l'esperimento mentale può essere un utile strumento di dimostrazione e permise a Galileo di confutare le dottrine aristoteliche sul moto. necessaria dimostrazione, ovvero un'analisi matematica e rigorosa dei risultati dell'esperienza, che sia in grado di trarre da questa risultati universali e ogni conseguenza in modo necessario e non opinabile espressi dalla legge scientifica. In questo modo Galileo concluse che tutti i corpi nel vuoto precipitano con una velocità proporzionale al tempo di caduta, anche se chiaramente non aveva effettuato esperimenti considerando tutti i possibili corpi con differenti forme e materiali. La dimostrazione va ulteriormente verificata, con ulteriori esperienze, ovvero il cosiddetto cimento che è l'esperimento concreto con cui va sempre verificato l'esito di ogni formulazione teorica. Sintetizzando la natura del metodo galileiano, Rodolfo Mondolfo infine aggiunge che:  «Il vincolo stabilito da Galileo tra osservazione e dimostrazione le esperienze fatte mediante i sensi e le dimostrazioni logico-matematiche della loro necessità – era un vincolo reciproco, non unilaterale: né le esperienze sensibili dell’ osservazione potevano valere scientificamente senza la relativa dimostrazione della loro necessità, né la dimostrazione logica e matematica poteva raggiungere la sua "assoluta certezza oggettiva" come quella della natura senza appoggiarsi all’ esperienza nel suo punto di partenza e senza trovare la sua conferma in essa nel suo punto d’ arrivo. È questa l'originalità del metodo galileiano: avere collegato esperienza e ragione, induzione e deduzione, osservazione esatta dei fenomeni e elaborazione di ipotesi e questo, non astrattamente ma, con lo studio di fenomeni reali e con l'uso di appositi strumenti tecnici.  La terminologia scientifica in Galilei Fondamentale è stato il contributo di Galileo al linguaggio scientifico, sia in campo matematico, sia, in particolare, nel campo della fisica. Ancora oggi in questa disciplina molto del linguaggio settoriale in uso deriva da specifiche scelte dello scienziato pisano. In particolare, negli scritti di Galileo molte parole sono tratte dal linguaggio comune e vengono sottoposte ad una "tecnificazione", cioè l'attribuzione ad esse di un significato specifico e nuovo (una forma, quindi, di neologismo semantico). È il caso di "forza" (seppur non in senso newtoniano), "velocità", "momento", "impeto", "fulcro", "molla" (intendendo lo strumento meccanico ma anche la "forza elastica"), "strofinamento", "terminatore", "nastro". Un esempio del modo in cui Galileo nomina gli oggetti geometrici è in un brano dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze:  «Voglio che ci immaginiamo esser levato via l'emisferio, lasciando però il cono e quello che rimarrà del cilindro, il quale, dalla figura che riterrà simile a una scodella, chiameremo pure scodella. Come si vede, nel testo ad una terminologia specialistica ("emisferio", "cono", "cilindro") si accompagna l'uso di un termine che denota un oggetto della vita quotidiana, cioè "scodella". Galilei è ricordato nella storia anche per le sue riflessioni sui fondamenti e sugli strumenti dell'analisi scientifica della natura. Celebre la sua metafora riportata nel Saggiatore, dove la matematica viene definita come il linguaggio (o la semiotica, o i ‘signi’ – il segno -- in cui è scritto libro della natura:  La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. In questo brano Galilei mette in collegamento le parole "matematica", "filosofia" e "universo", dando così inizio a una lunga disputa fra i filosofi della scienza in merito a come egli concepisse e mettesse in relazione fra loro questi termini. Ad esempio, quello che qui Galileo chiama "universo" si dovrebbe intendere, modernamente, come "realtà fisica" o "mondo fisico" in quanto Galileo si riferisce al mondo materiale conoscibile matematicamente. Quindi non solo alla globalità dell'universo inteso come insieme delle galassie, ma anche di qualsiasi sua parte o sottoinsieme inanimato. Il termine "natura" includerebbe invece anche il mondo biologico, escluso dall'indagine galileiana della realtà fisica.  Per quanto riguarda l'universo propriamente detto, Galilei, seppur nell'indecisione, sembra propendere per la tesi che sia infinito:  «Grandissima mi par l’inezia di coloro che vorrebbero che Iddio avesse fatto l’universo più proporzionato alla piccola capacità del loro discorso che all’immensa, anzi infinita, sua potenza»  Egli non prende una posizione netta sulla questione della finitezza o infinità dell'universo; tuttavia, come sostiene Rossi, «c'è una sola ragione che lo inclina verso la tesi dell'infinità: è più facile riferire l'incomprensibilità all'incomprensibile infinito che al finito che non è comprensibile». Ma Galilei non prende mai esplicitamente in considerazione, forse per prudenza, la dottrina di Giordano Bruno di un universo illimitato e infinito, senza un centro e costituito di infiniti mondi tra i quali Terra e Sole che non hanno alcuna preminenza cosmogonica. Lo scienziato pisano non partecipa al dibattito sulla finitezza o infinità dell'universo e afferma che a suo parere la questione è insolubile. Se appare propendere per l'ipotesi della infinitezza lo fa con motivazioni filosofiche in quanto, sostiene, l'infinito è oggetto di incomprensibilità mentre ciò che è finito rientra nei limiti del comprensibile. Il rapporto fra la matematica di Galileo e la sua filosofia della natura, il ruolo della deduzione rispetto all'induzione nelle sue ricerche, sono stati riportati da molti filosofi al confronto fra aristotelici e platonici, al recupero dell'antica tradizione greca con la concezione archimedea o anche all'inizio dello sviluppo nel XVII secolo del metodo sperimentale.  La questione è stata così ben espressa dal filosofo medievalista Moody. Quali sono i fondamenti filosofici della fisica di Galileo e quindi della scienza moderna in genere? Galileo è sostanzialmente un platonico, un aristotelico o nessuno dei due? Si limitò, come sostiene Duhem, a rilevare e perfezionare una scienza meccanica che aveva avuto origine nel Medioevo cristiano e i cui principi fondamentali erano stati scoperti e formulati da Buridano, da Nicola Oresme e dagli altri esponenti della cosiddetta "fisica dell’ impetus" del XIV secolo? Oppure, come sostengono Cassirer e Koyré, voltò le spalle a questa tradizione dopo averla brevemente processata nella sua dinamica pisana e ripartì ispirandosi ad Archimede e Platone? Le controversie più recenti su Galileo sono consistite in larga misura in un dibattito circa il valore fondamentale e l’ influsso storico che su di lui avevano esercitato le tradizioni filosofiche, platoniche e aristoteliche, scolastiche e antiscolastiche. Galileo viveva in un'epoca in cui le idee del platonismo si erano diffuse nuovamente in tutta Europa e in Italia e probabilmente anche per questa ragione i simboli della matematica vengono da lui identificati con entità geometriche e non con numeri. L'uso dell'algebra derivato dal mondo arabo nel dimostrare relazioni geometriche era invece ancora insufficientemente sviluppato ed è solo con Leibniz e Isaac Newton che il calcolo differenziale divenne la base dello studio della meccanica classica. Galileo infatti nel mostrare la legge di caduta dei gravi si servì di relazioni e similitudini geometriche.  Da una parte, per alcuni filosofi come Alexandre Koyré, Ernst Cassirer, Edwin Arthur Burtt (1892–1989), la sperimentazione fu certamente importante negli studi di Galileo e giocò anche un ruolo positivo nello sviluppo della scienza moderna. La sperimentazione stessa, come studio sistematico della natura, richiede un linguaggio con cui formulare domande e interpretare le risposte ottenute. La ricerca di questo linguaggio era un problema che aveva interessato i filosofi sin dai tempi di Platone e Aristotele, in particolare rispetto al ruolo non banale della matematica nello studio delle scienze della natura. Galilei si affida a esatte e perfette figure geometriche che però non possono mai essere riscontrate nel mondo reale, se non al massimo come rozza approssimazione.  Oggi la matematica nella fisica moderna è utilizzata per costruire modelli del mondo reale, ma ai tempi di Galileo questo tipo di approccio non era affatto scontato. Secondo Koyré, per Galileo il linguaggio della matematica gli permette di formulare domande a priori prima ancora di confrontarsi con l'esperienza, e così facendo orienta la stessa ricerca delle caratteristiche della natura attraverso gli esperimenti. Da questo punto di vista, Galileo seguirebbe quindi la tradizione platonica e pitagorica, dove la teoria matematica precede l'esperienza e non si applica al mondo sensibile ma ne esprime la sua intima natura. La visione aristotelica Altri studiosi di Galilei, come Stillman Drake, Pierre Duhem, John Herman Randall Jr., hanno invece sottolineato la novità del pensiero di Galileo rispetto alla filosofia platonica classica. Nella metafora del Saggiatore la matematica è un linguaggio e non è direttamente definita né come l'universo né come la filosofia, ma è piuttosto uno strumento per analizzare il mondo sensibile che era invece visto dai platonici come illusorio. Il linguaggio sarebbe il fulcro della metafora di Galileo, ma l'universo stesso è il vero obbiettivo delle sue ricerche. In questo modo secondo Drake, Galileo si allontanerebbe definitivamente dalla concezione e dalla filosofia platonica per accostarsi invece alla filosofia aristotelica per cui ogni realtà deve avere in sé stessa le leggi del proprio costituirsi. La sintesi tra platonismo e aristotelismo Secondo Eugenio Garin Galileo invece, con il suo metodo sperimentale, vuole identificare nel fatto osservato "aristotelicamente" una necessità intrinseca, espressa matematicamente, dovuta al suo legame con la causa divina "platonica" che lo produce facendolo "vivere". Alla radice di gran parte della nuova scienza, da Leonardo a Galileo, accanto al desiderio tutto rinascimentale di non lasciare intentata via alcuna, è viva la certezza che il sapere ha aperta innanzi a sé la possibilità di una salda cognizione. Se noi ripercorriamo la Teologia platonica, vi troviamo al centro questa tesi, largamente e minutamente discussa nel libro secondo: alla mente di Dio sono presenti tutte le essenze; la divina volontà, che poteva non creare, ha manifestato la sua generosità col dare concreta e mondana realizzazione alle eterne idee facendole vivere. La fecondità del concetto di creazione si rivela nel dono della vita che Dio ha dato, e poteva non dare. Ma la volontà non tocca quel mondo razionale che costituisce l'eterna ragione divina, il verbo divino, cui dunque si conforma e si adegua questo mondo il quale, platonicamente, rispecchia l'ideale razionalità per il tramite dell'intermediario matematico: "numero, pondere et mensura". La mente umana, raggio del Verbo divino, è nelle sue radici impiantata essa pure in Dio; è in Dio partecipe in qualche modo dell'assoluta certezza. La scienza nasce così per il corrispondersi di questa struttura razionale del mondo, impiantata nell'eterna sapienza divina, e della mente umana partecipe di questa luce divina di ragione. Studi sul moto La descrizione quantitativa del movimento  Rappresentazione dell'evoluzione moderna dei diagrammi utilizzati da Galileo nello studio del moto. Ad ogni punto di una linea corrisponde un tempo e una velocità (segmento giallo che termina con un punto blu). L'area gialla della figura così ottenuta corrisponde quindi allo spazio totale percorso nell'intervallo di tempo (t2-t1). Dilthey vede Keplero e Galilei come le massime espressioni nel loro tempo di "pensieri calcolatori" che si disponevano a risolvere, tramite lo studio delle leggi del movimento, le esigenze della moderna società borghese:  «Il lavoro degli opifici urbani, i problemi sorti dall’invenzione della polvere da sparo e dalla tecnica delle fortificazioni, i bisogni della navigazione relativamente ad apertura di canali, a costruzione e armamento di navi, avevano fatto della meccanica la scienza preferita del tempo. Specialmente in Italia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra, questi bisogni erano assai vivaci, e provocarono la ripresa e continuazione degli studi di statica degli antichi e le prime ricerche nel nuovo campo della dinamica, specialmente per opera di Leonardo, del Benedetti e dell'Ubaldi. Galilei fu infatti uno dei protagonisti del superamento della descrizione aristotelica della natura del moto. Già nel medioevo alcuni autori, come Giovanni Filopono nel VI secolo, avevano osservato contraddizioni nelle leggi aristoteliche, ma fu Galileo a proporre una valida alternativa basata su osservazioni sperimentali. Diversamente da Aristotele, per il quale esistono due moti "naturali", cioè spontanei, dipendenti dalla sostanza dei corpi, uno diretto verso il basso, tipico dei corpi di terra e d'acqua, e uno verso l'alto, tipico dei corpi d'aria e di fuoco, per Galileo qualunque corpo tende a cadere verso il basso nella direzione del centro della Terra. Se vi sono corpi che salgono verso l'alto è perché il mezzo nel quale si trovano, avendo una densità maggiore, li spinge in alto, secondo il noto principio già espresso da Archimede: la legge sulla caduta dei gravi di Galileo, prescindendo dal mezzo, è pertanto valida per tutti i corpi, qualunque sia la loro natura.  Per raggiungere questo risultato, uno dei primi problemi che Galileo e i suoi contemporanei dovettero risolvere fu quello di trovare gli strumenti adatti a descrivere quantitativamente il moto. Ricorrendo alla matematica, il problema era quello di capire come trattare eventi dinamici, come la caduta dei corpi, con figure geometriche o numeri che in quanto tali sono assolutamente statici e sono privi di alcun moto. Per superare la fisica aristotelica, che considerava il moto in termini qualitativi e non matematici, come allontanamento e successivo ritorno al luogo naturale, bisognava dunque prima sviluppare gli strumenti della geometria e in particolare del calcolo differenziale, come fecero successivamente fra gli altri Newton, Leibniz e Cartesio. Galileo riuscì a risolvere il problema nello studio del moto dei corpi accelerati disegnando una linea ed associando ad ogni punto un tempo e un segmento ortogonale proporzionale alla velocità. In questo modo costruì il prototipo del diagramma velocità-tempo e lo spazio percorso da un corpo è semplicemente uguale all'area della figura geometrica costruita. I suoi studi e le sue ricerche sul moto dei corpi aprirono inoltre la via alla moderna balistica. Sulla base degli studi sul moto, di esperimenti mentali e delle osservazioni astronomiche, Galileo intuì che è possibile descrivere sia gli eventi che accadono sulla Terra che quelli celesti con un unico insieme di leggi. Superò quindi in questo modo anche la divisione fra mondo sublunare e sovralunare della tradizione aristotelica (per la quale il secondo è governato da leggi diverse da quelle terrestri e da moti circolari perfettamente sferici, ritenuti impossibili nel mondo sublunare). Il principio d'inerzia e il moto circolare  Sfera sul piano inclinato Studiando il piano inclinato, Galilei si occupò dell'origine del moto dei corpi e del ruolo degli attriti; scoprì un fenomeno che è conseguenza diretta della conservazione dell'energia meccanica e porta a considerare l'esistenza del moto inerziale (che avviene senza l'applicazione di una forza esterna). Ebbe così l'intuizione del principio di inerzia, poi inserito da Isaac Newton nei principi della dinamica: un corpo, in assenza d'attrito, permane in moto rettilineo uniforme (in quiete se v=0) fino a quando forze esterne agiscono su di esso. Il concetto di energia non era invece presente nella fisica del Seicento e solo con lo sviluppo, oltre un secolo più tardi, della meccanica classica si arriverà ad una precisa formulazione di tale concetto.  Galileo pose due piani inclinati dello stesso angolo di base θ, uno di fronte all'altro, ad una distanza arbitraria x. Facendo scendere una sfera da un'altezza h1 per un tratto l1 di quello a SN notò che la sfera, arrivata sul piano orizzontale tra i due piani inclinati, continua il suo moto rettilineo fino alla base del piano inclinato di DX. A quel punto, in assenza d'attrito, la sfera risale il piano inclinato di DX per un tratto l2 = l1 e si ferma alla stessa altezza (h2 = h1) di partenza. In termini attuali, la conservazione dell'energia meccanica impone che l'iniziale energia potenziale Ep = mgh1 della sfera si trasformi - man mano che la sfera discende il primo piano inclinato (SN) - in energia cinetica Ec = (1/2) mv2 sino alla sua base, dove vale mgh1 = (1/2) mvmax2. La sfera si muove quindi sul piano orizzontale coprendo la distanza x tra i piani inclinati con velocità costante vmax, fino alla base del secondo piano inclinato (DX). Risale poi il piano inclinato di DX, perdendo progressivamente energia cinetica che si trasforma nuovamente in energia potenziale, fino a un valore massimo uguale a quello iniziale (Ep = mgh2 = mgh1), al quale corrisponde velocità finale nulla (v2 = 0).   Rappresentazione dell'esperimento di Galileo sul principio d'inerzia. Si immagini ora di diminuire l'angolo θ2 del piano inclinato di DX (θ2 < θ1),e di ripetere l'esperimento. Per riuscire a risalire - come impone il principio di conservazione dell'energia - alla medesima quota h2 di prima, la sfera dovrà ora percorrere un tratto l2 più lungo sul piano inclinato di DX. Se si riduce progressivamente l'angolo θ2, si vedrà che ogni volta aumenta la lunghezza l2 del tratto percorso dalla sfera, per risalire all'altezza h2. Se si porta infine l'angolo θ2 ad essere nullo (θ2 = 0°), si è di fatto eliminato il piano inclinato di DX. Facendo ora scendere la sfera dall'altezza h1 del piano inclinato di SN, essa continuerà a muoversi indefinitamente sul piano orizzontale con velocità vmax (principio d'inerzia) in quanto, per l'assenza del piano inclinato di DX, non potrà mai risalire all'altezza h2 (come prevederebbe il principio di conservazione dell'energia meccanica).  Si immagini infine di spianare montagne, riempire valli e costruire ponti, in modo da realizzare un percorso rettilineo assolutamente piano, uniforme e senza attriti. Una volta iniziato il moto inerziale della sfera che scende da un piano inclinato con velocità costante vmax, questa continuerà a muoversi lungo tale percorso rettilineo fino a fare il giro completo della Terra, e ricominciare quindi indisturbata il proprio cammino. Ecco realizzato un (ideale) moto inerziale perpetuo, che avviene lungo un'orbita circolare, coincidente con la circonferenza terrestre. Partendo da questo "esperimento ideale", Galileo sembrerebbe erroneamente ritenere che tutti i moti inerziali debbano essere moti circolari. Probabilmente per questo motivo considerò, per i moti planetari da lui (arbitrariamente) ritenuti inerziali, sempre e solo orbite circolari, rifiutando invece le orbite ellittiche dimostrate da Keplero. Dunque, ad essere rigorosi, non pare essere corretto quanto afferma Newton nei "Principia" - fuorviando così innumerevoli studiosi - e cioè che Galilei avrebbe anticipato i suoi primi due principi della dinamica. Misura dell'accelerazione di gravità File:Isocronismo.webm Spiegazione del funzionamento dell'isocronismo nella caduta dei gravi lungo una spirale su un paraboloide. Galileo riuscì a determinare il valore che egli credeva costante dell'accelerazione di gravità g alla superficie terrestre, cioè della grandezza che regola il moto dei corpi che cadono verso il centro della Terra, studiando la caduta di sfere ben levigate lungo un piano inclinato, anch'esso ben levigato. Poiché il moto della sfera dipende dall'angolo di inclinazione del piano, con semplici misure ad angoli differenti riuscì a ottenere un valore di g solamente di poco inferiore a quello esatto per Padova (g = 9,8065855 m/s²), nonostante gli errori sistematici, dovuti all'attrito che non poteva essere completamente eliminato.  Detta a l'accelerazione della sfera lungo il piano inclinato, la sua relazione con g risulta essere a = g sin θ per cui, dalla misura sperimentale di a, si risale al valore dell'accelerazione di gravità g. Il piano inclinato permette di ridurre a piacimento il valore dell'accelerazione (a < g), facilitandone la misura. Ad esempio, se θ = 6°, allora sin θ = 0,104528 e quindi a = 1,025 m/s². Tale valore è meglio determinabile, con una strumentazione rudimentale, rispetto a quello dell'accelerazione di gravità (g = 9,81 m/s²) misurato direttamente con la caduta verticale di un oggetto pesante. Misura della velocità della luce Guidato dalla similitudine con il suono, Galileo fu il primo a tentare di misurare la velocità della luce. La sua idea fu quella di portarsi su una collina con una lanterna coperta da un drappo e quindi toglierlo lanciando così un segnale luminoso ad un assistente posto su un'altra collina ad un chilometro e mezzo di distanza: questi non appena avesse visto il segnale, avrebbe quindi alzato a sua volta il drappo della sua lanterna e Galileo vedendo la luce avrebbe potuto registrare l'intervallo di tempo impiegato dal segnale luminoso per giungere all'altra collina e tornare indietro.Una misura precisa di questo tempo avrebbe consentito di misurare la velocità della luce ma il tentativo fu infruttuoso data l'impossibilità per Galilei di avere uno strumento così avanzato che potesse misurare i centomillesimi di secondo che la luce impiega per percorrere una distanza di pochi chilometri.  La prima stima della velocità della luce fu opera, nel 1676, dell'astronomo danese Rømer basata su misure astronomiche. Apparati sperimentali e di misura  Termometro di Galileo, in un'elaborazione successiva. Gli apparati sperimentali furono fondamentali nello sviluppo delle teorie scientifiche di Galileo, che costruì diversi strumenti di misura originalmente o rielaborandoli sulla base di idee preesistenti. In ambito astronomico costruì da sé alcuni esemplari di cannocchiale, provvisti di micrometro per misurare quanto distasse una luna dal suo pianeta. Per studiare le macchie solari, proiettò con l'elioscopio l'immagine del Sole su un foglio di carta per poterla osservare in sicurezza senza danni alla vista. Ideò anche il giovilabio, simile all'astrolabio, per determinare la longitudine usando le eclissi dei satelliti di Giove. Per studiare il moto dei corpi si servì invece del piano inclinato con il pendolo per misurare intervalli temporali. Riprese anche un rudimentale modello di termometro, basato sulla dilatazione dell'aria al variare della temperatura. Il pendolo  Schema di un pendolo Galileo scoprì nel 1583 l'isocronismo delle piccole oscillazioni di un pendolo; secondo la leggenda l'idea gli sarebbe venuta mentre osservava le oscillazioni di una lampada allora sospesa nella navata centrale del Duomo di Pisa, oggi custodita nel vicino Camposanto Monumentale, nella Cappella Aulla. Questo strumento è semplicemente composto da un grave, come una sfera metallica, legato ad un filo sottile e inestensibile. Galileo osservò che il tempo di oscillazione di un pendolo è indipendente dalla massa del grave e anche dall'ampiezza dell'oscillazione, se questa è piccola. Scoprì anche che il periodo di oscillazione {\displaystyle T}T dipende solo dalla lunghezza del filo {\displaystyle l}l:[135]  {\displaystyle T=2\pi {\sqrt {\frac {l}{g}}}}T=2\pi {\sqrt  {\frac  {l}{g}}} dove {\displaystyle g}g è l'accelerazione di gravità. Se ad esempio il pendolo ha {\displaystyle l=1m}{\displaystyle l=1m}, l'oscillazione che porta il grave da un estremo all'altro e poi di nuovo indietro ha un periodo {\displaystyle T=2,0064s}{\displaystyle T=2,0064s} (avendo assunto per {\displaystyle g}g il valore medio {\displaystyle 9,80665}{\displaystyle 9,80665}). Galileo sfruttò questa proprietà del pendolo per usarlo come strumento di misura di intervalli temporali. La bilancia idrostatica Galileo nel 1586, all'età di 22 anni quando era ancora in attesa dell'incarico universitario a Pisa, perfezionò la bilancia idrostatica di Archimede e descrisse il suo dispositivo nella sua prima opera in volgare, La Bilancetta, che circolò manoscritta, ma fu stampata postuma  «Per fabricar dunque la bilancia, piglisi un regolo lungo almeno due braccia, e quanto più sarà lungo più sarà esatto l'istrumento; e dividasi nel mezo, dove si ponga il perpendicolo [il fulcro]; poi si aggiustino le braccia che stiano nell'equilibrio, con l'assottigliare quello che pesasse di più; e sopra l'uno delle braccia si notino i termini dove ritornano i contrapesi de i metalli semplici quando saranno pesati nell'acqua, avvertendo di pesare i metalli più puri che si trovino. Viene anche descritto come si ottiene il peso specifico PS di un corpo rispetto all'acqua: {\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname {peso\;in\;aria} }{\operatorname {peso\;in\;aria} -\operatorname {peso\;in\;acqua} }}}{\displaystyle P_{S}={\frac {\operatorname {peso\;in\;aria} }{\operatorname {peso\;in\;aria} -\operatorname {peso\;in\;acqua} }}}. Ne La Bilancetta si trovano poi due tavole che riportano trentanove pesi specifici di metalli preziosi e genuini, determinati sperimentalmente da Galileo con precisione confrontabile con i valori moderni. Il compasso proporzionale  Una descrizione dell'uso del compasso proporzionale fornita da Galileo Galilei. Il compasso proporzionale era uno strumento utilizzato fin dal medioevo per eseguire operazioni anche algebriche per via geometrica, perfezionato da Galileo ed in grado di estrarre la radice quadrata, costruire poligoni e calcolare aree e volumi. Fu utilizzato con successo in campo militare dagli artiglieri per calcolare le traiettorie dei proiettili. Galilei e l'arte Letteratura Gli interessi letterari di Galilei Durante il periodo pisano Galileo non si limitò alle sole occupazioni scientifiche: risalgono infatti a questi anni le sue Considerazioni sul Tasso che avranno un seguito con le Postille all'Ariosto. Si tratta di note sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi volumi della Gerusalemme liberata e dell'Orlando furioso dove, mentre rimprovera al Tasso «la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico di questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica – pur nella varietà – del fantasma poetico. Galilei scrittore. D'altro più non si cura fuorché d'essere inteso»  (Giuseppe Parini) «Uno stile tutto cose e tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e di ogni maniera, in quella forma diretta e propria in che è l'ultima perfezione della prosa.»  (Francesco De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana) Dal punto di vista letterario, Il Saggiatore è considerata l'opera in cui si fondono maggiormente il suo amore per la scienza, per la verità e la sua arguzia di polemista. Tuttavia, anche nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo si apprezzano pagine di notevole livello per qualità della scrittura, vivacità della lingua, ricchezza narrativa e descrittiva. Infine Italo Calvino affermò che, a suo parere, Galilei è stato il maggior scrittore di prosa in lingua italiana, fonte di ispirazione persino per Leopardi. L'uso della lingua volgare L'uso del volgare servì a Galileo per un duplice scopo. Da una parte era finalizzato all'intento divulgativo dell'opera: Galileo intendeva rivolgersi non solo ai dotti e agli intellettuali ma anche a classi meno colte, come i tecnici che non conoscevano il latino ma che potevano comunque comprendere le sue teorie. Dall'altro si contrappone al latino della Chiesa e delle diverse Accademie che si basavano sul principio di auctoritas, rispettivamente biblico ed aristotelico. Si viene a delineare una rottura con la tradizione precedente anche per quanto riguarda la terminologia: Galileo, a differenza dei suoi predecessori, non trae spunti dal latino o dal greco per coniare nuovi termini ma li riprende, modificandone l'accezione, dalla lingua volgare. Galileo, inoltre, dimostrò atteggiamenti diversi nei confronti delle terminologie esistenti:  terminologia meccanica: cauto accoglimento; terminologia astronomica: non respinge i vocaboli che l'uso abbia già accolto o tenda ad accogliere. Li utilizza, però, come strumenti, insistendo sul loro valore convenzionale ("le parole o imposizioni di nomi servono alla verità, ma non si devono sostituire a essa). Lo scienziato poi segnala gli errori che nascono quando il nome travisa la realtà fisica o che nascono dalla suggestione esercitata dagli usi comuni di un vocabolo sul significato figurato assunto come termine scientifico; per evitare questi errori, egli fissa esattamente il significato dei singoli vocaboli: sono preceduti o seguiti da una descrizione; terminologia peripapetica: rifiuto totale che si manifesta con la sua messa in ridicolo, servendosene come puri suoni in un gioco di alternanze e rime. Arti figurative «L'Accademia e Compagnia dell'Arte del Disegno fu fondata da Cosimo I de' Medici nel 1563, su suggerimento di Giorgio Vasari, con l'intento di rinnovare e favorire lo sviluppo della prima corporazione di artisti costituitasi dall'antica compagnia di San Luca. Annoverò tra i primi accademici personalità come Buonarroti, Bartolomeo Ammannati, Agnolo Bronzino, Francesco da Sangallo. Per secoli l'Accademia rappresentò il più naturale e prestigioso centro di aggregazione per gli artisti operanti a Firenze e, al tempo stesso, favorì il rapporto fra scienza e arte. Essa prevedeva l'insegnamento della geometria euclidea e della matematica e pubbliche dissezioni dovevano preparare al disegno. Anche uno scienziato come Galileo Galilei fu nominato membro dell'Accademia fiorentina delle Arti del Disegno. Galileo, infatti, prese pure parte alle complesse vicende riguardanti le arti figurative del suo periodo, soprattutto la ritrattistica, approfondendo la prospettiva manieristica ed entrando in contatto con illustri artisti dell'epoca (come il Cigoli), nonché influenzando in modo consistente, con le sue scoperte astronomiche, la corrente naturalistica. Superiorità della pittura sulla scultura Per Galileo nell'arte figurativa, come nella poesia e nella musica, vale l'emozione che si riesce a trasmettere, a prescindere da una descrizione analitica della realtà. Ritiene inoltre che tanto più dissimili sono i mezzi usati per rendere un soggetto dal soggetto stesso, tanto maggiore l'abilità dell'artista. Perciocché quanto più i mezzi, co' quali si imita, son lontani dalle cose da imitarsi, tanto più l'imitazione è maravigliosa.” Ludovico Cardi, detto il Cigoli, fiorentino, fu pittore al tempo di Galileo; ad un certo punto della sua vita, per difendere il suo operato, chiese aiuto al suo amico Galileo: doveva, infatti, difendersi dagli attacchi di quanti ritenevano la scultura superiore alla pittura, in quanto ha il dono della tridimensionalità, a discapito della pittura semplicemente bidimensionale. Galileo rispose con una lettera. Egli fornisce una distinzione tra valori ottici e tattili, che diventa anche giudizio di valore sulle tecniche scultoree e pittoriche: la statua, con le sue tre dimensioni, inganna il senso del tatto, mentre la pittura, in due dimensioni, inganna il senso della vista. Galilei attribuisce quindi al pittore una maggiore capacità espressiva che non allo scultore poiché il primo, tramite la vista, è in grado di produrre emozioni meglio di quanto faccia il secondo mediante il tatto. “A quello poi che dicono gli scultori, che la natura fa gli uomini di scultura e non di pittura, rispondo che ella gli fa non meno dipinti che scolpiti, perché ella gli scolpe e gli colora.” Il padre di Galileo era un musicista (liutista e compositore) e teorico musicale molto noto ai suoi tempi. Galileo fornì un contributo fondamentale alla comprensione dei fenomeni acustici, studiando in modo scientifico l'importanza dei fenomeni oscillatori nella produzione della musica. Scoprì anche la relazione che intercorre fra la lunghezza di una corda in vibrazione e la frequenza del suono emessa. Nella lettera a Lodovico Cardi, Galileo scrive:  «Non ammireremmo noi un musico, il quale cantando e rappresentandoci le querele e le passioni d'un amante ci muovesse a compassionarlo, molto più che se piangendo ciò facesse?... E molto più lo ammireremmo, se tacendo, col solo strumento, con crudezze et accenti patetici musicali, ciò facesse...»  (Opere XI) mettendo sullo stesso piano la musica vocale e quella strumentale, dato che nell'arte sono importanti solo le emozioni che si riescono a trasmettere. Dediche  Banconota da 2.000 lire con la raffigurazione di Galileo  2 euro commemorativi italiani per il 450º anniversario della nascita di Galileo Galilei A Galileo sono stati dedicati innumerevoli tipi di oggetti ed enti, naturali o creati dall'uomo:  la Galileo Regio, una regione della superficie del satellite Ganimede; l'asteroide 697 Galilea; una sonda spaziale, la Galileo; un sistema di posizionamento spaziale, il sistema Galileo; il gal (unità di accelerazione); il Telescopio Nazionale Galileo (TNG), situato sull'isola di La Palma (Spagna); l'aeroporto internazionale "Galileo Galilei" di Pisa; un gruppo musicale giapponese, Galileo Galilei; un album degli Haggard dal titolo "Eppur si muove"; una canzone scritta e interpretata dal cantautore pugliese Caparezza intitolata "Il dito medio di Galileo"; il sottomarino Galileo Galilei; una nave da guerra italiana, la Galileo Galilei; la banconota da 2.000 lire; una canzone Messer Galileo cantata da Edoardo Pachera durante la 52ª edizione dello Zecchino d'Oro; una società, produttrice di strumenti scientifici, ottici ed astronomici e denominata Officine Galileo; una moneta commemorativa da 2 euro nel 2014 per il 450º anniversario della sua nascita; un supercomputer di potenza di calcolo pari a circa 1 PetaFlop, installato presso il consorzio interuniversitario CINECA e classificato per diverso tempo fra le prime 500 strutture di calcolo al mondo; una cattedra di storia della scienza dell'Università di Padova, detta appunto cattedra galileiana, istituita per Enrico Bellone a cui poi successe William R. Shea che la resse fino al 2011, più la Scuola Galileiana di Studi Superiori della stessa università, nonché l'Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti di Padova. Galileo Day Galileo Galilei viene ricordato con celebrazioni presso istituzioni locali il 15 febbraio, il Galileo Day, giorno della sua nascita. Altre opere: La bilancetta (postuma), Tractatio de praecognitionibus et precognitis and Tractatio de demonstration. Le mecaniche, Le operazioni del compasso geometrico et militare, Sidereus Nuncius,  Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (pubblicato dall'Accademia dei Lincei), 1613 (su archive.org, BEIC) Discorso sopra il flusso e il reflusso del mare, Roma, Il Discorso delle Comete, Il Saggiatore, Roma, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Firenze, Due nuove scienze, Leida, Trattato della sfera, Roma 1656 (su BEIC) Lettere Lettera al Padre Benedetto Castelli, Lettera a Madama Cristina di Lorena, Lettera a Pietro Dini, Edizione nazionale Opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale, a cura di Antonio Favaro, Firenze, G. Barbera, Le opere di Galileo Galilei. Edizione nazionale sotto gli auspicii di Sua Maestà il Re d'Italia.  Firenze, Tipografia di G. Barbera, Le opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale, Appendice, Firenze, Giunti, 2013 ss. in quattro volumi: Vol. 1: Iconografia galileiana, a cura di F. Tognoni, Carteggio, a cura di M. Camerota e P. Ruffo, con la collaborazione di M. Bucciantini, Testi, a cura di A. Battistini, M. Camerota, G. Ernst, R. Gatto, M. Helbing e P. Ruffo, Documenti, a cura di M. Camerota e P. Ruffo (Edizione digitale delle Opere Letteratura e teatro Vita di Galileo è il titolo di un'opera teatrale di Brecht in più versioni, a partire dalla prima risalente agli anni 1938-39. Gli ultimi anni di Galileo Galilei è il titolo di un'opera teatrale giovanile di Ippolito Nievo. Galileo è uno spettacolo teatrale del 2010 di Francesco Niccolini e Marco Paolini. Film Galileo Galilei è un cortometraggio sullo scienziato pisano. Galileo è un film di Cavani. Galileo si chiama anche il film di Joseph Losey tratto dal dramma Vita di Galileo di Bertolt Brecht. Per testuali parole di Puccianti, Galileo fu veramente cultore e propugnatore della Natural Filosofia: in effetti egli fu matematico, astronomo, fondatore della Fisica nel senso attuale di questa parola; e queste varie discipline considerò sempre e trattò come intimamente connesse tra loro, e insieme ad altri studi vari, come diversi aspetti e atteggiamenti di una stessa attività dello spirito: filosofo dunque, anche perché portò su questa attività la riflessione e la critica; ma non incurante delle conseguenze o, come ora si direbbe, delle applicazioni pratiche. I problemi più importanti e centrali lo impegnarono per tutta la durata della sua vita scientifica, non con continua opera su ciascuno di essi, ma con ritorni successivi sempre più approfonditi e più generali, e in fine risolutivi» (da: Luigi Puccianti, Storia della fisica, Firenze, Felice Le Monnier, Fondamentali furono inoltre le sue idee e riflessioni critiche sui concetti fondamentali della meccanica, in particolare quelle sul movimento. Tralasciando l'ambito prettamente filosofico, dopo la morte di Archimede, il tema del movimento cessò di essere oggetto di analisi quantitativa e discussione formale allorché Gerardo di Bruxelles, vissuto nella seconda metà del XII secolo, nel suo Liber de motu riprese la definizione di velocità, già peraltro considerata dal matematico del III secolo a.C. Autolico di Pitane, avvicinandosi alla moderna definizione di velocità media come rapporto fra due quantità non omogenee quali la distanza e il tempo (cfr. Gerard of Brussels, "The Reduction of Curvilinear Velocities to Uniform Rectilinear Velocities", edito da Clagett, in Grant, A Source Book in Medieval Science, Cambridge (MA), Harvard University Press,  e Mazur, Zeno's Paradox. Unraveling the Ancient Mystery Behind the Science of Space and Time, New York/London, Plume/Penguin Books, Ltd., Achille e la tartaruga. Il paradosso del moto da Zenone a Einstein, a cura di Claudio Piga, Milano, Il Saggiatore, Grazie al perfezionamento del telescopio, che gli permise di effettuare notevoli studi e osservazioni astronomiche, fra cui quella delle macchie solari, la prima descrizione della superficie lunare, la scoperta dei satelliti di Giove, delle fasi di Venere e della composizione stellare della Via Lattea. Per maggiori notizie, si veda: Luigi Ferioli, Appunti di ottica astronomica, Milano, Editore Ulrico Hoepli, Cfr. pure Vasco Ronchi, Storia della luce, IBologna, Nicola Zanichelli Editore, Dal punto di vista storico, un'ipotesi autenticamente "eliocentrica" fu quella di Aristarco di Samo, poi sostenuta e dimostrata da Seleuco di Seleucia. Il modello copernicano invece, contrariamente a quanto generalmente ritenuto, è "eliostatico" ma non "eliocentrico" (vedi nota seguente). Il sistema di Keplero, poi, non è né "eliocentrico" (il Sole occupa infatti uno dei fuochi dell'orbita ellittica di ciascun pianeta che gli ruota attorno) né "eliostatico" (a causa del moto di rotazione del Sole attorno al proprio asse). La descrizione newtoniana del sistema solare, infine, eredita le caratteristiche cinematiche (i.e., orbite ellittiche e moto rotatorio del Sole) di quella kepleriana ma spiega causalmente, tramite la forza di gravitazione universale, la dinamica planetaria. ^ A proposito del modello copernicano: «È da notare che, sebbene il Sole sia immobile, tutto il sistema [solare] non ruota intorno ad esso, ma intorno al centro dell'orbita della Terra, la quale conserva ancora un ruolo particolare nell'Universo. Si tratta cioè, più che di un sistema eliocentrico, di un sistema eliostatico.» (da G. Bonera, Dal sistema tolemaico alla rivoluzione copernicana, E non più soggettiva, come era stata fino ad allora condotta. ^ Secondo Giorgio Del Guerra, nella casa sita al n. 24 dell'attuale via Giusti in Pisa (G. Del Guerra, La casa dove, in Pisa, nacque Galileo Galilei, Pisa, Tipografia Comunale. Verosimilmente, Galileo non dovette avere buoni rapporti con la madre se non ricorda mai gli anni della sua infanzia come un periodo felice. Il fratello Michelangelo ebbe occasione di scrivere a questo proposito a Galileo, quasi augurandosene l'ormai imminente dipartita: «[...] di nostra madre intendo, con non poca meraviglia, che sia ancora così terribile, ma poiché è così discaduta, ce ne sarà per poco, sì che finiranno le lite.» Un Tommaso Ammannati fu fatto cardinale da Clemente VII nel 1385, mentre il fratello Bonfazio Ammannati ottenne la porpora da uno dei successori di Clemente, l'antipapa Benedetto XIII; quanto a Giacomo Ammannati Piccolomini, cardinal, fu umanista, continuatore dei Commentarii di Pio II e autore di una Vita dei papi che è andata perduta. ^ Si ricorda un Tommaso Bonaiuti, che fece parte del governo di Firenze dopo la cacciata del Duca di Atene e un Galileo Bonaiuti, medico noto al suo tempo e gonfaloniere di giustizia, il cui sepolcro nella Basilica di Santa Croce divenne la tomba dei suoi discendenti; a partire da Galileo Bonaiuti, il cognome della famiglia cambiò in Galilei. ^ Così scriveva Muzio Tedaldi a Vincenzo Galilei: «per la vostra ho inteso quanto havete concluso con il vostro figliuolo [Galileo]; et come, volendo cercar di introdurlo qua in Sapienza, vi ritarda il non esser la Bartolomea maritata, anzi vi guasta ogni buon pensiero; et che desiderate che la si mariti, e quanto prima. Le considerationi vostre son buone, et io non ho mancato né manco di far quell'opera che si ricerca; ma sino a qui son venuti tutti partiti, per non dir obbrobriosi, poco aproposito per lei… Per concludere, ardisco di dire che credo che la Bartolomea sia così casta come qual si vogli pudica fanciulla; ma le lingue non si possono tenere; pure io crederrò, con l'aiuto che do loro, di levar via tutti questi romori et farli supire; per il che a quel tempo potrete facilmente mandare il vostro Galileo a studio; et se non harete la Sapienza, harete la casa mia al vostro piacere, senza spesa nessuna, et così vi offero et prometto, ricordandovi che le novelle son come le ciriegie; però è bene credere quel che si vede, e non quel che si sente, parlando di queste cose basse.» Obbligatoriamente l'iscrizione doveva avvenire per gli studenti toscani in quell'Università. Chi voleva andare in un'altra Università avrebbe dovuto pagare una multa di 500 scudi stabilita da un editto granducale per scoraggiare la frequenza in un ateneo diverso da quello pisano (In: A. Righini, Op. cit.). ^ Lo testimonierebbe la coincidenza di argomentazioni esistente tra gli Juvenilia, gli appunti di fisica abbozzati da Galileo in questo periodo, e i dieci libri del De motu del Bonamico. (In: Storia sociale e culturale d'Italia, La cultura filosofica e scientifica, La filosofia e le scienze dell'Uomo, La storia delle scienze, Milano, Bramante Editrice, Ne descrive i dettagli nel breve trattato La bilancetta, circolato prima fra i suoi conoscenti e pubblicato postumo nel 1644 (Annibale Bottana, Galileo e la bilancetta: un momento fondamentale nella storia dell'idrostatica e del peso specifico, Firenze, Leo S. Olschki Editore). Studi riportati nel Theoremata circa centrum gravitatis solidorum, pubblicato in appendice ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali. ^ Galileo sottopose a Clavius una sua insoddisfacente dimostrazione della determinazione del baricentro dei solidi. (Lettera a Clavius). Giovanni de Medici aveva progettato una draga per il porto di Livorno. Su questo progetto il granduca Ferdinando aveva chiesto una consulenza a Galilei che dopo aver visto il modellino affermò che non avrebbe funzionato. Giovanni de Medici volle comunque costruire la draga che in effetti non funzionò. (Giovan Battista de Nelli, Vita e commercio letterario di Galileo Galilei, Losanna, con tale Benedetto Landucci che Galilei raccomandò a Cristina di Lorena riuscendo a fargli ottenere nel 1609 il posto di pesatore al saggio; il lavoro, consistente nel pesare gli argenti che venivano venduti, procurava un guadagno di circa 60 fiorini. Lettera a Cristina di Lorena (Ed. Naz., Vol. X, Lettera N., Alla dote per la sorella Livia avrebbe dovuto contribuire anche il fratello Michelangelo. (Lettera a Michelangelo Galilei, Michelangelo... fu versatissimo nella musica e la esercitò per professione; essendo stato buon liutista non v'è dubbio che fosse allievo egli pure di suo padre Vincenzo. visse in Polonia al servizio di un conte palatino; nel 1610 era a Monaco di Baviera ove insegnava musica, e in una lettera datata del 16 agosto di quell'anno, egli pregava il fratello Galileo, di acquistargli grosse corde di Firenze per suo bisogno et dei suoi scolari...» (Dizionario universale dei musicisti, Milano, Casa Editrice Sonzogno). Le spese per i viaggi in Polonia e Germania furono sostenute da Galileo. Michelangelo appena sistematosi in Germania volle sposarsi con Anna Chiara Bandinelli e, anziché saldare il debito per la dote che aveva con il cognato Galletti, spese tutto il denaro che aveva in un lussuoso ricevimento nuziale. ^ «Mi dispiace ancora di veder che V.S. non sia trattata second'i meriti suoi, e molto più mi dispiace che ella non habbi buona speranza. Et s'ella vorrà andar a Venetia questa state, io l'invito a passar di qua, che non mancarò dal canto mio di far ogni opera per aiutarla e servirla; chè certo io non la posso veder in questo modo. Le mie forze sono deboli, ma, come saranno, io le spenderò tutte in suo servitio.  (Lettera di Guidobaldo Del Monte a Galilei. In: Ed. Naz., Vol. X, Lettera N. 35, Ancora vivente, Galileo fu ritratto da alcuni dei più famosi pittori del suo tempo, come Santi di Tito, Caravaggio, Domenico Tintoretto, Giovan Battista Caccini, Francesco Villamena, Ottavio Leoni, Domenico Passignano, Joachim von Sandrart e Claude Mellan. I due ritratti più famosi, visibili alla Galleria Palatina di Firenze e agli Uffizi sono invece di Justus Suttermans che rappresenta Galileo ormai anziano come simbolo del filosofo conoscitore della natura. (In "Portale Galileo") ^ Per moto «naturale» s'intende quello di un grave, ossia di un corpo in caduta libera, diversamente dal moto «violento», che è quello di un corpo che sia soggetto ad un «impeto». ^ L'esatta formulazione della legge è stata data da Galileo nel successivo De motu accelerato: «Motum aequabiliter, seu uniformiter, acceleratum dico illum, qui, a quiete recedens, temporibus aequalibus aequalia celeritatis momenta sibi superaddit», ove l'accelerazione di gravità è indicata essere direttamente proporzionale al tempo e non allo spazio. (Ed. Naz.) ^ Con lettera da Verona, l'Altobelli riferiva a Galileo, senza dar credito, che la stella, «quasi un arancio mezzo maturo», sarebbe stata osservata. In verità, dietro Antonio Lorenzini (da non confondere col vescovo Antonio Lorenzini) si celava il Cremonini; cfr. Uberto Motta, Antonio Querenghi. Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinascimento, Pubblicazioni dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Vita e Pensiero, «Nacque in Padova intorno al 1580. Poco più che ventenne professò i voti nell’Ordine Benedettino, e nei primi anni del secolo XVII si trovava nel monastero di S. Giustina di Padova, legato in molta intimità col Castelli, insieme col quale fu discepolo di Galileo, prendendo le parti del Maestro nelle questioni relative alla stella nuova dell’ottobre 1604.» (Da Museo Galileo). Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis, per quem omnia fere tum Euclidis, tum mathematicorum omnium problemata facili negotio resolvuntur, opera & studio Balthesaris Capræ nobilis Mediolanensis explicata. (In: Patauij, apud Petrum Paulum Tozzium, 1607) ^ Alcuni calcoli astrologici, anche risalenti al periodo fiorentino, furono conservati da Galileo e compaiono nel volume 19 dell'Opera omnia (sezione "Astrologica nonnulla", pp. 205-220). Da notare che per lo più si tratta di calcoli del tema natale, solo in qualche caso accompagnati da interpretazioni o pronostici. ^ È stata ritrovata una lista della spesa dove Galilei, insieme a ceci, farro, zucchero, ecc., ordinava di acquistare anche pezzi di specchio, ferro da spianare e quanto di utile per il suo laboratorio ottico. (Da una nota di una lettera di Ottavio Brenzoni  conservata nella Biblioteca Centrale di Firenze) ^ Espressione tradizionalmente attribuita da scrittori cristiani all'imperatore pagano Flavio Claudio Giuliano che in punto di morte avrebbe riconosciuto la vittoria del Cristianesimo: «Hai vinto o Galileo» riferendosi a Gesù nativo della Galilea. ^ Il comportamento di Galileo è stato variamente giudicato: vi è chi sostiene che egli le chiuse in convento perché «doveva pensare a una loro sistemazione definitiva, cosa non facile perché, data la nascita illegittima, non era probabile un futuro matrimonio» (come se egli non potesse legittimarle, come fece con il figlio Vincenzio e come se una monacazione coatta fosse preferibile a un matrimonio non prestigioso; cfr. Sofia Vanni Rovighi, Storia della filosofia moderna e contemporanea. Dalla rivoluzione scientifica a Hegel, Brescia, Editrice La Scuola), mentre altri ritengono che «alla base di tutto stava il desiderio di Galileo di trovare per esse una sistemazione che non rischiasse di procurargli in futuro alcun nuovo carico [...] tutto ciò nascondeva un profondo, sostanziale egoismo» (cfr. Ludovico Geymonat,). ^ «quel mirare per quegli occhiali m'imbalordiscon la testa», avrebbe detto Cremonini secondo la testimonianza di Paolo Gualdo. (Da una lettera del Gualdo a Galilei. Scheiner pubblicò ancora sull'argomento il De maculis solaribus et stellis circa Iovem errantibus. La priorità della scoperta andrebbe all'olandese Johannes Fabricius, che pubblicò a Wittenberg, il De Maculis in Sole observatis, et apparente earum cum Sole conversione. Cioè con i sensi, con l'osservazione diretta. ^ «Egli pensava infatti che una colonna d’acqua troppo alta tendeva a spezzarsi sotto l’azione del suo stesso peso, così come si spezza una fune di materiale poco resistente quando, fissata in alto, viene tirata dal basso. Fu quindi proprio questa analogia fondata sull’esperienza osservativa a portare il Galilei fuori strada.» (in IL VUOTO – Elisa Garagnani – Isis Archimede). Salmi che la figlia di Galileo, suor Maria Celeste, s'incaricò di recitare, con il consenso della Chiesa. Baretti, in una sua ricostruzione, avrebbe fatto nascere la leggenda di un Galilei che una volta alzatosi in piedi, colpì la terra e mormorò: "E pur si muove!" (In Giuseppe Baretti, The Italian Library). Tale frase non è contenuta in alcun documento contemporaneo, ma nel tempo fu ritenuta veritiera, probabilmente per il suo valore suggestivo, a tal punto che Berthold Brecht la riporta in "Vita di Galileo", opera teatrale dedicata allo scienziato pisano alla quale egli si dedicò a lungo. ^ In Paschini è riportato che: «secondo le norme del Sant'Offizio» questa condizione «era equiparata ad una prigionia per quanto egli facesse per ottenere la liberazione. Si ebbe il timore probabilmente ch'egli riprendesse a fare propaganda delle sue idee e che un perdono potesse significare che il Sant'Offizio si fosse ricreduto a proposito di esse» (cfr. pure Alceste Santini, "Galileo Galilei", L'Unità). Conceditur habitatio in eius rure, modo tamen ibi in solitudine stet, nec evocet eo aut venientes illuc recipiat ad collocutiones, et hoc per tempus arbitrio Suae Sanctitatis.» (Ed. Naz.) ^ A Galileo era infatti proibito stampare qualunque opera in un paese cattolico. ^ Fonti di questa corrispondenza si trovano in: Paolo Scandaletti, Galilei privato, Udine, Gaspari editore, Antonio Favaro, Amici e corrispondenti di Galileo Galilei, Alessandra Bocchineri, Venezia, Pubblicazioni del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Valerio Del Nero, Galileo Galilei e il suo tempo, Milano, Simonelli Editore, A. Righini, Galileo: tra scienza, fede e politica, Bologna, Editrice Compositori, 2008, p. 150 e sgg.; Geymonat, Giorgio Abetti, Amici e nemici di Galileo, Milano, Bompiani, Banfi,  «Galileo fu invitato alla villa di S.Gaudenzio, sulle colline di Sofignano, alla fine di luglio del 1630, ospite di Giovanni Francesco Buonamici, che con lo scienziato vantava una parentela da parte della moglie Alessandra Bocchineri: la sorella di lei, Sestilia, aveva sposato a Prato l'anno prima il figlio di Galileo, Vincenzo.» (In Comune di Vaiano) Fu permessa a Galilei l'assistenza del giovane allievo Vincenzo Viviani e, dall'ottobre 1641, anche di Evangelista Torricelli. ^ «La prego a condonare questa mia non volontaria brevità alla gravezza del male; e le bacio con affetto cordialissimo le mani, come fo anche al Signor Cavaliere suo Consorte.» (In Le Opere di Galileo Galilei, a cura di Eugenio Albèri, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 1848, p. 368) Anfossi pubblicava–anonimamente–in Roma un libro in cui le leggi di Keplero e di Newton erano presentate come «cose che non meritano la menoma attenzione» e si chiedeva come mai «tanti uomini santi» ispirati dallo Spirito Santo, «ci han detto ottanta e più volte che il Sole si muove senza dirci una volta sola che è immobile e fermo?» (Sebastiano Timpanaro, Scritti di storia e critica della scienza, Firenze, G.C. Sansoni, L'edizione curata da Favaro si basava sulle copie allora disponibili, perché l'originale non era stato ritrovato (Avvertimento. Il manoscritto originale è stato scoperto nell'agosto 2018 e pubblicato come appendice a Michele Camerota, Franco Giudice, Salvatore Ricciardi, "The reapparance of Galileo's original letter to Benedetto Castelli". L'effetto di parallasse stellare, che dimostra la rivoluzione della Terra attorno al Sole, sarà misurato da Friedrich Wilhelm Bessel solo nel 1838. Per il testo della condanna, vedi: Sentenza di condanna di Galileo Galilei, su it.wikisource.org. Per il testo dell'abiura, vedi: Abiura di Galileo Galileisu it.wikisource.org. ^ Questa frase è stata citata in un intervento molto criticato di Joseph Ratzinger (cfr. "La crisi della fede nella scienza" in Svolta per l'Europa? Chiesa e modernità nell'Europa dei rivolgimenti, Roma, Edizioni Paoline. Ratzinger aggiunge da parte sua che: «Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande. Qui ho voluto ricordare un caso sintomatico che evidenzia fino a che punto il dubbio della modernità su se stessa abbia attinto oggi la scienza e la tecnica.» ^ Già chiaramente indicati nella Lettera a Madama Cristina di Lorena granduchessa di Toscana. L'Accademia del Cimento, fra le più antiche associazioni scientifiche al mondo, fu la prima a riconoscere ufficialmente, in Europa, il metodo sperimentale galileano. Fu fondata a Firenze da alcuni allievi di Galileo, Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani. Si lasci alla storiografia stabilire, caso fosse mai possibile, se Galileo concepisse il moto inerziale unicamente come circolare [...] o se ammettesse anche la possibilità in natura della prosecuzione indefinita del moto rettilineo, anche perché in Galileo non si può sensatamente parlare di formulazione del principio d'inerzia come se fossimo nell'ambito della moderna fisica newtoniana, ma solo di alcune considerazioni preliminari al principio della relatività del moto.» Portale Galileo, su portalegalileo.museogalileo.it.Testi non compresi nella prima edizione dell'Edizione Nazionale curata da Antonio Favaro, ma in quella curata da William F. Edwards e Mario G. Helbing, con Introduzione, Note e Commenti di William A. Wallace, per Le opere di Galileo Galilei. Edizione Nazionale, Appendice al Volume III: Testi, Firenze, G.C. Giunti. Bibliografiche  Abbagnano, Albert Einstein, Leopold Infeld, L'evoluzione della fisica. 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Studi e ricerche", Atti del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, Enciclopedia Treccani alla voce "Ronchitti, Cecco di" ^ Difesa di Galileo Galilei nobile fiorentino, lettore delle matematiche nello studio di Padova, contro alle calunnie & imposture di Baldessar Capra milanese, usategli sì nella «Considerazione astronomica sopra la Nuova Stella del MDCIIII» come (& assai più) nel pubblicare nuovamente come sua invenzione la fabrica & gli usi del compasso geometrico & militare sotto il titolo di «Usus & fabrica circini cuiusdam proportionis & c.» (In: Venetia, presso Tomaso Baglioni). ^ Antonio Favaro, "Galileo astrologo secondo documenti editi e inediti. Studi e ricerche", Mente e cuore, VIII (Trieste) pp. 1-10. ^ Giuseppe Antonino Poppi, La Repubblica, Galileo as Practising Astrologer, su journals.sagepub.com. 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Galilei", su illaboratoriodigalileogalilei.it.  Lo scherzo d'un uomo di genio dice cose più serie che non le cose serie dell'uomo volgare; anzi primo indicio della superiorità è il sorriso. Il volgo andava ripetendo che la caduta di un pomo preannunziò la scoperta della gravitazione universale: e Byron scherzando di ceva essere stata la prima volta, da Adamo in qua, che un pomo e una caduta dessero qualche vantaggio al genere umano. Altro che pomo ! voleva dire il poeta: esatte premesse occorrono alle grandi scoperte e non il caso. Il pensiero è una catena e ciò che ai più par caso entra nella serie. Togliete Galilei e Keplero e avrete soppresso le premesse immediate a Newton. Togliete Copernico, e li avrete soppressi tutti. Togliete le tradizioni pitagorichealle univer sità italiane e sparisce Copernico. Dov'è il caso? Il pomo no: una serie di grandi pensieri che furono grandi scoperte sgombrò le vie del firmamento all' anglo. Un fatto può essere occasionale, ma per quegli uomini che portano nel cervello quella preparazione, che rias sumendo la serie, afferra il fatto e lo trasforma. Così nell'astronomia e così proprio in tutte le altre scienze. To gliete Bruno e Campanella, e non troverete Vico. Togliete Telesio, e li perdete tutti. Togliete le tradizioni naturalistiche dell'antica scuola italica— già greca di origine —e sparisce Telesio. È la me desima serie ed è una riprova della cognatela tra tutte le scienze. E questa serie non si smentisce neppur dove la reazione crede spennare le reni agl'ingegni alati. Non fu una reazione il libro della Ragion di Stato —che creò tanti discepoli-contro il Principe, che aveva già tutta una scuola, cioè Bottero non ebbe il disegno aperto di reagire trionfalmente contro Machiavelli? Ebbene, mentre il prete Bottero mandava ad uno de'più grandi e sventurati ingegni 215 italiani quante maledizioni gli erano ispirate dalla triplice reazione di Parigi, di Madrid e di Roma, era nel tempo istesso tirato dalla logica a prendere da Machiavelli la teorica de’ mezzi, come il secre tario di Firenze aveva preso la teorica de'fini pubblici da Dante e da Petrarca, ispirati — alla loro volta —dall'antica tradizione ro mana. Ed ecco la reazione entrare nella serie, come appunto la santa alleanza insinuava ne 'codici tanti principii della rivoluzione. E ciò non accade soltanto rispetto ai sistemide'quali l'uno suppone l'altro anche dove il secondo reagisce al primo, ma alle singole teo riche di ciascuno, le quali non segnano un progresso che non sia una conclusione di ciò che si era pensato prima. A che mira, infatti, la critica di Galilei? A reintegrare l'unità della natura. Ma se Bacone lo chiama filosofo telesiano, voi dovete ricordare che Telesio non solo aveva propugnato il metodo sperimen tale, ma tentato comporre il dissidio lasciato aperto da Aristotile tra materia e forma, come Pomponazzi e Campanella avevano troncato il dualismo tra intelletto e senso, e Bruno tra natura e Dio. Non è un gruppo, è una catena nella quale il nome di ciascuno s’inanella nel precedente, e tutti insieme presentano il disegno della rinnovata natura. Per questi il risorgimento fu naturalismo, fu ita liano, mentre la scolastica era stata europea. Se dalla serie e dal proprio posto nella serie voi spiccate il nome di Galilei, vi accorgerete che resterà il nome di un astronomo più o meno insigne, di un improvvisatore di qualche teorica, dello scopri tore fortunato di qualche astro e di qualche istrumento, ma che cosa egli abbia aggiunto al pensiero, per quale via e con quali effetti voi non saprete dire. Ammirerete un mito e sarà volgare ammirazione. Voi, in somma, assisterete ai miracoli di un prestigiatore non alle scoperte del genio. Or sospettate voi che io vi voglia esporre ad una ad una le pre messe di Galilei e di Klepero per arrivare sino a Newton? che io voglia indicarvi da quali parti specialmente della meccanica terre stre emerse la meccanica celeste e come la dimostrazione de'quadrati de' tempi delle rivoluzioni che stanno fra loro come i cubi degli assi maggiori delle orbite abbia aperto a Newton la conclusione che la forza era proporzionale alla massa? Sarebbe riuscire, pel cammino peggiore, a nessuna meta. I dotti · non imparerebbero una sillaba di nuovo e vedrebbero in espressioni difettive snaturate quelle forme che chiedono un'analisi esatta, e i meno dotti si allontanerebbero storditi e infastiditi. Io, dunque,. 216 senza guastare la serie, debbo dirvi quel che penso io intorno ad al cuni pensieri di quell'uomo sommo e scelgo — non a caso —i punti seguenti: 1.º Come intese Galilei il metodo sperimentale? 2. ° Quale valore oggettivo dette egli alla conoscenza? 3. ° Quale fu il risulta mento scientifico e morale delle sue dottrine? Non è poco, e più che nella cortesia --cosa mediocre— confido nella serietà con la quale voi ed io vogliamo che sia discusso il pa trimonio glorioso della mente. II. « Non vogliamo costruzioni scientifiche, non metodi aprioristici, vogliamo il metodo sperimentale: » Così gridano, e vogliamolo pure, io scrivevo, ma vogliamolo davvero. Non fu forse proclamato ed eser citato con diverso intento e diversa fortuna? Non fu fecondo o arido, secondo l'intelletto e la mano che presero a trattarlo? Non si distin gue dall'empirismo? Bisogna dunque sapere che è veramente me todo sperimentale. Galilei si trova a pari distanza tra Telesio e Bacone, due che pro pugnarono il metodo sperimentale senza scoprire nulla nel mondo naturale, e si trova ad un secolo di distanza da Leonardo da Vinci, che, professando il metodo sperimentale, strappò più di un segreto alle cose reali. Perchè dunque l'istesso metodo, arido nelle mani di Telesio e di Bacone, diventa fecondo nelle mani di Leonardo e di Ga lilei? Ecco il punto. E la risposta è chiara: — Perchè il metodo non è veramente lo stesso. Per Telesio e Bacone comincia e resta nel fenomeno e dove al fenomeno aggiunge qualche ipotesi, è soggettiva, cioè puro ri torno all'antico. Per Leonardo e Galilei comincia dal fatto e sale alle alte sfere della ragione, mediante il linguaggio stesso delle cose che è la matematica. La matematica è formale come la logica —dice Bacone. La matematica è reale come le cose afferma Galilei. Con la matematica sei arrivato a far girare la terra -è un frizzo di Bacone contro Galilei. E la terra gira -- grida il pisano. Pur tu ti sei disdetto —rincalza Bacone. Stolto ! dice Galilei -- potevo disdirmi cento volte, e la prova re sta e la terra continua il suo giro. 217 Ma chi ti malleva la realtà della matematica? Il fatto stesso che misuratamente si move, misuratamente per corre il tempo e lo spazio, nella misura costituisce l'ordine. -La misura è aggiunta. - La misura è: io la colgo: chi non la coglie non vede il fatto. Telesio non lo dice. Leonardo lo disse, e scoprì. Telesio e tu non avete scoperto. Il fatto a voi è stato muto; a noi ha parlato. Fermiamoci. Il divario è grande. Potete voi dire che sia l'istesso metodo? Fu Bacone l'anglo che intese Galilei o un altro? Quando si parla di metodo sperimentale, di senso, di fatto, biso gna cogliere tutto il fatto, il quale non è qualità soltanto, è quan tità; e questi due termini s'integrano a vicenda, in modo che la quantità si qualifica, e la qualità si quantifica. Questo pro cesso graduale ed intimo delle cose è l'evoluzione, e la legge che la traveste, affaticandola di moto in moto, è la causalità, che in Newton si determina come gravitazione universale. Il fatto dunque non è fenomeno soltanto, è fenomeno e legge. Così Galilei lo intuisce e così lo intuisce intero; Bacone coglie un termine solo e mutila il fatto. L'esperienza che in Galilei è piena, in Bacone è unilaterale; quel metodo che in Galilei è sperimentale, in Bacone diventa empirico; e quel processo che nell'uno è fecondo di scoperte, nell'altro è gonfio di precetti pom posi. Ha un bel rimuovere Bacone tutti quelli ch'ei chiama idoli, se innanzi agli occhi gli rimane fisso l'idolo peggiore, il fatto eslege. Così aveva fatto Leonardo da Vinci notando nel fenomeno la legge, e così fa Galilei, entrambi con pochi precetti e con effetti amplissimi, tirandone l'uno applicazioni mirabili alla meccanica, e specialmente all'idraulica, l'altro al sistema planetario. E si ripeta pure che in Galilei l'esperienza naturale è senso pieno, ma quì un fatto contemporaneo ci deve fermare e impensie rire. Bruno senza i computi di Copernico, senza il metodo speri mentale e il teloscopio di Galilei, e senza il calcolo superiore di Newton, non era pervenuto per sola forza di pensiero, alle medesi me anzi a più larghe conclusioni che non si trovino nell'astronomo tedesco, nell'italiano e nell'inglese, affermando cose che facevano sgomento a Klepero e furono trovate poi vere dal progresso poste riore? Il pensiero, da solo, non valse altrettanto che l'esperienza, e 218 ciò che lo scienziato induceva computando, il genio non poteva co struire? L'esempio di Bruno, non bene inteso, potrebbe inficiare la cri tica di Galilei, nè per il genio vale ricorrere ad eccezioni, che com plicano la quistione e non spiegano nulla. Il vero è che Bruno intese il fatto e l'esperienza come Galilei, e movendo dal medesimo punto, l'uno giunse con la logica dove l'altro con la matematica. La conseguenza è che la matematica è la logica delle cose, e che se rispetto alla mente, come dice Leibintz, pensare è calcolare, rispetto alle cose moversi misurata mente vuol dire evolversi razionalmente. Bruno è la riprova, non l'eccezione. Appena, infatti, il nolano intese il sistema copernicano, n'esultò, cercò alla matematica la riprova della logica, e come Campanella scrisse l'apologia di Ga lilei, così Bruno di Copernico. Era dal medesimo punto di partenza la medesimezza del pensiero logico e del pensiero matematico, con medesimezza di disegno e di effetti. E-ora si dirà-Cartesio non intese fare la medesima cosa, cioè costruire la fisica col pensiero, come il nolano, introducendovi la matematica, come Galilei, e perchè egli riuscì a costruire una fi sica falsa, disconoscendo Bruno in tutto e in gran parte il disegno di Galilei? Perchè egli non muove come que due dal fatto, bensì dall'idea astratta, dal puro cogito, che non è la cosa, ma l'ombra della cosa, e l'ombra ei tratta come cosa salda. Perciò non solo non giunse per forza di logica, agl’infiniti mondi del nolano, ma nep pure per forza di matematica a riconoscere l'importanza del siste ma eliocentrico dimostrato da Copernico e da Galilei. Bacone errò, mutilando il fatto e attenendosi al solo fenomeno, Cartesio errò, correndo dietro l'ombra del fatto e improvvisando la legge. L'uno cadde nell'empirismo l'altro nell'apriorismo. In Bacone riconosciamo il merito di avere insistito sulla indu zione, e in Cartesio, come dice Comte, il merito di aver convertito la qualità in quantità, e la quantità continua nella discreta. Ma l'uno e l'altro, non avendo colto il punto di partenza, non aggiun sero nulla alla scienza della natura. Justus Liebig, parlando dell'intima gioia degli scopritori - ne gata a Bacone - nomina Galilei, Klepero, Newton. E perchè non ricorda Bruno? Quanta non è la sua gioia dove saluta le comete come testimoni della sua filosofia, e parlando di Copernico, ag giunge qualche felicità essere toccata al secolo suo, quando dai 219 lidi dell'oceano germanico un grande astronomo sorse a con forto della sua filosofia. In quella gioia c'è — come ho detto— l’unità del pensiero logico col matematico, e nella medesimezza de' risultati c'è la cognatela tra la natura e il pensiero, la quale vuol essere riaffermata, supe rando da una parte il vecchio idealismo metafisico e dall'altra il positivismo empirico. Ed ora, dopo il metodo sperimentale, dobbiamo esaminare in Ga lilei il valore che egli dà alla conoscenza. III. Non è di piccolo momento questo esame; involge il massimo pro blema della filosofia ed è un punto importante della mente, e dirò, del carattere di Galilei. Si può formularlo così: Il metodo speri mentale condusse Galilei a quel relativismo filosofico che dà alla conoscenza un valore precario, cioè o relativo al soggetto pensante (sofistica) o relativo ad un certo tempo e luogo (empirismo)? In altre parole: per Galilei nulla di permanente, di assoluto, di uni versale entra nella conoscenza, o c'è invece delle conoscenze che per loro necessità intrinseca s' impongono a tutti gli uomini, e alla natura come agli uomini, e a Dio come alla natura? Ci sono— risponde il Pisano - e il fatto ci dice che sono, e ci dice che sono le conoscenze matematiche sian pure o applicate, perchè non mutano per variare di luogo e di tempo, e perchè tali si riscontrano nelle cose quali si trovano nella mente. La natura le impone, la mente le sugella, neppur Dio potrebbe negarle, ma o il sofista o il pazzo. L'affermazione è solenne, e bisogna lasciargli la parola. Quanto alla verità, egli dice di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina. Nessun divario, dunque, in questo tra la sapienza divina e umana? Di vario di modo, egli dice, lo ammettiamo, perchè in Dio è sapienza intuitiva quella che nell'uomo è discorsiva; di numero pure, perchè Dio le sa tutte quelle verità, e l'uomo una parte; ma di necessità no: sono del pari necessarie per lui e per noi, e mille Demosteni e Aristotili e-voleva dire—mille Dei non potrebbero scemare la certezza di una sola di quelle. Partecipa di questa certezza la scienza della natura, le cui leggi sono matematiche. E il processo fu questo: Telesio affermò che il 220 libro della filosofia è la natura; Bruno aggiunse che quel libro è scritto in carattere assoluti: Galilei conchiuse che i caratteri sono matematici. Anche Cartesio disse come Galilei: Apud me omnia sunt ma thematice in natura; ma lo disse dopo e timidamente, essendoci questa differenza tra’due pensatori, che per Galilei le verità mate matiche leggibili nella natura hanno l'istesso valore per la mente sia divina o umaņa, e per Cartesio niente è limite alla onnipotenza di Dio, neppure il principio di contraddizione. Se lo disse davvero o per vivere tranquillo, specialmente dopo le persecuzioni fatte a Galilei, non - so; ma, certo, l'italiano lo a vanza di tempo e di fermezza. Delle altre scienze che non sono le naturali Galilei dubitò, perchè si sottraggono alle matematiche e l'uomo vi mette del suo. Le abbandonò al relativismo. Ma se tutto è evoluzione e tutto procede da natura, noi ben pos siamo affermare che i suoi Dialoghi delle Scienze Nuove saranno quasi prefazione di una Scienza Nuova intorno alla comune natura delle nazioni. Le teoriche sulla psico-fisi e sulla fisica sociale hanno assai allargato il campo di applicazione alle matematiche. Noi, è vero, non possiamo mutare le leggi naturali, ma possiamo forse mutare le leggi sociali e costruire a nostro talento le società umane? La storia non rientra ogni giorno più nelle leggi della natura e però della misura? La morale par certo la cosa più im ponderabile, ed è pure altrettanto graduale e necessaria nel suo processo che il suo moto si potrebbe dire uniformemente accelerato. Dal pensiero si traduce nella volontà, dall'azione alle istituzioni, e se rea, dal fastigio all ' imo (1 ). Signori, ho esaminato quelli che nella scienza di Galilei mi parevano i punti principali ed ho tentato liberare dagli equivoci volgari il metodo sperimentale. Non a pompa letteraria mi sono giovato di rapidi raffronti ma per delineare quello che fu il cervello più equilibrato di quanti al mondo furono scienziati. Le conse guenze scientifiche e morali di quella profonda rivoluzione intel lettuale io ve le ho segnate senza orgoglio nazionale e con pura coscienza di uomo. Era cosí alto il tema, così pieno di pensiero, di (1 ) Qui manca qualche pagina intorno all'applicazione delle matematiche ai fenomeni sociali e morali, non potuta trovare. 221 poesia, di storia, di gloria e di dolori che a me non che il tempo, mancò il volere di divagare. Abbasserei l'occhio da Telesio, da Co pernico, da Galilei per posarlo sulla politica? Farei allusioni, rim proveri, programmi? Mail monumento che divisate è mondiale; una sillaba aggiunta al tema macchierebbe la prima pietra: e, per rien trare nella mediocrità de ' Parlamenti, invidieremmo a noi questa breve fortuna che ci solleva a colloquio coi legislatori degli astri. Che sono i nostri codici, i nostri statuti, i disegni nostri, che durata hanno e che sapienza di fronte alle leggi onde Galilei sta biliva il ritmo dei cieli, Machiavelli la vicenda degli Stati, e Vico il corso dell'umanità? C'è qualcosa al di sopra dei codici ed è la pa rola dei fondatori delle religioni, che lasciano libri sacri e parlano ai millenarii. Pur viene il secolo che mette nella pagina più au tentica di quei libri il tarlo del pensiero. Ma qualcuno c'è stato che senza chiamarsi messia nè profeta misurò una parola a lettere di stelle, la pose nel firmamento, e nessuno la cancellerà. Come chia mate un uomo che vi trasmette un libro più duraturo di una bib bia? Alzate il monumento e non mi chiedete altro.  The principle of relativity states that it is im- possible to determine whether a system is at rest or moving at constant speed with respect to an inertial system by experiments internal to the system, i.e., there is no internal observation by which one can distinguish a system moving uniformly from one at rest. This principle played a key role in the defence of the heliocentric syst- em, as it made the movement of the Earth com- patible with everyday experience. According to common knowledge, the prin- ciple of relativity was first enunciated by Galileo Galilei (1564–1642; Figure 1) in 1632 in his Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo (Dialogue Concerning the Two Chief World Syst- ems) (Galilei, 1953), using the metaphor known as ‘Galileo’s ship’: in a boat moving at constant speed, the mechanical phenomena can be described by the same laws holding on Earth. Many historical aspects of the birth of the rel- ativity principle have received little or scattered attention. In this short paper we put together some evidence showing that Giordano Bruno (1548–1600; Figure 2) largely anticipated Gal- ilei’s arguments on the relativity principle (Bruno, 1975). In addition, we briefly discuss Galilei’s silence about Bruno, and the con- nection between the lives and careers of the two scientists. Figure 1: A portrait of Galileo Galilei by Ottavio Leoni (en.wikipedia.org). Figure 2: An eighteenth century egrav- ing of Giordano Bruno (http://www. the history blog . com / wp - content / up- loads/2012/02/bruno-giordano.jpg).   Page 241     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity The Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo is the source usually quoted for the enun- ciation of the principle of relativity by Galileo Galilei. However, its publication in 1632 was certainly not a surprise, as Galilei had expres- sed his views much earlier, in particular when lecturing at the University of Padova from 1592 to 1610. Some aspects of the evolution of Galilei’s ideas, from the Trattato della Sfera ... (D’Aviso, 1656) in which the Earth is still placed at the centre of the Universe, towards the Dia- logo, and passing through his heliocentric cor- respondence with Kepler from 1597 onwards (Galilei, 1890 –1907), are examined, for ex- ample, by Barbour (2001), Crombie (1996), Cla- velin (1968), Giannetto (2006), Martins (1986) and Wallace (1981; 1984). In February 1616, the Roman Inquisition condemned the theory by Nicolaus Copernicus (1473–1543) as being foolish and absurd in philosophy. One month before, the inquisitor Monsignor Francesco Ingoli (1578 –1649) ad- dressed Galilei in the essay Disputation Con- cerning the Location and Rest of Earth Against the System of Copernicus (Ingoli, 1616). This letter listed both scientific and theological arg- uments against Copernicanism. Galilei only responded in 1624, and in his lengthy reply he introduced an early version of the ‘Galileo’s ship’ metaphor, and discussed the experiment of dropping a stone from the top of the mast. Both arguments, as we shall see, had previously been raised by Bruno, and later were used again by Galilei, although with small differences, in the Dialogo. In the Dialogo Sopra i Due Massimi Sistemi del Mondo, Galilei discusses the arguments then current against the idea that the Earth moves. The book is a fictional dialogue be- tween three characters. Two of these, Salviati and Sagredo, refer to figures in the ok that disappeared a few years after the publication of the book. Salviati plays the role of the defender of the Copernican theory, putting forward Gali- lei’s point of view. The second character, Sa- gredo, is a Venetian aristocrat who is educated and liberal, and he is willing to accept new ideas. Thus, he acts as a moderator between Salviati and the third character, Simplicio, who fiercelysupportsAristotle. Thenameofthislast character (reminiscent of ‘simple-minded’ in Ital- ian) is in itself a clear indication of Galilean dia- lectics, which are designed to destroy oppon- ents. Despite being a famous commentator of Aristotle, Simplicio manifests himself with an embarrassing simplicity of spirit. Galilei uses Salviati and Simplicio as spokespersons for the two clashing world views; Sagredo represents the discreet reader, the steward of science, the one to whom the book is addressed, and he intervenes during the discussions, asking for clarification, contributing conversational topics and acting like a science enthusiast. On the second day, Galilei’s dialogue con- siders Ingoli’s arguments against the idea that the Earth moves. One of these is that if the Earth is spinning on its axis, then we would all be moving eastward at hundreds of miles per hour, so a ball dropped from a tower would land west of the tower that in the meantime would have moved a certain distance to the east- wards. Similarly, the argument goes that a cannonball shot eastwards would fall closer to the cannon compared to a ball shot to the west since the cannon moving east would partly catch up with the ball. To counter such arguments Galilei propos- es through the words of Salviati a gedanken- experiment: to examine the laws of mechanics in a ship moving at a constant speed. Salviati claims that there is no internal observation which allows them to distinguish between a smoothly-moving system and one at rest. So two systems moving without acceleration are equivalent, and non-accelerated motion is rel- ative: Salviati – Shut yourself up with some friend in the main cabin below decks on some large ship, and have with you there some flies, but- terflies, and other small flying animals. Have a large bowl of water with some fish in it; hang up a bottle that empties drop by drop into a widevesselbeneathit. Withtheshipstanding still, observe carefully how the little animals fly with equal speed to all sides of the cabin. The fish swim indifferently in all directions; the drops fall into the vessel beneath; and, in throwing something to your friend, you need throw it no more strongly in one direction than another, the distances being equal; jumping with your feet together, you pass equal spaces in every direction. When you have observed all these things carefully (though doubtless when the ship is standing still everything must happen in this way), have the ship proceed with any speed you like, so long as the motion is uniform and not fluctuating this way and that. You will discover not the least change in all the effects named, nor could you tell from any of them whether the ship was moving or standing still. In jumping, you will pass on the floor the same spaces as before, nor will you make larger jumps toward the stern than toward the prow even though the ship is moving quite rapidly, despite the fact that during the time that you are in the air the floor under you will be going in a direction opposite to your jump. In throwing something to your companion, you will need no more force to get it to him whether he is in the direction of the bow or the stern, with yourself situated op- posite. The droplets will fall as before into the Page 242     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  vessel beneath without dropping toward the stern, although while the drops are in the air the ship runs many spans. The fish in their water will swim toward the front of their bowl with no more effort than toward the back, and will go with equal ease to bait placed any- where around the edges of the bowl. Finally the butterflies and flies will continue their flights indifferently toward every side, nor will it ever happen that they are concentrated toward the stern, as if tired out from keeping up with the course of the ship, from which they will have been separated during long intervals by keeping themselves in the air. And if smoke is made by burning some incense, it will be seen going up in the form of a little cloud, remaining still and moving no more toward one side than the other. The cause of all these correspondences of effects is the fact that the ship’s motion is common to all the things contained in it, and to the air also. That is why I said you should be below decks; for if this took place above in the open air, which would not follow the course of the ship, more or less noticeable differences would be seen in some of the effects noted. (Galilei, 1953: 217). Note that Galilei does not state that the Earth is moving, but that the motion of the Earth and the motion of the Sun cannot be distinguished (hence the name ‘relativity’): There is one motion which is most general and supreme over all, and it is that by which the Sun, Moon, and all other planets and fixed stars – in a word, the whole universe, the Earth alone excepted – appear to be moved as a unit from East to West in the space of twenty-four hours. This, in so far as first appearances are concerned, may just as logically belong to the Earth alone as to the rest of the Universe, since the same appear- ances would prevail as much in the one sit- uation as in the other. (Galilei, 1953: 132).  The possibility that the Earth moves had been discussed several times, in particular by the Greeks, mostly as a hypothesis to be rejected. Also an annual motion of the Earth around the Sun had been considered by Aristarchus of Samos (c. 310 – c. 230 BC). Later, some medi- eval authors discussed the possibility of the Earth's daily rotation. The first was probably Jean Buridan (c. 1300–1361; Figure 3), one of the ‘doctores parisienses’—a group of profes- sors at the University of Paris in the fourteenth century, including notably Nicole Oresme. Buridan’s example of the ship, which was lat- er used by Oresme, Bruno and Galilei, is con- tained in Book 2 of his commentary about Aris- totle’s On the Heavens (1971): It should be known that many people have held as probable that it is not contradictory to appearances for the Earth to be moved circu- larly in the aforesaid manner, and that on any given natural day it makes a complete rotation from west to east by returning again to the west – that is, if some part of the Earth were designated [as the part to observe]. Then it is necessary to posit that the stellar sphere would be at rest, and then night and day would result through such a motion of the Earth, so that motion of the Earth would be a diurnal motion. The following is an example of this: if anyone is moved in a ship and imagines that he is at rest, then, should he see another ship which is truly at rest, it will appear to him that the other ship is moved. This is so because his eye would be completely in the same relationship to the other ship regardless of whether his own ship is at rest and the other moved, or the contrary situation prevailed. And so we also posit that the sphere of the Sun is totally at rest and the Earth in carrying us would be rotated. Since, however, we imag- ine we are at rest, just as the man on the ship Figure 3: Jean Buridan (www.buscabio- grafias . com / biografia / verDetalle / 576 / Jean %Buridan). moving swiftly does not perceive his own mo- tion nor that of the ship, then it is certain that the Sun would appear to us to rise and set, just as it does when it is moved and we are at rest. (Buridan, 1942: Book 2, Question 22). Here we agree with Barbour (2001), that what Buridan is referring to is kinematic relativity. To Barbour, ... we have [here] a clear statement of the principle of relativity, certainly not the first in the history of the natural philosophy of motion but perhaps expressed with more cogency than ever before. The problem of motion is beginning to become acute. We must ask our- selves: is the relativity to which Buridan refers kinematic relativity or Galilean relativity? There is no doubt that it is in the first place kinematic; for Buridan is clearly concerned with the condi- tions under which motion of one particular body can be deduced by observation of other bod- ies. (Barbour, 2001: 203).  Page 243     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  Later, Buridan (1942) writes: But the last appearance which Aristotle notes is more demonstrative in the question at hand. This is that an arrow projected from a bow directly upward falls to the same spot on the Earth from which it was projected. This would not be so if the Earth were moved with such velocity. Rather, before the arrow falls, the part of the Earth from which the arrow was projected would be a league’s distance away. But still supporters would respond that it happens so because the air that is moved with the Earth carries the arrow, although the arrow appears to us to be moved simply in a straight line motion because it is being carried along Figure 4: A miniature portrait of Nicole Oresme included in his Traité de la sphère. Aristotle, Du ciel et du monde (n.d.) (en.wikipedia.org). with us. Therefore, we do not perceive that motion by which it is carried with the air. Buridan already expresses some concerns about the dynamics involved, but his conclusion is that ... the violent impetus of the arrow in ascend- ing would resist the lateral motion of the air so that it would not be moved as much as the air. This is similar to the occasion when the air is moved by a high wind. For then an arrow pro- jected upward is not moved as much laterally as the wind is moved, although it would be moved somewhat. (ibid.). Thus, the theory of impetus is not pushed to the limit in which one would identify it with the prin- ciple of inertia, nor with a dynamical concept of relativity. A further step was implicitly taken a few years later by Nicole Oresme (c. 1320 –1382; Figure 4). Oresme first states that no observation can disprove that the Earth is moving: ... one could not demonstrate the contrary by any experience ... I assume that local motion can be sensibly perceived only if one body appears to have a different position with re- spect to another. And thus, if a man is in a ship called a which moves very smoothly, irrespective if rapidly or slowly, and this man sees nothing except another ship called b, moving exactly in the same way as the boat a in which he is, I say that it will seem to this person that neither ship is moving. (Oresme, 1377; our English translation). Oresme also provides an argument against Buridan’s interpretation of the example of the arrow (or stone in the original by Aristotle) thrown upwards, introducing the principle of composi- tion of movements: ... one might say that the arrow thrown up- wards is moved eastward very swiftly with the air through which it passes, with all the mass of the lower part of the world mentioned above, which moves with a diurnal movement; and for this reason the arrow falls back to the place on the Earth from which it left. And this appears possible by analogy, since if a man were on a ship moving eastwards very swiftly without being aware of his movement, and he drew his hand downwards, describing a straight line along the mast of the ship, it would seem to him that his hand was moved straight down. Following this opinion, it seems to us that the same applies to the arrow moving straight down or straight up. Inside the ship moving in this way, one can have horizontal, oblique, straight up, straight down, and any kind of movement, and all look like if the ship were at rest. And if a man walks westwards in the boat slower than the boat is moving eastwards, it will seem to him that he is moving west while he is going east. (ibid.). Also, Nicolaus Cusanus (1401–1461) stated later, without going into detail, that the motion of a ship could not be distinguished from rest on the basis of experience, but some different argu- ments need to be invoked—and the same ap- plies to the Earth, the Sun, or another star (Cu- sanus, 1985). All this happened before Copernicus: a dis- cussion of how things could be, not so much abouthowthingsreallyare. Thisviewpointwould change after Copernicus.  In April 1583, forty years after the publication of the book by Copernicus and nine years before  Page 244     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  the 28-year old Galilei was called to the Uni- versity of Padova, Bruno went to England and lectured in Oxford, unsuccessfully looking for a teaching position there. Still, the English visit was a fruitful one, for during that time Bruno completed and published some of his most important works, the six ‘Italian Dialogues’, including the cosmological work La Cena de le Ceneri (The Ash Wednesday Supper, 1584) (see Bruno, 1975). This latter book consists of five dialogues between Theophilus, a disciple who exposes Bruno’s theories; Smitho, a character who was probably real but is difficult to identify, possibly one of Bruno’s English friends (perhaps John Smith or the poet William Smith)—the English- man has simple arguments, but he has good common sense and is free of prejudice; Pru- dencio, a pedantic character; and Frulla, also a fictional character who, as the name in Italian suggests, embodies a comic figure, provocative and somewhat tedious, with a propensity to- wards stupid arguments. In the third dialogue, the four mostly com- ment on discussions heard at a supper attend- ed by Theophilus in which Bruno—called in the text ‘il Nolano’ (the Nolan), because he was born in Nola near Naples—was arguing in part- icular with Dr Torquato and Dr Nundinio, re- presenting the Oxonian faculty. Bruno starts by discussing the argument relating to the air, winds and the movement of clouds, and he largely uses the fact that the air is dragged by the Earth: Theophilus ... If the Earth were carried in the direction called East, it would be necessary that the clouds in the air should always appear moving toward west, because of the extremely rapid and fast motion of that globe, which in the span of twenty-four hours must complete such a great revolution. To that the Nolan replied that this air through which the clouds and winds move are parts of the Earth, be- cause he wants (as the proposition demands) to mean under the name of Earth the whole machinery and the entire animated part, which consists of dissimilar parts; so that the rivers, the rocks, the seas, the whole vaporous and turbulent air, which is enclosed within the high- est mountains, should belong to the Earth as its members, just as the air does in the lungs and in other cavities of animals by which they breathe, widen their arteries, and other similar effects necessary for life are performed. The clouds, too, move through happenings in the body of the Earth and are based in its bowels as are the waters ... Perhaps this is what Plato meant when he said that we inhabit the con- cavities and obscure parts of the Earth, and that we have the same relation with respect to animals that live above the Earth, as do in re- spect to us the fish that live in thicker humid- ity. This means that in a way the vaporous air is water, and that the pure air which contains the happier animals is above the Earth, where, just as this Amphitrit [ocean]1 is water for us, this air of ours is water for them. This is how one may respond to the argument referred to by Nundinio; just as the sea is not on the surface, but in the bowels of the Earth, and just as the liver, this source of fluids, is within us, that turbulent air is not outside, but is as if it were in the lungs of animals. (Bruno, 1975: 117). The Dialogue then moves to discussing the motion of projectiles, and Bruno starts by ex- plaining the Aristotelian objection to the stone thrown upwards: Smitho – You have satisfied me most suffic- iently, and you have excellently opened many secrets of nature which lay hidden under that key. Thus, you have replied to the argument taken from winds and clouds; there remains yet the reply to the other argument which Aristotle submitted in the second book of On the Heavens2 where he states that it would be impossible that a stone thrown high up could come down along the same perpendicular straight line, but that it would be necessary that the exceedingly fast motion of the Earth should leave it far behind toward the West. Therefore, given this projection back onto the Earth, it is necessary that with its motion there should come a change in all relations of straightness and obliquity; just as there is a difference between the motion of the ship and the motion of those things that are on the ship which if not true it would follow that when the ship moves across the sea one could never draw something along a straight line from one of its corners to the other, and that it would not be possible for one to make a jump and return with his feet to the point from where he took off. (Bruno, 1975: 121). In Theophilus’ speech, Bruno then gives the following reply (in reference to the ship shown in Figure 5): Theophilus – With the Earth move ... all things that are on the Earth. If, therefore, from a point outside the Earth something were thrown upon the Earth, it would lose, because of the latter’s motion, its straightness as would be seen on the ship AB moving along a river, if someone on point C of the riverbank were to throw a stone along a straight line, and would see the stone miss its target by the amount of the velocity of the ship’s motion. But if some- one were placed high on the mast of that ship, move as it may however fast, he would not miss his target at all, so that the stone or some other heavy thing thrown downward would not come along a straight line from the point E which is at the top of the mast, or cage, to the point D which is at the bottom of the mast, or at some point in the bowels and body of the ship. Thus, if from the point D to the point E someone who is inside the ship would throw a stone straight up, it would return to the bottom along the same line however far the ship mov- Page 245     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  ed, provided it was not subject to any pitch and roll. (Bruno, 1975: 121). He then continues with the statement that the movement of the ship is irrelevant for the events occurring within the ship, and he explains the reasons for this: If there are two, of which one is inside the ship that moves and the other outside it, of which both one and the other have their hands at the same point of the air, and if at the same place and time one and the other let a stone fall without giving it any push, the stone of the former would, without a moment’s loss and without deviating from its path, go to the prefixed place, and that of the second would find itself carried backward. This is due to nothing else except to the fact that the stone which leaves the hand of the one supported by the ship, and consequently moves with its mo- tion, has such an impressed virtue, which is not had by the other who is outside the ship, Figure 5: The ship referred to in the dialogue; note that the letters are missing (math.dartmouth.edu). because the stones have the same gravity, the same intervening air, if they depart (if this is possible) from the same point, and arc given the same thrust. From that difference we cannot draw any other explanation except that the things which are affixed to the ship, and belong to it in some such way, move with it: and the stone carries with itself the virtue of the mover which moves with the ship. The other does not have the said participation. From this it can evidently be seen that the ability to go straight comes not from the point of motion where one starts, nor from the point where one ends, nor from the medium through which one moves, but from the efficiency of the originally impressed virtue, on which depends the whole differ- ence. And it seems to me that enough consid- eration was given to the propositions of Nun- dinio. (Bruno, 1975: 123). The experiments carried out in the ship are thus not influenced by its movement because all the bodies in the ship take part in that move- ment, regardless of whether they are in contact with the ship or not. This is due to the ‘virtue’ they have, which remains during the motion, after the carrier abandons them. Bruno thus clearly expresses the concept of inertia, using the word ‘virtu`’, in Italian meaning ‘quality’, which is carried by the bodies moving with the ship—and with the Earth. Bruno’s arguments certainly constitute a step towards the principle of inertia. We have seen that in La Cena de le Ceneri Giordano Bruno anticipates to a great extent the arguments of Galileo Galilei on the principle of relativity. In fact, his explanation contains all of the fundamental elements of the principle. The idea that the only movement observable by the subject is the one in which he does not take part, was presented earlier by Jean Buridan and Nicole Oresme, together with the notion of the composition of movements, which was alien to Aristotelian mechanics (see Barbour, 2001). Sim- ilar arguments were used by Nicholas Copern- icus (1543). The main missing ingredient was the idea of inertia, which explains the fact that projectiles move along with the Earth. In fact, while there is a continuous line between Buri- dan, Oresme, Copernicus, Bruno and Galilei, the arguments of Bruno on the impossibility of detecting absolute motion by phenomena in a ship constitute a significant step towards the principle of inertia and providing a dynamical context for relativity. What is new in Bruno, and what brings him almost exactly to where Galilei stood, is a clear understanding of the concept on inertia. The arguments and metaphors used in dis- cussions concerning the world systems were common to different authors, and were largely derived from Aristotle, Ptolemy and their com- mentators. Often they were used without ref- erencing, and sometimes they were attributed to the wrong source. For example, in his On the Heavens, Aristotle uses as experimental argu- ment the one about the stone that is sent upwards. In their comment on this work, Bur- idan and Oresme used a modified version of this experiment in which an arrow is sent upwards in a ship—although this was possibly introduced by an earlier unidentified commentator/translator. Nevertheless, the description by Galilei of exact- ly the same ship experiment that Bruno used in the Cena makes it very likely that Galilei knew this work. The use of the dialogue form with a similar choice of characters can also be seen as a possible sign that Bruno influenced Galilei.  Page 246     Alessandro De Angelis and Catarina Espirito Santo Giordano Bruno and the Principle of Relativity  However, Galilei never mentions Bruno in his works, and in particular there is no reference to him in Galilei’s large corpus of letters, even though he references the ‘doctores parisienses’ in his MS 46 (Galilei, c. 1584),3 a 110-page long manuscript containing physical speculations bas- ed upon Aristotle’s On the Heavens. Some authors (e.g. Clavelin, 1968) have commented on Galilei’s silence about Bruno, putting forward reasons of prudence, but as pointed out by Mar- tins (1986) this can hardly explain the absence of any mention also in his personal correspond- ence. Furthermore, although Galilei himself never mentions Bruno’s name in his personal notes and letters, several of his correspondents do mention the Nolan. In a letter to Galilei dating to 1610, Martin Hasdale tells him that Kepler had expressed his admiration for Galilei, although he regretted that in his works the latter failed to mention Copernicus, Giordano Bruno and sever- al Germans who had anticipated such discov- eries—including Kepler himself: This morning I had the opportunity to make friends with Kepler ... I asked what he likes about that book of yourself and he replied that since many years he exchanges letters with you, and that he is really convinced that he does not know anybody better than you in this profession ... As for this book, he says that you really showed the divinity of your genius; but he was somehow uneasy, not only for the German nation, but also for your own, since you did not mention those authors who intro- duced the subject and gave you the opportun- ity to investigate what you found now, naming among these Giordano Bruno among the Ital- ians, and Copernicus, and himself. Thus, we can say that Galileo Galilei was probably aware of Giordano Bruno’s work on the Copernican system. When Galilei arrived in Padova in 1592 it is also possible that the two scientists met, because Bruno was a guest of the nobleman Giovanni Mocenigo in Venice at the time and Galilei shared his time between Padova and Venice. In 1591, Bruno had unsuc- cessfully applied for the Chair of Mathematics that was assigned to Galilei one year later. Although it might be impossible to prove that the two astronomers met, it is hard to believe, given the motivations and characters of the two men and the circumstances of their lives during those years, as well as the small size of the Italian scientific community in those days, that they failed to discuss their respective arguments con- cerning the defence of the Copernican system. 6 NOTES 1. Amphitrite was in Greek mythology the wife of Poseidon, and therefore the Goddess of the Sea. 2. See Aristotle (1971: Section 296b). 3. Although Antonio Favaro, the Curator of the National Edition of Galilei’s works, dates it to 1584, Crombie (1996) and Wallace (1981; 1984) prefer a date of around 1590.  We wish to thank Luisa Bonolis, Alessandro Bettini, Alessandro Pascolini, Giulio Peruzzi and Antonio Saggion for useful suggestions, and the anonymous referees for directing us to some important aspects that we neglected to mention in the first draft of this paper. 8 REFERENCES Aristotle, 1971. On the Heavens. Cambridge (Mass.), Harvard University Press (Loeb Classic Greek Lib- rary English translation of the c. 350 BC Greek original). Barbour, J., 2001. The Discovery of Dynamics, Ox- ford, Oxford University Press. Bruno, G., 1975. The Ash Wednesday Supper. The Hague, Mouton (English translation by S.L. Jaki of the 1584 Italian original). Buridan, J., 1942. Questions on Aristotle‟s On the Heavens. Cambridge (Mass.), Medieval Academy of America (English translation by E.A. Moody of the c. 1340 Latin original). Clavelin, M., 1968. Galileo‟s Natural Philosophy. Paris, Colin (in French). Copernicus, N., 1543. On the Revolutions of the Heavenly Spheres. Nuremberg, Johannes Petreius (in Latin). Crombie, A.G., 1996. The History of Science from Augustine to Galileo. New York, Dover. Cusanus, N., 1985. On Learned Ignorance. Minne- apolis, The Arthur J. Banning Press (English trans- lation by J. Hopkins of the 1440 Latin original). D’Aviso, U., 1656. 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Princeton, Princeton University Press.  4 Volgareelatino nel carteggio galileiano   Sommario 4.1 Galileo epistolografo: volgare e latino. – 4.2 Un confronto con Descartes e Mersenne. – 4.3 Le lingue dei corrispondenti. – 4.4 Le lettere latine di Galileo. 4.1 Galileo epistolografo: volgare e latino Per le consuetudini della respublica litterarum lo scambio epistolare europeo riveste un ruolo importantissimo, anche in considerazione della censura, in quanto «la lettre n’a pas besoin d’imprimatur ni de ‘privilège’» (Fattori in Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999, 52).1 Non esistendo ancora i periodici scientifici, le lettere svolgevano anche tale funzione. Allievi e simpatizzanti, protettori, principi e cardinali, eruditi ita- liani e stranieri, colleghi ed ecclesiastici, artisti e letterati, amici e familiari: il carteggio galileiano comprende tutto questo.2 I destinatari di Galileo sono per lo più in Italia, ma non mancano corrispondenti stranieri, specialmente in Francia (Parigi e Lione), in Baviera, a Praga e nei Paesi Bassi: «Per quanto la giurisdizione del 1 Sulla respublica litterarum e la corrispondenza tra i savants cf. Fumaroli 1988; Bots, Waquet 1994 (in particolare i saggi di Johns, Fumaroli, Waquet, Frijhoff); Waquet 1998; Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999 (in particolare l’intervento di Marta Fattori); Jau- mann 2001; Bots, Waquet 2005; Fumaroli 2015. 2 Breve, ma puntualissimo, Bucciantini in Irace 2011, 344-9; si veda anche Garcia 2004, 257-65. All’epistolario galileiano è dedicato Ardissino 2010; la studiosa ha cura- to un’antologia delle lettere italiane dello scienziato (Galilei 2008), con introduzione di Battistini (L’umanità di uno scienziato attraverso le sue lettere). Sul registro polemico nell’epistolario si veda Ricci 2015.   Filologie medievali e moderne Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano suo epistolario sia di estensione europea, Galileo si rivolge soprat- tutto alla classe dirigente degli Stati italiani, laica ed ecclesiastica» (Battistini in Galilei 2008, 13).3 In che lingua scriveva Galileo le sue lettere? Ci si aspetterebbe che, nonostante la programmatica scelta del volgare per le sue opere, egli utilizzasse nella corrispondenza con gli stranieri il latino, lingua franca dell’aristocrazia del sapere. Una verifica integrale nei volumi dell’EN riserva invece la sorpresa di una situazione affatto diversa, che riportiamo in tabella: Anni Lettere di cui scritte in latino da Galileo a Kepler (4 agosto 1597, EN 10, 67; 19 agosto 1610, EN 10, 421) 1 a Brengger (8 novembre 1610, EN 10, 466) a Kepler (28 agosto 1627, EN 13, 374) a Fortescue [Aggiunti] (febbraio 1630, EN 14, 83) 1 a Bernegger [Aggiunti] (16 luglio 1634, EN 16, 111) 1 agli Stati generali dei Paesi Bassi (agosto 1636, EN 16, 468-9) a Boulliau(d) (1 gennaio 1638, EN 17, 245) a Boulliau(d) (30 dicembre 1639, EN 18, 134)  3 Cf. anche Garcia 2004, 257: «l’espace de cette république semble se réduire, dans son esprit, à la seule Italie – c’est-à-dire aux trois villes de la Péninsule les plus actives culturellement, Rome, Venise et Florence». Filologie medievali e moderne 23 | 19 58 Galileo in Europa, 57-70   Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano Su un totale di 445 lettere – manteniamo i criteri di Favaro, che in- clude anche le epistole-trattato, quali le tre sulle macchie solari, e le dedicatorie – sono latine soltanto 9 (il 2,02 %). Si tratta delle lettere superstiti, ma, anche supponendo che la sorte ne abbia distrutto un numero maggiore in latino che in italiano, i dati sono inequivocabili. Sappiamo poi che di quelle 9, 2 sono state composte da Niccolò Ag- giunti su commissione dello scienziato (v. infra). Ne restano dunque 7. 4.2 Un confronto con Descartes e Mersenne Il confronto con Descartes è eloquente. Charles Adam ricostruisce che nel carteggio superstite «sur un total de 498 lettres, 63 sont en latin» (Adam 1910, 22), cioè il 12,65%. Del resto la familiarità del fi- losofo con il latino era profonda: Il apprit le latin à fond, non seulement comme une langue morte, mais comme une langue vivante qu’il pourrait avoir à parler et à écrire. Il la parla, en effet, quelquefois en Hollande, et même en France à une soutenance de thèses; et il l’écrivit dans trois ou quatre de ses ouvrages et un certain nombre de lettres. Quelques- unes de ses notes mêmes, rédigées pour lui seul et à la hâte, sont en latin. Il maniait cette langue aussi bien et souvent mieux que le français, le plus souvent avec vigueur et sobriété, parfois aus- si pourtant avec quelques gentillesses de style qui rappellent les leçons des bons Pères; lui-même avoue qu’il a fait des vers, sans doute des vers latins, et une fois avec Balzac il se piqua de bel esprit et lui écrivit dans un latin élégant ‘à la Pétrone’. (Adam 1910, 22)4 Il latino fu ancor più abituale per Marin Mersenne (1588-1648), che anche in quanto ecclesiastico (ordine dei Minimi) era più legato alla lingua antica: su 308 epistole da lui redatte e conservateci sono la- tine il 38, 64% (119), in francese le restanti.5 Sarebbe interessante uno studio dell’uso linguistico in tale epistolario che analizzi il tipo di missiva, la provenienza e la formazione dei destinatari. Accenniamo qui soltanto al fatto che Mersenne, a cui furono rivolte alcune lette- 4 Al carteggio di Descartes è dedicato l’ampio volume di Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999; vi si veda in particolare il saggio di Torrini che compara l’epistolario di Descartes e di Galileo: per il primo il carteggio fu un luogo privilegiato di discussione filosofica, ben più che per Galileo. 5 Conteggio nostro dai 17 volumi della corrispondenza dell’erudito (Mersenne 1945- 1988). Divergono leggermente dalla nostra la somma indicata nel vol. 17 a p. 107 (330) e quella che si ricava dall’indice delle missive a pp. 145-9 (317). La lettera nr. 1691 a Baliani ci è tradita in italiano da una stampa secentesca delle opere di questi, ma si tratta probabilmente di una traduzione dall’originale latino o francese (cf. il commen- to di de Waard, Beaulieu). Filologie medievali e moderne 23 | 19 59 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano re in italiano, non rispose mai in quella lingua; i curatori del carteg- gio affermano, seccamente, che «Mersenne savait très mal l’italien» (commento alla lettera nr. 1691). Troppo seccamente, perché egli comprendeva in verità assai bene l’italiano, come dimostra la tradu- zione-rielaborazione di pagine galileiane (Les Méchaniques de Gali- lée, Les nouvelles pensées de Galilée).6 Interessante sarebbe valutare affermazioni di comprensione o incomprensione di una lingua stra- niera come quelle di Giovanni Battista Baliani, in cui la grafia sem- bra giocare un grande ruolo. Per esempio, ha ricevuto da Mersenne una lettera «in lingua francese, ma tanto chiara ché io l’ho intesa leg- gendola correntemente» (missiva nr. 1429), cioè è riuscito a legger- la nonostante fosse in francese e nonostante la grafia. Un mese pri- ma aveva spiegato al corrispondente: «Rispetto alla lingua, in che V. P. mi deve scrivere, confesso, che mi è più caro che mi scriva in lat- tino, che già hò preso un poco la pratica del suo carattere. Il france- se però intendo meno, ancorche intenda assai bene i libri stampati» (missiva nr. 1417; in nota i curatori ricordano che Torricelli aveva lo stesso problema). Galileo non leggeva il francese.7 Contrariamente a ciò che era consuetudine e norma nella respublica litterarum, Galileo fece uso parchissimo del latino per l’epistolografia. Anche se dobbiamo precisare che era ormai scontata a quell’altezza cronologica, almeno in Francia e Italia, l’utilizzo della lingua mater- na per comunicare con connazionali,8 e il carteggio stricto sensu ga- lileiano – lettere composte o ricevute dallo scienziato – non presenta quasi eccezioni.9 Anche tra le lettere che nell’EN fanno corona all’epi- stolario galileiano propriamente detto, ma che fornendo informazioni sullo scienziato furono raccolte da Favaro, sempre o quasi gli italia- ni scrivono a un connazionale (foss’anche il papa) in italiano. Analo- gamente si comportano i dotti francesi (pur con qualche eccezione): Mersenne, Fermat, Descartes si scrivono in francese. Ricorrono in- vece non infrequentemente al latino i dotti tedeschi per comunicare tra loro: nell’EN si veda Scheiner che scrive a Kircher, e Bernegger a tutti i propri connazionali.10 Analogamente, l’olandese Hugo de Gro- 6 Sul rapporto Mersenne-Galileo (e Descartes-Galileo) si veda almeno Bucciantini 2009. 7 Cf. anche Favaro 1983, 1392. 8 Pantin 1996, 58: «À la fin de la Renaissance, les langues vernaculaires (surtout s’il s’agissait du français et de l’italien) étaient devenues le premier moyen de s’exprimer et même de raisonner (dans la correspondances scientifiques du début du XVIIe siècle les allemands sont souvent presque les seuls à parler latin)». Di diverso parere Battis- tini in Galilei 2008, 13: «pur essendo ancora il latino la lingua abituale nel trattare ma- terie scientifiche ed erudite, anche tra connazionali». 9 Paolo Maria Cittadini, che si firma teologo dello Studio bolognese, si rivolge in la- tino a Galileo (EN 10, 389). 10 Per un’indagine sulla corrispondenza dei dotti tedeschi nel Cinquecento si veda Lefèbvre 1980. Cf. anche Leonhardt 2011, 213. Filologie medievali e moderne 23 | 19 60 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano ot (Grotius) scrive in latino a Maarten van den Hove (Martino Orten- sio nell’EN) e a Gerhard Voss (Vossius). 4.3 Le lingue dei corrispondenti Galileo non si allinea al costume della comunicazione latina con stra- nieri, mostrando una forte tendenza a evitare la lingua antica.11 D’al- tra parte, l’adozione dell’italiano da parte di stranieri testimonia la fortuna della nostra lingua e il suo prestigio.12 Galileo instaura una comunicazione italiana paritetica – nel senso che entrambi i corri- spondenti scrivono in italiano – non solo con Clavius e Faber, che vi- vevano stabilmente in Italia da molti anni (si noti però che in alme- no due lettere il principe Cesi aveva scritto al secondo in latino), ma anche con Markus Welser,13 l’ingegnere militare Antoine de Ville (al- lora in servizio della Serenissima),14 Carcavy, Peiresc, Reael, Lowijs Elzevier,15 Ladislao IV di Polonia, Massimiliano di Baviera, Jean de Beaugrand. L’effettiva conoscenza dell’italiano da parte dei corri- spondenti non si può misurare solo dalle missive, per alcune delle quali va postulato l’intervento di un madrelingua (certamente nel caso di principi e regnanti, ma anche le lettere di Reael sono troppo ben scritte per non supporre almeno un correttore).16 Significativo il caso di François de Noailles (1584-1645).17 Già sco- laro di Galileo a Padova, ufficiale militare e poi non troppo abile am- basciatore francese a Roma (1634-36), attivo nel chiedere alla Chie- sa clemenza per l’antico maestro, lo incontrò a Poggibonsi sulla via del ritorno in Francia e ricevette una copia manoscritta delle Nuove scienze, delle quali fu dedicatario. Restano 8 lettere da lui inviate a Galileo dall’ottobre 1634 al novembre 1638. Le prime cinque sono in italiano e risalgono al tempo in cui era diplomatico a Roma: di esse soltanto una è interamente autografa (EN 16, 144), ma probabilmente 11 Nell’inopportunità di riportare dettagliate rassegne biografiche sui molti personag- gi che nomineremo, rimandiamo una volta per tutte all’Indice biografico dell’EN (anche del supplemento 2015) e agli indici di Drake 1995 e di Heilbron 2010, nonché al rege- sto di nomi propri curato dal Museo Galileo di Firenze, disponibile online e continua- mente aggiornato. Daremo qui solamente qualche informazione utile al nostro discorso. 12 Cf. Stammerjohann 2013. 13 Cf. cap. 2, § 5. Quando questi è malato, anche il fratello Matthäus scrive in ita- liano a Galileo. 14 Cf. Pernot 1984 e Vérin 2001. 15 Scrive in italiano anche a Micanzio. Bonaventure e Abraham Elzevier si erano in- vece rivolti a Galileo in latino. 16 Diodati scrive a Reael in italiano (EN 16, 492). 17 Su di lui cf. Favaro 1983, 1317-45. Per i corrispondenti francesi di Galileo riman- diamo a Baumgartner 1988 e ai riferimenti bibliografici ivi contenuti. Filologie medievali e moderne 23 | 19 61 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano composta o almeno rivista da un madrelingua. Le altre quattro han- no soltanto la sottoscrizione di pugno del diplomatico. Il 15 gennaio 1636, in un punto morto delle discrete manovre per il mitigamento della condanna di Galileo, Noailles si scusa con questi del ritardo nel- lo scrivere: «Potrà similmente attribuire la cagione dell’haver tardato a scriverli all’assenza del mio secretario italiano» (EN 16, 377). È al- meno in parte un pretesto, ma ci informa delle abitudini linguistiche della corrispondenza. La stessa lettera riporta un breve poscritto au- tografo, che può dare l’idea della competenza linguistica dell’amba- sciatore, buona, ma nettamente inferiore alla lingua e allo stile esibi- to nelle altre lettere a Galileo: «Il latore de la presente li darà nove di me, et quanto gran stima fo de le sue virtù et come sto con desiderio di servirla in ogni occorrenza». Di fatto, l’uso dell’italiano sembra, non solo in Noailles, un piacere e un omaggio al maestro degli anni pado- vani e al grande scienziato. Dopo il rientro in Francia (1636) Noailles gli scriverà personalmente – cioè senza aiuto di segretari – in france- se (restano tre lettere autografe). Lettere che – l’ambasciatore dove- va certo esserne al corrente – Galileo non poteva intendere e di cui restano tra i manoscritti galileiani le traduzioni italiane.18 A Grienberger e de Groot che gli si rivolgono in latino, Galileo ri- sponde in italiano. In latino gli scrivono anche Gassendi (con l’ec- cezione di una missiva italiana composta insieme a Peiresc), Tycho Brahe, Mersenne, Morin, Abraham e Bonaventure Elzevier, l’avver- sario Scheiner e parecchi altri.19 Ma non sono conservate le risposte del nostro (a Tycho non rispose affatto) 20 e dunque non sappiamo in quale lingua fossero composte. Gli scrissero invece in italiano Martin Hasdale (tedesco, fu a lun- go in Italia per divenire poi potente consigliere alla corte di Rodolfo II); David Ricques (polacco o tedesco), Thomas Segget (scozzese, fu a lungo in Italia; poi a Praga), il greco Demisiani, il cardinale François de Joyeuse, Krzysztof Zbaraski (nell’EN Cristoforo di Zbaraz), Ri- chard White (allievo di Castelli, scrive da Londra e si scusa per gli errori di lingua), Giovanni di Guevara (spagnolo, ma nato a Napoli), Philippe de Lusarches (maestro di camera degli ambasciatori fran- cesi a Roma), Johannes Riijusk (cugino del Reael, scrive da Venezia), Francesco van Weert (olandese al servizio della Serenissima), Justus 18 Cf. l’introduzione di Favaro alle missive e il supplemento di EN 18, 436. Al ruo- lo dei segretari nella respublica litterarum accenna Fattori in Armogathe, Belgioioso, Vinti 1999, 57-8. 19 Raymund Schorer (mercante tedesco attivo anche a Venezia), Theophilus Mül- ler (tedesco, linceo, da Roma), Beaulieu (non meglio identificato), John Welles (da Lon- dra), Jan Friedrich Breiner, Michel Coignet, Marek Lentowicz (che fu studente a Pado- va), Bartholomäus Schröter (tedesco), Jean Tarde, Filippo d’Assia, Jan Brozek (polac- co), Maarten van den Hove (Hortensius, olandese).   20 Bucciantini 2003, 87.  Filologie medievali e moderne 23 | 19 62 Galileo in Europa, 57-70  Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano Weffeldich (agente degli Elzevier a Venezia), Jean-Jacques Bouchard (dotto francese che visse molti anni a Roma), Henry Robinson (ingle- se, fu a Livorno per commercio e abitò per alcuni anni a Firenze). Restano alcune epistole italiane che Galileo inviò a Leopoldo d’Au- stria (Innsbruck), a Pedro de Castro conte di Lemos (Madrid), agli Stati Generali delle Province Unite dei Paesi Bassi (ve n’è un’altra in latino, EN 468-69, di cui parleremo tra qualche pagina), a Francisco de Sandoval duca di Lerma (Madrid), a Maarten van den Hove (matematico olandese). Scrivono a Galileo sia in latino che in italiano Leopoldo d’Austria, Jacques Jauffred21 (una missiva privata è in volgare, una pubblica è stampata in latino), Benjamin Engelcke (di Danzica, fu per alcuni an- ni in Italia).22 Gli Stati Generali delle Province Unite dei Paesi Bassi si rivolgono a Galileo sia in latino che in francese (Reael traduce per Galileo; una deliberazione dell’assemblea sulla proposta galileiana del calcolo della longitudine è redatta in olandese e Reael la tradu- ce in latino per Galileo). Il francese è peraltro usato anche in altre occasioni dagli olandesi, come quando Huygens si rivolge a Diodati. Il quadro generale dell’epistolario è dominato dall’italiano, anche perché la maggioranza degli stranieri aveva vissuto per un periodo abbastanza lungo in Italia durante gli studi universitari o per altri motivi. Sono dunque stranieri con una vasta conoscenza personale della Penisola e della sua lingua.23 4.4 Le lettere latine di Galileo Si esaminerà ora il ristretto gruppo di epistole latine di Galileo rima- steci. Della corrispondenza tra Galileo e Kepler, di importanza capi- tale, restano poche lettere, 7 da parte del tedesco, 3 da parte del pi- sano. Non si incontrarono mai di persona. La comunicazione si svolse sempre in latino e coprì, per quanto è conservato, un arco tempora- le che va dal 1597 al 1627 (ma le lettere scritte da Kepler non vanno oltre il 1611). I rapporti scientifici e personali tra i due scienziati so- no illustrati nel dettaglio e nell’ampio quadro culturale del tempo in Bucciantini (2003), a cui ci rifacciamo per la nostra analisi. Al tempo del primo contatto epistolare (1597) nessuno dei due è famoso: Gali- leo è niente più che il solido matematico dello Studio di Padova; Ke- pler, dopo aver rinunciato alla carriera teologica e pastorale, è mate- matico a Graz. I due non si conoscono neppure di nome. Per tramite 21 Su di lui vedi DBI (s.v. «Gaufrido, Jacopo»). 22 Cf. infra in questo capitolo. 23 Cf. Favaro 1983, 1320-2. Una testimonianza in senso contrario (ovvero scarsa com- petenza dell’italiano da parte di studenti stranieri a Padova) è riferita da Mikkeli 1999, 81; ci sembra tuttavia un’eccezione di fronte alle tante altre. Filologie medievali e moderne 23 | 19 63 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano dell’amico Paul Homberger, Kepler fece arrivare in Italia il suo My- sterium cosmographicum (1596). «Probabilmente fu lo stesso Keple- ro a suggerirgli [a Homberger] di destinare una copia allo Studio di Padova, ovvero di consegnarla a chi in quel tempo occupava la catte- dra di matematica in una delle università più prestigiose d’Europa» (Bucciantini 2003, 22). E Galileo, letta solo la prefazione dell’opera, nella quale Kepler dichiara la sua adesione al Copernicanesimo, de- cise di inviare una lettera di ringraziamento all’autore per tramite dello stesso Homberger che stava per fare ritorno in Austria.24 È la missiva del 4 agosto 1597 (EN 10, 67), che contiene l’importantissima di dichiarazione di Copernicanesimo da parte di Galileo (in Copernici sententiam multis abhinc annis venerim).25 Importantissima anche in base alla doppia considerazione che a fine Cinquecento i copernicani si contavano sulle dita (oltre a Kepler e Galileo, erano Bruno, Roth- mann, Mästlin, Digges, Harriot, Stevin, de Zúñiga)26 e che prima del- le scoperte del 1610 «le copernicianisme était une opinion extrava- gante et ridicule, et donc non dangereuse ni ne méritant même d’être condamnée» (Bucciantini 2009, 20). Si capisce dunque l’entusiasmo di Galileo nell’apprendere che un tale Kepler aveva le sue stesse idee e pubblicava opere per difenderle e diffonderle, mentre lui, Galileo, non aveva avuto il coraggio – afferma – di pubblicare le sue osserva- zioni in difesa del sistema eliocentrico per non fare la fine di Coper- nico, lodato da pochissimi e deriso dai più. Il latino di questa lette- ra ci sembra un poco più elevato di quello del Sidereus nuncius, con più frequente subordinazione (soprattutto frasi relative e infinitive). La gioiosa risposta di Kepler, contento anch’egli di aver trovato un compagno, è più lunga e stilisticamente superiore, per quanto non brillante: esclamazioni e interrogative retoriche vivacizzano il det- tato, che è molto fluido e senza imbarazzi; vi sono finezze umanisti- che, come l’inserzione di una parola in caratteri greci (αὐτόπιστα). La strategia culturale di Kepler per l’affermazione del Copernicane- simo prevede innanzitutto il convincimento dei matematici ed egli si dichiara disponibile a far pubblicare in terra tedesca gli scritti di Galileo, se questi teme di farlo in Italia. Ma Galileo, non condividen- do la strategia proposta, non rispose a questa lettera.27 Stupito del silenzio, Kepler ritentò attraverso Edmund Bruce di avere nuove di Galileo nel 1599.28 24 Cf. anche Biancarelli Martinelli 2004. 25 Una dichiarazione di poco precedente (maggio 1597), ma appena accennata e di- messa, diversamente dalle righe indirizzate a Kepler, è in una lettera a Jacopo Mazzo- ni (EN 2, 197-202; cf. Bucciantini 2003, 29).   26 Bucciantini 2003, 53. 27 Bucciantini 2003, 73. 28 Bucciantini 2003, 103.  Filologie medievali e moderne 23 | 19 64 Galileo in Europa, 57-70  Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano Giunse poi la stagione del Sidereus nuncius, durante la quale Ke- pler fu il solo grande interlocutore straniero cui Galileo si rivolse e la cui conferma delle scoperte ebbe importanza paragonabile soltanto a quella degli studiosi del Collegio Romano. Oltre alla presa di posizio- ne ufficiale con la Dissertatio cum Nuncio sidereo, Kepler invia a Ga- lileo una lettera privata il 9 agosto 1610, chiedendo, in sostanza, altri elementi a sostegno delle scoperte e del cannocchiale. La risposta di Galileo, datata 19 agosto (EN 10, 421), è significativa. Il nostro è an- cora a Padova, ma ha già ottenuto il posto alla corte di Toscana e la lettera è pervasa da un’esuberante soddisfazione del proprio succes- so, «con toni che sfiorano l’autocelebrazione» (Bucciantini 2003, 190): il racconto delle ricompense e dello stipendio ricevuto dopo la scoper- ta, la protezione e la garanzia del Granduca quanto alle scoperte, il ti- tolo di filosofo aggiunto ora a quello di matematico, che Kepler non gli riconoscerà. Galileo non ha molto tempo per scrivergli (paucissimae enim supersunt ad scribendum horae). Lo stile è solido e non più impac- ciato come nella lettera del 1597; la scrittura è più fluida, c’è più mo- vimento, con interrogative e riferimenti eruditi (seppur scolastici, co- me oblatrent sicophantae) e quasi con affetto per il suo alleato lontano che, pur chiedendo chiarimenti e testimoni, lo ha appoggiato. In par- ticolare è insolita, in Galileo, una conclusione come me, ut soles, ama. Con la pubblicazione della Dioptrice nel 1611 (Kepler fu il padre dell’ottica moderna), termina uno scambio frequente tra i due: essi non hanno più avvertito il bisogno di confrontarsi e collaborare rego- larmente, a causa sia di progetti e attitudini scientifiche differenti, sia di piccole incomprensioni (per es. la stima riposta da Kepler in Simon Mayr, che dispiacque al nostro).29 Certo, Galileo si informerà su co- me stia e che cosa faccia l’altro e Kepler prenderà posizione nelle po- lemiche legate al Saggiatore con l’Hyperaspistes (1625), ma non è più in gioco una collaborazione stabile e duratura. Le lettere superstiti, in ogni caso, saltano dal 1611 al 4 settembre 1627 (EN 13, 374-5), al- lorché Galileo raccomanda Giovanni Stefano Bossi al dotto corrispon- dente perché questi lo accetti come scolaro. La missiva, non molto in- teressante quanto al contenuto (una raccomandazione), testimonia il tentativo di riallacciare la relazione. Nel poscritto Galileo aggiunge: Mitto, cum his complicatam litteris, Orationem Nicolai Adiunctii, adolescentis in omni humaniore et severiore literatura excultissi- mi: eam sat scio te magna cum voluptate lecturum, et mirifice fu- turam ad tuum palatum et gustum. Si tratta dell’Oratio de mathematicae laudibus, uscita a Roma nello stesso anno dalla penna del giovane Aggiunti, notevole non solo per 29 I motivi del distacco sono scandagliati in Bucciantini 2003, 198-205. Filologie medievali e moderne 23 | 19 65 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano lo stile latino brillante di cui l’autore dava prova, ma anche per la celebrazione della matematica come modo di vedere la realtà (una Geometria nos in rerum notitiam perducit, et sola complectitur studia universa).30 Dopo di che, morto Kepler nel 1630, il Dialogo lo accuse- rà, pur «con rispetto» (così la didascalia a margine), di aver creduto a «predominii della Luna sopra l’acqua, ed a proprietà occulte, e simi- li fanciullezze» (4, 54): come è noto, un attacco che si ritorce contro Galileo. A rendere incompatibili le posizioni dei due grandi vi erano idee radicalmente diverse sul cosmo e la posizione dell’uomo in esso.31 Veniamo agli altri corrispondenti. Johann Georg Brengger (1559- 1630 ca.), medico di Augsburg, si interessava di problemi scientifici.32 Per tramite di Welser pone a Galileo alcune questioni sui monti lu- nari, cui Galileo risponde con una lunga epistola in un latino asciut- to l’8 novembre 1610. A sua volta Brengger risponderà estesamente in latino. Una delle due lettere composte in latino da Niccolò Aggiunti su incarico di Galileo si legge in EN 14, 83 (datata febbraio 1630) ed è la risposta a George Fortescue.33 Il 15 ottobre 1629 (EN 14, 47) que- sti gli aveva indirizzato una pomposa lettera latina annunciandogli la pubblicazione delle sue Feriae academicae (1630), nelle quali, di- scorrendo di ottica, catottrica, matematica e astronomia, adduceva nonnulla [...] experientia comprobata mea. Lettera pomposa in cui gli elogi a Galileo, iperbolici, sono intessuti di riferimenti eruditi (il mi- to di Cefeo e la costruzione del faro di Alessandria su progetto di So- strato). La notizia più saliente che il mittente vuole comunicare è l’a- ver fatto di Galileo un personaggio del libro annunciato: In his usus sum artificio Marci Tullii aliorumque, qui, ut sibi in dicendo auctoritatem concilient, inducunt colloquentes Catones, Crassos, Antonios, similesque palmares homines. [...] Igitur ignosce, Vir sapientissime, si disputantem in scriptis meis temet repereris, 30 Il passo è riportato in Camerota 2004, 570. Secondo Peterson 2015, 130, inviando a Kepler il testo di Aggiunti, Galileo inviterebbe il corrispondente a rivolgere un’‘atten- zione matematica’ non solo ai cieli, ma anche alla realtà terrestre. 31 «L’abbandono [da parte di Galileo] di ogni visione antropocentrica è certamente una delle caratteristiche della sua filosofia che più lo allontana non solo da Keplero ma an- che da Copernico» (Bucciantini 2003, 322). «Il progetto galileiano di fondazione di una scienza copernicana del moto fu fin dall’inizio antitetico e concorrente alla nuova dina- mica celeste kepleriana. La forza e la tenacia con cui Galileo proseguì in ogni momento della sua vita le sue ricerche sul moto inerziale all’interno di una prospettiva cosmolo- gica gli impedirono di accettare le ‘assurde’ leggi kepleriane» (Bucciantini 2003, 336). 32 Laureato in medicina a Basilea, ebbe scambio epistolare con Clavio e Kepler su problemi scientifici (cf. Reeves, van Helden 2010, 43, 220-1; Keil 2002, 610-11; Buc- ciantini 2003, 230-3). 33 Pochissimo si sa di lui: cf. la voce di Ross Kennedy nell’Oxford Dictionary of National Biography (2004), con bibliografia; Favaro 1883b, 203-10; Besomi, Helbing 1998b, 3-4. Filologie medievali e moderne 23 | 19 66 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano illos inter qui exquisitis suis artibus occiduum hunc sustentant orbem. Alle pp. 122-59 delle Feriae è allestito un dialogo (con narratore) tra Ga- lileo, Clavio, Grienberger – astrologorum huius aevi facile principes – e Ferdinando Gonzaga. Con la missiva Fortescue ne informa lo scienziato e si scusa per non avergli chiesto il permesso (Ergo da veniam, serius petenti licet, Vir spectatissime, quod, inconsulto te, cum tuo egerim nomine). Nella risposta – che commenteremo – lo scienziato dichiara, con accenti che corrispondono del tutto ai moduli dello stile encomia- stico, che nostram [...] enim mirifice incendisti cupiditatem, pregando- lo di inviargli copia del libro non appena stampato (Cum typographi suam operam absolverint, tuique libri editionem perfecerint, unum vel alterum exemplar ad nos primo quoque tempore perferendum cures). Non escludiamo che la parte ‘galileiana’ delle Feriae34 abbia potuto ispirare Galileo e suggerirgli quell’unicum narrativo che è la sua appa- rizione come personaggio nel Dialogo sopra i due massimi sistemi (3, 176). In tale passo, per ribadire la priorità galileiana su Scheiner ri- guardo alla scoperta della correlazione tra macchie solari e l’inclina- zione dell’asse solare, Galileo si è servito di un fine stratagemma reto- rico-narrativo, unico nell’opera: Salviati ricorda dettagliatamente una discussione con Galileo e ne riporta in modo diretto (con due punti e virgolette) le parole. Un intervento ‘diretto’ dell’autore all’interno del Dialogo dei personaggi. Lo stratagemma è interessante anche perché è un falso creato ad hoc da Galileo, come hanno acutamente ricostruito Besomi, Helbing (1998b, 720-37) e come era noto a collaboratori di Ga- lileo: Benedetto Castelli parlò del passo in questione come «testimonio falso delle macchie del sole» (lettera del 29 maggio 1632 a Galileo, EN 14, 358). L’influenza di Fortescue su tale episodio è indimostrata, ma possibile anche in base alla cronologia della composizione del Dialogo.35 Contrariamente alle sue abitudini, Galileo volle rispondere a For- tescue in latino (questi era stato al Collegio inglese di Roma dal 1609 al 1614; non sappiamo tuttavia se Galileo ne fosse al corrente), e si affidò per questo al provetto latinista Niccolò Aggiunti (1600-1635). Allievo di Castelli a Pisa, al quale succedette nel 1626 sulla cattedra di matematica, Aggiunti fu anche precettore di corte, dove conobbe e divenne discepolo fidato di Galileo, tanto che fu tra coloro che du- rante il processo del 1633 asportarono da casa del maestro le carte giudicate pericolose. Studiò in particolare i fenomeni capillari. Uni- ca sua opera a stampa è la già menzionata Oratio de mathematicae 34 Accenni in Favaro 1883b, 203-10; Besomi, Helbing 1998b, 3 e Camerota 2004, 206. 35 La parte dell’opera sui movimenti delle macchie solari (3, 172, 10-187) è stata com- posta «probabilmente dopo il settembre del 1631, dopo che Galileo aveva letto la Rosa Ursina [opera di Scheiner]» (Besomi, Helbing 1998b, 47). Filologie medievali e moderne 23 | 19 67 Galileo in Europa, 57-70     Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano laudibus (1627), che fu la prolusione al suo insegnamento universi- tario; restano manoscritti alcuni altri suoi testi.36 Ebbe fama di otti- mo latinista e per questo Galileo chiese la sua collaborazione. Ciono- nostante difese anche l’uso del volgare nella trattazione filosofica.37 Il 30 gennaio 1630 Aggiunti scrisse a Galileo: «Credo che V. S. Ecc.ma volentieri mi perdonerà così lunga dilazione, vedendo che io gli pago il debito e in oltre qualche usura: io parlo della rispo- sta al Sig.r Giorgio [Fortescue], la quale mando a V. S., fatta con quella maggior accuratezza che ho potuto. Harò caro intender quan- to gli sodisfaccia. Nella soprascritta basterà fare: Eruditiss.o Viro Georgio de Fortiscuto. Londinum» (EN 14, 71). Della missiva ci resta la copia autografa di Galileo. In essa, datata da Favaro febbraio 1630, si ringrazia ampollosamente, anche con richiami eruditi, per l’onore di comparire come personaggio inter eximios viros e di essere così celebrato. La lettera è ben nota agli studiosi galileiani, perché Gali- leo dichiara di lavorare a un arduum opus: magnum mundi systema, quod trigesimum iam annum parturiebam, nunc tandem pario. E di- chiarandone il tema (in hoc opere abditissimas maris aestuum causas [...] inquiro, et, nisi mei me fallit amor, mirabiliter pando), prega il cor- rispondente di inviargli dati sull’osservazione delle maree: Proinde siquid habes circa hasce alternas aequoris agitationes diligenti nec divulgata observatione notatum, ad me perscribere ne graveris. L’altra lettera latina composta da Aggiunti su commissione di Galileo (16 luglio 1634; EN 16,111) è indirizzata a Matthias Bernegger (1582- 1640), dotto residente a Strasburgo e traduttore in latino del Dialogo. Alcuni mesi prima egli aveva scritto a Galileo annunciandogli la tradu- zione (10 ottobre 1633; EN 15, 299).38 Favaro ricostruisce che probabil- mente tale epistola non fu consegnata allo scienziato, perché Benjamin Engelcke (1610-1680), che avrebbe dovuto portarla di persona, la spedì a Galileo ed essa andò perduta (noi leggiamo oggi la minuta dello scri- vente); l’Engelke scrisse poi a Galileo informandolo della traduzione. La lettera di Bernegger è stesa in un latino sicuro e curato, ma non af- fettato, con la sola iperbole finale di Galileo non Italiae modo tuae, sed orbis, quem immortalibus tuis scriptis illustrasti, lucidissimum sidus, che rispecchia lo stile encomiastico. Per la risposta Galileo volle affidarsi anche in questa occasione ad Aggiunti, che così scriveva allo scienziato il 12 aprile 1634: «Questa qui alligata è la lettera che, in esecuzione del suo cenno, ho fatta al Bernechero, del quale non sapendo il nome non ho potuto porvelo. Se le paresse lunga, potrà scorciarla et acconciarla a modo suo. Io l’ho scritta con mia gran fatiga, perché il considerare in 36 Su Aggiunti, oltre alla voce del DBI, si vedano Favaro 1983; Camerota 1998; Ca- merota 2004, 21-2 e passim; Peterson 2015, 128-36.   37 Cf. Camerota 1998. 38 Commenteremo questa lettera nei cap. 8.  Filologie medievali e moderne 23 | 19 68 Galileo in Europa, 57-70  Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano nome di chi io scrivevo mi sbigottiva. V. S. nel mio mancamento accusi il suo comandamento» (EN 16, 82). Ciò testimonia inequivocabilmente che Aggiunti non ha semplicemente tradotto in latino una risposta re- datta da Galileo in volgare, ma composto in toto la lettera. Essa sfoggia uno stile brillante, retorico, erudito. Aggiunti parago- na Bernegger traduttore a un egregius pictor che abbellisce la figura della persona ritratta: con i latinae elegantiae colores egli riprodurrà le philosophicae lucubrationes dello scienziato. L’acme retorico-erudita è raggiunta paragonando la traduzione del Dialogo al ritratto di Antigo- no sapientemente realizzato da Apelle: essendo il sovrano privo di un occhio – era appunto soprannominato μονόφθαλμος –, il pittore sfruttò i vantaggi del tre quarti per nascondere il difetto fisico, come ricorda un passo dell’Institutio oratoria (2, 13, 12): Habet in pictura speciem tota facies: Apelles tamen imaginem Antigoni latere tantum altero ostendit, ut amissi oculi deformitas lateret. Aggiunti si rifà direttamente a Quintilia- no e inscena una ‘cecità’ di Galileo, non fisica, come avverrà più tardi, ma metaforica (difetti di stile e improprietà di espressione del Dialogo): tuum artificium hoc pollicetur, ut, citra similitudinis detrimentum, me pulchriorem quam sum ostendas, et, imitatus Apellem, qui Antigoni faciem altero tantum latere ostendit, ut amissi oculi deformitas occultaretur, tu quoque, si quid in me mutilum vel deforme offendes, ab ea parte convertas qua speciosius apparebit. È evidente la soddisfazione e l’orgoglio per la traduzione latina dell’o- pera che tante umiliazioni aveva portato a Galileo, soddisfazione e orgoglio accresciuti dai dolori fisici e dalla perdita della figlia, man- cata pochi mesi addietro (ma di ciò non si accenna nella lettera): Ceterum deierare liquido possum, post tot turbas et corporis animique vexationes, quas mihi pepererunt primum studia ipsa, quae radices artium amarae sunt, deinde studiorum fructus, qui multo ipsis radicibus amariores fuerunt, hoc tuo erga me studio nullum mihi maius solatium contigisse. Passi come questo attestano l’alto livello della prosa latina di Aggiunti: sottolineamo la naturalezza stilistica con cui l’immagine degli studi co- me radici delle scienze – radici amare perché intrise di fatica – si tramu- ti nel paradosso dei frutti più amari delle radici, paradosso in cui sono adombrate le sofferenze e umiliazioni del processo e dell’abiura. Alle quali Galileo reagisce con nuovi studi e la stesura delle Nuove scienze: Non tamen his angustiis eliditur aut contrahitur animus, quo liberas viroque dignas cogitationes semper agito, et ruris angustam hanc solitudinem, qua circumcludor, tanquam mihi profuturam aequo animo fero. Filologie medievali e moderne 23 | 19 69 Galileo in Europa, 57-70    Bianchi 4 • Volgare e latino nel carteggio galileiano Bernegger fu sbalordito dall’eleganza di tale lettera e non subodo- rò che non venisse dalla penna di Galileo; scrisse infatti a Diodati: Valde me terruit ipsius [Galileo] epistola, longe tersissima et elegantissima; quam elegantiam cum vel mediocriter assequi posse desperem, verendum habeo ne magnus ille vir ingenii sui divini foetum in commodiorem interpretem incidisse velit. Sed iacta est alea (EN 16, 176-7). Aggiunti morì nel dicembre 1635. Meno interessanti le ultime tre lettere di cui dobbiamo occuparci. Il 30 ottobre 1637 il dotto Ismaël Boulliau(d) (1605-1694)39 inviò a Ga- lileo una copia del suo De natura lucis40 accompagnandola con una lettera latina in cui si dichiarava amico di Gassendi e di Diodati (EN 17, 207-8) e in cui annunciava l’imminente pubblicazione del Philolaus sive Dissertatio de vero Systemate Mundi. È una missiva di ac- compagnamento, piuttosto breve e spedita quanto a stile. La risposta di Galileo (1 gennaio 1638; EN 17, 245), pure in latino, ha lo stesso te- nore: con un dettato puramente comunicativo informava di aver già perso la vista e di non poter quindi formarsi un giudizio sulle dimo- strazioni del De natura lucis che contengano figure; ha però apprez- zato ciò che gli è stato letto e si interessa del Philolaus. Infine si scu- sa per la brevità e sommarietà della risposta: Breviter admodum ac ieiune scribo, praestantissime vir: plura enim scribere me non patitur molesta oculorum valetudo. Quare me velim excusatum habeas. Una seconda lettera di Boulliau(d) risale al 16 settembre 1639 (EN 18, 103): un puro accompagnamento all’invio del Philolaus, con l’augurio retorico che utinam Deus, qui alligat contritiones suorum, restituat oculorum lumen tibi ademptum, nobisque tale damnum resarciat, ut ipse legas libellum, et rationum seriem sine alienorum oculorum opera dispicias. La risposta latina del nostro, , è del tutto analoga alla precedente. Ringrazia il corrispondente e apprezza quanto gli è stato letto, ma non potendo vedere le figure non può giudicare bene. È latina, infine, una missiva di Galileo agli Stati generali dei Pae- si Bassi, in cui chiede che sia esaminata la sua proposta per il calcolo della longitudine in mare ligure. È una lettera non retorica, per quanto contenga alcuni elementi topici come l’elogio del destinatario:   39 40 Celsitudinum Vestrarum, qui per omnia maria et terras celeberrimas suas peregrinationes et navigationes cum gloria maxima iam instituerunt et quotidie porro instituunt, et commercia amplissima ubique quotidie dilatant [...] (EN 16, 469). Su di lui vedi Beaulieu 1984, 377) e Hockey et al. L’opera a stampa reca la data 1638; non sappiamo dire se Boulliau(d) ne abbia inviato un esemplare (cui poi fu apposta una datazione posteriore) o una copia manoscritta. Filologie medievali e moderne 23 | 19 70 Galileo in Europa, 57-70Galileo  291. HASDALE a GALILEO in Padova. Praga, 15 aprile 1610. Bibl. Naz. Fir. Mss. Gal., P. VI, T. VII, car. 120. – Autografa. mor mo Essendo un pezzo che disegnavo di ritornare in Italia, et particolarmente a Padova et Venetia, più per godere quella gentilissima conversatione di V. S. che per altro; et tanto più me ne cresce il desiderio, quanto che veggo nuovi parti del suo felicissimo et divino ingegno. Delli quali l'ultimo, intitolato Nuntius Sydereus, ha rapito ultimamente tutta questa Corte in ammiratione et stupore, affaticandosi ogniuno di questi ambasciatori et baroni di chiamare questi matemathici di qua per sentire se vi sanno fare alcuna oppositione alle demostrationi di V. S. Però vanno procurando di havere di quelli occhiali doppiii, per vederne l'esperienza. re re Io mi truovai, XII giorni fa, a desinare dal Sig. Ambasciatore di Spagna, dove il Sig. Velsero portò al detto Ambasciatore uno di questi libbri, mostrandogli molti luoghi notabili di r quello libro. Il Sig. Ambasciatore mi domandò delle qualità di V. S. Io gli risposi quello che potei, non già quanto V. S. merita. Mi disse che voleva sentire l'openione del Kepplero(658) sopra questo libro, sì come credo che habbia fatto chiamarlo. Ma io questa mattina ho havuta occasione di fare amicitia stretta con il Kepplero, havendo egli et io mangiato con l'Ambasciatore di Sassonia; et domattina siamo invitati da quel di Toscana, dove io vado familiarmente di continuo, essendo quel Signor mio padrone vecchio. Hora gli ho domandato quello che gli pare di quel libro et di V. S. Mi ha risposto che sono molti anni che ha prattica con V. S. per via di lettere, et che realmente non conosce maggiore huomo di V. S. in questa professione, nè manco ha conosciuto; et che con tutto che il Tichone fosse tenuto per grandissimo, nondimeno che V. S. l'avanzava di gran lunga. Quanto poi a questo libro, dice che veramente ella ha mostrata la divinità del suo ingegno; però, che ella viene havere data qualche occasione non solo alla natione Todesca, ma anco alla propria, non havendo fattone mentione  alcuna di quegli autori che le hanno accennato et porta occasione di investigare quello che hora ha truovato, nominando fra questi Giordano Bruno per Italiano, et il Copernico et sè medesimo, professando di havere accennato simili cose (però senza pruova, come V. S., et senza demostrationi): et haveva portato seco il suo libro, per mostrar allo Ambasciatore Sassone il luogo. Ma in quello ch’eramo in questi ragionamenti, è sopragionto un estraordinario di Sassonia al detto Ambasciatore, che ha disturbata la conversatione. Ma domattina, piacendo a Dio, ci rivederemo, che senz'altro porterà il medesimo suo libro con quello di V. S., come ha fatto hoggi, per mostrarlo all'Ambasciatore di Toscana. Seppi poi la morte del Cl.mo nostro Sig.r Cornaro(661), con mio grandissimo dispiacere, che me mo Vostro Aff. Fratello lo Michelag. Galilei. De Kepplero non havendo fattione mentione. Tra accennato e et si legge, cancellato, quelle cose. – Un LORENZO di CORNARO era morto (Necrologio Nobili, nell'Archivio di 252  r lo scrisse il S. Ottavio Pamfilio, quale desidero sapere se si truova ancora costì, perchè gli vorrei scrivere. Et la prego, havendo occasione, di fare un cordialissimo baciamano al Padre Maestro Paolo et Padre Maestro Fulgentio(662), suo compagno, et che spero fra alcuni mesi lasciarmi rivedere con qualche carico. Con che fine le bacio le mani. Di Praga,  Di V. S. Ecc. ma re mo Serv. Devot. Martino Hasdale. Io mando questa per via dell'Ambasciatore di Venetia. Mi ricordo degli suoi melloni Turcheschi. mor mo Fuori: All'Ecc. Sig. P.rone Oss. r Il Sig. Gallileo Gallilei, Mattematico di Padova.Galilei. Galilei. Keywords: “the sun rises in the east” “the sun sets in the west” “you’re the cream in my coffee” ‘disimplicature’ -- esperienza, observazione, visione, nature, aristotele, filosofia naturale, fisis, natura, interpretazione, semiotica, segno naturale, il padre di Galileo – Some like Galileo Galilei, but Vincenzo Galilei is MY man” – Galileo e Bruno. Refs: Luigi Speranza, “Galileo, Grice e il saggiatore,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice.

 

Grice e Galimberti – l’imaginario sessuale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza). Filosofo. Grice: “I like Galimberti: he has philosophised on amore, amicus, amicizia – all topics of my interest – while I am into vyse, he is into the seven capital vyses! He also has spoken about speech: the ‘parole nomade,’ and the ‘equivoci’ of the ‘anima.’ – In general his philosophy is about nihilism and the idea of man in the age of ‘techne’ (ars).” Il suo maggior contributo riguarda lo studio del inconscio e il simbolo (contractio), inteso come la base primeva e più autentica dell’uomo – ‘logica simbolica’. Nasce a Monza, la mamma maestra di elementari e il padre deceduto. Le necessità della famiglia l’obbligano a lavorare. Frequenta le scuole superiori in seminario. Terminati gli studi liceali classici, si iscrive  al corso di laurea in Filosofia a Milano. Si laurea quindi con Emanuele Severino con lode, con “La logica di Jaspers”. Fra i suoi maestri, anche Bontadini. Studia fenomenologia del corpo con Borgna a Novara. Insegna a Monza e Venezia. Studia con Trevi.“E se "filo-sofo" non volesse dire "amante del sagio" ma "saagio dell'amore", così come "teo-logo" vuol dire dotto *su* Dio e non ‘parola di Dio’, o come "metro-logo" vuol dire scienzato delle misure e non misura della scienza?” “Perché per la forma greca ‘filo-sofo’ questa *inversione* della morfologia nella implicatura? Perché il filosofo greco si struttura come un logico che formalizza il reale, sottraendosi al mondo della vita, per rinchiudersi nell’academia, dove, tra iniziati, si trasmette da maestro a discepolo quesso che lo face un ‘sagio,” e che non ha nessun impatto sull'esistenza e sul modo di condurla. E per questo cheda Socrate, che indica come la sua condotta "l'esercizio di morte", ad Heidegger, che tanto insiste sull' “essere-per-la-morte”, il filosofo si e innamorato più del saper morire che del saper vivere. Al centro della sua riflessione sta il corpori degli uomini, che, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica, si sentono un "mezzo" nell'"universo dei mezzi", riuscendogli sempre più difficile trovare e dare un senso alla sua vita, alla sua esistenza. Si deve trovare un senso al radicale disagio, alla tragicità del suo esistere, anche attraverso il recupero dell'ideale antico greco-romano, evitando mitologie.  Il suo maggior contributo consiste nel porre la dimensione del simbolo (coniactum – the idea is that you throw two things together so that the recipient may compare them, one becomes the ‘symbol’ – coniactum – of the other – cf. Grice on Peirce on symbol) alla base primordiale della ragione conversazionale, che ha inteso ordinare il simbolo (mito, no logos) – dunque l’ambilavenza delle cose ma non l’equivalenza generale di significati. Il simbolo (coniactum) è il sustratto pre-razionale. Rappresenta un caos originario che ragione tenta di arginare. Siamo razionali (apolineo) per difenderci dal simbolo dionisiaco. Il concetto fondamentale del simbolo non è l’equi-valenza generale, ma l’ambi-valenza. Riprende Freud e Jung, fondendone con Nietzsche, Severino e Heidegger. Importante è stato il costante riferimento a Husserl e Jaspers. Il filosofo cerca la “comprensione” (verstaendnis – cf.. Grice on ‘understand’ – ‘understanding,’ literally, slang for a leg) e non la spiegazione (verklaerung) del comportamento umano. La psicologia filosofica o rationale (l’anima di Aristotele) non può operare una trasposizione tout-court dei metodi e dei modelli concettuali delle scienze naturali perché, così facendo, l'uomo verrebbe ridotto a mero evento naturale, fisico, come ha luogo, per esempio, in psichiatria.  Contrario, poi, al dualismo di Cartesio, Galimberti ha anche fatto riferimento al metodo fenomenologico e al funzionalismo per consentire altresì, alla psicologia filosofica o rationale, la comprensione e la descrizione fenomenologica di quelle strette relazioni che intercedono fra nostri corpori assieme al significato che queste relazioni comportano. E e tutto ciò lo porterà ad abolire, di conseguenza, ogni distinzione concettuale fra ”salute“ e ”malattia.” Insiste sull'inconsistenza della contrapposizione tutta occidentale fra scienza e fede – fiducia -- individuando come questa seconda – la fiducia, cf. English ‘trust,’ truth’ -- sia in realtà l'elemento fondativo dell'intera coscienza occidentale, all'interno anche della scienza e della tecnica. Scienza e fede non dovrebbero mai confliggere, è importante che nessuna delle due invada il campo dell'altra. Tematizza innanzitutto il passo della Genesi in cui Adamo è definito "dominatore della Terra, sui pesci dei mari e sugli uccelli del cielo", collocando l'uomo in una posizione privilegiata rispetto agli animali e la Natura in sé e legittimandolo a operare su di essi per alimentare la propria esistenza. In quanto il progresso è l'affermazione di questo primato umano, la tecnica (Greco techne, Latino, ars) è indubbiamente l'ipostasi che sigilla costantemente quest'affermazione sull'indifferenza naturale. La coscienza della techne (Latin ‘ars’) tecnica è formulata come una risposta alle fatiche naturali, si appellerebbe, dunque, a una condizione strutturale di eminenza consegnata da Dio e propugnata dalla persistenza di un animale sui generis.  Riconosce la cristianità come il carattere di una scansione temporale che identifica il passato come spazio del peccato, il presente dell'espiazione, il futuro della redenzione e salvezza. Questo semplice modello triadico ha una ricorrenza quasi ossessiva nelle forme occidentali, fra le quali la medicina (malattia, diagnosi, cura), psicoanalisi (disturbo, terapia, guarigione), scienza (ignoranza, sperimentazione, scoperta). La triade è il "coefficiente a-storico" necessario a profilare la possibilità di un progresso, che si esercita eminentemente nello scenario tecnico. Qui, l'uomo che soccombe alle fatiche naturali della sopravvivenza, del parto e del lavoro (così come minacciato nella Bibbia) ha modo di riscattare la propria difficoltà attraverso mezzi che ne purificano endemicamente l'opera, al costo di un esaurimento delle risorse naturali. Ma, in fondo, la loro esistenza è preposta a questo.  Non si definisce né "credente" (in senso cattolico) né "non-credente", ma "greco-romano", nel senso di colui che vuole recuperare la visione del mondo della civiltà greco-romana, in modo nietzschiano e heideggeriano (si veda anche Il detto di Anassimandro, un noto saggio di Heidegger sul pensiero greco arcaico), fondendola però con la pur antitetica visione cristiana: la morte e la vita vanno pertanto prese sul serio, e non minimizzate pensando a un'altra vita ultraterrena. La ragione è importante perché, come nel detto "Conosci te stesso", fornisce all'uomo il senso del proprio limite.  Approfondisce molto la tematica del concetto di tempo e del suo rapporto con l'uomo. La sua indagine evidenzia come nell'età degli antichi – eta greco-romana, eta classica -- non si pensasse al tempo come lineare ed escatologico, tanto meno vi era associata l'idea di progresso. Essi concepivano l'essere come kyklos (tempo ciclico, l’eterno ritorno di Nietzsche), come un ciclo in cui ogni evento è destinato a ripetersi. Nella filosofia greco-romana antica era impensabile che l'uomo potesse esercitare un controllo sul cosmo, o di imporre su di esso i propri fini. La dimensione dell'uomo era inserita armonicamente all'interno dei cicli naturali che si susseguivano necessariamente e senza alcuno scopo. Nel ciclo infatti il fine (in greco telos) viene a coincidere con la fine e la forza propulsiva (in greco energheia, actus) porta all'attuazione dell’ergon, l'opera, ciò che è compiuto.   Il ciclo si manifesta dunque con l'esplicitarsi dell'implicito.Il seme diventerà frutto solo alla fine del ciclo di crescita e maturazione stagionale, e il frutto coinciderà con il fine del seme, con il dispiegarsi completo dell'energia e delle potenzialità implicitamente contenute in esso. Nel ciclo, in cui tutto si ripete, non si dà progresso: di conseguenza divengono fondamentali la memoria dei cicli passati e quindi la parola dei vecchi, deposito di esperienza, e l'educazione, come trasmissione della memoria e dell'esperienza passata. Tuttavia, l'uomo è da sempre tentato di conciliare il tempo ciclico della natura con il tempo umano, che è un tempo “scopico” (dal greco skopein, che indica un guardare mirato). Con questa operazione l'uomo vuole reintrodurre scopi umani nel tempo naturale, naturalmente privo di scopi. Emerge qui dunque la necessità propriamente umana di progettarsi, cioè di gettarsi-fuori di sé verso un obiettivo, cercando di dotare di senso la propria esistenza. Questa tendenza tuttavia, può armonizzarsi con il “kyklos” solo se l'uomo vive con la consapevolezza tragica di non poter oltrepassare i limiti posti dalla natura, primo tra tutti la sua mortalità. In caso contrario, egli si macchierà di hybris (superbia), la tracotanza, l'unico vero peccato riconosciuto dalla saggezza greco-romana.In termini esemplificativi, il cacciatore esercita il suo guardare mirato nel bosco (skopos) e solo in questo tempo progettuale e nella compresenza di mezzi e fini, il suo arco diventa strumento e la lepre l'obiettivo. Si tratta di un tempo lineare che si muove tra due estremi: i mezzi e i fini (la ragione come phronesis or prudentia).V'è tuttavia un elemento che si inserisce tra questi termini, impossibile da controllare, ovvero il kairos, il tempo opportuno, che è anche imprevedibilità, e che può determinare o meno l'incontro tra mezzi e fini. Non è dunque nelle possibilità dell'uomo il tessere il proprio destino. Egli deve saper cogliere il kairos, la circostanza favorevole, e in essa espandere sé stesso.  Questo equilibrio tra tempo naturale, umano e del kairos è stato sconvolto dall'uomo nell'età della tecnica: obiettivo di quest'ultima è infatti quello di ridurre fino ad annullare la distanza tra mezzi e scopi (in cui si inseriva il kairos, l'imprevedibile) per realizzare così un controllo e un dominio assoluti sul mondo, che da cosmo a cui accordarsi è divenuto natura da dominare, e per portare a compimento una tirannia completa del tempo umano. Con l'età della tecnica abbiamo scatenato il Prometeo che gli dèi avevano incatenato, determinando il trionfo del potere della techne sulla necessità (in greco ananke) della natura, fino alla paradossale situazione in cui la tecnica non è più strumento nelle mani dell'uomo ma è l'uomo a trovarsi nella condizione di mero ingranaggio, funzionario inconsapevole dell'apparato tecnico.  Riflettendo sulle modalità in cui l'uomo abita il mondo, approfondisce il concetto di ‘corpori.’ Studiando genealogicamente il concetto di corpo dal periodo romano antico – quale e la etimologia di corpo? Quella di Platone e terribile: soma sema --  mette in contrasto le diverse modalità in cui esso è stato osservato. I corpori – corpus romano, pl. corpora – corpore -- sono visto come organismi da sanare per la scienza, come forza lavoro da impiegare per l'economia (body-abled man), come carne da redimere per la religione, come inconscio (id) da liberare per la psicoanalisi, come supporto di segni (semiotica corporale – la semiotica dei corpi) -- da trasmettere per la sociologia – un segno e un medio fisico – l’immagine e percipita per un corpo – un corpo mittente – un corpo che recive il messagio – semiotica fisica. L'uomo e capace di cappire significatum ambi-valente (uno senso Fregeiano e una implicatura – “He is a fine friend +> He is a scoundrel). Questo significatum ambivalente e fluttuante e quello che il corpo ha da sempre assunto. Questa ambivalenza del segno fra corpo 1 e corpo 2 nasce dal suo sottrarsi all'uni-vocità (or aequi-vocita – or aequi-segno) di una teoria psicologica categorizzante, concedendosi invece una “con-fusione” de un codex di senso fregiano e un codex di implicatura, con i quali i corpori sono costituito. Per salvarsi di un panico creato da questa ambivalenza (significatum fregeano, significatum griceianum), si sigue il principio d'identità, collocando i corpori di volta in volta sotto un equi-valente generico che gli garantisse uni-vocità o aequi-vocita (quando l’implicatura e cancellata). Cogliendo lo sfondo in cui i corpori si mostrano, si evidenzia la legge fondamentale che lo governa, ovvero lo “scambio” (o ‘con-versazione’) simbolica – il simbolo e il significatum griceiano -- in cui tutto è re-versibile e non vi è demarcazione tra significati – questo che Grice chiama la ‘indeterminazione disgiontiva infinita: il corpo significa che p1 o p2 o p3 o … L'ambivalenza del segno è una legge inclusiva per cui ciò che è, è sì sé stesso (principio d’identita), ma anche altro da sé (principio della negazione – diaphoron).  In questo modo i corpori conservano la sua oscillazione simbolica tra vita e morte: oscillazione che non posse eliminarsi tracciando una violenta disgiunzione tra vita e morte, tra ciò che è (l’ente, il ‘being’ di Grice) e ciò che non è (vide Grice, “Negazione e privazione).Proposito conclusive è quello non tanto di emancipare o liberare i corpori dalla restrizione impostagli dal senso apolineo fregeiano (che non avrebbe altro effetto che confermare i limiti in cui i due corpori sono reclusi), bensì quello di restituire i corpori alla sua originaria innocenza.  Si è sempre schierato su posizioni fortemente anticapitaliste, esprimendosi e professandosi inequivocabilmente comunista. è stato ufficialmente richiamato da Venezia a volersi attenere alle corrette regole di citazione degli scritti di altri autori. Questo per aver riportato alcuni brani di altri autori senza citarli in. Tutto ha avuto inizio quando in seguito a un articolo de Il Giornale è emerso che aveva copiato "una decina di brani" di Sissa per un saggio. Ha ammesso di aver violato il diritto d'autore riservandosi di riparare al danno. Ciò non ha comunque soddisfatto Sissa perché “quello non chiedere scusa, piuttosto un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi. Con il passare del tempo sono emersi altri precedenti analoghi. Infatti anche per il saggio su Heidegger, copia Zingari. I due arrivarono a un accordo che prevedeva l'ammissione da parte di Galimberti dell'indebita appropriazione intellettuale nelle successive edizioni del libro e da parte di Zingari l'impegno "a non tornare più sulla questione". Oltre a Sissa e Zingari sono stati copiati testi di Cresti, Natoli e Bradatan. Per difendersi, dice che "in ogni ri-elaborazione però, c'è uno scatto di novità".  L'inchiesta giornalistica de Il Giornale ha accertato che due dei saggi, presentati al concorso a Venezia erano stati copiati da altri autori. La commissione giudicante composta all'epoca non si accorse del fatto. Il rettore ha detto che "non ho, ora come ora, estremi per sollecitare il ministero, deve essere un professore del raggruppamento a farlo. Di mio posso dire che in ambito umanistico si producono troppi testi e che questo è uno dei fattori che causano l'impossibilità di fare controlli accurati. Nello specifico, secondo me dovrebbe essere Galimberti, nel suo interesse, a chiedere la convocazione di un giurì o comunque a rispondere e a specificare le sue posizioni.”Nel giugno  la rivista L'indice dei libri del mese ha pubblicato nel proprio sito un lungo articolo su altri copia-incolla. In particolare il saggio sul mito è stato indicato come costituito al 75% da un "riciclaggio" di suoi scritti precedenti, per il restante 25%, una ristesura di intere frasi e paragrafi, presi da altri autori, quasi identici agli originali. Le accuse mosse a Galimberti sono poi diventate un saggio, “La mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, ), in Bucci, elenca i nomi dei pensatori da cui avrebbe tratto parti di testi senza citare la fonte. Vattimo ha dichiarato al Corriere della Sera: «si scrive anche a distanza d'anni dalla lettura; la spiegazione è plausibile. Lui cita l'autore la prima volta; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza virgolettarle. Il sapere umanistico è retorico. Noi si lavora su altri testi, si commenta. Platone e Aristotele sono stati saccheggiati da tutti. Nella filosofia è tutto un glossare. C'è chi copia dagli altri e chi da sé stesso».Altre opere: ROMA SERMO ROMANVM -- Milano, Mursia). Agire (Milano, Apogeo);  Amore. Assisi, Cittadella Editrice,.Tra il dire e il fare. – dire e una forma di fare --  Il viandante della filosofia, con Marco Alloni, Roma, Aliberti,.Parole d'ordine, Milano, Apogeo,.  Amore. Milano, AlboVersorio. Amante, amato, amico --” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,.  “Il bello” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,. Eros e follia, Mariapia Greco, Lecce, Milella Editore. Fenomenologia del corpo, Milano, Feltrinelli – cf. Grice on ‘body’ – in “Personal Identity” “I fell from the stairs” -- Dall'inconscio al simbolo, Milano, Feltrinelli, 2“Equivoci” (Milano, Feltrinelli); Parole nomadi, Milano, Feltrinelli; I vizi capitali e i nuovi vizi, Milano, Feltrinelli. Amore, Milano, Feltrinelli. Treccani. Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di  Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario all'università Ca' Foscari di Venezia, titolare della cattedra di Filosofia della Storia. Titolo opera: Le cose dell'amore. Il libro è di: saggistica, cioè appartiene al genere letterario dei saggi. Sommario: A) Riassunto per capitoli: “Amore e trascendenza”: La metafora di Dio è sempre stata collegata alla  metafora dell'amore, nel senso che senza la presenza della trascendenza, cioè che è al di là dei limiti di ogni conoscenza possibile e quindi superiore alla ragione umana, l'amore perde la sua forza e la sua capacità di leggere il mondo. Rimane un enigma dove l'amore vede in Dio la sua trascendenza, e Dio vede nell'amore la sua natura,e questo intreccio non presenta sentimentalismi ma solo il nesso tra amore e trascendenza. I “Amore e sacralità”: La sacralità è dovuta dal desiderio dell'uomo di  immortalità e quindi dal desiderio di conservare la sopravvivenza dell'individuo e della totalità dell'essere. Oltre al sacrificio, un altro modo di sperimentare la morte della propria individualità è l'orgasmo, l'apice della vita sessuale, durante il quale l'Io e il Tu  si dissolvono, e ciò è reso possibile dalla fiducia reciproca.  “Amore e sessualità”: Il sesso non è qualcosa di cui l'Io dispone, ma è qualcosa che dispone l'Io,  aprendolo così alla crisi. Nella sessualità, la meta non è il godimento dell'Io, ma il suo perdersi negli abissi dell'anima, i quali si pensa siano rimasti disabitati, e che invece possono riapparire durante quel rinnovamento della vita a cui l'Io cede ogni volta che ha un rapporto sessuale e quindi nesso con l'altra parte di sé. “Amore e perversione”: La perversione è sempre stata giudicata negativamente, perché concepita  come sinonimo di devianza, degrado, ribrezzo e ripugnanza. Il perverso non cerca la trasgressione, ma la sua aspirazione è di raggiungere uno stato dove è soppressa ogni nozione di organizzazione, struttura, separazione e dl'universo di differenze da cui prende avvio ogni principio d'ordine. Il godimento del perverso non deriva dalla sessualità, ma dalla sessualità portata a quel limite oltre il quale c'è l'incontro con la  morte. “Amore e solitudine”: La mitologia greca aveva divinizzato la  masturbazione, perché era espressione di autosufficienza e indipendenza dagli altri. Ma questo atto venne condannato, nell'età dei Lumi, dalla scienza medica e dall'economia: la prima sosteneva che essa provocava malattie, mentre la seconda affermava che era uno spreco. Osservando invece il fenomeno della masturbazione da un'ottica diversa da queste due discipline, questo "vizio dell'adolescente" non appare come un qualcosa da combattere, ma un qualcosa su cui fare leva per integrare gradualmente la sessualità.  "Amore e denaro": La prostituzione è uno scambio di sesso e denaro che caratterizza il regime sessuale della nostra società, e che viene alimentato da un desiderio di rapido miglioramento delle proprie condizioni economiche. Infatti, di fronte al denaro tutto diventa merce: quando un uomo paga una donna, non le riconosce alcuna interiorità sua propria, arrivando a considerarla più come un "genere" che come "individuo".  "Amore e desiderio": L'amore è un'illusione di stabilità emotiva. Questo sentimento necessita novità, mistero e pericolo, ma deve saper combattere il tempo, la quotidianità e la familiarità. infatti, la ricerca della  sicurezza e della stabilità porta l'amore al suo degrado, perché così facendo essa non prevede l'avventura, la tensione e il senso del rischio che alimentano la passione. "Amore e idealizzazione": La percezione della realtà è una costruzione attiva, dove l'immaginazione, la fantasia, il desiderio, di cui l'idealizzazione amorosa è una figura, intervengono a trasfigurare i dati della realtà. Da ciò si deduce che l'oggettività è un'ideale impossibile, e infatti la convinzione di conoscere l'altro in modo oggettivo è una delle tante illusioni create dalla passione per evitare la delusione.  "Amore e seduzione": Nella vita quotidiana, la trasparenza riesce ad allargare l'orizzonte e lo scenario dischiuso dall'immaginazione. Infatti il desiderio si trova in ogni fessura della realtà che lascia trasparire un'ulteriore senso: quello dell'irreale e de-reale. Il corpo dell'altro diviene così uno specchio che riflette il nostro desiderio, e questo corpo non deve essere mai nudo, perché la seduzione si esprime attraverso le vesti, gli accessori, i gesti, la musica.  "Amore e pudore": L'amore prevede che ad amare e ad essere amato sia il nostro Io, una delle due soggettività presenti in ogni individuo e che, contro la sessualità generica, impone la  barriera del pudore. Essa però non limita la sessualità ma la individua, sottraendola a quella genericità in cui si celebra il piacere senza riconoscere l'individualità. E' importante sottolineare che il pudore non è un sentimento esclusivamente sessuale, ma ha anche una valenza sociale che si pone alla difesa dell'individuo contro la pubblicizzazione del privato.  "Amore e gelosia": Nella nostra società, dove la sussistenza dipende sempre meno dalla solidità dei vincoli familiari, la gelosia è  vista come un sentimento arretrato che ostacola la libertà e la sincerità dei singoli. Essa, cha affonda le sue radici nell'infanzia non per la progressiva rinuncia da parte del  bambino al possesso esclusivo del padre o della madre, ma perché durante questo periodo chiunque ha provato sentimenti come la solitudine e la paura di essere abbandonati, altera la percezione, l'attenzione, la memoria, il pensiero e il comportamento. Per avere controllo su questo potente stato d'animo, bisogna separare progressivamente l'amore dalla ossessività, cioè civilizzarla. "Amore e tradimento": Il tradimento risiede nella fiducia originaria, dove non c'è traccia neppure del sospetto, perché non sorgono ne l'interrogazione ne il dubbio. Ma la scoperta di quest'ultimo segna la nascita della coscienza, e questo atto è indicato dal tradimento. Sono presenti diverse reazioni al tradimento: 1)la vendetta, che non emancipa l'anima ma la irrigidisce; 2) la negazione, in cui l'individuo che ha subito una delusione tenta di negare il valore dell'altro; 3) il cinismo, che fa credere che l'amore sia sempre una delusione; 4) il tradimento di sé, che porta a tradire sé stessi e le proprie esperienze emotive; 5) la scelta paranoide, un atteggiamento legato più alla sfera del potere che a quella dell'amore. XIII CAPITOLO "Amore e odio": L'odio è il compagno inevitabile dell'amore, e la sopravvivenza di questo sentimento amoroso non dipende tanto dalla capacità di evitare l'aggressività, che è il riflesso dello stato di pericolo in cui si trova la persona che ama, quanto dalla capacità di viverla e oltrepassarla. In amore, l'individuo può accettare la dipendenza verso la persona amata, oppure per riscattarla trasforma la passione amorosa in passione aggressiva, carica di odio, dove il messaggio finale è che non si può fare a meno di questa persona.  "Amore e passione": A differenza dell'amore, la passione non segue le regole, ignora il governo di sé, non conosce il limite e non dipende da progetti. Per questo è possibile dire che l'amore è cristiano, mentre la passione è pagana. La passione cerca rassicurazione, ma nello stesso tempo vuole essere smentita, rifiutata e delusa, perché attribuisce all'affetto, alla domesticità, all'amare e all'essere amato poca importanza. Questo perché la passione conosce il destino e non lo scambio, in quanto l'altro è considerato solo come materia per la sua creazione, ovvero la fantasia, la quale si alimenta del dubbio e dell'incertezza. "Amore e immedesimazione": L'alienazione nell'altro per amore di sé approda o nell'assimilazione con la persona amata, che porta alla perdita della propria identità, o nel possesso della persona amata, con la tendenza ad escluderla dal mondo. Gli amanti chiamano amore questa reciproca immedesimazione, e questa rinuncia di sé e della propria libertà non esprime solo un rapporto di dipendenza, ma una vera e propria condizione di alienazione. Il mantenimento in amore della propria autonomia non solo evita l'identificazione con la persona amata, ma consente il recupero di se stesso.  "Amore e possesso": La passione, quando non approda nell'immedesimazione con la persona amata, si indirizza verso il possesso, che riduce le relazioni della persona amata, e in cui l'amante non ama propriamente l'altro, ma solo il potere che esercita sull'altro. Dunque, chi ama per possesso non si accontenta del possesso del corpo e del godimento sessuale che ne deriva, ma pretende che la persona amata lasci per lui tutto il suo mondo, e che lo ami non solo per la sua evidente identità, ma per le sue qualità nascoste. Solo a questo punto il suo desiderio di possesso è soddisfatto ma, con la sua soddisfazione, anche la sua passione si estingue, perché non era amore per l'altro, ma era perverso amore di sé. "Amore e matrimonio": La nostra società è caratterizzata dall'individualismo, in cui l'individuo  vive in base alla sua personale idea di felicità, senza più subire l'influenza delle norme tradizionali. Attualmente, l'amore è slegato da ogni riferimento sociale, giuridico e religioso, e si sta diffondendo la figura de "l'uomo della passione", che attende dall'amore qualche rivelazione su se stesso o sulla vita in generale. Da una parte quindi l'amore-passione, che rappresenta l'evasione dal mondo per raggiungere in sogno la felicità assoluta, dall'altra l'amoreazione che fonda il matrimonio, che non evade dal mondo ma assume in esso il proprio impegno. "Amore e linguaggio": L'amore utilizza le parole per dare espressione a ciò che la logica non sa cogliere. Infatti, i paradossi del linguaggio dell'amore cercano di infrangerla, perché la logica include la normalità e la quotidianità, mentre l'amore vuole esprimere l'eccesso, l'insolito, e non può farlo se rispetta le regole della ragionevolezza. Questo eccesso concede all'amore nuove libertà di cui ha bisogno, perché essa nasce quando è totalizzante, e infatti il linguaggio dell'eccesso pretende la totalità, dove odio e amore possono confluire e passare l'uno nell'altro. "Amore e follia": L'amore è quasi sempre stato considerato come un qualcosa posseduto dall'Io. Freud smentisce ciò sostenendo che non esiste una ragione onnipotente che guida la volontà che governa le ragioni, in quanto la psiche umana non è razionale. Fu Platone il primo ad interessarsi alle regole della ragione e agli abissi della follia. Egli con il termine follia indica un'esperienza dell'anima che sfugge a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarla e disporla in successione. B) Tesi dell'autore:  L'amore non può esistere senza un raggio di trascendenza. C'è una profonda affinità tra il sacrificio e l'atto d'amore. L'amore non rinnega il sesso e l'erotica. L'amore deve sapere accettare anche la perversione.  La masturbazione è segno di solitudine. Con la prostituzione ciò che si  vuole comprare non è il sesso ma il potere su un altro essere umano. E' importante saper conciliare il bisogno di sicurezza (l'amore) e il desiderio di avventura (la passione). L'idealizzazione amorosa influenza la nostra percezione della realtà.  La vera seduzione è possibile solo quando il corpo non si riduce a quel significato univoco che è il sesso.  Il pudore è quel sentimento che difende l'individuo dall'angoscia di perdersi nella genericità animale.  La gelosia è il rovescio della passione, dell'intimità e della dedizione che caratterizzano l'amore.  Il tradimento è il lato oscuro dell'amore, che però è ciò che gli conferisce il suo significato e che lo rende possibile.  L'odio è il compagno inevitabile dell'amore, perché esso è la risposta a quella minaccia che è l'amore. A differenza dell'amore, la passione non conosce limite e regole.  L'amore non prevede la rinuncia di sé.  L'amore come passione è il desiderio di potenza assoluta su di una persona. Il matrimonio non è supportato da alcuna buona ragione, perché nelle cose dell'amore la ragione non ha gran voce in capitolo. L'amore si affida al linguaggio per esprimere l'intreccio della nostra anima.  L'amore è un cedimento dell'Io per liberare in parte la follia che lo abita. C) Impressioni riportate nella lettura: A mio parere, il libro "Le cose dell'amore" è stato molto coinvolgente per i temi trattati: l'autore, grazie alla sua esperienza di vita e alla sua abilità di scrivere che non è da sottovalutare in uno scrittore, riesce a descrivere tutte le sfumature dell'amore senza cadere nella banalità e nella monotonia, tendendo sempre accesa nel lettore la voglia di proseguire la lettura. Ciò è favorito anche dal fatto che molti dei temi affrontati si riscontrano nella vita quotidiana di ognuno di noi, cioè ci riguardano da vicino perché fanno parte della società in cui viviamo: l'amore legato al denaro, e quindi al fenomeno della prostituzione, che è un problema diffuso in Italia; l'amore legato al pudore, un aspetto necessario per vivere in comunità, che quindi ha una valenza sociale; l'amore legato alla gelosia, la quale è vista come un sentimento che, in una società in cui sta avvenendo l'emancipazione dell'individuo, ostacola la libertà e la sincerità dei singoli; l'amore slegato dal matrimonio, in quanto nella nostra società si sta diffondendo l'individualismo. Difficoltà incontrate nella lettura: Durante la lettura del libro "Le cose dell'amore", ho riscontrato delle difficoltà nella comprensione di alcune frasi o parole. In qualsiasi lettura è fondamentale capire e interiorizzare tutto ciò che sta scorrendo sotto i nostri occhi, e porsi delle domande per essere certi di aver appreso tutto in maniera corretta. Se si tralascia anche un solo particolare perché non lo si riesce a comprendere fino in fondo, andando avanti nella lettura si svilupperanno sempre più problemi di condiscendenza. In questo libro ho riscontrato più di una frase, o semplicemente delle parole, che hanno sollevato delle difficoltà nella comprensione dei concetti-chiave. Ad esempio, prima di continuare lalettura mi sono dovuta soffermare su parole di cui non conoscevo il significato e che ostacolavano la mia interpretazione di questo testo, alcune delle quali sono: ambivalenza, assedio, avvedutezza, dissoluzione, ineffabilità, millanteria, parossismo, prevaricazione. In particolare, ho dovuto cercare informazioni relative al significato di due parole, trascendenza e alienazione, perché entrambe sono temi importanti affrontati. Era dunque necessario approfondire il concetto contenuto in queste due espressioni per raggiungere l'obiettivo di questa lettura: accrescere le nostre conoscenze. Inoltre ho avuto modo di riflettere in modo più attento e accurato sul termine "immedesimazione", che era già stato per me oggetto di studio in alcune discipline, ma non era mai stato così legato alla quotidianità, così vicino al nostro ambiente di vita. In conclusione, questo libro mi ha dato l'opportunità di ampliare il mio sapere, e soprattutto mi ha dato l'occasione di approfondire il concetto di alcune parole, elencate precedentemente, prima a me estranee. Scheda del libro  Introduzione: L’uomo, troppo spesso, tende a definire l’amore legandolo a significati  che, in realtà,  non gli appartengono completamente. Galimberti, attraverso un’attenta analisi, s’introduce all’interno del sentimento più incomprensibile ed equivocato di tutti i tempi. Egli non definisce l’amore, ma associa a questo i tanti falsi sinonimi che  gli vengono attribuiti, cercando di dimostrare che i termini non sono equivalenti ma  solo in relazione. Graficamente, dunque, l’amore e i falsi sinonimi potrebbero essere rappresentati da due insiemi, con un’ampia parte compenetrata, ma non sovrapposti. Il  risultato  evidente risulta essere un passaggio dalla amore è… ad una più ricca ed attenta osservazione di amore e… definizione abituale di Amore e... L’amore viene  analizzato in tutte i suoi aspetti, dalla trascendenza, sacralità alla perversione, seduzione, denaro,  dal pudore al tradimento, dall’immedesimazione, possesso al  matrimonio, dal linguaggio alla follia. Il sentimento più oscuro sembra nascere da un incantesimo della fantasia che fa idealizzare in un essere la persona amata e cessare con il tempo che, favorendo la realtà, finisce col produrre una disillusione delle aspettative, trasformando la passione, l'idealizzazione, iniziale in un affetto privo di partecipazione e trasporto. Le conseguenze, talvolta, possono essere anche molto gravi tanto da tramutare la passione in una patologia e sostituire ai poeti d'amore degli psicologi. La vicenda divina è legata anche all'atto sessuale in cui l'uomo trasgredisce, eccede, cadendo sotto il peso della passione che non rappresenta solo uno smarrimento del desiderio e di se stesso ma anche un vero e proprio patire. "il desiderio, per quel che ancora le parole significano, rimanda alle stelle: de-sidera" (Le cose dell'amore, 1) Come scrive l'autore, l'amore e la trascendenza vanno di pari passo e dal momento che il significato della parola desiderio rimanda alle stelle, quando esso con il tempo si estingue, non c'è più elevazione dell'anima che è in grado, trascendendosi, di lasciarsi superare. L'amore e la trascendenza, dunque, sono legati non da un rapporto reciproco, ma dal sentimento che viene sviluppato per le cose che non è possibile possedere. Il saggio risulta essere molto interessante nelle tematiche e negli accostamenti tra gli argomenti e permette, attraverso l'uso di un linguaggio comune di poter essere compreso da diversi tipi di lettore, trattando ,infatti, un tema senza età e senza la necessità di particolari conoscenze umane o scientifiche permette a tutti di immedesimarsi, interrogarsi ed interagire conil testo ed è proprio questa compenetrazione del lettore che crea una polisemia di significati e sempre diverse chiavi di lettura sia da altre persone sia dal tempo che muta le circostanze della vita. L'autore riesce a non abbandonarsi mai in trattati banali o superficiali finendo in discorsi pesanti ed inconsistenti ma inserisce diverse tonalità che mantengono viva la curiosità e la voglia di proseguire la lettura. La contemporaneità in cui vive gli permette di rapportare al testo l'esperienza personale, permettendo che venga identificata o differenziata da quella altrui. Le tematiche attuali, lo stile concreto e il narratore in cui è possibile identificarsi mostrano, dunque, l'ottima riuscita del libro. "Amore non è solo  vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta." (Le cose dell'amore, 19). conseguenza si tende ad innamorarsi solo delle persone che la fantasia porta a sognare ed idealizzare e a cadere in depressione o nel deprezzamento di se stessi se il sentimento non è ricambiato, poiché, senza l'immaginazione, che influenza la percezione ed esalta la realtà il desiderio di sicurezza potrebbe far cessare sul nascere l'amore per la paura di non essere corrisposti. L'amore, tuttavia, nelle sue molteplici identificazioni ha anche un lato oscuro, riconosciuto nel tradimento. Esso rappresenta sia il dolore per fine della fiducia, che l'inizio dello sviluppo della coscienza, infatti, solo chi si concede senza avere la sicurezza di non essere tradito può provare il vero amore. La coscienza può, emancipandosi, portare al perdono e decidere di passare oltre oppure può svilupparsi in vendetta, cinismo, svalutazione o malattia, e dal momento che questa è la strada più percorsa generalmente è bene che non si realizzi come pratica insincera ma come reciproco riconoscimento, dove chi ha tradito non cerca scuse e chi ha subito prende atto ed eventualmente accetta il cambiamento poiché tradire qualcuno, qualsiasi sia il rapporto che lega, è già una possessione che inizia il processo di arresto della propria crescita. L'amore e l'odio, invece, coesistono perfettamente, poiché solo chi ama davvero sa odiare e solo chi odia veramente è, in realtà, in grado di amare. Essi rivelando che, per vivere bene, non si può fare a meno d'altre persone, sono i soli, unici e veri sentimenti. "Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto con l'altro, quanto una relazione con l'altra parte di noi stessi" l'amore e le caratteristiche che gli vengono associate mettono in relazione l'uomo con la parte folle del proprio essere da cui si era discostato nel tempo. " Ora che vi ho detto tutto sull'amore, non crediate che io ne sappia più di voi: il ragazzino, il bimbo appena nato ne sanno quanto me. L'unica differenza è che lui, che non ha anni e ancor meno esperienza, crede ancora a ciò che lo tormenta; mentre noi, che siamo carichi di anni e di esperienza, cerchiamo di affidarci a essi per rendere meno dolorose le nostre illusioni. Eppure con tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di lui?" (M. Chebel "Il libro delle seduzioni") Galimberti conclude la sua opera con questa breve citazione, in essa è racchiuso, infatti, tutto il significato dell'amore. Un sentimento inspiegabile che non è possibile conoscere né completamente né in modo uguale o simile ad altre persone, una sensazione che gratifica i bambini, poiché nella loro innocenza la vivono senza tormenti e ansietà pur conoscendola come gli adulti. AMORE È... "l'amore è un fiore delizioso, ma bisogna avere il coraggio di andarlo a cogliere sull'orlo di un abisso spaventoso" (le cose dell'amore, 116 Ivi, 120) L'amore è il più importante tra tutti i sentimenti, dal momento che è possibile associarlo a tutti gli altri. Esso è difficile da trovare e spesso viene confuso con altri molto simili ma mai uguali. Solo chi ha il coraggio di lottare, di sfidare, di mettersi in gioco, di rischiare può ottenere il vero sentimento ricercato o in ogni caso non vivere nell'illusione, riconoscendo i falsi sentimenti che cercano continuamente di insidiare un posto che non appartiene a loro. La fatica di condurre il "gioco" attraverso la strada se pur più reale, più complicata porta ad una felicità certa e vera che permette di non patire grandi sofferenze ma solo piccole illusioni riconoscendo che il male apparente non è in realtà vero male così come ciò che si definisce generalmente come bene non sempre è il vero bene.  Nella Introduzione al suo celebre libro del 1983 Il corpo(Feltrinelli, Milano, pp. 11-16), Umberto Galimberti così si esprimeva:  È forse tempo che la psicologia incominci a pensarsi contro se stesse a comprendersi al di là della sua nominazione idealistica che la propone come «discorso sulla psiche, quindi su quell'unità ideale del soggetto che la grecità ha promosso col termine ????, e a cui la psicologia non s'è ancora sottratta neppure nella sua più moderna espressione scientifica.  Ma pensare contro non significa pensare l'opposto, mantenendosi su quel medesimo terreno d opposizione in cui il conflitto, così come si genera, si riassorbe. Pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare alle radici, scavando il fondo su cui si impianta il radicamento.  Questa operazione che rimuove la solidità delle radici, disloca la psicologia dal luogo che s'è data, quindi la dis-orienta, la sottrae al suo oriente, alla sua origine storica.  Quest'origine è rintracciabile nella cultura greca e precisamente in quel momento in cui la specificità dell'uomo è sottratta all'ambivalenza delle sue espressioni corporee per essere riassunta in quell'unità ideale, la psyche, che da Platone in poi, per tutto l'Occidente, sarà il luogo del riconoscimento dell'unità del soggetto, della sua identità. Ma questo luogo di identificazione contiene già il principio della separazioneperché, come coscienza di sé, la psyche incomincia a pensare per sé, e quindi a separarsi dalla propria corporeità. La prima operazione metafisica è stata un'operazione psicologica.  Nata con un significato semplicemente classificatorio per designare quei libri aristotelici che erano collocati dopo (µ?ta) i libri di fisica (t? f?s???), la «metafisica» ha guadagnato ben presto e coerentemente un significato topico che designa un al di là della natura, quindi una scienza dell'ultrasensibile che si differenzia dal mondo dei corpi perché, contro il loro divenire e mutare,  rappresenta l'immutabile e l'eterno. L'idea platonica è il modello di questa separazione e contrapposizione, e la psyche, essendo «amica delle idee, incomincerà a considerare il corpo come suo carcere e sua tomba.  Una volta che la verità è posta come idea, l'opposizione tra ideale e sensibile , tra anima e corpo, diventa l'opposizione tra vero e falso, tra bene e male. Valori logici e valori morali nascono da questa contrapposizione che la metafisica ha creato e la scienza moderna ha mantenuto, rivelando così la sua profonda radice metafisica se è vero, come dice Nietzsche, che «la credenza fondamentale dei metafisici è la credenza nelle antitesi dei valori».  A questo punto per la psicologia, pensarsi contro se stessa, pensarsi fino in fondo, fino al fondo della sua origine storica, significa pensarsi contro questa antitesi di valori che non la realtà, ma lo sguardo metafisico, con cui la psicologia ha generato se stessa, ha instaurato. È uno sguardo che ancora ospita la psicologia come residuato di quell'idealismo che, a partire da Socrate e Platone, ha percorso l'Occidente come suo lungo errore.  Da questo errore la filosofia si è emancipata con Nietzsche che ha denunciato quel retro-mondo, quell'«al di là inventato per meglio calunniare l'al di qua», ma non la psicologia, che così rimane la più occidentale delle scienze e quindi la più metafisica, se per metafisica intendiamo il pensiero  della separazione, il puro d?a ß???e??, da cui nascono quelle antitesi denunciate da Nietzsche e fedelmente riportate dal discorso psicologico sulla norma, dove si disgiungono ragione e follia.  Fattasi carico della logica della separazione inaugurata dalla disgiunzione platonica tra corporeo e ideale, la psicologia, se vuol essere coerente a se stessa, non può parlare del corpo se non impropriamente, se non per un'infedeltà al suo statuto scientifico, a meno che per corpo non intenda l'idea di corpo che come scienza s'è data. Ma se il corpo anatomico, a cui questa idea si riduce dopo che lo psichico è stato separato e autonomizzato, non è luogo in cui la psicologia si riconosce, allora del corpo la psicologia potrà parlare propriamente solo se si pronuncia contro se stessa, contro lo statuto della separazione, che è poi quell'origine metafisica da cui la psicologia è nata,  ha fondato se stessa come scienza, e ancora si conserva.(…)  Come luogo della revisione psicologica, il corpo parla simbolicamente, non nel senso in cui la psicoanalisi parla dei simboli per ribadire un'altra separazione, quella tra conscio e inconscio, dove nell'inconscio si ritrova il rovescio dell'iperuranio platonico, il 'vero' significato di ciò che si manifesta, ma nel senso di abolire la barra che ha separato l'anima dal corpo inaugurando la 'psico-logia'. Abolire la barra significa mettere assieme, s?µ-ß???e??. Proponendosi come simbolo, il corpo abolisce la psicologia come storicamente s'è  pensata in Occidente, la sradica dalle sue radici storiche, che sono poi quelle metafisiche e idealistiche, e così la costringe a pensarsi contro se stessa.  Questo pensiero che è contro, perché pensa fino in fondo, fino alle radici, incontra la corporeità che, nel suo sorgere immotivato e nel suo ambivalente apparire, dice di essere questo, ma anche quello. L'ambivalenza così dischiusa non è ambiguità, ma è quell'apertura di senso a partire dalla quale anche la ragione può fissare l'opposizione dei suoi significati ,e quindi quell'antitesi dei valori in cui si articola la sua logica disgiuntiva quando divide il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto, Dio dal mondo, lo spirito dalla materia, l'anima dal corpo.  Queste opposizioni sopprimono l'ambivalenza (?µf?) con cui la realtà corporea originariamente appare nel suo duplice aspetto, come un Giano bifronte, per instaurare quella bivalenza (bis) dove il positivo e il negativo si rispecchiano producendo quella realtà immaginaria da cui traggono origine tutte le «speculazioni». Diciamo immaginaria perché la realtà non può mai di per sé essere negativa se non per effetto di una valutazione. Ma se il negativo è da interpretare semplicemente come il «valutato negativamente», allora la negatività attiene essenzialmente al giudizio di valore. Proponendosi come questo, ma anche quello, il corpo, come significato fluttuante, che si concede a tutti i giudizi di valore, ma anche si sottrae, con la sua ambivalenza li fa tutti oscillare. Luogo e non-luogo del discorso, esso opera quel taglio geologico nella storia che ne rivela tutte le stratificazioni. Da centro di irradiazione simbolica nella comunità primitiva, il corpo, infatti, è diventato in Occidente «il negativo di ogni valore» che il gioco dialettico delle opposizioni è andato accumulando. Dalla «follia» del corpo di Platone alla «maledizione della carne» nella religione biblica, dalla «lacerazione» cartesiana della sua unità alla sua «anatomia» ad opera della scienza, il corpo vede proseguire la sua storia con la sua riduzione a «forza-lavoro» nell'economia dove più evidente è l'accumulo del valore nel segno dell'equivalenza generale, ma dove anche più aperta diventa la sfida del corpo sul registro dell'ambivalenza.  Qui «sfida» non significa che il corpo si oppone a qualcosa o a qualcuno, ma semplicemente che non si affida a una pienezza di senso e di valore, non perché abbia obiezioni o riserve che qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare o di assorbire, ma perché quella pienezza di senso e di valore è cresciuta sulla sua negazione che, se da un lato ha lasciato il corpo senza senso, senza nome, senza identità, dall'altro gli ha dato la possibilità di diventare il contro-senso, colui che dissolve il Nome e risolve l'identità nelle sue adiacenze: A enon A, perché questo è il gioco dell'ambivalenza simbolica, e insieme la strada con cui il corpo può recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui la struttura metafisica del sapere psicologico l'ha confinato.  Questo recupero è possibile perché il gioco dell'ambivalenza è aperto prima che il sapere metafisico fissi le regole del gioco, ma proprio perché le regole vengono dopo, questo gioco è imprevedibile, perché nessuna determinazione posta in gioco conosce la sua destinazione. L'unica certezza è quella che non ci si può sottrarre alla necessità del gioco, non si può dire l'ultima parola sul gioco e fermarlo per sempre.  Per la sua natura ambivalente, infatti, il corpo è una riserva infinita di segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha individuato nella psyche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno, una modalità di ricognizione che non può pretendere di dire qual è il senso ultimo del corpo. Qui il corpo si cela non perché nasconde se stesso, ma perché in esso i segni sovrabbondano sulle capacità che il sapere psicologico ha di ordinarli. Il volume di senso indotto dai segni del copro prevale infatti sulla costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il sapere psicologico s'è fatto. Si tratta allora di demolire la semplicità della rappresentazione psicologica dissolvendola nella pluralità di senso che la sovrabbondanza dei segni produce.  Se ciò non accade, se la psicologia non si pensa contro la rappresentazione che si è data a partire da quell'alba greca in cui ha preso avvio l'autonomizzazione della psyche, la psicologia non giungerà mai alla comprensione dell'espressività originaria del corpo, ma sarà costretta ad errare, perché ignora l'errore che è alla base della sua fondazione epistemica, della sua nascita come scienza.  Si tratta di un errore che non investe solo il sapere psicologico ma ogni sapere razionale quando, sottraendosi alla polisemia della realtà corporea, si afferma come asserzione incontrovertibile su di essa. In questo passaggio dalla verità come ambivalenza alla verità come decisione del vero sul falso, il sapere razionale dimentica di essere una procedura interpretativa tra le molte possibili per porsi come assoluto principio, dimentica di essere un inganno necessario per dirimere l'enigma dell'ambivalenza, e in questa dimenticanza diviene un inganno perverso.  Contro questo inganno il corpo rimette in giuoco la sua natura polisemica rifiutandosi di offrirsi all'economia politica esclusivamente come forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere, all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come carne da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni. In questo rifiuto il corpo sottrae a tutti i saperi il loro referente, e alle economie, che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore, sottrae il loro senso. Ciò è possibile perché, nonostante le iscrizioni, nel loro immaginario, abbiano cercato di dividere il corpo in quei settori in cui era possibile ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta l'economia di un sapere, il corpo è ambivalente, è cioè una cosa, ma anche l'altra, per cui: o la decisione del sapere sulla divisione del corpo, o l'ambivalenza del corpo sulla frammentazione dei saperi, con conseguente dissolvimento del loro valore accumulato.  Per sfuggire a questa alternativa, che è inevitabile dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso, occorre riguadagnare il terreno su cui il sapere occidentale è cresciuto. Questa consapevole riappropriazione non è una regressione, non è l'abbandono del solido terreno del sapere, al contrario, è la ricostruzione genealogica del suo significato.  Riproporre l'ambivalenza del corpo non significa quindi rifiutare il sapere razionale, né tanto meno accettarne la resa, ma significa andare alle radici di questo sapere e scoprirlo per ciò che esso è: nulla di più che un tentativo per far fronte all'ambivalenza della realtà corporea che, così riscoperta, è ciò che dà ragionedelle molteplici ragioni.  Queste ragioni che i saperi tendono a soddisfare non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche. Si tratta di un senso che sta prima di ogni significato, e che nessun significato promosso dalla decisione scientifica può abolire, perché è prima di ogni inizio e continua oltre ogni conclusione.  Ne consegue che alla metafisica dell'equivalenza produttrice di quei significati con cui in Occidente si sono fatti circolare i corpi secondo quel preciso registro di iscrizioni che di volta in volta li de-terminavano, e sulle cui determinazioni sino nati i vari campi del sapere, il corpo sostituisce il gioco dell'ambivalenza, ossia di quell'apertura di senso che, venendo prima della decisione dei significati, li può mettere tutti in gioco col corredo delle loro iscrizioni in quell'operazione simbolica in cui il sapere perde la sua presa, perché la delimitazione dei campi in cui da sempre si è esercitato si è simbolicamente con-fusa.  Questa è la sfida del corpo, una sfida che è già iniziata se c'è da dar credito a quella «crisi delle scienze europee» denunciata da Husserl. Niente di più benefico. Sono i primi effetti di quella violenza simbolica rispetto a cui quella razionalistica è in ritardo di una generazione, perché ancora crede in una controparte, e quindi non sa che ogni parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere.  Ma quando la realtà immaginaria, prodotta dalle opposizioni polari in cui si articola ogni sapere razionale, non riesce più a farsi passare per realtà vera, in quel gioco di specchi che si frantumano a contatto con la polisemia della realtà corporea, allora si è più vicini all'ambivalenza, non per una contrapposizione dialettica o per un'opposizione organizzata, ma perché là dove tutte le maschere sono cadute, compresa quella della bivalenza codificata, ogni termine che ruota su se stesso si s-termina. Questo è l'esito simbolico che attende l'ordine strutturale di ogni sapere. E già se ne vedono le tracce. Seguendole, il corpo consegna ogni ontologia e ogni deontologia alla geo-grafia, alla grafia della terra, la più dicente, la più descrittiva, quella che non accorda privilegi metafisici, perché non conosce la mono-tonia del discorso, ma l'ambi-valena della cosa.     Fra tutte le numerose pubblicazioni di Galimberti, questa è, forse, quella che maggiormente gli ha dato visibilità e lo ha designato quale uno dei più popolari maitres-à-penser della filosofia italiana contemporanea.  È anche un'opera caratteristica, perché in essa Galimberti, curatore di rubriche di psicologia su svariate riviste illustrate, si fa campione di una rivolta della psicologia contro se stessa e cerca di scalzarne le basi storiche e ideologiche, in nome di un «pensarsi fino in fondo» che equivarrebbe, nelle intenzioni dell'autore, a un completo rovesciamento della sua prospettiva e delle sue stesse finalità.  Il punto da cui muove Galimberti per sferrare il suo attacco alla psicologia è che quest'ultima, «la più occidentale delle scienze, e quindi la più metafisica», è nata sull'idea della separazione di corpo e psyche che, partendo da Platone, percorre come un filo rosso tutta la storia del pensiero occidentale. Secondo l'Autore, la specificità dell'uomo è stata sottratta all'ambivalenza delle sue espressioni corporee in nome dell'unità ideale, quella - appunto - della psyche, divenuta l'elemento fondamentale della sua identità.  Ma il corpo, per Galimberti, è portatore di un messaggio ambivalente (non equivoco, ci tiene a precisare), secondo il quale mostra di essere questo, ma anche quello. Egli non si prende il disturbo di precisare meglio questi concetti, considerandoli - evidentemente - di per sé chiari. Afferma invece che l'ambivalenza suggerita dal corpo realizza una «apertura di senso» (bella espressione, ma altrettanto vaga del «questo» e «quello»), grazie alla quale la ragione ha la possibilità di fissare l'opposizione dei suoi significati, ossia l'aborrita «antitesi dei valori», che ha l'imperdonabile impudenza di voler distinguere il vero dal falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo.  Tale antitesi dei valori è, per Galimberti, la somma di tutti i vizi della filosofia; riprendendo il concetto da Nietzsche, egli la ritiene responsabile della lacerazione e della schizofrenia del pensiero occidentale, del quale traccia una veloce panoramica per mostrare - con accenti severiniani - che esso è stato un lungo, deplorevole errore, in quanto basato sulla metafisica e, quindi, sul dualismo. E il dualismo, si capisce, è un male, perché crea arbitrariamente un al di là, dal quale poter meglio calunniare l'al di qua; ovvero, per dirla in termini più razionali, perché si basa su una logica disgiuntiva che sa, vagamente, di sulfureo (d?a-ß???e??, la separazione, etimologicamente fonda il nome del Diavolo, «colui» che separa).  Questo, dunque, è un punto centrale della argomentazione di Galimberti: il pensiero che separa è malvagio ed erroneo; dunque, tutto il pensiero dell'Occidente, essendo dominato dall'idealismo e dalla metafisica, è un pensiero erroneo e foriero di tristi conseguenze.  La ricetta per uscire da questo vicolo cieco non è, come si potrebbe pensare, la logica unitiva, bensì il pensiero dell'ambiguità, dove le cose sono queste e anche quelle, allo stesso tempo; ossia, dove rinviano a una polisemia che può essere interpretata, volta a volta, in un senso come nell'altro. Anche la psicoanalisi è una scienza metafisica, anzi, la più metafisica di tutte, perché reintroduce, attraverso la contrapposizione di conscio e inconscio, la lacerazione platonica e cristiana tra anima e corpo, tra spirito e materia; e fornisce una immagine distorta dell'uomo.  È a partire da questo punto che il ragionamento di Galimberti si fa propriamente filosofico, oltrepassando il campo ristretto della psicologia.  Invece di accettare l'ambivalenza del corpo, la logica disgiuntiva (dell'economia, della medicina, della religione e della psicanalisi) instaura la sua «bivalenza», dove il positivo e il negativo si rispecchiano in un gioco di riflessi che rimanda sempre a una rigida contrapposizione, a una polarità di «interpretazioni della realtà». Ma perché interpretazioni? Perché, per Galimberti, non esistono il positivo e il negativo, bensì la valutazione positiva e la valutazione negativa di fatti e situazioni che potrebbero essere anche i medesimi, guardati però da differenti punti di vista.  Eccoci arrivati, dunque, nel castello del mago Atlante, dove le cose non sono quelle che sono, ma quelle che vorremmo (o che temiamo) che esse siano. Come in  un labirinto di specchi, a metà fra Borgés e Pirandello, noi nulla sappiamo delle cose che vediamo e con le quali ci confrontiamo, bensì emettiamo giudizi di valore che ce le fanno percepire in un modo piuttosto che in un altro. Rashomon di Kurosawa o Sei personaggi in cerca d'autore: sia come sia, la negatività è un giudizio di valore; e il corpo, da Platone in poi, è il negativo: dunque, la negatività del corpo è frutto di un giudizio di valore.  Anche se sostiene di non indulgere a una modalità di pensiero irrazionalistica, Galimberti sostiene che ogni ragione si serve di una logica disgiuntiva allo scopo di affermare se stessa, ossia il proprio sapere. Così, la psicologia afferma la separazione della psyche dal corpo, per poter affermare il proprio sapere su di essa; esattamente come l'economia politica afferma la separazione della forza-lavoro dalla totalità della persona, per poter affermare il suo controllo sulla prima (e a danno della seconda).  Senonché, le opposizioni su cui si articola ogni sapere razionale sono, in realtà, «immaginarie»: non attengono alla dimensione della realtà, ma a quella dell'alienazione dalla realtà. Ci si potrebbe chiedere in che cosa questa realtà ulteriore, questa realtà vera che sta dietro la facciata della realtà (immaginaria), sia più reale di quella; su che cosa fondi la sua pretesa di non essere vittima dell'alienazione metafisica; in base a quali criteri la si possa considerare più concreta, più effettuale della deprecata «antitesi dei valori».  Galimberti non affronta esplicitamente la questione, ma sembra intuire la possibile critica e anticipa eventuali obiezioni affermando che, quando il pensiero è capace di accettare l'ambivalenza (e non la bi-valenza, che è tutt'altro) delle cose, allora cadono tutte le maschere e si è più vicini alla loro realtà. O meglio, egli non adopera l'imbarazzante espressione «realtà»; glorifica l'ambivalenza in se stessa, come concetto del tutto auto-evidente; gli basta impedire che il pensiero duale, oppositivo, bivalente, non riesca a farsi passare per la «realtà vera».  Ma questa «realtà vera», in ultima analisi, esiste o non esiste? Galimberti non risponde, l'abbiamo già detto; si limita ad osservare, con ironia un po' pesante, che coloro i quali si attardano nel pensiero oppositivo - che, dice, è di per sé violento - non sanno di essere in ritardo rispetto alle lancette della storia: perché credono ancora in una controparte, e non sanno che «ogni parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere».  Vi sono echi minacciosi in questa affermazione (il trotzkiano «cestino della spazzatura della storia» ove precipitano i non rivoluzionari, in tempi di rivoluzione), ma anche un po' patetici (l'ultimo soldato giapponese che continua a combattere nella giungla per una guerra che è vane questioni, senza rendersi conto di appartenere a una razza che si è estinta.  Si tratta di una posizione quanto mai radicale, poiché equivale alla condanna senza appello di tutta la filosofia occidentale, da Platone in poi; anzi di ogni sapere, «dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso».   Ma il vero e il falso, in se stessi, non esistono; così come non esistono le verità di principio, ma solo le verità di fatto. Non esistono verità, dunque non esistono saperi che possano presentarsi come portatori di verità: i saperi sono sempre strumentali, parziali, relativi.  È incredibile: siamo in piena sofistica, che Socrate aveva già brillantemente confutato circa ventitré  secoli fa; ma Galimberti ci presenta le sue conclusioni come se fossero qualcosa di staordinariamente nuovo, riconoscendosi - casomai - un continuatore radicale dell'opera di Nietzsche.  «Queste ragioni che i saperi tendono a soddisfare - afferma Galimberti con la massima disinvoltura -non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche». E aggiunge che «si tratta di un senso che sta prima di ogni significato»; ma, di novo, non ci spiega in che modo egli arguisca l'esistenza di questo «senso originario», dato che tutti i sensi che noi diamo alle cose forzano la loro vera essenza. Arrivati a questo punto, possiamo fare alcune osservazioni conclusive. Punto primo: che il pensiero idealistico sia stato tutto un lungo errore, forse bisognava sforzarsi di dimostrarlo e non darlo per scontato al principio di un libro interamente dedicato alla discussione degli effetti negativi di un tale errore. Punto secondo: che non esista alcun criterio di verità, è posizione filosoficamente rozza e semplicistica. Altro è affermare che la verità è difficilmente accessibile, altro è affermare che ogni verità è una forma di violenza che i saperi cercano di imporre per fondare se stessi. LA FILOSOFIA è frutto di sottili distinzioni, di una particolare sensibilità per le sfumature; ma qui, sulla scorta di Nietzsche, si fa filosofia veramente a colpi di martello (e non è un complimento).  Punto terzo: che il corpo sia il luogo privilegiato in cui la realtà ci svela il suo volto ambivalente, aiutandoci a liberarci dalle pastoie alienanti del pensiero disgiuntivo, è - ancora una volta - posto ma non discusso, e tanto meno dimostrato.  Eppure è fin troppo facile osservare che, se l'introduzione della psyche ha relegato il corpo al ruolo di negativo, l'esaltazione del corpo che fa Galimberti sembra ribaltare la prospettiva, senza modificarla «alle radici» (come egli sostiene di voler fare). Ossia, a questo punto è la psyche che rischia di diventare il negativo o, quanto meno, il luogo dell'errore, dell'illusione, della disgiunzione. Ma sarebbe perfettamente  inutile muovere una simile obiezione a Galimberti: egli vi risponderebbe, come ha fatto in più occasioni, che la psyche non è altro dal corpo, che è corpo anch'essa, perché tutto è corpo.  La sua intera filosofia non è che una assolutizzazione della corporeità; e, pur di sostenere questa tesi, egli arriva a sostenere, senza batter ciglio, che l'anima è una «invenzione» dei cristiani, avvenuta nel IV secolo dopo Cristo (cfr. il nostro precedente articolo Galimberti e la morale, Arianna.  Ma davvero basta dire che tutto è corpo, per eliminare l'antitesi dei valori e restaurare l'età dell'oro del pensiero (del pensiero?) ambivalente, dove le cose sono finalmente se stesse e non quello che noi giudichiamo che esse siano? Ora, è verissimo che la vita, nel suo livello immediato e quotidiano, procede per giudizi di valore che sono spesso affrettati, imprecisi, immotivati e, soprattutto, soggettivi. Da ciò, tuttavia, non discende che il rimedio consista nel proclamare la relatività di tutti i valori e l’inesistenza di ogni criterio di verità. Questo sarebbe quel che si dice curare il mal di testa con le decapitazioni.  Esistono altri livelli di esistenza - non solo di tipo razionale, su questo siamo d'accordo con Galimberti -, ai quali è possibile accedere, e nei quali si può intravedere, pur senza possederlo interamente, un criterio di verità capace di sottrarre le cose al gioco degli specchi della loro incessante mutevolezza.  Se non credessimo a questo, dovremmo non solo sospendere ogni giudizio di valore, ma rinunciare a ogni possibilità di avvicinarci al vero, al bello e al buono; in altre parole, dovremmo ritirare un rigo su ogni possibilità di fare non solo psicologia, ma anche filosofia. Queste, e non altre, sono le conclusioni coerenti del ragionamento di Galimberti: per cui, ad essere rigoroso, egli dovrebbe dichiarare non la riforma della psicologia, ma la sua soppressione radicale; e, quanto alla filosofia, la sua estinzione irreversibile. Come è possibile continuare a ragionare in termini filosofici, se dobbiamo prendere atto che non esistono controparti, ma solo ambivalenze che è possibile tirare ora in qua e ora in là, secondo il nostro umore del momento?  Si badi: quello che propone Galimberti non è un pensiero complementare, come lo è - ad esempio - il taoismo, il quale, giustamente, ci ricorda che non esiste luce senza buio, caldo senza freddo, gioia senza dolore. No, si tratta qui di un relativismo puro e semplice: io dico che questa cosa è calda, tu dice che è fredda; forse lo dirò anch'io, domani, se me ne verrà la voglia; per intanto, abbiamo ragione tutti e due. Io ho la mia verità, tu la tua; e sappiamo che entrambe sono vere, o che entrambe possono esserlo, o che entrambe lo sono state o lo saranno.  Il relativismo  è una cattiva filosofia, anzi è l'impossibilità di fare filosofia.  Eppure, questi sono gli applauditissimi maitres-à-penser della cultura odierna.Umberto Galimberti. Galimberti. Keywords: il sessuale, l’immaginario sessuale, sesso, Why did the Romans need to distinguish between ‘amatus’ and ‘amicus’? -- amore, follia, jung, simbolo, sole-fallo, simbolo, simboli di jung, I corpi d’amore, I corpi d’amore sessuale – immaginario sessuale, immaginario collettivo sessuale, cose dell’amore, platone, il convito, I corpi, I gesti – I gesti dei corpi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galimberti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Galli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Carru). Filosofo italiano. Celestino Galli. Interesting philosopher. Not to be confused with Galli.

 

Grice e Galli – sull’amore -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montecarotto). Filosofo italiano. Compiute gli studi classici con assoluta regolarità, si iscrive alla Facoltà di Filosofia a Roma, dove ha come maestri, tra gli altri,  Varisco e Barzellotti. Da Varisco apprende il rigore del metodo negli studi filosofici. Da Barzelotti aprende la passione per le ricerche storiche e le vaste esplorazioni letterarie. Si laurea sotto Barzellotti con il massimo dei voti dopo aver discusso “Kant e Rosmini” (Lapi, Citta di Castello); Insegna a Senigallia, Bologna, e Firenze. In “I principii della scuola, con particolare riguardo alla scuola elementare” (Il Risveglio Scolastico, Milano). Insegna a Cagliari e Torino. Figura centrale della filosofia italiana, Galli esordisce con una ricerca sullo sviluppo della filosofia kantiana e quella di Rosmini; temi che non solo non si stanca mai di ampliare ma affina in ulteriori indagini. Esegue vaste indagini sulla storia della filosofia. Socrate, Platone, Aristotele, Cartesio, Bruno, Leibniz, e Renouvier.  «L'uno e i molti” (Chiantore, Torino) certifica la teoria. Gli procura l'interesse di larga parte del mondo filosofico italiano per le conclusioni sui rapporti tra il sentimento e la reflessivita. Ampie le discussioni, e talora vivacissime, su autori contemporanei, dai quali esige rigore, chiarezza e intransigenza speculativa. Organo di polemiche e di interventi nella vita della cultura italiana contemporanea è «Il Saggiatore», da lui fondata, Privo di ambizioni mondane, sempre affabile, ama la compagnia delle persone colte e la conversazione delle anime semplici, destinate al bene e alla verità. Confida soprattutto nella scuola, veicolo ideale per dare alle generazioni nuove volontà, serietà, cultura adeguata ai tempi. Una scuola che studia, senza divagare e che sappia attingere costantemente alle fonti del sapere, ama ripetere. Grazie al suo ininterrotto lavoro di studioso, il mondo accademico italiano ha beneficiato di un numero impressionante di sue pubblicazioni, fatto di saggi, manuali per le scuole, opuscoli e articoli per riviste specializzate. Si dedica all'arte e alla religione, completando, in questa maniera, il panorama delle sue indagini. La Scuola media statale di Montecarotto ha aggiunto all'intestazione il nome di "Gallo Galli".  Altre opere: La filosofia teoretica dei manuali, Oderisi, Gubbio, Dialettica dello spirito” (I., Oderisi, Gubbio); “Lineamenti di filosofia, Azzoguidi, Bologna; La dimostrazione dell'esistenza del mondo esterno e il valore pratico delle qualità sensibili secondo Cartesio, Oderisi, Gubbio); Renouvier. II. La legge del numero, D. Alighieri, Milano, Le prove dell'esistenza di Dio in Cartesio (Valdes, Cagliari);:La dottrina cartesiana del metodo, D. Alighieri, Milano); “La filosofia di Leibniz: Facoltà di Magistero, Torino, Statuto, Torino); “Studi cartesiani, Chiantore, Torino); “Cartesio, Chiantore, Torino, “Dall'essere alla coscienza, Chiantore, Torino); “L’idealismo” (Gheroni, Torino); “PComenio, Gheroni, Torino); “La Filosofia greca: I sofisti, Socrate, Platone. Torino. Facoltà di Magistero. heroni, Torino, Leibniz, Milani, Padova); “Carlini ed altri studi; da Talete al "Menone" di Platone; il problema di Cartesio, per la fondazione di un vero e concreto immanentismo, Gheroni, Torino, Corso di storia della Filosofia: Aristotele, Gheroni, Torino, Da Talete al menone di Platone, Gheroni, Torino, Tre studi di filosofia: pensiero ed esperienza, sulla persona, su Dio e sull'immortalità, Gheroni, Torino Socrate ed alcuni dialoghi platonici: Apologia, Convito, Lachete, Eutifrone, Liside, Jone, Giappichelli, Torino, Linee fondamentali d'una filosofia dello spirito, Bottega d'Erasmo, Torino, L'idea di materia e di scienza fisica da Talete a Galileo, Giappichelli, Torino, L'uomo nell'assoluto, Giappichelli, Torino, La vita e il pensiero di Giordano Bruno, Marzorati, Milano Sguardo sulla filosofia di Aristotele, Pergamena, Milano, Platone, Pergamena, Milano 1974. Di carattere pedagogico Filosofia (Oderisi, Gubbio). Idealismo, spiritualismo ed esistenzialità nella metafisica in Galli; Cartesio, in Italia. Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 51, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,  Persée. Portail de revues en sciences humaines et sociales, su persee.fr. There is another Galli, who also did philosophical studies – but his brother was more famous, the author of Tabula philologica.  Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, (1) e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì , alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio.(3) SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio»? (4) FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così , tieni presente che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo l'Ilisso,(7) poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora.(8) SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia?(9) SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: (10) appunto là c'è un altare di Borea. 2  Platone Fedro  FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago,(11) poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi (12) e un gran numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso;(13) quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa.(14) Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere, è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini. Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere coloro che 3  Platone Fedro  amano: molte sono le cose che li affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che possiedono un qualsiasi altro bene. Così , dopo averti indotto a inimicarti queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio, cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro, guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo, e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! (16) FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro, forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i casi nella maniera migliore. 4  Platone Fedro  FEDRO: Ti sbagli, Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì , non so dirlo; ma è chiaro che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche scrittore in prosa.(17) Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! (19) SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno, saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5  Platone Fedro  cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così , anche per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros».(23) Ma caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6  Platone Fedro  sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole. Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo (credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi, ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani».(27) Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? 7  Platone Fedro  SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì , Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica.(31) Perciò, quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi, attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8  Platone Fedro  la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è così , ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9  Platone Fedro  non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea. L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e 10  Platone Fedro  beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera. Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le impedivano di fiorire. Così , grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima, mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione e 11  Platone Fedro  l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così , nel momento in cui si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12  Platone Fedro  si oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13  Platone Fedro  FEDRO: Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi... FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO: Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni, facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO: Sicuramente non buono. 14  Platone Fedro  SOCRATE: Ma buon amico, abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto? Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte». FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì , se i discorsi che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO: C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete. SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito? FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così , ma soprattutto nei processi si parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO: Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì . 15  Platone Fedro  SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto" e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione dell'amore. FEDRO: Sì , per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO: Come no? 16  Platone Fedro  SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro, ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì , ma non esperti delle cose che chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17  Platone Fedro  SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; (55) alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande, commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18  Platone Fedro  scorso affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile che sia così , Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO: Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire, che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE: Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE: In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa. 19  Platone Fedro  FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così , a quanto pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento. Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare; perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE: Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così , per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità; poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così , Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no... FEDRO: Cosa? 20  Platone Fedro  SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth.(65) Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone.(66) Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e 21  Platone Fedro  solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine. SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone (67) i semi che gli stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così , Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22  Platone Fedro  ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate (69) il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar via.(70) Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo! 23  Platone Fedro  NOTE: 1) Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano 34 orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca. 3) Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2. 5) Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. 7) Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. 8) Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. 9) Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. 11) Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera. 13) «Conosci te stesso» era appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi. 14) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella traduzione, per creare paretimologie. 15) Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade libro 8, verso 281. 17) Saffo è la famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C., autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel passo. 18) Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. 19) Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. 21) Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22) Il testo greco gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce melodiosa', e "ligús" 'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del canto. 23) Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e "róme" ('forza'). 24) Il ditirambo, componimento lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. 25) L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. 26) Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. 27) Ibico, frammnto 310, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. 28. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva mosso. 24  Platone Fedro  29) A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. 30) Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in Campania. 31) L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto "oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a "oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a "oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da Lisia. 32) è il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34) L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. 35) Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione del destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós" ('alato'), probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade libro 1, versi 403-404; libro 14, verso 291; libro 20, verso 74) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. 38) è impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. 39) Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. 40) Zeus, innamorato di Ganimede, bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su "imeros", la nota 36. 41) L'espressione significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte. 42) Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. 43) Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. 44) L'espressine, un po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile. 45) Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu, secondo la tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato (594-593 a.C.), una riforma dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario primo, re di Persia dal 521 al 485 a.C., fu il promotore della prima guerra greco-persiana. 46) Il mito che segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano. 47) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75 seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. 25  Platone Fedro  48) Omero, Iliade libro 2, verso 361. 49) Per Spartano qui si intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità oratorie. 52) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica. 53) Allusione ironica a Zenone di Elea (quinto secolo a.C.) e ai paradossi con i quali cercava di confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga. 54) Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi. 55) Poeta e sofista contemporaneo di Socrate. 56) Tisia fu maestro di Gorgia e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. 57) Prodico di Ceo, uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate. 58) Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone. 59) Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. 60) Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane delle sue numerose opere. 61) Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito da Tirteo (frammento 9,8 Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità oratorie. 62) Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). 63) Ippocrate di Cos, vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede di un emporio commerciale greco. 65) Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione, che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. 66) «La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». 67) I «giardini di Adone» erano recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di scrittura», ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione orale. 68) Citazione poetica di autore ignoto. 69) Il retore Isocrate (436-338 a.C.) fondò ad Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di lui restano 21 orazioni. Isocrate era fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani. 70) Pan, figlio di Ermes, era la principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza.Convito  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Platone Il Convito   1  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org I APOLLODORO Credo proprio di essere bene informato di quello che mi chiedete. Infatti, l'altro giorno, me ne stavo venendo in città, da casa mia, dal Falero, quando uno che conoscevo, vedendomi di spalle, mi chiamò da lontano e, con tono scherzoso, mi fa: «Apollodoro il falerese, m'aspetti un momento?» lo mi fermo e l'aspetto e quello: «Ti stavo cercando ansiosamente, Apollodoro, perché volevo sapere qualcosa di preciso sui discorsi che fecero Agatone, Socrate, Alcibiade e tutti gli altri, al banchetto, discorsi d'amore, a quanto pare; me ne ha accennato un tizio che ne aveva sentito parlare da Fenice, il figlio di Filippo, ma mi disse che ne eri al corrente anche tu. Lui, in realtà, non ne sapeva molto. Raccontami tutto tu, quindi, perché nessuno meglio di te, può ripetermeli, i discorsi del tuo amico. Ma, prima di tutto, c'eri o non c'eri a quella riunione?» «Si vede proprio che questo tizio ti ha male informato se credi che quella riunione di cui stai parlando è avvenuta poco tempo fa e che io, quindi, vi abbia potuto partecipare.» «Credevo di sì.» «E come hai fatto a pensarlo, Glaucone? Non sai che da parecchi anni, ormai, Agatone non s'è più visto qui e che, d'altra parte, non ne son passati ancora tre da quando io me la faccio con Socrate, che gli sto sempre dietro, per conoscere quello che dice e quello che fa? Prima d'allora gironzolavo qua e là e mi pensavo di far chissà che cosa, mentre ero l'essere più miserabile che c'era sulla faccia della terra, come te, adesso, che credi ci siano altre cose da fare meglio della filosofia.» «C'è poco da prendere in giro. Dimmi, piuttosto, quand'è che c'è stata questa riunione.» «Eravamo ancora ragazzi e fu quando Agatone s'ebbe il premio per la sua prima tragedia, precisamente il giorno dopo i sacrifici che lui e quelli del coro vollero fare per festeggiare la vittoria.» «Allora ne è passato del tempo! Ma a te chi te n'ha parlato. Proprio Socrate?» «Magari. Fu, invece, la stessa persona che ne parlò a Fenice, un certo Aristodemo, del distretto di Cidateneo, uno mingherlino, sempre scalzo. Era presente alla riunione perché era un patito di Socrate, più di tutti, a quel tempo. Ad ogni modo, di quanto mi riferì costui volli chiederne anche a Socrate che mi confermò quanto l'altro m'aveva raccontato.» «E, allora, perché non me lo racconti anche a me? Questa strada che porta in città è proprio fatta apposta per conversare.» Strada facendo, così, ci mettemmo a parlare di questo ed ecco perché, come vi ho detto in principio, sono al corrente della cosa. Se devo, quindi, raccontarla anche a voi, eccomi pronto, anche perché, quando si tratta di filosofia, sia che ne parli io o che ne senta parlare, provo sempre un immenso piacere, a prescindere dal vantaggio che penso di ricavarne. Quando, invece, sento certi discorsi, i vostri specialmente, discorsi di gente ricca, di persone d'affari, che barba, ma anche che pena, amici miei, che vi credete di far chissà cosa e poi non fate il resto di nulla. Può essere che voi, da parte vostra, mi crediate un povero diavolo e supponiate che, in effetti, io lo sia, ma di voi, io non lo suppongo soltanto, ne sono convinto. AMICO Sei sempre lo stesso tu, Apollodoro, sempre che dici male di tutti e di te stesso; io credo che per te, tranne Socrate, tutti gli altri siano soltanto dei disgraziati, tutti quanti, a   2  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org cominciare da te. Perché poi ti chiamino «il Tranquillo», questo proprio non riesco a capirlo, con tutti i tuoi discorsi sempre così aspri verso gli altri e te stesso, tranne, appunto, che per Socrate. APOLLODORO Ah, sì? Io, dunque, bellezza, dato che penso così di voi e di me, sarei un pazzo e un esagitato? AMICO Ma ora lasciamo perdere questo, Apollodoro, piantiamola di litigare, e, come t'abbiamo pregato, raccontaci quali furono questi discorsi. APOLLODORO E va bene, presso a poco furono questi... ma, aspettate, sarà meglio che incominci dal principio, come me li ha riferiti Aristodemo.   3  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Egli mi riferì di aver incontrato Socrate tutto bello lisciato, con un paio di sandali ai piedi (cosa stranissima) e di avergli chiesto dove stesse andando tutto così bello. E Socrate: «A pranzo da Agatone; ieri, infatti, alla premiazione per la sua vittoria, riuscii a svignarmela perché tutta quella folla mi dava fastidio, ma gli promisi che, oggi, sarei andato da lui. Ecco perché mi son fatto bello: lui è un bello e, sai com'è. Ma perché non vieni anche tu, che fa, anche se non sei stato invitato?» Ed io, così mi riferì Aristodemo: «Va bene, come vuoi.» «E allora andiamo,» fece, «e cambieremo il proverbio dicendo che ‹a, pranzo, dal buon Agatone, van senza invito le brave persone›. Del resto, Omero, non solo l'ha modificato, questo proverbio, ma l'ha addirittura capovolto: infatti, mentre ci ha sempre descritto Agamennone come un guerriero in gamba e Menelao, invece, come uno smidollato, ecco che ti fa presentare quest'ultimo, senza essere invitato, a pranzo da Agamennone, che aveva allora allora fatto un sacrificio e si stava mettendo a tavola, lui, un mediocre, alla mensa di un valoroso.» E Aristodemo: «Ma Socrate, corro anch'io, allora, questo rischio, non come dici tu ma nel senso che scrive Omero, di andare, cioè, io, uomo da nulla, senza essere invitato, a pranzo da un sapiente. Vedi tu, che mi ci porti, come devi metterla per giustificarti, perché io non dirò che son venuto da me, ma che sei stato tu ad invitarmi.» «Ma sì, andiamo, ci penseremo per la strada a quello che dobbiamo dire.» Si dicevano questo, mi raccontava Aristodemo, quando si posero in cammino. Ma, lungo la strada, Socrate si fece pensieroso, meditando chissà su che cosa, e restandosene indietro e quando lui si fermava per aspettarlo, gli diceva di andare pure avanti. Quando Aristodemo giunse alla casa di Agatone, trovò la porta aperta e qui, mi disse, gli capitò un fatto curioso: un servo gli corse subito incontro e lo condusse dove i convitati erano già tutti seduti, in procinto di mettersi a pranzo. Appena Agatone lo vide: «Oh, Aristodemo,» fece, «arrivi proprio al momento giusto, per mangiare un boccone con noi; se è per qualche altro motivo che sei venuto, lascialo per dopo. Ieri ti ho cercato, proprio per invitarti, ma non sono riuscito a trovarti. E Socrate? Come mai non è con te?» «Io mi volto indietro,» continuò a raccontarmi, «e, infatti, non lo vedo più. Dissi, allora, che ero con lui e che, appunto da lui ero stato invitato a quel pranzo.» «Hai fatto benissimo, ma dov'è che s'è cacciato?» «Un attimo fa era dietro di me; sarei proprio curioso di sapere anch'io dove può essere andato.» «Suvvia, ragazzo, non ti sbrighi?» fece Agatone, «va a vedere dov'è Socrate e tu, Aristodemo, siediti là, vicino a Eressimaco.»   II 4  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org Continuò a raccontare così, che mentre un servo gli dava da lavarsi per mettersi a tavola, un altro venne a dire che quel bel tipo di Socrate se ne era andato nell'atrio della casa vicina e se ne stava lì tutto immobile: «L'ho chiamato,» riferì, «ma lui non vuol venire.» «Ma che sciocchezze stai dicendo?» gridò Agatone. «Torna a chiamarlo, insisti.» «Allora, intervenni io,» mi raccontò sempre Aristodemo, «pregandolo di lasciarlo tranquillo perché era una sua abitudine quella di isolarsi tutt'a un tratto, e di restarsene immobile dovunque si fosse trovato: ‹Vedrete che verrà, ne sono certo, ma ora non lo disturbate, lasciatelo tranquillo›.» «Ah, va bene, va bene, se lo dici tu,» commentò Agatone. «Però voi, ragazzi, ora portateci da mangiare. Voi mi mettete in tavola sempre quello che vi passa pel capo, se non vi si sta addosso, ed io non me ne son mai presa troppo la briga; ma oggi, fate conto come se foste stati voi ad invitare queste persone e me e quindi, trattateci bene e fatevi onore.» Così mi raccontò che si misero tutti a mangiare e che Socrate, intanto, non si faceva vivo. Spesso Agatone insisteva. perché lo mandassero a chiamare, ma lui lo sconsigliava. Finalmente Socrate fece la sua comparsa e non s'era mica fatto aspettare poi tanto tempo, come di solito faceva: cioè quando il pranzo era circa a metà. E Agatone che stava seduto in fondo: «Qua, qua,» esclamò, «Socrate vieniti a sedere vicino a me, così, gomito a gomito, con un sapiente, io potrò godere della grande scoperta che hai fatto davanti ai portoni; è chiaro che qualcosa l'hai dovuta pur sempre scoprire, altrimenti mica ti saresti mosso, tu.» E Socrate, sedendosi: «Sarebbe una bella cosa, Agatone, se la sapienza potesse scorrere da chi ne ha di più a chi ne ha di meno, soltanto che ci si mettesse uno vicino all'altro, come l'acqua che attraverso un filtro passa dal bicchiere pieno a quello vuoto. Se anche per la sapienza è così io sarò onoratissimo di starmene al tuo fianco; sono convinto che sarò colmato da parte tua di tanta e bella sapienza, perché, vedi, la mia, seppure ne ho, è ben misera, assai discutibile, vaga come un sogno, mentre la tua, invece, così luminosa, così ricca di possibilità, tanto che, proprio ieri, nonostante la tua giovane età, s'è rivelata e ha brillato in tutto il suo fulgore davanti a più di trentamila greci.» «Sei un mascalzone tu, Socrate,» fece Agatone, «ma fra poco ce la vedremo, io e te, in fatto di sapienza e giudice sarà Dioniso. Intanto, per ora, pensa a mangiare.»   III 5  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org E così, continuò a raccontarmi Aristodemo, Socrate si sedette e quando ebbe finito di mangiare, insieme agli altri, fece le libagioni, poi cantarono tutti in onore del dio, compirono gli altri riti dovuti e poi si misero a bere. A un tratto, mi riferì Aristodemo, Pausania se ne uscì in queste parole: «Ehi, amici, non possiamo andarci più piano? Francamente devo dirvi che mi sento male dopo la gran bevuta di ieri e che devo pigliare un po' di respiro; e così, penso anche per molti di voi: ieri c'eravate un po' tutti. Guardate, dunque, com'è che ci possiam moderare un po'.» E Aristofane: «Pausania ha ragione. Non scherziamoci troppo col vino; io mi sento ancora come una spugna zuppa, per ieri.» E allora intervenne Eressimaco, il figlio di Acumeno: «Ottima idea. Su, coraggio, voglio sentirne qualche altro; e a te, Agatone, come va col vino?» «Macché, anch'io niente bene.» «Benissimo,» s'infervorò Eressimaco; «è proprio una fortuna per me, per Aristodemo, per Fedro e per tutti quanti gli altri se voi, che in fatto di bere ce la mettete tutta, oggi non vi sentiate in forma: di fronte a voi, infatti, siamo dei pivellini. Per Socrate è un altro discorso: lui se la cava benissimo sempre; sia che oggi si beva o meno, lui è sempre a posto. Ma, dato che, mi pare, qui, oggi, nessuno ha troppa voglia di bere, io credo che se vi parlassi dell'ubriachezza e del male che fa, la cosa non vi sarebbe sgradita; come medico, è chiaro, devo dirvi che ubriacarsi fa male e che io non vorrei mai bere più di un tanto e darei lo stesso consiglio agli altri, specie quando il giorno prima s'è alzato un po' troppo il gomito.» «Sicuro,» intervenne Fedro, quello di Mirrinunte; «sai che ti ascolto sempre, specie quando parli da medico; e farebbero bene ad ascoltarti anche questi altri, se hanno un po' di giudizio.» E così si trovarono tutti d'accordo di evitare una sbornia, per quella volta e bere ciascuno per quel che gli andava.   IV 6  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org «E poiché, ora,» riprese Eressimaco, «siamo d'accordo che ognuno potrà bere solo quello che vuole senza che nessuno stia lì ad obbligarlo, io propongo di mandare a spasso la suonatrice di flauto, che è entrata ora (che se ne vada a suonare per conto suo o, dentro, dalle donne) e noi, invece, di restare un po' qui, oggi, a chiacchierare insieme; potrei anche dirvi di cosa, se volete.» Tutti, allora, almeno così riferì Aristodemo, approvarono e lo esortarono a proporre l'argomento. E così, Eressimaco, incominciò: «Inizio come la Melanippe di Euripide, non sono mie le parole che sto per dirvi, infatti sono di Fedro. È Fedro che ogni volta, tutto sdegnato, mi dice: ‹Non è una indecenza, Eressimaco, che i poeti si mettano a comporre inni e canti a tutti gli dei e che per Amore, invece, per un dio di quella specie, per un dio così grande, non ce ne sia uno, tra tanti, che abbia scritto un solo verso di lode? Se pigliamo i sofisti di fama, quello stesso grand'uomo di Prodico, per esempio, ti scrivono in prosa di Ercole o di altri; e questo sarebbe niente se non mi fosse capitato tra le mani il libro di un gran cervellone nel quale, costui, non faceva niente po' po' di meno che l'elogio sperticato del sale e della sua utilità: di questi elogi ne puoi trovare dovunque, in abbondanza. E pensare che si spreca tanta fatica per simili argomenti e, poi, per Amore non s'è ancora trovato nessuno, almeno fino ad oggi, che s'è sentito di celebrarlo degnamente: ecco come si tratta un dio simile.› Secondo me Fedro ha proprio ragione. Quindi, è mio desiderio fargli questo regalo e mostrarmi compiacente e, nello stesso tempo, profittando dell'occasione, niente di meglio, a mio avviso, per tutti noi, di rendere onore a questo dio. Se siete d'accordo anche voi potremmo passare il tempo così: ognuno di noi, cioè, io penso, per esempio partendo da destra, dovrebbe fare un discorso in lode di Amore, si capisce meglio che può; e che cominci proprio Fedro che è il primo della fila e che, d'altro canto, è stato lui proprio a darci l'idea per un simile argomento.» «Nessuno sarà contrario, Eressimaco,» intervenne Socrate, «a cominciare da me che affermo di essere un esperto soltanto in cose d'amore, né Agatone, né Pausania, figuriamoci poi Aristofane che tra Bacco e Venere, ci passa la vita, e nemmeno questi altri a quanto vedo. C'è un fatto però, che noi che siamo seduti quaggiù, per ultimi, veniamo a trovarci in svantaggio; comunque, se i primi diranno quel che devono dire e lo diranno bene, a noi basterà. E, allora, buona fortuna, Fedro, comincia a fare le lodi di Amore.» Al che tutti quanti approvarono e fecero eco alle parole di Socrate. Ora, quello che ciascuno disse, Aristodemo non lo ricordava bene e, dal canto mio, io stesso, ora, non ricordo più, tutto quello che lui mi riferì, tranne le cose più importanti e, perciò, vi potrò ripetere solo quei discorsi che mi parvero più degni di ricordo.   V 7  Biblioteca Elettronica Esoterica ESONET.ORG http://www.esonet.org E, così, il primo a parlare, mi raccontò, fu Fedro che incominciò presso a poco col dire che Amore è un dio possente, meraviglioso, tanto fra gli uomini che fra gli dei per molte e tante ragioni ma, soprattutto, per quel che riguarda la sua nascita: «Egli ha il vanto,» continuò Fedro, «di essere, fra tutti, il dio più antico e, prova di questo è il fatto che non ha genitori e mai nessuno ne ha parlato, prosatore o poeta che fosse. Esiodo ci dice che ci fu dapprima il Caos: la Terra dall'ampio petto, sicura sede e poi per tutti sempre e, poi, Amore Insomma, secondo questo poeta, dopo il Caos ci furono queste due divinità: Terra e Amore. E Parmenide così narra la genesi: Primo di tutti gli dei creò Amore Con Esiodo concorda Acusilao. Quindi, da più fonti, si conviene che Amore è antichissimo. E, così com'è il più antico, è fonte, per noi, di grandissimi beni. Io, infatti, non so se vi sia un bene maggiore che avere, fin da giovani una persona virtuosa da amare o anche viceversa, che ci ami. E, in effetti, niente come Amore può dare all'uomo quei principi che valgono per vivere rettamente tutta la vita, non la nascita, non gli onori, non la ricchezza, niente di questo. Ma a quali principi voglio alludere?, mi chiedo: alla vergogna per le brutte azioni e al desiderio di buone, senza dei quali né stati né individui possono mai realizzare qualcosa di grande e di bello. E, inoltre, io dico che un uomo innamorato, sorpreso a commettere una brutta azione o a subirla, se la sua viltà non gli consente di difendersi, non proverà mai tanto dolore se lo vede il padre o l'amico o chiunque altro, quanto se lo vedesse la persona amata, E lo stesso è per quest'ultima, che se fa qualcosa di male si vergogna soprattutto se è vista da chi la ama. Oh, se ci potesse essere una città o un esercito composto tutto di innamorati, non vi sarebbe modo migliore di reggerlo e di vedere uomini rifuggire dal male e rivaleggiare tra loro nelle belle azioni; in guerra, poi, messi uno al fianco dell'altro, anche se in pochi, si può dire che vincerebbero il mondo intero. Perché l'uomo innamorato sarebbe disposto ad abbandonare il suo reparto, a gettare le armi sotto gli occhi di tutti, ma non dinanzi alla persona amata, piuttosto preferirebbe centomila volte morire; e, d'altronde, abbandonare la persona cara, non prestarle il suo aiuto se è in pericolo, non c'è nessun uomo tanto vile cui Amore non riesca ad infondere il necessario coraggio, come se fosse posseduto da un dio e renderlo uguale a chi è coraggioso di natura. Insomma, lo stesso soffio divino che, a quanto dice Omero, un dio infonde in taluni eroi, Amore, come un suo dono, suscita in quelli che amano.E poi, solo quelli che amano sono pronti a morire per gli altri e non solo gli uomini ma anche le donne. Vedi Alcesti, per esempio, la figlia di Pelia che per noi greci è la più bella prova di ciò che dico, la quale fu la sola a voler morire al posto del suo sposo che aveva pure un padre e una madre; costei fu tanto più sublime, nel suo cuore di donna, acceso, appunto dall'amore, da far apparire i parenti di lui quasi degli estranei al loro stesso figliolo, legati a lui soltanto dal nome. E questo gesto fu giudicato così bello non solo dagli uomini ma anche dagli dei, che questi, pur concedendo solo a pochi, tra i tanti che compiono belle imprese, il privilegio di vedersi restituita alla luce la loro anima, consentirono a questa fanciulla il ritorno alla terra, commossi del suo gesto; questo dimostra che gli dei apprezzano moltissimo lo zelo e la virtù che nascono dall'amore. Orfeo, invece, il figlio di Eagro, te lo rimandarono fuori dall'inferno senza che avesse ottenuto nulla, mostrandogli solo la falsa immagine della sua donna, per la quale egli era sceso nell'Ade e non gliela restituirono, considerandolo un debole (suonatore di cetra com'era) perché non aveva avuto il coraggio di morire per amore, come Alcesti, ma, vivo, era riuscito a penetrare nell'Ade e con l'astuzia. Ecco perché gli inflissero questa punizione e lo fecero morire per mano di donne. Non così Achille che onorarono invece e mandarono alle isole dei beati perché per quanto egli fosse già stato avvertito dalla madre che se avesse ucciso Ettore sarebbe morto mentre se l'avesse risparmiato sarebbe ritornato in patria e lì avrebbe finito vecchio i suoi giorni, preferì scendere in campo per Patroclo, per l'amico che amava e vendicarlo e morire per lui, non solo, ma per lui morto; per questo gli dei profondamente ammirati gli resero onori grandissimi, come quello che aveva tenuto così alto nel suo cuore l'amico amato. Eschilo dice un'inesattezza quando afferma che era Achille l'amante di Patroclo, lui che non solo era più bello di Patroclo ma di tutti gli altri eroi, imberbe ancora e quindi molto più giovane di lui come dice Omero. La verità, però, è che gli dei pur onorando assai questo sentimento d'amore, volgono più la loro ammirazione, le loro lodi a colui che ricambia l'amore di chi lo ama, piuttosto che a quest'ultimo. Colui che ama è cosa più divina di chi si lascia amare, perché un dio lo possiede; per questo gli dei onorarono maggiormente Achille che non Alcesti e gli dischiusero le isole dei beati. Per concludere io affermo che Amore è il più antico degli dei, il più degno di onori, quello che più può infondere agli uomini virtù e felicità, sia mentre vivono che dopo la loro morte.» Questo, presso a poco, a quanto mi riferì Aristodemo, fu il discorso di Fedro. Dopo di lui parlarono altri, però non ricordava molto. E così passò a riferirmi il discorso di Pausania che prese a dire: «Non mi pare che tu abbia ben impostato il tuo discorso, Fedro, così come hai troppo semplicisticamente fatto le lodi di Amore. Se, infatti, Amore fosse uno solo, la cosa sarebbe potuta anche passare; ma il fatto è che non è uno soltanto e quindi è più giusto precisare prima qual è che bisogna lodare. Ed è a questo errore che io cercherò di rimediare, in primo luogo dicendo quale Amore convenga lodare e poi facendone in modo degno l'elogio. Tutti riconoscono che non si può concepire Venere senza Amore. Se di Venere ce ne fosse una sola, lo stesso dovrebbe dirsi di Amore, ma poiché due sono le Veneri, due saranno anche gli Amori. Non sono forse due le dee? Una, la più antica, che non ebbe madre, la figlia del Cielo, che appunto chiamiamo Celeste, l'altra, più giovane, figlia di Giove e di Dione, che chiamiamo Pandemia. Ne consegue che l'Amore che convive con quest'ultima, giustamente vien chiamato Pandemio, l'altro, Celeste. Gli dei, in verità, bisogna onorarli tutti, ma ora, di questi due, occorre pur dire quali sono gli attributi. Intanto, ogni azione ha questo di caratteristico: che per se stessa non è mai bella o brutta. Per esempio: quello che noi ora stiamo facendo, cioè bere, cantare, discutere, in se stesso, non è che sia bello, ma lo diventa dal modo con cui questa azione viene compiuta: onestamente e rettamente, è bella, altrimenti, la stessa azione è cattiva. Lo stesso è quando si ama: non ogni Amore è bello o degno di lode, ma solo quello che spinge a nobilmente amare.«Orbene, l'Amore che convive con la Venere Pandemia, è ovvio che sarà anch'egli Pandemio, cioè volgare e si comporta un po' alla carlona; questo tipo d'Amore vien prediletto dai mediocri che non fan differenza a giacersi con donne o giovincelli di cui amano, oltretutto, più il corpo che l'animo, anzi preferiscono gli esseri sciocchi, tutti presi come sono dall'atto carnale, senza un briciolo di buon gusto, e accade così che finiscono per comportarsi come capita, bene o male che sia. Questo perché un simile Amore deriva dalla Venere più giovane che, nascendo, s'ebbe i caratteri della femmina e, insieme, quelli del maschio. L'altro Amore, invece, deriva dalla Venere Celeste che anzitutto non partecipa della natura femminile ma solo di quella maschile (e questo è l'amore per i giovinetti) e, in secondo luogo è più antica e immune da ogni forma di libidine. Così, quelli che sono infiammati da questo Amore, volgono le loro predilezioni al sesso maschile presi come sono da ciò che, per natura, è più vigoroso e dotato di più aperto intelletto. E in questa passione per i giovani è facile riconoscere quelli che sono nobilmente infiammati da questo Amore; costoro, infatti, non si legano ai giovani se non quando questi hanno già una loro maturità intellettuale e vedono spuntare la prima barba. Io penso, infatti, che chi per amarli attende che essi giungano a questa età, lo fa per poter convivere poi tutta la vita con loro in una dolce intimità e non per ingannarli, per approfittare della loro ingenuità e sbeffarli, piantandoli poi in asso per correre dietro a un altro. Anzi ci vorrebbe proprio una legge che vietasse di aver relazioni amorose con i minorenni, per evitare che si sciupi tempo e fatica per un esito incerto; con i ragazzi, infatti, non si sa mai come vada a finire, se faranno una buona riuscita o meno, sia per quel che riguarda le doti fisiche che per quelle morali. I galantuomini se la pongono da sé questa legge, ma per i dongiovanni da quattro soldi, sarebbe proprio necessario far qualcosa in proposito, così come abbiamo impedito, meglio che s'è potuto, che avessero rapporti intimi con donne di condizione libera. Sono questi che han fatto degenerare la cosa a tal punto che ora c'è gente che afferma che è brutto corrispondere chi ci ama; e lo dice proprio perché ha davanti agli occhi l'esempio di questi tipi, privi affatto di buon gusto e di un minimo di pudore, giacché nessuna cosa, se è fatta nei dovuti limiti e secondo onestà, può giustamente tirarsi dietro un qualche biasimo. Negli altri Stati, intanto, le leggi sull'amore non sonio di difficile interpretazione, regolate da principi assai semplici, così come concettosi e ingarbugliati sono da noi. Nell'Elide, per esempio o a Sparta o anche in Beozia, dove la gente non è abituata a far bei discorsi, viene, molto semplicemente, riconosciuto che è bello corrispondere chi ama e nessuno, giovane o vecchio che sia, si sognerebbe di dire che è cosa brutta; questo, a mio avviso, perché non vogliono pigliarsi troppo la briga di persuadere i giovani, inesperti come sono nell'arte del dire. Nella Ionia, invece, e in molte altre parti dove predominano popolazioni non greche, la cosa è ritenuta vergognosa; presso i popoli stranieri, del resto, proprio per i loro regimi tirannici, anche l'amore che uno può portare alla sapienza o alla ginnastica, è cosa disonesta. Infatti, io penso che ai governanti non convenga che sorgano tra i sudditi nobili e forti proponimenti o salde amicizie o identità di vedute, tutte cose, queste, che è proprio l'amore, di solito, a far nascere. E questo l'hanno imparato anche qui da noi i nostri tiranni, come l'amore di Aristogitone e l'intrepida amicizia di Armodio, abbiano distrutto il loro potere. Pertanto, là dove si ritiene che è cosa disonesta corrispondere chi ama, ciò è dipeso dalla mediocrità dei legislatori, dall'arroganza dei governanti e dalla viltà dei sudditi; laddove, invece, la cosa è ritenuta senz'altro bella, in linea assoluta, è stato per la pigrizia di chi ha fatto la legge. Quindi, da noi, vige una consuetudine più bella che altrove ma, come dicevo prima, non è facile, però, interpretarla. «Si pensi, infatti, che da noi si reputa più bello amare alla luce del sole che di nascosto, amare, poi, soprattutto, chi è virtuoso e nobile anche se è più brutto degli altri e che si dà un incoraggiamento straordinario a chi ama, non ritenendo affatto che la sua sia un'azione vergognosa, anzi è motivo di orgoglio riuscire nel proprio intento ed è quasi un disonore, invece, fallire nella conquista e che la legge accorda all'amante, per le sue imprese amorose, la libertà di fare cose addirittura straordinarie e di riceverne lode, cosa che se uno facesse con altre intenzioni e per altri fini, si tirerebbe addosso il biasimo di tutti. Se uno, infatti, volendo farsi dare del denaro da qualcuno o desiderando ottenere un pubblico impiego o qualche carica, si mettesse a fare quel che gli amanti fanno per i loro fanciulli, suppliche, scongiuri, per ottenere quello che bramano, i giuramenti che fanno, tutte le notti che passano fuori davanti all'uscio del loro amore, tutti i servizi a cui si piegano, quelli più infimi, cui nessuno schiavo s'adatterebbe, costui si vedrebbe ostacolato in questo suo modo di fare, non solo dagli amici ma anche dai suoi avversari che gli rimprovererebbero queste smancerie e questo servilismo, richiamandolo al dovere e vergognandosi per lui; se tutto questo uno, invece, lo fa per amore, acquista addirittura pregio e la nostra legge glielo consente, senza che su di lui ricada biasimo alcuno, come se, in effetti, compisse una cosa bellissima. Ma quello che è ancora più straordinario è che, a quanto dicono i più, solo a chi ama è concesso, quando giura e poi non mantiene il giuramento, di ottenere il perdono degli dei perché, a quanto si dice, in amore non c'è giuramento che valga. È per questo che sia gli dei che gli uomini hanno concesso, a chi ama, un'assoluta libertà, come ci provano le nostre leggi. Tutto questo autorizzerebbe a credere che in questa nostra patria, amare e corrispondere chi ama è ritenuta cosa bellissima. Eppure quando i genitori ti mettono alle calcagna dei loro figlioli un pedagogo, col preciso incarico di tenerli lontani dai loro corteggiatori, quando i compagni e i coetanei fanno quasi succedere uno scandalo se si accorgono di qualcosa del genere, mentre i più anziani lasciano che dicano e non intervengono a queste esagerate reazioni, a guardar bene tutto questo sembrerebbe proprio che qui da noi l'amore sia considerato cosa del tutto disonesta. Il fatto è, a mio avviso, che la cosa sta invece così: non c'è nulla di assoluto, come accennai prima, e niente è bello o brutto per se stesso, ma diventa l'uno o l'altro a seconda che sia fatto bene o male. Così, l'amore diventa cosa spregevole se, senza alcun buon gusto, uno si concede a un essere spregevole, è cosa bella, invece, quando lo si fa onestamente con persona onesta. Ed amante del tutto indegno, volgare, è colui che ama più il corpo che l'animo, perché costui, infatti, non è costante, preso com'è da cosa che non dura. Quando, infatti, sfiorisce la bellezza del corpo, di quel fiore che amava, egli ‹fugge lontano, scompare› e addio promesse e belle parole. Chi, invece, ama qualcuno per la bellezza del suo animo, gli resta fedele per tutta la vita, perché s'è congiunto a cosa che dura. Perciò le nostre leggi si prefiggono di ben individuare tutti costoro per accordare, agli uni, ogni favore e mettere al bando gli altri e per questo si esortano gli amanti a insistere nelle loro profferte e gli amati a schermirsi, cercando così, per questa specie di gara, di stabilire a quale delle due categorie appartengano gli uni e gli altri. Per questo motivo è ritenuta gran brutta cosa, prima di tutto, lasciarsi sedurre, così, in quattro e quattr'otto, senza dar tempo al tempo, che, in fondo, si sa, per tante cose è un gran maestro; in secondo luogo, lasciarsi incantare dal denaro o dalle prospettive di cariche politiche, sia che il giovane per qualche violenza subita si intimorisca e si metta in condizione di non reagire, sia che, prospettandogli la possibilità di far denaro o di avere successo in politica, egli non vi rinunci sdegnosamente: infatti, nessuna di queste cose è sicura e durevole, oltre al fatto, poi, che da esse non potrà mai nascere una lunga amicizia. Quindi, secondo la nostra legge, non c'è che una strada perché l'amato possa onestamente corrispondere e compiacere l'amante, ed è questa: come non è affatto vergognoso e umiliante, per chi ama, sottoporsi per il suo amore, a ogni sorta di schiavitù, così c'è una sola servitù volontaria, non indecorosa o infamante: quella che ha per oggetto la virtù. «Ed è norma ancora, da noi, che se uno si mette al servizio di un altro ritenendo che ciò possa contribuire a renderlo migliore nel campo del sapere o in qualche altra virtù, questa sottomissione volontaria non è vergognosa, né servile. Occorre, pertanto, che queste due norme, quella sull'amore dei giovinetti e quella sul desiderio di acquistar sapienza o qualsiasi altra virtù, si fondano insieme se si vuole che sia veramente una cosa bella che il giovane conceda le sue grazie a un amante. Infatti quando l'amante e la persona amata s'incontrano, ciascuno, ligio a una sua precisa condotta, cioè l'uno disposto a servire il giovane che gli ha concesso i suoi favori e a servirlo onestamente, l'altro, con la stessa onestà, a seguire la volontà di chi lo rende sapiente e migliore e quando il primo sia veramente capace di dare senno e virtù e l'altro veramente desideroso di educarsi e d'acquistar, in ogni modo, sapienza, quando questo avviene, quando queste due direttrici convergono a un unico fine, oh, allora, si è cosa bella che la persona amata conceda i suoi favori a chi l'ama, altrimenti niente da fare. In questo caso essere ingannati non è nemmeno mortificante; in tutti gli altri casi, ingannati che si sia o meno, c'è da arrossir di vergogna. Se un giovane, infatti, in un miraggio di ricchezza, si è lasciato sedurre per denaro e poi resta ingannato perché s'accorge che il suo seduttore è povero, questo giovane, compie un'azione molto spregevole, perché s'è rivelato quel che egli era: un uomo capace di darsi a chiunque per sete di denaro e questo non è bello. E per un ragionamento analogo, se lo stesso giovane, invece, si fosse concesso a persona virtuosa, riconoscendo che sarebbe divenuto migliore proprio in virtù di quella corrispondenza e poi fosse stato ingannato perché il suo amante s'è rivelato persona del tutto mediocre, priva di qualsiasi virtù, ebbene questa delusione è motivo di compatimento; infatti, egli ha dimostrato di esser pronto a dar tutto se stesso a chiunque, ma per la virtù e pur di diventar migliore, e questo, certo, è tra tutte, cosa bellissima. In conclusione, il concedersi per ottenere, in cambio, virtù, è bello. Questo è l'Amore della dea celeste, celeste egli stesso, degno in tutto di venerazione da parte dello stato come dei singoli individui, che spinge gli amanti e le persone amate, ciascuno per quel che gli compete, a preoccuparsi soltanto d'essere virtuosi. Quanto agli altri amori, provengono tutti dalla Venere Pandemia, volgare. Questo è quanto ho improvvisato, Fedro, così su due piedi, a proposito di Amore.» Dopo la pausa di Pausania (guarda un po' che giochetti di parole ti sto a fare, che m'insegnano i dotti), a quanto ebbe a riferirmi Aristodemo, toccava ad Aristofane, senonché, vuoi per la pienezza di stomaco, vuoi per qualche altra causa, costui aveva il singhiozzo e, quindi, era nell'impossibilità di parlare. Si rivolse, allora a Eressimaco, il medico, che gli era seduto accanto: «Cerca di liberarmi da questo singhiozzo, Eressimaco,» gli disse, «o, almeno, prendi tu la parola, finoa quando non si sarà calmato.» «Cercherò di venirti incontro in un modo e nell'altro; parlerò io al tuo posto e poi interverrai tu quando ti sarà passato; intanto cerca di trattenere il respiro per qualche minuto e vedrai che il singhiozzo se ne andrà, oppure bevi un sorso d'acqua, fai dei gargarismi e, se persiste, prendi qualcosa che ti solletichi il naso e cerca di starnutire e vedrai che, con un paio di starnuti, per quanto ostinato, ti passerà.» «Sì, ma tu sbrigati a parlare,» insistette Aristofane, «intanto io cercherò di fare come tu dici.» E così Eressimaco incominciò: «A mio avviso, mi par necessario che cerchi di concludere il discorso che Pausania ha iniziato così bene ma che poi non ha portato a termine. Che Amore sia duplice, ci sembra distinzione esatta; ma che esso non alberga solo negli uomini attratti dalle belle creature, ma in tutti gli altri esseri, a loro volta presi per altre forme, negli animali, per esempio, nelle piante e comunque in tutte le creature viventi, io credo di averlo dedotto dalla medicina, la nostra arte e, altresì, come Amore sia grande e meraviglioso iddio, presente ovunque in ogni cosa umana e divina. Comincerò, quindi, a trattar l'argomento da un punto di vista medico, anche in omaggio a questa arte. La natura dei corpi è tale che essi hanno in sé questo duplice Amore; infatti, per il corpo, malattia e salute sono, come tutti sanno, due condizioni diverse e contrarie e, come tali, perciò, non appetiscono e non desiderano mai le stesse cose. In poche parole, altro è il desiderio che prova la parte sana, altro quello che sente la parte malata. E come Pausania diceva poco fa che è bello concedersi a un amante virtuoso e vergognoso è, invece, darsi a un dissoluto, lo stesso è anche per i corpi per cui è cosa bella, anzi doverosa, favorire lo sviluppo delle parti sane di ciascun organismo (e, in fondo, proprio questo è il compito del medico) ed è male, invece, farlo per le parti malate per le quali occorre agire con intransigenza, se si è veramente capaci nell'arte medica. Infatti, la medicina, per dirla in breve, è la scienza che studia le tendenze affettive dell'organismo nel suo riempirsi e svuotarsi e chi sa distinguere in queste tendenze, le buone dalle cattive, costui è un gran medico; chi, poi, queste tendenze le sappia anche modificare o suscitarne una al posto dell'altra o stimolarne qualcuna laddove non ve ne siano e invece dovrebbero esservi o, addirittura, cancellare quelle che vi sono, costui, allora, sarà proprio un maestro eccellente. Bisogna, infatti, che le parti di un organismo che sono tra loro incompatibili si riconcilino e trovino una loro reciproca armonia. E gli elementi più incompatibili sono quelli contrari, freddo e caldo, amaro e dolce, secco e umido e così via; e poiché ad aver saputo conciliare ed armonizzare tutti questi contrari è stato nostro padre Asclepio, egli, come dicono questi poeti e come anch'io sono convinto, è il fondatore di questa nostra scienza. Tutta la medicina, dunque, come vi sto dicendo, è governata da questo dio, come del resto la ginnastica e l'agricoltura. Quanto alla musica, poi, basta un minimo di riflessione perché tutti comprendano che essa si comporta alla stessa stregua delle altre arti, come anche Eraclito, del resto, forse vuol dire, sebbene non si esprima in termini molto chiari: ‹L'unità in sé discorde,› dice, ‹con se stessa s'accorda, come l'armonia dell'arco e della lira.› Ora, è assurdo pensare che l'armonia sia mancanza di accordi o che nasca da elementi ancora discordanti tra loro. Egli, forse, voleva dire che essa nasce da elementi prima discordanti, l'acuto e il grave, per esempio, che si son poi accordati per virtù della musica; infatti, non è certo possibile che l'armonia risulti da suoni tuttora discordi tra loro quali l'acuto e il grave. In verità, l'armonia è consonanza e la consonanza è accordo; non è possibile, ora, che vi sia accordo da cose discordi finché restino tali, come impossibile è che vi sia armonia quando gli elementi discordanti non abbiano trovato il loro accordo; così come anche il ritmo, del resto, che risulta dal veloce e dal lento prima discordi tra loro ma poi armonizzati insieme. E l'accordo fra tutti gli elementi, come per quelli di prima era dato dalla medicina, così per questi è dato dalla musica che produce, quindi, tra loro, reciproca armonia e corrispondenza. La musica, quindi, per quanto riguarda il ritmo e l'armonia, è scienza d'amore. Non è difficile, poi, individuare nella stessa costituzione del ritmo e dell'armonia questa sua peculiarità, in quanto in essa non vi sono le due specie d'amore. Quando però si compongono ritmi e armonie per la gente (ed è questa, propriamente, ciò che si chiama composizione musicale) o si eseguono fedelmente melodie e partiture altrui (e questo è virtuosismo), allora sì che viene il difficile e occorre un bravo artista. E qui si torna al discorso di prima, cioè che bisogna compiacere alle persone per bene o a quelle che ancora non lo sono ma vogliono diventarlo e conservarsi il loro amore che è poi quello bello, quello celeste, l'amore di Afrodite Urania; quello di Polimnia, invece, è l'amore pandemio, volgare, cui bisogna concedersi con prudenza e che dobbiamo, a nostra volta, con prudenza concedere per goderne senza tuttavia farne abuso. Del resto, anche nella nostra scienza è molto importante sapersi ben destreggiare con i desideri per la buona cucina in modo da saperla gustare senza poi ammalarsi. E così nella musica, nella medicina e in tutto il resto, sia nelle cose umane come in quelle divine, occorre tener presenti, per quanto possibile, l'uno e l'altro amore, dovunque contenuti entrambi. «E anche le stagioni dell'anno, nella loro successione, son colme di questi due amori e quando gli elementi contrari di cui parlavo prima, il caldo e il freddo, il secco e l'umido, cadono sotto l'influenza dell'amore benigno che li armonizza e li compone sapientemente, allora le stagioni recano abbondanza e salute agli uomini, agli animali e alle piante e non portano alcun danno. Quando, invece, ha il sopravvento l'altro amore, con tutta la sua violenza, ecco, allora, rovine e distruzione ovunque, ecco la causa di pestilenze e di molti altri simili morbi per gli animali e le piante; e, infatti, il gelo, la grandine, la rubigine derivano dalla violenza e dal disordine con cui si manifestano queste tendenze d'amore. La scienza che, attraverso il moto degli astri e il succedersi delle stagioni indaga questi fenomeni, si chiama astronomia. Inoltre, tutti i sacrifici e i riti a cui presiede l'arte profetica, nel loro insieme (sono essi a mantenere un rapporto tra gli uomini e le divinità) non hanno altro scopo che di custodire e salvaguardare l'Amore; ogni scelleratezza, infatti, nasce perché non si dimostra buona disposizione nei riguardi dell'amor benigno, né, in quel che si fa, lo si tiene nella dovuta stima e lo si onora. Cose, invece, che si concedono tutte all'altro amore, sia per quel che riguarda i rapporti con i propri genitori, vivi o morti che siano, sia quelli con gli dei. A queste cose, appunto, l'arte profetica è destinata, per cui deve sorvegliare gli amori e apprestarne i rimedi; e la divinazione è all'origine dell'amicizia tra gli dei e gli uomini in quanto, delle tendenze umane, conosce quelle che si volgono alla giustizia e alla pietà. Dunque, tanto grande e vasta, anzi, universale è la forza d'Amore, ma quello che si volge al bene con saggezza e giustizia sia nei nostri rapporti umani che in quelli degli dei tra loro, ha forza ancora maggiore e ci dà la felicità e ci fa vivere nella concordia e nell'amicizia con tutti e con chi è migliore di noi, cioè con gli dei. Forse anch'io ho tralasciato molte cose, mio malgrado, in questo elogio d'Amore; se l'ho fatto, è compito tuo Aristofane rimediarvi; se, invece, vuoi onorare il dio in altro modo, fallo pure, dato che il singhiozzo t'è passato.» E così, mi riferì Aristodemo, cominciò a parlare Aristofane che disse: «Veramente è passato ma solo con lo starnuto, tanto che io mi meraviglio come il corpo umano, così ben fatto, abbia proprio bisogno di tanto rumore e solleticamenti, come lo starnuto. Sta di fatto, però, che il singhiozzo è cessato appena ho starnutito.» «Ma, mio caro Aristofane,» ribatté Eressimaco, «sta un po' attento a quel che fai; ti metti a far dello spirito proprio ora che devi parlare e così mi costringi a stare sul chi va là per ogni tua parola, nel caso ti saltasse in mente di dirle grosse, e sì che potresti parlar tranquillamente.» «Hai ragione, Eressimaco,» ammise Aristofane, ridendo, «fingi come se non avessi detto nulla. Ma non stare sul chi va là mentre parlo perché io ho proprio paura, non tanto perché, forse, con quello che sto per dire, farò ridere, il che potrebbe essere anche piacevole e coerente con la mia musa, ma perché mi farò invece deridere.» «Sì, sì, va bene, Aristofane, tu prima lanci il sasso e poi nascondi la mano; mettici attenzione, invece, e parla come se dovessi dar conto di quello che dici; da parte mia, intanto, vedrò di lasciarti tranquillo.»    Per dir la verità, Eressimaco,» cominciò Aristofane, «io avrei in mente di fare un discorso diverso da quello tuo e di Pausania. Io credo, infatti, che di tutta questa potenza dell'Amore, gli uomini non se ne siano accorti per niente, altrimenti gli avrebbero innalzato templi grandiosi, altari, gli farebbero sacrifici magnifici e, invece, nulla di tutto questo mentre sarebbe la prima cosa da fare. Nessuno come lui, tra tutti quanti gli dei, è amico degli uomini, viene in loro aiuto, cerca di curarne i mali, la cui guarigione, forse, sarebbe la più grande felicità del genere umano. Quindi, io cercherò di svelarvi la sua potenza e voi, a vostra volta, la rivelerete agli altri. Per prima cosa, dovete rendervi conto cosa sia la natura umana e quali siano state le sue vicende; per il passato, infatti, essa non era quella che è oggi. Nel principio, tre erano i sessi dell'uomo, non due, il maschio e la femmina, come ora: ce n'era un terzo che aveva in sé i caratteri degli altri due, ma che oggi è scomparso e del quale resta soltanto il nome: l'ermafrodito. Esso, infatti, era un essere a sé stante che, nell'aspetto esteriore e nel nome, aveva dell'uno e dell'altro, cioè, del maschio e della femmina; oggi, ripeto, non resta che il nome che, per di più, ha un significato infamante. Inoltre, la figura di questo essere umano era arrotondata, dorso e fianchi formavano come un cerchio; aveva quattro mani e quattro erano pure le gambe; aveva anche due facce, piantate su un collo anch'esso rotondo, completamente uguali e attaccate, in senso opposto, a un unico cranio; aveva quattro orecchie, doppi gli organi genitali e, da tutto questo, possiamo immaginarci il resto. Camminavano in posizione eretta, come noi, volendo potevano spostarsi in qualunque direzione e, quando correvano, facevano un po' come i nostri saltimbanchi che gettano in aria le gambe e capriolettano su se stessi: e poiché gli arti erano otto, appoggiandosi su di essi, procedevano, a ruota, velocemente. I sessi erano tre, perché quello maschile aveva avuto origine dal sole, quello femminile dalla terra e l'altro, con i caratteri d'ambedue, dalla luna, dato che quest'ultima partecipa del sole e della terra insieme: perciò avevano quell'aspetto e si spostavano rotolando, perché somigliavano a quei loro progenitori. Avevano una resistenza e una forza prodigiosa, nonché un'arroganza senza limiti, tanto che si misero in urto con gli dei e quel che dice Omero di Efialte e di Oto, che tentarono di scalare il cielo, va riferito a costoro.    «E così Giove e gli altri dei si consigliarono sul da farsi ma non seppero risolversi: non era il caso di ucciderli, infatti, come i Giganti, e di estinguerne la specie a colpi di fulmine (il che sarebbe stato come far sparire onori e sacrifici agli dei da parte degli uomini) e del resto non era possibile continuare a sopportare oltre la loro tracotanza. A furia di pensare, Giove, finalmente, ha un'idea: ‹Ho trovato il sistema,› esclamò, ‹perché gli uomini sopravvivano ma, nello stesso tempo, divengano più deboli e la smettano con la loro prepotenza. Ecco che li taglierò, ciascuno, in due,› continuò, ‹così diventeranno più deboli, e, dato che aumenteranno di numero potranno esserci anche più utili. Cammineranno su due gambe e, se non si metteranno tranquilli e faranno ancora i prepotenti, li taglierò ancora e cosi impareranno a camminare su una gamba sola, come nel gioco degli otri.› Detto fatto, si mise a tagliare gli uomini in due come si tagliano le sorbe quando si mettono a seccare, o come si divide un uovo col crine. E via via che tagliava, poi, raccomandava ad Apollo che a ciascuno gli rivoltasse il viso e la metà del collo dalla parte del taglio in modo che l'uomo, vedendosi sempre la sua spaccatura, diventasse più mansueto; Apollo, infine, provvedeva a chiudere le altre parti. Girava la faccia e, tirando la pelle, tutta verso quel punto che noi ora chiamiamo ventre, come chi fa per chiudere coi lacci una borsa, faceva una specie di groppo, che legava proprio in mezzo alla pancia, quello che noi chiamiamo ombelico. Spianava, poi, le molte rughe e modellava il petto usando un arnese un po' simile a quello che adoperano i sellai per spianare, sulla forma, le grinze del cuoio: ne lasciava, però, qualcuna, nei paraggi del ventre e intorno all'ombelico, in ricordo dell'antico castigo. Fu così che gli uomini furono divisi in due, ma ecco che ciascuna metà desiderava ricongiungersi all'altra; si abbracciavano, restavano fortemente avvinti e, nel desiderio di ricongiungersi nuovamente, si lasciavano morire di fame e di accidia, non volendo far più nulla, divise com'erano, l'una dall'altra. Quando, poi, una delle due metà, moriva, quella rimasta in vita, se ne cercava un'altra e le si avvinghiava, sia che le capitasse una metà di sesso femminile (che oggi noi chiamiamo propriamente donna) che una di sesso maschile; e così, morivano. Allora Giove, impietosito, ricorse a un nuovo espediente: spostò il loro sesso sul davanti; prima, infatti, l'avevano dalla parte esterna e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma alla terra, come le cicale. Dunque, trasferì questi organi sul davanti e, così facendo, rese possibile la procreazione attraverso l'unione del maschio nella femmina; lo scopo era quello di far generare e di perpetuare la specie grazie a un simile accoppiamento tra maschio e femmina; se, invece, l'unione fosse stata fra maschi, dopo un po' sarebbe venuta sazietà da questo connubio e così, una volta separatisi, sarebbero potuti ritornare al lavoro e alle altre cure della vita. Da tempi remoti, quindi, è innato negli uomini il reciproco amore che li riconduce alle origini e che di due esseri cerca di farne uno solo risanando, così, l'umana natura.    «Quindi, ciascuno di noi è come la metà di un unico contrassegno, dal momento che fu tagliato in due, come le sogliole, e va continuamente in cerca dell'altra metà. Ora, tutti quegli uomini che son derivati dalla divisione di quel doppio essere, cioè, dall'ermafrodito, come l'abbiamo appunto chiamato, sentono tutti l'attrazione per le donne e da lì provengono anche la maggior parte degli adulteri; così pure hanno la stessa origine le donne che vogliono il maschio e le adultere. Invece, le donne che son derivate dalla divisione di un essere di sesso femminile, sono frigide nei riguardi dell'uomo e sentono, piuttosto, attrazione per le altre donne e da qui sono nate le lesbiche. Quegli uomini, infine, che son nati dalla divisione di un essere maschile, van dietro ai maschi e, finché son ragazzi, per il fatto che son parti di maschio, amano gli uomini e godono di giacersi stretti abbracciati con loro. Questi sono i ragazzi, i giovinetti più in gamba, dotati di un'indole virile; c'è della gente che dice che costoro sono degli svergognati, ma sbaglia: non per impudenza, infatti, fanno questo ma perché sono arditi, valorosi e virili e, come tali, cercano il loro simile. E questa è la prova migliore: in età matura, soltanto costoro diventano dei veri uomini e partecipano alla vita politica. Da adulti, poi, sono loro ad amare i fanciulli e se non fosse perché la consuetudine un po' ve li costringe, se dipendesse dalla loro natura, certo non penserebbero affatto a sposarsi e ad avere dei figli, anzi sarebbero contentissimi di vivere così da scapoli. Insomma, da qui nascono quelli che amano gli uomini o si lasciano da essi amare, preferendo sempre chi ha la loro stessa natura. E quando uno incontra quella che fu la sua metà, non solo chi si sente attratto verso i fanciulli, ma anche ogni altro, sente allora nascere in sé quel sentimento di amicizia, di intimità, di amore per cui non sa più vivere separato dall'altro, nemmeno un istante, tanto per dire. E questi che passano insieme la loro vita non ti saprebbero nemmeno più dire quello che vogliono per loro; e io penso che nessuno crederà che sia soltanto l'attrazione fisica a tenerli così appassionatamente uniti; è certo che l'anima loro cerca qualcos'altro, che non sa definire ma che vagamente intuisce. Se, per esempio, mentre stanno dolcemente insieme, comparisse Efesto, con gli strumenti del suo potere e chiedesse loro: ‹Cosa vorreste, uomini, l'uno dall'altro?› e vedendoli incerti chiedesse ancora: ‹Non desiderate, forse, diventare una cosa sola in modo che non possiate mai separarvi, né di giorno né di notte? Se è questo che volete, io vi unirò, vi fonderò in una stessa natura così che da due voi diventiate uno e la vostra vita la viviate come un essere solo e quando morrete, anche laggiù, nell'Ade, possiate essere uno solo invece di due, uniti da un'unica morte. Vedete un po', allora, se è questo che desiderate, se è questo che vi basta ottenere.› Dunque. se udissero queste parole, siamo convinti che nessuno dei due rifiuterebbe, nessuno mostrerebbe di voler altro, anzi, ognuno penserebbe di aver finalmente udito le parole che da tanto tempo sognava di ascoltare, diventare cioè di due una sola cosa, unirsi, confondersi nella creatura amata. E la ragione di tutto questo è che tale era la nostra antica natura e che noi eravamo uniti; e lo struggimento per quella perduta unità, il desiderio di riottenerla, si chiama amore. Ripeto, noi, prima eravamo un essere solo ma poi, per i nostri falli, da dio siamo stati divisi, un po' come gli Arcadi lo    sono stati dagli Spartani. E c'è da temere che se non saremo obbedienti verso gli dei, verremo ancora tagliati e vagheremo un po' simili a quelle figure in bassorilievo, segate in due lungo la linea del naso, che si vedono sulle steli, ridotti come dadi a metà. Occorre, perciò, che ogni uomo consigli gli altri ad essere pii verso gli dei, sia per evitare questo male, sia per ottenere quel bene al quale Amore ci volge e ci guida. Nessuno sia ostile ad Amore (chi lo è, è inviso agli dei); perché se gli saremo amici, se ci riconcilieremo con questo dio, noi riusciremo a trovare e a congiungerci con la nostra anima gemella, cosa che oggi capita a pochi. E non insinui Eressimaco, canzonandomi per questo che sto dicendo, che io voglio alludere a Pausania e ad Agatone (molto probabilmente essi sono tra questi pochi e hanno entrambi natura virile). Ad ogni modo io dico, in generale, di tutti, uomini e donne, che la razza umana sarà felice nella misura in cui ciascuno realizzerà il suo amore e troverà la sua creatura amata, ritornando così all'antica condizione. Se questo è il bene più grande, ne consegue che, nelle presenti condizioni, la cosa migliore è quella che più gli si avvicina: incontrare l'amante che meglio ci sappia corrispondere. Se, dunque, vogliamo levar lodi al dio che ci può dar tutto questo, è ad Amore che dobbiamo inneggiare il quale, per ora, favorisce il nostro incontro con chi ci è affine e, un domani, ci darà le più grandi speranze che, se noi ci mostreremo riverenti verso gli dei, ci restituirà l'antica natura e, risanandoci, ci renderà felici e beati. Questo, o Eressimaco,» concluse, «il mio discorso su Amore, diverso dal tuo, a quanto vedi. Come ti ho pregato, non starmelo a canzonare, dato che dobbiamo ancora sentire quel che diranno gli altri, anzi gli ultimi due, perché non sono rimasti che Agatone e Socrate.»    «E va bene, t'accontento,» rispose Eressimaco, «anche perché il tuo discorso m'è proprio piaciuto; anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone son ferratissimi in fatto d'amore, avrei proprio paura, con tutto quel che s'è detto, che rimanessero a corto d'argomenti. Ma, nonostante questo, invece, mi sento sicuro.» E Socrate, intervenendo: «Eh, già, Eressimaco, perché tu hai già detto la tua e bene anche; ma se ti trovassi qui, al mio posto o meglio nella posizione in cui mi troverò quando Agatone avrà finito anche lui di fare il suo bel discorso, saprei immaginare la tua paura, e quanta anche, come ce l'ho io adesso.» «Non m'incanti, Socrate,» fece, di rimando, Agatone, «tu vuoi proprio confondermi facendomi credere che queste persone son tutte qui ad aspettare chissà cosa dal mio discorso.» «E io, allora, sono uno smemorato, Agatone,» replicò Socrate, «se credessi che ora tu hai paura di noi che siam qui in pochi. Ho visto il tuo coraggio, la tua sicurezza quando sei salito sul podio con gli altri attori e hai abbracciato con uno sguardo tutto il teatro pieno zeppo, poco prima di rappresentare la tua opera.» «Ma che c'entra, questo, Socrate?» ribatté Agatone. «Non mi crederai mica tanto infatuato per una rappresentazione teatrale, da non capire che per uno che abbia un po' di buon senso, poche persone intelligenti fan più paura di una folla di sciocchi?» «Non sarebbe bello da parte mia, Agatone,» insisté Socrate, «se ti pensassi capace di un pensiero volgare. So benissimo che se ti venissi a trovare fra persone che tu ritenessi sapienti, ne saresti preoccupato più che se fossi in mezzo a un mucchio di gente; il fatto è che noi non siamo tali e, del resto, c'eravamo anche noi, lì, non più che folla tra la folla. Se tu, invece, ti incontrassi veramente con dei sapienti, ti vergogneresti davanti a loro, se ti accorgessi di far qualche brutta figura, non credi?» «Certo, dici bene,» ammise. «E se tu la brutta figura la facessi davanti alla folla, non ti vergogneresti?» A questo punto intervenne Fedro e: «Mio caro Agatone,» disse, «se stai lì a rispondere a Socrate, te le saluto le cose che stavamo dicendo, ma tanto a lui non gliene importa niente, basta che abbia qualcuno con cui discutere, specie poi se è un bel ragazzo. Con questo non è che io non ascolti volentieri una discussione di Socrate, ma certo che ora mi sta più a cuore l'elogio di Amore e avere, da ciascuno di voi, il rispettivo discorso. Pagate al dio il vostro debito e poi discuterete come vi pare.» «Dici proprio bene, Fedro,» esclamò Agatone; «niente mi impedisce di parlare; con Socrate non mancheranno certo le occasioni per discutere.»    «Io desidero prima dirvi com'è che intendo impostare il mio discorso, dopo entrerò nel vivo della questione. A me pare che tutti quelli che hanno parlato finora non abbiano celebrato il dio ma soltanto posto l'accento su quanto gli uomini siano felici per quei beni di cui, appunto, quel dio è la causa; nessuno ha detto chi sia propriamente costui che ci offre tutti questi beni. Orbene, l'unico metodo giusto per far qualsiasi elogio, di qualunque cosa, è quello di illustrare prima chi sia, in effetti, quello di cui si parla e poi di quali beni sia la causa. Ecco perché noi dobbiamo prima lodare Amore per quel che egli è, poi per i doni che ci reca. Intanto io affermo che tra tutti i beatissimi dei (se m'è lecito dirlo e non è peccato) Amore è il più beato perché è il più bello e il più buono. Il più bello soprattutto perché è il più giovane degli dei, Fedro. Egli stesso ce ne dà la prova migliore fuggendo dinanzi alla vecchiaia che, tutti sanno, è veloce e ci casca addosso più presto di quel che dovrebbe. Naturalmente Amore la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Giovane com'è, invece, sta sempre con i giovani e ha ragione l'antico detto che il simile s'accompagna sempre al suo simile. Ed io, pur consentendo con Fedro in molte cose, non condivido il fatto che Amore sia più antico di Crono e di Giapeto. Ripeto, invece, che è il più giovane di tutti gli dei, eternamente giovane e tutti quei vecchi fatti tra gli dei che raccontano Esiodo e Parmenide, accaddero per opera di Necessità, non di Amore, ammesso pure che quei due abbiano detto il vero. Non ci sarebbero state, infatti, mutilazioni, catene e tutte quelle altre violenze se Amore fosse stato in mezzo a loro, ma solo amicizia e concordia come è ora, da quando egli regna sugli dei. Dunque egli è giovane e non solo, è gentile. Il fatto è che gli manca un poeta, un poeta come Omero che ne esalti la delicata bellezza. Di Ate, per esempio, Omero dice non solo che è una dea ma che, appunto, è delicata (almeno i suoi piedi sono tali), quando scrive: morbidi sono i suoi piedi che non accosta alla terra ma ella procede sfiorando le teste degli uomini. E mi pare che egli ci abbia dato una bella prova della sua delicatezza col dirci che non cammina sul duro ma sul morbido. Serviamoci, anche noi, per Amore, dello stesso indizio a conferma che è delicato; egli, infatti, non cammina per terra e nemmeno sulle teste degli uomini che, poi, tanto morbide non sono, ma tra le più tenere delle cose che esistono egli procede e dimora: egli, infatti, ha posto la sua sede nel cuore e nell'animo degli uomini e degli dei;  non però in tutte le anime indistintamente. Se, infatti, ne trova una rozza, fila via, se gentile invece, vi resta. Dato, quindi, che egli è sempre a contatto, e non solo con i piedi ma anche con tutto se stesso, con le più tenere tra le tenerissime cose, necessariamente deve essere delicatissimo. Il più giovane, dunque, e il più delicato; ma oltre a questo è duttile. Non potrebbe piegarsi in tutte le direzioni e entrare di soppiatto nelle anime e così uscirne se fosse rigido; la leggiadria, per consenso comune, è la prova evidente delle fattezze armoniche e flessuose che Amore possiede. Infatti, fra l'amore e la bruttezza c'è sempre reciproca guerra. La bellezza del suo incarnato ci dice che egli indugia tra i fiori, poiché Amore non resta dove non v'è cosa in fiore o che sia avvizzita, sia essa corpo o anima o altro, ma dove tutto è fiorito e olezzante, là si posa e dimora. «Sulla bellezza del dio può anche bastare, per quanto ce ne sarebbe ancora da dire. Ma ora parliamo delle sue virtù. La cosa che prima di tutto bisogna notare è che Amore non fa torti a nessuno, né a uomini né a dei e nemmeno ne riceve. Egli non subisce violenza (ammesso che subisca qualcosa), perché essa non lo tocca, né con prepotenza fa quel che fa, ma ognuno serve Amore spontaneamente in ogni cosa; e quando c'è accordo reciproco tra due volontà, ‹le Leggi che sono le regine degli Stati›, dicono che è giusto. Oltre che la giustizia, Amore possiede in sommo grado anche la temperanza. Tutti son d'accordo nell'affermare che la temperanza consiste nel dominio delle passioni e dei piaceri. Ma non c'è nessun piacere più intenso dell'Amore e quindi se tutti gli altri sono meno intensi, sono inferiori a lui che, perciò, trionfa e ha il dominio sulle passioni e sui piaceri e, come tale, è in sommo grado, temperante. Per quanto riguarda la forza, ad Amore ‹neanche Marte può stargli a fronte›. Non è, infatti, Marte che conquista Amore, ma Amore che seduce Marte, amore di Venere a quanto si dice; e chi possiede è più forte di chi si lascia possedere: quindi, vincendo chi è più forte degli altri, egli è il più forte di tutti. Della giustizia, quindi, della temperanza e della fortezza del dio, s'è già detto; resta ora da dire della sua sapienza: per quanto è possibile, bisogna cercare di non tralasciare nulla. Intanto, per prima cosa per rendere onore alla nostra arte, come Eressimaco ha fatto per la sua, dirò che questo dio è poeta cosi sapiente da far diventare tali anche gli altri; in effetti, ognuno diventa poeta se è toccato da Amore, anche se non ha mai avuto prima a che fare con le Muse. Da qui possiamo trarre la conferma che Amore, in generale, è buon poeta in ogni genere di produzione artistica. Infatti, ciò che uno non ha e non conosce, non può certo darlo, né insegnarlo a nessuno. E, infatti, chi è che vorrà contestare che la creazione di tutti gli esseri viventi non avvenga per la sapienza d'Amore che genera e fa crescere tutte le creature? E, inoltre, nell'attività artistica non sappiamo forse che chi ha per maestro questo dio diviene famoso e illustre, chi invece non è toccato da Amore resta oscuro? L'abilità nel tiro dell'arco, la sapienza nella medicina, l'arte profetica, Apollo le ha scoperte sotto l'impulso del desiderio e dell'amore, così che anch'egli può dirsi discepolo di questo dio, come le Muse per le loro arti, Efesto per l'arte di forgiare metalli, Minerva per quella del tessere e Giove, infine, per quella di governare sugli dei e sugli uomini. Fu cosi che tutte le questioni tra gli dei si appianarono, da quando Amore comparve in mezzo a loro, si capisce, Amore della bellezza, perché delle cose brutte non c'è amore; mentre, come ho detto, prima d'allora, molte e orribili cose, a quanto si dice, accadevano tra gli dei, perché regnava Necessità. Ma dopo che nacque questo dio, si amarono le cose belle e ne venne per gli dei e per gli uomini abbondanza di beni. Così, Fedro, mi sembra proprio che Amore, bellissimo e buonissimo com'è, rechi anche agli altri bellezza e bontà. Quasi quasi mi vien da dire in versi quello che fa, per esempio così: pace agli uomini reca, calma sul mare tregua ai venti e, nel dolore, il sonno. Egli ci libera dal timore di essere estranei a noi stessi, ci dà un senso di calda intimità, ci invita a partecipare a riunioni come questa, a feste, a danze, a sacrifici di cui diventa un po' l'auspice, assicura la benevolenza, allontana ogni rancore, largo in favori, incapace di malvagità, benigno, buono, esempio ai saggi, ammirato dagli dei, invidiato dagli infelici, posseduto dai fortunati, padre della Delizia, dell'Eleganza, del Fasto, della Grazia, del Desiderio, della Bramosia, sollecito verso i buoni, incurante dei malvagi, nelle fatiche, nelle paure, nelle passioni, nelle conversazioni, è guida, guerriero, compagno di lotta, salvezza provvidenziale, ornamento di tutti gli dei e di tutti gli uomini, duce meraviglioso e perfetto che ognuno deve seguire e celebrare con inni degni di lui, partecipando al suo canto col quale egli ammalia il cuore degli uomini e degli dei. Questo, Fedro, il mio discorso in omaggio al dio, svolto un po' celiando, un po' con ben dosata gravità, secondo le mie capacità.»    Quando Agatone ebbe finito di parlare, raccontò Aristodemo, ci fu uno scroscio di applausi da parte di tutti i presenti che riconobbero come il discorso del giovane fosse stato degno di lui e del dio. E, allora, Socrate volgendosi ad Eressimaco: «E così, figlio di Acumeno, ti sembra ancora fuori posto il mio timore di prima o non ho forse previsto giusto, poco fa, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato benissimo e che io mi sarei trovato in un bell'imbarazzo?» «Per il primo punto,» rispose Eressimaco, «ti do anche ragione, cioè quando dici di aver previsto che Agatone avrebbe parlato bene, ma che tu, poi, ti trovi nell'imbarazzo questo proprio non lo credo.» «Ma come faccio a non esserlo, mio caro, e come me chiunque altro dovesse parlare dopo un discorso così bello e così interessante? Certo in qualche parte non è stato stupendo come nel resto, ma verso la fine chi non sarebbe rimasto sbalordito di fronte a tanta bellezza di vocaboli e di espressioni? Quasi quasi, pensando che non sarei mai stato capace di dire qualcosa che solo si avvicinasse a tanta bellezza, stavo per fuggirmene dalla vergogna. Perché il suo discorso m'ha fatto venire in mente Gorgia, tanto da farmi sentire nella stessa situazione di cui parla Omero, temevo proprio, cioè, che alla fine Agatone con il suo discorso, gettasse sul mio la testa di Gorgia, di quel formidabile oratore, togliendomi l'uso della favella e facendomi diventare di pietra. E ho capito, allora, di essere stato proprio un ingenuo quando ho accettato di celebrare, insieme a voi, Amore, dicendo che ero un, esperto su questo argomento, mentre invece, e me ne accorgo adesso, non sapevo un bel niente, persino come si fa un elogio qualunque. Da quell'ingenuo che sono credevo che nel fare l'elogio di chicchessia o di qualcosa si dovesse dire la verità e che questa era la cosa fondamentale; poi pensavo che bisognasse scegliere, tra le cose vere, le più belle e disporle nel modo migliore; ed ero tutto contento del fatto mio, sicurissimo che avrei fatto un figurone dato che conoscevo esattamente il modo di imbastire un elogio. E, invece, a quanto pare, non è così che si fa un bell'elogio: bisogna al contrario fare le lodi più sperticate e più belle, corrispondano o meno al vero: si vede che eravamo d'accordo di lodare Amore, così, per burla, non di farne l'elogio seriamente. Ed è per questo, credo, che voi tirate in ballo ogni sorta di argomenti e li affibbiate ad Amore e affermate che egli è questo e quello ed è la causa di un sacco di cose in modo che appaia bellissimo e perfettissimo ma, è chiaro, a chi non lo conosce, non a quelli che ne sanno qualcosa. Sfido io che, così, il bel panegirico è presto fatto. Ma io non conoscevo un simile sistema di far gli elogi e proprio per questo fui d'accordo con voi di pronunciarne uno anche io, seguendo il mio turno: la lingua lo promise, non il cervello. E, allora, statevi bene, perché io un elogio con questo sistema non ve lo faccio, è più forte di me. La verità, invece, se volete, eccomi qua, pronto a dirvela, a modo mio, senza far gare con nessuno perché non ho proprio voglia di farmi ridere dietro. Vedi tu, quindi, Fedro se è proprio necessario un discorso di questo genere e sentire come veramente stanno le cose, a proposito dell'Amore, con quei termini e con quello stile poi che lì per lì mi passeranno per la mente.» Ma Fedro e gli altri, mi riferì Aristodemo, lo invitarono a parlare come volesse. «E va bene, Fedro, però lasciami prima fare una piccola domanda ad Agatone, perché voglio mettermi un po'd'accordo con lui e poi parlerò.» «Ma figurati,» commentò Fedro, «fa pure.» E allora Socrate cominciò presso a poco così: «Dunque, mio caro Agatone, m'è parso proprio buono l'inizio del tuo discorso quando hai detto che prima di tutto bisogna esporre quale sia la natura d'Amore e poi passare alle sue opere; un esordio che mi è proprio piaciuto. Ma ora, dato che hai così magnificamente parlato su tutto quel che riguarda la natura d'Amore, dimmi una cosa: Amore, è amore di qualche cosa o amore di nulla? Bada che non ti chiedo se amore per una madre o per un padre (sarebbe ridicolo chiedere se Amore sia amore verso la madre o il padre), ma come se ti chiedessi a proposito del padre: il padre è padre di qualcuno o no? tu, certo, mi risponderesti, se volessi darmi una risposta appropriata, che il padre deve essere necessariamente padre di un figlio o di una figlia, non ti pare?» «Ah, certamente,» ammise Agatone. «E la stessa cosa è per una madre?» Era d'accordo anche in questo. «E rispondimi ancora,» proseguì Socrate, «a una piccola cosa per capire meglio dove voglio arrivare: se ti chiedessi: e allora, un fratello, come tale, è fratello di qualcuno?» «Sicuro che lo è.» «Fratello di un fratello o di una sorella?» «D'accordo.» «Prova a dire la stessa cosa a proposito di Amore: Amore è amore di qualcosa o amore di nulla?» «Certo amore di qualcosa.» «Ebbene,» riprese Socrate, «questo tientelo per te bene a mente e dimmi, invece: Amore desidera o meno ciò di cui è amore?» «Certo,» rispose. «E quel che egli desidera e ama, l'ama e lo desidera perché lo possiede o proprio perché, invece, gli manca?» «Probabilmente perché non lo possiede,» rispose. «Sta attento,» insisté Socrate, «che non si tratta di probabilità, ma è necessariamente logico che si desidera quello che non si possiede; quando si ha una cosa, invece, non la si desidera affatto. Di qui non si scappa ed io ne sono assolutamente convinto, tu no, invece?» «Ah, anch'io lo sono,» fece. «Ben detto. Ed effettivamente uno che lo è già potrebbe desiderare di essere grande? E essere forte uno che è già tale?» «Dopo quel che s'è convenuto, è impossibile.» «Effettivamente, non può essere privo di queste qualità chi le ha già.» «È chiaro.» «Eppure,» osservò Socrate, «se uno che è forte, volesse esser forte o se è veloce, volesse essere veloce o, ancora, se è sano, volesse esser sano, dato che qualcuno potrebbe pensare, di fronte a un esempio simile o a casi del genere, che vi siano persone che pur possedendo tutte queste qualità, tuttavia le desiderano sempre (ti sto dicendo questo per non lasciarci trarre in inganno); ebbene, Agatone, se ci pensi, costoro che al momento posseggono queste qualità, è inevitabile che le abbiano, lo vogliano o meno, e se le posseggono già, come possono desiderarle? Ma se uno dicesse: ‹lo che son sano voglio essere sano o, pur essendo già ricco, voglio essere ricco e desidero questo che già posseggo,› gli potremmo rispondere: ‹Tu, caro mio, che hai già ricchezze, salute, forza, vuoi continuarle ad avere anche per l'avvenire, giacché, per il momento, tu voglia o non voglia, già le possiedi; pensa un po' se, quando dici che desideri le cose che hai, tu non voglia dire, invece, semplicemente, che desideri di possedere anche per l'avvenire quello che oggi già possiedi.› Credi che non sarebbe d'accordo?» E Aristodemo mi riferì che Agatone lo ammise. Socrate allora proseguì: «E desiderare che per l'avvenire ci siano preservate le cose che noi già possediamo oggi, non vuol forse dire amare quel che ancora non si possiede o di cui tuttora non si dispone?» «Certo,» ammise. «E quindi, se Tizio o Caio desiderano qualcosa, sarà sempre ciò di cui ancora non dispongono, che ancora non hanno o quelli che essi stessi non sono o di cui si sentono privi; non è tutto qui il loro desiderio e il loro amore?» «Senza dubbio,» fece. «Bene, ricapitoliamo, allora, quanto s'è convenuto. Amore, prima di tutto è amore di qualcosa e, in secondo luogo, di ciò di cui si è privi?» «Sì, sempre.» «E adesso ricordati quello che hai detto poco fa, che cioè l'Amore tende a qualcosa. Se credi cercherò io di ricordartelo: se non sbaglio, tu hai detto, su per giù, che le questioni tra gli dei s'aggiustarono grazie all'Amore del bello e che per le cose brutte non c'è amore; non è questo che hai detto?» «Sì, questo,» ammise Agatone. «E l'hai detto molto opportunamente, mio caro,» riprese Socrate; «e se le cose stanno così, Amore, che altro è se non amore del bello e non del brutto?» «D'accordo.» «Ma non abbiam detto che si ama ciò di cui si è privi, ciò che non si ha?» «Sì,» fece. «Dunque, l'Amore, non ha la bellezza, ne è privo.» «Per forza.» «E allora? Chi è privo di bellezza, chi non ne ha, tu lo chiami bello?» «Affatto.» «Se le cose stanno così, tu sei sempre del parere che Amore sia bello?» «Temo proprio, Socrate, di non capir più niente di quel che ho detto,» esclamò Agatone. «Eppure hai parlato bene, Agatone,» incalzò Socrate. «Ma dimmi un'altra cosetta: quello che è buono, secondo te, non è anche bello?» «Per me sì.» «Se, dunque, Amore non ha la bellezza e se quello che è bello è anche buono, egli sarà anche privo di bontà.» «Io non sono in grado di contraddirti, Socrate e quindi sia pure come tu dici.» «È la verità, Agatone carissimo, e tu non puoi contestarla; Socrate, invece, sì, lo puoi contraddire e la cosa non è per niente difficile.» «Ma sì, via, ora ti lascerò in pace. Vi racconterò, piuttosto, quello che sull'Amore, mi disse un giorno una donna di Mantinea, Diotima, molto dotta sull'argomento e su un'infinità di altre questioni. Figuratevi che una volta, con i sacrifici che fece fare agli ateniesi, prima della peste, riuscì a ritardare l'epidemia di dieci anni. Fu lei a erudirmi nelle questioni d'amore e quindi, partendo dalle conclusioni che Agatone ed io abbiamo tratto, cercherò di ripetervi, come posso, a parole mie, il discorso che ella mi fece. Ebbene, proprio come tu dicevi, Agatone, bisogna definire prima chi sia Amore, quale la sua natura e poi le sue opere. Ora io penso che la cosa più facile per me, sia quella di seguire lo stesso metodo che usò quella straniera quando discusse con me. Anch'io, infatti, le dicevo un po' le stesse cose che ora mi ha ripetuto Agatone, cioè che Amore è un grande dio, che è amore di cose belle ed ella cominciò a confutarmi con gli stessi argomenti, precisamente, che io ho usati ora con costui, cioè che Amore non è né bello (per usare le mie parole) né buono. Ed io: «Ma com'è che dici questo, Diotima? Allora Amore è brutto e malvagio?» «Ma che? Ora ti metti pure a bestemmiare?» fece lei. «Credi forse che ciò che non è bello debba necessariamente essere brutto?» «Sicuro, io sì.» «E credi anche che chi non è sapiente, sia ignorante? Ma non ti accorgi che c'è sempre una via di mezzo tra sapienza e ignoranza?» «E quale?» «Avere un'opinione giusta, ecco, ma senza poterne dare una spiegazione; non sai,» fece «che questo non è sapere (e come può esserlo se non se ne sa dare una spiegazione?), ma non è nemmeno ignoranza (e come, infatti, potrebbe se coglie nel vero?). Insomma, la retta opinione è qualcosa di simile, una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza.» «È vero quello che dici,» ammisi io. «E quindi non insistere a credere che ciò che non è bello debba essere, a tutti i costi, brutto e ciò che non è buono, debba esser malvagio. E così anche a proposito di Amore, visto che anche tu sei d'accordo che non è buono né bello, non pensare che debba essere malvagio e brutto,» concluse, «ma qualcosa tra questi due estremi.» «Eppure,» obbiettai io, son tutti d'accordo che è un dio potente.» «Tutti chi?» ribatté lei, «quelli che non sanno o anche quelli che sanno?» «Tutti quanti.» «Ma come fanno, Socrate, a dirlo un gran dio,» fece lei, ridendo, «se affermano che non è nemmeno un dio?» «E chi sono questi?» «Uno, intanto, sei tu, l'altra sono io.» «Ma come fai a dir questo?» «Semplice. E tu, infatti, rispondimi: non affermi che gli dei son tutti beati e belli? avresti il coraggio di dire che qualcuno non è bello o non è beato?» «Santo cielo, io no,» risposi. «E beati, secondo te, non sono quelli che hanno bontà e bellezza?» «Sicuro.» «Ma non hai convenuto che Amore desidera le cose buone e belle, proprio perché ne è privo?» «Già, certo.» «E, allora, come può essere un dio chi non ha né bellezza né bontà?» «Ah, no, assolutamente.» «Vedi, dunque,» concluse, «che anche tu affermi che Amore non è un dio.»    «Ma, allora,» chiesi, «chi sarebbe Amore? Un essere mortale?» «Ma niente affatto.» «Ma allora?» «Come nel caso precedente, qualcosa di mezzo, tra, il mortale e l'immortale.» «E cioè, Diotima?» «Un demone possente, Socrate, che come tutti i demoni, sta tra il divino e l'umano.» «E qual è il suo potere?» chiesi. «Quello di interpretare e di recare agli dei le preghiere e i sacrifici degli uomini e, agli uomini, i comandamenti e i premi degli dei per i sacrifici compiuti; nel suo ruolo di intermediario, egli colma l'enorme distanza tra gli uni e gli altri, così l'universo risulta in se stesso collegato. Da lui procede tutta l'arte della divinazione, tutta la scienza sacerdotale, per quel che riguarda i sacrifici e le iniziazioni e poi gli incantesimi, ogni sorta di profezie e la magia. Dio non scende a contatto con l'uomo ma è attraverso i demoni che egli parla e ha rapporto con gli uomini, sia quando sono svegli, sia durante il sonno; e chi è sapiente in queste cose è un ispirato chi invece s'intende d'altro, esercita, per esempio, una diversa arte o un mestiere qualsiasi, non è che un manovale. Molti sono i demoni e di ogni specie. Amore ne è uno.» «E suo padre e sua madre,» chiesi, «chi sono?» «È, una cosa lunga,» fece, «ma te la racconterò ugualmente. Quando nacque Afrodite, gli dei si trovavano a banchetto e, tra gli altri, c'era anche Poro, il figlio di Metide. Avevano già finito di pranzare, quando giunse Penia, per elemosinare, dato che sontuoso era stato, il banchetto e se ne rimase sull'uscio. In quel mentre Poro, gonfio di nettare (il vino infatti non era ancora conosciuto), se ne uscì nel giardino di Giove e, mezzo ubriaco com'era, s'addormentò. Allora, Penia, sempre afflitta dalle sue angustie, pensò se non le fosse possibile avere un figlio da Poro e così gli si stese al fianco e restò incinta di Amore. Per questo Amore è compagno e ministro di Afrodite, perché fu concepito nel giorno della sua nascita ed è, nello stesso tempo, amante del bello perché bella è Afrodite. D'altro canto, per il fatto che Amore è figlio di Poro e di Penia, si trova in questa condizione. Anzitutto è sempre povero e tutt'altro che delicato e bello, come i più se lo figurano; anzi è grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo, vagabondo, dorme sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle strade, sotto il sereno, perché ha la natura della madre ed è tutt'uno con la miseria. Per parte del padre, invece, è fatto per insidiare ciò che è bello e buono, essendo di natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre pronto a tramare inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita dedito a filosofare, abilissimo imbroglione, esperto di veleni, sofista. Inoltre né immortale, né mortale, ma, in uno stesso giorno, sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi torna a vivere grazie a mille espedienti e in virtù della natura paterna; sfumano tra le sue dita le ricchezze che si procura, così che Amore non è mai al verde e mai ricco. Inoltre è a mezzo tra sapienza e ignoranza. Ecco come: nessun dio s'occupa di filosofia, né ambisce a diventar sapiente (ché già lo è), né, del resto, chi è sapiente, si dedica alla filosofia; d'altra parte, nemmeno gli ignoranti si dedicano alla filosofia, né ambiscono a diventar sapienti; e questo è il brutto dell'ignoranza, che chi non è né bello, né buono, né saggio, crede, invece, di esserlo abbondantemente; naturalmente chi non si accorge di esser privo di qualcosa, non desidera quello di cui non sente il bisogno.» «Ma, allora,» feci io, «chi sono, Diotima, quelli che si dedicano alla filosofia, se non sono né i sapienti, né gli ignoranti?» «Ma è    chiaro,» mi rispose, «anche un bambino lo capirebbe che son quelli che stanno in una posizione intermedia, tra, i primi e i secondi e, tra questi, c'è anche Amore. La sapienza, infatti, è tra le cose più belle e Amore ama le belle cose e, quindi, necessariamente, è anche filosofo e, come tale, sta fra il sapiente e l'ignorante. E la sua origine è un po' la causa di tutto questo: suo padre è sapiente e pieno di estro, ma sua madre, invece, non lo è affatto, è ignorante. Tale, Socrate, è la natura di questo demone. Come poi tu immaginavi che fosse, non c'è da meravigliarsi; per quel che ho potuto capire dalle tue parole, credevi che Amore fosse colui che si ama, non colui che ama. Ecco perché, io penso, ti sembrava così bello. Infatti, chi è amato è veramente bello, seducente, perfetto, degno di ogni felicità; colui che ama, invece, ha un altro aspetto, quale io ti ho descritto.»    Ed io: «E sia, straniera, tu parli bene, ma se tale è Amore, che utilità arreca agli uomini?» «È questo che ora cercherò di chiarirti, Socrate. Tale, dunque, è Amore e così è nato: Amore del bello, come tu dici. Se qualcuno, ora, domandasse: ‹In che senso, Socrate e Diotima, l'Amore è amore del bello› o più precisamente, ‹chi ama le cose belle, ama, ma ama che cosa?›» «Che diventino sue,» risposi. «Ma questa tua risposta,» mi precisò, «esige che si ponga un'altra domanda, di questo genere, per esempio: ‹Che cosa gliene viene a chi possiede le cose belle?›» Io risposi che, a una domanda simile, non sapevo sul momento che dire. «E immaginiamo, allora, incalzò, che uno al posto del bello mettesse il bene e che chiedesse: ‹Via, Socrate, chi ama il bene, ama, ma ama che cosa?›» «Che diventi suo,» risposi. «E che cosa gliene viene a chi possiede il bene?» «A questo,» dissi, «mi è più facile rispondere: sarà felice.» «E, infatti, concluse, è proprio per il possesso del bene che le persone felici sono tali e non è proprio il caso di star lì a chiedersi perché uno vuole essere felice. Mi pare che la domanda abbia già avuto la sua risposta definitiva.» «È vero quello che dici,» ammisi. «E allora, questo desiderio e questo amore, credi siano un po' comuni a tutti gli uomini e che tutti desiderano sempre possedere il bene o pensi diversamente?» «Sì, io credo proprio che siano comuni a tutti,» feci. «E, allora, Socrate,» continuò, «come mai non diciamo che tutti quanti gli uomini amano dato che tutti desiderano sempre le stesse cose, ma diciamo, invece, che solo alcuni amano ed altri no?» «Anch'io me ne meraviglio,» ammisi. «E non devi stupirtene,» riprese, «siamo noi, infatti, che prendiamo, dell'amore, soltanto un aspetto e a questo solo diamo il nome generico di ‹amore›, mentre per il resto usiamo altri appellativi.» «Cioè,» chiesi. «Ecco, tu sai che la poesia è creazione ed ha un significato quanto mai vasto; tutto ciò, infatti per cui qualcosa passa dal non essere all'essere, è poesia e, quindi, ogni attività creativa è poesia e tutti i creatori sono poeti.» «È vero.» «Ma intanto,» continuò lei, «sai che non tutti sono chiamati poeti, ma con altri nomi; di tutte le attività creative, solo alcune e precisamente quelle che si occupano della musica e della metrica, noi chiamiamo poesia; solo questa è poesia e poeti, solo quelli che si dedicano a questo particolare aspetto della poesia.» «È vero,» ammisi. «E così è anche per l'amore. In genere ogni desiderio di bene e di felicità è, per ognuno, ‹possente e ingannevole amore›, ma mentre quelli che cercano di realizzarlo per altre vie, come per esempio attraverso i guadagni o l'educazione fisica o la filosofia, noi non diciamo che amano né che sono amanti, gli altri, invece, quelli che seguono e preferiscono un particolare tipo d'amore, ne prendono anche il nome generico: amore, amare, amanti.» «Sembra proprio che tu abbia ragione,» confermai. «Eppure va in giro un certo discorso secondo il quale gli amanti sono quelli che cercano la loro metà. La mia opinione, invece, è che non esiste amore né per la metà, né per l'intero, a meno che, mio caro, non si tratti di un bene; perché gli uomini si lascerebbero tagliare volentieri e mani e piedi se li credessero dannosi per loro, perché io credo che nessuno ami le cose proprie a meno che ciò che ci appartiene non sia il bene e ciò che ci è estraneo, invece, il male; infatti, gli uomini non amano altro che il bene. Non pare anche a te?» «Per Giove, a me sì,» ammisi. «E, dunque, possiamo senz'altro affermare che gli uomini amano il bene?» «Sì,» confermai. «Ebbene,    non bisogna aggiungere che essi, questo bene, desiderano anche possederlo?» «Sicuro.» «E non solo possederlo per un momento, ma per sempre?» «Sicuro, anche questo bisogna aggiungere,» feci. «Per concludere, l'amore è possesso perenne del bene.» «È verissimo quello che dici,» feci.    «Ora, se questo è l'amore,» proseguì, «quando è che la sollecitudine e lo sforzo di quelli che, in ogni modo e in ogni azione, lo perseguono, può chiamarsi, appunto, amore? Quand'è, insomma, che questo succede? Sai rispondere?» «Se lo sapessi, Diotima, non sarei così pieno di meraviglia per la tua sapienza, né sarei venuto da te per imparar tutto questo.» «E, allora, te lo dirò io: quando si concepisce nel bello, sia da parte del corpo che da parte dello spirito.» «Bisognerebbe essere indovini,» azzardai io, «per capire quello che dici ed io, proprio non lo sono.» «Mi spiegherò più chiaramente,» fece. «Tutti gli uomini, Socrate, hanno in loro, nel corpo come nell'anima, un seme fecondo e quando giungono a una certa età, come per un bisogno naturale, desiderano produrre qualcosa; concepire nel brutto, però, non è possibile, nel bello, invece, sì. Così l'unione dell'uomo con la donna è procreazione ed è veramente quest'atto una cosa divina, questo concepire e generare è veramente ciò che di immortale ha la creatura che pure ha vita mortale. Ma tutto ciò non può avvenire nella disarmonia; e disarmonia, rispetto a tutto ciò che è divino, è il brutto, come il bello è armonia. Quindi la bellezza fa da Parca e da Ilitia al miracolo della vita. Per questo, quando chi ha dentro di sé un seme fecondo, si avvicina al bello, diventa sereno, atteggia a letizia l'animo suo e allora crea, produce; quando, invece, s'accosta al brutto, allora, s'incupisce, si chiude in se stesso tutto afflitto, si ritrae, si ravvolge e non genera ma resta col suo seme fecondo e ne soffre. Di qui, nella creatura feconda e già ricca, sorge un intenso desiderio per tutto ciò che è bello perché il bello soltanto libera chi lo possiede da atroci doglie. Infatti, Socrate,» concluse, «Amore non è amore del bello, come tu credi.» «Ma, allora, cos'è?» «produrre e creare nel bello.» «E sia,» ammisi. «Sicuro,» confermò lei. «E perché questo generare? Perché generare è quanto di sempre rinascente e immortale vi possa essere in una creatura mortale. E l'immortalità è naturale che si desideri come il bene, almeno da quel che abbiamo convenuto se è vero che amore è possesso perenne del bene; ne consegue, inoltre, da tutto questo discorso che l'amore è amore di immortalità.»    Queste cose ella mi insegnava, quando indugiava a parlarmi di questioni d'amore e, un giorno, mi chiese: «Quale pensi, Socrate, sia la causa di tutto questo amore, questo desiderio? Non vedi in che terribile stato son tutti gli animali, sia quelli che camminano sulla terra che quelli che volano nel cielo, quando son presi dal desiderio di generare, malati tutti d'amore, prima per il desiderio d'accoppiarsi tra loro, poi per la cura e per l'allevamento dei loro nati, e son pronti a combattere per essi, perfino i più deboli contro i più forti e a dare la vita oppure a lasciarsi morire di fame per nutrirli e a far qualunque altra cosa. Gli uomini, si può dire, che facciano tutto questo perché dotati di ragione ma, negli animali, donde proviene questa disposizione all'amore? Sai dirmelo?» E io ancora ad ammettere di non saperlo. «E credi,» continuò ella, «allora di diventare un esperto nelle questioni d'amore se non sai nemmeno questo?» «Ma proprio per questo, Diotima, come t'ho già detto, io son qui, perché so che ho bisogno di maestri. Dimmela tu, dunque, la causa di queste cose e di tutto ciò che riguarda l'amore.» «Orbene, se tu sei convinto che l'amore, per natura, tende a ciò su cui più volte s'è discusso, non devi meravigliarti; anche ora vale il discorso di prima che cioè la natura mortale tende, sempre, per quanto le sia concesso, di essere immortale. E le è possibile in un modo soltanto, attraverso la procreazione, per cui essa lascia sempre un essere nuovo al posto del vecchio, il che succede anche nella vita di ogni creatura, quando si dice che resta sempre la stessa; si dice, per esempio, che uno è sempre la stessa persona, da quando è bambino fino a che è vecchio; in effetti, si dirà che è sempre lo stesso individuo, benché in lui molte cose si mutino; ma si rinnova continuamente, perdendo sempre qualcosa, nei capelli, nelle sue ossa, nel suo sangue, insomma in tutto il suo corpo. E non solo nel corpo, ma anche nell'animo: sentimenti, abitudini, modo di pensare, desideri, piaceri, dolori, timori, ognuna di queste cose non resta sempre la stessa in un individuo, ma si rinnova e poi muore. Ma quel che è ancora più straordinario è che anche le nostre cognizioni non solo nascono e periscono e quindi noi non siamo sempre gli stessi nemmeno per quel che riguarda il nostro sapere, ma ciascuna, presa in se stessa, segue, anch'essa sempre la stessa sorte. Infatti quel che si dice esercitarsi nello studio presuppone che qualche cognizione possa sfuggire; dimenticare, infatti, vuol dir perdita di cognizioni, l'esercizio nello studio, invece, suscita un nuovo ricordo al posto di quel che s'è perduto e salva il sapere in modo che esso appaia sempre eguale. Del resto è in questo modo che si perpetua tutto ciò che è mortale, non col rimanere sempre e immutabilmente se stesso, come ciò che è divino, ma lasciando - ciò che invecchia e vien meno - qualcosa di nuovo al suo posto in tutto simile ad esso. Ecco, Socrate,» concluse, «in che modo tutto ciò che è mortale, sia esso corpo od altro, ha la possibilità di partecipare dell'immortalità; diversamente non c'è altro mezzo. Non stupirti, quindi, se ogni creatura, per legge naturale, cura e protegge il suo seme, perché in tutti, questo zelo e questo amore nascono dal desiderio dell'immortalità.»    Ed io sentendola parlare così, tutto stupito, le chiesi: «Ma sapientissima Diotima, sono proprio vere queste cose?» Ed ella con un fare tipicamente cattedratico: «Persuaditi pure, Socrate, che è proprio così; basta che tu faccia caso al desiderio di onori che hanno gli uomini; se tu non riflettessi a quel che ho detto, ti meraviglieresti della loro follia, considerando quanto grande è il loro desiderio di diventar famosi e acquistar gloria immortale per l'eternità e come per questo siano disposti a correre tutti i rischi, più che per i loro figli e sperperare ricchezze, sopportare fatiche, sacrificare perfino la loro vita. Credi proprio che Alcesti sarebbe morta per Admeto o Achille per Patroclo o il vostro Codro per conservare il regno ai figli, se essi non avessero creduto che sarebbe rimasta immortale la loro memoria, quale oggi noi la serbiamo? Assolutamente,» disse. «Invece, credo che ognuno faccia di tutto per ottenere merito imperituro le fama gloriosa (e questo quanto più si è migliori) affascinato com'è dall'immortalità. E così quelli che han fecondo il corpo si volgono essenzialmente alle donne e il loro modo d'amore si risolve nel generare figli e così procurarsi secondo loro, immortalità, memoria e felicità per tutto il tempo a venire. Quelli, invece, che han feconda l'anima (e ve ne sono fecondi spiritualmente più di quanto non lo siano nel corpo), di una fecondità, beninteso che si addice all'anima, ma quale? la saggezza e ogni altra specie di virtù,» diceva, «di cui tutti i poeti sono gli artefici, insieme a quegli artigiani che hanno il nome di inventori; la più alta e più bella forma di saggezza è quella relativa all'ordinamento dello Stato e di ogni organismo sociale, quella che prende il nome di prudenza e di giustizia. Dunque, quando uno di quelli, quasi esseri divini, fin da giovane, ha l'animo fecondo di tali cose e quando, giunto all'età giusta, desidera creare e produrre, io credo che anche lui vada alla ricerca del bello in cui generare; perché nel brutto non lo farà mai. Quindi, fecondo com'è, sentirà maggiore attrazione per le belle sembianze che per le brutte, figuriamoci poi se, in più, incontra un'anima bella e gentile; quando si rallegra di questo felice connubio, accanto a una simile creatura egli sentirà tutto un fervore di ammaestramenti sulla virtù e sul come un uomo per bene debba comportarsi, iniziando, così, la sua opera di educatore. Infatti, penso che a contatto con una bella creatura, convivendole accanto, egli esprima e dia alla luce ciò che da tempo custodiva dentro e, o che le stia vicino o che le stia lontano, sempre la porta alla memoria e nutre, insieme con lei, ciò che è nato dalla loro unione; e tra loro nasce un'intimità, un legame molto più profondo di quello che lega i genitori ai figli, un affetto più intenso dato che hanno in comune figlioli più belli e immortali. Ognuno preferirebbe figli simili piuttosto che creature umane e guardando a Omero o a Esiodo o agli altri grandi poeti non può non provare invidia pensando quale progenie, immortale essa stessa, essi hanno lasciato, che ha loro assicurato memoria e gloria eterna o, se tu vuoi, diceva, figli come quelli che Licurgo lasciò a Sparta, a salvezza di Sparta o meglio ancora di tutta la Grecia; così presso di voi è onorato Solone per avervi dato le leggi e così altrove, altri grandi uomini, sia in    Grecia che nei paesi stranieri, che hanno compiuto molte e belle opere, realizzando ogni sorta di virtù. Per questi loro fieli sono già stati tributati ad essi molti onori, il che mai nessuno s'ebbe per quelli di carne e di ossa.»    «Ebbene, Socrate, io penso,» continuò, «che anche tu potresti essere iniziato alle cose d'Amore, ma fin qui; a un grado più alto, a quello contemplativo, cui si giunge appunto passando attraverso questi stadi, sempre che si proceda sulla via giusta, non credo tu sia adatto. Tuttavia te ne parlerò egualmente e farò del mio meglio,» disse; «tu cerca, intanto, di seguirmi come puoi. Dunque,» incominciò a dire, «è necessario, prima di tutto che chi vuol tendere a questo fine, debba, fin da giovane, avvicinarsi alla bellezza fisica e, sin dall'inizio, se chi lo guida lo dirige bene, amare una sola persona e ad essa rivolgere i migliori discorsi; successivamente dovrà pur rendersi conto che la bellezza che alberga nel corpo di una persona, è sorella di quella che può esservi in ogni altra e che quindi se bisogna ricercare quella bellezza che è insita nelle forme visibili, sarebbe sciocco pensare che essa non sia identica e uguale per tutti i corpi; convinto di questo deve, allora, sentire trasporto per tutti quelli che hanno belle sembianze e frenare un po' la sua passione nei riguardi di una sola persona, riconoscendo come ciò sia meschino e mediocre. Ma, infine, deve ben comprendere che la bellezza spirituale ha pregi assai maggiori di quella fisica, di modo che se dovesse incontrare una creatura dall'anima bella ma dal corpo non florido, se ne contenti egualmente ed ugualmente se ne innamori e le mostri sollecitudine e sia l'autore di discorsi tali che rendano migliori i giovani, per cogliere poi, da qui, la bellezza che è nelle azioni e nelle istituzioni umane e comprendere come essa sia, ovunque, sempre se stessa e persuadersi come la bellezza fisica sia ben piccola cosa. Dopo le attività umane, si rivolga alla scienza per conoscerne la bellezza e ammirarne l'ampio dominio sul quale ormai ella si spande: così non sarà più come uno schiavo, preso d'amore per un sol giovinetto o per un solo uomo o per una sola attività, non sarà più succube inetto e meschino ma, rivolto allo sterminato oceano della bellezza e contemplandolo, potrà dar vita a molti e bei discorsi, a splendidi pensieri concepiti nell'amore infinito per la sapienza finché egli stesso, rinvigorito e arricchito, non riuscirà a scorgere che una scienza unica che ha per oggetto la stessa bellezza. Ma cerca, ora,» continuò, «più che puoi, di farmi attenzione.    «Chi è stato, via via, guidato fin qui nelle questioni d'amore attraverso la contemplazione delle cose belle, quando sarà giunto al termine di questa iniziazione, scorgerà, Socrate, a un tratto, una meravigliosa bellezza, quella stessa che era un po' la ragione di ogni sua precedente fatica, una bellezza, anzitutto, eterna, che non ha origine né fine, che non cresce né si consuma e, inoltre, che non è per un verso bella e per un altro brutta o che a volte sì e a volte no, né bella da un punto di vista e brutta da un altro, né bella qui e brutta là, come se lo fosse per alcuni e per altri no, né, questa bellezza, gli apparirà con un volto o con due mani, né come qualcosa che possa riferirsi ad alcunché di corporeo e nemmeno come discorso o come dottrina, né come quella che possa esistere in qualche altra cosa, in altri esseri viventi, per esempio, o nella terra o nell'aria o altrove, ma quale essa è, in sé e per sé, sempre uniforme e mentre tutte le altre cose belle che di quella partecipano, nascono e periscono, essa non ha alterazione di sorta, in più o in meno, non subisce mutamento. E così, quando sollevandosi dalle cose terrene, in virtù anche dell'amore che si porta ai giovinetti, uno comincia a scorgere questa bellezza, allora potrà dire di essere vicino alla meta. Infatti questo è il retto cammino per procedere da soli o insieme a una guida verso le questioni d'amore, cominciare, cioè, dalle cose belle di quaggiù e, avendo come fine ultimo questa bellezza, innalzarsi continuamente, come su una scala, da uno a due, da due fino a tutti i bei corpi e da questi alle belle occupazioni e poi alle belle scienze, finché non si giunga a quella scienza che di null'altro è scienza che della stessa bellezza e finché non si conosca, giungendo, così, alla meta, il Bello in sé. Questo, caro Socrate,» diceva la straniera di Mantinea, «è il momento della vita che più di ogni altro, per un uomo, val la pena di vivere: quando giunge alla contemplazione della Bellezza in sé. Se una volta sola tu riuscirai a vederla, oh, ti sembrerà assai più preziosa dell'oro o di una veste o degli stessi bei fanciulli e giovinetti che ora guardi non senza un palpito e per i quali, tu e molti altri, se fosse possibile, rimarreste anche senza mangiare e senza bere, pur di poterveli sempre contemplare e stare in loro compagnia. Cosa succederebbe allora,» continuava a dire, «se uno riuscisse a vedere la Bellezza in sé, in tutta la sua adamantina purezza e non già quella offuscata dalla carne, dai colori, da tutte le altre vanità terrene, se gli riuscisse, insomma, di scoprire la Bellezza in sé, divina e uniforme? Credi forse che sarebbe miserabile la vita di quest'uomo che fissasse quel punto, lassù e lo contemplasse come va contemplato, congiunto con esso? Ed è soltanto in quel punto,» continuava, «contemplando la bellezza con quella facoltà che la rende visibile, che egli potrà dar vita non a parvenze di virtù, dato che non è a una falsa immagine di bellezza che egli si è accostato, ma a una virtù vera, per il fatto che egli è nella verità; non pensi, del resto, che avendo dato vita alla virtù vera e avendola continuamente alimentata, costui potrà diventare caro agli dei ed essere anch'egli immortale, se mai altro uomo lo è stato?» Queste cose, Fedro e anche tutti voi, Diotima mi ha detto ed io ne sono rimasto persuaso e come tale, quindi, cerco ora di persuadere gli altri che per il conseguimento di tanto bene, non è facile che l'uomo trovi chi possa meglio soccorrerlo dell'Amore. Per questo io affermo che ogni uomo deve onorare Amore, come io stesso faccio esercitandomi nelle sue discipline ed esorto gli altri a fare altrettanto ed ora e sempre esalto la potenza e la forza d'Amore, nel modo che ne sono capace. Ed ora, Fedro, questo discorso giudicalo, se credi, come un elogio d'Amore, altrimenti definiscilo pure come meglio ti piace.»    Quando Socrate ebbe concluso, continuò a riferirmi Aristodemo, e mentre tutti ne elogiavano il discorso, Aristofane stava per intervenire, perché Socrate aveva a un certo punto, fatto un'allusione sul suo conto a proposito di una certa teoria. Ma ecco che, a un tratto, si sentì picchiare alla porta dell'atrio e, poi, un gran vociare, come di gente allegra e la voce di una suonatrice di flauto. «E, allora, ragazzi, non correte a vedere?» esclamò Agatone ai servi; «se è gente di casa, fatela pure entrare, altrimenti dite che abbiam già finito di bere e stiamo riposando.» Dopo un po' si udi nell'atrio la voce di Alcibiade, ubriaco fradicio, che urlava a squarciagola chiedendo dove fosse Agatone e che lo conducessero da lui. Egli, infatti, comparve sulla soglia, sostenuto dalla suonatrice di flauto e da alcuni della compagnia e s'avanzò verso i convitati, incoronato da una folta ghirlanda di edera e di viole e con la testa piena di nastri. «Salve, amici,» esclamò, «lo volete con voi, a bere, un uomo già completamente ubriaco? Oppure possiamo soltanto mettere questa corona in testa ad Agatone, dato che siamo venuti per questo e poi filarcela subito? Ieri non mi è stato possibile venire e così eccomi qua ora, con questi nastri in testa, per passarli su quella di uno che, senza offesa per nessuno, è il più sapiente e il più bello di tutti. Ma voi ridete perché sono ubriaco? E ridete pure, tanto lo so; ma, piuttosto, ditemi, posso o non posso entrare? Berrete con me, o no?» Tutti allora si misero ad applaudirlo e gli dissero di entrare e di prender posto in mezzo a loro. Anche Agatone lo invita ed egli si fa avanti sorretto dai suoi amici e, togliendosi dal capo i nastri, fa le mosse di incoronarlo senza accorgersi che Socrate era proprio lì, sotto i suoi occhi, al punto che, quando egli si pose a sedere in mezzo a loro, questi dovette scostarsi per fargli posto. Non appena si fu accomodato, cominciò ad abbracciare Agatone e a cingerlo di ghirlande. «Ragazzi,» veniva, intanto, dicendo Agatone, «slacciate i sandali ad Alcibiade, ché si metta comodo e sia terzo tra noi due.» «Benissimo,» approvò Alcibiade, «ma chi è questo terzo?» e così dicendo si volse e vide Socrate; a quella vista fece un balzo: «Santi numi,» esclamò, «ma chi è questo? Proprio Socrate? Ti sei messo qui per giocarmi ancora qualche tiro e mi compari davanti, al tuo solito, quando meno me l'aspetto. Che sei venuto a fare? E perché ti sei messo qui e non vicino ad Aristofane o a qualche altro che voglia fare lo spiritoso? Ma tanto hai fatto che ti sei piazzato vicino al più bello.» E Socrate: «Vedi un po' di difendermi tu, Agatone, perché l'affetto di quest'uomo mi sta dando non pochi fastidi. Da quando, infatti, mi sono legato a lui, non posso più guardare una persona di bello aspetto, né stare un po' a conversare con nessuno perché, geloso e invidioso com'è, mi salta su e me ne dice un sacco e poco ci manca che non mi metta le mani addosso. Sta attento, quindi, che anche ora non me ne faccia una delle sue e cerca di mettere un po' di pace tra noi e difendimi, se egli vuol farmi ancora qualche sfuriata, perché comincio proprio ad aver paura delle sue manie e del suo temperamento eccessivo.» «Niente affatto,» gridò Alcibiade, «fra te e me, nessuna pace e di quello che hai detto faremo i conti dopo. Ora tu, Agatone,» riprese, «dammi un po' di questi nastri, ché incoroni anche lui, questa testa meravigliosa, in modo che non s'abbia poi a lagnare che ho cinto te di ghirlande e lui niente, lui che nel parlare vince tutti e sempre, non una volta sola, come te, ieri.»    E così dicendo prese dei nastri e incoronò Socrate, mettendosi, poi, comodo.    «E allora signori,» esclamò quando si fu messo a suo agio, «mi sa che qui volete fare gli astemi; non ve lo posso permettere; bisogna, invece, bere, così eravamo d'accordo. Fino a quando non avremo preso l'avvio, i brindisi li dirigo io. Avanti, Agatone, fa portare una bella coppa, di quelle grandi, anzi, anzi, non ce n'è bisogno; invece, ragazzo, dà qui quel vaso per tener il vino in fresco.» Ne aveva, infatti, intravisto uno che conteneva più di otto quartini abbondanti. Dopo esserselo riempito, se lo scolò per primo; poi disse di riempirlo per Socrate, soggiungendo: «Amici belli, con Socrate, però, non c'è niente da fare: più gli se ne versa e più ne beve e non c'è caso che si ubriachi.» Infatti, appena il servo versò, Socrate prese a bere. Ma Eressimaco, intervenendo. «Ma così che facciamo, Alcibiade? Vogliamo proprio starcene coi bicchieri in mano, senza dire una parola, senza cantare un po', vogliamo proprio darci sotto come tanti assetati?» «Salve, mio caro Eressimaco,» esclamò allora Alcibiade, «ottimo figlio di ottimo e assennatissimo padre.» «Salute anche a te,» rispose Eressimaco, «e, allora, che facciamo?» «Ai tuoi ordini, siamo qui per obbedirti: poiché un medico regge da solo il confronto con molti. Perciò, comanda quello che vuoi.» «Stammi a sentire, allora,» fece Eressimaco; «prima che tu venissi si era stabilito che ognuno di noi, partendo da destra, facesse un discorso in lode di Amore, come meglio ne fosse capace. Noi abbiamo già tutti quanti parlato, tu, invece, no e dato che hai bevuto, è giusto che ora tocchi a te; dopo, potrai proporre a Socrate quello che vorrai e lui, a sua volta, passerà l'invito al compagno che è alla sua destra e così gli altri.» «Oh, un'ottima idea la tua, Eressimaco,» fece Alcibiade, «solo che non puoi mettere a confronto il discorso di un ubriaco con quello di gente che s'è mantenuta sobria; e poi, mio caro, tu ci credi a quello che Socrate ha detto un momento fa? Non lo sai che è invece, tutto il contrario? Questo qui, se io mi metto in sua presenza a fare le lodi di qualcuno, uomo o dio che sia, solo per il fatto che non si tratta di lui, mica me le risparmia le legnate.» «Ma la vuoi piantare?» fece Socrate. «Per mille tempeste,» rimbeccò Alcibiade, «è inutile che protesti; in tua presenza io non posso lodare nessun altro.» «E allora, fa così,» intervenne Eressimaco; «se vuoi, loda Socrate.» «Come dici?» fece Alcibiade. «Vuoi proprio, Eressimaco, che io me la pigli con questo tipo e mi vendichi davanti a voi?» «Ma che ti salta in testa,» intervenne Socrate, «di prendermi in giro con la scusa dell'elogio? Ma che intenzioni hai?» «Dirò la verità e tu vedi se ti garba.» «Allora, sicuro, la verità te la concedo, anzi voglio che tu la dica.» «Eccomi subito a te,» fece Alcibiade, «e tu, intanto fa una cosa: se io non dico il vero, interrompimi se vuoi e dì pure che sto mentendo, per quanto io, di bugie, non ho intenzioni di dirne. Se, poi, nel riferire i fatti, io non andrò per ordine, non meravigliarti, perché non è certo facile, nello stato in cui sono, fare l'elenco ordinato e completo di tutte le tue stranezze.»    «Ebbene, signori, io, Socrate comincerò a lodarlo così, per immagini. Lui, crederà che io voglia continuar nello scherzo e invece, le immagini mi serviranno per precisare la verità, non per scherzare. Comincio col dire, infatti, che egli somiglia a quei sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, che hanno in mano zampogne e flauti, fatti in modo che, aprendosi a metà, mostrano, all'interno, immagini di divinità; e soggiungo anche che somiglia al satiro Marsia. Eh, sì, Socrate, ci somigli proprio, almeno nell'aspetto, tu stesso non puoi negarlo; e sta a sentire come poi ci somigli anche nel resto. Non sei forse petulante, e ti posso portare i testimoni se non vuoi ammetterlo. E non sei un suonatore di flauto? E come assai più portentoso di Marsia. Lui aveva bisogno dello strumento per incantare gli uomini a forza di fiato e così, anche oggi, deve fare lo stesso chi vuol suonare le sue melodie; (quelle che suonava Olimpo, infatti, erano di Marsia, che gliele aveva insegnate). Insomma le sue melodie, sia che le suoni un flautista di vaglia o una suonatrice di mezza tacca, sono le sole a commuoverci, a farci quasi sentire il desiderio di dio, divine come sono e di iniziarci ai suoi misteri. Tu soltanto in questo gli sei diverso, che senza strumento, con le sole parole, ottieni lo stesso risultato. Infatti noi, quando ascoltiamo qualcuno che parla, fosse pure il più bravo oratore di questo mondo, di quello che dice, non ce ne importa niente, per così dire, proprio niente di niente; quando invece ascoltiamo te, o anche soltanto un altro che riferisce i tuoi discorsi, fosse pure un buono a nulla, quanti ne siano, uomini, donne o giovani, restiamo tutti sbalorditi e affascinati. Quanto a me, signori, se non temessi di passare completamente per ubriaco, vi direi, dietro giuramento, quello che ho provato e provo ancora quando questo qui comincia a parlare. Quando lo sto a sentire, il cuore mi si mette a battere forte, peggio di quello dei Coribanti, alle sue parole mi vengono giù le lacrime e vedo tutti gli altri, ma tutti, quanti ne sono, che provano la stessa impressione. Quando invece sentivo parlare Pericle o altri bravi oratori, mi rendevo conto che anch'essi parlavano bene, eppure non provavo niente di simile, non mi sentivo l'anima in tumulto, né turbata al pensiero di essere una ben povera cosa. Ma per costui, invece, per questo Marsia qui, quante volte mi son sentito come se non mi fosse più possibile vivere come vivevo. E non dirai mica, Socrate, che tutto questo non sia vero? Ed io sono convinto che anche adesso, se decidessi di ascoltarlo, non riuscirei a resistere e proverei le stesse emozioni. Egli, inevitabilmente, mi farebbe persuaso delle mie molte deficienze e che, perciò, invece, di badare un po' a me stesso, m'intrigo dei fatti degli Ateniesi. E così, mio malgrado, io mi tappo le orecchie, come se fossi in mezzo alle sirene e scappo via perché non voglio mica invecchiare vicino a lui. Soltanto davanti a quest'uomo io ho provato una cosa che nessuno mi sospetterebbe: quella di vergognarmi. Davanti a lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la forza di contraddirlo, di oppormi a quello che mi dice di fare, ma poi, appena mi allontano da lui, ecco che mi lascio nuovamente prendere dal favore popolare; così lo evito e lo fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le cose di cui mi ha convinto, arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe addirittura piacere che non fosse più a questo mondo, anche se poi, so benissimo    che questo mi addolorerebbe assai di più e così, con un uomo simile, non so proprio come fare.    «E così, questi sono gli effetti che io e tanti altri proviamo per le melodie che questo satiro sa tirar fuori dal suo flauto. Ma state ancora a sentire come egli somiglia anche nel resto a quelli cui l'ho paragonato, e quale straordinario potere egli ha. Mettetevelo bene in testa, costui nessuno lo conosce: ma ve lo farò conoscere io, dato che mi ci trovo. Guardatelo qui, Socrate, pronto sempre a innamorarsi dei bei giovanotti, a corteggiarli, a perdere addirittura la testa; mica poi che capisca qualcosa, non sa proprio niente, almeno dall'apparenza. E questo non significa essere un sileno? Altro che: lo stesso aspetto esterno di una di quelle statuette di sileni; ma dentro, se lo aprite, ve la immaginate, commensali miei, la saggezza che ha? E poi, dovete sapere che a lui, non gliene importa niente se uno è bello, anzi lo tiene in così poco conto, che non ne avete l'idea; e se uno è ricco e ha tutto quello che, secondo la gente fa beato un uomo, egli dice che tutto questo non vale un bel niente, anzi che noi stessi siamo addirittura delle nullità, questo ve l'assicuro io. E per giunta passa la vita, poi, a fare il finto tonto e a pigliarsi un po' gioco di tutti. Se poi fa sul serio, però e si lascia veder dentro, non so se l'avete mai viste le bellezze che ha. Io però le ho viste, una volta, e mi son sembrate così divine, così preziose, stupende e straordinarie, che mi sentii soggiogato e pronto a fare tutto ciò che Socrate avesse voluto. Credendo che egli s'interessasse alla mia bellezza, pensai che era proprio un'occasione e una bella fortuna la mia se, cedendogli i miei favori, avessi potuto apprendere da lui tutte le cose che sapeva: io infatti andavo tutto superbo della mia bellezza. Con queste intenzioni, allora, io che prima non ero solito restarmene da solo con lui, senza la compagnia di un servo, un bel giorno congedai il mio schiavo e rimasi solo con lui. Bisogna che ve la dica tutta la verità e voi fate attenzione e se dico bugie, Socrate, smentiscimi pure. E così me ne rimasi solo soletto con lui ed io credevo che egli avrebbe subito attaccato con quei discorsi che di solito un innamorato fa al suo ragazzino, quando si trovano a tu per tu ed ero tutto contento. Invece, niente da fare ma, come al solito, parlò con me e giunta la sera, se ne andò. Vedendo questo, lo invitai, allora, a far ginnastica insieme a me, cominciai a esercitarmi con lui e speravo di concludere qualcosa. Anche lui, in verità, faceva i suoi bravi esercizi con me e lottavamo insieme, spesso senza che nessuno fosse presente. Ebbene, ve lo devo dire? Non ne cavai un bel niente. E quindi, visto che in questo modo non combinavo nulla, pensai che con un uomo simile bisognasse adoperare le maniere forti, altro che lasciar perdere, dato poi che mi ci ero messo, e vedere un po' come andava a finire la faccenda. E così lo invita a cena, addirittura come fa uno spasimante quando vuol far cascare la persona amata. Macché, mica accettò subito; tuttavia, dopo qualche tempo, si convinse. La prima volta che venne, però, volle andarsene subito, appena mangiato; quella volta io mi vergognai un po' e lo lasciai andare. La volta appresso, però, gli tesi il laccio e dopo che finimmo di mangiare, gli impiantai una discussione che si protrasse fino a tarda notte e così, quando fece le mosse di congedarsi, io gli dissi che ormai s'era fatto tardi e quindi lo convinsi a fermarsi. Così egli si mise a riposare in un letto accanto al mio, lì dove aveva cenato: nella sala, nessun altro avrebbe dormito tranne noi due. Fin qui niente di male nel mio racconto e anzi potrei continuare a parlare di fronte a tutti ma, a questo    punto, io non vi darei più nulla se, anzitutto, nel vino, come dice il detto (aggiungeteci pure i bambini o meno) non vi fosse la verità e poi perché mi sembrerebbe proprio una cosa ingiusta, dal momento che sto facendo l'elogio di Socrate, passare sotto silenzio il suo nobilissimo comportamento. Oltre a questo, ancora, io mi sento come uno che è stato morso da una vipera che, a quel che si dice, non vuol raccontarlo a nessuno, tranne a quelli che sono stati anch'essi morsi, ai soli, cioè, che potrebbero comprendere e compatire i suoi gesti e tutte le frasi che si dicono sotto l'influsso del dolore. Ed io che sono stato punto dal morso più doloroso e nella parte che più duole... al cuore o all'anima o come vuoi chiamarla, trafitto e punto dai ragionamenti filosofici che penetrano più profondamente del dente di una vipera specie quando afferrano l'anima di un giovane non mediocre e lo spingono a fare e a dire qualunque cosa... io che mi vedo dinanzi un Fedro, un Agatone, un Eressimaco, un Pausania, un Aristodemo, un Aristofane (e bisogna anche nominarlo Socrate?) e tanti altri, tutta gente un po' patita e fuori di sé per la filosofia... Eh, sì, per questo, ora, voi tutti, mi starete a sentire. E mi compatirete per quello che è accaduto allora e per quanto sto per dirvi ora. E voi, famigli e quanti ne siete, rozzi o villani, tappatevi con grossissime porte le orecchie.    «Dunque, signori, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati, pensai che non era più il caso di star lì a gingillarsi ma di esprimergli chiaramente le mie intenzioni. «Dormi, Socrate?» perciò gli chiesi scuotendolo. «Nient'affatto,» mi rispose. «Sai cos'ho pensato?» «Cosa?» «Che tu mi sembri l'unico amante degno di me, però mi pare che tu esiti a dichiararti. Però, sai, io ho deciso; credo proprio che sia da sciocchi non esserti compiacente in questo, come in tutto il resto, se tu ne avessi bisogno, dei miei amici per esempio, delle mie sostanze. Perché, vedi, niente mi sta più a cuore che diventare il più possibile migliore e nessuno, io penso, può far meglio di te al caso mio. Anzi mi vergognerei molto di più, di fronte alle persone intelligenti se non compiacessi un uomo simile, che non dinanzi alla gente ignorante se gli cedessi.» E lui, dopo essere stato lì a sentirmi, col suo solito fare un po' ironico: «Mio caro Alcibiade,» rispose, «può darsi proprio il caso che tu non sia uno sciocco se è vero che io ho tutto quello che tu dici e se c'è in me una specie di potere che ti possa far diventare migliore. Se è così, devi aver visto in me un'irresistibile bellezza, di gran lunga superiore alla tua e, rendendotene conto, ora cerchi di far comunella con me, di metterci le mani addosso e barattar bellezza con bellezza e così concludere, alle mie spalle, un affare non poco vantaggioso; cerchi, insomma, di pigliarti una bellezza vera in cambio della tua che è apparente e pensi proprio di scambiare oro con rame. Ma benedetto figliolo, fa più attenzione, ché tu non t'inganni nei miei riguardi, dato che io non sono proprio nulla. Il fatto è che l'occhio della mente comincia a veder chiaro quando s'affievolisce quello del corpo e per te, ce ne vuole del tempo.» Ed io dopo averlo ascoltato: «Per quel che mi riguarda, le cose stanno cosi ed io non ho detto nulla di diverso da quello che penso. Tu, piuttosto, devi decidere quello che è meglio per te e per me.» «Così va bene,» mi rispose. «In seguito vedremo e faremo quello che ci sembrerà meglio per tutti e due a proposito di questa faccenda e anche per il resto.» Quanto a me, dopo quello che aveva detto, e ora che avevo udito la sua risposta, come se gli avessi lanciato un dardo, pensavo d'averlo già bell'e trafitto. E così, senza dargli la possibilità di dire una parola di più, balzai su e gli gettai addosso il mio mantello (infatti eravamo d'inverno) ficcandomi, poi, sotto quello suo, logoro, e stringendolo nelle mie braccia (sì, proprio costui, questo essere veramente divino e meraviglioso) e tutta la notte gli stetti disteso vicino. Nemmeno questo, Socrate, puoi dire che non è vero. Ebbene, nonostante che io avessi osato tanto, si dimostrò superiore e mi disprezzò beffandosi della mia bellezza, schernendola; e si che io credevo di non essere mica poi tanto male, o giudici (sì, giudici dell'insolenza di Socrate); ebbene, sappiate, ve lo giuro su tutti gli dei e le dee, che io dopo aver passato la notte accanto a Socrate, mi alzai come se avessi dormito con mio padre o con mio fratello maggiore.    «Dopo tutto questo, ve lo immaginate come ci rimasi. Da una parte l'idea di essere stato disprezzato, dall'altra la mia ammirazione per le sue qualità, per la sua saggezza, per la sua forza d'animo. Mi resi conto di aver proprio incontrato un uomo quale non avrei immaginato, per rettitudine e per fortezza. E così non riuscii né a pigliarmela con lui e, quindi, troncare ogni rapporto, né, d'altro canto, a trovare il modo di conquistarlo. Sapevo benissimo che col denaro non c'era niente da fare: era più invulnerabile d'Aiace di fronte alle frecce, ed ora anche l'unico modo con cui pensavo di poterlo conquistare, m'era fallito. Privo così d'argomenti, schiavo quasi di quest'uomo, come nessuno lo fu mai d'alcun altro, gli stavo sempre dietro. Tutto questo accadde prima della campagna di Potidea, durante la quale combattemmo insieme e fummo anche compagni di mensa. Ricordo che alle fatiche era più resistente non solo di me ma di tutti quanti gli altri; quando poi si restava bloccati, tagliati fuori, come capita spesso in guerra e così ci toccava patir la fame, la capacità di resistenza degli altri non era niente al confronto della sua; quando invece c'era abbondanza, lui era il solo a godersela veramente; e a bere, poi, vinceva tutti, non perché ci fosse portato, ma solo quando ve lo spingevano e quello che è straordinario è che mai nessuno ha visto Socrate ubriaco e di questo, io credo che ne avrete anche ora una prova. Quanto poi a sopportare i rigori dell'inverno (e lì il gelo non scherza), era addirittura straordinario. Ricordo che, una volta, durante una gelata terribile, mentre tutti se ne stavano chiusi dentro e se qualcuno usciva, s'infagottava fino all'inverosimile e si fasciava i piedi con panni di feltro e pelli di pecora, lui se ne andò in giro con quel suo solito mantelluccio che porta sempre, camminando sul ghiaccio, a piedi nudi, assai meglio di quelli che avevano le scarpe; e i soldati lo guardavano un po' in cagnesco credendo che, così, egli li volesse umiliare.    «E a questo proposito, bisogna proprio sentire ‹quello che ancora fece e sostenne quest'uomo animoso,› laggiù, durante la spedizione. Tutto preso non so in quali pensieri, una volta se ne rimase in piedi, immobile a meditare, fin dal mattino presto e, poiché non riusciva a venirne a capo, non la smise, ma continuò a restarsene tutto assorto nelle sue riflessioni. Era già mezzogiorno e i soldati cominciarono a farci caso e a passarsi la voce, tutti stupiti che Socrate, pensando a chissà cosa, se ne stava lì dal mattino presto. In conclusione, col calar della sera, alcuni soldati della Ionia, dopo il rancio, portarono fuori, all'aperto, i loro pagliericci (s'era, infatti, in estate) per dormire al fresco ma anche per star lì un po' a vedere se quel tipo se ne fosse rimasto immobile tutta la notte. Ed egli lì se ne restò fino a che non si fece mattino e non spuntò il sole; dopo di che, fece al sole una preghiera e se ne andò. E in battaglia, poi, se volete sentire, perché anche questo bisogna riconoscergli. Quando ci fu quello scontro in cui i generali mi dettero una ricompensa al valore, nessun altro mi salvò tranne costui che non volle lasciarmi lì ferito ma riuscì a portarmi in salvo con le mie armi. Ed io, Socrate, in quell'occasione, insistetti perché la ricompensa la dessero a te (neanche in questo caso tu potrai riprendermi e dirmi che sto mentendo). E poiché i generali, considerando il mio rango, volevano dare a me la ricompensa, tu fosti più zelante di loro perché venisse a me attribuita invece che a te. E non è finita, signori miei, perché bisognava vederlo Socrate, quando il nostro esercito fu rotto a Delio. In quell'occasione io ero col mio cavallo, lui a piedi, con tutte le sue armi. Tra lo scompiglio delle truppe in fuga, dunque, egli ripiegava insieme a Lachete. Io per caso sopraggiungo e, vedendoli, grido di farsi coraggio, assicurandoli che non li avrei abbandonati. In quella occasione meglio che a Potidea, potetti ammirare Socrate, anche perché, a cavallo come ero, avevo meno da temere. Prima di tutto dimostrava un controllo superiore a quello dello stesso Lachete; secondariamente parve anche a me quello che tu stesso, Aristofane, hai detto di lui che cioè anche là egli camminava come qui, ‹tutto altero gettando occhiate di traverso›, tenendo sempre sott'occhio amici e nemici, facendo capire a tutti, anche a distanza, che se qualcuno lo avesse attaccato, egli era il tipo che si sarebbe difeso strenuamente. E così procedeva sicuro insieme al compagno, perché è proprio vero che quelli che si comportano così in guerra, i nemici nemmeno li toccano, mentre incalzano chi si dà a gambe levate. E ancora per molte altre cose, tutte straordinarie, Socrate andrebbe lodato. Probabilmente, però, queste altre qualità si possono anche trovare in qualche altro; quello che invece è meraviglioso è il fatto che lui non è simile a nessun uomo del passato né del nostro tempo. Ad Achille, per esempio si potrebbe avvicinare, in un certo qual modo, Brasida e altri e per Pericle potrebbe trovarsi una certa somiglianza con Nestore o Antenore e non con questi soltanto e altri paragoni se ne potrebbero far sempre. Ma quanto a quest'uomo, per il suo modo di fare, per i suoi discorsi, è impossibile trovare uno che gli somigli, nemmeno lontanamente, né tra i viventi, né tra gli antichi, a patto che uno non lo volesse paragonare, appunto come dicevo, lui e i suoi discorsi, ai sileni e ai satiri, ma non certo a un uomo. Anzi, a proposito, i suoi discorsi (me ne ero dimenticato di precisarvelo prima) sono proprio come i sileni che si aprono.    «Infatti, se uno si mette a sentire i discorsi di Socrate, all'inizio, gli sembreranno addirittura ridicoli, come sono tutti inviluppati per il di fuori, da termini e da sentenze, una specie di pelle di satiro petulante; infatti, non fa altro che parlare di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori e sembra che dica sempre le stesse cose, tanto che se uno non se ne intende o è uno sciocco, gli riderebbe dietro. Ma se cerchi di aprirli, i suoi discorsi, e di guardarvi dentro, prima di tutto ti accorgerai che sono i soli, tra tutti, ad avere un loro senso profondo, poi che sono addirittura divini, ricchi di ogni virtù possibile e immaginabile, volti al sublime o meglio a ciò che deve tener presente chi voglia diventare un vero galantuomo. Questo è quanto ho da dirvi in lode di Socrate, amici miei. Quanto al biasimo io ve l'ho già mescolato, riferendovi le offese che mi ha fatto; del resto egli non s'è comportato così solo con me, ma ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone e con Eutidemo, il figlio di Diocle e con molti altri, tutta gente che egli ha ingannato fingendo, appunto, la parte dell'innamorato, con la conseguenza che furono, invece, costoro ad innamorarsi di lui. E questo lo dico anche per te, Agatone, ché non debba cascarci anche tu in modo che, fatto esperto dalle nostre disavventure, tu possa stare in guardia da costui e non debba imparare, da citrullo, a proprie spese, come dice il proverbio.»    Appena Alcibiade ebbe concluso, l'ilarità fu generale, proprio per quel suo modo franco di parlare, anche perché, così, aveva fatto capire di essere ancora innamorato di Socrate. «Mi sembra, invece, che tu, Alcibiade, non abbia proprio bevuto per niente,» esclamò a un certo punto Socrate, «altrimenti non l'avresti rigirata tanto abilmente, nascondendo il vero scopo del tuo discorso e alludendovi solo alla fine, come un di più, come se tutto il tuo parlare non fosse stato per seminar zizzania tra me e Agatone, fissato come sei che io debba amare solo te e nessun altro e che Agatone devi amarlo soltanto tu e gli altri niente. Ma non t'è andata bene e questa tua farsa a base di satiri e di sileni è apparsa evidente. Mio caro Agatone, costui non deve spuntarla e bada tu che, tra me e te, nessuno venga a mettere disaccordo.» E Agatone, di rimando: «Ah, sì, Socrate, forse hai proprio ragione. Ora capisco perché s'è venuto a piazzare tra me e te, proprio per dividerci. Ma sta fresco, anzi, eccomi qua che ti torno vicino.» «Oh, benissimo,» fece Socrate, mettiti qua, al mio fianco.» «Santo cielo,» esclamò Alcibiade, «quante me ne fa passare quest'uomo. Vuole sempre stravincere; ma, almeno, mio straordinario amico, lascia che Agatone resti tra noi due.» «Impossibile,» fece Socrate. «Infatti tu hai fatto, in questo momento, le mie lodi ed ora tocca a me farle a quello che mi sta a destra. Quindi, se Agatone se ne viene vicino a te, non può mica mettersi a fare il mio elogio prima che io non abbia fatto il suo, ti pare? Piantala, quindi, tesoro, e non essere geloso se elogerò questo giovane: io desidero molto tesserne le lodi.» «Iuh, iuh, Alcibiade,» si mise a fare Agatone, «non è proprio il caso che io me ne resti qui, anzi, mi alzo subito perché le lodi di Socrate io le voglio avere.» «Eh, già,» commentò Alcibiade, «la solita musica; quando c'è Socrate, niente da fare con i belli. Guarda un po' anche adesso, come ha saputo trovarsela facilmente la sua ragione, in modo che costui gli si strofini al fianco.»    E così Agatone si alzò per mettersi vicino a Socrate, quando a un tratto, una numerosa brigata di buontemponi si fece sulla soglia e trovando la porta aperta perché qualcuno era uscito, irruppe dentro di filato verso di noi e ognuno si trovò comodamente il suo posto. Ne nacque un baccano dell'altro mondo e si perse ogni misura, tanto che ci demmo a bere a più non posso. Allora Eressimaco, Fedro e qualche altro se ne andarono, continuò a raccontarmi Aristodemo; quanto a lui fu vinto dal sonno e dormì profondamente anche perché le notti erano lunghe; si svegliò ch'era giorno e che i galli cantavano. Quando aprì gli occhi, vide che gli altri o dormivano ancora o se n'erano andati e che solo Agatone, Aristofane e Socrate erano svegli e bevevano da una grande coppa che si passavano da sinistra a destra. Socrate stava discorrendo con loro, ma Aristodemo disse che non ricordava quello che si dicevano dato che non li aveva seguiti fin dal principio e, poi, perché (almeno così disse) era tutto insonnolito, ma che, in conclusione, Socrate stava persuadendo i due amici ad ammettere che uno può comporre ugualmente sia commedie che tragedie e che chi, per vocazione, è poeta tragico, sarà anche poeta comico. Quelli, costretti ad ammetterlo, ma senza capir molto, sonnecchiavano. E ci disse che fu Aristofane ad addormentarsi per primo, poi, a giorno fatto, anche Agatone. Socrate, quando li vide addormentati, si alzò e se ne andò e lui, Aristodemo, com'era sua abitudine, lo seguì. Giunto al Liceo si lavò e, come al solito, trascorse il resto della giornata, poi verso sera se ne andò a casa a riposare.    Educazione guerriera Il filosofo Gallo Galli, voce narrate dell'educazione fascista scriveva: "La possibilità, la necessità della lotta armata è immanente alla coscienza nazionale, è presente in ogni momento di questa. …E non c'è dunque educazione veramente, vigorosamente nazionale, che non sia ache educazione guerriera."Una delle caratteristiche fondamentale – e forse la piu nuova e significative – che la scuola italiana e andata gradatamente acquistando e che sta per trradursi in aao nella piena chiarezza e precision delle idee direttive e della organizzazione tecnica, e l’impronta guerriera. Nel dominio dell’educazione, in cui tutta la vita di un popolo si riflette e da cui insieme trae alimento e vigorose affermazione, si fa valere, cosi, quell’attuarsi categorico della coscienza nazionale, che e la missione del Fascismo nella storia d’Italia … La coscienza militare, lo spirito guerreiero, non e qualcosa di diverse della coscienza nazionale; bensi costituisce con questa un duplice aspetto della elevazione dell’individuo al disopra del bene proprio particolare, per attuare le ragioni ideali della vita: un duplice aspetto in quell concetto della vita come missione, onde l’individuo perisce nelle sue forme superficiale e caduche e si sostanzia de realta universal ed eterna … Al dispora della nazione non esiste, invero, non puo esistere una organizzazione che equamente diriga e governi l’atttivita dei singoli gruppi sociali-nazionale e instauri, attraverso la composizione dei contrasti, un armónico equilibrio. … La possibilita, la necessita della lotta armata e immanente alla coscienza nazionale, e presente in ogni momento di questa; e la coscienza di essa e la preparazione dell’animo atto a combatterla sono; diremmo quasi, una seconda facia della coscienza nazionale. E non c’e dunque educazione veramente, vigorosamente nazionale, che non sia anche educazione guerriera. Ma non basta. Il compito specific dell’educazione guerriera, la preparazione alla lotta armata, ha un suo proprio carattere – in connessione con la natura e le esigenze di tale lotta – per cui non e soltanto il riflesso o, direbbesi, l’ombra dell’educazione nazionale, ma da questa in certo modo si distacca e su essa reagisce, aumentandone e integrandone il valore; e aumentando e integrando, inoltre, il valore anche dell’educazione generale. La preparazione alla lotta armata e in vero preparazione: 1) alla rinunzia piu complete al proprio io particolare; poiche si tratta di ninunzia alla vita, il primo ed il massimo dei beni e da tutti presupposto; 2) alla rinunzia – sia pure momentanea e quale mezzo a una superior affermazione – anche alla propria personalita spirituale, mediante l’obbedienza pronta ed intera: poiche la lotta e azione e nulla v’ha di piu dannoso e folle che discutere quando e il momento d’agire. Fornisce quell’agilita e pronezza di movimenti e quella resistenza alle fatiche e forza muscolare, in cui la lotta armata ha uno dei suoi mezzi piu essenziali. Non solo; per il riscio che e inerente a molti esercizi ginnastici, anche si rifugga dale acrobazie – con le quali si sarebbe fuori dal dominio educativo – essa e buon addestramento dell’animo alla lotta. L’educazione guerriera ha un contenuto per ricchezza ed importanza infinitamente superior a quello dell’educazione fistica; ma include questa necessariamente dentro di se. Giovera in ultima accentare agli sports, in quanto non significhino virtuosismo, ossia abilita tecniche e capacita fisiche prese come fine a se stesse, ma si dispongano nel Quadro generale dell’educazione quale stimolo allo sviluppo dell’uomo. Essi in questo caso sono il naturale sbocco dell’educazione fisica, o meglio l’educazione fisica nella pienezza della sua attuazione; poiche accentuano il momento del rischio e del consequente necessario dominio di se. Ma non bisogna esagerare riguardo al valore degli sports in ordine all’educazione guerriera. Questa ha il suo fondamento in un mondo ideale che a quelli e compiutamente estraneo; e si riferisce ad una condizione di cose in cui ben altro sir ischia che non qualche slogatura ed ammaccatura, e in cui l’Eroe non attende il plauso, ma si vota sereno e deciso al sacrifizio che, anche, rimanga oscuro.” Gallo Galli. Galli. Keywords: il fedro, sull’amore, metafisica dell’amore, fisiologia dell’amore, dialoghi dell’amore, dialoghi sull’amore, sul bello, l’uno e i molti, unum et multa – the one and the many – Plato – Aristotle – Parmenides’s aporia – D. F. Pears, “Universals” in Flew, Rosmini, Bruno, ermetico, Galileo, Serbati, Carlini, idealismo, idealismo critico, dialettica dello spirito, Renouvier, educazione guerriera, Sparta, Platone, Siracusa, dorio, guerriero, sacrifizio.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galli” – The Swimming-Pool Library.

 

Gallio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio Giunio Gallio – An orator with a reputation for his knowledge of philosophy. He adopted Lucio Anneo Novato, the elder brother of Seneca.

 

Grice e Galluppi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Tropea). Filosofo. “Gallupi is a great one; and much can be philosophised about his philosophy of the ‘parola come segno del pensiero’” – Grice: “On top, he was a Baron!” -- Eessential Italian philosopher. Figlio del barone Vincenzo e della nobildonna Lucrezia Galluppi, entrambi della stessa famiglia Galluppi, una delle antiche famiglie patrizie di Tropea.  Dopo lo studio della lingua latina, apprese filosofia sotto Ruffa. Trasferitosi a Santa Lucia del Mela, compì il corso elementare di filosofia e presso il Seminario vescovile della cittadina peloritana. Intraprese dunque lo studio a Napoli sotto Conforti.  Sposa Barbara d'Aquino, da cui ebbe quattordici figli, otto maschi e sei femmine.  Trascorreva le giornate di libertà nella residenza privata di famiglia, cioè Palazzo Galluppi, sulla Strada Provinziale a Caria, frazione di Drapia, alla biblioteca o al giardino. Pubblicò a Napoli “Sull'analisi e la sintesi”. Durante i moti aderì alla causa liberale sostenendo la riforma costituzionale dello Stato e protestando quindi contro l'intervento repressivo degli Austriaci. Si riavvicina alla monarchia. Insegna Filosofia a Napoli. Membro dell'Accademia Sebezia e dell'Accademia Pontaniana di Napoli, dell'Accademia degli Affatigati di Tropea, di quella del Crotalo di Catanzaro e della Florimentana di Monteleone.  Il suo merito maggiore consiste nell'avere introdotto in Italia Kant. Le Lettere filosofiche furono definite il primo saggio in Italia di una storia della filosofia.  A Pasquale Galluppi sono dedicati il Convitto nazionale, il Liceo Classico di Catanzaro e il Liceo Classico di Tropea. A Tropea, la sua città natale, è attivo il Centro studi Galluppiani, associazione culturale dedita alla ripubblicazione dell'opera omnia del filosofo e che di recente ha decretato l'ampliamento dei fini statutari, fino ad accogliere e curare altre interessanti iniziative di un certo spessore culturale.  Periodicamente, il Centro organizza il Congresso degli Studi Galluppiani, importante appuntamento di respiro nazionale, animato da studiosi e saggisti provenienti da tutta Italia.  L'attuale presidente è Luciano Meligrana. Altre personalità di notevole importanza nella storia del Centro studi Galluppiani sono stati Pugliese e Cane, filosofo, appassionatissimo studioso dell'opera di Galluppi.  Una vera dedizione, la sua che non è mai venuta meno fino alla fine della sua vita. Organizzatore infaticabile di seminari, simposi e conferenze, ha cercato di far conoscere il pensiero del Galluppi, favorendo la pubblicazione dell'opera inedita "La Filosofia della Matematica" la cui edizione lo ha visto anche quale curatore. Su Galluppi ha pubblicato numerosi saggi ed articoli in quotidiani e riviste specializzate.  Altre opere: “Memoria apologetica” (Napoli, Vincenzo Mozzola-Vocola); “Grice, ovvero, Sull'analisi e la sintesi” (Napoli, Verriento); “La conoscenza, o sia analisi distinta del pensiere umano, con un esame delle più importanti questioni dell'Ideologia, del Kantismo e della Filosofia trascendentale” (Napoli, Sangiacomo); “Filosofia” (Messina, Pappalardo); “Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia, relativamente a' principii della conoscenza umana da Cartesio insino a Kant inclusivamente” (Messina, Pappalardo); “Logica”; “Metafisica” (Firenze, Tipografia della Speranza); “La volontà” (Napoli, Giachetti); “Storia della filosofia” (Napoli); “Opera compresa in nove capitoli a cui si aggiunge l ‘Elogio funebre scritto da Errico Pessina, autore del Quadro storico dei sistemi filosofici” (Milano, Gio. Silvestri); “Autobiografia”, “Scritti”  (Milano, Dumolard); La filosofia del Galluppi e le sue relazioni col Kantismo, (Napoli, Morano); “Lettere filosofiche” (Bonafede, Palermo); “Epistolario Lettere private. Inedite e rare, Franco Ottonello, Milano, Franco Angeli ("Filosofia e scienza nell'età moderna" Collana a cura della Sezione di Milano dell'Istituto per la storia della filosofia. Dizionario biografico degli italiani. Quella specie di deduzione con cui da una causa, che cade sotto i sensi, deduciamo un efetto, che sotto i sensi non cade, o da un effetto, che cade sotto i sensi, deduciamo una causa, che sotto i sensi non cade, quando la connessione fra la causa e l'effeto non si presenta a noi come necessaria, è fondata su questa verità sperimentale, le cause simli producono o son accompagnate da effetti simili; ed effetti simili suppongono cause simili. Tutti e due questi modi di dedurre i fatti, che immediatamente non si sperimentano, costituiscono l’argomento detto di analogia. Si argomenta dunque per analogia, quando dair osservazione di soggetti simili si deducono qualità simili, e quando da cause simili si deducono effetti simili, o da effetti simili si deducono cause simili. Ma resistenze, che si deducono, sono di due manière. Alcune possono essere oggetto di esperie tua, altre non possono esserlo. Sebbene quando vedo l’acqua, che non ho ancorabevuto, e che giudico di aver essa la qualità di estinguermì la sete, non abbia ancora sperimentato in questo caso particolare la qualità di cui parlo; pure è essa un oggetto di esperienza, poiché posso di fatto sperimentarla, bevendo l’acqua che ho presente. Sebbene prima di vedere la liquefazione della neve, io la deduco dalla vicinanza del fuoco; pure questa liquefazione può colpire i miei sensi, ed essere un oggetto di esperienza. Ma vi sono infiniti casi, in cui l’esistenze che si deducono, non possono divenire oggetto di esperienza. Domandato ad un uomo perchè egli crede un fatto, che succede in luoghi ove non è, per  esempio, che il suo amico soggiorna alla campagna, o viaggia per la Francia, egli vi darà per ragione un altro fatto: allegherà una lettera che ha da lui ricevuto, alcune risoluzioni che gli vide prendere, alcune promesse che gli ha sentito fare. Ora in tutte queste deduzioni, si suppone, che alcuni dati moti dipendono dalla volontà dell’amico; si suppone in conseguenza, che il suo corpo sia animato da uno spirito simile al nostro. Ora lo spirito dell’amico, e le modificazioni inieinc di esso, non possono giammai divenire un oggetto di esperienza: noi non possiamo giammai sortire da noi stessi, e sentire l’anima sua, e ciò  che  in  essa acca(k; noi dunque qui argomentiamo da una esistenza, che è un oggetto sperimentale, ad un altra esistenza, che per noi non può giammai divenire un oggetto  di esperienza. Quando vedo la lettera, di cui si parla io giudico, che fu l’effetto de’ moti del corpo dell’amico, giudico inoltre, che questi moti  furono l’effetto  della  sua  volontà. Ora questa volontà io non la posso sentire giammai, risalgo dunque qui da un effetto che colpisce i sensi miei ad una causa, che non può giammai divenire un oggetto di esperienza. Similmente se vedo piangere un uomo giudico che egli è afflitto, ora l’afflizione di lui non puògiammai divenire un oggetto di esperienza per ne;  io dunque  deduco qui da ciò che sperimento una causa, che non posso  sperimentare. Ora si domanda: una tal deduzione è es M legittima? Allora che vedo un uomo, io vedo un corpo simile al mio: se lo vedo camminare vedo questo corpo eseguire certi moti simili a quelli, che io fo quando voglio camminare, da ciò conclude, che I moti del corpo che vedo suppongono una causa  simile a quella,  che ho sperimentato, vale a dire uno spirito, che vuole tali moti. Pare dunque, che questo caso possa ridursi alla stessa spezie di quello di sopra, cioè alla deduzione di  una  causa  simile da un effetto  simile. Ma vi ha qui una differenza, di cui bisogna tener conto. Quando dal vedere un orologio deduco 1’esistenza di un artifice, io ho osservato non solo gli effetti simili, ma anche le cause simili, vale a dire, ho veduta molti orologi fra i quali ho trovato della similitudine, ed Ito veduto ancora molti artefici di orologi, fra I quali ho trovato ancora della similitudine. Ciò non accade,quando da’ moti del corpo di un uomo deduco l’esistenza di uno spirito simile al mio, da cui questo corpo è animato. Io non ho giammai sperimentato un altro spirito,all’infuori del mio, quindi non lio giammai sperimentato la similitudine delle cause, da cui derivano gli effetti de' quali si parla, io dunque esco qui fuori deirespcnenia: se avessi erimontato piìi volte che alcuni moti di altri corpi simili al mio derivano da spiriti simili al mio, allora la mia deduzione avrebbe lo stesso fondamento dell’analogia, la quale mi autorizza a dedurre da effetti che sperimento,simili aquelli che ho sperimentato, cause simili aquelle che ho sperimentato. Ma qui siamo in un caso diverso;io sono racchiuso nella sola osservazione di una causa sola: ho sperimentato in me solo che alcuni dati moti procedono da un atto di volontà. Ma non 1’ho sperimentato in altri,nè posso giammai sperimentarlo; or chi mi autorizza a concludere da un caso solo una legge costante, ed universaledella natura? Nell'argomento di analogia si conclude per un caso ciò che abbiamo sperimentato costantemente in tutti gli altri , che ci son occorsi: ho sperimentato molte volte, che il fuoco posto in vicinanza della neve la liquefa, nè mi è occorso alcun caso, in cui non abbia ciò sperimentato: vedendo del  fuoco posto in vicinanza della neve concludo,  per questo caso particolare,  ciò che ho  sperimentato  costantemente nella moltitudine degli altri casi.  Ma quando al veder muovere gli altri uomini giudico, che sono animati da uno spirito simile al mio, procedo tutto al rovescio dell’analogia, poiché da un solo caso, vale a dire da ciò che sperimento in me, giudico tutti gli altri.  Questa obbiezione merita di esser esaminata, poiché l’analisi dei motivi de’nostri  giudizi  è1’oggetto della logica.  Io ho camminato un numero incalcolabile di volte, per varie direzioni, ed in vari luoghi:  ho sperimentato questo fatto costantemente unito al mio volere:  ho sperimentato fra il cammino di una volta equello di un altra una similitudine, ed una similitudine fra l’atto di volere di una volta e quello di un altra: ho dunque qui sperimentato, che effetti simili procedono da cause simili, vale a dire, che il camminare consiste in moti volontari ; quando dunque veggo camminare un altro uomo io concludo per questo caso particolare quello che ho sperimentato nella moltitudine de’casi particolari occorsi in me stesso;  non esco dunque dell’analogia, con cui si concludeda molli ad uno. È nondimeno incontrastabile , che l'illazione non può giammai divenire sperimentale, poiché 1’esistenza della volontà in un altro uomo', che io deduco dal' vederlo camminare, non può giammai divenire per me un oggetto di esperiaiza come può divenirlo questa illazione:il fuoco che vedo liquefarà la neve a cui è vicino: Ma ciò mi sembra,che non tolga alcuna forza  alla  deduzione,  che  esaminiamo. Quando dal vedere il fuoco posto in vicinanza della neve deduco la liquefazione di questa, io giudico prima dell'esperienza; ressere perciò l’illazione di natura a poter divenire un giudizio sperimentale,non influisce nella deduzione: l’illazione è vera per me per la sua connessione colle premesse; non già perchè è un giudizio, il quale può confermarsi coll’esperienza. Similmente l’illazione di analogia, con cui giudico che gli altri corpi umani, fuori del mio, sono animati da uno spirito simile al mio, è vera in forza della sua connessione colle premesse, e l’impossibilità che ha questo giudizio di divenire immediatamente sperimentale; non toglie mica il valore della deduzione. Ma qui conviene aggiugnere qualche cosa molto importante. Che I moti chiamati volontari, e che scorgo ne’corpi umani, non dipendano da una causa meccanica, ma da una causa intelligente, mi sembra una verità necessaria della stessa natura delle verità necessarie, che esprimono le leggi del moto,  di cui abbiamo di sopra parlato.  Se io sono ricco o potate,  e deadcro d'innalzare un edifìzio, mille braccia agiscono, e la mia volontà ha il suo effetto. La mia voce non ha fatto impressione sul corpo  de’travagliatori, se non die per mezzo dell’aria, e no nha prodotto nell’atmosfera on’ agitazione suflìciente a muovere de’corpi molto piìi piccoli di quelli, che  eseguono gli ordini  miei; la mia voce dunque non produce l’effetto come causa meccanica; bisogna perciò che un principio diverso dall’agitazione dell'aria, o dalla mia parola abbia prodotto questo moto ne’corpi, e che la mia parola abbia determinato  questo princijiio  a produrre  i moti, che chiamiamo voloiitai. Non si può riguardar la mia parola, se non che o come un molo eccitato nell’aria, o come l’espressione della mia volontà; la mia parola non ha potuto come causa meccanica produrre imoti, de’ quali parliamo, perchè ciò come abbiamo veduto,è contrario alla legge del moto, che un piccolo moto ne produca uno maggiore; al che si aggiunga , che la mia parola non avrebbe  prodotto moto alcuno  nell’Ottentotto, o in un altro individuo che parla un linguaggio  diverso dal  mio:  per la sola  espressione della mia volontà ha dunque potuto la mia parola determinare ad  agire il principio del moto de’corpi die mi hanno ubbidito. Questo principio è perciò un’intelligenza, poiché ha conosciuta la mia volontà nelle mie parole. La proposizione dunque: vi tono alcuni moti ne’ corpi umani dieerti dcU mio corpo, iquali hanno per causa una causa intelligente, mi sembra di verità necessaria. La proposizione poi: vi sono alcuni moti ne’corpi umani dècer si dal mio corpo i quali hanno per causa la volontà di uno spirito simile al mio, e per conseguenza tali corpi tono animati come il mio, è di verità contingente, e poggiata sull’analogia. Concludiamo nell’argomento di analogia si deducono spesso cause, (M  non  possono divenir giammai un oggetto di esperienza, sebbene sieno simili ad altre cause, che si sperimentano. 2.°  Vi tono nondimeno alcune deduzioni di esistenze, che non possono divenire sperimentali, le quali deduzioni danno verità necessarie in risultamento.  Questa seconda parte,della conclusione enunciata,si conferma da quello che abbiamo detto nell’  Ideologia  circa resistenza dell’assoluto. Questo non può certamente divenire un oggetto di esperienza, intanto la sua esistenza è il risultamento di un raziocinio legittimo, in cui una delle premesse è una verità  sperimentale. Noi diciamo; se vi è il condizionale, et dee essere l’assoluto. Questa proposizione esprime un giudizio  analitico, e necessario: vi e il condizionale. Questa seconda proposizione esprime un giudizio sperimentale; vi è dunque  r assoluto. L’illazione è una verità necessaria. L’empirisnto ci riserra nel solo circolo dell’esistenze, immediatamente sporimetitali;nè ci permette di passare da ciò,che cade immediatamente sotto 1’esperienza, a ciò  che  sotto la stessa immediatamente non cade.  Io vi ho fatto vedere il contrario; vi  ho dunque dimostrato la falsità dell’empirismo. L’argomento  di  analogia  è fondato  sul  rapporto  d’ identità ; ma l’identità  può fra due cose essere maggiore  o minore. L’identità fra il mio corpo ed il corpo di un altro individuo, che io chiamo uomo, è maggiore di quella che passa tra il mio corpo ed il corpo di un cavallo.  Ora si domanda: tino a qual grado d’identità l’analogìa è un argomento valevole, cioè un argomento certo  ì È questo un problema di difllcile soluzione. L’analogia ci rivela dunque 1'esistenza degli altri  q)ìriti simili al nostro. L’esperienza c’insa, che alcuni motivolontari in noi nascono, o sono accompagnati da alcune affezioni interne del nostro spirito; vedendo in conseguenza moti siniili in altri corpi umani, attribuiamo agli spiriti animatori di tali corpi affezioni simili a quelle che abbiamo sperimentato in noi. Allora che sono affetto dal sentimento della  sete, corro a bevere ad una fontana, che a me si presenta. Se dunque vedo un altro uomo camminare verso una fontana, e bevere, giudico, appoggiato sull’analogia, che egli sia modificato dal sentimento della sete, e che voglia bevere.  In queste deduzioni analogiche dovete osservare ciò che vi ho detto circa 1'aspettazione del futuro simile al passato, ili bisogna distinguere il sentimento della deduzione meditativa.  La dottrina generale che ivi vi ho spigato,  può applicarsi  all’oggetto  che ci occupava.  Noi supponiamo ne’nostri simili delle anime alla nostra simile: noi  facciamo tali sup^izioni in forza della I^gc  della nostra immaginazione, non già in forza de’raziocini, che abbiamo sviluppato.  Io suppongo l’incontro di due uomini, privi sino a questo momento di ogni commercio,ancora cògli animali; ridotti per conseguenza al circolo stretto de’ propri s/entimenti,  e delle proprie operazioni: ciascuno di essi vede nell’altro un essere che gli rassomiglia in tutte le cose,che presenta le stesse forme, possiede gli stessi organi,ne fa un simile uso; egli crede dunque il corpo che lo colpisce, animato da uno spirito. Or ecco, secondo la mia dottrina, come si opera questo fatto intellettuale. Io suppongo, che un di questi uomini vegga I'altro camminare,questa percezione risveglia i fantasmi simili del proprio corpo camminante in varie volte, e perciò anche i fantasmi del proprio me affetto in tali circostanze da tali e tali modificazioni: queste riproduzioni si fanno con somma rapidità in modo che non posson essere fissate dall'attenzione, esse sono perciò obbliate l'istante appresso, in cui si  s«n avute,intanto la percezione del corpo simile al proprio detemùna  l’attenzione non solamente ad essa sola, m’ancora  alla  percezione  simultanea  del  proprio  me, e lascia  fuire  le  percezioni successive simili del proprio corpo camminante in varie volte; la  piercezione del  me riprodotta  si lega  perciò a quella del corpo presente del mio simile, invece di legarsi a quella riprodotta del proprio corpo camminante , che  si  è obbliata,  e questo  legame  costituisce  il  sentimento  interno  di  questa  specie  di  credenza.  L'  obblio  delle  percezioni  riprodotte  del  proprio  corpo  camminante  in  varie  volte,  neH’atto  che  rimane  quella  riprodotta  del  proprio  me, fa  si,  che  questa  ultima  si  associi  a quella presente del corpo simile. La percezione riprodotta del proprio me rimane, perchè la percezione del corpocamminante e quella del proprio me son legati  naturalmente  in  una  comune  attenzione;  essendo  associate  dalla  natura  stessa;  qnella  riprodotta  del  corpo  camminante  si  ccclissa,  perchè  quella del  corpo  simile  camminante  richiama  l’ attenzione.  Lo spirito trasporta dunque fuor di lui col pcnsiere l’idea del proprio me,che egli immagina,e che stabilisce nel seno di quelle forme, che colpiscono I suoi sguardi, ed  a traverso delle quali il suo sentimento immediato non può penetrare. Egli presta dunque il suo me al suo simile, 1’anima della vita che respira in se stesso, e concepisce 1’esistenza di un altro uomo. Tale mi sembra la spiegazione del sentimento della credenza. Che esaminiamo. Risulta dalla stessa, che noi concependo ciò che pensano gli altri uomini,non usciamo  mica  da  noi  stessi.  Nel'  le  nostre  proprie  idee  noi  vediamo  le  loro  maniere  di  essere,  la  loro  stessa  esistenza.  Da  ciò  avviene,  che  1’uomo  misura  dal  proprio spirito quello degli altri, dal che nascono molti orrori. Noi non possiamo accuratamente determinare lo stato dei fanciulli; e conoscere  perciò l’epoca in cui hanno luògo leloro abitudini intellettuali. Ma egli mi sembra incontrastabile,  che queste abitudini si formano in loro mediante la rapiditll di talune associazioni.  I fanciulli  percepiscono  negli  altri  nomini de’ corpi simili al proprio: &si sperimentano alcuni  moti  spontanei  del  loro  corpo  ed  altri  simili  ne  percepiscono  nei  corpi  degli  altri  nomini; queste  similitudini , ed  altre, che  si  manifestano  piìi  tardi, determinano le associazioni di cui ho parlato. Ma  non solamente  i moti  volontari  che osserviamo negli altri , ci  menano  a supporre  nel  loro  spirito  alcune  medin-  cazioni; ma  ancora  certi  moti  e cambiamenti  necessari, che son gli stessi el Tetti  meccanici  i quali  accompagnano  i sentimenti interni  dell'  anima, come  il  tremore  e la  pallidezza  nello  spavento, le  grida, e le  lagrime  nel  dolore, il  riso,  e il  tripudio  nella  allegrezza.  Questi  si  manifestano  incontanen-  te da  se  medesimi , anche  ne’  fanciulli  appena  nati, principalmente i gridi ed il lamento, che accompagnano il dolore. Concludiamo. Noi  poniamo  per mezzo di alcuni cambiamenti, che osserviamo ne' corpi altrui pervenire a conoscere ciò che accade nel loro spirito.  Questa conoscenza può essere meccanica o sia  il  risultamenlo  del  sentimento  prodotto  da  alcune  rapide  associazioni,  e può  essere  ancora  V illazione  di  un  raziocinio legittimo di analogìa. Possiamo dir la stessa cosa in modo breve; questa conoscenza può essere o istintiva o ragionata. Da ciò si vede, che non è necessaria  una prima convenzione fra gli uomini acciò s’incomincino a intendere fra loro. La natura ha reso gli uomini tali,che  conversando  insieme  essi  s’iiit  elidono  naturalmente  anche  senza  l’istituzione  del  linguaggio. Seguiamo  la  supposizione  de’ due'solitari. Sebbene 1'uno abbia compreso ciò che accade nello spirito dell’altro,non tì è ancora un linguaggio propriamente detto;perchè non si parla, se non  quando si  cerca  di  farsi  intendere  ,ese  1’  uno  de’  due  individui  ha  penetrato  il  pensiero  dell’  altro  ciò  è accaduto senza che questi cercasse a farglielo conoscere.!due individui di cui parliamo, osservano, eh’eglino sono stati compresi,ed allora cercano di farsi comprendere  , e nascerà cosi il primo linguaggio.  Sviluppiamo  questa  dottrina.  Abbiamo  veduto,  che  il  corpo  degli  altri  uomini  ci  presenta  alcuni  avvenimenti, la percezione de’quali ci fa conoscere ciò che accade nel loro spirito. Ciò la cui idea eccita l’ idea di un’altra cosa chiamasi segno. Nel corpo di un altro nomo vi sono dunque de’segni delle interne modificazioni dello spirito animatore di questo corpo. Siccome tali segni son tali per la costituzione della nostranatura, cosi  si  chiamano  segni  nor  turali. Vi sono, in conseguenza, de’segni naturali de’pensieri o modi di essere dello spirito degli altri uomini. Ma non solamente vi sono di questi segni naturali de’pensieri altrui; ma 1’uomo può conoscere  , che vi sono, cioè può conoscere,che con alcuni dati mezzi si può manifestare altrui ciò che si sperimenta internamente nello spirito proprio. Supponiamo, che uno de’ due nomini supposti pianga, gridi, si lamenti, senza avere l’ intenzione dì manifestare all’altro il dolore, che egli sente; intanto 1’altro sapendo, che questi gridi,  e questi lamenti sono soliti ad accompagnare il dolore, conoscerà da questi segni il dolor dell’altro, ed accorrerà al soccorso di lui, questi perciò comprenderà da tutto questo,  che egli è stato compreso; e se avviene altra volta, che si trovi affetto dal dolore, ed in bisogno del soccorso  dell’  altro, piangerà  e griderà  coll’intenzione  di  manifestare  all’altro il  proprio  dolore.  Così  gli  uomini  incominciano  dal  comprendersi scambievolmente  ; in  seguito  conoscono , che  sono  stati  compresi,  e finalmente  si  determinano  a farsi  compren-  dere. Cosi si osserva in tutt’i fanciulli comunemente. A principio essi gridano, e si lamentano costretti unicamente dalla forza del dolore, senz’aver l’intenzione di manifestarlo con questi segni agli altri,anzi senza sapere neppure,che cosa alcuna si possa esprimere col pianto, e colle grida; ma appresso avendo imparato,che con tali segni si ottiene 1’altrui soccorso, cominciano a valersene avvertitamente per manifestare il loro dolore,  e ricevere  il  soccorso  che  bramano.  Ciò  di  cui  gli  uomini  si  servono,  per  manifestare  agli  altri  i pro-  pri pensieri , chiamasi  ugno  artificiale.  1 segni  naturali  divengono dunque  naturalmente  segni  artificiali. Qui  ha  termine  T educazione  della  natura  per  le  nostre  scambievoli comunicazicmi. La  natura  ha  insegnato  all’ uomo,  che  egli  può  farsi  intendere  ; e l’ uomo  può  non  solamente  servirsi de’mezzi,  che la natura gli ha mostrato per la comunicazione de’propri pensieri; ma può ancora  ritrovarne  degli altri  simili.  Il  primo e più  semplice  mezzo di comunicazione che si offre allo spirito, si è quello di ripetere con riflessione ciò eh’egli fece dapprincipio, senza prevederne le conseguenze, cioè di riprodurre quelle azioni, per mezzo delle quali^li si è fatto comprendere. Così si formerà un primo linguaggio, che  può  chiamarsi  linguaggio  della  natura,  poiché  esso  non  si  compone  se  non  che  de’si  naturali,  vale  a  dire  di  quei  segni di  cui  la  natura  aveva  già  senza  di  noi  rivestito i nostri  pensieri  spreti,  per  renderli  sensibili  agli  altri. Il linguagio della  natura  è insufficiente per manifestare agli altri tutt’i  nostri  pensieri. Noi  abbiamo al  presente il  linguaggio de’suoni  articolari. I filosofi disputano sull’origine di esso. La quistione si versa  sull’esistenza,  e su  la  possibilità,  cioè  si  cerca; gli uomini hanno esH da se stessi istituito il linguaggio. Questa ricerca suppone quest’altra: gli uomini abbandonati austusi potevano istituire il linguaggio. l nostri sacri libri  c’insegnano, che Adamo, ed Èva furono creati da Dio in uno stato adulto con delle conoscenze in istato di riflettere, e di comunicarsi I loro pensieri.  Iddio  ù maqiiestò  all’  uomo  innocente  ne’  primi  istanti  della  creazione. Iddio  è dunque l’ autore primitivo del linguaggio. Ma io suppongo', dice Condillac, che qualche tempo dopo il diluvio due bambini dell’uno, e dell’altro sesso siensi trariati ne’ deserti, avanti che conoscessero 1’ aso de’ vocaboli.  A fare questa supposizione,  egli dice,  io sono spinto dal fatto del giovane di Chartres rapportato nelle memorie dell’accademia delle  scienze,  anno 1703.  Era questi del’età di 23 a 24 anni sordo  c muto di nascita: cominciò con gran sorpresa di tutta la città tutto ad un colpo  a parlare.  Si  seppe  da  lui;  che  tre  o quattro  mesi  prima  egli  aveva  udito  il  suono  delle  campane,  ed  era  stato  estremamente  sorpreso  da  questa  sen-  sazione novella ed incognita. In seguito gli era sortita una specie di acqua dell’orecchia sinistra, ed aveva acquistato l’udito in tutte e due le orecchie. Egli impiegò tre o quattro mesi ad ascoltare senza nulla dire, assuefacendosi a ripetere  sotto  voce  le  parole,  ch’ali  udiva,  ed  esercitandosi  nella  pronunciazione,  e nelle  idee  legate  a’  vocaboli.   Io non so come questo fatto possa autorizzare il filosofo francese, a fare  la  supposizione di cui  parla,  se non  perché  ciò mena a poter  supporre, che due giovani di sesso diverso sordi e muti di nascita,  possono traviarsi ne’deserti o ne’boschi, indi incontrarsi,  e dopo l’ incontro ricever tutti e due  rudito.  Questa supposizione non ha niente di assurdo; ed è perciò lecito al filosofo di cercare, se in una tale supposizioneq uesti due giovani possano istituire una società, ed un linguaggio. A ciò si può aggiungere, che si rapporta, essersi in vari tempi vari fanciulli trovati ne’boschi; uno ne fu sorpreso nell’Asia l’anno 1334 in compagnia de’ lupi, un altro dell’età di circa 12 anni in Weteravia, un altro di 16 fu scontrato fra una torma di pecore selvatiche nell’Irlanda, verso alla metà del passato secolo, un altro di nove fra gli orsi nelle selve della Lituania nel 1662:in questo secolo medesimo uno ne fu scoperto presso ad Hamelen nella Sassonia, una fanciulla presso  a Lwlla nella provincia di Utrecht, ed un’altra fu arrotata presso Chalons nel 1731.  Io per altro non comprendo,  come questi fanciulli abbiano potuto vivere, se sono stati abbandonati, o perduti prima di potersi alimentar da se stessi, ed in conseguenza prima di avere una lingua. Si potrebbe supporre, che avevano principiato a parlare, quando si smarrirono; ma che poi nella solitudine avevano interamente obliato quanto avevano imparato.  Or si domanda:se due di questi di sesso diverso, si fossero per avventura incontrati nella stessa foresta, che  sarebbe egli  avvenuto? E per limitarci all’oggetto delle nostre ricerche, domandasi: avrebbero  essi  istituito  una  lingua. Tralitsciando dunque, sull’origine del  linguaggio,  la  quistione  di  fatto, è egli  lecito  di  esaminare  quella  della  possibili-  tà , o di  cercare  se  gli  nomini  abbandonati  a loro  stessi  avrebbero potuto  istituire  una  lingua? L’esame di una tal quistione è molto utile, per ben conoscere, e misurare le forze dello spirito umano,  e queste ricerche ipotetiche ci menano ancora a risultamenti, che hanno luogo nel fatto reale.   Io aggiungo dippiìi, che alcuni autori anche su l’autorità de’nostri libri divini, hanno creduto, che le lingue attuali sieno state istituite dagli uomini coll’uso delle loro forze naturali: ecco come può essere accaduta la cosa. Nel famoso avvenimento  della  costruzione della torre di Babele,  per forza miracolosa,  fu cancellata dalla mente degli uomini la memoria intera del primitivo linguaggio:  in seguito di un tale miracolo, gli uomini si divisero a torme secondo i rapporti di parentela e di amicizia, e si  stabilirono  hi  diverse  parti  della terra  : furono dunque  abbandonati  a se stessi, per istituirsi un  linguaggio; e così  perduto  interamente  il  linguaggio  primitivo  , dì  cui  era stato autore Iddio stesso,le  nuove lingue,che nacquero sulla terra, furono un prodotto dello spirito umano. In questo modo si spiega come gli uomini perduto,  per forza del miracolo,  il  primitivo  linguaggio, non  si  sieno  più  scambievolmente  intesi  ne’  linguaggi  rispettivi.  Questa  opinione  ammette  un  solo  miracolo,  quale è quello  della  memoria  perduta  del  linguaggio  primitivo , lad-  dove nell’opinione  contraria  bisogna  supporre  una  gran  moltitudine di  miracoli,  l’uno in forza del quale gli uomini abbianop erduto la memoria del linguaggio primitivo,   e gli altri con cui Iddio abbia istituito i diversi  linguaggi, che ebbero luogo dopo dell’avvenimento; ora si  potrebbe  dire,  non  e verisimile, che  Iddio  moltiplicasse inutilmente i miracoli.   Checché ne sia di tale opinione, noi esamineremo qui la quistione della possibilifb. il rispetto che il filosofo debbe alla religione divina, che c’illumina, mi ha condotto a questa digressione. Per esaminar la quistione proposta continuiamo la supposizione di sopra,e partiamo dal punto ove siam rimasti. Abbiamo veduto l.° che gli uomini per natura si comprendono scambievolmente. 2.° che  conoscono di essere stati compresi. 3.° che con ciò si fanno naturalmente un linguaggio artificiale, che è il linguaggio della natura. Vale ad ire che fanno uso de’segni naturali, per manifestare agli altri I propri pensieri. Ma il bisogno non potrebbe spingere gli uomini, a migliorare , cioè ad acrescere questo linguaggio della natura, ritrovando de’segni analoghi?   N pianto ed i gemiti  manifestano  agli  altri  il  dolore  da  cui  un  individuo  è affetto; ma non manifestano lyica la causa del dolore.  Ora gli uomini hanno spesso bisogno, per essere soccorsi, dì manifestare agli altri la causa del loro dolore: per tale oggetto alcune volte bastano le circostanze: uno de’due  suppposti  solitari  cade  in  una  fos.«a   egli  non  può  senza  l’al trui soccorso cavarsene  fuora: egli  grida -- 1’altro accorre, e si avvede della causa del dolore del suo simile.  Parimente se uno de’ due  è inseguito da una bestia feroce, e grida:  l’altro conosce dalla circostanza la causa del dolore del compagno. Spesso nondimeno la causa del dolore non apparisce dalle circostanze. Tutti generalmente acquistiamo l’abito, allorché ci sentiamo in alcuna parte addolorati, di recare colà la mano. Se dunque uno de’due supposti solitari sentirà dolore in  qualche  parte  ; egli  griderà, c la mano correrà naturalmente alla  parte addolorata : l'altro accorrendo alle grida, e spingendo  per  avventura lo sguardo là,dove è corsa la mano dell’altro conoscerà il luogo del dolore e se la causa del dolore fosse una ferita, o una contusione, o qualche altra cosa visible; allora conoscerà chiaramente questa causa. Qualora l’uno vorrà porgere all’altro alcuna cosa, amendue stenderanno la mano Tuno per darla,el’ altro  per  prenderla.  Questi  moti  della  mano  potranno  da  s^i  naturali  divenire  segni  artificiali, così  si  potrà  indicare  la  causa  del  dolore  recando la mano su la parte addolorata;e si potrà da uno de’due individui volendo dire all’altro che non è vicino qualche cosa;e non volendo o non potendo muoversi,stendere la mano con entro la cosa che gli vuol porgere. L’altro similmente se cosa alcuna bramerà aver dal compagno, porgerà la mano vòta per prendere ciò che desidera. Fin qui non si esce ancora dal linguaggio della natura;ma già siamo al termine di un altro linguaggio, a cui il primo ci  mena. Vi sono due specie di cose,  di cui gli nomini hanno bisogno di eccitare le idee negli altri: alcune  possono  nel momento  stesso colpire i sensi  tanto  di colui che  vuol parlare, quanto di colui a cui si vuol parlare; altre sono lontane o almeno  invisibili, e non esistono nel momento, se non che nello spirito di colui che vuol farsi comprendere: riguardo alle prime basta,che colui che vuol parlare, cioè che vuol farsi comprendere ecciti l’attenzione del suo compagno, e la  diriga  su  1’  oggetto  che  gli  vuol  mostrare.  Abbiamo veduto  , che  il  gesto  può  esser  naturale  e divenire  un  segno  artificiale ;ma alcune volte non è cosi:supponiamo,che uno de’due solitari voglia mostrare all’altro un oggetto lontano  ma  che  può  esser  veduto ; egli  avvertirà  il  suo  compagno  per un  grido, ed  allora  che  questi  volgerà  a lui  gli  sguardi , il  primo  dirigerà  Io  sguardo  su  l' oggetto, che vuole mostrare all’altro, e farà uso del dito,per meglio mostrargli la direzione,che  prende lo sguardo suo:l’altro r imiterà, el a sua curiosità lo porterà ad osservare ciò che occupa il suo compagno. Questi gridi, questi gesti, formano una prima spezie  di  segni  istituiti,  che  si  possono chiamare segni  indicatori.  Osservate  , che  i segni , di  cui  parlo , non  sono  segni  naturali,  perchè  il  grido  è naturale  nel  dolore e nel piacere:  esso diviene da naturale artificiale per denotare il dolore, o il piacere. Ma l’uno de’ due solitari avendo osservato, che 1’altro, quando egli manda fuori il grido,diriga al ui  il proprio sguardo, fa  uso  del  grido  per  obbligare  il  compagno  a fissare  su  di  lui  lo  sgiiardo:  cos)  il  grido  si  estende  a denotare ciò che denota questa  proposizione:volgiti  a me: inoltre lo stendere il dito verso l’oggetto che si vuol mostrare non è un segno naturale, ma un segno analogico, poiché vi ha una similitudine fra il moto che fa il dito, ed il moto che  far  dovrebbe  il  proprio  corpo  per  ginngerc  all’  oggetto, che  si  vuol  mostrare;  questi due  moti  avendo  la  stessa  direzione,  o pure, la  direzione del  dito  è identica colla direzione,  che prende lo sguardo.  Per tal ragione io credo, che  il gesto, di  cui  parlo, dovrebbe riguardarsi  piuttosto  come  un  segno imitativo,  poiché  il  moto  del  dito  imita  nella  direzione  il  moto  che  far  dovrebbe il proprio corpo per giungere pel cammino più corto all’oggetto, che si vuol mostrare, o pure imita la direzione dello sguardo; ma servendo tal gesto ad indicare un  (^etto, che può nello stesso momento colpire I sensi de' due solitari, gli si pùò dare il nome di segno indicatore. Questi due segni indicatori , di cui parliamo, equivalgono; a queste diK proposizioni :volgiti a me e guarda là. Vi ha inoltre de'segni imitativi, i quali servono a denotare alcune cose future,  od altre  cose che nel momento non possono colpire i sensi di tutti e due i solitari. Supponiamo, che uno di questi sia in A, 1'altro sia icmtano ma a vista del primo in B, che l’oggetto lontano ma a vista di tutti e due sia in C; inoltre cl» il primo non potendo muoversi per andare io C voglia manifestare all’altro che vada in C, e che prendendo l’oggetto bramato ivi posto, lo rechi a lui in  A; ecco come io immagino, che la cosa potrà farsi: il primo con un grido ecciterà 1'attenzione del compagno:  indi stenderà il dito nella direzione della linea fra A e B:  poi la muoverà nella direzione di una linea parallela a quella fra B e C:  con questo moto egli dirà al compagno che vada da B in C,  e questo moto sarà un segno imitativo del moto che il compagno dee fare , per secondare il desiderio dell’altro'io  A: questo moto, che il compagno dee fare, è una cosa futura, che non può nel momento colpire i sensi de’ due solitari: ecco dunque come con de’segni imitativi si possono denotare gli oggetti assenti. Supponiamo inoltre, che l'individuo posto in B si conduca in C: l’altro che si trova in A stenderà il suo braccio da A verso C in posizione orizzontale, indi farà un moto col braccio, imitativo di quello che dee fare il compagno per prendere l’oggetto posto in C: dopo di ciò ritornando a mettere il braccio nella stessa posizione orizzontale, lo ritrarrà a se con un moto contrario a quello, con cui rha steso, e che sarà imitativo di quello, che dee fare il compagno per venire da C in A. Con I segni imitative dunque si pò^no denotare le cose invisibili nel momento. Questi segni imitativi si possono eseguire in vari modi. Così per denotare una serpe si può su l’arena designare la sua forma, o il suo moto tortuoso.Abbiamo veduto, che vi sono de’segni naturali delle nostre  interne  modificazioni, e che  questi  segni  possono  divenire artificiali , e così costituire un primo linguaggio, che abbiamo chimato linguaggio della natura.  Abbiamo detto inoltre nell’antecedente, che 1’uomo può con altri segni accrescere questo linguaggio della natura; ed abbiamo chiamato I segni,  che accrescono il linguaggio della natura, segni indicatori, e segni imitativi. Ora qual principio può guidare l’uomo a ritrovare le ultiqie specie di segni? Nella logica pura lo spirito è naenato nel passare analiticamente da una proposizione ad un’altra, ad una certa similitudine che passa fra l’una e l’altra;  il  princìpio della similitudine è dunque un principio d’invenzione, e questo principio ha condotto gli uomini, partendo dal linguaggio della natura, a ritrovare i segni indicatori, ed i segni imitativi, queste due specie di segni possono perciò chiamarsi segni analogici. Difatto fra il moto del miodito, con cui mostro l’oggetto lontano, ed il moto che dovrei fare col mio corpo, per arrivare, pel cammino più breve, all’oggetto, vi si osserva una  similitudine:  una  certa  similitudine si osserva eziandio tra i  segni imitativi e ciò di cui sono  l'imitazione. Le interne modìficazioni dello spirito possono manifestarsi per mezzo de’ moti del corpo. Il desiderio, il rifiuto,  l’avversione, il disostosi esprimono per mezzo de’moti del braccio, della testa,  e per mezzo di quelli del corpo intero, moti piò o meno vivi, secondo la vivacità, con cui ci portiamo verso di un oggetto, o ce ne allontaniamo. Tutti i sentimenti dell’anima  possono esser espressi dalle posizioni del corpo. Esse dipingono di una maniera sensibile l’indifferenza, l’incertezza,  l’attenzione, e le altre affezioni interne. Ora se ripetendo queste azioni, e posizioni del corpo, si denota insieme, che esse non si riferiscono ad affezioni presenti, allora denoteranno le modificazioni, da cui siamo stati affetti.  L’analògia  acquista  spesso una grande estensione. Cosi,  per esempio, quando voglio attendere ad un oggetto, die colpisce i miei occhi, dirigo lo sguardo verso di esso: questa  direzione è segno dell’attenzione dello spirito; ma io posso ancora rivolgere la mia attenzione ad oggetti invisibili :se dunque per denotare questa ultima attenzione,  mi  servo  della direzione  dello  sguardo; questo  segno  si  estende al di là di ciò, che naturalmente denota.  Allora  che io peso un corpo,  lo paragono ad un altro; pesare  è dunque  paragonare; ma  paragonare  non  è sempre  pesare;  perciò  quando  per  esprimere l’azione intellettuale che paragona, io prendo nelle due mani de’corpi,come fo quando viglio pesarli, questa azione è trasportata a denotare  più  di  quello  che  denotava  in  origine.  Questa  terza  specie  di  segni,  che  l’analogìa  somministra  agli  nomini, si  possono  chiamare  segni  figurali.   L’  unione  de’ segni  indicatori, imitativi, o figurati  costituisce il  linguaggio  analogico.  Cosi  i segni naturali, divenendo artificiali,costitoiscono il linguaggio della natura: gli uomini guidati dal principio della similitudine, partendo dal principio della natura, inventano il linguaggio analogico.  Ma fa d’uopo considerare l’ultimo  linguaggio,  di cui abbìam parlato, in  colui che per parlarlo lo trova: ed in colui che l’intende. Nel primo, il principio della similitudine guida la meditazione a produrre nuove idee; nel secondo il principio della similitudine riproduce alcune idee simili a quelle, che modificano attualmente lo spirito. Quando colui che vuol parlare fa usoil primo di alcuni gesti, per denotare alcuni dati pensieri, li, guidato dall’analogia,  inventa questi segni, e questi segni, e questa invenzione è un prodotto della meditazione; ma colui che ascolta intende questi segni in forza del principio meccanico dell’associazione dellé idee. Fra i principi particolari compresi sotto questo principio generale, si contiene il principio della similitudine: in forza di questo principio il moto del dito riproduce l'idea del moto simile del corpo intero,e questa riproduce quella delle modificazioni interne dello spirito legate col moto del corpo intero. Colui che istituisce il linguaggio per farsi intendere èattivo:quegli che intende il linguaggio btituito èpassivo. I gesti, I moti del corpo, ed i suoni inarticolati costitubeono il linguaggio chiamato da Condillac linguaggio di aziona. Su di esso debba fare ancora due osservazioni. 1..° un tal linguaggio esiste ancora e esso accompagna quello de’suoni articolati ; un oratore parla eziandio coi gesti, colla posizione del corpo, co’ moti del corpo, e principalmente co’moti degli occhi.  Ciò che si chbma mimica consiste appunto nell’arte di far concordare il linguaggio di azione con quello de’suoni articolati. 2.° col solo linguaggio di azione, anche dopo l’istituzione di quello de’ suoni articolati,alcune nazioni incivilite esprimevano de’ lunghi discorsi. Presso I Romani I pantomimi rappresentavano de’pezzi interi,  senza proferire una parola, li bisognava dunque, che i pantomimi, partendo dal linguaggio della natura prendessero l’analogb  per guida, e così poterono pervenire a farsi intendere. La scrittura santa ci somministra ne’profeti molti esempi di questo linguaggio analogico di azione.  Così, per darne un esempio, ad ogetto di denotare che la Giudea ch’era imita con Dio, sarebbe poi stata da Dio rigettata e dispersa per la sua superbia ed idolatria, il profeta Geremia,  per l’ordine di Dio, si cinge con una cintura di lino I lombi, indi si toglie questa cintura,e presso l’Eufrate in un forame di una pietra la nasconde: dopo molti giorni ritorna aprendere la nascosta cintura, e la trova infracidita in modo, cf)’ era inutile per qualunque uso. Nella profezia di Geremia si possotm trovare molti esempi di questo linguaggio analogico di azione.Se i moti del nostro corpo da segni naturali divengono segni artificiali,e se questo linguaggio può essere accresciuto dall’analogia, quello de’suoni che da naturali sono ancora divenuti segni artificiali, non potrà similmente essere accrescinto dall’analogia stessa. Se il selvaggio, per denotare il moto che dee fare, secondo il suo desiderio, il suo compagno, può servirsi del moto simile del suo dito, perchè per  denotare il muggito del bove  , il belare delle pecore, il rumore del tuono, non potrà egli adoperare  un suono simile. L'analogia  che  1’ha menato all’invenzione dei primi segni, dee menarlo ancora all’invenzione de’secondi. Il bisogno di denotare questi suoni degli oggetti sonori,  mena il  sdvaggio a produrre fuori de’ suoni  imitativi, e così nascono le prime voci radicali del linguaggio de’ suoni articolati. Questi suoni non poterono essere dapprincipio se non che monosillabi,come lo prova l’esempio de’ fanciulli. Ma l’analogia non fu il solo principio del linguaggio de’suoni  alticolati,  poiché non  sempre si debbono denotare suoni, o cose sonore. Per denotare dunque le cose che non mandano suono,l'analogia fece però conoscere agli uomini,che potevano servirà de’suoni articolati, per farà comprendere.  Ciò  posto  se  il  selvaggio  si  trovò  nel  bisogno  di  farsi  comprendere , se  non  trovò  altro  mezzo  per  ottenere  il  suo  fine, se  non  quello  dei  suoni, perchè  non  potè  egli  produrre un suono arbitrario , il quale poi compreso dall’altro divenne un segno comune.Per rendere sensibile ciò che dico,supponiamo , che ì due solitari immaginati siensi perduti di fbta,e che l’uno voglia ritrovar 1’altro, egli conoscerà certamente, che non potrà far comprendere all’altro questa sua volontà, se non che per mezzo di un suono. Egli manderà dunque fuori un grido; questo grido da principio non sarà, come ognun vede, se non che un puro effetto naturale. Se il dolore è natiiralinente sonito da un suono inarticolato, dal  pianto e dal gemito; perchè  il  bisogno  di  spiegarsi, e di  mandar  fuori  un  suono  , non  potrà  esser  seguito  da  un  suono  quale  che  siasi? Noi non poliamo determinar la ragione, per cui il, selvaggio manda fuori un tal suono piuttosto che un altro,come volendo camminare non possiamo conoscere la ragione, perchè abbiamo mosso il piede diritto anzi che il sinistro, o questo anzi che quello. Questa ragione può consistere, almeno in parte, nella varia posizióne meccanica del nostro cervello, e generalmente di tutto il nostro corpo.  Ma  saniamo  lo  sviluppa  della  nostih  ipotesi.  L’altro  selvaggio sentendo il  grido, di cui si parla,accorrea  ritrovare il suo compagno, e come amendue avranno osservato, che un tal grido ha la forza di far che l’uno ritorni all’altro, I due solitari se ne serviranno appostatamente. lu tal caso la voce di cui parliamo ha lo stesso significato del verbo “vieni.” Può dunque l’uomo ritrovare dei suoni articolati non imitativi, per denotare agli altri le sue interne modificazioni. Egli può trovarsi nel bisogno di farsi comprendere dal suo simile con un suono:da un tal bisogno nasce la volontà di mandar fuori un suono. Questa volontà avrà il suo effetto, ed un suono sarà da lui mandato fuori; questo suono sarà tale e non altro,  perchè tale e non altro è lo stato fisico del corpo, che produce il suono , e lo stato morale ancora dello spirito animatore di questo corpo.Ecco spigata la nascita de’suoni arbitrari. Ciò che ho detto è provato coll’esempio de’ fanciulli: eglino innanzi che abbiano appreso a parlare,  quando bramano alcuna cosa ardentemente, nell’atto che si sforzano di acceimarla co’gesti, e co’ movimenti  del  corpo, per  lo  più  proferiscono  insieme  una  qualche  voce; poiché lo spirito quando, si trova in qualchegr ave bisogno mette ad un tempo tutte le sue facoltà in azione. Questo è comune alle bestie ancora. Anzi i sordi  muti medesimi, benché nemmeno sappiano di aver voce, ciò non ostante per non so qual movimento meccanico,  mentre  s'impegnano di spiegarsi co’lorogesti,  principalmente quando si trattadi cose  ,che molto l’interessano, e che  non  possono  facilmente farsi  comprendere  , mandano  anch’essi  quando  una,  e quando un’ altra voce. Gli uomini possono dunque istituire de’ suoni  articolati analogici,  e possono  istituire  ancora  de’ suoni  articolati arbitrari.  Io  li  chiamo  arbitrari,  non  già  perchè  son  pro-  dotti senza  una  ragion  sufficiente;  ma  perchè  non  sono  imi-  tativi, o analogici. Qual similitudine, per esempio, può mai trovarsi fra questo suono “cielo,” ed il complesso delle sensazioni visuali, che ci desta in una notte tranquilla il firmamento 7£ perchè la costituzione fisica emorale, in cui si son trovati gl’inventori delle lingue,allora che furono ndl  bisogno, di denotare con un suono uno stesso oggetto, è stata varia non solamente per la natura , eper gli abiti contratti,ma eziandio per I climi, ed I siti; perciò  in  diversi  luoghi  di  questo  globo  terraqueo  nacquero  diversi  suoni  primitivi, come  è provato  per  le  radici  di  tutte  le  lingue  cognite. n fatto  de’  fanciulli  prova  senza  replica , che  gli  uomini  possono  arrivare  a comprendere  il  linguaggio  arbitrario. E meditando  attentamente  su  di  questo  fatto  st  può  intendere come  ciò  possa  avvenire.  Supponiamo  che  un  fanciul-  lo' abbia  appreso il significato del vocabolo gallina, il che può accadere unendosi da alcuno alla prouunciazionc del vocabolo gallina l’indicazione del volatile dal vocabolo denotato: supponiamo inoltre, che il fanciullo abbia veduto una gallina morta  e che il giorno seguente ascolti da uno della famiglia questa proposizione: la gallina jeri morì, si accorgerà che si vuole denotare l’avvenimento, del la morte della gallina, accaduto,  il  giorno  innanzi.  Supponiamo ancora che la proposizione: “La gallina jeri mori” siasi udita più volte dal fanciullo in modo che egli 1'abbia impressa nella sua memoria ; « che avendo veduto ima cagna  partorita il giorno   avanti, e sapendo il signifìcato del vocabolo tagm, ascolti la seguente proposizione :“La cagna jeri  partorì.” ecco la serie de’  fatti  intellettuali che in tal caso avranno luogo nello  spirito del  fanciullo:  l.°  egli  intenderà  che  colla  proposizone,  la  cagna  jeri  partorì,  si  denota  il  parto  della  cagna  da  lui  il  giorno  antecedente  osservato: 2.o. la  pronunciazione del vocabolo jeri, per la le dell’associazione delle idee, riprodurrà nelsuo spirito l’altra proposizione, “la gallina jeri mori.” 3.°  volendo  intendere  il  significato  di  ciascun  vocabolo  delle  due  proposizioni,  il  fanciullo  dirigerà  la  meditazione  su  le  stes-se. 4.paragonando le due proposizioni fra di esse, e coi  fatti  dalle  stesse  denotate,  non  meno  che  i fatti  stessi  fra  di  loro  , il  fanciullo  vede  che  le  due  proposizioni  sono  identi-  che nel  vocabolo  jeri]  e che  i due  fatti  significati  sono  identici nella circostanza del tempo in cui sono accaduti;  essendo tutti  e due accaduti nel giorno precedente  a quello in cui si parla. 5.° con questi paragoni il fanciullo intenderà il significato del vocabolo “jeri” isolatamente considerato. 6.° dopo di ciò comprenderà eziandio il significato isolato de’ vocaboli mori «partorì; poiché  avendo  compreso  il  significato  in  confuso  delle  due  proposizioni,  ed  indi  il  significato  distinto  del  vocabolo “jeri,” e sapendo  dall’  altra  parte  il  significato  distinto  de’  vocaboli gallina,  e cagna,  conoscerà , che  i vocaboli  mo-  ri e partorì  sono  destinati  a denotare  i due  avvenimenti,  e ne  apprenderà  perciò  il  loro  distinto  significato.   Questo  esempio  fa  vedere  che  i fanciulli meditano prima di apprendere il linguaggio più di quello che comunemente si crede;ech e le nozioni soggettive d’identità,e dì diversità sono antecedenti alla conoscenza della propria lìngua, eservono ai  fanciulli  per  farla  loro  apprendere.  I vocaboli  o denotano gli  oggetti de’  nostri  pensieri, o l’ azione dello spirito su di questi oggetti: Pietro è con Paolo, i vocaboli  Pietro e Paolo denotano  gli  oggetti  de' nostri  pensieri  ; i vocaboli,  con denotano l'azione dello spirito su dì questi oggetti. Ma  ciò  richiede  ancora  una  maggiore  spiegazione. Il vocabolo significa l’azione dello spirito , che  attribuisce  a Paolo  il  rap-  porto di  compagnia  con  Pietro.  Ma  acciocché  lo  spirito  avesse  la  nozione  soggettiva  di  tal  rapporto, è necessaria  la  com-  parazione di  Pietro  con  Paolo'  riguardo  alla  loro  esistenza  in  un  certo  tempo , ed  in  un  certo  spazio  ; questa comparazione aggiunge all'idea assoluta diPaolo il rapporto di compagnia con Pietro: la voce con esprime un tal rapporto , e per  questa  ragione un tal vocabolo può  riguardarsi  eziandio  come  segno  dell’  azione  dello  spirito  che  compara.  Pur  tuttavia essendo il rapporto un prodotto della comparazione preliminare all’atto del giudizio, pare che sia maggior esattezza il distinguere i vocaboli, che denotano l’azione dello irito,in vocaboli di giudizio ed in vocaboli di rapporto.  £questa distinzione si trova in un opuscolo di Mariano Gigli, intitulato Metafisica  del  linguaggio. Secondo  questa  osservazione  i vocaboli  si  distinguono  in  vocabbli  di  cosa,  in  vocaboli  di  giudizio  ed  in  vocaboli  di  rapporto.  Così  nella  proposizione, “Pietro  è con  Paolo,” i vocaboli “Pietro” e “Paolo” son vocaboli di cosa, il vocabolo  i,  esprimendo l’atto del giudizio, è vocabolo di giudizio,  ed il vocabolo “con” è vocabolo di rapporto. Esso denota insime l’azione comparativa,  ed  il  rapporto  di  questa  azione.   Secondo  la  grammatica  generale  e ragionata  di  Portoreale,  i vocaboli  si  distii^cno  in  due  classi,  alcuni  significano  gli  oggetti  de’  nostri  pensieri , altri  significano  la  forma  , e la  maniera  de’ nostri  pensieri  di  cui  la  principale  è il  giudizio.  Questa  distinzione  mi  sembra  giusta , cd  in  seguito  di  ciò  che  abbiamo  detto  è chiara. I vocaboli materialmente considerati sono o radicali, o derivati, 0 toHituiti. Radicali,o primitivi son quelli, che non nasc<mo da altra voce conosciuta ed usata nella medesima lingua, come tote, dolce, fuggire  ec.  Derivati son quelli, che provengono da voci conosciute , ed  usate, nella  medesima  lingua , come  talare,  dolcezza,  fuggitivo ee.  Sostituiti  son  quelli,  che  per  maggiore  chiarezza , e per  brevità  si  pongono  in  luo-  go di  altre  voci  conosciute , ed  usate nella medesima  lingua,  come  mio  pensante  ec.  per  di  me,  che  pensa  ec.  È facile  a eomprendei  si  , che  ritrovati  i vocaboli  radicali  r analogia  ha  menato  gli  uomini  a ritrovare  i vocal>oti  deri-  vati, e sostituiti, e cosi ad accrescere  notabilmente il linguaggio. Difatti  quanti nomi  sostantivi  non  si  possono  trarre  dagli  aggettivi,  quanti  aggettivi  da'  sostantivi,  quanti  nomi  da'verbi,  quanti  verbi  da'  nomi  ? I sostantivi  nerezza, bianchezza,  lunghezza  ec.  tutti  vengono  da  nero,  bianco,  lungo;  gli  ag-  gettivi celeste, terrestre, marmo ec. derivano da cielo, terra, mare; I nomi speranza,amore,dolore, volontà  ec. derivano dai verbi sperare, amare, dolere, volere. 1wirbi velare, vestire ec.  nascono  da  velo,  veste.  Inoltre  quante  parole  formar  non  si possono dall’unione di due o più altre? I latini unendo il verbo “esse” a varie  proposizioni,  ne facevano  adesse,  ab-   esse, obesse , inesse , processe, prodesse, subesse;  superesse,  interesse.  Dall’unione poi di un nome e di un verbo, quanti altri composti  facessero  i greci  e gli  ebrei,  e quanti  ne  facciano i cinesi,  e tutti  gli  orientali,  è abbastanza  noto  agli  eru-  diti. Tutte le lingue originali, che  diconsi  lingue  madri,  hanno pochissime radici primitive,per mezzo delle varie combinazioni di queste compongono un gran  numero di vocaboli. Gli uomini dunque, per manifestare agli altri i propri pensieri, hanno potuto istituire il linguaggio dei suoniarticolati. Questa invenzione è la  causa  principale,  che  ha  condotto  il  geqere  umano  a quel  grado  di  coltura  e di  per-  fezione, in cui oggi lo vediamo. Il linguaggio fa l’analisi del pensiere, e come sia un valevole soccorso per la meditazione.  Ma indipendentemente dalla influenza che ha pel progresso delle nòstre conoscenze,  considerato  riguardo  all’  individuo  che se ne serve,  ne ha una notabilissima considerato riguardo alla  società, e relativamente all’individuo,  che ascolta e riceve le altrui conoscenze.  Il linguaggio può essere considerato come un mezzo, che fa progredire lo spirito nella propria meditazione; ed ancora come un mezzo di comunicazione  scambievole de’ pensieri degli uomini: nel primo caso serve d’istrumento  all’azione  meditativa, per  ritrovare  la  verità;  nel  secondo  presenta  allo  spirito  de’  nuovi  materiali  per  le  sue  conoscenze.  Gli uomini non potendo esistere in tutti i luoghi nè in  tutti  i tempi; segue  che  non  tutti  possono  osservare  tutti  i  fatti; un uomo può perciò aver osservato de’  fatti, che un altro non ha osservato. Se dunque il primo comunica al secondo le sue osservazioni, questi conoscerà de’ fatti che non ha osservato; equest a conoscenza avrà per motivo 1’altrui testimonianza,  e costituisce ciò che si chiama certezza morale^ Domandate, per esempio, ad un napolitano, il quale non sia mai uscito di questa città,perche egli creda l’ esistenza di tante altre città  , di Roma, di Milano, di Parigi, di Madrid, di Londra ec.; vi addurrà per motivo la testimonianza di altri uomini, che hanno veduto le città nominate, ed egli sarà tanto certo dell’esistenza di queste, quanto lo sarebbe, se le vedes» co’propri occhi.   Non basta,  che un uomo conosca un fatto,  che un altro ignora,  è necessario  che abbia la volontà di narrare il vero, afllnchè l’altro non fosse dalla testimonianza del primo ingannato. Per  disgrazia  dell’  umanità  la  volontà  d’ ingannare  i  propri  simili  si  trova  non  poche  volte  negli  uomini; e non poche volte ancora accade,  che gli uomini  ingannino non  già perchè  vogliono ingannare;  ma perchè  o non hanno conosciuta esattamente il vero, o sono   stati da altri ingannati. Da.ciò lo scetticismo ha preso il motivo di combattere la certezza morale.Ma dicano quello che vogliono gli scettici, l’esperienza ci  manifesta  queste  due  verità,  l,°un  uomo  può  aver  conosciuto de’  fatti,  che  un  altro,  o non  ha potuto  conoscere, o non ha conosciuto. 2.° vi sono alcuni fatti di tal natura, su de’ quali non si trova giammai concordemente fallace la testimonianza di coloro, che gli hanno osservati. Non si è trovatagiammai fallace la testimonianza di coloro che sono stati in Napoli , nello  assicurarmi  dell’  esistenza  di  questa  città  ;  r esperienza stessa me ne ha assicurato, poiché  essendo  io  stato  in  Napoli,  ho  ammirato  io  stesso  co’ miei  occhi  questa   magnifica  città, ed ho così trovata verace l’altrui testimonianza: la stessa esperienza ho ripetuto circa molti altrifatti. È dunque una verità di esperienza quella che stabilisce,  essere la concorde testimonianza di altri uomini, circa alcuni fatti, un motivo leggittimo dei nostri giudizi  Vi sono, è vero, degli uomini che narrano de' fatti, de’ quali non sono stati testimoni  oculari,  e su de’quali sono stati da altri ingannati ; e vi sono ancora di quelli,che volontariamente mentiscono. Ma vi sono eziandìo de’ testimoni non solamente oculari di alcuni fatti; ma testimoni tali che non somministrano alcun motivo di dubitare  della  loro  veracità.  È questa una verità che la propria giornaliera  esperienza  ci  manifesta.  Chiunque  non  ha  veduto  Napoleone  Bonaparte,è  sicuro  nulla  dì  meno, per  la  testimonianza  di  altri , che  vi  sia  stato  un  uomo  così  chiamato , il  quale  ha  esercitato  il  sommo potere  nella  Francia, ha  perduto  poi  il  trono, ed è morto prigioniero nell’Isola di S. Siena.  A suo  luogo  parleremo  de’limiti  della  certezza  morale: qui  mi son ristretto a stabilire la sua esistenza: per istabilirla ho stimato di salire a’suoi primi princìpi.  Ho fatto vedere, che un uomo, può intendere un altro, che l’uomo può voler essere inteso; e che da ciò nasce il primo linguaggio chiamato linguaggio della natura; che l’analogia può accrescere un tale linguaggio, e far  nascere ancora alcuni vocaboli radicali analogici; che il bisogno può  menare poi gli uomini a stabilire altri vocaboli radicali arbitrari; e che così ha potuto nascere il linguaggio, de’suoni articolati. L’esperioiza m’insegna, che vi sono delle cose circa le quali altri non s’ingannano, nè si propongono d’ ingannarmi.  Da  ciò  concludo,  che  l’altrui  testimonianza  ,  cioè il linguaggio volontario degli altri  nomini, può in molti casi,  circa ì fatti , essere un motivo legittimo  de’ nostri  giudizi. Io non posso coesistere a tutte le generazioni, ed  a  tutti  i luoghi. La mia durata è breve: il mio luogo è quasi un punto nello spazio. Intanto vi sono moltissime cose,die m’importa di conoscere,e che sono accadute prima della mìa nascita,o che accadono in luoghi più o meno lontani da quello ove io mi trovo.  La testimonianza altrui mi è dunque necessaria per l’ acquisto  di  tali  conoscenze.  Il  linguaggio de’suoni è un linguaggio passeggierò e limitato  ad alcuni luoghi.  Un uomo, che per mezzo delle parole comunica agli altri i suoi pensieri, non può farlo, se non che nel tempo in cui egli parla, e ne’luoghi ne’quali può estendersi il suono delle sue parole.  Un gran problema presentai al genere umano: il problema consiste  a trovare  il  mezzo  di  estendere  a tutti  i tempi , ed  a tutti  i luoghi , il  linguaggo  limitato  della  parola.  Voi  già comprendete l'importanza del problema enunciato, e che la soluzione di esso dee formare la seconda epoca,  del progresso delle umane conoscenze ponendo la prima  nella nascita del linguaggio  parlato.  I fatti  ovvi  e ripetuti  incessantemente  sogliono destar  poco  l’attenzione del volgo degli uomini, e perciò non gli recano sorpresa. Vi  ho  fatto  sopra  osservare  quale  studio  fanno  i  fanciulli  per  apprendere, sin da’ loro primi anni, ill inguaggio della parola; intanto si crede forse , che essi non meditino affatto; appunto perchè comunemente iiiuno cerca di conoscere come i fanciulli apprendano tal linguaggio.  E un errore il credere, che le cose sieno state in tutti itempi, come  sono  in  un certo tempo;  e qui  è il  luogo di fare uso di questa  importante  osservazione.  La  nostra educazione letteraria incomincia, dal  fare apprendere a’ fanciulli le lettere dell’alfabeto; ma v’ingannereste credendo,che la scrittura,vale a dire,l’arte di dipingere  la parola e di parlare agli occhi, sia stata conosciuta nella prima fanciullezza del genere umano : noscorsi de’ secoli prima che siensi trovate le lettere dell'alfabeto: la scrittura non  è stata conosciuta che molto tardi. Siccome questa ci somministra un motivo molto fecondo di conoscenze ,cosi è necessario,dopo di aver cercato l’origine del linguaggio parlato, di cercar quella del linguaggio scritto.Qual mezzo si può presentare agli uomini,per perpotuafc la memoria de’ fatti accaduti  ?In  primo luogo si può osservare un tal mezznello  stesso  linguaggio  parlato.  La propagazione  del  genere  umano  si  fa  in  modo,  che  gl’indi'  vidui  di  una  età  vivono  insieme  per  qualche tempo coi loro antenati , e coi loro discendenti. Un uomo può dunque narrare alla sua fìgliuolanza tanto quello che egli stesso ha veduto, quanto quello che c^Ii ha udito da suo padre, da suo avo, ed a tutti coloro, che sono stati testimoni oculari de’fatti accaduti prima della sua nascita, e del tempo in cui egli avesse potuto osservarli, questo uomo essendo il primo testimone di udito, costituisce il secondo anello della testimonianza; gli altri che ascoltano il fatto da lui narrato ne costituiscono il terzo, il quarto  ec. Così si forma una serie non interrotta di testimoni oculari,  e costituisce ciò che chiamasi tradizione orale.  La maniera più generalmente adoprata ne’primi tempi,  per osservare la tradizione orale, era quella di comporre una specie di ode o di cantico.Cotesta sorte di poesia racchiudeva le principali circostanze degli avvenimenti , che  volevano  alla  posterità  tramandarsi.  Vedasi questo uso stabilito ne’secoli più remoti appo tutte le nazioni, tanto dell’antico,  che del nuovo continente.  Dopo la sommersione dell’esercito di Faraone nel mare rosso, Moisè, e gli Istraditi composero un cantico di lode, e di ringraziamento al Signore, nel quale cantico era espresso questo memorabile avvenimento, come si legge nel capo XV. dell’esodo.  Al mezzo della tradizione orale,per conservare la memoria degli avvenimenti passati,si è aggiunto quello di alcuni grossolani monumenti. L’uso dei primi secoli era di piantare un bosco, d’innalzare un altare, o un monte di pietre,di stabilue delle feste,e di comporre de’ cantici in occasione di avvenimenti  riguardevoli. Quasi sempre davasi a’luoghi ove erano accaduti de’fatti memorabili, un nome relativo ai fatti ed alle circostanze.  L’istoria di tutte le nazioni somministra molte prove, ed esempi di queste antiche costumanze. Si vedono i patriarchi innalzare un altare nei luoghi, ove era loro apparso il Signore, piantare de’boschi, fare dei monti di pietra in memoria de’principali ancnimenti della loro vita c dare a’ luoghi, ove erano accaduti de’nomi che ne richiamassero la memoria. Se si consultano gli scrittori profani,questi attestano lo stesso. Ne’contorni di Cadice vedevansi in altri tempi delle pietre ammassate, le quali si dicevano essere i monumenti della spedizione di Ercole nella Spagna.Tutte queste differenti pratiche hanno servito a rinfrescare la memoria de’fatti memorabili, e a perpetuare le scoperte importanti. La tradizione suppliva allora alla mancanza della scrittura; I padri spiegavano a’loro figliuoli l’origine di questi monumenti,e gl’istruivano de’ fatti, i quali ne erano stati la cagione. Io chiamo tradizione tanto la tradizione orale,  quanto l’unione della tradizione orale coi monumenti. Fra lo spezie dei monumenti composti dagli uomini, ad oggetto  di perpetuare la memoria de’fatti passati, untt. delle principali,  che siasi presentata al loro spirito,  è stata la rappresentazione degli oggetti corporali.  I primi uomini pensarono naturalmente,  d’impiegar questo mezzo,  per rendere i loro pensieri sensibili alla vista,  e cominciarono dal presentare agli occhi il ritratto degli oggetti,dei quali volevano parlare. Per fare conoscere,per cagione di esempio, che un uomo aveva ucciso un altro, eglino  disegnavano una figura umana stesa per terra, ed. una altra in faccia di quella dritta con un’arma alla mano. Per fare intendere, che alcuno era abbordato per mare in un paese, rappresentavano un uomo assiso sopra una barca, e così del resto. Da quello,che degli antichi monumenti è rimasto, puà assicurarsi, che in prima origine l’arte dello scrivere consisteva ili una rappresentazione informe e grossolana degli oggetti corporali.  L’uomo di sua natura imita facilmente, ed in ogni nazione vedesi la gente portata a ricopiare gli oggetti che le si presentano.Le nazioni più selvagge, o quello le quali hanno minor relazione e commercio con  I popoli colti, possiedono con tutto ciò una certa idea dell’arte del disegnare, vale a dire di rappresentare, beiichò rozzamente, gli oggetti della natura. L’onir  brache produce ogni corpo sopra una superficie che gli sia opposta, quando il corpo si oppone al passaggio della Ince, ha somministrate le prime idee del disegno. Tirando su i limiti dell’ ombra alcune linee, allora che l'ombra  sparisce,  la figura descritta con queste linee sarà simile alla figura del corpo che getta l’ombra. Dopo le prime esperienze i primi popoli avranno tentato di rappresentare, e di copiare gli oggetti senza l’ajuto della loro ombra. Avranno a poco a poco avvezzata la mano a lasciarsi guidare dall’occhi o, ed a seguire le proporzioni suggeritele dalla vista. Il disegno nella sua origine consisteva solamente nella circoscrizione del contorno esteriorede gli oggetti. Si tentò dopo di esprimere le parti interiori,che l’ombra non disegnava , come per cagione di esempio una testa,gli occhi, il  naso  ec.   Il  carbone, la creta ec. avranno potuto somministrare a’ primi uomini la maniera di disegnare sopra il legno, sopra la pietra ec. come ancora si saranno eglino esercitati in ciò su la sabbia, su la terra molle ec. Avranno in seguito con l’ ajuto dei sassi, e di altri strumenti taglienti procurato d’imprimere desegni sopra le materie solide. La forma che prendono i corpi molli insinuati ne’ corpi duri, e l’impronta che lasciano i corpi duri applicati a’corpi molli, avranno su^rito a’ primi uomini l’arte del modellare. Questa avrà a poco  a poco prodotta quella dell’intagliare nel legno, nella pietra, e nel marmo. In questa maniera il disegno, la scoltura, l’intaglio avranno avuto la loro origine; queste arti, a mio credere,  hanno preceduto la pittura. Hanno queste rappresentazioni degli oggetti corporali servito per molto tempo invece della scrittura  propriamente detta.  Io  chiamo  la  rappresentazione  degli  oggetti  corporali, della  quale  ho  parlato, scrittura figurativa. Questa maniera di scrivere richiedeva molto tempo; si pensò perciò di renderla più semplice,ed invece di disegnare per intero a cagion d’esempio, un uomo, un albero, un cavallo, si disegnavano le parti principali che li facevano conoscere; come per esempio la testa, la mano ec. Ma questa scrittura fìgurativa non poteva essere suffìcieute per esprimere tutti I pensieri degli uomini. Vi sono molte cose,  che non si possono dipingere,  come sono lo spirito,  le sue facoltà,  le sue modificazioni.  È impossibile di parlare delle cose materiali,  senza unirvi delle idee die non sono capaci d’immagini ; come  per  esempio, descrivere l’immagine dell’affermazione, e della negazione? Fa d’ uopo dunque inventare I segni di queste idee intellettuali e 1’analogia guidò gli uomini a trovarli. Si concepì una certa similitudine fra alcune qualità,  che si osservano negli uomini,  e quelle che si osservano negli animali,  e per esprimere,  che  un uomo  è in queste qualità  simile ad un certo animale,  si disse più brevemente,  che il tale uomo è un  tale  animale; cosi per dire di un uomo, che li è  prudente, che li è astuto, che è fiero e crudele, si  dice, che è un serpente, una volpe, una tigre; disegnando dunque l’immagine di questi tali animali si disegnano mediatamente le immagini delle qualità spirituali, di cui si tratta. Una tale rappresentazione costituisce ciò che chiamasi geroglifico. I Cinesi per cagion di esempio, per denotare che FoAt, primo fondatore del loro impero, era dotato di prudenza, e di sagace ingegno, lo disegnano col capo umano unito ad un corpo di serpente.  Il successore di FoA» di nome  Xino, ad oggetto di denotare, che egli si applicò all’agricoltura, ed incominciò a porre i bovi sotto il giogo,lo disegnano col capo di bove unito al corpo umano. Gli antichi denotarono la giustizia, dipingendo  uvergine cogli occhi bendati, tenendo in una delle mani una bilancia, ed in un'altra una spada.  La vergine figura la giustizia; la bilancia denota che la giustizia consiste a dare a ciascuno il suo dritto,  la spada significa,  che la giustizia dee infligger la paia dovuta a’delinguenti, gli occhi bendati finalmente denotano,  che la giustizia non dee avere alcun riguardo alle persone,  ma deve agire conformemente alla legge,  senza esser mossa da motivi estrinseci.  Si vede qui che la similitudine concepita fra alcuni  modi  de’corpi,  e le qualità dello spirito, dettò questo geroglifico. La giustizia è una nozione astratta, e le nozioni astratte sussistono sole nello spirito; passa perciò una certa similitudine fra l’astrazione e la  personificazione, una vergine non  è macchiata  da  alcuna  impurità  corporale, e ia  giustizia  dee  esser monda da qualunque difetto. Quando per dare ad un altro una quantità di merce, questa si pesa, ciò si fa per dargli ciò che gli appartiene.  Le similitudini fra alcune modificazioni del corpo, e quelle dell’animo si deducono da ciò, che le prime sono i segni naturali delle seconde. Denotando le prime si denotano mediatamente le seconde ; e siccome le prime son capaci d’immagini corporali; così lo sono mediatamente anche le seconde ;e questa rappresentazione mediate costituisce il geroglifico. Da ciò si vede, che la scrittura geroglifica si è unita alle volte alla scrittura figurativa, come si vede ne’due esempi di  Fohi,e di Xino. Alle volte è stata  impiegata  solq  come  nell’  esempio  recato  della  giustizia.   Si  vede  inoltre,  come  questo  modo  di  scrivere  fa  le  veci  delle  proposizioni  verbali.  Cosi,  per  cagion  di  esempio,  i geroglifici rapportati  valgono  pel  significato  quanto  queste  proposizioni verbali: F(M  fu  dotalo di sagacità.  Xino  pronwtse  ¥ agricoltura , e pose  « bovi  sotto il giogo, fa giustizia dà a ciascuno U tuo dritto,  infligge la pena dovuta a'delinguenti,  né si lascia  muovere  da  molivi  estrinseci. Osservate, che  ne’  geroglifici enunciati si trovano I segni relativi al sogetto, al predicato, ed al verbo delle proposizioni rapportate. Così il capo di forma umana nel primo geroglifico donata il soggetto della proposizione cioè Fohi, il corpo serpentino denota il predicato, cioè la segacità, e l’unione del capo umano al corpo serpentino denota l’unione del predicato al soggetto significato dal verbo fà. Nel secondo geroglifico, il  corpo  di  figura  umana  denota  il  soggetto  della  proposizione  cioè  Xino , il capo bovino denota il  predicato cioè l’aver promosso l’agricoltura,  e l’aver posto i bovi sotto il giogo; l’unione poi del capo bovino alla forma umana denota l’unione del predicato al soggetto,  espressa dal verbo  promosse. Nel terzo geroglifico, il soggetto della proposizione è significato dalla vergine; la bilancia, la  spada,  la  benda denotano I predicati  della  proposizione, e l’unione di queste cose al corpo della vergine denota l’unione de’ predicati  al  soggetto. Da ciò segue, che un geroglifico può esprimere diverse proposizioni, osia una proposizione composta. Ciò si  vede  chiaramente nel geroglifico recato della giustizia. Wolfio riferisce che un certo Comenio,volendo formare il geroglifico  dell’anima, dispose  de'punti  in  modo  da  formare  una  figura  simile  a quella , che  presenta  1’ombra , prodotta  dal  corpo  umano  su  di  un  piano  perpendicolare all'orizzonte,ed opposto direttamente al corpo umano, ed al lume.  I punti, secondo i geometri, essendo privi di estensione, denotano la semplicità dell’anima. La figura del corpo umano costruendosi, per mezzo de'soli punti, senza l'intervento di alcuna linea, denota la sostanzialità dell’anima umana, la quale sussiste indipendentemente dalcorpo. I punti, essendo disposti in modo, che necessariamente formano la figura del corpo umano, denotano l’unione dell'anima col corpo,  la quale unione si forma dall’autore della natura, indipendentemente dalla volontà dell’anima.  Finalmente questi  punti, essendo  dispersi  in tutta la figura del corpo umano, denotano  la  dottrina  degli  scolastici, cioè  che  r anima  è tutta  in  tutto  il  corpo  e tutta  in  ciascuna  parte.   ir  geroglifico  comcniano  equivale  perciò  alle  scienti  proposizioni. l.°  l’anima  è semplice: 2.° l’anima è una sostanza. L’ anima, indipendentemente dalla sua volontà, è unita al corpo. 4.” 1' anima esiste tutta in tutto il corpo, e tutta in ciascuna parte.Dopol’invenzione della scrittura geroglifica portata al più alto grado di perfezione,  di cui era capace,  restava ancora agli uomini di farp  l’ultimo sforzo per ritrovare i caratteri alfabetici,  che sono  i segni  del  suono  non  già  d(^li  oggetti.  Vi  sono  stati  in  ogni  tempo  degli  spiriti  sublimi, i quali colle loro invenzioni hanno ampliato notabilmente la sfera delle umane cognizioni,  ed hanno spinto  velocemente il genere  umano verso quel  grado di coltura, in  cui  (^gi  te vediamo.   Un  vocabolo  è un  suono  o composto,  o semplice:  per  rendere durevole questo segno basta dunque stabilire  de’ segni  permanenti  de’ suoni  semplici, che compongono i vocaboli;  e per tale oggetto  basta stabilire per segni de’suoni semplici alcune  Ggnre, e la  scrittura alfabetica  è trovata.   Ma  (pianto  tempo è egli trascorso, priachè una verità cotanto semplice si presentasse allo spirito  de’padri  nostrii. Si voleva  render  permanente il linguaggio passaggiero della parola; e  non  si  pensò  di  decomporre  i suoni  articolari, e di stabilire de’ segni permanenti de’ suoni semplici che compongono I vocaboli. Lo spirito intraprese de’cammini lunghi e tortuosi, per tramandare alla posterità la somma delle sue conoscenze.  La scrittura fu prima  figurativa perfetta indi  figurativa  imperfetta. poiché si designarono prima gli oggetti interi, indi le loro parti principali:in seguito divenne geroglifica, indi sillabica,e finalmente  alfabetica, lo dico prima sillabica, e poi alfabetica, poiché penso coll’illustre Goguel autore dell’opera su 1’origine delle leggi, delle arti, e delle scienze, che dopo la scrittura geroglifica  furono  trovati  i segni  de’  suoni delle sillabe de’vocaboli  ,prima che si trovassero i segni de’ suoni semplici che compongono i suoni delle sillabe. In questa maniera di scrivere, la quale chiamasi scrittura sillabica non s’impiega se non che un solo carattere per iscrivere ciascuna sillaba, di cui vien composta  una  parola. Non si  esprimono allora né vocaboli, né consonanti. Noi, per esempio,  per iscrivere  la  voce  pane  impieghiamo  quattro  lettere;  nella  scrittura  sillabica  non  vi  bisognano  se  non  che  due  caratteri.   Ora  supponiamo  che  la  pronuuciazione  del  vocabolo  pane  risvegli  r idea  del  suono “cane,” e questo quella del suono sa-  ne, e che lo spirito mediti,e paragoni fra di essi questi suoni: egli li decompone in sillabe, e trova, che la sillaba ne è la stessa in tutti e tre questi suoni, il che gli viene ancora insegnato dalla  stessa  scrittura  sillabica, poiché   Io  stesso carattere indica il suono della sillaba ne in tutti e tre i vocaboli  enunciati.  Questa identità conosciuta mena lo spirito a notare la diversità de’ suoni pa, ea, sa, che  sono  le  prime  sillabe  di questi vocaboli ; ma  in  questa  diversità lo spirito trova  ancora una identità nella desinenza: tutte e tre queste sillabe cadono nel suono “a”:ciò  conduce lo spirito a separare nelle sillabe  pa, ca, sa,  il suono “a” dagli  altri suoni che vi si uniscono; e siccome egli ha trovato I caratteri de’suoni pa, ea, sa, così troverà il carattere del suono a,  e quelli  de’  suoni  p,  c,  s, e la  scrittura  alfabetica  è  già  trovata.   Ecco  dunque  i passi, che  ha  dovuto  fare  lo  spirito  per  ritrovare  la  scrittura  alfabetica, l.° egli ha conosciuto che la maggior parte de' vocaboli erano de’suoni composti, e che potevano perciò decomporsi in altri snoni. 2.°  egli  ha  conosciuto, che poteva stabilire segni di segni, e segni permanenti di  segni  passaggieri;  3.°  egli  ha  stabilito  de'  caratteri,  che  fossero  segni  permanenti  del  suono  delle  diverse  sillabe, e così nacque la scrittura sillabica. 4.° ^li ha conosciuto che la maggior parte delle sillabe erano de’ suoni composti ancora,e siccome ha trovato de’ caratteri, che fossero segni delle sillabe, ha trovato  ugualmente  de' caratteri,  che  fossero  segni  de’ suoni  semplici;  c così  è nata  la  scrittura  alfabetica.  Alcuni  eruditi,  frai  quali  il  citato  Goguet,  pretendono  che  i caratteri alfabetici sieno derivati da' segni geroglìGci, eche questi ultimi abbiano a poco a poco introdotto il metodo brève delle lettere alfabetiche.  Questa  opinione è falsa  sotto  un  certo  riguardo,  sebbene  possa  esser  vera  sotto  di  un  altro. Per presentacela quistione  sotto  un  aspetto  filosofico,  può  cercarsi:  l.°:  Lo spirito umano poteva, senza passare per la scrittura figurativa, e geroglifica, passare immediatamente dal linguaggio della parola  al  linguaggio  permanente  della  scrittura  alfabetica? È certo, che  poteva, poiché fra i passi, che egli doveva fare,  partendo dalla considerazione della parola,  per giungere alla scrittura alfabetica,  e che  abbiamo di  sopra sviluppato, non vi sono certamente quelli della scrittura figurativa e geroglifica. Si può cercare S.'': La scrittura figurativa e geroglifica doveva condurre naturalmente lo spirito alla serittura  alfabetica. La scrittura figurativa e geroglifica non hanno relazione alcuna con le lettere dell’alfabeto,  e per  tal ragione non hanno potuto condurre lo spirito a ritrovare la  scrittura  alfabetica.  Ma hanno sotto  un  altro  riguardo potuto  influire  a questa  invenzione;  queste  due  scritture, come  or  ora  vedremo , sono  imperfette  assai, e complicate;lo spirito accorgendosi della loro imperfezione e difficoltà, ha potato da ciò rivolgere la meditazione a rendere più semplice, c facile il sistema de’segni permanenti. Si può cercare 3.° La figura de’segni geroglifici Jta potuto server allo spirito, per concepir la figura de' primi caratteri alfabetici. Le ragioni addotte da Goguet provano, che lo ha potuto. Paragonando,egli dice, con  attenzione  quello,  che  a  noi  rimane  dei  caratteri  egiziani, con  le  figure geroglifiche intagliate sopra gli obelischi,  e gli altri monumenti,  si ricava che le lettere egiziane tirano da’geroglifici  la loro origine. Nell’alfabeto degli etiopi, e nelle lettere majuscole degli armeni si trovano  I vestigi assai chiari della scrittura antica geroglifica. A queste ragioni se ne può aggiungere un’altra. Col progresso del tempo il rapporto di similitudine tra il geroglifico e la idea da esso significata,non si è piu  ravvisato.  Ciò  è  accaduto  perdue  ragioni  l.°  alcuni  rapporti  di  similitudine  erano  troppo  lontani; si esprimeva,per esempio,l’impudenza per una mosca,la scienza per una formica. 2.° allorché furono  moltiplicati  I volumi, si cercò il modo di abbreviare,e perciò invece del geroglifico primitivo si fece uso di un altro carattere, che noi possiamo chiamare la scritturacorrente de’geroglifici: esso rassomigliava a’caratteri cinesi; dopo d’essere stato da principio formato dal solo contorno della figura, divenne  in  stanilo  una  sorta  di  nota,  hi  questo  stato  il  geroglifico  poteva  riguardarsi  come  il  segno del vocabolo. Tosto che si ebbero da’segni permanenti de’vocaboli,poteva  pensarsi  di  dare  de’ segni  permanenti  alle  sillabe , ed  indi  a’  suoni  semplici  di  cui  è composto il suono delle sillabe. L’essenza de’caratteri  alfabetici  si  è l’essere  isolatamente considerati, segni  solamente  di  suoni, non  già  di  idee: i caratteri, per  esempio  ,a,e,i,o,  u,b,c,  ec., isolatamente  considerati  nuli’  altro  significano  , se  non  che  alcuni  suoni.  I caratteri poi della scrittura fìgurativa,  e geroglifica, non  denotano suoni  ma idee, l’immagine di un serpente denota l’idea del serpente, quella della prudenza ec. Le nostre cifre arabe,1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 0, sono ugualmente segni d’idee, non di suoni. Essi si leggono diversamente presso le diverse nazioni, sebbene sieno ì segni delle stesse idee. Questa differenza  è della massima importanza. Colla divcisa combinazione di un piccol numero di caratteri, si possono scrivere tutti i vocaboli di una lingua parlata. Ma quando i segni della scrittura sono segni d’idee non già di suoni, il numero di questi segni dee corrispondere al numero de’vocaboli; il che rende il numero de’caratteri molto grande,  e perciò esige uno studio lungo, e difficile, per apprendere a leggere,e scrivere, come è provato per l’esempio de’Cinesi.  È questo un grande ostacolo al progresso della conoscenza: La gente di studio è obbligata a sottrarre il tempo necessario, per apprendere le scienze, ed impiegarlo a saper leggere e scrivere. L’arte di leggere e scrivere essendo di molto poche persone, il resto della nazione dee restare nella ignoranza. Dello stesso inconveniente partecipa anche in parte la scrittura sillabica, poiché il numero de’caratteri, per significare ciascuna sillaba è di gran lunga maggiore di quello, che è necessario per denotare I suoni semplici, di cui il suono di ciascuna sillaba è composto. Così, per cagion di esempio con questi tre caratteri alfabetici, a, b ,c, si possono scrivere le seguenti sìllabe, ab, ba, ac,  ca,  bac,  cab. In questo  esempio il numero dei caratteri sillabaci è doppio del numero de’ caratteri alfabetici. Se supponete quattro caratteri ahabetici, a, b, c, e, il numero ddle combinazioni di questi caratteri, presi due a due, è maggiore del doppio, cosi avremo, ab, ba, ac, ca, ae, eb, be, ec. Uno de’ vantaggi dunque della scrittura alfabetica su le altre scritture si è il piccol numero de’segni, di cui ha bisogno la prima scrittura.  È vero, che le nostre cifre arabe sono per tale oggetto perfettissime, mentre con dieci caratteri possono scriversi tutti i numeri possibili, ma un tal vantaggio lo debbono alla formazione delle idee da queste cifre designate; poiché queste idee si formano tutte colla ripetizione della stessa idea che è quella dell’unità. Un altro inconveniente della scrittura geroglifica si è l’incertezza del significato. Uno stesso geroglifico può denotare cose molto diverse fra di esse. Cosi la immagine del serpente dinota questo animale, la prudenza, e ’universo: l’immagine del lepre dinota questo animale, il candore, e la timidità. L’invenzione del linguaggio della parola, el’invenzione della scrittura alfabetica, che rende permanente il primo linguaggio di sua natura  passeggierò, fanno che l’uomo possa gettare il suo sguardo in tutti i luoghi, ed in tutti I tempi.  L’esperienza c’ins^a, che gli uomini possono, per mezzo della scrittura trasmetterci dei fatti che son veri e che la concorde testimonianza  degli  scrittori circa alcuni fatti non si è giammai trovata fallace. Tutte le gazzette dell’Europa all’ epoca, in cui Napoleone  Bonaparte  scese al trono della Francia annunciarono questo avvenimento. Tutte le gazzette ugualmente hanno annunciato la morte del sommo Pontefice Pio VII. L’esperienza dei propri occhi  avrebbo  potuto  assicurare  colui, che  avesse  dubitato, della veritàdi tali fatti.   I fatti consegnati negli scritti possono colla conservazione degli scritti, che li contengono,  trasmettersi alle future generazioni. È questa eziandio  una  verità  di  esperienza.  Vi sono dunque de’fatti accaduti in tempi lontani,  de’ quali fatti noi possiamo conoscere  la verità.  Il linguaggio passaggiero della parola; quello  permanente della scrittura  alfabetica, e quello dei monumenti, possono dunque circa alcuni fatti, essere motivi legittimi dei nostri giudizi. Tutti questi motivi concorrono a stabilire la certezza morale. Credo utile di addurvi un altro esempio, in conferma di ciò che vi ho detto. Un terribile tremuoto,poi seguito da altri, cagionò dei danni notabili alle Calabrie, ed ancora alla città di Messina.  Gliabitanti  dei  paesi  danneggiati  furon  obbligati  di  uscire  fuori  dalle  loro  abitazioni, e dì  costruirsi  delle  baracche  per  abitarvi;  alcuni  le  hanno  costruite  in  lontananza  dei  paesi  diruti  quali  rimasero  perciò  deserti. Cosi  accadde, per  esempio, a Briatico, che fu costruito di nuovo vicino al mare, e Briatico antico presenta allo spettatore I segni delle sue mine: altri hanno costruite le nuove abitazioni in un suolo contiguo all'antico abitato. Cosi accadde  a Tropea, le cui nuore abitazioni furono costruite lungo ed all'intorno della strada detta  dell’Annunciata. Molti , che  sono  stati  testimoni oculari  dell’avvenimento, vivono  ancora molti  altri  appartengono alle  seguenti  generazioni: i primi  narrano  ai  secondi  l’orìgine delle  mine  che  colpiscono  i loro  occhi , non  meno  che  l’orìgine  delle  nuove  abitazioni,  ciascuno  testimone  oculare  è  istruito  dalla  esperienza, che  tanto egli, che  gli  altri  testimoni  oculari narrano  il  vero, e che  coloro  i qualinarrano il fatto ad altri, per averlo eglino inteso narrare da’testimoni oculari, narrano il vero. L'esperienza dunque c’insegna, die vi sono dei testimoni di udito, la di cui testimonianza è verace,e che la tradizione orale unita ai monumenti può trasmettere alle generazioni future i &tti  accaduti  ne’tempi  da  queste  generazioni lontani.  La memoria di questa tremuoto si trova depositata in una moltitudine di scritti, i quali ancora rimangono, ed icui autori più non sono. La propria esperienza istruisce dunque cisscun testimone oculare di questa importante verità: che per mezzo de’monumenti, della tradizione orale e della scrittura alfabetica, si può conservare  la  conoscenza  di  alcuni  fatti  passati. Intorno alle idee politiche del Galluppi ’, e più sulla  condotta da lui tenuta nell’alterna vicenda degli avvenimenti politici di cui è piena la storia di Napoli nel  periodo della sua virilità, non si può dire davvero che  abbondino i documenti, né che abbiano fatto tutta la  luce desiderabile gli studi consacrati a questo lato della  biografia galluppiana dal Tulelli, dal Guardione e ultimamente dal prof. Nicola Arnone. Il quale ha scritto  in proposito una memoria molto accurata, ma per giun¬  gere a una definizione del Galluppi considerato sottol’aspetto politico, la quale è in aperto contrasto coi docu¬  menti più sicuri da noi posseduti. Anche il Galluppi,  secondo l’Arnone, sarebbe stato un giacobino!   Della sua dottrina liberale e del suo atteggiamento  risoluto in favore delle pubbliche libertà e contro 1 in¬  tervento austriaco nel 1820-1821 non è possibile che  dubiti chi conosca i frammenti che diè il Tulelli de’ suoi  Pensieri filosofici sulla libertà compatibile con qualunque    1 P. E. Tulelli, Intorno alla dotte. ed alla vita politica del bar. P. G.,  notizie ricavale da alcuni suoi scritti inediti e rari, negli Atti della li.  Accad. delle scienze mar. e poi. di Napoli, voi. I (1865), pp- 101-21,  F. Guardione, Due opuscoli di P. Galluppi, prec. dallo studio critico  Dei concetti civili e politici apportati da P. G. nella rivoluzione del 1820,  Messina, D'Amico, 1906; a proposito di questo opuscolo, G. Gentile  nella Critica, V (1907), pp. 229 sgg.; N. Arnone, P. G. Giacobino, negli  Studi dedicati a Francesco Torraca nel XXXVI anniv. della sua laurea,  Napoli, Perrella, 1912, pp. 129-52.     forma di governo, e i due opuscoli Della libertà di coscienza  e Lo sguardo d' Europa sul Regno di Napoli, ristampati  dal Guardione. Ma da quel liberalismo al giacobinismo  c’è un bel tratto.   Né i documenti dell’Amone riscoperti 1 nell'Archivio  provinciale di Catanzaro bastano a superarlo. Da questi  documenti apprendiamo che nell’ottobre 1799 il Galluppi  chiedeva un passaporto per recarsi a Palermo « per atten¬  dere ad alcuni di lui affari litigiosi ». Il Re faceva rispon¬  dere dal Segretario di grazia e giustizia al Preside di  Catanzaro, che al Galluppi si sarebbe accordato il passa¬  porto, « quando non vi sia niente contro il medesimo ».  Il Preside si rivolse per informazioni al Vescovo e al  Governatore di Tropea. Il Vescovo, il 16 ottobre, rispose:  « Quantunque apparentemente il suddetto sembri un  giovane morigeratissimo, e studioso anche di materie  teologiche, pure non gode buona fama, perché si pre¬  tende aversi ingoiato con lo studio vari errori della vana  filosofia, per cui fu, anni sono, denunziato sino a Roma,  e ne’ pochi giorni della falsa assunta Repubblica fu im¬  piegato a far traduzioni, per cui stiede lungo tempo trattenuto nel Pizzo: timoroso poi all’eccesso, si andiede in  Cosenza dopo liberato dal Pizzo; ed ora vorrebbe andarsi  in Palermo, dove ha degli interessi; ma per questi me¬  glio sarebbe andarvi il padre don Vincenzo [il padre del  Galluppi], mentre non debbo io, né V. S. 111 . mettersi  deve in compromesso nelle circostanze nelle quali siamo ».   Tropea tra il gennaio e il febbraio aveva avuto an-  ch’essa il suo albero della libertà e un governo repub¬  blicano. Ma per pochi giorni. AH’avvicinarsi delle schiere    1 Gli è sfuggita la comunicazione che ne aveva fatta Gaetano  Capasso, nel 1896, alla Riv. Stor. del Risorg. ital., I, pp. 794-95. [Vedi  ora, per un'altra denunzia di pretesi discorsi giacobini del Galluppi,  F. Scandone, Il Giacobinismo in Sicilia (1792-1802), nell'A refi. Stor,  sic., 1922, pp. 327-28].     PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? 113   del Ruffo la plebaglia aveva abbattuto albero e governo,  e uh comitato di cittadini era andato incontro, il 24 feb¬  braio 1799, al Ruffo a Mileto, a prestargli ubbidienza.  Per la quale il Ruffo volle alcuni ostaggi, che fece tra¬  sportare a Pizzo. Tra essi venne incluso il Galluppi, che  per altro dopo alcuni giorni fu rilasciato senza nessuna  condanna. Aveva, secondo il vescovo sanfedista ', tradotto  qualche documento francese, forse qualche proclama o  decreto dello Championnet; ma la stessa voce raccolta  dal vescovo della gran timidezza del filosofo, ci spiega  molto facilmente perché il Galluppi, invitato dai giacobini  della piccola città, dove forse era solo a conoscere il fran¬  cese (e non lo conosceva né pur lui molto) * e quando  costoro tenevano il campo, non potesse esimersene, pur  non avendo un grande entusiasmo per la causa repub¬  blicana. Certo, non si compromise, se nella ristaurazione  non patì nessuna noia; e se il tenente colonnello don  Giovanni de Mendoza, governatore di Tropea, pur dopo  diligenti investigazioni, non riusciva a trovare nulla a  carico di lui. « Mi sono informato », scriveva costui il  19 novembre al Preside di Catanzaro, « dalle persone  più probe e timorate di Dio di questa ... città; però ho  chiamato il decano don Saverio Polito, il teologo don  Michele Grillo, il penitenziere don Vinc. M. Mazzitelli,  il P. M. Carmelitano fra Carmelo Maria Collia ed il par¬  roco di San Demetrio di questa .... città, e dalle di costoro  estragiudiziali deposizioni, che presso di me si conser¬  vano, rilevai che il don Pasquale Galluppi è un giovane  onesto, probo, e di morigerati costumi; che frequenta  spesso li Santi Sacramenti e la chiesa, ove si fa vedere  attento, e pieno di divozione; e che ad altro non bada,  se non allo studio, essendo anche un giovane virtuoso,   1 Su lui vedi la stessa memoria dell'ARNONE, p. 134.   5 Vedi la mia pref. al voi. del Toraldo, Saggio sulla filos. del Gal¬  luppi, Napoli, 1902, p. ix, n. 1.     ”4   e da bene, e che mai diede veruno scandalo; ma, per quanto  cercai sì dalli stessi testimoni, che da altri sapere l’og¬  getto per cui si volesse portare in detta città di Palermo,  non fu possibile sapersi la cagione, perché da ognuno  s’ignorava. Soltanto ho risaputo, che il di lui padre don  Vincenzo è siciliano, ed ivi tiene degli effetti, per cui  suole spesso andarvi anche col suddetto don Pasquale  suo figlio : ma non posso fame a meno farle presente esser  stato, per quanto pubblicamente si dice, il detto don Gal-  luppi uno degli ostaggi di questa città chiamati dal sig.  Vicario generale nel Pizzo, ove [si] trattenne molti giorni  e poi fu liberato senza veruna pena ».   Il Preside di Catanzaro si attenne al Consiglio del  prudente vescovo, e propose al Segretario di Stato che  il passaporto non fosse accordato. E non fu accordato.  Ma lo chiese poi, invece del figlio, il padre, Vincenzo,  che l’ebbe. Segno che a Palermo avevano realmente  bisogno di recarsi, l’uno o l’altro, per loro interessi di  famiglia. Pei quali forse egualmente il Galluppi, reduce  da Pizzo, invece di fermarsi in Tropea, recossi a Cosenza,  di dov’era la moglie, Barbara d’Aquino.   Non credo pertanto che questi documenti catanzaresi  bastino a farci annoverare il filosofo calabrese nella nu¬  merosa schiera dei giacobini contemporanei. Certo nei  Pensieri filosofici sulla libertà, propugnando il principio  della libertà di coscienza e di tolleranza religiosa, egli  ha parole forti contro coloro che dimenticano lo spirito  del Vangelo e «non hanno ritegno di tramutare la reli¬  gione nell’ istrumento del disordine, della persecuzione  e della strage»; e non dubita, ricordando i recenti fatti  del Regno, di scrivere che « se l’universalità del clero e  del popolo di questo bel regno avesse conosciuto il vero  spirito del cristianesimo e la purità delle massime del  Vangelo, non si sarebbe visto un cardinale comandare  delle masse di ribaldi e di fanatici, ed innalzare il venerando vessillo della Croce per segno dell’assassinio e  d’ogni sorta di iniquità; né si vedrebbero oggi con orrore  tanti preti e frati alla testa delle masnade degli uomini  i più infami e più scellerati » Ma quando il Galluppi  scriveva di queste parole — che pur dimostrano bensì  il liberale, ma non il giacobino — a Napoli erano tornati  i francesi con Giuseppe Bonaparte, il cui governo, nel  1806 J , gli aveva conferito 1’ ufficio di controllore delle  contribuzioni; e a Giuseppe era anche successo il Murat.   Tutt’altro che giacobino era apparso a me qualche  anno fa da un suo brutto sonetto pubblicato in un gior¬  nale di Tropea 3 dal prof. Carlo Toraldo 4. Il sonetto in¬  fatti diceva:   Della Patria il dolore, il lutto, il pianto.   La rea sorte fatai veder non voglio.   Di Marte, di Bellona il fier orgoglio.   L’augusto trono di Minerva infranto, —   Spesso sedendo al bel Sebeto accanto  Col cor trafitto dal più fier cordoglio,   Pria che de' Franchi vacillasse il soglio.   Dico nel mio pensiere, e piango intanto.   Un ferro io prendo. — Occhi miei, non piangete, —  Grido nel mio furore; — io corro or ora  Sollecito a varcar l'onda di Lete. —   Ma già l’Angiol divin, che accanto giace.   Di man mi toglie il ferro, e grid’allora:   — Verrà Fernando : tornerà la pace !   Il primo editore faceva precedere al sonetto le seguenti  notizie : « Dal manoscritto rilevasi che il sonetto mede-   1 Tulelli, op. cit., pp. 109, in.   * Arnone, p. 141.   3 L’ Eco di Tropea, a. II, n. 35, 30 agosto 1902.   4 E da me ristampato con qualche correzione di punteggiatura,  per renderlo un po' meno oscuro, nell’opera Dal Genovesi al Galluppi,  Napoli, 1903, pp. 218-19, n. 1 (2 a ed. in 2 voli., col titolo di Storia  d. filos. ital. dal Genovesi al Galluppi, Milano, 1930; ora in Opere  complete di G. Gentile, a cura della Fond. G. Gentile, XVIII-XIX,  Firenze, Sansoni, voi. II, p. 31).   simo fu letto alla nostra Accademia degli Affatigati  (assorta allora ad altissima fama), alla quale il Galluppi  apparteneva col distintivo il Furioso, e apparisce dedi¬  cato a Ferdinando, come chiusura di un discorso, letto  all’Accademia anzidetta, sul medesimo argomento. Dalla  parte opposta ove è scritto il sonetto, si legge:   ‘ Ferdinando Augusto, principe magnanimo, nell’ impetuoso  turbine che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a salvarci.  I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza. — Ferdi¬  nando viene. Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è ter¬  minato’. Firmato: Pasquale Galluppi fra gli Affatigati il Furioso.  Siegue dietro il sonetto dello stesso Accademico.    Riproducendo il curioso documento, mi parve che di¬  scorso e sonetto si potessero riferire alla reazione del 1799;  e, dietro a me, anche il De Cesare ritenne che il sonetto  alludesse alla restaurazione di quell’anno *. Ma non  tutto a quella prima impressione mi restava chiaro degli  accenni contenuti nel sonetto; e le difficoltà ora oppo¬  stemi dall’Arnone mi persuadono che sonetto e discorso  vanno spostati di sedici anni. « Prescindendo », dice  l’Arnone che non ha potuto vedere il giornale di Tropea,  al quale io mi riferivo, e le cui notizie ora qui integral¬  mente riportate mi pare che tolgano ogni dubbio intorno  alla paternità del discorso e del sonetto, « prescindendo  dalla loro autenticità maggiore o minore (?), il sonetto  e il brano del discorso accademico non possono mai rife¬  rirsi alla reazione del 1799. Infatti, nel sonetto stesso si    J R. De Cesare, Taranto nel 1799 e mons. Capecelatro, Martina  Franca, 1910 testr. dalla Riv. Apatia ), p. n: «Il Capecelatro non fu  solo a non aver fede nella durata della Repubblica. Se egli non andò  a Napoli, non vi andò neppure Melchiorre Delfico, chiamato a far parte  della Giunta del Governo, mentre Pasquale Galluppi, che pure aveva  da giovane principii liberali, recitava, all'Accademia degli Affaticati  di Tropea, un brutto sonetto, che si chiudeva: Verrà Fernando : tor¬  nerà la pace ».  trova la designazione del tempo a cui si riferisce ; giacché,  col verso Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio, l’autore,  stanco del fier orgoglio di Marte e di Bellona, deve asso¬  lutamente alludere alla prossima caduta del trono di  Gioacchino Murat » 1 . Io guardavo bensì al settimo verso  del sonetto, su cui giustamente ha fermato la sua atten¬  zione l’Amone; ma guardavo anche al quinto: Spesso  sedendo al bel Sebeto accanto, che contiene anch’esso una  determinazione cronologica non trascurabile. E poiché  era noto che il Galluppi fu a studiare a Napoli dal 1788  al 1794, pensai che per soglio dei Franchi si dovesse in¬  tendere per l«appunto il trono di Francia di Luigi XVI,  che cadde quando il Galluppi dimorava al bel Sebeto  accanto. E vedevo nel sonetto un’enfatica e grottesca  rievocazione delle ansie, da cui l’animo dell'autore sarebbe  stato assalito fin dall’ 89 quasi presago dei lutti che la  Rivoluzione francese preparava alla sua patria. Non  tutto, di certo, restava chiaro, come non tutto precisa-  mente diventa chiaro se s’intende, come propone ora  l’Arnone, che col soglio dei Franchi l’autore designi il  trono del Murat. Ma vien colmato il grande intervallo  che rimaneva, secondo la mia ipotesi, tra il 1789 e il  luglio del ’99, quando avvenne il ritorno di Ferdinando IV  a Napoli, che il Furioso avrebbe celebrato.   Ma, se accetto che il v. Pria che de’ Franchi vacillasse  il soglio alluda alla prossima caduta del trono di re Gioac¬  chino, — e ne argomento in conseguenza che tra la fine  di marzo 1815, quando il Murat dichiarò la guerra al¬  l’Austria, e il 3 maggio (battaglia di Tolentino) il Galluppi  dovette essere a Napoli — non capisco perché l'Arnone  soggiunga : « A me parrebbe che il discorso accademico  potesse riferirsi al tempo del viaggio di Ferdinando I  Borbone pel congresso di Lubiana, quando appunto    1 Op. cit., p. 139.     il8     l’indipendenza del Regno di Napoli era minacciata dal-  l’intervento austriaco ». Quando il Galluppi recitava il  suo discorso accademico è chiaro che Ferdinando non  era più lontano, ma già tornato a Napoli (« Ferdinando  viene, Napoli è salvo ») ; e l’accademia celebra la ristau-  razione. È vero che il Galluppi nel '21 trepidò per l’in¬  dipendenza nazionale, a causa dell’ intervento austriaco  a Napoli; ma nel ’2i gli austriaci eran chiamati da Ferdi¬  nando, che non avrebbe potuto perciò essere cantato come  il salvatore dell’indipendenza; laddove nel '15 il Murat  alla legittimità, a cui s’appellavano gli ambasciatori del  Congresso di Vienna e tutti i principi delle vecchie dina¬  stie, opponeva in Napoli il principio dell’ indipendenza >;  e al Galluppi, già murattiano, i disastri dell’esercito  napoletano e l’entrata degli austriaci nel Regno dovettero  realmente parere la più pericolosa minaccia alla indi-  pendenza di questo, finché non si ripresentò Ferdinando,  a riavere, dopo il trattato di Casalanza (20 maggio),  dalle mani dell’ imperatore d’Austria le redini del suo  Stato due volte abbandonate. E le preoccupazioni che  il Galluppi, come quanti altri avevano servito il governo  francese, dovette, prima di quel trattato, nutrire gra¬  vissime e angosciose per la propria sorte, o almeno per  l’uificio che da nove anni teneva, possono anche spie¬  garci la disperazione da cui nel sonetto dice d’essere  stato preso per l’imminente crollo di quel governo.   E l’osanna al Borbone, dopo il trattato di Casalanza,  in cui l’imperatore d’Austria garantiva la sorte di tutti   1 «Volse i suoi maggiori pensieri alle cose interne; reputando che  più dei maneggi e dei discorsi valere gli dovesse il voto dei soggetti  e la forza dell'esercito, in tempi nei quali menavasi vanto dell’amore  dei popoli e della pace. Raccolse in quattro adunanze i migliori in¬  gegni napoletani, e lor disse che per gli ultimi avvenimenti, acqui¬  stata da noi piena indipendenza politica, era suo debito riordinare il  regno senza o soggezione, o somiglianza,, o gratitudine ad altro stato,  così adombrando le tollerate catene per nove anni»: P. Colletta,  Storia del Reame di Napoli, lib. VII, c. IV, § 68.     i funzionari del passato regime, era pel controllore delle  contribuzioni dirette nella Provincia di Calabria ulteriore  l’espressione d'un sentimento sincero l 2 .   Né giacobino, dunque, né antigiacobino. Ma liberale  e patriota, se non nel senso del 1799, in quello più antico  della tradizione paesana di Napoli e della posteriore  storia italiana.   Del suo patriottismo e liberalismo son documento  bastevole gli opuscoli politici che il Galluppi scrisse nel  1820-1821 in cui ripigliava le idee dei Pensieri filosofici,  rimasti inediti, e scendeva in campo a difesa della libertà  e dell’ indipendenza minacciata dall’Austria. Ma la lettura  di questi opuscoli, o almeno dei due a noi pervenuti  e qualche anno fa ristampati dal Guardione, induce  piuttosto a ricollegare il Galluppi alla tradizione del  Giannone, del Tanucci, del Vico e del Filangieri, anzi  che a ricondurlo sotto l’influsso esotico del giacobinismo  rivoluzionario.   Nei Pensieri filosofici (di cui si conoscono soltanto  alcuni frammenti pubblicati dal Tulelli) egli aveva già    1 II sonetto pare tuttavia debba riferirsi non al 1815, ma all’anno  seguente. Perché l'Accademia degli Affaticati in cui esso fu letto, dopo  il 1783, come ci è fatto sapere da un suo storico, « riunivasi raramente;  anzi dal 1801 il silenzio sostenne sino a quando nel 1816, nella Chiesa  dei Liguorini, cantò del Santo fondatore dell’Ordine » (forse il 2 agosto  quando ricorre la festa del Liguori) : N. Scrugli, Discorso storico  intorno all’Accad. degli Affaticati, annesso alle Notizie archeologiche  e storiche di Portercole e Tropea, Napoli, Morano, 1891, p. 132. Ma le  notizie raccolte dallo Scrugli non sono esattissime. Infatti, secondo  lui, l’Accademia degli Affaticati sarebbe stata vietata nella reazione  del '31, e non sarebbe più risorta fino al '48; laddove nel gennaio 1831  vi fu certamente recitato il discorso del Galluppi che qui appresso si  pubblica.   2 Opuscoli filosofici della libertà individuale: Della libertà di coscienza  e delle conseguenze che ne derivano riguardo al matrimonio, dell’Autore  del Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, Messina, 1820,  presso Antonino D’Amico Arena; Lo sguardo d'Europa sul Regno di  Napoli, di Pasquale Galluppi di Tropea, in Messina, presso  G. Papparlardo, 1820. Entrambi gli opuscoli sono stati ristampati  dal Guardione, op. cit., e della sua ristampa io mi son qui servito.  aderito a quelle dottrine liberali, che il Filangieri aveva  propugnate nella Scienza della legislazione. « Per fissare »,  aveva detto, « i dritti del pubblico potere, bisogna partire  dal considerare lo stato di natura come anteriore  allo stato politico, se non in ordine di tempo,  almeno in ordine di ragione.... Tutti gli uomini sono per  natura in uno stato di libertà, in cui ciascuno può fare ciò  che gli piace, senza dipendere da un altro, posto ch’egli  non offenda gli altrui diritti. Ogni uomo non ha dunque  altro dritto per rapporto ad un altro che di non farsi  molestare nell’esercizio dei propri dritti. Or questo dritto  che ciascuno ha per rapporto agli altri, nella civil società  è confidato al pubblico potere, il quale è custode e vin¬  dice dei dritti di ciascun cittadino contro gli attentati  degli altri ». Movendo da questo principio, a differenza  del Rousseau, il Galluppi separa nettamente il dominio  giuridico-politico da quello della religione. Riconosce che  « la potestà politica dee curare che i cittadini sieno vir¬  tuosi. Ella dee riguardare come un male la depravazione  del loro spirito; dee mettere in opera quei mezzi che  promuovono la virtù ed arrestare i progressi del vizio »;  e però può parere che abbia bisogno del soccorso della  religione. Ma è d’uopo distinguere tra virtù e virtù. « Le  leggi, dice Portalis, non dirigono che alcune azioni deter¬  minate; la religione regola il cuore. Le leggi sono relative  al cittadino; la religione s’impadronisce di tutto l’uomo.  Ma se le leggi arrestano il braccio e la religione regola  il cuore, dico io, dunque, che la depravazione del cuore  non dee punirsi che dalla sola religione, vai quanto dire,  dal solo Dio che n’è l’autore; ella è dunque estranea  alla sanzione della legge. Se le leggi non son relative  che al cittadino, e la religione s’impadronisce dell’uomo,  le leggi devono dunque contentarsi della sola virtù civile  e lasciare alla religione le virtù dell’uomo.... Egli bisogna  distinguere l’uomo giusto agli occhi dell’eterno, che tutto vede, dall’uomo giusto civilmente. Chi è giusto innanzi  a Dio, lo è anche civilmente, perché la sua legge vuole  che si obbedisca alle potestà costituite; ma si può esser  giusto civilmente, senza esserlo, naturalmente, secondo  la religione ».   Le opinioni religiose pertanto non cadono sotto la san¬  zione delle leggi, e l’irreligiosità non può esser punita  Ogni maniera di persecuzione del resto è contraria allo  spirito del Cristianesimo. Intorno al quale il Galluppi  scrive una delle poche pagine eloquenti, che siano uscite  dalla sua penna. « Questa religione divina », egli dice,  « annuncia agli uomini una morale che perfeziona la  natura. Lo spirito del Vangelo non è che imo spirito di  fratellanza e di amore. Esso è contrario allo spirito di  persecuzione e di ferocia. Se non siete ricevuti ed ascol¬  tati, dice G. C. ai suoi discepoli, scuotete la polvere delle  vostre scarpe e partite. I primi banditori del Vangelo  non impiegarono altre armi per la sua propagazione, che  la forza della parola. La religione deve avere la sua sede  nello spirito, e lo spirito non rigetta l’errore e non ab¬  braccia la verità, se non a proporzione dei lumi che egli  riceve, e trattandosi di religione, a proporzione della  grazia celeste che il Padre de’ lumi gli dispensa. Le pri¬  gioni, le forche, le mannaie, i roghi non cambiano certa¬  mente lo spirito dell’uomo, e l’incredulo non lascia d'esser  tale, ancorché vada ad esalare il suo spirito fra i tor¬  menti più crudeli.... L’uomo abusa di tutto. La ministra  della pace e della pubblica tranquillità divenne col pro¬  gresso del tempo in mano del superstizioso e del fanatico,  l’istrumento del disordine, della persecuzione e della  strage. Questo mutamento di condotta, non della reli¬  gione, che in se stessa è santa ed immutabile, ma ne’  suoi ministri, fu sorgente d’incredulità ».   Nell’opuscolo del 1820 sulla Libertà di coscienza la  stessa questione è ripresa e approfondita sì dal rispetto    9 - Gentile, Albori. I.  speculativo e sì da quello politico. Vi ritroviamo quella  morale kantiana, che è professata negli Elementi, nelle  Lezioni di filosofia e nella Filosofia della volontà : «La  regola della moralità delle azioni è la coscienza uniforme  alla legge»: legge puramente formale anche pel Galluppi.  Il quale infatti soggiunge : « Si può agir male seguendo  una coscienza erronea, ma si agirà male ancora facendo  il bene in contraddizione dei dettami di una coscienza  erronea ». E su questi principii, rannodandosi alle dot¬  trine liberali del Filangieri, fonda la sua dimostrazione  del diritto del matrimonio civile abolito nel Regno dal  codice del 1819: il quale aveva stabilito non potersi  celebrare matrimonio legittimo « che in faccia alla Chiesa,  secondo le forme prescritte dal Concilio di Trento ». Già  nell'opuscolo precedente aveva provato che « la libertà  del pensiero è il primo diritto inalienabile dell’uomo»;  e che tale libertà è illimitata. Ora, se questa libertà è  illimitata, se la moralità consiste nella conformità della  coscienza alla legge, o meglio, della volontà alla legge  della coscienza, ne viene per conseguenza che quelle  azioni, le quali debbono essere necessariamente in armonia  col pensiero, non possono giammai essere forzate; ma  debbono rimanere nel campo libero del privato cittadino.  Potrà intervenire il diritto positivo nel culto religioso  esterno; ma non nel culto interno. E in quello esterno  non potrà di certo intervenire per obbligare il cittadino  ad un culto contrario alla propria credenza, bensì per  permettere un dato culto e impedire quindi che venga  offeso e turbato da chi non vi si conformi ». Ma deve   10 Stato permettere tutti i culti ? Tra il Montesquieu  contrario e il Marmontel favorevole alla libertà dei culti,   11 Galluppi dichiara di non voler esaminare di proposito  1’ « importante questione », poiché egli si occupa piuttosto  della libertà individuale, e però della sola libertà di co¬  scienza, laddove la libertà del culto supporrebbe un gruppo  sociale che abbia abbracciato un culto diverso da quello  di altri gruppi, ed esce quindi dalla sfera del diritto indi¬  viduale. Tuttavia ritiene conveniente che si possa « per  ragioni politiche non permettere l’esercizio pubblico di  un culto diverso da quello stabilito ».   Quanto al matrimonio, dato il suo interesse pubblico,  esso rientra nella sfera di attività del potere politico:  che « ha il diritto di far leggi positive sul matrimonio,  le quali, lasciando illeso il diritto naturale, determinino  ciò che la natura non determina, e che ha influenza su  la felicità nazionale»; ma deve limitarsi a «prescrivere  le condizioni per la validità del matrimonio come con¬  tratto civile, e lasciare alla libertà del cittadino, se vuole  al contratto unire la forma religiosa, che T innalza a  sacramento ». Altrimenti verrebbe ad esser lesa la libertà  di coscienza, ossia quell’ essenza della morale, che il  Galluppi chiama legge di natura o diritto naturale.   Tale principio a Napoli fu riconosciuto dal codice  francese durante il decennio; e certo quella legislazione,  « tranne il mormorio di qualche fanatico, che osava chia¬  marsi teologo, non produsse fra noi il menomo disordine ».  Ma, tornato Ferdinando, « i superstiziosi spaventarono la  sua coscienza ». Quindi il matrimonio rientrò nel puro  dominio ecclesiastico. E « si fece dippiù », dice il Galluppi:  «il Concordato diede alla Chiesa il potere giudiziario  sul matrimonio; potere, che dee esercitarsi in conformità  del codice del Vaticano, e così la sovranità temporale  rimase spogliata de’ suoi sacri ed inalienabili diritti sul  matrimonio ». Il Galluppi, nelle cui parole è agevole  sentire l'eco della tradizione giannoniana, ora che Napoli  sembra risorta a più libera tuta per l’ottenuta costitu¬  zione, parla in nome della filosofia («la filosofia non dee  oggi temere di alzar la voce contro di questi abusi ») ;  e chiede che il matrimonio torni ad essere per lo Stato  contratto civile; e protesta contro la censura preventiva.   stabilita nella Costituzione spagnuola, per i libri che  trattino di religione.   Il secondo opuscolo, assai più importante per la cono¬  scenza delle sue idee politiche, quantunque rechi anch’esso  sul frontespizio la data del 1820, non par che possa essere  anteriore ai primi del febbraio 1821. Infatti v’ è detto  che « un’armata austriaca si fa vedere in volto minac¬  cioso nella bella Italia » 1 2 ; con accenno evidente, se non  erro, all’ordine del giorno del barone di Frimont (4 feb¬  braio 1821), di cui si ebbe notizia a Napoli tra il 15 0  il 20 di quel mese   In quei giorni un altro filosofo napoletano, Pasquale  Borrelli, componeva un inno di guerra, che, messo in  musica dal Rossini, fu cantato al San Carlo la sera del  21 febbraio. La seconda strofa diceva:   O straniero, che guerra ci porti,   Chi ti offese ? quell’ ira perché ?   Va, rispetta la terra de' forti....   Ma sprezzante 1 ’ iniquo c’ invade,   Ha di sangue nell’occhio il desir.   Cittadini, tocchiamo le spade:   Qui si giuri svenarlo o morir !   Il Galluppi dal fondo delle Calabrie rivolge all’ Europa  (ma fin dove sarà giunto ?) il suo opuscoletto, enfatico  nella forma, ma savio ed acuto nella sostanza, per scon¬  giurare anche lui l’invasione straniera e la soppressione  delle libere istituzioni. Rifa brevemente, con giudizi  che ricordano l’alta intelligenza storica di Vincenzo  Cuoco, la storia di Napoli dal 1789 in poi, a conferma  del principio, che oppone alle prepotenti pretese del-    1 Rist. cit., p. 47.   2 Vedi De Nicola, Diario napoletano dal 1798 al 1823, III, pp. 252  253 (in calce all'Arch. slor. napol., 1905, fase. 3).  l’Austria: che la storia se la fanno i popoli da sé, e inter¬  romperla ad arbitrio è violenza, e lo stato violento non  è durevole.   Tutto, egli dice, « cangia incessantemente nel mondo ;  ma tutto cangia gradatamente... Questo principio igno¬  rato o negletto ha spesso fatto abortire i migliori pro¬  getti di riforme ». I grandi avvenimenti, che pare mutino  d’un tratto miracolosamente lo stato di un popolo, in  realtà sono l’effetto d’un « concorso di cause, al quale  l’unione di una picciola causa dà quella forza stupenda,  onde hanno origine gli avvenimenti che formano l’epoche  delle nazioni ». Come dai patiboli del '99 si potè giungere  alla libertà del '20 ? Il Galluppi studia brevemente questo  problema. La rivoluzione del '99, per lui, fu la conse¬  guenza degli errori commessi dal governo borbonico  (il Galluppi parla sempre di Ministero) dopo il 1794;  quando, dopo aver favorito in tutti i modi le tendenze  liberali promosse e alimentate dalla filosofìa, a un tratto,  spaventato dalla Rivoluzione francese, che intanto aveva  accelerato il movimento degli animi verso la rigene¬  razione politica, esso volle violentemente arre¬  starsi, e tornare indietro, e dichiarò guerra al liberalismo,  e si propose di ripiombare la nazione nella barbarie.  La venuta dei francesi fu la piccola causa che fece rovi¬  nare il trono, le cui fondamenta erano state da lunga  pezza lentamente scavate da’ suoi ministri. Così i Giaco¬  bini del 1799, che s’appigliarono alla massima della  perfetta imitazione dei francesi, senza chiedersi se Napoli  fosse preparata alla democrazia, e alla democrazia fran¬  cese, come 1 ’ Issione della favola, invece di Giunone,  abbracciarono la nuvola. — Giudizio che non è certo  quello di un giacobino.   Successe la reazione; e il governo, anzi che mostrarsi  ammaestrato dagli avvenimenti passati, tornò cieco, feroce,  dispotico; e accrebbe quindi sempre più il desiderio d’un cangiamento. Aggiungi l’azione continua della Francia  sulle cose d' Italia, e gli errori della diplomazia: ed ecco  Giuseppe Bonaparte e Gioacchino, che non sono più i  francesi del '99, ma i correttori e moderatori dispotici  della libertà, i quali compiono l’abolizione del feudalismo  nel Regno, e vengono via via elevando la coscienza civile  della nazione. Questa al ritorno di Ferdinando è già  matura per la Costituzione: la cui richiesta per altro è  affrettata dagli errori che toma sempre a commettere il  Ministero pur dopo il '15. Fra i quali il Galluppi non  manca di ricordare il « concordato ignominioso, che  annienta tutte le riforme dall’epoca dell’augusto genitore  di Ferdinando fino al suo ritorno fra noi ».   Mostrata la necessità storica della rivoluzione del 1820  e della costituzione che Napoli s’era con essa conqui¬  stata, il filosofo protesta contro l’intervento straniero,  e minacciosamente esclama : « Un’ invasione è ella facile  nelle attuali circostanze della nostra nazione? Il '99, il  1815 sono gli stessi tempi per noi del 1820 ? Si è mai  veduto in altri tempi, allorché il nemico ci minacciava,  l’agricoltore, l’artista, il prete, il monaco stesso doman¬  dare l’iniziazione nelle società patriottiche per emettere  il giuramento di vincere, o di morire per la difesa della  costituzione e del trono ? ».   Siamo così abituati a rappresentarci il Galluppi, attra¬  verso i suoi libri meramente speculativi, dove non spunta  mai favilla di passione umana, o un accenno storico, o  un’allusione personale, e attraverso le memorie di quel  suo insegnamento universitario, tutto chiuso, tra il '31  e il '46 (periodo di puro raccoglimento spirituale per  Napoli), nella speculazione sopramondana.: che questa  specie di Galluppi inedito, agitato dalle preoccupazioni  politiche e storiche del mondo in cui visse, ci riesce di  uno strano sapore nuovo e d'un vivo interesse. E ne  viene aggiunta una linea caratteristica e simpatica alla figura del nostro vecchio e caro scrittore; che viene ad  occupare anche lui il suo posto non pur nella storia del  liberalismo italiano, ma in quella schiera di acuti pen¬  satori improntati della più schietta italianità, i quali,  rifacendosi direttamente o indirettamente dal Vico, si  opposero all’ astrattismo antistorico e rivoluzionario di  Francia.   Lungi, dunque, dall'apparirci un giacobino, il Galluppi,  pel suo modo d’intendere e giudicare gli avvenimenti  contemporanei, ci si presenta come un liberale del se¬  colo XIX, penetrato del senso della realtà e razionalità  della storia.   Né questa figura viene menomamente turbata dal  nuovo documento che qui appresso si aggiunge a queste  note: un altro suo discorso accademico, letto a Tropea  (nella solita Accademia degli Affaticati) in lode questa  volta di Ferdinando II, pel suo avvenimento al trono  Discorso che io ho avuto sott’occhio nell’autografo, e  trascritto fedelmente. Esso, ad ogni modo, non può  suscitare né meraviglia, né rammarico in nessuno che  ricordi con quali lieti auspicii salisse al trono il nipote  di quel Ferdinando, a cui il Galluppi aveva inneggiato  nel 18x5. « La giovanezza del re », scrisse lo stesso Set¬  tembrini nella sua Protesta, « la recente rivoluzione di  luglio in Francia, e i movimenti di Romagna, alzarono la  nazione a novelle speranze ». E molto meglio nelle Ri¬  cordanze: «Quando re Ferdinando II, nel novembre del  1830, saliva sul trono delle Sicilie, cominciò bene, e a  molti parve un buon principe. Ogni giovane a venti  armi è buono, come ogni fanciulla a quindici anni è bella.  In un suo Manifesto dichiarò di voler rammarginare le  piaghe che da più anni affliggevano il Regno, ristorare  la giustizia, riordinare le finanze, promuovere le industrie  ed il commercio, assicurare in ogni modo i beni dei suoi  amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia, per la quale tornarono a le loro famiglie molti esuli, molti pri¬  gionieri, le speranze crebbero e l’allegrezza fu grande.  Gli uomini savi dicevano che egli aveva fatto una brutta  orazione funebre a suo padre; ma gli davano lode perché  scacciò parecchi ministri e servitori, che durante il regno  di Francesco avevano fatto mercato d’ogni cosa, perché  restrinse le spese della casa sua, tolse via le cacce, e volle  vivere con certa semplicità e parsimonia, che il popolo  chiamò avarizia. Pareva a tutti cortese perché dava  udienza a tutti, domandava, rispondeva, provvedeva  subito, e ricordava i nomi di quanti aveva una volta  veduti ». Anche Nerone, uscì a dire, uno di quei giorni,  esso Settembrini tra giovani suoi amici e maggiori d’età:  anche « Nerone cominciò col quam mallem nescire scribere.  L’ è scopa nuova, ma di quella mala erba: fate che s’usi,  e vi riuscirà Borbone come il padre, e come l’avolo ».  E gli diedero del matto '. « Io che sono stato vittima del  suo insaziabile dispotismo » — scriveva Nicola Nisco  nell’accingersi alla storia del suo regno, — « e che ne  porto ancora i ricordi ai piedi ed ai polsi, rifarò con civile  orgoglio la storia dei suoi primi anni di regno, i quali  sono andati confusi con quelli che seguirono, massime  dopo il quarantotto, quando la natura borbonica, ride¬  standosi ampiamente in lui, lo menò a divenire l’avver¬  sione non pure d’Italia, ma d’ Europa ». E ricordando  la soddisfazione generale di quei primi mesi del nuovo re,  raccontava : « Alle acclamazioni dei popoli facevan eco i  prosatori ed i poeti di quel tempo, e nell’entusiasmo  della sperata redenzione, sventuratamente poi tradita,  vennero fuori giovani ed uomini egregi, fra i quali Gia¬  como Filioli, i fratelli Baldacchini, i fratelli Dalbono,  il Ruffo e quella sublime donna, che mai non si conta¬  minò di servo encomio, Giuseppina Guacci. E quando    1 Ricord., c. V.        il 18 dicembre 1830, rimosso ogni ostacolo derivante da  colpe politiche al conseguimento dei pubblici uffizi, abi¬  litò all’esercizio delle pubbliche cariche gl’ impiegati ed  i militari destituiti per le politiche vicende, concedè ai  detenuti in carcere, espatriati, esiliati e condannati napo¬  letani e siciliani alle galere e all’ergastolo di ritornare  nelle loro famiglie, Saverio Baldacchini il chiamò in un  suo inno,    Padre a tutti, che il gaudio  Del perdonar provò;   e dall’animo purissimo della giovane Guacci si elevò  quella nobilissima esclamazione   Oh ! lieto il sire,   Che nell’amor dei popoli riposa »   Al coro delle lodi si unì adunque nel gennaio 1831  anche il filosofo di Tropea, tuttavia controllore delle con¬  tribuzioni, col seguente discorso; in cui l’adulazione del  suddito par s’indirizzi all’ idea dell’ottimo sovrano piut¬  tosto che alla persona del giovine monarca ; onde si direbbe  che a tratti assuma il tono dell’ammonimento anzi che  del panegirico. — Alcuni accenni di dottrine filosofiche,  che vi si mescolano, come i riferimenti ai concetti del  bello e del sublime, dimostrano il già sessantenne filosofo  incapace di distrarre la mente dalle sue astratte medi¬  tazioni. E questo è forse l’ultimo scritto, in cui gh ac¬  cadde di volgere attorno uno sguardo, per esprimere  il suo pensiero su fatti e personaggi contemporanei.   1914.    1 N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, Napoli,  Morano, 1889, II, pp. i, 8.     Pel felice avvenimento  al Trono delle Due Sicilie  di FERDINANDO II   Discorso Accademico  di P. Galluppi    Di letizia ripiena, Accademia illustre, io ti rimiro. Con  la rapidità del fulmine l’arrugginita cetra riprender ti  vedo. Il tuo vivo ardore, di scioglier la lingua al canto,  espresso nel tuo volto io leggo. Sì, dell’estro che ti ac¬  cende, l’oggetto io ben ravviso. Un giovine eroe ascende  sul trono di Ruggiero: il dolore, che ingombrava i nostri  cuori, sparisce: in tutti i volti degli abitatori delle Due  Sicilie, con vivi ed espressivi colori, la gioia dipinta si  vede. Un grido di letizia dappertutto rimbomba.   Ma non è la gioia il solo effetto, che la comparsa del  giovine Re sul trono ha universalmente prodotto ne’  nostri cuori. Un vivo sentimento di ammirazione e di  devozione verso la sacra persona di lui, si è immanti¬  nente acceso ne’ popoli di qua e di là del Faro. Ferdi¬  nando II, l’augusto discendente di tanti Re, non sola¬  mente quel sentimento fa nascere, che, in una ridente  primavera, l’aspetto d’una deliziosa campagna, negli  animi sensibili alle bellezze della natura e dell’arte, suole  produrre; ma quel sentimento eziandio produsse, che  in una vasta pianura, la veduta dell’azzurra volta del  cielo, in una notte serena, l'anima colpisce dell’osser¬  vatore attento a contemplar l’universo.   Ferdinando II è dunque un oggetto non solamente  bello, ma sublime. Come bello, la sua    PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? I3I   comparsa sul Trono ha inondato di letizia il cuore de’  suoi popoli ; come sublime, di ammirazione e di  devozione gli ha colpiti. Il bello ed il sublime producono  diverse affezioni morali: l’uno rallegra, ed in certe cir¬  costanze fa pianger di tenerezza. L’altro l’ammirazione e  la devozione produce. Nondimeno, quando il sublime si  riguarda come una causa, che su la nostra felicità influisce,  all’ammirazione ed alla devozione fa esso succedere la  confidenza e la letizia. Tale è il sentimento, che provano i  soldati di un’armata, quando sanno che il loro generale  è uno Scipione, un Alessandro, un Camillo ; e tale appunto  è quello che in noi produce la vista di Ferdinando II  sul trono delle Due Sicilie.   Se il bello ed il sublime l’oggetto sono dell’eloquenza  e della poesia, se senza un oggetto, che sia defl’una e  dell’altra qualità fornito, il genio dell’oratore e l’estro  del poeta languiscono; se l'alto personaggio, che è l’og¬  getto di questa letteraria adunanza, è dell’una e del¬  l’altra qualità eminentemente adorno, con ragione, Con¬  sesso illustre della città di Alcide *, di estro animato ti  veggo, per fare oggetto de’ tuoi canti l’augusto prin¬  cipe, che al Trono ascende di Carlo III. Con ragione,  cogli occhi a me affissi, che dell’onore di esser tuo oratore  son fregiato, attento ti miro. Tu vuoi udir dal mio labbro  la dipintura dell’alto personaggio, che verso di lui attira  i nostri sguardi. Tu brami, che i motivi io ti esponga,  che dalla velocità incalcolabile del pensiero aggruppati  insieme, i sentimenti di gioia, di ammirazione e di devo¬  zione ne’ nostri cuori producono.   Ferdinando II è bello: nel suo volto dipinto si vede  la candidezza deH’anima sua, ed una certa misteriosa  espressione del buon senso, del buon umore, del brio,    1 Tropea, città, secondo la leggenda, di Ercole. Vedi Nicola Scrugli,  Notizie archeologiche di Portercole e Tropea, pp. 15-17.     della benevolenza, della sensibilità e delle altre amabili  disposizioni. Con questa sua bella fisonomia e colle sue  belle maniere, la letizia egli sparge ne’ nostri cuori. Ma  non è questo il punto di veduta, sotto di cui io mi pro¬  pongo di dipingerlo. Ferdinando II ci ha colpiti di ammi¬  razione e di devozione, ed a questi sentimenti è successa  la speranza e la letizia. Egli è dunque un oggetto sublime.  Un oggetto sublime è grande. Egli è, per conseguenza,  grande. Ma qual grandezza siam noi costretti ad am¬  mirare in lui ? Sarà forse quella degli Alessandri, e de’  Cesari ? Quella vera grandezza, che in questi gravi capi¬  tani dell’antichità noi ammiriamo, si trova bensì nel  nostro Eroe. Ma questa non è quella, che più immediata¬  mente ci colpisce, e che più in lui risplende. Una gran¬  dezza guerriera può trovarsi negli uomini i più nefandi.  Siila non era insieme un gran capitano, ed mi mostro  di crudeltà ? Ferdinando II è grande, perché conosce i  doveri di un Re. Egli è grande, perché adempie i doveri  di un Re. È questo l’oggetto del mio discorso.    Parte Prima   Un pensiere è grande, allora che esso è esteso. Un  pensiere che, nella sua espressione la più semplice, com¬  prende tutti i pensieri particolari, che vi si rapportano,  è un pensiere grande; e l’anima, che lo sente in sé, spe¬  rimenta un sentimento di grandezza. Il sentimento della  grandezza è il sentimento della forza o del potere. Colui  che possiede una verità generale, sente che ha in suo  potere tutte le verità particolari che vi son comprese.  Egli è simile a colui che, posto su la cima di un alto monte,  comprende, con un semplice sguardo, un vasto e variato  orizzonte. Floro ci desta un pensiere grande quando ci  rappresenta, in poche parole, tutti gli errori di Annibaie  dicendo : « Allora che poteva servirsi della vittoria, amò  meglio goderne ». Una consimil grandezza si ravvisa  nell’ idea, che egli ci dà di tutta la guerra di Macedonia,  quando dice: «Il vincere fu l’entrarvi». Uno spirito  sublime racchiude le verità particolari in una che sia la  più generale, e per conseguenza la più semplice.   Ferdinando II, asceso sul trono de’ suoi antenati, vede,  con un colpo d’occhio, tutti i doveri di un Re: egli li  racchiude in un principio generale. Il suo pensiere è  grande: egli che lo concepisce, è grande in conseguenza.  La prima parte del mio discorso accademico è terminata.   È terminata ?   Accademia illustre, ti credi tu forse, con questo mio  breve parlare, delusa nella tua aspettazione ? Hai tu forse  sperimentato un sentimento dispiacevole, simile a quello  che sperimentar suole uno spettatore di un’azione tea¬  trale, allora che una causa improvvisa lo chiama in altro  luogo, ed interrompe il suo piacere ? Ma cesserà in te  questo momentaneo doloroso sentimento. La rapidità  incalcolabile del sentimento mi ha fatto attraversare, in  un baleno, un vasto spazio. Io non ho potuto arrestare  la sua impressione. Lo scotimento prodotto nell'anima  da qualche grande oggetto, l’alza notabilmente sopra il  suo stato ordinario. Si desta in lei una specie di entu¬  siasmo piacevolissimo finché dura, che le fa compren¬  dere, con uno sguardo, una moltitudine di oggetti, ma  da cui l’anima tosto ricade nella sua ordinaria situazione.  Percorrerò dunque di nuovo, ed a passi osservabili, lo  spazio trascorso.   Iddio, eh’ è il legislatore dell’intero universo, diede  all’uomo una legge, e la impresse nel cuore di lui. L’uomo  è dalla sua natura determinato allo stato della civil so¬  cietà. In questo stato solamente può egli perfezionar se  stesso, ed adempiere la sua destinazione. L’uomo ha in se  stesso le tendenze, i mezzi e la legge di vivere nella civil società. La società civile non può sussistere senza un  essere morale, dotato del potere legislativo ed esecutivo.  Un tal essere è il Sovrano. Nelle monarchie semplici,  il sovrano è il Re.   Ma Iddio ha voluto l’esistenza della civil società su  la terra, per la felicità degli uomini; 1’esistenza dunque  della sovranità, come ordinata a quella della civil società,  è voluta da Dio per la felicità degli uomini. Queste sem¬  plici riflessioni ci menano infallibilmente alla conoscenza  del principio generale della morale de’ Re. La desti¬  nazione dei Re su la terra è di rendere,  per quanto è loro possibile, felici i  loro sudditi. Ecco il principio luminoso e sublime,  che tutti racchiude i regi doveri.   Ma non udiamo noi forse questa sublime e consolante  filosofìa annunciarsi a’ popoli delle Due Sicilie, nel primo  momento del suo avvenimento al trono, dall’augusto  Ferdinando II ? Ascoltiamo la sua voce sovrana in quel-  l’ammirabile proclama, che destò ne’ nostri cuori l’am¬  mirazione e la devozione per la sua sacra persona, e che  di vera gioia gl' inondò. Il giorno otto di novembre dello  scorso anno 1830 Ferdinando II ascese sul trono, ed in  quell’ istesso giorno egli così parlò a’ suoi sudditi :   « Avendoci chiamato Iddio ad occupare il Trono de’ nostri  augusti Antenati, sentiamo l’enorme peso, che il supremo Di¬  spensatore de’ regni ha voluto imporre sulle nostre spalle, nel-  l'affidarci il governo di questo Regno. Siamo persuasi che Iddio,  nell’ investirci della sua autorità, non intende che resti inutile  nelle nostre mani, siccome neppur vuole che ne abusiamo. Vuole  che il nostro Regno sia un Regno di giustizia, di vigilanza, e di  saviezza, e che adempiamo verso i nostri sudditi alle cure paterne  della sua Provvidenza « *.    1 II proclama si può leggere nella Collezione delle leggi e de' decreti  reali del Regno delle Due Sicilie, a. 1830, sem. II, Napoli, Stamp.  Reale, 1830, pp. 143-.45.  A voi, gran Dio, che avete nella vostra mano il cuore  de’ Re, per inclinarlo secondo la vostra volontà sempre  santa, grazie siano rese del prezioso dono, che nella vostra  misericordia ci avete concesso. Non mica nel furore del  vostro giusto sdegno, ma nelle vedute imperscrutabili  della vostra misericordia, voi ci avete inviato a reggere  i nostri destini il giovane eroe, che ci sorprende colla  sua sublime sapienza. Egli riconosce che non dee punto  abusare dell’autorità di cui voi l’avete rivestito; che  è suo sacro dovere, di far che regni fra di noi la giustizia,  e che egli sia il felice istrumento delle cure paterne  della vostra provvidenza su di noi. Ciò è lo stesso che  riconoscere esser egli destinato da voi  a render felici i suoi sudditi. Ciò è lo  stesso che proclamare il principio generale della mo¬  rale de’ monarchi. Il principe, che così parla a’ suoi  popoli, non ha mica il crine canuto: egli è un giovanetto,  che ha appena compiuto il quarto lustro della sua età.  Egli è dunque dotato di un’anima grande ; ed è con ragione,  che qual Grande è salutato da’ popoli delle Due Sicilie.  Un’anima grande ha solamente potuto concepire il pen¬  siero sublime, che tutta racchiude la morale de’ Re;  ed un’anima grande ha potuto, invece di essere distratta  dallo splendore del Trono, specialmente in un’età gio¬  vanile, concentrar tutta se stessa nell’espressione de’  propri doveri, ed esserne profondamente penetrata.   Nell’ammirabile proclama il nostro gran Re non sola¬  mente conosce la sua augusta destinazione nel governo  de’ suoi popoli, ma vede ancora i mezzi principali, che  debbono fargli conseguire il gran fine. Egli scovre nel  principio le illazioni. Egli vede, in primo luogo, che gli  uomini non possono esser febei, senza esser virtuosi:  egli conosce T intima relazione, che passa fra la virtù  e la Religione; che i sentimenti rebgiosi conducono alla  virtù, come la virtù conduce alla Rebgione. Egli comprende che la vera religione viene in soccorso della pub¬  blica autorità, e per estendere la sanzione delle leggi,  e per ottenere ciò che esse non possono prescrivere, e  per evitare ciò che esse non potrebbero sempre giugnere  ad impedire; ed egli conclude, che dee proteggere la  divina Religione, che c’ illumina. « I grandi », dice il  celebre Massillon, « non son grandi se non perché eglino  sono le immagini della gloria del Signore, ed i deposi¬  tari della sua potenza. Eglino dunque debbono sostenere  gl’ interessi di Dio, di cui rappresentano la maestà, e  rispettare la Religione, che sola rende rispettabili loro  stessi ».   Dalla Religione volge il nostro gran Re lo sguardo alla  giustizia. Egli vede che la felicità de’ cittadini richiede  una gelosa custodia de’ loro diritti. Egli conosce che  questa custodia è il sacro dovere del potere giudiziario.  Egli è convinto che il Re nell' istituzione di questo potere,  e nell’elezione de’ membri, che debbono comporlo, deve  porre la maggiore attenzione che gli sia possibile. Il cit¬  tadino dee, sotto la protezione della legge, e del pubblico  potere, vivere tranquillo: egli non dee temere che i suoi  diritti sieno violati. Magistrati, a cui la regia maestà  consegnò la spada di Temi, ascoltate la voce del sapiente  legislatore. Tutti i miei sudditi, egli dice, debbono essere  uguali agli occhi della legge '. I tribunali debbono essere  un santuario, che la corruzione, la prepotenza, T intrigo,  non debbono giammai profanare. Se i giudici debbono  essere indipendenti nelle loro sentenze, eglino non deb¬  bono essere legislatori. L'accordar grazie ed eccezioni è  una funzione estranea al loro potere. L’impero della  legge dee essere universale.   1 « Noi vogliamo — dice il Proclama — che i nostri tribunali  siano tanti santuari, i quali non debbono mai essere profanati dagl' in¬  trighi, dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano riguardo o  interesse. Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono uguali, e  procureremo che a tutti sia resa imparzialmente la giustizia ».     I cittadini non possono essere felici, se lo Stato non  è ricco. Uno Stato, dice un celebre politico, non si può  dire ricco e felic.e, che in un solo caso, allorché ogni cit¬  tadino con un lavoro discreto di alcune ore può como¬  damente supplire a’ suoi bisogni ed a quelli della sua  famiglia. Un lavoro assiduo, una vita conservata a stento  non è mai una vita felice. I dazj eccessivi sono contrarj  alla felicità di cui parliamo; ed i dazj debbono essere  eccessivi, allora che il Tesoro generale dello Stato pre¬  senta un voto. E qui l’anima grande di Ferdinando II  ci si mostra allo scoverto. Egli non dirige il suo sguardo  su le pompe de’ Re, su i palagi de’ Grandi, ma lo dirige  su i cenci, e su i tugurj de’ poveri e degl’ infelici. Al suo  penetrante sguardo tosto si svela lo spettacolo doloroso  della soma pesante de’ dazj, che gravita sul suo popolo.  La sua grande anima ne è profondamente penetrata,  ma non abbattuta. Le grandi passioni innalzano l’anima,  e scovrire le fanno degli oggetti incogniti agli uomini  ordinari. Ferdinando II vede quasi nel momento stesso  il voto spaventevole del Tesoro generale, ed i mezzi di  ripararlo. La grande opera della instaurazione delle reali  finanze, è tosto nella gran mente del Principe magnammo  già delineata. La felicità de’ cittadini richiede ancora,  che lo Stato sia temuto e rispettato al di fuori. Ad un  si grande oggetto conferisce un’armata disciplinata,  valorosa ed animata dal nobile ardore di gloria. E Fer¬  dinando II si fece già ammirar da capitano, prima di  farsi ammirare da Re.   Augusta filosofia! Se io a te consagrai sin da  primi anni la mia vita, se non ho avuto altro scopo ne  miei scritti, che di annunciare la verità al genere umano,  se tu vedi che io ardisco di parlare ad un Re, da te non  si concepisca contro di me alcun sospetto, che mi avvi¬  lisca a’ tuoi sguardi. No, l’adulazione non ha profanato  il mio linguaggio. Io non ho prestato al mio Eroe i miei    10 - Gentile, Albori. I.      pensieri, per formarmi un prototipo di mia immagi¬  nazione. Io gli ho osservati in lui, che nel suo proclama gli  esprime. Io ho dunque, senza rimorso di arrossire al suo  cospetto, il diritto di concludere : Ferdinando II  è grande perché egli conosce i doveri  di un Re.    Parte Seconda   Ferdinando II adempie egli i doveri di un Re ? Il tempo,  in cui 1 ’ Eroe di questo discorso regna su di noi, non è  ancora di tre mesi; ed egli ha tali e tante cose operato,  che con ragione i sudditi suoi, nella sincerità del loro  cuore, 1' hanno unanimemente acclamato per Grande.  Ferdinando II è un personaggio straordinario. Pe’ per¬  sonaggi di tal fatta i giorni sono anni, e gli anni sono  de’ secoli. I loro passi sono di una rapidità incalcolabile,  ed agli occhi degli uomini ordinar] sembrano de’ pro¬  digi- Eglino, quando anche la loro vita fosse molto corta,  formano l’epoche della storia; perché producono quei  memorabili avvenimenti, che cambiano lo stato de’  popoli, e fanno a questi percorrere un cammino diverso.  I loro nomi resistono al furore del tempo, che tutto di¬  strugge. Ferdinando II ascende al trono de’ suoi antenati,  nell’aurora della sua vita. Un uomo ordinario sarebbe  stato sedotto dallo splendore del Trono: egli avrebbe  sdegnato le penose cure del governo di un Regno; egli  sarebbe stato colpito dal fasto de’ grandi. Il giovin Eroe  chiude gli occhi alle pompe incantatrici del Trono, ed  attento gli rivolge su i mah del suo popolo. Egli non  vuol assidersi in mezzo de’ grandi pria di piangere cogl’ in¬  felici. Una serie d’infausti avvenimenti produce torrenti  di mali, ed immerge nel dolore e nel pianto gli abitatori  di queste belle contrade. Un muro di separazione s’in¬  nalza fra di noi. Esso divide i sudditi da’ sudditi. Quelli     della parte sinistra son privi della vita civile, nell’atto  che la necessità ne chiama degli altri, che sono insuffi¬  cienti, alle pubbliche cariche >.   Il potere giudiziario perde tanti ragguardevoli magi¬  strati. L’amministrazione tanti prudenti e savj ammini¬  stratori. La indizia tanti valorosi campioni. Gran Dio,  chi riparerà i nostri mali ? Voi avete udito i gemiti de  buoni e virtuosi cittadini di questo bel Regno: la vostra  voce finalmente dal Cielo si è udita. Popoli delle Due  Sicilie, rasciugate le vostre lagrime : i vostri cuori si aprano  alla gioja. Un Re di un’anima eroica ascende sul Trono:  egli sanerà le vostre piaghe : egli vi farà risorgere a nuova  vita. Sì, il core magnanimo di Ferdinando il Grande è  commosso all’aspetto de’ mah di una gran parte de  sudditi suoi. Egli sente, nella sua clemenza, che, essendo  l’immagine di Dio e del Redentore divino su la Terra,  dee qual padre correre ad abbracciare il figliuol prodigo.  Egli vede, che la discordia in un Regno è la sorgente di  mali deplorabili, e che un principio saggio dee farla ces¬  sare. Egli conosce, che i Re debbano regnare su i cuori  de’ loro sudditi. Il memorando decreto del 18 dicembre  del 1830 è pubblicato. Il muro di separazione è rove¬  sciato. La gloria di Ferdinando II sarà immortale ».   Tacete, animucce infelici, in cui la calunnia ha posto  la sua sede, tacete. Che cosa mai dir vorrete ? Che il  Reai Decreto or ora citato è una finzione ? Che esso non  avrà alcuna esecuzione ? No, l’anima eroica di Ferdi¬  nando II non cape siffatta bassezza. I reali Decreti del  dì 11 del corrente gennaio 3 vi ammutoliscano. Ferdi-    1 A questo punto d'altra mano, in margine: «La tempesta politica  fa traviare dal retto cammino anche i migliori talenti ».   1 L’atto sovrano del 18 dicembre 1830 portava un indulto in favore  dei condannati come rei di Stato, e di coloro che per ragioni politiche  si trovavano esclusi dagli impieghi civili e militari.   3 Allude ai due decreti nn. 104 e 106, emanati con quella data da  Ferdinando II, col primo dei quali si cercava di curare le piaghe      140    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    nando II regna senza distinzione, su i cuori di tutti i  sudditi suoi. Tutti si riguardano quasi fratelli, perché  vivono sotto T impero di un Re, che è loro Padre.  DalTuna all’altra estremità delle Due Sicilie una sola  voce si ascolta : Viva l’Eroe! Viva Ferdi¬  nando II il Grande! Tutti sì, tutti son pronti  a versare per un tanto clemente Monarca il loro sangue.   La virtù non dee amarsi che per se stessa, e sarebbe,  in buona filosofìa, un distruggerla il riguardarla qual  mezzo per la felicità. Ma è essa una verità incontrasta¬  bile, che l’uomo virtuoso sarà felice, ed il vizioso infelice.  Quale spettacolo più commovente per l’anima di Fer¬  dinando II di quello che gli presentò la capitale ne'  giorni ix, 12 e 13 di gennajo, e la relazione, che certa¬  mente gli pervenne, della letizia universale innalzata  sino al più vivo entusiasmo di tutto il Regno ? Il piacere  di rendere milioni di uomini felici, e di vedersi da essi  adorato ne ha esso forse un eguale su la terra ? Il Principe  magnanimo intese nel suo cuore, che egli ha tanti sol¬  dati, quanti sudditi conta il suo regno. Egli vide il suo  Trono immobile, la sua gloria immortale.   La grand’opera della rassicurazione delle reali finanze  la dicemmo già delineata nella gran mente del nostro  Eroe. La mano incomincia tosto ad eseguire il disegno    profonde che erano nelle finanze del Regno, sopra tutto dei do¬  mimi continentali, per « le conseguenze fatali della straniera usurpa¬  zione: gli avvenimenti disgraziati del 1820#; si esponeva con leale  franchezza il deficit della tesoreria generale di Napoli, che am¬  montava a 4 345 251 ducati; per colmare gradualmente il quale si  annunziava una serie di lodevoli economie nella milizia e nei ministeri,  oltre straordinari rilasci della cassa privata del Re e dell'assegnamento  della R. Casa; l’abolizione del cumulo degli stipendi; l’imposizione  di una ritenuta ai soldi e pensioni superiori a 25 ducati mensili; e in  compenso pel « sollievo della parte più bisognosa del popolo » si dimi¬  nuiva della metà il dazio sul macino. Con l’altro decreto veniva pre¬  scritta « una generale economia nelle spese a carico dei comuni di qua  del Faro per invertirla nella diminuzione de’ più gravosi dazi  comunali». Vedi Collezione cit., a. 1831, sem. I, pp. n-17, e 18-20.       PASQUALE GALLUPPI GIACOBINO ? I4I   del pensiere. I Re imprimono alle loro azioni un carat¬  tere di gloria, che spinge i sudditi ad imitarle. L’idea  di grandezza si associa a quella delle azioni de’ grandi,  e l’impero delle idee associate sul cuore umano è molto  esteso. Quindi la virtù, quando si scorge nelle azioni  de' grandi, di qualunque grandezza essi sieno adorni,  rende la virtù rispettabile su la terra.   Guidato da questo sublime pensiere, Ferdinando II  incomincia da sé la nobile impresa. Que’ insti spazj di  terra riserbati alla caccia de’ Re son tosto restituiti al¬  l’agricoltura ». Questa misura diminuisce le spese relative  alla persona del Re, ed aumenta la pubblica ricchezza.  Un rilascio è conceduto dalla borsa privata del Principe:  altro ne è fatto dall’assegnamento della Casa reale. La  classe degl’ impiegati è chiamata ad imitar l’esempio del  Reggitor supremo dello Stato: ed il reai Decreto del di  11 gennaio contenente una diminuzione di dazj, vien  tosto a colpirci di ammirazione e di gioja.   Se tali sono le imprese di Ferdinando II in men di  tre mesi, che cosa non dobbiamo noi sperare in un lungo  regno, che gli auguriamo felice ? Egli ha promesso la  restaurazione della giustizia. La sua promessa è sacra  ed immutabile. Il passato ci autorizza a sperare il futuro.  Sì, il cittadino vivrà tranquillo sotto 1 * impero della legge.  Il regno di Astrea rinascerà su le nostre contrade. Ed io  non posso trattenermi di finire col poeta latino:   lam redit et virgo, redeunt Saturnia regna,  lavi nova progenies caelo demìititur alto.    1 « Con la pubblicazione del suo proclama il Giornale ufficiale  annunziava le sue disposizioni per l’abolizione delle cacce »: N. Nisco,  Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, voi. II, p. 67.  . 1. Il Galluppi è stato detto a ragione gran riformatore della filosofia italiana ; e aspetta ancora un degno illustratore della sua vita e del suo pensiero . Noi ne diremo soltanto quanto è neces sario al disegno di questo lavoro . Nacque a Tropca, in Calabria , il 2 aprile 1770 ( lo stesso anno di Hegel) dal barone Vincenzo e da Lucrezia Galluppi, una delle più antiche famiglie patrizie di quella cittaduzza. Fattii primi studi di latino, tredicenne fu mandato a scuola di filosofia e ma tematica da « un abile maestro » ( 1 ) , tal Giuseppe Antonio Ruffa, che gli pose in mano la Logica del Genovesi e la Geometria di Euclide; e l'innamorò talmente di questi autori e di queste disci pline, che il Galluppi , anche innanzi negli anni , non rivedeva quei libri senza una certa commozione. Ma non si fermò al Ge novesi ; perchè alcuni suoi compagni l'indussero a leggere la Teodicea del grande avversario di Bayle. E il Galluppi ne fu in vogliato a studiare tutto il sistema nelle opere del Wolff, come anche ad applicarsi alla teologia , poichè nella scuola « si era in trodotto, scrive egli stesso , un certo misticismo » . 2. Studi teologici e metafisici continuò a coltivare a Na poli , dove si recò nel 1788 , da Palermo, ove il padre qualche anno prima aveva condotto la famiglia . Frequentò le lezioni di teologia di Francesco Conforti, il Sarpi napoletano, e quelle di greco di Pasquale Baffi ; entrambi vittime gloríose del 1799. Studiò la Bibbia, la storia antica , l'ecclesiastica, la patristica, ( 1 ) Vedi il brano autobiografico pubblicato dal prof. F. PIETROPAOLO nella Rivista di filosofia scientifica di E. Morselli, &. 1887, e ripubblicato da CARLO TORALDO nel suo Saggio sulla filos. del Galluppi e le sue relazioni col kantismo, Napoli , Morano , 1902, p. 29 ( dove per una gvista è stampato amabile per abile ) .  specialmente s . Agostino. Ma, per la morte del suo minor fratello Ansaldo, dovette nel 1794 rimpatriare per attendere all'azienda do mestica ; e sposò Barbara d'Aquino di Cosenza , dalla quale ebbe quattordici figli ! Negli Elementi di psicologia ( 1 ) egli stesso ricorda la sua numerosa figliuolanza, che nella sua casa non grande gli avrebbe impedito co'suoi strepiti infantili di studiare la filosofia e le matematiche, senza la sua grande passione per questi studi. Persistetti, egli dice, e « l'esercizio mi pose in istato , che io me ditavo tranquillamente, non ostante i giuochi strepitosi, i pianti e le grida de ' ragazzi > ( 2 ) . Nel 1795 , per rispondere alle censure che certi ecclesiastici avevano fatto di alcune sue proposizioni , pubblicò una Memoria apologetica (3) Nè tralasciava frattanto di coltivare la filosofia : « ma i libri filosofici che leggeva, com'egli c’informa, erano tutti della scuola cartesiana » . Intorno al 1800 lesse Condillac, e « qui cominciò la seconda epoca della sua vita filosofica . Le opere di questo filosofo fecero cambiare la direzione dei suoi studi nella filosofia » , « lo compresi , - ci dichiara il Galluppi, – che prima di affermare qualche cosa su l'uomo, su Dio e su l'universo , bisognava esaminare i motivi legittimi dei nostri giudizi e porre una base solida alla filosofia ; che bisognava perciò risalire all'origine delle nostre co noscenze, e rifare in una parola il proprio intendimento » ( 4) . 3. Così egli scriveva nel 1822 , quando era molto progredito nella critica della conoscenza , e aveva, si può dire, approfondito il problema. Forse la prima lettura di Condillac non gli diede quella netta coscienza, che parrebbe da queste parole , dell'im portanza della questione gnoseologica . Certo, l'avviò per questa strada, che è la strada maestra delle filosofia moderna, facendolo ritornare sul Saggio del Locke. E primo frutto di questi nuovi studi fu nel 1807 un opuscolo Sull'analisi e la sintesi ( 5 ) ; le due ( 1) § LVI ; 2.a ed. , Firenze, Pagani, 1832, p. 103 . ( 2) Anche il Vico nella sua vita ricorda con quella sua disinvolta vanità di esser * uso sempre a leggere o scrivere, o meditare » tra lo strepito de' suoi non pochi figliuoli. ( 3 ) In Napoli , pei torchi di Vincenzo Mozzola - Vocola . ( 4 ) Autobiografia citata. (5) Napoli, Giuseppe Verriento , 1807. Tirato in pochi esemplari non messi in vendita, quest'opuscolo è divonuto oggi rarissimo. Una copia è conservata dalla Biblioteca Univer sitaria di Napoli, nella Miscellanea Imbriani.  I facoltà che occuperanno un posto primario nella filosofia dello spirito galluppiana. Tutto intento a' suoi studi , e senza allontanarsi mai da Tro pea, se di là « con l'occhio e col pensiero » , come immaginava in un suo affettuoso elogio Luigi La Vista, non si sarà rivolto « alla prossima Cotrone, ed ai suoi costumi ed alle sue idee trovato un modello nella vita e nella sapienza del divino Pita gora » ( 1 ) ; certo avrà seguito gli avvenimenti politici dei for tunosi tempi del decennio francese in Napoli , com'è certo che partecipò vivamente con l'animo alle riforme liberali allora at tuate o vagheggiate. Scrisse anche un opuscolo Su la libertà com patibile con ogni forma di governo, rimasto inedito . E nel 1809 da re Gioacchino fu nominato controllore delle contribuzioni della provincia di Catanzaro ( 2) . Della parte da lui presa alla vita pub blica contemporanea si ricorda pure un opuscolo stampato nel 1820, Lo sguardo dell'Europa sul Regno di Napoli, in difesa degli ordini costituzionali napoletani minacciati dal Congresso di Lai bach, e contro l'intervento straniero . E altri due opuscoli avrebbe indirizzati al Parlamento napoletano , l'uno Sulla libertà dell co scienza e l'altro Sulla libertà della stampa ( 3) ; opuscoli ora irrepe ribili, ma che non dovevano contenere niente di diverso dallo scritto Su la libertà compatibile con ogni forma di governo, di cui larghi squarci e transunti furono pubblicati nel 1865 ; nei quali il Nostro mostrasi largo fautore di ogni libertà (4) , 4. Quando scrisse l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi il Gal luppi ancora non conosceva nulla di Kant, secondo che egli stesso ci attesta. « La conoscenza di questa filosofia, egli dice, non cam biò punto la direzione dei miei studi ; io continuai le mie appli ( 1 ) Memorie e scritti di L. LA VISTA, Firenze, Le Monnier, 1863, pag. 257. ( 2) Vedi quel che no dice P. E. TULELLI in un'interessante memoria Intorno alla dottrina ed alla vita politica del bar . P. G. - Notizie ricavate da alcuni suoi scritti ine diti e rari, negli Alti della r. Acc. delle scienze mor . e pol. di Napoli, I ( 1865 ), 201 e sgg. Il TULELLI pubblicò un'altra memoria : Sopra gli scrilli inediti del bar, P. G. negli stessi Atti del 1867, III, 81 e sgg. ( 3) Vedi l'opuscolo più sotto citato di F. S. BISOGNI, Omaggio , p. 9. (4) Vedi la prima delle due memorie del Tulelli. Pare tuttavia che nella reazione del '99 il Galluppi , che allora trovavasi a Tropea , non abbia mantenuta quella condotta che si conveniva a un amico della libertà . Nell'Eco di Tropea del agosto 1902 II , n. 35 ) il prof. C. TORALDO , al quale pure si deve il citato Saggio sulla filosofia del Gal luppi con appendice di scritti inediti, ha pubblicato questo bruttissimo sonetto recitato dal Nostro noll'Accademia degli Affaticati di quella città : cazioni su l'intendimento umano, ma profittai molto delle fati che del filosofo di Koenisberg ; io riconobbi il merito dei problemi elevati dalla filosofia critica , sebbene trovai insufficiente la so luzione che questa ne avea dato . Le meditazioni da me por tate su la filosofia critica , elevarono molto più alto i miei pensieri e mi presentarono delle nuove vedute nella scienza dell'intendi mento umano » ( 1 ) . E vedremo infatti quanta parte del criticismo kantiano si rispecchi nel Saggio filosofico sulla critica della co noscenza , di cui il Nostro pubblico i primi due volumi a Napoli nel 1819 ( 2 ) , Questa prima conoscenza di Kant provenne al Galluppi dalle esposizioni nè complete nè esatte del Villers ( 3 ) e del Kinker ( 4 ) e Della Patria il dolore , il lutto , il pianto , La rea sorte fatal veder non voglio , Di Marto, di Bellona il fler orgoglio , L'augusto trono di Minerva infranto , Spesso sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto dal più fler cordoglio , Pria che de' Franchi vacillasse il soglio , Dico nel mio pensiere, e piango intanto. Un ferro io prendo. Occhi mici, non piangete, Grido nel mio furore ; io corro or ora Sollecito a varcar l'onda di Loto . Ma già l'Angiol divin , che accanto giace, Di man mi toglie il ferro , e grid'allora Verrà Fernando : tornerà la paco ! Il sonetto è conservato su un foglio volante, che reca dalla parte opposta queste parole che sono la conclusione di un discorso accademico : « Ferdinando augusto , principe ma gnanimo, nell'impetuoso turbino che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a salvarci. I destini della nostra nazione son legati alla tua esistenza . Ferdinando viene, Napoli è salvo. Il mio discorso accademico è terminato » . E poi : « Pasquale Galluppi fra gli Af fatigati il Furioso . Siegue dietro il Sonetto dello stesso accademico » A me pare che discorso e sonetto possano riferirsi alla reazione del 1799 . ( 1 ) Le frasi in corsivo di questo passo meritano particolar considerazione per quel cho si dirà più innanzi del pensiero galluppiano. ( 2) Pei torchi di Domenico Sangiacomo. Seguirono altri 2 vol. Messina , Pappalardo , 1822 ; poi un 5.° e un 6. ° , per cui l'opera fu compiuta, nel 1832 , presso lo stesso Pappalardo. Nel 1833 in Napoli fu incominciata la 2.a edizione migliorata ed accresciuta . ( 3) Philos. de Kant, ou principes fondamentaux de la philos. trascendentale, Metz, 1807. ( 4) Essai d'une exposition succincte de la Critique de la Raison pure ; trad. du l'ol landais par. J. le F. , 1801; vedi su questi e gli altri primi scritti francesi sul Kant l'im portante memoria del PICAVET, La philos. de Kant en France de 1773 à 1814 , proposta alla sua trad. della Critica della Ragion pratica (Paris, Alcan, 1888 ). dalla Storia comparata dei sistemi filosofici ( 1803) del Degerando. Egli non seppe mai il tedesco ( 1 ) , nè mai conobbe la traduzione latina di alcune opere kantiane, già ricordata, fatta dal Born ( 1796-98 ) ; nè era uscita peranco la traduzione che il cav. Man tovani fece della Critica della ragion pura ( 1820-26) , e che sarà poi la sua fonte principale. 5. Nel 1820 pubblico i primi due volumetti di Elementi di filo sofia contenenti la Logica pura e la Psicologia , e prometteva l'Ideologia , La logica mista , la Filosofia morale, che infatti uscirono in altri tre volumetti nel 1826 ( 2) , e una Storia filosofica ragionata, che un avvertimento dell'editore al quinto volumetto annunziava non si sarebbe piu pubblicata avendo l’autore « su l'oggetto intra presa un'opera estesa » ( 3) . E questi libri , i migliori testi di filo sofia per le scuole che si siano avuti finora in Italia , per i loro squisiti pregi didattici d'ordine e di chiarezza , si divulgarono presto per tutta Italia , procacciando molta fama al benemerito autore . Intorno al 1821 scrisse alcune lettere sulla storia della fi losofia moderna, indirizzate al canonico don Goffredo Fazzari, che nel seminario vescovile di Tropea insegnava gli Elementi di lui e desiderava da lui stesso di essere orientato in mezzo al « caos delle opinioni , che al presente scrive il Galluppi nella prima lettera — agitano il mondo filosofico » , e di essere sovrattutto informato della filosofia critica. E queste lettere l'autore nel 1827 raccoglieva in un bel libro, piccolo di mole ma che è il primo degno saggio di storia della filosofia in Italia ( + ) , il quale diede ( 1 ) Nè soppe tanto di francose da tradurre da questa lingua sonza errori di senso . Vodi per un esempio curiosissimo la mia prefazione al Saggio citato del prof. C. TO RALDO , p. IX, n . 1 . ( 2) Aggiunse più tardi gli Elementi di teologia naturale. Nel 1835 si fece a Firenzo una edizione di tutti questi Elementi di filosofia con aggiunte dell'autore e note di P.(OMPILIO ) T.(ANZINI) S. ( COLOPIO ), pubblico lettore ; ristampata a Bologna nel 1837. ( 3) Di questa Storia della filosofia non fu pubblicato poi che il primo volume conte nento il primo dei duo libri di Archeologia filosofica , che l'autore intendeva premettere al l'opera. Ne conosco solo l'odizione di Milano, Silvestri, 1847, nella quale precode l'Elogio funebre scritto da ENRICO PESSINA . ( 4) Lellere filosofiche sulle vicende della filosofia relatiramente ai principii delle cono scenze umane da Cartesio sino a Kant inclusicamente , Messina, Pappalardo, 1827. Le let tere in questa edizione erano tredici. Una 14. ne aggiunse l’A. alla 2.a edizione (Napoli, 1838) , con un Discorso di LUIGI BLANCH per venire fino al Cousin e al Rosmini. E questa 2. edizione fu riprodotta in quella di Firenze, Fraticelli, 1842 , che noi citeremo. occasione al Romagnosi ( 1 ) di scrivere una Esposizione storico -cri tica del kantismo e delle consecutive dottrine ( 2) . E altre cinque Lettere sull’ontologia indirizzd a un amico tra il 1820 e il 1822 , dove si adoperò a mettere in chiaro, da un punto di vista kan tiano, la futilità dell'ontologia wolfiana ( 3) . Ma queste lettere non sono venute in luce che recentemente . 6. Per tutti gli scritti già divulgati il Galluppi s'era reso noto per tutta Italia ; e il giovane Rosmini l'11 novembre 1827 , ap pena stampato il primo volume de' suoi Opuscoli filosofici, glielo inviava da Milano, dichiarandoglisi obbligato se egli , che aveva « arricchita la filosofia , quella scienza avvilita e profanata nei no stri tempi, anzi distrutta » , avesse voluto aggradire l'opera e comunicargli « qualche lume relativo alle materie che sono in esse contenute » . E si stabilì fra i due filosofi un carteggio assai istruttivo per chi voglia conoscere le relazioni storiche delle ri spettive loro dottrine ( 4 ) . Varie accademie fin da prima del 1822 l'avevano aggregato a’loro soci ; fra esse la Sebezia e la Pontaniana di Napoli. Quivi il Galluppi tornò il maggio del 1831 ; e subito vi pubblicò una traduzione dei Frammenti del Cousin , con una prefazione e una « Dissertazione del traduttore , in cui si confuta il domma del l'unità della sostanza » , ove però son comprese le osservazioni del Galluppi intorno alle altre dottrine del Cousin non accettate ( 5 ) . « Avendo meditato su di questo sistema filosofico, ho creduto di trovare in esso delle vedute sublimi, ed insieme un errore pe ( 1 ) Che ne aveva scritto prima una recensiono nella Biblioteca Italiana , di Milano, vol. L, p. 163 e ss . ( 2 ) Nella stessa Biblioteca , LIII, 180 e ss . Vedi Opp. filos . ed . e ined . , di G. D. R. con annotazioni di A. DE GIORGI, Milano, 1842, pp. 575-605. Su questo scritto e in generale sul Kantismo in G. D. Romagnosi vedi l'art. del CREDARO nella Riv. di filos. italiana , an . 1887, vol . II . ( 3) Vedi ciò che ne ho detto nella prefazione al citato Saggio del Toraldo. Dovo que ste lettere sono stato tutte cinquo pubblicato per la prima volta . Solo le prime due erano state edito da F. PIETROPAOLO , Scritti inediti di P. Gall. nella Riv, filos. scient., VII ( 1888 ), 128-44. ( 4) Vedi il nostro Rosmini e Gioberti, pp. 75-82 ( Pisa , Nistri , 1898 ). ( 5) La filosofia di V. Cousin , trad . dal francese, ed esaminata dal bar. P. Galluppi , a spese del N. Gabinetto lotterario, 1831 , vol. I. Il vol. II è del 1832. A pag. 197 del vol. I si incontra anche una postilla del tradut tore relativa ad alcune massime morali del Cousin ,  ricoloso » . Quindi, accompagnando la traduzione con la detta dis sertazione, ei credeva di porre « il lettore filosofo in istato di conoscere non solo la filosofia del sig . Cousin , ma di giudicarla » . Il libro frutto presto molto favore all'eclettismo francese a Na poli , e specialmente al suo capo , che dal canto suo fece conoscere il Galluppi in Francia ( 1 ) , e anche fuori per mezzo dell'amico Ha milton, che in un giornale filosofico di Edimburgo scrisse un ar ticolo sul Nostro . 7. A Napoli nello stesso anno 1831 fu persuaso da amici a chiedere la cattedra di logica e metafisica vacante nell'Univer sità . Presentato al ministro degli interni marchese di Pietraca tella, questi , udito il suo desiderio , l'invito a cimentarsi a un esame. Ma egli con sdegnosa semplicità calabrese rispose : E chi c'è a Napoli che possa esaminare Pasquale Galluppi? – L'amico che l'aveva presentato , rimase sconcertato . Ma il 4 ottobre 1831 il nostro filosofo aveva il suo decreto di nomina ( 2 ) . « Con che festa noi giovani , narrava il Settembrini con quanta calca tutte le colte persone si andò a udire la sua prolusione, e poi le lezioni che egli appollaiato su la cattedra dettava con l'accento tagliente del suo dialetto ! Ci sono sempre i maldicenti, i quali dicevano che egli era mezzo barbaro nel par lare, ma in quel parlare era una forza di verità nuova , ma l'in gegno cra grande, e il cuore quanto l'ingegno » ( 3 ) . Quell'anno stesso aveva dato una novella prova delle sue atti tudini didattiche dando alle stampe un'opericciuola : Introduzione allo studio della filosofia per uso dei fanciulli. Ma nel seguente anno, primo del suo insegnamento , coi primi due volumi della Filosofia della volontà dedicati al marchese di Pietracatella, poi e --- ( 1 ) Si conservano nella biblioteca del Cousin , appartenente alla Ropubblica, le lettere a lui del Galluppi. Vedi l'art. da me pubblicato su V. Cousin e l'Italia nella Rassegna bibliograf. della letter. ital. del 1898, VI , 213. Il Cousin fece tradurre in francese dal Peisse suo discepolo le lettere del Galluppi ; o questi da F. Trinchera le Lezioni del Cousin Sulla filosofia di Kant, aggiungendovi cgli delle note, come sarà notato a suo luogo . Un'affettuosa commemorazione del Galluppi fece il Cousin nel 1847 all'Accademia di Francia , o pubblicò nel Journal des Économistes del febbraio 1847, riportato nell'Omnibus di Napoli del 29 maggio 1847, dove il Galluppi aveva scritto sul Cousin, anno III ( 1835) , pag. 225 . ( 2 ) Vedi FIORENTINO, Man . di storia della filos., Napoli, 1887, pag. 609 ; L. SETTEM BRINI, Ricordanze , Napoli , 1898 , I , 75, e il Discorso cit . del BORRELLI, p . 6 . ( 3) Op. cit . , vol. I , pag. 76.  ammontati a quattro , già composti a Tropea, cominciò a puh blicare le Lezioni di logica e metafisica, dettate all'Università , vero modello di quel lucidus ordo tanto raccomandato dal Veno sino . Nel 1834 ne compì la stampa in tre volumi ; di cui fece nel '40 una seconda edizione e una terza nel 1846 ; ristampata nel 1853 dal Tramater ; e questa stampa noi citeremo. 8. A proposta del Cousin il 30 dicembre 1838 , in concorrenza coll'Hamilton che ebbe un solo voto , veniva nominato socio cor rispondente dell'Accademia delle scienze di Francia. E il 28 aprile 1841 , a proposta del Guizot , Luigi Filippo lo insigniva della croce della Legion d'onore (1) Ei se ne sdebitava con le sue Considerazioni filosofiche sul l'idealismo trascendentale, ossia sul sistema di Fichte , memoria presentata il 1839 all'Istituto di Francia , accademia delle scienze morali e politiche ( 2) ; e mandando più tardi , poco prima di mo rire , uno scritto su la teodicea dei filosofi antichi, che fu inserito come il precedente negli Atti dell'Accademia. Nel 1842 pubblico il primo volume della Storia della filosofia , annunziata fin dal '26 . Vi si tratta della filosofia greca , non però secondo la successione delle scuole , sibbene « considerando e cri ticando le diverse opinioni dell'Antichità » su l'origine dell'uni verso e del genere umano fino ai neo-platonici . « Una siffatta opera, dice in un elogio funebre dell'autore un affettuoso discepolo saria stata monumento novello di gloria italiana , se a nostra disavventura la vecchiezza , le malattie , le sciagure non avessero di tale infievolito l'animo di lui , ch'ei non potè vederla compiuta, ed a perfezione condotta » (3) 9. Infatti gli ultimi anni della vita del nostro filosofo furono amareggiati da sciagure che ne affrettarono la morte . Già uno dei figli maschi era caduto , com'ei narra , « vittima del furore d'un giovane sconsigliato » . Ed egli ne aveva scritto e stampato (Mes sina, 1818) l'elogio . Nel 1834 poi gli era morta la moglie . Ora, nel 1844 in una insurrezione scoppiata a Cosenza perdeva la vita un altro suo figlio, Vincenzo, che era capitano . Il vegliardo ( 1) Vedi la lettera del Guizot in LASTRUCCI, P. G. studio critico , Firenze, Barbèra , 1890 , p. 112. ( 2) Stampate in italiano nel 1841 , da' torchi del Tramater ; un vol. di p. 159 in 4.° Negli Atti dell'Accademia francese furono pubblicato come la successiva memoria in francese. (3) Elogio funebre di P. G. , per E. PESSINA, in Op. cit . , p. XIII. ne fu profondamente addolorato e agli amici che tentavano con fortarlo disse : « Avrei desiderato che morisse per una causa più nobile e giusta » Morì il 13 dicembre 1846. P. Borrelli , come sopra s'è visto , ne disse degnamente le lodi presso al letto funebre, il 14, fra una folla di giovani discepoli , che recarono a spalla la salma compianta alla chiesa di S. Nicola ; e il giorno 21 gli celebrarono funerali solenni nella chiesa di Sant'Orsola a Chiaia , in cui recitò un'ora zione il gesuita Carlo Maria Curci . Giuseppe Campagna piangeva la morte del filosofo in un sonetto filosofico, lamentando che con lui si partisse dalla terra Una favilla dell'eterno lume ( 1 ) . Il 14 marzo 1867 dall'Accademia delle scienze morali e politiche al Galluppi veniva eretto un busto nella Università degli studi, da lui onorata con molti altri spiriti magni . 10. Molti scritti aveva ancora in animo di pubblicare , oltre i ricordati, e molti manoscritti di lui ci son rimasti , ora in depo sito presso la Biblioteca nazionale di Napoli, i quali fan testimo nianza della larga estensione degli studi fatti da lui in teologia , storia dell'antica e moderna filosofia , filologia greca e latina, sto ria , matematica, astronomia ( 2 ) . Meno vita modesta e di grande raccoglimento : assorto negli studi, visse veramente per la scienza , in cui riuscì ad imprimere orme profonde, rinnovando la filosofia italiana . Egli infatti fu il solo dei filosofi napoletani da noi studiati, dopo il Genovesi, che esercitasse una influenza molto notevole al di fuori del regno , su tutti gli studi filosofici nazionali ( 3 ) , ( 1 ) Pubblicato nel Museo di scienza e lett., X, 348 ; v. DE SANCTIS, La letter . ital. nel sec. XIX , Napoli, Morano , 1897, p. 96 , e nota del CROCE, p. 208 . ( 2) Oltre la memoria ricordata del Tulelli , vedi l'olenco dei mss. galluppiani nel l'opuscolo citato dell'avv. Pietropaolo . ( 3 ) Per la biografia v. anche L. PALMIERI, Elogio stor . del bar. P. G. con alcuni poe tici componimenti recitati in un'adunan za tenuta per cura di L. Palmieri in Napoli il di 10 del 1847 , di pp. 32. V'è oltre l'elogio un sonetto del Campagna, un carme latino di A, Mirabelli, alcune sestine di D. Anzelmi, un'ode latina di Quintino Guanciali e un so netto « improvvisato dall’egregio poeta sig . Giuseppe Regaldi che per una congiuntura si trovò presente alla nostra adunanza » , - Vedi anche la necrologia Morti e morenti di C. CORRENTI, pubbl. nella Rivista europea del decembro 1846 , ristamp. in Scritti scelti , ed. Massarani, Roma, tip . Sonato, 1891 , I , 481-83. L'articolo dell'ab. ANTONIO RACIOPPI, Il Bar, P. G. , nel Poliorama pittoresco, an. XI ( 1847 , 13 marzo e 20 marzo) , n. 32 e 33 ; l'opu scolo di F. S. BISOGNI , Omaggio alla memoria del b. P. G. nell'occasione che in Tropea il Munic. e la Prov. innalzano una statua all'illustre filosofo , Napoli, Morano, 1877 ( in 11. Nella quattordicesima delle Lettere filosofiche il Galluppi, vo lendo determinare le relazioni della sua filosofia, ch'egli chiama sperimentale, col criticismo kantiano, si fa a descrivere le varie fasi attraverso le quali era passato il suo pensiero . Ma la de scrizione non è molto accurata ed esatta. Abbiamo visto come fino circa ai trent'anni ( al 1800) suoi autori fossero Leibniz, S. Agostino e i filosofi della scuola di Cartesio ; e si può dire che egli fosse in un periodo di dommatismo metafi sico , che rimase poi sempre nel fondo del suo pensiero ; non solo perchè molto più tardi, quando aveva studiato anche Kant , con tro di questo egli affermava che « la filosofia è essenzialmente dommatica, e non può essere che dommatica. Essa dee contenere delle verità assolute » ( 1 ) ; ma anche per altre ragioni: La lettura di Condillac gli fece intendere , che c'era una que stione preliminare dą risolvere prima di ogni metafisica : ricer care, cioè , i motivi legittimi dei nostri giudizi , quindi risalire all'origine delle nostre conoscenze , rifare, egli dice , l'intendimento. Condillac e Locke cangiarono insomma la direzione de' suoi studi . Segue perciò dal 1800 fino circa al 1810, quando venne a cono scenza del Villers e del Degerando, un periodo prekantiano di revisione della conoscenza ; al quale periodo appartiene l'opuscolo Sull'analisi e la sintesi, 12. In questo egli concedeva al Locke e ai suoi seguaci, che « tutte le nostre idee hanno origine da' sensi » , che pertanto « tutte le nozioni universali vengono a formarsi dal paragone degli oggetti particolari , e ... che le cognizioni particolari ci menano alle no zioni universali , e non già viceversa » ( 2) . Ma si proponeva la questione « se lo spirito , tosto che ha for mate le nozioni universali, possa paragonarle, scovrirne i rapporti, e quindi applicare questa cognizione universale alle idee parti colari , racchiuse nell'idea universale , che si è paragonata colle questo opuscolo è pubblicato uno scrittorello inedito del GALLUPPI Sulla semplice appren sione, pag . 17 e segg. ) . Uno studio biografico ha pure dato in luce il sig. F. PIETROPAOLO, nel Pensiero contemporaneo di Catanzaro , an. I , 1899, fasc . 6, 7 e 8. Non c'è riuscito di vedere la biografla pubblicata nel Giornale dell'equilibrio, 1841, n. 1 (citata dal Palmieri) scritta da P. E. TULELLI « sopra note comunicatemi questi diceva, accennando molto probabilmente a questa biografia dall'autore medesimo > ; Atti della R. Accad . d. scienze morali e polit ., 1865, I , 203. ( 1 ) Letl . filos. , p. 342 . ( 2) Sull'analisi, p. 20 . 15  altre » ( 1 ) . Per es . , delle due proposizioni generali ogni cerchio ha tutti i suoi raggi uguali e ogni corpo è grave, nella seconda tra corpo e gravità non havvi una connessione necessaria e il loro rapporto non può affermarsi se non mediante il soccorso dell'espe rienza ; nella prima invece è nell'idea del cerchio la ragione di affermare l'uguaglianza de' suoi raggi; e fra le due idee v'è un legame necessario, che non dev'essere attestato dall'esperienza. V'ha dunque , conchiudeva il Galluppi, verità generali cui lo spi rito non perviene dalle verità particolari (sensazioni), « ma per mezzo del semplice paragone delle idee universali, ch'egli si ha formato » ; e v'ha poi verità generali che derivano dalla cognizione delle singole verità particolari , che ci fornisce l'esperienza. Le une costituiscono le conoscenze a priori e necessarie ; le altre le conoscenze a posteriori e contingenti. Le prime sono principii ana litici, in quanto si devono all'analisi delle idee“ generali già ac quisite per l'esperienza ; laddove le seconde sono un prodotto della sintesi delle verità particolari, non altrimenti che le idee universali . 13. Sicchè già nell'opuscolo del 1807 il Galluppi era arrivato a quella forza analitica e forza sintetica di cui farà nel Saggio ( lib . I , § 18 , 34) il fondamento di ogni giudizio, distinguendolo net tamente dalla sensibilità . In quell'opuscolo si poteva egli dire an cora puro empirista ? Certo, egli faceva ancora, come il Locke , derivare dalla sensazione ogni idea universale, e puramente speri mentale faceva ancora la materia delle conoscenze a priori . Giac chè le idee generali , fra cui può ammettersi un rapporto neces sario a priori, sono esse stesse sperimentali a posteriori . Tutta quanta la materia della nostra cognizione deriva dall'esperienza. Ma un a- priori si ammette nella sintesi , che, elaborando il dato immediato dei sensi , ci conduce alle idee universali e alle cono scenze contingenti, e più nell'analisi che ci fornisce conoscenze indipendenti dall'esperienza . In quell'opuscolo adunque l'empiri smo crudo cui il lockismo per mezzo dei sensisti francesi era stato ridotto , non era accettato. E notevole sovrattutto era in esso questa netta distinzione tra conoscenze a priori necessarie e co noscenze a posteriori contingenti , fatta dal Galluppi quando igno rava affatto la distinzione kantiana di giudizi analitici e sintetici alla quale corrisponde precisamente. Ne pare ch'egli allora cono scesse i Saggi filosofici sull’intelletto umano dell'Hume , nel quarto ( 1 ) Ivi , ibid .  dei quali ritrovasi quella distinzione tra i legami di causalità, fon damento delle cose di fatto e relazione d'idee, scoperte per mezzo di semplici operazioni della mente, che giustamente si è voluto preluda alla teorica di Kant ( 1 ) . 14. Nel 1819 , nel libro I del suo Saggio, la posizione del Gal luppi si determina assai più chiaramente. Egli , bene o male, ha già studiato Kant, e combatte l'empirismo di Condillac, di Elvezio , di Destutt - Tracy ; di quel Tracy , che ancora nel 1827 a Firenze , al dire d'un arguto scolaro del Cousin, rappresentava le chef et maitre, celui qui l'a dit ( 2 ) ; e dichiarava che la geometria, « questa scienza pura , razionale, è la pietra immobile su cui va a rompersi la macchina debole dell'empirismo » (S 36 ) ; e che, infine, « non è vero esattamente » ciò che egli aveva ammesso o , almeno, non aveva combattuto, nell'opuscolo del 1807 : derivare cioè tutte le idee universali dal paragone delle particolari (S 40) . 15. Parve a lui che la critica di Kant fosse una vera rivolu zione . « La rivoluzione kantiana , scrisse nella prefazione del Sag gio (3 ), merita , più di quel che si crede , l'attenzione dei pensa tori » . Asseriva bensì , che il criticismo non fosse altro che un neo logismo, sotto il quale non si faceva passare che una questione vecchia, quella dell'origine delle nostre idee. Ma le prime parole della sua prefazione erano tuttavia le seguenti : « L'oggetto di quest'opera è la Critica della conoscenza , o l'esame della realtà della scienza dell'uomo . Che cosa posso io sapere ?... Son io ca pace di conoscenze reali ? Quali sono i motivi legittimi di queste conoscenze ? Quali sono i limiti prescritti al mio spirito , limiti che non gli è permesso di oltrepassare senza precipitare nell'abisso dell'errore ? Tali sono le ricerche sublimi ed importanti che mi occuperanno » ( 4) . Ora queste sublimi ricerche, come tutti sanno, sono appunto quelle del criticismo kantiano ; che se è una rivoluzione, sarà cer tamente una novità. ( 1) Vedi D. JAJA , Saggi filosofici , Napoli, Morano, 1886 , pag . 189 e sgg. E a quel saggio di Hame fu il Galluppi ricondotto dal Kant, nella IX delle sue Lettere filosofiche, per spiegare, esponendo la critica del concetto di causa fatta da D. Hume, perchè la lettura di essa svegliasse Kant dal suo sonno dommatico . Ma ivi ( p. 171 ) , ricordando la distin zione di Hume tra cose di fatto e relazione d'idee, non ne avverte punto la parentela con la divisione kantiana dei giudizi. ( 2 ) Vedi il mio Rosmini e Gioberti, pag . 14. ( 3) Tom . I , p. 9. Cfr. lib . III , § 76 ; tom . III , p. 268. ( 4) Cfr. lib. IV , $ 1 .  Se non che, a giudizio del Galluppi , la critica di Kant , « lungi dallo stabilire la realtà della conoscenza , tende radicalmente a distruggerla » ; che i suoi risultati sono essenzialmente scettici ; e quindi una buona dottrina della conoscenza non può costruirsi se non in opposizione a quella critica . Una critica, insomma, ci vuole ; ma non quella di Kant. E quale dunque ? 16. Noi non esporremo ne' loro particolari le teorie del Gal luppi e le critiche delle altrui dottrine ond'egli stabilisce le pri me. E poichè col Saggio filosofico la sua dottrina è già fissata , senza seguire l'ordine cronologico delle opere , possiamo dall'una e dall'altra di esse raccogliere i tratti caratteristici della sua fi losofia e farne un corpo compiuto. 17. Il Galluppi, come gli antichi psicologi metafisici ammette un sistema di facoltà dello spirito ; e a capo di tutte pone la co scienza o sensibilità interna . Questa è la facoltà per la quale lo spirito percepisce , sente se stesso , il me, la cui esistenza è una di quelle verità primitive, che ci sono attestate dall'esperienza, ma non si possono dimostrare ; come già pensarono Cartesio e Leibniz . Nè vale l'obbiezione che noi non percepiamo se non le nostre modificazioni, e che l'idea del me si dedurrebbe percið da quella delle modificazioni, pel principio che non v'ha atto senza soggetto . Non v'ha sentimento delle proprie modificazioni donde si possa separare quello del proprio essere ; perchè non si può percepire l'astratto, ma il concreto, non il dolore, ma il me dolente . Il me adunque è un dato dell'esperienza, che bisogna ac cettare come una verità primitiva di fatto ; e l'atto con cui lo si apprende , è la percezione immediata. 18. Qui il Galluppi, ritornando alla posizione cartesiana, ne sente tutta l'importanza. Egli osserva nel Saggio filosofico, che il defi nire , come si fa comunemente, l'idea per la rappresentazione dell'oggetto nella mente, separando cosi l'oggetto dalla mente , e il far consistere quindi la norma della verità nella conformità della nostra rappresentazione con l'oggetto esteriore, apre irrepa rabilmente la porta allo scetticismo. « Se gli oggetti , se la re gione dell'esistenza son separati dallo spirito , chi getta un ponte per passare dal pensiero all'esistenza , all'oggetto ? Questo ponte si fa consistere nelle immagini degli oggetti. Lo spirito, dicesi , possiede le immagini degli oggetti ; ma in questo caso lo spirito non potrà giammai conoscere la conformità di queste immagini cogli originali, e la verità andrà sempre lungi da lui » ( 1 ) . Me ( 1) Saggio , lib . I , 8 15 ( I , 37) . morabili parole , per cui il Galluppi non solo non è un prekan tiano , come credono i più , ma va innanzi al Kant dei neokan tiani ; del quale egli in questo luogo discopre espressamente il vizio principale , notando che il fenomenismo critico è una con seguenza della falsa posizione volgare dell'oggetto rispetto al sog getto , presunta dalla definizione dell'idea testé riferita . 19. L'idea del me, a proposito della quale l'autore fa queste osservazioni, non ci deve esser data da una percezione che sup ponga il termine percepito opposto al soggetto percipiente : « L'Io ed i suoi modi non sono separati dall'atto della coscienza , ma gli sono presenti . La coscienza li prende dunque immediatamente, e fra questa percezione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo . Questa coscienza , questa percezione è dunque l'appren sione e l'intuizione della cosa percepita » (§ 16) . E le intuizioni, secondo il Galluppi , « son vere , non perchè son di accordo cogli oggetti , ma perchè elleno agiscono immediatamente sugli oggetti , e li prendono » ( 1 ) . Nè bisogna cercare di definire la percezione, perchè non se n'ha se non una nozione semplice, e ognuno pud solo rimettersene alla propria coscienza per istruirsene . Il semplice, adunque , il principio da cui parte il Galluppi, è questa immediata coscienza di sè , che egli dice percezione o in tuizione ; la cui verità è fondata nella identità dell'essere e del pensiero, come in Cartesio . « Tutta la scienza dell'uomo riposa su la base unica della coscienza di se stesso » ( Saggio, lib . IV, § 3) . 20. Sicchè la filosofia del Galluppi è un vero soggettivismo , come si può vedere anche dal suo concetto della filosofia . « Che cosa è mai la filosofia ? Ella è , rispondono alcuni filosofi, la scienza di ciò che è . In conseguenza ella è la scienza dell'uomo , del mondo, di Dio. Una tal definizione suppone, che l'uomo possa giugnere a conoscere se stesso, il mondo e Dio. Ma, dicono altri filosofi, bisogna prima esaminare se l'uomo può saper qualche cosa ; e su qual fondamento può egli saperla . La conoscenza dei nostri mezzi di conoscere è certamente una conoscenza prelimi nare alla scienza delle cose . Da ciò segue che la filosofia pud riguardarsi sotto due aspetti , o come la scienza delle cose , o come la scienza della scienza umana . Considerata sotto il primo aspetto , ella può chiamarsi scienza oggettiva ; considerata poi sotto il se condo, può chiamarsi scienza soggettiva. Ma se la filosofia è la scienza prima, la quale dee contenere la legislazione di tutte le ( 1 ) Li investono, dice più innanzi. altre scienze , voi vedete bene esser necessario di considerarla nel secondo aspetto . A cið tende la celebre massima dell'antichità conosci te stesso . Io dunque la riguarderò come scienza sogget tiva » ( 1 ) . E « scienza della scienza » la definisce già negli Ele menti di ideologia (S III). Negli Elementi di filosofia morale (SI) la dice : la scienza del pensiere umano, distinguendola in teoretica e in pratica , secondo che studia l'intelletto o la volontà . Egli ha insomma un concetto moderno della filosofia, giustificato dal suo principio : che è la coscienza di sè . 21. Ma come, partendo da tale principio, egli costruisce la realtà conoscitiva ? E qual carattere dà al suo soggettivismo la sua costruzione ? Prima di tutto , avverte giustamente il Galluppi , bisogna di stinguere l'ordine cronologico delle nostre conoscenze dall'ordine scientifico ( 2) , Noi abbiamo con la prima sensazione e come fonda mento di essa la coscienza del nostro Io ; ma essa non è certo una coscienza di riflessione ( 3 ) . Vale a dire , c'è di fatto questa co scienza che è il Primo scientifico ; ma non si rivela se non alla riflessione filosofica posteriore , molto posteriore, cronologicamente. Perchè questa coscienza primitiva si rivelasse effettivamente, lo spirito dovrebbe cominciare da un giudizio ( lo esisto ), ed essere già in possesso dell'idea astratta di esistenza , laddove ei comincia invece da una percezione o sensazione che voglia dirsi . Comincia da una percezione complessa : dalla percezione del me che riceve delle modificazioni, dalla percezione del me che percepisce il fuor di me. Ora lo spirito presta successivamente la sua attenzione ai diversi elementi che compongono l'oggetto di questa prima percezione, decompone , divide questo oggetto ; poi lo ricompone di nuovo e forma il giudizio, che è perciò il pro ( 1 ) Lett. filos., lett . I ; ediz . cit. , p. 37-8 . Questo stesso concetto è svolto nella Prolusione del 1831: Introduzione alle lezioni di logica e di metafisica del bar . P. G. , Napoli, Ga binetto bibliografico e tipografico , 1831, di pp. 30 in-8. ° (ristampata in fronte alle Le zioni di logica e di melafisica , vol. I) e nelle primo tre di questo lezioni. Vedi puro il suo articolo Filosofia nella 1." dispensa dello Ore solitarie del 1838 (rivista diretta al lora da Lorenzo Riola , P. S. Mancini e Luigi Curion , più tardi dal solo Mancini), pp. 9-11. Nella Continuazione delle Ore solitarie ovvero Giorn . di scienze morali, legislat. ed econom. , 1842, fasc . I e II , pp. 7-14, è un altro scritterello del GALLUPPI: Sul panteismo del signor Lamennais. ( 2) Saggio filos., lib. I , § 22 ; tom . I , p. 49. (3) Ivi, $ 20 ; I , 45 . dotto dell'analisi e della sintesi della percezione complessa ( 1 ) . Sic chè bisogna ammettere nello spirito , oltre la facoltà della sensibi lità ( interna o coscienza, ed esterna) , quelle dell'analisi e della sintesi. 22. Il fuor di me ci viene offerto adunque dal me, da quella coscienza che cogliendo il me lo coglie modificato dal fuor di me. Questa coscienza, che il Galluppi dice pure sensazione, corri sponde , come bene osservò lo Spaventa, alla coscienza sensibile dell'Hegel ; è l'unità ancora confusa ed indistinta di soggetto ed oggetto. Allorchè, dice il Galluppi, la modificazione esterna « è percepita col me, che modifica , io non ho ancora che una per cezione ; ma quando ella è riguardata come distinta dal me, e poi riunita a lui dall'atto dello spirito , io allora giudico » ( 2 ) ( Saggio, lib . I , § 18) . Ora, se conoscere è questo distinguere e unire , è chiaro che conoscere pel Galluppi non è sentire ( percepire) , ma giudicare . Quindi egli combatte i sensisti, insistendo sulla dif ferenza sostanziale che corre tra sentire e giudicare, notando come giudicare importi necessariamente un rapporto , e come non sia possibile indicare l'impressione esterna, l'organo sensorio che ci manifesta la conoscenza del rapporto ( 3) . La forza analitica e la forza sintetica dello spirito sono distinte dalla sensibilità (4) ; come già aveva sostenuto nell'opuscolo del 1807 . 23. La coscienza sensibile è adunque l'unità fondamentale del conoscere ; l'unità che è condizione dell'analisi e della sintesi , ne cessaria a tutti i nostri giudizi . Ma come si giustifica questa unita ? Il fuor di me è sentito , dice il Galluppi , come un molteplice del quale ciascuna parte è distinta dall'altra e le modificazioni di una parte non sono, nel mio sentimento, le modificazioni delle altre . Il tronco di un albero è distinto dai rami : ciascun ramo è distinto da un altro : il moto di un ramo può stare senza il moto di un altro e di tutto l'albero ( 5 ) . Questa molteplicità si raduna nel me, il quale alla coscienza si rivela sempre lo stesso , sia che ( 1 ) Saggio filos. , lib . I , § 18, ed Elem . di Psicologia , & VIII . ( 2) Lo stesso è detto negli Elem , di Psicol., 8 VIII in fine. ( 3) Saggio, lib. I , § 32 ; I , 69. II Galluppi riferisce un notevolissimo passo dell'Emilio di Rousseau ( lib . IV) sul valore del giudizio ; passo che conferma la parentela che col fllosofo ginevrino ha quello di Koenigsberg . ( 4) Ivi, 8 34 ; I , 73. (5) Elem . d'Ideologia , 8 XXIV , ediz . cit ., p. 56 .  ragioni, che giudichi, o che percepisca ; talchè « il soggetto di un giudizio può avere una composizione fisica ed una unità logica ( 1 ) che gli vien conferita dal pensiero , che appunto sintetizza nella sua unità il molteplice fisico . Questa unità del pensiero s'addi manda unità sintetica , la quale se si ravvicina a quella forza analitica e forza sintetica che s'è accennata , s'intenderà come un'attività distintiva e unitiva insieme . E un'attività sintetica originaria dell'essere conoscitore appunto è ammessa dal Gal luppi ( 2 ) . 24. Ora la coscienza di sè coglie adunque l'Io che sintesizza , uno e semplice, indivisibile. E l'unità sintetica del me, suppone percið l'unità metafisica del me stesso che « è la semplicità o spi ritualità del principio pensante. Senza di essa non sarebbe possi bile la scienza, poichè la scienza suppone la riunione di tutti i pensieri da' quali si compone ; ed essendo un pensiere distinto dall'altro , come si farebbe l'unione di questi pensieri senza un centro di unione ? Ove si incontrerebbero i diversi raggi del sapere ?... L'agente che costruisce, è necessario che abbia tutti i materiali della costruzione » . « L’io di Newton , ripete qui il Galluppi, che ritrova il calcolo sublime è lo stesso io che ha ap appreso la numerazione aritmetica. Senza l'unità metafisica del me non sarebbe possibile l'unità sintetica del pensiere, e senza l'unità sin tetica del pensiere non sarebbe possibile alcuna scienza per l'uomo ( 3) . Questa unità sintetica della coscienza originaria ha una intrin seca parentela , come ognun vede, coll'appercezione originaria di Kant. Col quale il Galluppi s'accorda nel ritenere che « l'essenza particolare specifica dello spirito umano > ci è ignota affatto ( 4 ) . 25. Ma data questa coscienza originaria, che forza analitica e sintetica insieme , tutte le nostre conoscenze derivano , secondo il Galluppi , dai sensi ? Nel libro I del suo Saggio filosofico egli , rife rendosi allo scritto del 1807, scrive : « Io suppongo in tale opu scolo che tutte le idee universali derivano dal paragone delle particolari ; ma cið non è vero esattamente, poichè vi sono alcune idee soggettive > (8 40) . La tesi degli empiristi che non ammettono nella nostra conoscenza se non elementi oggettivi, è insostenibile . ( 1 ) Elem . d'Ideol., ivi. ( 2 ) Lettora ad A. Rosmini, Tropea , 23 aprile 1830, nella Sapienza, rivista di filos. e lettere , fasc . del 15 marzo 1885, p. 165. Cfr. il mio Rosmini e Gioberti, p. 79. ( 3 ) Elem . d'Ideol., & XXV, pp. 61-2 ; cfr . Saggio, lib . III , SS 50-1 . ( 4) Saggio, llb. IV , 8 98 , V, 418.  ma In quell'autobiografia intellettuale che è nella quattordicesima delle sue Lettere filosofiche il Galluppi dice, che il problema della sua filosofia dell'esperienza fu questo : « Ma lo spirito umano è un agente ; e colla sua azione non potrebbe forse sviluppare dal suo interno qualche elemento che egli non riceve , ma che produce ? E questo elemento soggettivo non potrebbe forse esser tale , che lasciasse intero l'elemento oggettivo , che cooperando collo stesso non recasse alcun nocumento alla realtà della conoscenza , l'estendesse e la fecondasse ( 1 ) ? 26. Infatti, questa rimaneva la più grave difficoltà del Gal luppi contro l'a priori: che l'a priori con la sua soggettività scalzasse la realtà della conoscenza, come rimproverava a Kant per le forme dell'intuizione e dell'intelletto e come rimproverava al Rosmini per la idea dell'Ente indeterminato ( 2) . Perchè egli non ebbe il giusto concetto delle categorie kantiane , ritenendole quasi preformazioni dell'intelletto . Del resto , nella critica che fa delle idee innate , pure avendo combattuto nel primo libro del Saggio l’in natismo di Leibniz , si può ben dire che ne accetti il principio ne gli Elementi di ideologia (8 XXIII) . Egli distingue idee accidentali all'intelletto e idee essenziali. Le une non tutti gli uomini possono formarsele, perchè non a tutti è dato di avere le sensazioni che sono il materiale donde l'analisi può ricavare coteste idee . Le altre non mancano a nessun uomo, perchè derivanti da sensazioni co muni a tutti . Sicchè anche le idee essenziali dell'intelletto pre suppongono l'esperienza ; e « se per idee innate si vuole intendere idee , che non sono il prodotto della meditazione (analisi) su i sentimenti (sensazioni) , tali idee non hanno esistenza » . Ma, « se per idee innate s'intendono quelle idee , di cui ogni uomo porta costantemente in se stesso i germi per isvilupparle , e che ogni uomo capace di meditare pud in qualunque luogo ed in qua lunque tempo acquistare , idee che ho chiamato idee universali all ' intelletto, l'esistenza di siffatte idee mi sembra incontrastabile ... Noi conveniamo con Locke, che tutte le nostre idee hanno la loro origine ne' sentimenti : conveniamo ancora, che tutte le idee sono acquistate ; ma crediamo di dover fare distinzione fra idee generali , e di ammettere alcune idee per l'acquisto delle quali ogni uomo porta costantemente in se stesso i materiali necessari; da questi germi, che sono nello spirito si sviluppano le idee essen ( 1 ) Op. cit . , p. 343. ( 2) Vedi il mio Rosmini e Gioberti, p. 79 e sgg. ziali al pensiero umano, e che si ritrovano in tutte le lingue » . Donde è chiaro che il Galluppi tiene per innate nel senso leibni ziano , di attitudini, disposizioni, germi, coteste idee essenziali all'intelletto , quali sarebbero le idee di corpo , spazio, causa, unità , numero, ecc .; comecchè tutta la sua Ideologia sia una deduzione di queste e altre simili idee dalle sensazioni. 27. Ma, quali sono queste sensazioni o sentimenti portati costan temente da ogni uomo in se stesso ? Se ogni uomo li possiede co stantemente, essi sono necessari , essenziali costitutivi dello spi rito . Lo spirito è questi stessi sentimenti. E come potrebbe es sere altrimenti, se tali sentimenti devono servire alla formazione di idee essenziali all'intelletto ( facoltà conoscitiva in generale) ? Il Galluppi dice, che essi sono i sentimenti « che in qualunque luogo, ed in qualunque tempo modificano lo spirito di ogni indi viduo del genere umano » ( 1 ) . Dunque, essi sono immanenti real mente allo spirito , nè questo si può concepire senza di essi . Ora tal carattere nella filosofia del Galluppi compete solo ai senti menti del me e del non me inscindibilmente legati fra loro , costi tuenti il gran fatto , il Primo, dal quale deve cominciare la filosofia . « Questo fatto è universale per tutti gli uomini, per tutti i luoghi, e per tutti i tempi. Il complesso de ' sentimenti racchiusi in questo fatto dee dunque riguardarsi come essenziale all'umano intendi mento » ( 2 ) . Il quale, fornito della forza di analisi e di sintesi , può con la sua azione feconda sviluppare da questi sentimenti e così produrre tutte le idee che gli sono essenziali ( 3) . Ma la stessa produzione è essenziale , se i prodotti sono essenziali ; tal chè lo spirito , partendo dall'indistinta e oscura coscienza del me e del fuor di me, non raggiunge il grado dell'intelletto , se non per questa spontanea produzione che fa , mediante l'attività ond'è for nito , delle idee di sostanza, causa , corpo, spazio , tempo , unità , numero , ecc. , di cui ha in sé i germi indefettibili. 28. Intorno al valore di questo virtuale a priori del Galluppi si può esser tratti in inganno da certe sue espressioni, dalla sua polemica contro l'innatismo, dal bisogno da lui così spesso e for temente affermato dell'esperienza, che è esperienza sensibile, come unica sorgente delle conoscenze reali . Ma bisogna attender bene al valore della sensibilità nella teoria del Galluppi . La sua sen sibilità è coscienza , è sentir di sentire , è l'unità ancora indistinta di soggetto ed oggetto, che egli concepisce come Primo attivo e ( 1 ) Saggio , lib. III , § 49. Ivi. ( 3) Ivi. produttivo ; di cui vedremo quanto si gioverà a fondare l'ogget tività del conoscere . Ora , dato questo Primo come coscienza sen sibile , egli non può ammettere più un intelletto opposto al senso e ricco a priori di determinazioni dal senso indipendenti. Perchè l'intelletto è uno sviluppo del senso e le sue determinazioni es senziali non possono non essere contenute virtualmente nel senso insieme con l'attività che possa dallo stato virtuale portarle al l'attuale , fecondandone i germi. E questo è , come tutti sanno ora o dovrebbero sapere, il vero concetto dell'a -priori kantiano , preparato dalle virtualità innate di Leibniz ; e in que sto concetto il Galluppi evidentemente sorpassa e si lascia addietro il kantismo volgare, com'egli l'intese e come tuttavia si vuol sostenere dai neocrịtici , che concepiscono senso e intelletto in assoluta opposizione , in un dualismo inconciliabile . Questo punto della filosofia del Galluppi non è stato studiato e apprezzato ancora abbastanza ( 1 ) . La idea essenziale del Galluppi corrisponde preci samente all ' acquisitio originaria , con cui Kant definiva il suo a priori nella famosa lettera all'Eberhard, come l'idea accidentale all'acquisitio derivativa . Sono idee acquisite le idee essenziali come tutte le altre idee ; ma esse sono le acquisizioni originarie che la coscienza fa per la sua propria attività salendo al grado del l'intelletto . 29. Fermata questa teoria , il Galluppi ha ragione di scrivere : « Io non ho ammesso idee anteriori a ' sentimenti, in modo che non gli suppongano neppure come condizione ; ma ho ammesso alcune idee essenziali all'intendimento , ed ho stabilito questa dottrina sopra solidi fondamenti... lo nego le idee innate nel senso di idee anteriori ed indipendenti assolutamente da' senti menti ; io le ammetto nel senso di idee naturali, o d'idee per l'acquisto delle quali si possiede una disposizione o virtualità naturale » ( 2) . E poichè così viene a dire il medesimo del Kant bene inteso , a me pare che abbia pur ragione di soggiungere : « Io dunque credo di aver trovato il mezzo di conciliazione fra i due sistemi contrari su la formazione delle nostre idee » ; come è merito reale di Kant, che naturalmente il Galluppi non poteva riconoscere , di avere operato siffatta conciliazione del puro em pirismo e del puro intellettualismo . ( 1 ) Il meglio che se ne sia detto sono le tre pagine dello SPAVENTA, nella sua mo moria Kant e l'empirismo ( 1880) , rist . in Scrilti filosofici, Napoli, Morano, 1900, pp . 81-114. (2) Saggio , lib. III , 8 86 ; tom . III , pag. 303. Per fare intendere meglio la propria dottrina il Galluppi la raffronta a quella del Leibniz. Conviene con l'autore dei Nuovi saggi sull’intelletto che lo spirito non è tabula rasa ; « che vi sono molte idee, che lo spirito ricava dal fondo del proprio essere , meditando (1) sul sentimento di se stesso » ; non solo gli accorda che sono in noi queste disposizioni e virtualità naturali, ma am mette certe modificazioni passive o sia i sentimenti, che contengono i materiali o le condizioni di tutte le idee naturali ( 2) . E, dichia rando meglio la dottrina del Leibniz , ripete che riconosce con lui esservi « molte idee essenziali all'intendimento , che l'anima non ha bisogno di ricavare dalle impressioni de ' sensi esterni, ma che può ricavare dal proprio fondo » ( 3) . Le idee sono innate come attitudini o virtualità naturali. E questo ritiene anche il Gal luppi. « Ma io non mi contento di rimanermi in idee vaghe : io determino le mie espressioni. L'anima nostra ha un'attitudine , una preformazione naturale per alcune idee ; poichè : 1. ° ella ha originariamente ed incessantemente i sentimenti necessari a for marsi tali idee ; 2. ° questi sentimenti sono i materiali delle idee , o le condizioni indispensabili per le idee ; 3.0 l'anima ha origi nariamente nella sua natura le facoltà necessarie per formarsi tali idee ; 4. ° l’anima ha in sé originariamente la disposizione, che pone in esercizio le facoltà elementari della meditazione » ( 4 ) . 31. Data questa dottrina, ch'egli ben dice non potrebbe esser contrastata dalla stessa scuola di Locke , s'intende agevolmente perchè il Galluppi continui sempre , in tutte le opere sue , a com battere l'a - priori kantiano , inteso come parte di conoscenza già formata avanti all'esperienza ; esperienza , che era per lui , come vedremo, la sorgente dell'oggettività, della realtà del sapere umano . La filosofia è essenzialmente dommatica, egli ha detto ; e kan tismo per lui significava scetticismo, in grazia appunto di quel l'a -priori soggettivo, anteriore ad ogni esperienza, onde reste rebbe inquinata, secondo la teoria di Kant, tutta la conoscenza. Pure riuscì anch'egli a certe idee soggettive , che ammise come costitutive della conoscenza , e innocue , benchè soggettive, allá realtà di essa . Quali sono cotali idee ? 32. Per rispondere a questa domanda bisogna dare un cenno delle sue teorie dell'analisi e della sintesi . Queste due facoltà non sono soltanto , come s'è visto , il fondamento di ogni giudizio , ma ( 1 ) Meditazione dice il Galluppi l'analisi e la sintesi insieme. ( 2) Ivi, pp. 305-6 . ( 3) Ivi, p. 309. (4) Ivi, pag . 812. il fondamento anche di ogni idea universale. Giacchè ogni idea universale nasce dalla sintesi degli elementi comuni che l'analisi discopre in più percezioni simili. L'analisi e la sintesi sono quindi le forze produttive di tutto il conoscere. L'analisi precede ; segue la sintesi . L'una si presenta sotto quattro forme : come atten zione propriamente detta , quando lo spirito si ferma a considerare un solo degli oggetti fornitigli dal senso , escludendo tutti gli al tri ; come attenzione parziale, quando lo spirito contempla soltanto una parte dell'intero oggetto , che gli si rappresenta ; come astra zione modale , quando lo spirito separa il modo dal soggetto cui inerisce ; e come astrazione del soggetto, nel caso inverso (1), 33. La sintesi è di tre specie : sintesi reale, quando lo spirito unisce ciò che gli vien dato congiunto dalla esperienza, cioè la relazione tra il soggetto e le sue modificazioni, o quella tra causa ed effetto ( epperò v'ha propriamente due specie di sintesi reale) ; sintesi ideale oggettiva, quando scopre relazioni logiche tra oggetti reali ; sintesi ideale soggettiva , quando scopre , come avviene nelle matematiche pure, relazioni logiche tra idee nostre , non imme diatamente forniteci dall'esperienza ( 2) ; cioè le relazioni tra le idee generali . 34. La siņtesi non può riunire se non per rapporti , le cui no zioni devono essere possedute dallo spirito , a mo' di categorie . E alle quattro maniere di sintesi corrispondono quattro nozioni di rapporti , le quali, per ciò che s'è osservato, dovrebbero essere di lor natura tutte soggettive : e sono le nozioni di sostanza , causa , identità e differenza ; idee essenziali all'intelletto umano, « sem plici vedute dello spirito , le quali derivano dalla sua facoltà di sintesi » (3) . 35. Rapporto, come aveva notato il Laromiguière nelle sue Le zioni di filosofia, è l'atto della comparazione o l'idea che risulta da questo atto . « Ora se la comparazione , dice il Galluppi, è una sintesi , e se il risultamento di questa sintesi è un'idea che non ( 1 ) Elementi di psicologia , $ 25 ; Saggio , lib. II , capo , $ 139 . ( 2) Saggio , lib. II , cap . XI, $ 147. Il Galluppi distingue ancora la sintesi immagi nativa come « la facoltà di riuscire in una percezione complessa , alla quale non corrisponda alcun oggetto naturalo, diverse percezioni di cui ciascuna ha un oggette naturale fuori dell'attuale combinazione ( Saggio , ivi, $ 148, e Psicologia , $ 35) . Ma s'intende cho questa sintesi non ha valore teorico o conoscitivo, ma solo pratico od estetico . ( 3 ) Saggio, lib. III , § 46. Alcune dello idee semplici, dice ivi più sotto , « sorgono dall'attività sintetica e queste sono i rapporti risulta da un'impressione, e che non ha percið un oggetto reale al di fuori, segue che vi sono idee semplici, le quali sono sola mente soggettive ed un prodotto della sintesi » ( 1 ) . Suppongono le sensazioni, ma sono prodotti semplici dell'attività sintetica dell'in telligenza. Infatti seguono, come ogni idea di rapporto , al para gone , che è un'azione dello spirito . « Pel paragone non basta che si abbiano nello spirito insieme due percezioni : è necessaria l'a zione che riferisce l'una all'altra » ( 2 ) . Parrebbe adunque, che le idee dei rapporti, queste vedute dello spirito , o modi della sua attività sintetica, non differissero punto dalle categorie kantiane . Ma l'autore afferma recisamente il contrario . Non vuole aver nulla di comune con Kant; vuol fondare una vera filosofia dell'esperienza , e afferma come una delle esigenze ineluttabili della filosofia , che la connessione fra le esistenze , per cui è possibile la scienza , non deve essere una creazione dello spirito , bensì un dato dell'esperien za ( 3 ) ; cioè del senso , che per lui , come vedremo, è norma dell'og gettività del conoscere . Insomma, nota un suo critico , gli elementi soggettivi ammessi dal Galluppi son sempre determinati da qualche cosa di reale che si trova negli oggetti ; e Kant percið è scettico , Galluppi no ( 4 ) . 36. Ed in verità esso, il Galluppi, scrive che la stessa connes sione deve essere un dato dell'esperienza , quando si tratta di og getti esistenti che dan luogo alla sintesi reale : e che questa sin tesi « riunisce gli elementi reali di un oggetto reale ; e li riunisce perchè li trova realmente riuniti. Così, dicendo : Io son sensitivo, riunisco al me le sensazioni : ora tanto l'io che le sensazioni son cose reali , e realmente le sensazioni son cose reali, c realmente le sensazioni sono unite al me. Quest'unione non è dunque l'opera del mio spirito : io non posso fare altro che conoscerla distinta mente . Questa sintesi copia dunque, dirò così , la realtà delle cose, ed è per cid che io la chiamo sintesi reale » ( 5) . 37. Or dunque, queste idee di rapporti sono o non sono un pro dotto dell'attività sintetica del soggetto ? Qui , s'è detto , havvi una flagrante contraddizione. Sentire un rapporto, secondo il Galluppi è un espressione assurda ; e la connessione delle esistenze , che è un rapporto necessario , non si potrebbe sentire ; eppure si deve . « Se fosse creata da noi cotestà connessione , scrive il Fioren ( 1 ) Saggio, lib. III , § 47. ( 2) Saggio , lib. II , 8 147. ( 3) Saggio, lib. II , & 74. ( 4) LASTRUCCI, Op. cit . , p. 213. ( 5) Saggio , lib . II , § 146 ; cfr . Psicologia , & XXXI.  tino (1), la realtà della scienza sfumerebbe ; e Galluppi , impaurito delle conseguenze, contraddice ai suoi principii . Il nesso tra il me, sostanza , e le sue sensazioni , tra la sensazione e la causa esterna, cotesto doppio rapporto è sentito . Ei non osa dire sen tito , e dice : è dato » . La questione è importante e merita ogni più seria considerazione . 38. Prima di tutto bisogna distinguere , come fa il Galluppi , le due nozioni di causa e di sostanza , da quelle di identità e diver sità. Le une sono un prodotto della sintesi reale , le altre della ideale ; le une sono dei veri rapporti reali , le altre semplici rap porti logici . Ora questi rapporti logici sono veramente creati dallo spirito , nascono per l'attività di questo , sono idee dello spirito e nulla fuori di queste idee ( 2) . Di esse l’autore dice che « lo spi rito non riceve dal di fuori questi elementi semplici ed essenziali delle sue conoscenze , ma li ricava dal proprio essere » ( 3) , cioè li produce . Esse corrispondono appuntino alle categorie kantiane . Nè vale opporre , come altri ha fatto ( 4) , che anche questi rapporti presuppongono l'esperienza, e ricevono da questa i termini , fra cui intercedono . I termini fuori del rapporto , ho detto altrove, cioè prima del rapporto , sono termini del rapporto ? E si badi che dell'esperienza il Galluppi ha un concetto tutto kantiano, perchè essa consiste , secondo lui , « nel giudizio , il quale vede un rap porto fra i nostri sentimenti » ( 5) . 39. Il solo errore del criticismo , che ha de ' semi preziosi di verità, consiste nell’aver troppo generalizzato riguardando « tutti i modi di connessione fra le nostre percezioni come soggettivi » , negando la sintesi reale, confondendo l'esperienza primitiva, cui la sintesi reale dà luogo, con l'esperienza secondaria , scientifica e comparata , che è produzione soggettiva della sintesi ideale . Dunque, a confessione del Galluppi stesso ( 6) , egli è schietta mente kantiano nella teoria della sintesi ideale , come attività sin tetica generatrice delle due idee di rapporto , identità e diversità , all'occasione delle sensazioni , che ne sono condizione indispen sabile . ( 1 ) La filos. contemp. in Italia, Napoli , Morano , 1876, p . 195. ( 2) Psicologia, 8 32. ( 3) Saggio, libro III , § 77. ( 4) LASTRUCCI, p. 213. Il GALLUPPI ( lib. III , $ 77 del Saggio) non parla di esperienza , ma di sensazioni, supposte cronologicamente como a condizione indispensabile » delle idee d'identità e diversità . (5) Saggio , III, 76. ( 6) Vedi anche Lettere filosof ., XIV , p. 347.  Soggettive pur sono le idee di causa e di sostanza . Ma il Galluppi distingue fra soggettivo e soggettivo . V'ha, egli dice , il soggettivo rispetto all'origine, e v’ha il soggettivo rispetto al valore ; e altrettanto dicasi dell'oggettivo. Altra è la questione dell'origine delle conoscenze , altra è la questione della realtà loro . « Io dichiaro , scrive l'autore , che per oggettivo in tendo ciò che nelle nostre cognizioni deriva dagli oggetti che si conoscono, e per soggettivo ciò che nelle stesse deriva dal soggetto conoscitore . Questi due vocaboli si prendono ancora in un altro senso, quando si parla della realtà delle nostre conoscenze : l'og gettivo dinota allora quell'elemento della nostra conoscenza , a cui corisponde una realtà in sè , ed il soggettivo dinota ciò a cui non corrisponde nessuna realtà » ( 1 ) . Dunque le idee di causa di sostanza sono soggettive per l'origine, ed oggettive rispetto alla realtà, epperò si dicono relazioni reali , laddove, quelle di identità e di diversità sono soggettive , e per l'origine e pel valore , e son dette perciò semplici relazioni logiche . E però resta fermo, che anche le idee di sostanza e di causa siano un prodotto dell'attività sin . tetica dell'intelligenza, perchè da essa derivano ; il senso è inca pace di darcele . Se non che esse, invece di avere un semplice valore logico , hanno una corrispondenza nella realtà , pel nesso, che è tra la sostanza e i modi, tra la causa e l'effetto . 41. Ma il Galluppi dice che il rapporto della sintesi reale ( sia di causa , sia di sostanza ) è dato dall'esperienza . Si , ma devesi inten dere, dato rispetto alla realtà oggettiva di cotesto rapporto. Dato in quel luogo del Galluppi , che pur bisogna metter di accordo con tutta la sua dottrina, vale solo oggettivo (rispetto al valore). 42. La difficoltà vera è la seguente : come ciò che è soggettivo rispetto all'origine , può essere oggettivo rispetto al valore ? Que sto è lo scoglio della filosofia della esperienza propugnata dal Gal luppi ; ma è pur uopo notare i grandi sforzi fatti da lui per evi tarlo. S'egli si fosse sempre ricordato dell'osservazione, dianzi ac cennata , relativa alla comune definizione delle idee : che cioè non bisogna separare ed opporre oggetto a soggetto, ove non si vo glia incorrere nello scetticismo , non avrebbe avvertita nessuna dif ficoltà in questa questione della sintesi , circa la soggettività della sua origine e l'oggettività del valore. Egli non avrebbe concepito un'oggettività distinta dalla soggettività. ( 1 ) Saggio, lib . III , $ 46 ; tom . III , p. 159-60 . 43. Di quell'osservazione fondamentale si ricorda certamente nella sua teoria dell'oggettività di tutte le sensazioni, quando af ferma che la sensazione è la intuizione dell'oggetto , e sog giunge : « Per non far nascere equivoco in una materia molto importante, io chiamo intuizione la percezione immediata dell'og getto , in modo che l'esistenza della percezione supponga neces sariamente quella dell'oggetto . Se ogni sensazione è di sua na tura la percezione di un oggetto esterno al principio sensitivo ( 1 ) , se quest'oggetto non è rappresentato dalla sensazione, esso è dunque reale, come è reale la sensazione. La realtà dunque del l'oggetto sentito mi è data dall'atto della coscienza ; il quale mi . dà la realtà della sensazione : ecco dunque la realtà esterna fra le verità primitive di fatto ; ecco risoluto uno dei problemi fon damentali nella critica della conoscenza » ( Saggio, lib . II , § 71 ) . In tutta la teoria dell'oggettività del conoscere si può dire adun que, che il Galluppi confermi ciò che aveva detto fin dal primo capitolo del suo Saggio circa la coscienza, o conoscenza prima , conoscenza del me e dei suoi modi ; coscienza fatta consistere appunto in un'intuizione immediata, tale che « fra questa perce zione e gli oggetti percepiti non v'ha alcun intervallo » . Pare che per tutta la sfera della conoscenza immediata ei sia disposto a chiedere, come aveva chiesto infatti a proposito della comune definizione delle idee in generale: « Se gli oggetti, se la regione dell'esistenza son separati dallo spirito , chi getta un ponte per passare dal pensiero all'esistenza , all'oggetto ? » - Argomento insolubile, com'egli dice , ai filosofi dommatici. 44. Senso ed oggetto , sia che si tratti di senso intimo o di senso esterno , non si possono scompagnare. Il senso è la misura adeguata e sicura della realtà, comecchè il dato del senso debba poi venire elaborato dalla forza analitica e sintetica dello spirito onde si perviene alle idee e a'giudizi. Il senso costituisce , per le idee e i giudizi cui dà luogo, l'esperienza primitiva o imme ( 1 ) Il Galluppi non ammette l'incosciente : « La scuola di Leibniz ammotte delle percezioni di cui non si ha coscienza : alcuni Allosofi adottano questa opinione ; ma molti altri, co' quali io son d'accordo, non ammettono alcuna percezione, di cui non si abbia coscienza ... Non si può percepiro alcun oggetto come un fuor di me, senza perco pire il me, poichè la percezione di un di fuori è ossenzialmente la porcezione di più oggetti ; se non vi ha due oggetti , non vi è un di fuori. Se la percezione di un ſuor di me non è possibile senza quella del me, segue che non possono esservi nello spirito delle percezioni senza osser sentite ) . Elem . di psicologia , 8 XVII. 16  diata ( 1 ) ; immediata rispetto all'oggetto , in cui s'appunta imme diatamente nella intuizione. Dall'esperienza primitiva va distinta poi la comparata, o derivata o secondaria , la quale consta dei giu dizi d'identità o diversità che noi portiamo sulle idee offerteci dalla primitiva esperienza : giudizi d'un valore puramente logico e soggettivo . I giudizi della esperienza immediata hanno per og getto gl'individui . Questa acqua ha la qualità di estinguer la sete . Questo calorico liquefà la neve vicina . Sono giudizi particolari, che non si possono generalizzare, nè possono costituire l'esperienza secondaria , fondamento delle scienze , se con le impressioni sensibili , coi dati oggettivi non si combinano quegli elementi soggettivi , che sono le due vedute dell'identità e diversità . Per dire la propo sizione generale : l'acqua estingue le sete , - io devo, in seguito alle successive esperienze delle varie acque che m'hanno estinto la sete , comprendere sotto una nozione generale tutte queste acque , e le azioni loro di estinguer la sete ; il che significa che lo spirito dee vedere un rapporto d'identità fra questi soggetti particolari e fra le loro particolari qualità ( 2) ; rapporto d'identità che il senso non mi può fornire ; perchè esso non mi dà che successivamente le singole acque. 45. Della scienza si potrà dire giustamente che è una costru zione soggettiva per mezzo dei materiali offerti dalla esperienza primitiva. Il Galluppi, in verità , non può attribuire altro valore che questo , che è il kantiano , alla scienza. Se la conoscenza vera della natura ci vien fornita dalla scienza , anch'egli deve dire.col Kant, che lo spirito , legando gli sparsi caratteri datigli dal senso , costruisce il gran libro dalla natura . Eppure.egli ritiuta ( Saggio , III , S 83) una tal soluzione. « La distinzione delle due esperienze, egli dice , è della più alta importanza, per determi nare il valore delle nostre conoscenze » ( $ 78) . È della più alta importanza, perchè se i rapporti di sintesi ideale nell'esperienza derivata sono soggettivi , quelli di sintesi reale nell'altra espe rienza sono essenzialmente oggettivi; in questa esperienza (pri mitiva ) l'esistenze son date allo spirito : egli ne è spettatore , e non il conoscitore : una connessione fra l'esistenze gli è anche data : egli dee conoscerla , non ispiegarla o comprenderla » (S 83) . Ma questa distinzione non tocca punto la soggettività della scienza , in quanto prodotto della sintesi ideale ; anzi la conferma. Il Gal ( 1 ) Saggio , lib. III , $ 78, tom . III , p. 275 . ( 2) Soggio, loc . cit. luppi nella epistemologia è un kantiano puro. Checchè egli ne dica , tale è la sua dottrina. 46. Ed ecco la stridente contraddizione cui lo condusse il suo voluto sperimentalismo. La scienza , la parte più certa della cono scenza, è soggettiva ; e la conoscenza sensibile è di sua natura oggettiva ; che , per lui , è come dire che la scienza è rosa dal tarlo dello scetticismo , laddove l'esperienza sensibile è certa e reale . Le conoscenze necessarie ed universali , che sono il pernio di ogni specie di conoscenze, hanno un valore puramente logico, e le conoscenze contingenti e particolari sono reali . Il che avrebbe dovuto condurre il Galluppi al più schietto nominalismo ; perchè se le nostre conoscenze veramente oggettive , sono quelle dateci dai giudizi particolari dell'esperienza immediata, sfuma la realtà dell'universale . E un realista il Galluppi certamente non Egli combatte tuttavia l'empirismo nominalistico di taluni seguaci del Locke, come l'Helvetius , i quali negano le idee universali , asse rendo che quelle, che tali appariscono , non sono se non termini generali , vocaboli vôti di senso . « Perchè , dice il Galluppi , al ve dere un uomo che non abbiamo giammai veduto , noi diciamo è un uomo ? Se non avessimo un'idea universale di questa specie, come vi rapporteremmo quest'individuo ? L'esistenza delle idee universali nello spirito è talmente attestato dalla intima coscienza , che si dura fatica a supporre che vi sia stato chi l'abbia contra stata » ( Saggio, $ 27 , lib . I ) . Nè anche il Locke , secondo il Gal luppi ( 1 ) , nega le idee universali ; e come Locke egli è concettua lista . Siamo sempre lì : la cognizione universale , scientifica ha sì un valore , ma un valore logico . 47. E al Rosmini , che gli dichiarava in una sua lettera di non vedere « come dal soggetto possa venire l'universalità e la neces sità delle cognizioni . Il soggetto è essere particolare e contingente, e non può produrre un effetto maggiore di sè » ; egli rispondeva, che la necessità che ha luogo nelle cognizioni, è una semplice « legge logica del pensiero umano » , da non confondersi con la ne cessità metafisica; legge logica espressa dal principio di contrad dizione , e , come ogni altra modificazione dell'anima nostra , me ramente soggettiva . E aveva un bel ribattere il Rosmini , che la necessità logica e la necessità metafisica non sono in fondo che una sola necessità ( in questo punto è tutta la novità, non pic ( 1 ) Cita il lib. III , cap. 3. ° del Saggio , dove il Locke spiega la gonesi delle idee universali .  cola , – del Rosmini verso il Galluppi) : « Io non suppongo mica, replicava il Galluppi, che vi sia una necessità metafisica distinta dalla necessità logica ; ma solamente combatto quei filosofi che riguardano quella necessità, che è meramente logica , come una necessità metafisica , che trasformano la prima nella seconda..... L'origine di tal necessità ( logica ) mi sembra già determinata ; essa è nella natura del soggetto ..... noi non dobbiamo cercarne la causa efficiente, ma arrestarci alla causa formale di tal neces sità » ( 1 ) . La sua scienza , perciò abbiamo detto altra volta , come quella di Kant, s'è chiusa nella cerchia invalicabile del fe nomeno ; sicchè egli riesce , per la scienza, a quel criticismo che voleva correggere . 48. Gli sarebbe bastato estendere la - sua teoria della sensibi lità o meglio dell'esperienza primitiva alla esperienza secondaria . Non l'ha fatto , perchè gli premeva salvare la realtà del mondo esterno ; e così s'è messo in disaccordo con se stesso , accoppiando al criticismo puro dell'epistemologia il più crudo dommatismo nella gnoseologia. I due elementi in lui non si fondono, e un'in tima contraddizione travaglia tutta la sua filosofia. 49. Infatti ammessa giustamente come soggettiva l'origine della nozione che abbiamo della connessione reale delle cose ( come sostanza o come causa , sussistenza, egli dice per lo più, ed effi cienza ), il valore oggettivo delle medesime non può essere e non è infatti nel Galluppi, che una semplice affermazione dommatica. La percezione del me è la percezione di un soggetto con le sue modificazioni. Sicchè, egli dice , nella coscienza del me , – che è il principio della nostra filosofia , è data « 1. ° la connessione fra la percezione e l'oggetto ; 2.º fra il soggetto e la modificazione ; 3." fra la causa e l'effetto , il che vale quanto dire , che in questo fatto primitivo ci è data la base della filosofia , e la realtà delle nostre conoscenze » ( 2 ) . Su per giù , è sempre questa la dimostra zione data dal Galluppi della realtà delle connessioni tra sostanza e modi, tra causa ed effetto. Le connessioni sono reali, perchè il me, termine reale della coscienza è soggetto (sostanza ) di modifi cazioni, e queste modificazioni a lor volta sono effetto dell'azione del mondo esterno . Ma i termini noi possiamo percepire, non i rapporti: e i termini in quanto connessi nel loro rapporto non pos siamo percepirli , se non applicando ad essi quelle nozioni di rap ( 1 ) Rosmini e Gioberti, pp. 77-80 . ( 2 ) Saggio , lib . II , 8 74 ; tom . II , p . 161-2. porto , onde già dobbiamo essere forniti. Chi ci garantisce che i rapporti, che con queste nostre vedute, di origine soggettiva , noi scorgiamo tra i termini percepiti , abbiano un fondamento ogget tivo ? Chi ci costruisce questa volta il famoso ponte di passaggio dal soggetto all'oggetto ? Chi ci sottrae a quell'argomento inso lubile ? Il dommatismo è evidente . 50. C'è un passo, nel terzo libro ( 1 ) del Saggio, contro la sin tesi a priori di Kant , che merita qui speciale considerazione. « Il filosofo di cui parliamo, – scrive il Galluppi, ha confuso l'operazione sintetica co'suoi prodotti, che sono le percezioni del rapporto fra le idee paragonate. Allora che lo spirito rapporta un termine della relazione all'altro, egli esegue una sintesi, la quale è il principio efficiente che pone un termine rapportato. Lo spi rito nel termine rapportato vede un rapporto, ed esegue con ciò un'analisi , indi unisce questo rapporto , che aveva separato dal termine rapportato allo stesso termine, e compie il giudizio. Lo spirito , prima della comparazione, non aveva che il termine della relazione : dopo la comparazione ha un termine rapportato : l’atti vità sintetica ha dunque posto dal suo fondo, nel termine della relazione , il rapporto , e questo rapporto è un elemento sogget tivo aggiunto all'oggettivo » . - Quale che sia il valore di questa osservazione contro il giudizio sintetico a priori ( io non credo che ne abbia alcuno ; chè il giudizio è già avvenuto con quella prima operazione dell'attività sintetica , che consiste nel rapportare i termini), certo è notevole e giusto il concetto del soggettivismo dei rapporti accennato qui dall'autore ; ma vi apparisce pure evidente falso concetto che ei s'è formato dell'oggetto . Ter mine e termine rapportato son cose differentissime; il primo è un dato , il secondo è il prodotto di quel principio efficiente, che è la sintesi . Ma il termine è termine in quanto è termine rapportato ; sicchè il termine si può dire che venga posto , rità , dall'attività sintetica dello spirito . E questa è la dottrina di Kant. Ma se il Galluppi ne avesse piena consapevolezza , non do vrebbe dire , che lo spirito PRIMA della comparazione non aveva che il termine della relazione. No , non aveva niente : non c'è prima il termine , l'elemento oggettivo, a cui dopo venga ad ag giungersi l'elemento soggettivo, il rapporto : termine e rapporto nascono ad un parto, nè lo spirito può percepire il termine della relazione , senza il rapporto , nè questo rapporto è nulla di con ( 1 ) $ 81 ; tom. III , pag. 283.  creto fuori dei termini ai quali viene applicato . Questo prima e questo dopo, di cui parla il Galluppi, accusano quella separazione di oggetto e soggetto, quella opposizione da lui già criticata come punto di partenza donde non sia dato arrivare a una conoscenza certa . 51. Sicché , anche per le nozioni di identità e diversità ( alle quali , s'intende , egli si riferisce nel passo ora citato) il Galluppi si di batte nelle strette della soggettività , come qualcosa di differente e assolutamente opposta a quella oggettività , che s'era proposto di fondare contro il criticismo kantiano. Ma le sue velleità empi ristiche rompono sempre in quel principio fondamentale della co scienza di sè , preso dalla filosofia di Cartesio, onde si nutrì , come abbiamo notato , la mente di lui nel suo primo periodo speculativo . E la conclusione del Saggio filosofico è che tutti i motivi dei no stri giudizii (senso intimo, sensi esterni, evidenza, memoria, razio cinio e testimonianza degli altri uomini) « hanno per motivo me diato ed ultimo il senso intimo » : e quindi « tutta la scienza dell'uomo riposa su la base unica della coscienza di se stesso, e chiunque tenta di toglier questa base è indegno, che si ragioni con lui ; poichè non si ragiona col nulla » ( 1 ) . E così nella chiusa delle Lettere filosofiche: « Io ho poggiato – dichiara l'autore su la veracità della coscienza la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere ... ; non si può supporre la veracità di alcun mezzo di conoscere senza supporre la veracità della coscienza, e supponendo la veracità della coscienza , la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere segue necessariamente . Così , secondo me, l'aliquid inconcussum è nella coscienza, ed essa è la base di tutto il sapere umano » ( 2) . 52. Ma se si ricordasse sempre, che principio e aliquid incon cussum è la coscienza, il Galluppi non dovrebbe parlare mai di quella oggettività indipendente dal soggetto , alla quale vuol ripor tare le relazioni di sostanza e di causalità ; e in verità non riesce a scoprirne che una origine soggettiva e a darne una giustifi cazione, come s'è visto , fondata unicamente sul sentimento del me. Si potrebbe dire , che egli parla di un oggetto soggettivo for nitoci dalla sensazione, che da lui è detta di sua natura oggettiva . Egli , infatti, rigetta la distinzione di qualità primarie e secondarie, come arbitraria e falsa , e sostiene che tutte le nostre sensazioni ( 1 ) Saygio, lib . IV, § 3 ; tom . V , p. 58 . ( 2) Ediz . cit. , p. 348 .  soggettive , nè più nè meno di quel senso del tatto , in cui Con dillac indicava il filo d'Arianna col quale si potesse uscire dal labirinto della soggettività, « convengono in ciò , che tutte sono le percezioni di un soggetto esterno ; son differenti, poichè sono i modi diversi di percepir questo soggetto : questi modi diversi di percepirlo costituiscono per noi le diverse qualità degli oggetti esterni , le quali sono perciò i diversi rapporti di questi oggetti con noi » ( 1 ) ; e che, « qualunque ipotesi si adotti su la natura de ' corpi , è incontrastabile che il mondo dei corpi non esiste nel modo in cui ci apparisce ; e che noi non conosciamo dei corpi se non le qualità relative » , talchè il pensiero bensì è una realtà in sè ( 2) , « ma l'estensione non è almeno certo se sia una realtà o un fenomeno » ( 3 ) e addirittura « la conoscenza che noi abbiamo de ' corpi è meramente fenomenica > ( 4 ) . E però il Galluppi non può parlare se non di un oggetto soggettivo , di un oggetto termine essenziale del soggetto . 53. Ma allora perchè contrapporre oggetto a soggetto , e sin tesi reale a sintesi ideale ? Siamo sempre nella sfera del soggetto, e l'attività sintetica dello spirito darà luogo sempre a una sin tesi ideale . Dov'è il punto di separazione tra la res e l'idea ? Non rampollano entrambe dalla coscienza di se ? 54. Per metter d'accordo Galluppi con se stesso dovremmo dire , che quello che ei dice sintesi reale e sintesi ideale non siano se non due gradi della sintesi soggettiva, qualche cosa di simile della sintesi di primo e di secondo grado, che lo Spa venta e il Tocco han rilevate in Kant. Vale a dire , bisognerebbe anche la sintesi reale ritenere pura operazione soggettiva; ma non tanto soggettiva quanto la ideale, perchè l'una si esercita su una relazione che la coscienza , questo ultimo motivo , questa. norma suprema della verità , attribuisce al mondo esterno, lad dove l'altra non ragguaglia che termini aventi un valore logico . La sintesi reale coglie, diciamo così , i rapporti degli individui , in cui , secondo il Galluppi, consiste la realtà ; la sintesi ideale co glie , invece , i rapporti che intercedono tra le idee generali, già formate per la forza analitica e sintetica dello spirito . Di modo che la materia della sintesi reale è oggettiva, nel senso che di ( 1 ) Elem , di Psicologia , S XVII , pp. 27-28 . ( 2) Non vi ha fenomeni nel santuario del mio essero , dice il GALLUPPI, Saggio, lib . IV , § 4 ; tom . V, p. 63. ( 3) Iri. ( 4) Saggio , lib. IV , S 100 ; tom . V, p. 420. cemmo poter avere pel Galluppi l'oggetto ; e la materia della ideale è una pura formazione soggettiva. E se la coscienza ha da es sere sempre la fonte della verità , se noi non possiamo parlare di altra verità , se non di quella che tale apparisce alla coscienza , i rapporti che si scoprono dall'attività sintetica nella materia og gettiva saranno rapporti reali, e si potrà pur dire che siano og gettivi pel valore ( poichè il valore è attestato dalla coscienza) ; e i rapporti che dalla stessa attività sintetica si scoprono nella materia soggettiva, non possono avere più che un valore logico , perchè sono rapporti di concetti, ci concetti nel concettualismo del Galluppi non sono reali . Alla coscienza i rapporti appariscono tali quali appariscono i termini che essi connettono ; fra termini oggettivi , rapporti reali; fra termini astratti e soggettivi , rap porti ideali . I termini infatti non possono essere percepiti per quel che sono, se non coi loro rapporti, coi quali e pei quali vengono ad essere quei dati termini. 55. Ma allora non bisogna separare la facoltà dell'analisi e della sintesi da quella della sensibilità ( o coscienza ), come fa il Galluppi ; perchè la sensibilità come tale non potrà mai percepire un rapporto , come bene ha avvertito il Galluppi stesso . Allora bisogna andare molto più addentro , che questi non sia andato , nel concetto dell'unità del me. 56. Certo è che il Galluppi, mosso a scrivere il suo Saggio, che è la sua opera capitale , dal bisogno di assodare la realtà del cono scere contro la Critica di Kant , non riesce a distrigarsi dal sog gettivismo nella epistemologia ; e nella gnoseologia vi riesce solo contrapponendo al criticismo kantiano un oggetto , che non è tale se non per un dommatismo preso dalla coscienza volgare , e che non può non metter capo nella tesi scettica del criticismo, appena venga innanzi alla riflessione scientifica ( 1 ) . La sua stessa critica perpetua al Kant, e quell'oscillare continuo tra le lodi più sincere e il biasimo più acerbo del criticismo, dimostrano l'acutezza del suo spirito, che intende la gravità del problema sol ( 1 ) Il Rosmini il 3 giugno 1840 scriveva al p. Giacomo Maso & Roma : « Pare a lei che la filosofia del prof. Galluppi sia veramente sana ? Noti bene, non metto in dubbio le intenzioni dell'ottimo calabrese, a cui professo sincera stima ; parlo solo della sua filo sofia ; di questa dubito , o piuttosto non dubito ; perocchè agli occhi miei ella si volge in circolo perpetuo dentro al soggetto -uomo, e nel soggetto -uomo non vi ha nulla d’immu tabilo : manca il punto fermo a cui appoggiare la leva » . Vedi La Sapienza del 1883, vol. VIII , p. 402.  levato dal Kant , e insieme la sua impotenza ad uscire da quel cer chio sconfortante segnato dal filosofo di Koenigsberg attorno allo spirito umano ; l'impotenza in cui rimase per non essere salito al concetto adeguato di quella coscienza, che è il Primo della sua costruzione filosofica . E dopo quattro libri di discussioni, di polemiche contro quei filosofi, trascendentali, che non si sa « se siano filosofi che ragionano , oppure frenetici che delirano » ( 1 ) , il Saggio filosofico finisce anch'esso nella tristezza del mistero : « La scienza umana è limitata . Essa può successivamente perfezionarsi. Ma essa non può oltrepassare certi limiti » . Non fu più reciso l'ignorabimus del Du Bois Reymond ( 2) . 57. E il primo limite dello spirito umano , secondo il Galluppi, è questo : « noi abbiamo una nozione generale della sostanza , ma noi non conosciamo affatto la natura , o come suol dirsi , l'es senza di ciascuna sostanza in particolare ( 3 ) . E fin qui ha ragione Kant. Secondo limite : « ignorando le prime sostanze, ignorar dobbiamo il come le cause efficienti producono i loro effetti ; e l'efficienza è per noi un mistero » . Dunque nè anche nel ritener soggettivo il rapporto di causalità aveva poi un gran torto Kant! ( - ) . Ma « tutto quello , che è incomprensibile, non è mica assurdo » , avverte il Galluppi ; e questo basta a salvare la crea zione. Terzo limite : « noi ignoriamo affatto le qualità assolute de ' primi componenti de'corpi ; noi conosciamo alcune qualità rela tive di alcuni aggregati delle prime sostanze della materia ... I corpi non sono tali quali a noi si manifestano » ( $ 100 ). E que sto , in verità, è un po ' più di quel che sostiene Kant : pel quale, se il noumeno va distinto dal fenomeno, appunto perchè ignoto , non si può dire che differisca dal fenomeno stesso . Differirà ? Non differirà ? Se a queste domande si desse una risposta, non si avrebbe più un noumeno . Qui , dunque, Galluppi è più kantiano di Kant. Quarto limite : la conoscenza importa successione, processo , passare da un principio a ciò che ne procede : ma Dio è ne ( 1 ) Passo del Saggio che il prof. CREDARO raccomanda « a coloro che fanno del Gal luppi un kantiano » ; ni kantismo in G. D. Romagnosi, in Riv. ital. di filos . del 1887, vol . II , p. 59, n. 2. ( 2) Vedi il celebre opuscolo Ueber d. Grenzen d . Naturerkenntniss, Lipsia , 1872 ; e LANGE, Gesch . d . Materialismus, 3." ediz ., Iserlohn , 1876 , pp . 148 sogg. ( 3 ) Saggio , lib . IV , cap. X ed ultimo, & 98 ; tom . V, p . 418. ( 4) Saggio , ivi, $ 99. 250  lui > gazione assoluta di ogni successione : « in questo essere infinito non vi è alcuna cosa che precede l'altra ; perciò la sua natura ci è perfettamente inesplicabile ed incomprensibile. I metafisici intanto non si credono tutti incapaci di comprendere la natura Divina > ; ma uno di essi , e de' più moderati, il Genovesi , avendo tentato, per esempio , di concepire in che modo questo mondo fosse architettato da Dio , non è riuscito che a una spiegazione contraddit toria . « Il volere spiegare l'atto creatore intelligente è una con traddizione ; poichè è un supporre qualche cosa antecedente a (come il Genovesi era costretto a porre in Dio prima l'essere e poi il conoscere , prima il conoscere e poi il volere o l'ope rare) . Questo è incomprensibile, e lo scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua gloria Proposizioni che non hanno forse il rigore scientifico della Dialettica trascendentale, ma che riescono , mi pare , al medesimo risultato . Che più ? Kant riconosce come tutti i filosofi moderni il grande valore delle matematiche; ma anche in esse il Galluppi trova dei limiti. Noi conosciamo esattamente, egli dice , le relazioni logiche tra le nostre idee astratte ; e ne son prova l'aritmetica e la geo metria . « Ma noi non conosciamo tutte queste relazioni, perchè il loro numero è inesauribile; e la conoscenza di queste relazioni non si estende quanto le nostre idee » « La nostra scienza è percið molto limitata sotto tutti i riguardi » ( 1 ) egli conclude : ed è la conclusione del Saggio intero , vale a dire della sua filosofia sperimentale . 58. Questo mi pare criticismo schietto , sufficiente di certo a fare ascrivere il Galluppi alla direzione kantiana , pur con tutte le sue più o meno ragionevoli invettive contro il soggettivismo del Kant ; se anche Alfonso Testa , che altri disse « l'unico kantiano, che abbia avuto l'Italia » ( 2) , era pur persuaso che il Kant , distrug gendo il sensismo, non fosse riuscito a sostituirvi altro che « un sistema soggettivo che distrugge la scienza verace » ( 3) . 59. Molto ha contribuito a mascherare il kantismo galluppiano , e ben più che le sue dichiarazioni e le sue proteste , che non ( 1 ) Vedi il capo X ed ultimo del lib. IV del Saygio . ( 2) L. CREDARO, A. Testa e i primordii del kantismo in Italia , in Rendic. Acc. Lin cei, 1886, S IV, III , p. 241. Vedi dello stesso CREDARO Il kantismo in G. D. Romagnosi ( in Riv . it. d. filos., 1887, vol. II, p. 59 n. ) , dove si oppone a chi fa del Galluppi un kan tiano, uno dei soliti passi del Saggio contro il trascendentalismo. ( 3) Come scrisse nel suo ultimo libro La mente dell'ab. G. Taverna , Genova , 1851 , p. 82. hanno o non dovrebbero avere molto valore per la valutazione del critico -, alcune speciali dottrine , che basta accennare bre vemente. 60. E in primo luogo : rifiuta nientemeno che la stessa sintesi a priori , che è come dire il nocciolo sostanziale del kantismo . « La distinzione , che la scuola trascendentale pone fra i giudizii analitici ed i giudizii sintetici (a priori) è assurda » . Queste son parole del Galluppi . E qui non si tratta di una semplice afferma zione. C'è anche la prova. « Se le due idee A e B non hanno alcuna identità fra di esse , lo spirito non può riguardarle che come distinte, e senz'alcun legame fra di loro : è impossibile , dun que, ch'egli vi percepisca un rapporto necessario di convenienza fra di esse : dire in conseguenza che lo spirito dee percepire neces sariamente un rapporto di convenienza fra due idee diverse , è affermare, che lo spirito pud pronunciare una contraddizione evi dente... Tutt'i giudizi necessarii debbono, in ultima analisi , risol versi nel principio di contraddizione : essi son dunque tutti ana litici , ed i giudizii a priori non possono essere che necessarii. Ammettere dei giudizi necessarii non poggiati sul principio di contraddizione , è un assurdo manifesto . Se lo spirito non vede alcuna contraddizione nell'opposto di un suo giudizio, egli non può certamente riguardarlo come necessario . I giudizi sintetici a priori non possono dunque esistere » ( 1 ) . Somiglia non po ' , a dir vero, al ragionamento di quel tale aristotelico restio agl'inviti di Galileo di guardare attraverso il cannocchiale ; ma è il ragio namento del Galluppi ; e questo basta allo storico, il quale dirà che il filosofo di Tropea, chiuso nel cerchio della logica formale e nel ferreo apriorismo delle sue regole , non poteva ammettere e non ammise il risultato principale della Critica kantiana, che è la sintesi a priori. « In effetto , – egli dice negli Elementi di logica pura (S XV) , – un principio sintetico, puro , a priori come Kant lo suppone , è una cosa contraria alle nozioni fondamen tali di una sana logica » . Infatti, egli soggiunge , prescindendo dall'esperienza , nella sfera delle mie idee , io non posso unire B con A, se non riconoscendo che B è uguale ad A, o ne fa almeno parte . Che se B eccedesse realmente A in estensione , in valore , come potrei attribuire ad A, come sua proprietà, tale eccedente di B, non ritrovato in A ? ( 1 ) Saggio , lib. I , cap . IV , s 116 ; tom . I , p. 241-2. Così la critica del Saggio è confermata negli Elementi con esplicito appello alle leggi della logica formale, per la quale cer tamente non è possibile la sintesi a priori kantiana, perchè l'iden tità non è conciliabile con la differenza, e se la necessità richiede l'identità , rifugge dalla differenza ( 1 ) . 62. È inutile mostrare il valore della critica galluppiana , fon data come quella del Degerando con cui va raffrontata , e quella stessa del Rosmini, sopra l'intelligenza della sintesi a priori de sunta dalla sola Introduzione alla Critica della ragion pura (nella 2.a edizione) coi famosi esempii: 7 + 5 12 ecc. Giova piuttosto ricordare che la vera sintesi a priori non con siste propriamente nell'unione di predicati a soggetti, onde siano già belli e formati i concetti ; bensi nella formazione medesima dei concetti: problema, di cui non s'accorse affatto il Galluppi, a proposito di Kant , ma riprodusse, del resto , e risolvette egual mente nella sua teoria dell'analisi e della sintesi , che , munite dei rapporti soggettivi dell'identità e diversità , servono anzi tutto alla formazione delle idee , e nella sua teoria del giudizio, essen zialmente distinto dal sentire, e necessario alla percezione di qualsiasi rapporto . 63. Questa della sintesi a priori è uno dei motivi prediletti della critica italiana intorno alle dottrine del Kant, e ricorre spesso nei libri del Galluppi ( 2 ) . Ma non è la sola teoria kantiana che egli ( 1 ) Ma, so sintesi a priori e logica formale sono assolutamente inconciliabili , non biso gna conchiudore : dunque, aut aut : o si rifiuta la sintesi a priori, o si rifiuta la logica formale . Su questo punto si fa , secondo me, molta confusione. Vi tornerò su in un mio prossimo lavoro ; qui voglio solamente aggiungere, che la dottrina della sintesi a priori fa parte della teoria della formazione delle conoscenze ; laddove la logica formale studia i rapporti delle conoscenze già formate o delle conoscenze in sè ; e notare, che se il pon siero non ha da essere un quissimile del vano lavoro delle Danaidi, non s'ha da far consistere solo in un accroscimento delle conoscenze , ma anche in un'intuiziono delle già acquisite. ( 2) Un anonimo già nel 1832 notava in un opuscolo molto arguto e tagliente contro il nuovo professore dell'Università, che le belle ed acute riflessioni, con cui il Galluppi combatte nel § XVII degli Elementi della logica pura il giudizio sintetico a priori, sono tolte da LAROMIGUIÈRE, Leçons de philos. , p. I , 1. 3 e 5. Vedi : Degli Elementi e della Introd . allo studio della filos. del celebre Bar. Galluppi, giudizio dato all'editore da un suo amico, Napoli , De Bonis, 1832, 8 37 , p. 42. · L'opuscolo reca la data di Napoli, 14 di cembre 1831. Scritto con molta vivacità e castigatezza di lingua, rimprovera al Galluppi l'inesattezze di certi suoi esempii presi dalla geometria e dall'algebra , l'ignoranza in ge nerale delle scienze fisiche e naturali, la scarna o niuna cognizione dei classici antichi combatta. Anzi, non v'è quasi teoria esposta nella Critica della ragion pura che venga risparmiata nel lib . III del Saggio gal luppiano e nelle parti delle altre opere che ne dipendono . Lo spa zio, il tempo, le categorie, lo schematismo, la dialettica trascen dentale gli offrono materia di lunghe e energiche discussioni, il cui scopo è sempre la confutazione del Kant. Aggiungi le fre quenti proteste contro il trascendentalismo e l'idealismo, che pel Galluppi equivalgono allo scetticismo, proteste nelle quali il Gal luppi unisce al Kant il Fichte e lo Schelling ( 1 ) , per quel poco che ne poteva conoscere da traduzioni o esposizioni francesi ; cd è evidente , che il lettore sbadato e il critico ottuso non potes sero e non possano vedere il filosofo di Tropea che agli antipodi di quello di Koenigsberg. 64. Il vero è che per un'esatta intelligenza delle dottrine di questo , il primo incontrava insormontabili difficoltà nei limiti della sua cultura ; la quale non si estendeva oltre la letteratura filosofica italiana e francese e alle traduzioni (allora pochissime e affatto insufficienti) che c'erano in queste lingue delle opere tedesche. Quello che poteva intravvederne indirettamente, era na turale che gli dovesse riuscire oscurissimo, e restargli innanzi con tali lacune, che s'egli ne avesse avuto coscienza, non sareb besi certo provato alla critica della filosofia tedesca. Egli, scrit tore chiarissimo e pensatore analitico per eccellenza , manifesta mente soffriva nello studio che poteva fare di quegli scrittori. Nella critica del Fichte, sforzandosi d'intendere il vero signifi della filosofia , la leggerezza nell'appigliarsi alla moda francese, e quindi la pedanteria e confusione del metodo analitico imitato dagli ideologi, e perfino i barbarismi e le im proprietà di espressione. L'opuscolo pare facesse una certa impressione. Il Galluppi ri spose col silenzio ; ma i suoi scolari con due opuscoli : Di un giudizio dato da ignoto giudice sur alcune parole del chiarissimo B. P. G. appella VINCENZIO MORENO , Napoli, Trani, 1832 ; Al giudizio dato da un anonimo su talune opere del chiarissimo P. G. risposta di GIUSEPPE PISANELLI, Napoli, Ruberto o Lotti, 1833. Curioso l'opuscolo del Pisanelli nella parte in cui difende il Galluppi scrittore, per l'enfatica digressione che vi è contro il purismo ( pp. 28-36 ). Per questa parte invece il Moreno riconosceva che il G. non fosse puro elegante e gentil dicitore ( p. 17) ; il che non toglieva ch'ei fosse, alla sua volta , pessimo scrittore . ( 1 ) Vodi le Considerazioni filosofiche su l'idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto ( Napoli , 1841 ). Di Schelling non pare che conoscosse nulla di originale , all'infuori della trad . francese del Bruno. Del Fichte cita la trad . francese della Bestimmung des Menschen . cato della costui dottrina dell'Io puro, dichiarava ai colleghi del l'Accademia francese : Qui l'oscurità alemanna comincia ad affliggermi; io che non amo ne' discorsi filosofici, se non che la chiarezza e la precisione , son qui circondato dalle più dense te nebre » ( 1) . E terminava la sua memoria invocando le regole wol fiane De stylo philosophico, e domandando agli amici della verità e del progresso della filosofia , se « lo scrivere i trattati filosofici in un modo più oscuro di quello , in cui è scritta la Teogonia di Esiodo, è esso un segno di progresso verso la verità o pure verso l'errore » (2) 65. Altri più recentemente si son lagnati dell'oscurità di alcuni scrittori filosofici, e si son levati in difesa del bello stile . Ma, come nel caso del Galluppi , molto spesso l'oscurità che si vede negli autori , non dipende da un loro difetto, sibbene dalla insufficienza nostra a intenderli ; chè nessuno è chiaro a chi non sia preparato e non procuri in ogni modo e con ogni mezzo d'intendere . Comunque, la dottrina del Galluppi è cosa ben distinta e diversa dalla sua intelligenza e dalla sua critica del Kant ; e della prima è indubitabile che s'ispira al Kant e non riesce a risul tati essenzialmente differenti ( 3 ) . 66. In sostanza egli è più kantiano di Kant. Questi , criticata la ragion pura , nega il valore scientifico , oggettivo, della meta fisica , ma le riconosce un ufficio regolativo , e scrive una meta fisica della natura come una metafisica dei costumi. Ma il Gal luppi si rinchiude in un assoluto psicologismo, per usare parola giobertiana ; e , pienamente conseguente alla sua filosofia dell'esperienza, tiene fermo alla dottrina dei limiti della scienza umana ; e alla metafisica sostituisce l'ideologia. La sua cattedra ufficiale era di logica e metafisica ; ma egli nella Prolusione an nunzia che tratterà della filosofia teoretica, ossia della scienza dell'umana scienza , e darà pertanto la legislazione suprema di tutte le scienze ( 4 ) . « La metafisica tratta , egli dice , delle idee essenziali all'umana ragione » ). Nella prima lezione rifiuta la definizione della filosofia data dal Wolf, sostenendo che egli volle una ( 1 ) Op. cit . , pag. 23. ( 2) lvi , pag. 133. ( 3 ) Ricordo per semplice curiosità che sostenne il kantismo del Galluppi CARLO Ro DRIQUEZ , Lett. su la filos . sogg . ed oggettiva del bar . Galluppi, Messina , 1833, p. 22 ; cui rispose ONOFRIO SIMONETTI, Analisi critica della Lettera ecc . ( Napoli ), Fernandes (1834 ), p. 31 e sgg. ( 4) Lezioni di log . e metafsira , p. XI. ( 5) Iri, p . XIV . definire piuttosto l'infinita sapienza conforme a quel suo enun ciato che Deus est philosophus absolute summus, e attribuendo alla filosofia wolfiana il difetto ascrittole appunto dal Kant, di confondere la cosa con l'idea della cosa. Nella seconda lezione commenta il suo concetto della filosofia come scienza del « pen siere umano ne' suoi elementi , nelle sue funzioni e nelle sue leggi » ; nozione , fa notare , della più alta importanza . 67. Prevede la possibile osservazione : ma è il pensiero il solo oggetto della filosofia ? E la ontologia, la cosmologia, la teologia naturale , la fisica ? — Queste scienze, risponde il Galluppi , in parte si riducono alla ideologia, scienza del pensiero , e in parte escono fuori dal campo della filosofia . L'ontologia studia « alcune nozioni universali , essenziali all'umano intendimento » ; e la dottrina delle nozioni , delle idee non appartiene forse alla scienza del pensiero ? Lo stesso dicasi della cosmologia e della teologia naturale. Sic chè il Galluppi conchiude : « Tutte le parti dunque della meta fisica appartengono alla scienza del pensiere umano » . Quanto alla fisica , in parte è filosofia ( psicologia, per le relazioni che que sta scienza studia tra i fatti fisici quali sono in sè e i fatti fisici quali appariscono a noi , e teologia) ; e in parte , quale si tratta comunemente nelle scuole, se non può ridursi a rigore alla scienza del pensiero , « è nondimeno una scienza che le è contigua , e che serve a rischiarare, ed a perfezionare la filosofia intellet tuale » . Sicché la metafisica, nel sistema del Galluppi, è bella e ita assolutamente. E se la filosofia per lui si divide com'è detto nella 3.4 lezione – in filosofia speculativa o teoretica , che studia l'anima ( soggetto del pensiero) in quanto conosce , e in filosofia pratica , che studia l'anima in quanto vuole , è chiaro che nè an che questa potrà essere fondata su alcun principio metafisico. Il Kant non era arrivato a questo punto. Ma prima di accennare i principii del Galluppi nella filosofia pratica , bisogna fare un'altra osservazione generale, che ci pare di non poca importanza . 68. Nella Prolusione il Galluppi , vantando le ragioni del me todo sperimentale , avvertiva che non bisogna però mutilarlo ; anzi prenderlo tutto intero nelle sue specie e ne ' suoi risultamenti ; ne confonderlo con l'empirismo ; giacchè la filosofia intellettuale, co me egli chiama quella che dovrà insegnare , < non ammette so lamente quelle esistenze , che cadono immediatamente sotto l'espe rienza ; ma quelle ancora , che le esperienze sperimentali suppon gono necessarie . Quindi ella deduce tanto dall'esistenza del mondo materiale , che da quella del mondo intellettuale, che a noi si manifesta, l'esistenza eterna di un ' Intelligenza creatrice . E ciò in modo simile a quello in cui l'astronomia , partendo dal cielo em pirico , pone un cielo razionale » ( 1 ) . Il cielo razionale sarebbe il cielo costruito dall'astronomo mercè la forza portentosa del cal colo, della geometria e del raziocinio , onde si « sbalza dal cen tro del planetario sistema la terra , e vi si pone il sole ; si tra sforma in masse di meravigliosa grandezza quei piccolissimi corpi , che sembrano tanti chiodi affissi nel firmamento, si determina le distanze , le orbite ed i tempi delle rivoluzioni de' pianeti » ( 2 ) . 69. Sicché, pel Galluppi, anche la filosofia intellettuale, la ideologia , la filosofia dell'esperienza, con tutti i suoi limiti , ha il suo cielo razionale ; come l'ha del resto il criticismo con la sua cosa in sé . Ma la cosa in sè per Kant è un puro concetto limite, di cui s'afferma l'essere non il come ; che si afferma, non si conosce; laddove il Galluppi dedica tutta la seconda parte della sua Ideologia, che intitola Teologia naturale , allo studio dell'Asso luto e de ' suoi attributi , come se Kant non fosse mai esistito . Il nome di questo qui non ricorre se non nelle ultime pagine, dove è detto insensato il suo « impegno di contrastarci la possibilità di una Teologia naturale e filosofica » ( 3 ) , 70. Ma tutta questa parte evidentemente è non solo in con traddizione con la Critica kantiana, ma anche con lo stesso Sag gio dell'autore, la cui conclusione riesce a quella dottrina dei limiti della scienza che sopra vedemmo. Che dire adunque del vero pensiero del Galluppi ? È vero , come è detto nel Saggio, che lo scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua gloria ? O è vera la teologia delle Lezioni ? Le due dottrine sono certa mente inconciliabili. E io non dubito d’asserire , che se il Galluppi non avesse scritto le Lezioni per i giovani dell'Università in uno de ' periodi di più cupa servitù intellettuale che abbia attraversato il pensiero italiano, la seconda parte della Ideologia non sarebbe stata scritta . 7i . « Questa opera , diceva l'autore nella prefazione delle Le zioni, non è mica la ripetizione dei miei Elementi di filosofia pub blicati in cinque volumi, nè di altra mia opera antecedente » . E notava altresì che « serbando le leggi essenziali di un metodo, può questo ricevere delle variazioni accidentali » . Intendeva egli alludere alla teologia naturale, di cui trattava per la prima volta ( 1 ) Op. cit . , p. XIX . ( 2) Ivi , p, XVII . ( 3) Op . cit . , III , 306 . . in queste Lezioni ? ( 1 ) . Si noti che non parlava di nuovi svolgi menti del suo pensiero , ma di variazioni di metodo; onde non poteva accennare a parti ora per la prima volta trattate della sua filosofia che non importassero alcuna modificazione di principii . Si noti anche, che la seconda parte dell'Ideologia è come appiccicata alla prima. Solo alla fine della 108. lezione (1. della Ideologia ) l'autore dice : « L'essere è o finito o infinito ; io divido perciò l'ideologia in due parti , nell'ideologia del finito ed in quella del l'infinito » E in questa distinzione così accennata è tutta la ra gione della teologia naturale o ideologia dell'infinito , cui son de dicate le ultime dieci lezioni del corso universitario . Le dottrine non essoteriche hanno ben più stretti legami coi principii sostan ziali dello spirito d’un pensatore ; e questi le fa sempre sgorgare specialmente quando siano dottrine così importanti , rispetto a quella filosofia dell'esperienza, onde il Galluppi si proclamo sempre assertore le fa sempre sgorgare, bene o male , dalle dottrine per l'innanzi professate, le pone, bene o male , in ac cordo con esse , per rimanere esso stesso d'accordo con sè mede simo. Nell'opera del Galluppi nulla di tutto questo . 72. Io propendo pertanto a non attribuire alcun valore a quella parte delle Lezioni nel sistema delle idee galluppiane. Non penso già che egli le dettasse e le pubblicasse contro la sua coscienza, ma certo contro la sua coscienza filosofica . Egli pensava certamente quanto scrisse e insegno degli attributi divini ; ma quella parte del suo pensiero non era stata da lui elaborata filosoficamente ne coordinata quindi alla sua speculazione . Chi ha insegnato e non s'è trovato nel caso del nostro filosofo , di esser costretto da un programma a insegnare anche ciò che il suo spirito non ha ma turato e fatto suo , e insegnarlo quindi nella forma in cui ordi nariamente si dà , e in cui è pur bene che sia offerto all'intel letto dei discepoli ? Chi non si trova a dover insegnare qualcosa di più di quello che in buona fede e a rigore potrebbe dir di sapere , o di quello ond'egli può dirsi veramente persuaso ? Chi oltre a ciò che, per sè e per altrui , deduce chiaramente da ' propri principii non ha insegnato qualcos'altro, che da quei principii sinceramente non sa derivare nè per altrui nè per sè ? Il Galluppi non aveva per sè una teologia più filosofica di quella che è esposta nelle ( 1 ) Della religione tratta anche negli Elementi di filos. morale. Ma se la sbriga in un breve capitolo , che non ha nessuna pretensione filosofica , e si limita a una semplice notizia molto compendiosa del concetto della religione cristiana.  sue Lezioni; in questa fermavasi il suo pensiero ; ma stimo che non vi s'acquetasse ; perchè una consapevole o inconscia insoddi sfazione doveva fargli sentire che nella sua filosofia dell'esperienza non c'era posto per quella teologia . 73. S'è accennato che sulla fine della teologia naturale l’au tore si ricorda dell'impegno insensato del Kant di contrastare la possibilità di una teologia. E che fa egli per combattere l'assunto kantiano ? Scrive così : « Kant insegna che i giudizii su cui ella ( teologia naturale e filosofica ) poggia, sono sintetici a priori e fenomenici, privi di una assoluta realtà. Egli dice che le verità necessarie della teologia naturale non sono mica identiche, ma sintetiche ; e che le verità di fatto non sono che mere apparenze, che fenomeni privi della realtà noumenica ed assoluta, indipen dente dal nostro modo di vedere. Io , nella mia Critica della co noscenza ( 1 ) ho seguito passo passo la dialettica kantiana ; e vo lendo parlar con giustizia , non può negarmisi, che l'ho invinci bilmente distrutta. Io ho mostrato, che i giudizii sintetici a priori sono assurdi ; ho mostrato eziandio , che le verità sperimentali ci danno pure delle conoscenze delle cose in se stesse considerate » ( 2) . Questo è tutto. Ora, poniamo che sia esatta l'esposizione del pen siero del Kant . Ma la critica della sintesi a priori non giustifica , tutto al più , che la posizione dell'assoluto, come avviene per l'ap punto nel Saggio dello stesso Galluppi ( lib . III , cap. XII) ; dove partendo dalla pretesa impossibilità dei giudizii sintetici a priori , si dice , contro Kant, che non è tale neppure il principio : dato il condizionale, si deve dare l'assoluto ; e si conchiude quindi che il condizionale dell'esperienza è reale in sé , non fenomenico, e che nella sua realtà è pur data quella dell'assoluto ( 3 ) . E nel Sag gio tutto finisce li . E la conclusione dell'opera è quella che ab ( 1 ) Acoopna al Saggio filosofico . ( 2) Lez ., III , 306. Quindi accenna alle critiche che alla sua confutazione della sin tesi a priori aveva mosse il MAMJANI nol Rinnovamento e lo ribatte. ( 3 ) Un'ottima osservazione contro questa deduzione fa col suo solito acume il Tesia , il quale crede come il Rosmini che il Galluppi non mova un passo fuori del soggetti vismo. È falsa , egli dice, la premessa che il condizionale sotto il rispetto del condizionale sia un termine dato dall'esperienza. Quosta non ci dà che sensazioni e sentimenti. Ma le sensazioni non sono il condizionale ? - Si , sono, ma non ci sono date come tali dall'esperienza . La qualità d'essere condizionale è una veduta dello spirito , non è nella sensazione, opperò non è trovata nella sensazione. Vedi Le ricerche apolog. del crist, del popolo dall'ab. G. Bignami esaminate, Lugano, 1841, p. 33 e seg . biamo vista. Gli attributi divini son dichiarati incomprensibili. Nè quell'assoluto del Saggio differisce molto dalla cosa in sè kan tiana . Ma nelle Lezioni non c'è solo l'assoluto, bensì la scienza del l'assoluto ; e non viene giustificata. La conclusione dell'opera si limita ad affermare che « mostrando l'oggettività delle nozioni di sostanza, di causa e dell'assoluto , il criticismo è rovesciato , e la realtà della conoscenza è stabilita » . Sono le ultime parole delle Lezioni; ma potrebbero essere a miglior ragione le ultime del Saggio, perchè in quelle s'era cercato di provare qualcosa più dell'oggettività della nozione che la mente possiede dell'as soluto. 74. Se la teologia naturale avesse avuto nella mente del Gal luppi la stessa saldezza dei principii più genuini della filosofia dell'esperienza, la sua etica non avrebbe mancato di esservi su bordinata. Invece ne è assolutamente indipendente . Anzi, pure inspirandosi , come si vedrà , all'idealismo kantiano , non tiene af fatto conto delle esigenze sentite dal Kant nella Critica della ra gion pratica e nella Fondazione della metafisica dei costumi. Forse egli non conobbe nulla direttamente di queste opere , e della mo rale kantiana non dovette avere che l'indiretta notizia fornitagli dalle solite esposizioni francesi. Non per questo si può dire con certi critici , che i suoi quattro volumi della Filosofia della volontà « non contengono nulla di nuovo, anzi , di fronte a Locke ed Hume, ed a tutta la specula zione contemporanea, segnano un sensibile regresso verso il vec chio rancidume metafisico e teologico » . Chi giudica così , non deve avere grande familiarità con questo rancidume, e certo è asso lutamente falsa la sua sentenza, che la morale galluppiana sia ispi rata all'idealità patristica e scolastica ( 1 ) . Non si potrebbe dire nulla di più inesatto intorno a quella morale. 75. Basta una sommaria esposizione per convincersene. Bisogna prima di tutto osservare , che il Galluppi insegnava nell'Università, come s'è visto , filosofia teoretica o , com'egli dice , intellettuale ; e non v'ebbe quindi occasione di trattar mai la morale. Ma egli aveva pubblicato nel '26 , nel quinto volumetto del suo ma nuale scolastico , gli Elementi della filosofia morale ; e prima d'as sumere l'insegnamento aveva scritto La filosofia della volontà , ( 1 ) Vedi l'art. La speculazione di P. G. , nella Rivista di filos, e sc. affini di Bolo gna , an. III , vol . V (ottobre 1901), p. 276 .  in quattro volumi, che cominciò a pubblicare nel 1832 ( 1 ) . In essa , secondo che egli dichiara nella Prefazione , si proponeva di trat tare in un'opera estesa lo stesso argomento di quegli Elementi, ma col metodo stesso del Saggio filosofico, ossia con la discussione e l'esame delle varie dottrine relative ad ogni materia . Ma non do veva aver compiuto il lavoro prima di salire la cattedra di logica e metafisica ; e non pare che vi sia potuto più tornare ; sicchè non tutte le parti del volumetto degli Elementi vi sono riprese e no vellamente trattate con quella maggiore larghezza, che l'autore s'era proposta. E il disegno di essa , delineato sulla traccia degli Elementi, gli rimase colorito meno che a metà . 76. Nella Filosofia della volontà comincia dal distinguere nel l'uomo l'agente fisico della natura , « disposto o mosso ad operare pel fine della propria felicità , >> e l'agente morale, disposto o mosso ad operare dal principio del proprio dovere » . Distingue anche i movimenti « che nel corpo umano si osservano » , in mec canici, che non dipendono dalla volontà , e volontari, per cui sol tanto l'uomo può dirsi agente. Chiama quindi filosofia della vo lontà « quella scienza che fa conoscer l'uomo considerato come un agente » ; e divide questa scienza in quattro parti : « nella prima, dice , esamino l'uomo considerato generalmente come un agente ; nella seconda l’esamino sotto l'aspetto di agente morale ; nella terza sotto l'aspetto di agente fisico ; e nella quarta finalmente l'esamino riguardo alla sua esistenza in uno stato futuro, dopo il fenomeno della morte ; e ciò in conseguenza della sua virtù e de' suoi vizi » ( 2) . Questo il disegno. Ma delle quattro parti ideate i primi tre volumi dell'opera e il primo capitolo del quarto trattano solo la prima ; gli ultimi due capitoli di questo quarto volume e del l'opera iniziano appena la trattazione della seconda, com'è svolta negli Elementi; e della terza e della quarta non c'è nulla ; laddove negli Elementi l'una ( intitolata De' mezzi per esser felice, cap . VI) è trattata con relativa larghezza , e dell'altra c'è pure un cenno col titolo : Della religione. Sicché, quantunque l'autore appaiasse questa sua Filosofia della volontà col Saggio filosofico, come l'opera con tenente la sua filosofia pratica accanto a quella contenente la ( 1 ) I primi due volumi , pp. 338 0 452, nel 1832 presso C. L. Giachetti in Napoli ; il 3. ° vol , di pp. 388 nel 1839 presso la stamperia Tramater in Napoli; e il 4.° di pp. 361 nel 1840 ivi . La dedica del 1. ° vol. , a S. E D. Giuseppe Cova Grimaldi, marchese di Pie tracatella , reca la data di Napoli 30 aprile 1832. ( 2) Ed. cit. , I , 6-7 . a sua filosofia teoretica ; è evidente, che se la Filosofia della volontà presenta discusse con grande ampiezza questioni brevemente accennate negli Elementi, di questi non può fare meno chi voglia acquistare un concetto compiuto delle teorie pratiche gal luppiane ; e in essi deve principalmente attingere quella parte di coteste teorie , che spetta più propriamente alla morale. 77. Dal disegno stesso dell'opera maggiore si scorge un pre gio non comune in questo ramo della filosofia del Nostro : voglio dire la pienezza del suo concetto dello spirito pratico . Egli, com'è chiaro già da quelle semplici indicazioni, non vede tra la felicità e il dovere quella dualità inconciliabile, in cui si dibatte l'etica prima di Kant e nello stesso Kant; quella dualità che finisce ine vitabilmente, secondo l'uno o l'altro pensatore , o con la nega zione dell'uno o con la negazione dell'altro principio , o nel con cetto puramente utilitario o in quello del puro disinteresse . Il Gal luppi vede che sono due i fini dell'umano volere : due fini però conciliabili tra loro , sì che uno non importi la negazione dell'altro . L’uomo infatti è agente fisico e agente morale insieme ; e per es sere agente fisico non cessa di essere agente morale ; e viceversa : segno manifesto , che tra i due fini non c'è opposizione assoluta. La confutazione perentoria dell'utilitarismo dal punto di vista etico sta in questo concetto , che il Galluppi vide nettamente, come apparrà meglio dalla notizia che ora ne daremo. 78. Tutta la prima parte della sua filosofia pratica s'aggira adunque intorno all'attività in generale dell'uomo : è, come noi diremmo, una semplice psicologia pratica. Parla quindi del desi derio, della volontà, dell'influenza della volontà sull ' intelletto, e viceversa, e in generale dei principii motori della volontà , e della libertà umana . Questa è la trattazione più ampia, e occupa quasi per intero il secondo e il terzo volume della Filosofia della volontà ; non avendo voluto il Galluppi lasciare senza risposta nessuno degli argomenti che sono stati addotti contro l'esistenza del libero volere . 79. Della volontà il Nostro dice che non può definirsi. Ne fa una facoltà, avvertendo bensì , che « le diverse facoltà , che concepiamo nel nostro spirito , non sono certamente tanti agenti diversi : esse non sono che lo spirito stesso considerato relativa mente ad una determinata specie di modificazioni, che avvengono in lui » ( 1 ) (I , 15-16) . Si potrebbe intendere per volontà la facoltà ( 1 ) Quindi, secondo l'autore, è volontà « il nostro spirito stesso considerato relativa 262 CAPITOLO VII di volere ; ma questo come ogni atto semplice non può definirsi, e non se ne può altrimenti avere la nozione che « dirigendo la nostra attenzione sul sentimento che abbiamo di questo atto » , ossia ricorrendo alla nostra personale coscienza. La volontà senza gli atti di volere è indeterminata come volontà ; è lo spirito stesso in generale . La determinazione della volontà è la produzione de ' voleri particolari ; e siccome, dice Galluppi stesso, lo spirito è il principio efficiente de ' voleri , così può dirsi tanto che lo spi rito determina se stesso , quanto che la volontà determina se stessa ( I , 51 ) . 80. La volontà, come notò gia Locke, va ben distinta dal de siderio. Un idropico , malgrado il desiderio di bere , si astiene dall'acqua . Egli dunque desidera di bere , ma non vuol bere . In tali casi vi sono desiderii opposti , fra i quali la volontà si deter mina. Pel Galluppi tra desiderio e volere c'è una recisa differenza . Quello non è , come ordinariamente si crede , un fatto d'attività dello spirito , ma, come oggi si direbbe , un fatto puramente emo tivo ; quel misto di piacevole e di spiacevole onde lo spirito è af fetto per la percezione d'una sensazione in se stessa piacevole , ma assente , e però causa d'un dispiacere tanto maggiore, quanto più lontano è il futuro, in cui si pensa che essa sarà provata ( 1 ) , Quando, come fa il Wolff ( 2) , si vede nel desiderio uno sforzo, un'avversione, un'inclinazione, o ci si contenta di metafore fallaci, o si confonde col desiderio il volere, onde i movimenti corporei sono l'effetto. Sforzo, tendenza, inclinazione , allontanamento son tutti vocaboli, che applicati all'anima non presentano alcun senso ( 8) . ( I , 65) . 81. Come dal desiderio, la volontà va distinta dall'intelletto ; sicchè può parlarsi di un'influenza esercitata dalla volontà sul l'intelletto , come di un'influenza esercitata dall'intelletto sulla volontà. Quanto alla prima , il Galluppi vede un potere della vo lontà perfino nelle sensazioni, in quanto lo spirito « può esporre o pure sottrarre i propri sensi all'azione de ' corpi esterni ; e quindi procurarsi o privarsi di alcune date sensazioni » ( 4) . Quindi mente a quella specie di modificazioni, che abbiam chiamato voleri » ( I, 24 ). Insomma, gli atti singoli presuppongono un quid nella natura dello spirito ; o questo quid è la volontà . ( 1) Filos. d. vol., I , 63 e ss . (2) Psych , emp., SS 279 e 281. ( 3) Filos. d . vol. , I , 65 . ( 4) I , 112. L'autore s'accorge che questo potere della volontà si esercita indiretta ci parla di sensazioni volontarie e sensazioni involontarie ; e come i desiderii sono un effetto delle sensazioni , trova che vi sono e desiderii volontari e desiderii involontari; e come anche i fan tasmi seguono le sensazioni , anche tra i fantasmi pone la stessa distinzione nel campo dell'immaginazione. 82. Quando si passa dalla sensibilità alle facoltà dell'analisi e della sintesi , non si tratta più di un potere indiretto , ma im mediato della volontà sull'intelletto ; e dicesi attenzione ; nel cui studio l'autore si trattiene con diligenza e acutezza , che fan degne quelle pagine di esser lette ancora , pur dopo tanto progresso nella conoscenza dei fenomeni psicologici . E come l'analisi e la sintesi sono le due attività spirituali onde vengono prodotte tutte le conoscenze, l'impero su di esse vale l'impero su tutto il co noscere . 83. Che più ? L'associazione è anch'essa volontaria e involon taria. L'abito , questa seconda natura morale , può dirsi anch'esso volontario , quando consta della ripetizione volontaria di atti vo lontari ; e conferisce a quell'educazione onde ognuno è responsa bile , poichè egli ne è l'artefice. I giudizii temerarii sono colpevoli, perchè volontari ; in essi l'attenzione si volge a fantasmi , cui non dovrebbe rivolgersi , e l'uomo vuol manifestare i giudizii che da quei fantasmi deriva , confondendo l'immaginare col giudicare. Infine , da questo impero della volontà sull’intelletto la distin zione dei moralisti di ignoranza vincibile e invincibile ( 1 ) . 84. In quanto all'influenza dell'intelletto sulla volontà , è chiaro : che la vita dello spirito , come nota il Galluppi , comincia dalle sensazioni . Ora queste , secondo che sono piacevoli o no , deter minano lo sviluppo dell'attività dell'anima ( 1 ) ; suscitano i desiderii che influiscono sulla volontà. Quindi nasce il problema : in quanti modi l'intelletto influisce sulla volontà ? E se ciò che nel no stro spirito dispone o eccita la volontà all'atto di volere, dicesi principio attivo della volontà, si domanda : quanti sono i prin cipii attivi della volontà ? E non sono riducibili tutti ad un solo principio , come sue varie modificazioni ? 85. Elvezio concentrò tutti i principii dello spirito nella fi sica sensibilità . Ma, « annientata così tutta l'attività dell'anima, e mente ; ma non vede che pertanto in questi casi trattasi d'un impero del volere sul corpo , e non propriamente sull'intelletto . ( 1) Tutta questa dottrina dell'influenza della volontà sull'intelletto è anche negli Elem . , capp. II-VII. l’uomo riguardato come solamente sensitivo ed animale , la virtù negli scritti di Elvezio scomparve dall'universo, e vi fu rimpiaz zata da un grossolano egoismo » ( 1 ) . L'uomo per Elvezio è tutto ciò che le cause esterne lo fanno essere . Egli ricava le conse guenze logiche più rigorose dal sensismo del Condillac, che uso tutti i riguardi per la morale e per la religione, ma non ragionò coerentemente al suo principio della sensazione trasformata . Elvezio parte dallo stesso principio , e ne deduce illazioni che fanno or rore (2 ) 86. Ma, come è falso nella filosofia intellettuale che tutto sia sensibilità fisica o da essa derivi , com'è falso ridurre il giudizio che è attività sintetica e analitica, al mero fatto passivo della sen sazione, così è falso nella filosofia pratica non distinguere dalla passività del senso l'attività e la libertà della volontà , e non ri conoscere l'origine soggettiva del dovere ( 3) . 87. Non è vero che tutto lo spirito sia sensibilità ; e perciò il presupposto elveziano è privo di fondamento . Non è vero che i piaceri e i dolori che agiscono sul volere , sieno in ultima ana lisi sempre piaceri o dolori fisici provenienti da sensazioni ; è incontrastabile, che vi sono anche piaceri o dolori intellettuali provenienti da pensieri ( 4) . Quindi una prima divisione dei prin cipii motori della volontà o motivi : desiderii inriflessi, quelli in cui lo spirito è passivo , e principii riflessi, in cui lo spirito è at tivo. I primi si possono dire anche semplicemente desiderii, gli altri , ragioni ( 5) . I principii irriflessi si possono ridurre a sette ; appetito fisico ( fame, sete , amor fisico ), desiderio della propria ec cellenza, curiosità , sociabilità, desiderio della gloria , emulazione e potere, affezioni. 88. La ragione è principio di atti volitivi come principio eco nomico e come principio morale ; o , come il Galluppi dice , in quanto esamina ciò che conviene alla nostra felicità , fa il cal colo dei beni e dei mali , e dirige le nostre azioni a produrre un certo stato dell'anima ; e allora si chiama prudenza ; e in quanto ci mostra il bene e il male morale , e ci comanda di far l'uno e non far l'altro ; e allora può dirsi ragione legislatrice della nostra volontà (6) 89. I principii della prudenza sono quattro : un piacere che ci priva di maggiori piaceri è un male ; un piacere che ci pro ( 1 ) Op. cit . , I , 175. ( 2) I , 193. ( 3) I , 194. ( 4) I , 238 . ( 5) I , 286-7. ( 6) I , 318.  duce maggiori dolori , è un male ; un dolore che ci libera da mag giori dolori , è un bene ; un dolore che ci produce maggiori pia ceri , è un bene ( 1 ) . 90. A questo punto l'autore si propone la questione della li bertà , alla quale , come s'è detto , dedica la maggior parte del l'opera sua , ma della quale noi ci sbrigheremo in poche parole . Questa è la parte più vecchia della sua filosofia, e una delle meno logicamente dedotte dai principii della sua speculazione . In essa egli sentì la forza del pregiudizio come impedimento insormonta bile alla visione della verità più evidente ; e ci si vede la soprav vivenza di una vecchia dottrina, che mal si connette all'orga nismo del nuovo pensiero ; anzi vi rimane aggiunta e giustap posta come membro morto che l'artificio collochi al posto di quello che manca in un corpo vivo . 91. Dal suo concetto dell'unità metafisica dell'Io, dal suo con cetto delle facoltà come semplici principii costitutivi della natura dello spirito , il Galluppi avrebbe dovuto esser condotto a più elevato e concreto concetto della libertà, che non sia quello da lui ancora difeso a forza di sottigliezze ingannevoli e d'illusorii ragionamenti. Egli vede la distinzione tra sensibilità , intelletto e volontà, di cui fa tre facoltà distinte , ma pur facendole scatu rire dall'unico Io , non giunge a scorgerne la recondita unità . E veramente , separato l'intelletto dalla volontà, da cid che v'ha di umano, di spirituale nella volontà , non è possibile altro con cetto di questa , all'infuori di quel vuoto volere , che è il fonda mento della libertà bilaterale. 92. Questa è la libertà a cui giunge il Galluppi : la libertà per cui nell'atto stesso che vogliamo , potremmo non volere ; quel po tere, che non si esercita , e la cui essenza stessa è di non esercitarsi nel momento stesso che lo sentiamo ( 2) . Questa libertà del volere è determinata nettamente dal suo confronto con la necessità del sillogismo . La coscienza ci attesta, che noi non siamo liberi di tirare o non da due premesse quella data conclusione , laddove ci attesta il contrario rispetto ai singoli atti del volere . E siccome ( 1 ) I , 318. Nella Filosofia della volontà tutto finisce con la enumerazione di queste leggi. Negli Elementi invece, come si disse, tutto il capitolo VI è dedicato ai Mezzi per esser felice ( pp. 210-292). Quivi fra i piaceri intellettuali si annovera il piacere estetico ; e quindi i 88 71-85 contengono una breve trattazione di estetica. ( 2) Elem . , V, 123. « La libertà , io dico, è il potere di volere, o di non volere un og getto percepito ; Filos. d. vol. , II , 811.  la coscienza è quel fatto fondamentale, a cui il filosofo deve sem pre far capo, la sua testimonianza basta a provare la realtà della libertà ( 1 ) . Tutti gli argomenti contrari non reggono alla critica 93. Ma negli Elementi il Galluppi , prima di appellarsi al te stimonio della coscienza, ricorre a un argomento , che rivela su bito la paternità kantiana. Nella coscienza del dovere e del pre mio o delle pene che spettano alle azioni si comprende , egli dice, la coscienza della nostra libertà . « Non si comandano le azioni necessarie , come non si comanda ad un sasso il cadere se non è sostenuto . Le azioni necessarie non sono riguardate come meri tevoli nè di premio, nè di pena.... La coscienza della legge in teriore contiene la coscienza della propria libertà . Il comando suppone in colui , a cui è diretto , il potere di eseguirlo e di non eseguirlo » . Devi ; dunque , puoi, aveva detto Kant . 94. Non bisogna , del resto , porre il Galluppi fra le anticaglie pel suo concetto della libertà . L'indeterminismo anzi è una delle con cezioni oggi alla moda ; e non manca in Italia di rappresentanti ; i quali si sforzano di combattere il concetto della direzione unica ed unilineare degli atti del volere , ponendo nello spirito un irri conciliabile dualismo, che lacera internamente l'unità dell'indi viduo umano, e sta quasi condizione necessaria, se non sufficiente , della libertà morale ( 2) . E ancora uno dei più acuti psicologi che abbia l'Italia , afferma che il concetto del volere libero , « cioè non coatto estrinsecamente (libertas a coactione), nè intrinsecamente (li bertas a necessitate) è una verità , la quale, sebbene accanitamente combattuta da molti e sotto molti rispetti , resterà sempre incon cussa per chi , scevro da pregiudizii e forte nelle convinzioni morali , non si lascia smuovere da' sofismi ne turbare dalle difficoltà » ( 3) . Il vero è , che una questione mal posta non può aver mai la sua vera soluzione ; e potrà sempre far accettare or l’una or l'altra di due opposte soluzioni. Quella del libero arbitrio è stata ap punto una questione mal posta, per l'indeterminatezza del con cetto del volere , su cui si fondava. Giacchè, se si determina rigoro samente il volere, è impossibile escluderne la ragione , e non vedere quindi , che se han torto gl’indeterministi a difendere la libertas ( 1) Filos., II , 21 , 329 e passim ; cfr. gli Elem ., V, 123. ( 2) Vedi la lodata opera del prof. IGINO PETRONE, I limiti del determinismo scienti rico , Modena, 1900, pp. 105-6 ; 2.a ed ., Roma, 1903, pp. 110-111; cfr . BOUTROUX, De la con lingence des lois de la nature, Paris, 1895 , pp . 123 e sgg. ( 8) BONATELLI, Elem . di Psicologia e logica , Padova, 1895 , p. 210.  a necessitate, non hanno minor torto i deterministi a combattere la libertas a coactione : gli uni perdendosi in una vuota creazione dell'intelletto astratto , gli altri rompendo nello scoglio fallace del meccanismo. E dire che non è mantato chi ponesse bene la questione , e le desse quindi una soluzione da soddisfare le oppo ste esigenze e dissipare tutte le difficoltà ! 95. Stabilita , comunque , l'esistenza della libertà morale, si tratta pel Galluppi di risolvere questo problema: esiste un bene e un male morale ? E ne chiede la soluzione , anche questa volta, alla coscienza . L'esistenza del bene e del male morale, e per conseguenza di una legge morale naturale, è una verità primitiva attestataci dalla nostra coscienza ( 1 ) . Darne una dimostrazione è impossibile, senza avvolgersi in circoli viziosi , al pari di chi vo lesse provare allo scettico l'esistenza e la realtà del nostro cono scere . La coscienza ci dice che esiste una legge morale naturale, ossia necessaria ed originaria che si dice dovere : indipendente dalla legge positiva , come dall'opinione altrui , valida nel segreto dell'anima nostra . Donde viene a noi la nozione di essa ? Chi indipendentemente dalla legge positiva mi comanda di non ucci dere un uomo, di rendergli il deposito , che mi ha confidato ? È la mia ragione , la quale comanda alla mia volontà . « Son io che comando interiormente a me stesso . Questo comando non mi viene dunque dal di fuori ; ma dall'interno del mio essere » . Il predi cato dei giudizii morali è l'idea del dovere ; e questa idea viene da noi , dice il nostro filosofo , non dagli oggetti. « La nozione del dovere , egli dice anche esplicitamente , è una nozione soggettiva essenziale alla nostra ragione » ( 2) . Meglio non si potrebbe dire. Altro che rancidume, e idealità patristica e scolastica ! Nessuna più esplicita e più coraggiosa proposizione avrebbe potuto pro nunziarsi in omaggio al moderno, al vero soggettivismo . Sog gettivo il dovere , ma anche essenziale : questa è la giusta defini zione non solo del vero soggettivo, ma anche del vero oggettivo , dopo Kant, quando bene s'intenda . E nella morale il Galluppi riproduce Kant bene inteso , senza esitazioni e senza limitazioni. Annunziata la soggettività del dovere egli dice con accento di sincerità commovente : « È questa una verità per me evidente , e credo che tale sembrerà a chiunque vi rifletta di buona fede » ( 3) . ( 1 ) Filos. d. vol ., IV , 38. ( 2) IV, 41 . Il corsivo è dello stesso Galluppi. ( 3) Ivi . Tutto ciò trovasi anche negli Elementi, V, 91 .  96. La nozione del dovere rende la ragione ragion pratica o legislativa (tutta terminologia kantiana, come si vede). Essa è essenziale alla ragione, e perciò potrebbe dirsi innata. Ma non sono già innati i principii della morale , ossia i singoli doveri . Non uccidere : se questo precetto fosse innato , dovrebbe esser tale anche l'idea di omicidio, la quale ci viene invece dall'esperienza. « L'uomo è però costituito di tal natura , che la nozione del do vere sorte, nelle occasioni , dal suo proprio fondo » ( 1 ) . Insomma, quel che vi ha di a priori in Galluppi, come in Kant , è la forma del giudizio pratico ; e la materia è data dall'esperienza . In che consista il dovere, non è determinato in quella nozione sogget tiva ed essenziale , che costituisce la Ragion pratica. Di a priori nello spirito e quindi di essenziale nei fatti etici non havvi che il predicato onde si giudicano le azioni morali : cioè appunto la forma. Soggettivista come Kant, Galluppi è del pari formalista nella morale . 97. « La nozione del dovere, egli dice , sorte dall'interno di noi medesimi, ed applicandosi alle azioni che si presentano allo spirito costituisce quei giudizii, che sono precetti o comandi » ( 2) . « Questi precetti, in conseguenza, son proposizioni sintetiche; poi chè essi sono un prodotto necessario della sintesi della ragione, che aggiunge ad alcuni dati atti liberi l'elemento del dovere... Questi giudizii , sebbene suppongano alcuni dati sperimentali, non sono però sperimentali; essi possono, in conseguenza, riguardarsi come giudizii a priori » ( 3) , - Questa dottrina non ha bisogno di commento. In essa l'implacabile avversario del Saggio filosofico riconosce la verità del sistema di quel grande uomo, com'egli lo chiama nella Morale , che fu Kant ( 4) , « In varie parti delle mie opere filosofiche, dice nella Filosofia della volontà ( 5) , io ho mo strato l'assurdità de' giudizii sintetici a priori , ammessi dalla scuola di Kant ; ma i giudizii sintetici di cui ho io parlato nelle mie opere di filosofia teoretica, sono giudizii teoretici , non già giudizii pratici » . E negli Elementi di morale, al $ 37 : « I giu dizii sintetici a priori teoretici mi sembrano assurdi . Ma dal l'esame profondo della nostra facoltà di volere son forzato di am mettere i giudizii sintetici a priori pratici, i quali son precetti. Mi sembra impossibile lo stabilire altrimenti la moralità delle azioni » . ( 1 ) Elem ., V, 92. (2) Ivi, ibid. (3) Filos. della vol. , IV , 46 ; Elem . , V, 120. ( 4) Elem ., V, 75. ( 5) IV, 46 . 98. Fuori di questo soggettivismo morale il Galluppi , come il Kant, non vede altro che eudemonismo, o morale dell'interesse, come egli dice ; e questa gli pare soltanto una morale apparente (1). Quando s'intende la giustizia come un interesse bene inteso, si fi nisce necessariamente col sommettere la giustizia a qualche cosa che non è la giustizia . Distinguendo l'interesse bene inteso dal male inteso , « non si pongono in opposizione due interessi diffe renti ; al contrario, si pone in fatto, che non vi ha che un in teresse unico , che l'uomo giusto e l'uomo ingiusto hanno egual mente in veduta ; e che fra essi non vi ha che questa differenza , che l'uomo giusto è un uomo accorto , e l'ingiusto un imbecille » ( 2) . 99. Ora contro questa concezione morale militano tre argo menti. 1. ° « La volontà dell'uomo virtuoso differisce intrinseca mente da quella dell'uomo vizioso » . Laddove nella morale del l'interesse la volontà di entrambi è unica ; perchè entrambi vo gliono la cosa stessa : il proprio utile . 2. ° La virtù vera è una dote del volere ; e nella morale dell'interesse, invece , sta tutta nell'accortezza dell'operare ; poichè col cuore più perfido si può saper fare il proprio utile ( 3 ) . 3. ° La legge morale dee essere asso luta ed universale . Invece la morale utilitaria « è fondata su la situazione ipotica dell'uomo , la quale, cambiandosi, cambia pari menti nell'uomo il principio di direzione, e la virtù diviene vizio , il vizio virtù » . Sicché la morale utilitaria è falsa , distruggi trice di ogni vera virtù si privata che pubblica ( 4 ) . La virtù è causa della felicità ; poichè , se diviene mezzo, cessa di essere virtù ( 5) . 100. La morale è essenzialmente disinteressata : la virtù è amabile per se stessa, indipendentemente dal premio, che la segue. Ma « la coscienza di averla praticata dev'essere un piacere puro distinto dal piacere preveduto dal premio , ed indipendente da questo » ( 6) . Nella Filosofia della volontà ( 7 ) l'autore sostiene che se il principio dell'utile non può produrre la virtù , nondimeno può concorrere col principio del dovere a produrla. Non manca tuttavia di notare che tale concorrenza « non impedisce, che l'azione sia prodotta dal principio disinteressato del dovere; poichè il princi ( 1 ) Filos. d. vol., IV , 104. ( 2) Op. cit . , IV , 105 . ( 3) Il Galluppi non ammetto che dall'utile proprio possa nascere l'utile altrui , che l'egoismo, come ora si direbbe, possa generare l'altruismo . « L'uomo nulla può amare fuori di se stosso se non per se stesso » . Fil. d . vol ., IV, 105 . ( 4) Op. cit . , IV, 107-9 ; Elementi, V, 8 32, pp. 98-103. ( 5) IV , 113. ( 6) IV , 147. ( 7 ) IV, 164. 270 CAPITOLO VII pio dell’utile in tal caso toglie solamente o diminuisce gli ostacoli all'esercizio della virtù » ( 1 ) . Sicché , insomma, non è una vera e propria concorrenza : l'azione morale è effetto unicamente del principio del dovere assoluto e universale, categorico. Pare che il Galluppi si opponga alla rigidezza razionalistica della morale del Kant ; ma in realtà sono d'accordo nella medesima dottrina. 101. Negli Elementi l'autore pare accenni veramente al Kant, dove dice ( § 33) : « Alcuni filosofi alemanni hanno preteso che l'ubbidienza al dovere dee esser l'effetto del puro rispetto della ragione per la legge , senza alcuna specie di piacere , nè di amore. Una tal dottrina è falsa , e contraria alla testimonianza irrefraga bile della coscienza » . Ma egli spiega così il suo pensiero : « Non si dee esser giusto e benefico , per esser felice ; poichè anche quando la moralità non fosse una sorgente di felicità , non si do vrebbe abbandonare . Ma più la virtù sarà pura e disinteressata, più vivo sarà il piacere , che risulta dalla coscienza di averla praticata ..... Il piacere unito all'esercizio del proprio dovere di spone all'azione doverosa la volontà dell'essere ragionevole..... Ma non bisogna confondere le conseguenze di un fine col fine stesso .... L'uomo virtuoso vuole il dovere per se stesso : e questo è il fine ultimo della sua volontà ; egli , in conseguenza, non fa il dovere per lo piacere ; ma il piacere non lascia di accompa gnare la pratica del dovere » . Ora questa dottrina è in opposi zione a un kantismo mal inteso : al kantismo cui s'allude dallo Schiller nel famoso epigramma sullo Scrupolo di coscienza . Ma il Kant, in verità, non ammetteva meno del Galluppi quel piacere che consiste nella soddisfazione che ci dà la coscienza d'aver adem piuto il proprio dovere; ma come il Galluppi teneva a distinguere questo piacere morale consecutivo all'azione virtuosa dal piacere patologico a cui uò essere ispirata un'azione non virtuosa (2) ; ad affermare che il sentimento morale è conseguenza non principio ( 1 ) IV , 165. ( 2) P. es. nella prefazione alla Tugendlehre scrive : « Ich habe an einem Orte ( der Berlinischer Monatsschrift) den Unterschied der Lust, welche pathologisch ist, von der moralischen, wie ich glaubo, auf die einfachsten Ausdrücke zurückgeführt. Die Last nähmlich , welche vor der Befolgung des Gesetzes hergeben muss, damit diesem gemässgehandelt werde, ist pathologisch , und das Verhalten folgt der Naturordnung ; diejenige abor , vor welcher das Gesetz hergeben muss, damit sie empfunden werde, ist in der sittlichen Ordnung » . Werke ( ed . Rosenkr. ), IX , 221; cfr . Krit. pr. Vern . , in Werke, VIII , 152-3.  della moralità . Il Kant bensì osservava che il piacere per l'atto virtuoso compiuto e il rimorso per il delitto presuppone che si sappia apprezzare il valore del dovere e l'autorità della legge mo rale'; ond’è che la legge morale è il fondamento di questi senti menti, non viceversa. Si deve essere , dice il Kant , almeno per metà di già galantuomini per potersi fare un’idea di tali sentimenti . Osservazione che mi pare perentoria contro ogni specie di eudemonismo. Sicché, anche per questo rispetto, la morale del Galluppi riproduce quella del Kant. 102. Nella morale Galluppi si attiene al criticismo del saggio filosofico. La sua morale, come quella di KANT, è indipendente dall'esistenza di Dio. All'ateo, con la sola considerazione dell'umana natura può provare l'esistenza del bene e del male morale, in dipendentemente dalla considerazione dell'utile. Perchè l’ateo, qualora non voglia esser sordo alla voce della coscienza, non può non riconoscere una legge morale, che gli comanda di esser giu sto e benefico . Giacchè il dovere si conosce per se stesso , è un elemento semplice di tutte le verità morali, che sgorga dall’intimo di noi stessi. Le difficoltà da altri incontrate a dedurre dalla natura umana per sè considerata la legislazione morale, derivano dalla inesatta e incompleta comprensione di questa natura ; cui si attribuisce solo il principio dell'utile e si nega il principio morale. Si parte dal principio che nella natura umana non vi può essere altro principio razionale di azione che quello della pro pria felicità ; ora qual meraviglia che partendo da un principio insufficiente a generare il dovere non si giunga ragionando con conseguenza ad una verità pratica? Anzi, secondo Galluppi, l'idea del divino non è sufficiente a spiegarci l'origine del do vere : perchè una conoscenza teoretica non è sufficiente a generare un principio pratico. 103. Ma, diceva il Genovesi, la ragione umana è fallibile : è spesso traviata dal personale interesse. Eppero i suoi dettami non possono essere norma delle nostre azioni . E il Galluppi replica , che questo scoglio non si evita certo con la tesi dell'origine di Cfr. del resto questo passo del GALLUPPI: « I difonsori della moralo dell'interesso bene riguardano il rimorso come motivi, che debbano determinar l'uomo a fare il proprio dovero ; ma noi sostenghiamo, che l'uomo virtuoso dee fare e fa il proprio dovore per se stesso , indipendentemente dagli effetti che seguono dalla pratica della virtù e da quelli del vizio. Filos. vina della morale. Perchè la legge morale bisogna sempre che sia conosciuta dagli uomini ; e conosciuta , naturalmente, per mezzo della loro ragione . Nè maggior valore ha l'argomento a cui ar restavasi il Tamburini : che non si può concepire legge senza legislatore. Il legislatore, dice Galluppi, è essa la ragione, in quanto ragione pratica. Un ultimo punto d'incontro del Galluppi col Kant è il seguente . Secondo il filosofo italiano è un principio essenziale della ragion pratica che la virtù è degna di premio , il vizio è degno di pena: giudizio sintetico a priori. Ora, se noi crediamo a questo principio , dobbiamo pure credere all'immortalità del nostro spirito ; perchè l'uomo virtuoso in questa terra non è sempre felice, nè sempre sfortunato il malvagio. Che il vizio dev'esser punito intanto è indimostrabile, come che la virtù debb’esser premiata. E indimostrabile, perchè è un giudizio sintetico . Ma è legge inalte rabilmente impressa nella realtà del mio essere ; è la voce di quella ragion pratica, che è la legislatrice delle nostre azioni , e che non ci pud ingannare, se la virtù non è nome vano . Uno stato è necessario in cui quel principio abbia il suo valore reale , la sua piena esecuzione . Inoltre , io trovo nel santuario del mio essere la necessità d'una ricompensa della virtù e d’una punizione del vi zio ; vi trovo pertanto la necessità di un giudice supremo. Vi è dunque un'intelligenza suprema, infinita , assoluta , che si manifesta a tutti gli esseri intelligenti . Questo supremo legislatore e giu dice è Dio. È, comesi vede , su per giù , la teoria kantiana dei postulati della ragion pratica. 105. Ma Galluppi sente la difficoltà che s'oppone a una deduzione teoretica da un'esigenza morale, e si domanda : possiamo noi su la semplice esistenza delle nostre affezioni in noi, stabilire la realtà degli oggetti di esse ? Anche al Kant si affacciava un problema simile ; e fa escogitare quella teoria del primato della ragion pratica sulla ragion teoretica, che è una vera rinun zia a ogni diritto di vero e proprio filosofare , e perciò a ogni fondamento filosofico della stessa morale. Il Galluppi non fa motto di questa teorica , forse convinto della sua manchevolezza, e tenta ogni via per distrigarsi dalla difficoltà ravvisata. Ma non pare che le ragioni trovate lo persuadano bene. Giacchè , infine, Elem . Vedi le ottime osservazioni di MATURI , Principii di filosofia, Napoli, si prova a dimostrare l'immortalità dell'anima, indirettamente, dimostrando che non si può provarne la mortalità . Se pure que sta può dirsi dimostrazione. 106. Egli dice in sostanza, dopo qualche esitazione : l'esperienza ci mostra che gli oggetti delle nostre affezioni sono reali. Ma fra le nostre affezioni c'è la tendenza alla immortalità ; dunque l'anima è realmente immortale. Bisogna riconoscere che in gene rale le nostre tendenze naturali non sono defraudate del loro oggetto . Una di queste tendenze è la curiosità . E non possiamo noi forse, dice Galluppi, spesso soddisfare la nostra curiosità. Questo spesso , veramente , guasta, e non poco , l'argomentazione dell’autore ; il quale si contenta di constatare con l'esperienza : « non vi ha alcuna tendenza nel cuore umano la quale non possa qualche volta raggiungere l'oggetto cui ella tende. Qualche volta! Dunque l'asserzione dell'immortalità dell'anima non è nulla d'apodittico : è meramente problematica . Per dirla schietta, il nostro filosofo è convinto che « il domma dell'immortalità » im porti alla filosofia morale come il più fermo sostegno della virtù infelice ed un freno potente alla licenza del vizio » ; ma chiuso nel suo sperimentalismo, ignaro degli espedienti mal fidi del Kant, non sa fondare teoricamente il suo principio , non sa darne una giustificazione filosofica ; più filosofo nella sua impo tenza degli odierni prammatisti, che con la maggiore disinvoltura creano una metafisica per uso e consumo della morale, quasi che lo spirito avesse fine più degno del vero. Quasi che il bene potesse fare a meno di essere il vero bene. Stabiliti comunque i suoi principii generali della morale, che , come s'è notato , sono principii essenzialmente formali, come tutti i principii soggettivi, si può rimproverare al Galluppi ch'egli ne deduca i singoli doveri. Ma anche in questo egli s'accorda col KANT, la cui Dottrina della virtù, nella seconda parte della metafisica dei costumi, per quanti sforzi facesse l'autore di salvare il suo formalismo , è in assoluta contraddizione col principio for male da cui si vuol derivare. Il formalista così nella logica come nella morale deve lasciare alla storia il compito di dare un con. tenuto alle leggi soggettive, epperò necessarie ed universali, dello spirito. Certo , con tutti i suoi difetti , che non sono solamente suoi, anche nella morale il Galluppi rappresenta un progresso immenso Elem . della filos. morale, cap. sui filosofi precedenti. In conchiusione, egli con le sue ispirazioni kantiane, co'suoi studi accuratissimi su tutta la moderna gno seologia post-cartesiana si libera dalle angustie del sensismo e dello spiritualismo dommatico ; e inizia in ITALIA un nuovo periodo speculativo ; nel quale il nostro pensiero, rinsanguato delle idee più vitali della filosofia tedesca. si solleva col SERBATTI e col Gio berti a un'altezza non più toccata da noi dopo i grandi pensatori del Rinascimento.Galluppi. Pasquale Galluppi. “Galluppi errs in calling natural semiotics, ‘il linguaggio dell natura,’ since no tongue is involved!” But we can forgive him for that since he genially realizes, unlike King Alfred, that one can use ‘dire’, ‘con questo moto del ditto, egli dice al compagno che vada da B in C” Segno figurato, motto dei bracci quando imito il moto de pesare para figurar paragonare. – Grice: “Gallupi’s scheme is a complex, and much better than Locke. He notes that ‘natural’ can apply to ‘sign’, and it is a natural fact that men will start using ‘natural’ signs in an artificial way – this he calls ‘natural sign’ – in that it is already an utterer making the gesture, as when he sneezes, intentionally. Galluppi has always in mind the dyad, what he calls il ‘compagno’ – so he plays with fifty variants on a theme. A makes a gesture – with the finger, with the arm --. Galluppi speaks of the ‘proposizione’ being communicated even in these cases – a ‘grido’ is equivalent to the proposizione that the compagno is to ‘turn his attention towards the utterer’ – In the ‘natural’ sign, as used in communication, we are already in the realm of the artificial – only a black cloud naturally means rain – Galluppi hardly dwells on a ‘grido’ signifying pain in a natural way. He notes that we progress. And he keeps looking for the reasons in the utterer and the addressee for all this. So like me, he looks for a motivational rationale – a ‘semantic’ freedom – or ‘prammatica’ as he would say. Since he is an illuminista, he is only concerned about this in terms of a minimal taxonomy of signs. So between the signs used in communication he distinguishes three types: the imitative, the indicative (different criteria) and the figured sign – not figurative – ‘segno figurato’ – when a lot of pantomime takes place. It is only THEN that he explores the arbitrariness: one loses one’s compagno, and utters, “Where are you?” – so since this worked, they agree that ‘Where are you’ will mean, “I lost you – where are you?” --. And then we have a full lingo – or semiosis. He rightly thinks that his is an improvement over Lucrezio!”  Pasquale Galluppi. Galluppi. Keywords: gesto, grido, gemito, moto del ditto, dolore, causa del dolore, circustanza, segno naturale, segno istituito, segno commune (istituito per la comprensione mutua), segno arbitrario, segno artificiale, segno imitative, segno indicatore, segno figurato, segno analogico, segno figurativo -- gesto della mano, lo sguardo, communicare, sentire, volere, Gentile, il canone nella storiografia filosofica italiana – Gentile su Galluppi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Galluppi," per Il Club Anglo-Italiano,The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Galvano – arte naturale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Galvano; he has philosophised on aesthetics, on ‘spirit and blood,’ and on polytheism, citing Sallust!” Frequenta la scuola a via Galliari, animata da Casorati.  Fonda L'Unione Culturale di Torino.  Promuove il “Movimento Arte Concreta” – cf. Arte Astratta – Insegna all’Accademia Albertina. Dizionario Biografico degli Italiani.  FONDAZIONE GIORGIO AMENDOLA E ASSOCIAZIONE LUCANA CARLO LEVI    Pino Mantovani  Luca Motto       Albino Galvano  Fare, pensare, vivere la pittura"i Pmm gr s m dz de 2zpA—A_t}    PA "o  Scritti di    PINO MANTOVANI  LUCA MOTTO  ALESSANDRO BOTTA  ADRIANO OLIVIERI    ALBINO GALVANO    Fare, pensare, vivere la pittura    Aver puntato il senso della propria vita sui segni e sui colori    sarà stata magari una puntata inutile ma non elusiva e non insincera  | [ALBINO GALVANO, 1980]    FONDAZIONE GIORGIO AMENDOLA    AssociaziIoNE LUCANA IN PieMONTE Carto LEVI    MOSTRA D'ARTE  TRENTENNALE DI ALBINO GALVANO    Torino, marzo-giugno 2021  presso la Sala Mostre dell’Associazione Lucana Carlo Levi e della Fondazione Giorgio Amendola    Con il Patrocinio di Con la collaborazione di    REGIONE CONSIGLIO wc I GALLERIA | NE }  CITTA DI TORINO olii  MIN FEONIE DEL PIEMONTE att Sen    DEL PIEMONTE   Il 2020-21 è stato un biennio segnato dalle notevoli difficoltà imposte dalla pandemia da  Covid-19. Alla luce delle molte restrizioni, la Fondazione Giorgio Amendola ha cercato, nel limite  del possibile, di proseguire con le proprie attività di divulgazione e promozione culturale adattando  spazi e metodologie alle esigenze del periodo, rispondendo all'emergenza coronavirus con iniziative  dinamiche e creative, passando per la fruizione digitale per permettere agli utenti di restare a casa,  come le disposizioni prescrivono, senza perdersi dei contenuti culturali.   Sotto questa prospettiva e, nonostante le molteplici difficoltà, il lavoro svolto per ricordare, a  trent'anni dalla sua scomparsa, l'artista torinese Galvano è stato importante.  La Fondazione Giorgio Amendola ha ritenuto opportuno offrire alla città di Torino e non solo, la  possibilità di accedere gratuitamente all'incontro con l’opera artistica e intellettuale di una delle figure  di spicco del panorama artistico italiano della seconda metà del novecento. L'iniziativa, di rilievo  nazionale, ha permesso di raccogliere artisti e intellettuali di tutta Italia che hanno collaborato con  Galvano e che tuttora ricoprono un ruolo fondamentale nella produzione culturale del nostro Paese.Prospero Cerabona  Presidente della Fondazione Giorgio Amendola    Studi, Convegni, Ricerche  della Fondazione Giorgio Amendola e  dell’Associazione Lucana Carlo Levi    54  Presidente Fotografie delle opere  PROSPERO CERABONA MARCO CORONGI  Curatore mostra e catalogo Direttore Responsabile  PINO MANTOVANI PROSPERO CERABONA  Scritti di Redazione  PINO MANTOVANI, LUCA MOTTO, ALESSANDRO BOTTA, ADRIANO OLIVIERI DOMENICO CERABONA, MARIA SOFIA FERRARI    Progetto ed allestimento    PINO MANTOVANI, LUCA MOTTO, EDITRICE IL RINNOVAMENTO —”  Fotocomposizione    © EDITRICE IL RINNOVAMENTO    Ente promotore  Fondazione Giorgio Amendola VIDEOIMPAGINAZIONE GRAFICA DI TESTI E IMMAGINI  Associazione Lucana in Piemonte Carlo Levi VIA TOLLEGNO TORINO Si ringraziano per il prestito delle opere e la collaborazione: Galleria del Ponte (Torino), Civica Galleria d'Arte Contemporanea Filippo Scroppo  (Torre Pellice), Stefania e Stefano Testa, Liliana Dematteis, la famiglia Maggiorotto e tutti gli altri prestatori che hanno preferito restare ano-  nimi. Si ringrazia Francesca Barzan per la realizzazione delle docu-interviste.    Sommario    Albino Galvano e la pittura Pino Mantovani  Albino Galvano: la fedeltà alla pittura Luca Motto  Da discepolo a interprete. Albino Galvano e Felice Casorati Alessandro Botta    Gli occhi fervidi e il sapore di cenere.  Albino Galvano: Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau Adriano Olivieri    Opere esposte       ARTE DI VENEZIA 1954    GATMAZH TEAOZ GANATOZ    XXVI: ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D    GALVANO ALBINO    BIENNALE    (267) Foto Giacomelli - Venezia    FOTOTECA ASA.    Albino Galvano e la pittura  Pino Mantovani    Da pittore, Albino Galvano pone tre livelli d’inda-  gine; come qualsiasi artista intelligente, se non fosse  che, nel caso suo e di non molti altri, i tre livelli si  presentano specialmente complessi e coltivati con con-  sapevole separatezza e problematica interconnessione:   Il primo livello comporta chiedersi che pittore  Galvano sia stato e, ovviamente, interrogarsi sulla  specie e sulla qualità della pittura (delle pitture) che  ha messo in opera nel lungo percorso, sicuro e tortuo-  so, che lo ha impegnato pressoché ininterrottamente  dalla fine degli anni Venti (era nato nel 1907) fino alla  morte, nel 1990.   Il secondo livello comporta mettere a fuoco la  concezione (le concezioni) ch'egli ha elaborato della  pittura, in quanto da critico (e autocritico: nella sua  scrittura, l’autoritrattoè un vero e proprio genere!) si è  occupato dell’arte, in particolare della pittura, conuna  intensità, una pervicacia, una curiosità sempre sveglia,  direi aggressiva, in un'epoca provocatoria e insieme  minacciata dalla condiscendente banalizzazione.   Ma, forse, il nodo più difficile da sciogliere è  quale rapporto ci sia tra il praticante pittura (‘[...]  è questa l’arte — scrive di sé nel ‘46 — della quale ab-  biamo, bene o male, una qualche esperienza vissuta  e [...] non crediamo se non ai discorsi che nascono  da questa esperienza”, dove si radica anche la mi-  litanza del critico) e il teorico che usa gli strumenti  del filosofo, dell’antropologo, dello psicanalista, dello  storico (da competente, eppure mai imprigionato  dallo specialismo? e anche meno dall’appartenenza'*)       1 Sipuòdaffermare che ogni suo scritto è occasione per una au-  toanalisi. Come, d'altra parte, che l'autobiografia non è mai cro-  naca contingente, invece occasione per andare oltre la cosiddetta  evidenza dei fatti, per indagarne radici e proiezioni.   2 A. Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue, in “Tendenza” n.1,  Torino, ripubblicato in A. Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue,  a cura di G. Mantovani, Il Quadrante, Torino 1988; in A. Galvano,  Diagnosi del moderno, a cura di A. Ruffino, Aragno editore Torino,  2018.   3. G. Gallino, in Attraverso il Novecento: Albino Galvano, Atti del  Convegno, Torino 1997 a cura di M. Pinottini. Bulzoni editore,  Roma 2004, pag. 45: "Se ... l’eclettismo diventa una condizio-  ne dell'esercizio dell’arte, è anche la qualificazione dello status  dell’intellettuale, che, in ogni specifico ambito d'indagine, è sol-  lecitato a non perdere di vista la visione d'insieme dei problemi.  La polemica di Galvano contro la specializzazione, quale esclusiva  procedura del sapere, risponde a tale regola metodologica. In-  dubbiamente, in ogni attività culturale, è necessaria una partico-  lare competenza, ma, al di là del suo confine, s'impone l'esigenza  del controllo unitario dei suoi esiti e delle sue interpretazioni”.  A. Ruffino, (Com)plessi galvanici, introduzione a Diagnosi del mo-  derno, cit., pagg. XIII-XIV: “Contro lo specialismo, ... Galvano ha  sferrato una controffensiva senza tregua e a tutto campo: sul pia-  no pratico, opponendo al tecnicismo la tèchne (nel suo caso quella  pittorica); sul piano morale, opponendo alla provvisorietà della  posa il rigore della presa di posizione (ma mai irrigidita in partito  preso); sul piano estetico, opponendo ai miraggi di progresso illi-  mitato espressi dal Funzionale le ragioni dell’Organico, capace di  suscitare creazioni vive”.   4 Interessato “da una parte all'eredità del tardo romantici-       A. G. con Mariacarla e Pino Mantovani, Racconigi, 1980.    per affrontare la pittura, alla quale riconosce una  singolare centralità.   Tutti questi temi mi hanno per decenni accom-  pagnato e sollecitato. I miei primi interventi su  Galvano pittore risalgono, infatti, all’inizio degli  Ottanta: data 30 novembre 1980, la presentazione  ad una personale presso la Galleria Maggiorotto  di Cavallermaggiore, seconda di una serie dedi-  cata ai protagonisti del MAC torinese; ma già nel  marzo dello stesso anno avevo tracciato, con la  collaborazione dei miei allievi in Accademia, un  quadro della pittura degli anni Cinquanta a Torino  nel Museo Civico di Casa Cavassa a Saluzzo’, sulla  falsariga delle indicazioni che Galvano aveva for-  nito a T. Sauvage? per una storia ancora regionale  dell’arte italiana nel Dopoguerra; e nel 1983 sul  catalogo della mostra Arte a Torino, 1945-1953” nel          smo e del decadentismo: Mallarmé e Bergson, ‘esoteristi e filosofi  della vita’, psicanalisi ed esistenzialismo, dall'altra alla severità  dello storicismo crociano e all'esempio del rigoroso metodo cri-  tico negli studi di storia dell’arte [...] Lettore di Klages, di Jung o  di Guénon, ma anche studioso di Kant e di Hegel” (A. Galvano,  Perché non possiamo non dirci crociani, in “Numero”, n. 3, 1953. At-  tento a Freud come a Jung. Curioso delle storie, nel tempo e nello  spazio, pronto a coglierne, nella comune umanità, le differenze e  le istruttive potenzialità.   5 PitturaaTorinoneglianni cinquanta, a cura di G. Mantovani, cata-  logo della mostra, Museo Civico di Casa Cavassa, Saluzzo 1980.   6 T. Sauvage (pseudonimo di A. Schwarz) Pittura italiana del  Dopoguerra; Ed. Schwarz, Milano 1957, il testo fu ripubblicato con  integrazioni e il titolo La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi, in “Let-  teratura”, n. 1, Torino 1960, successivamente in A. Galvano, La  pittura..., cit. pag. 135 segg; e A. Galvano, Diagnosi..., cit., pagg.  393 segg.   7 Arte a Torino, 1945-1953, a cura di M. Bandini, G. Mantovani,  F. Poli, catalogo della mostra, Torino 1983    salone d’onore dell’Accademia Albertina, dedicavo  a Galvano il mio intervento, anche oltre gli anni  definiti nel titolo. Mi troverò, pertanto, a incro-  ciare in queste pagine scritti pubblicati in un arco  di tempo di circa quarant'anni, con il proposito,  spero non solo narcisistico, di organizzare in di-  scorso unitario contributi sparpagliati e spesso di  non facile reperimento.   Proprio dalla presentazione Maggiorotto — poi  variamente elaborata per occasioni ulteriori dedicate  appunto al MAC, come il catalogo per la esposizione  del MAC torinese sempre curata dalla galleria Mag-  giorotto alla Expo Arte — Fiera Internazionale di Arte  Contemporanea di Bari (1982), la presentazione del  catalogo Albino Galvano, Proferio Grossi, Luiso Sturla,  Artecentro, Milano 1994, fino al saggio sul movimen-  to torinese nel volume per la mostra MAC/ESPACE    TORINO  È VIa S. GIULIA 12 TORINO    370    ‘    Pre.       A. PARISOT  |F. SCROPPO    Bollettino «Arte Concreta» n. 9, 1952 e n. 12, 1953.    all’Acquario di Roma, 1999°—mi parlogico cominciare,  non tanto perché uno dei primi approcci al tema —  allora potevo anche contare sul rapporto diretto con  Galvano, ma devo dire che la sua disponibilità non  era invasiva e tanto meno arcigna rispetto alle inter-  pretazioni che venissero proposte del suo impegno  — quanto perché vi si pongono i fondamenti del mio  interesse per l'artista /critico / filosofo. L'incipit che  sceglievo allora mi pare sia ancora il migliore possibile;  non mio, intendiamoci, invece proprio di Albino che    8. Loscrittosarà rielaborato come prefazione a A. Galvano, La  pittura, lo spirito e il sangue, cit.   9 P. Mantovani, Pittori concreti a Torino, in MAC-ESPACE - Arte  concreta in Italia e in Francia, 1948-1958, a cura di L. Berni Canani e  G. Di Genova, catalogo della mostra, l'Acquario Romano, Roma,  ed Bora, Bologna 1999, pagg.60 e segg.       così aveva concluso un asterisco sul Bollettino “Arte  Concreta”, n.12, 195310 ;   “E scopriremo che è un programma [quello del  MAC le cui premesse erano già nei romanzi dei tempi  della nonna? Tanto meglio, almeno avremo evitato  l'equivoco più antipatico che grava sull'arte astratta:  che si tratti di cosa moderna 0, peggio, d'avanguardia”.  Una fulminante risposta al nemico Leonardo Borgese  che sul Corriere della Sera, aveva definito A’ rebours  di Huysmans, “un vecchio romanzo dell’800”, fonte  peraltro “di tuttele velleità estetiste dell'avanguardia”:  fornendo unovvio spunto polemico — non saprei quan-  to consapevole, nel caso addirittura masochistico — a  chi da anni si occupava del rapporto tra le cosiddette  “avanguardie” ela linea dal Romanticismo al Simboli-  smo; ma anche agli amici di Milano che si riconoscevano  nel programma di Sintesi delle Arti pubblicato nello    H    |    FIL    sintesi allo studio b 24 dal 21-2 al i:    se  ?  i    fi  5  5!  È    s7       A. G. riproduzione di Verso Occidente, Biennale di Venezia 1952.   stesso Bollettino, che prevedeva “il diretto concorso  di tecnici e artisti, sul piano della stretta collabora-  zione, per il raggiungimento finale d’un concreto il  quale aderisca alla funzione in armonia di colleganza  fra il mondo della forma, lo spazio e l'applicazione  pratica dell’opera collettiva”! viva il design, la grafica  e l'estetico diffuso, dunque. Come non bastasse, Gal-  vano conclude l'asterisco citato rigettando qualsiasi  attualismo:” Che bel giorno quello in cui potremo  lavorare in pace al compito che la storia ci ha affidato,  certi che nonè sulla misura della contingente attualità       10  L'asterisco, cioè l'osservazione, la messa a punto marginale  è il contributo che Galvano sceglie per intervenire criticamente  liberamente sui Bollettini del MAC (e altrove).   11 E Passoni, Le arti e la tecnica, “Arte Concreta” 12, 1953, pag. 65,  ried. anastatica, a cura della galleria Spriano, Omegna, 1981.    ,    ,    che il nostro lavoro verrà giudicato!”. Il fatto è che  Galvano non intende escludere tutta la complessità  di rimandi e proiezioni, soggettivi ed oggettivi, che i  linguaggi dell'immagine — specialmente quando non  siano troppo condizionati da tecniche o ideologiche  motivazioni — si portano dietro e dentro, e che, del  resto, la cultura moderna indaga con particolare  impegno e analizza con rinnovata strumentazione,  mentre altri linguaggi dell’immaginario—la poesia, la  narrativa, lamusica — stanno sperimentando a tentoni  forme “nuove” (o vecchie !? o antiche, al punto d’essere  “originarie”!). Neppure, d'altra parte, egli intende  abbandonare la pittura come linguaggio specifico,  proprio quella tradizionale (tela, carta o qualunque  supporto piano, disegnoe colore, gesti e tracce a formar  figure !4); per quanto metta in conto uno spostamento  dall’iconico all’aniconico, dal descrittivo all’evocativo,  dall’allusivo all’emblematico, dal geometrico al rit-  mico al gestuale; ciò che non precluderebbe peraltro  “la possibilità di uno scambio e di una penetrazione  sempre possibili nell'esercizio di una lettura figurativa  per elementi — segno, colore, movimento, materia ecc.    12. “Confessiamo di essere segretamente d'accordo con Bor-  gese [quando invita a rileggere A’ rebours]. Perché... l'essere agli  antipodi [delle scelte di Huysmans e delle preferenze in pittura  del suo eroe Des Esseintes] è troppo vitalmente legato a ciò che  rifiuta per non riprenderlo su di un piano meno esterno: e le cita-  zioni dalla Blavatzky e da Steiner del Kandinsky della ‘Geistige’,  l'appartenenza a circoli teosofici di Mondrian giovane, il fatto che  uno dei primi scritti italiani sull'arte astratta sia di J. Evola sono  ben significativi di un rapporto ambivalente — di rifiuto per la ca-  rica letteraria, moralistica o immoralistica, del simbolismo speso  alla spicciola nell’allusività delle immagini e della messa in scena,  e insieme di accettazione di quel gusto di allusioni e suggestioni,  di segrete corrispondenze tra immagini e speculazioni — che — nel-  le sue due facce: sensualmente umbratile l'una, simbolicamente  intellettuale l’altra — tra il 1890 e questa metà del nuovo secolo  hanno ostinatamente tentato di aprirsi una strada — sia pure af-  fidandosi alla romantica barca ‘ebbra’- dalle varie forme di resa  alla prosasticità del realismo”. Ancora dall'asterisco citato di Gal-  vano in “Arte concreta” 12, 1953.   13. Azzardo un'ipotesi (certo suggestionato dal recente catalogo  della mostra La regione delle Madri. I paesaggi di Osvaldo Licini, Elec-  ta, Milano, 2020, in particolare dal saggio di S. Bracalente, Licini  oltre la geometria: una primordiale genesi del mondo): che Galvano non  abbia ignorato “Valori primordiali”, e in particolare l’opera di F.  Celiberti, anche lui proveniente da studi di storia delle religioni,  tanto importante per Licini proiettato dalla fine degli anni Trenta  oltre la geometria, specialmente nell’incrocio tra teosofia, esisten-  zialismo e fenomenologia (Paci e Banfi), e per comuni interessi per  Spengler, Klages, Guénon ... e per l'alta poesia romantica.   14 “Dipingere con colori e pennelli ... è stata una costante del  mio lavoro nei suoi vari cicli, anche quando come spettatore ho  pregiato e difeso esperienze varie e opposte. Ma è certo che, se  tra il '75 e il ’78 ero venuto via via recuperando alla mia pittura  quell’attaccamento alle gidiane nourritures terrestres che confessa-  vo in un altro mio scritto, nei quadri qui presentati esse hanno  perso ogni ghiottoneria che non sia quella dell'occhio contemplan-  te: in bocca è solo sapore di cenere. Ciottoli, fossili: l'eco della vita  in ciò che non ha vita o non l’ha più”. A. Galvano, Autopresenta-  zione della Personale, Piemonte Artistico Culturale, Torino 1985).       Libretto di iscrizione a magistero.    — non diversi da quelli che consentono la valutazione  di ogni buona pittura”! Perfino le ‘’ giuste ragioni”  concesse ai concretisti milanesi sembrano far parte di  un gioco alquanto provocatorio, portando il discorso  dal livello tecnico a quello culturale ed etico, di una  eticità sempre esposta, in un certo senso negativa  (“demoniaca”, nella cultura occidentale, di radice  inevitabilmente cristiana anche nella più spinta laicità).  Già l’anno precedente, nelnovembre del ’52, firmando  con Biglione, Parisot e Scroppo quello che a ragione  o a torto è considerato il manifesto del movimento  torinese, Galvano aggira gli ottimistici programmi dei  milanesi, espressi nei manifesti dell’ Arte Organica, del  Macchinismo, del Disintegrismo, dell'Arte Totale!’  che sanno ancora tanto di Futurismo, e dichiara che  carattere essenziale nella scelta dei nuovi adepti è la  “responsabilità liberamente assunta sul limite più  impegnativo ... di lotta contro ogni conformismo e  pigrizia intellettuale” nel campo della pittura come  in diversa applicazione estetica e pratica, senza com-  promessi e “senza pudore”. Il fatto è che Galvano (e      A. Galvano, presentazione della collettiva, Bordoni, Galva-  no, Jarema, Parisot, Scroppo, Galleria del Fiore, Milano 1954.   16 Cfr. “Arte Concreta n. 10.    “L'unico atteggiamento ragionevole è quello di lavorare at-  tendendo colla sincerità di chi sa che lo spirito ama le posizioni  estreme ed attive , non i compromessi”. (A. Galvano, L'evasione, in  “Il Selvaggio”, 15 gennaio 1940, ripubblicato in A. Galvano, Dia-  gnosi del moderno (a cura di A. Ruffino), cit., pag. 28.    con lui i pressoché coetanei Adriano Parisot, Filippo  Scroppo, Paola Levi Montalcinie i più giovani Anniba-  le Biglione e Carol Rama, per nominare tutti i torinesi  che aderiscono più o meno convinti al MAC)ha dietro  le spalle una ventina abbondante d’anni di lavoro non  ovviamente mirato allo sbocco astratto. Basta pensare  alla frequenza orgogliosamente esibita fino all'ultimo  della scuola di Felice Casorati (sul quale elabora una  piccolamaimportantemonografia che punta non poco  sulla stagione simbolista — sull'argomento si rimanda  all'intervento in questo catalogo di Alessandro Botta),  al rapporto con il neoimpressionismo dei Sei, in va-  riante espressionista; al fatto che egli medita, continua  a meditare sul significato e sul valore della scelta  “moderna”, essenziale, inevitabile, ma problematica  nelle ragioni, nei modi, negli obiettivi; infine, che ha  una formazione teorica e storica — aggiungerei una  struttura psicologica ed una educazione — che non  gli consentono di utilizzare a cuor leggero la strategia  del manifesto, di ascendenza futurista, e in genere le  dichiarazioni programmatiche!8: una questione di  carattere e di stile oltre che di metodo e di cultura.  Del resto, Albino Galvano aveva già affrontato il  tema in testi antecedenti di alcuni anni, ne utilizzo uno  in particolare:” La pittura, lo spirito e il sangue”, che  uscì nel 1946 sul primo ed unico numero della rivista  “Tendenza”, nell’ambiziosa prospettiva dei direttori  responsabili — lo stesso Galvano e Pippo Oriani — Ri-  vista mensile di Arti figurative!. Certo esistono di  Galvano saggi più importanti come quelli che elenco  innota?°, dove il tema è affrontato con argomentazioni  analitiche e storicamente complesse, ma continuo a  trovare snodo esemplare nella vicenda dell'artista il  brevesaggio citato. Anche la data è importante, a guer-    Il dubbio, lo scetticismo, l'ambiguità come tensione fra op-  posti sono fondamenti del suo metodo, che non è irrazionale, in-  vece di un razionalismo critico che mai cede allo schema ideolo-  gico o alla rigida consequenzialità.   19 Nonacaso ho scelto il titolo del saggio come titolo per la  citata Antologia di A. Galvano, edita dal Quadrante, Torino 1988.  20 Diversi saggi di grande respiro, Galvano pubblica negli anni  immediatamente successivi alla seconda Guerra mondiale. Elen-  co in ordine cronologico quelli ripubblicati sull’Antologia citata,  consenziente l’autore: Aspetti del problema estetico dell’esistenziali-  smo, Atti del Congresso internazionale di Filosofia, Castellani e C  ed., vol II, Roma, 1946; L'esistenzialismo, a cura di E Castelli, Mi-  lano 1948; Storicità e significato dell’arte “astratta”, in “Archivio di  filosofia”, vol. I, Milano 1953, “Galleria di Lettere ed Arti”, n. 4-5,  1953; Medioevo e Romanticismo, “Questioni” n. 2, 1955; Vita e forma  in alcune ricerche di estetica contemporanea, Atti del IIl Congresso In-  ternazionale di Estetica, Venezia 1956, edito dalla “Rivista di Esteti-  ca”, Torino 1957; Le poetiche del simbolismo e l'origine dell’Astrattismo  figurativo, Studi in onore di L. Venturi, vol. II, Roma 1956. All'elenco  si aggiungono i saggi pubblicati in successive occasioni: in partico-  lare sul catalogo della Antologica postuma: Omaggio a Albino Galva-  no, a cura di P. Fossati, F. Garimoldi, M. C. Mundici, catalogo della  mostra, Circolo degli Artisti, Torino 1992 e, con scelta assai più am-  pia ma ancora lontana dalla completezza, sulla recente antologia:  A. Galvano, Diagnosi del moderno, cit.    ra appena finita; come significative le collaborazioni,  che elenco per segnalare la ricchezza e la varietà dei  contributi, intesi a coprire in tutta la loro estensione  le cosiddette Arti figurative: C. Mollino e U. Mastro-  ianni, Monumento ai Caduti per la liberazione d'Italia;  R. Chicco, ... et le tableau quittè nous tourmente et nous  suit; I. Cremona, Dal cannone alla Secessione; A. Dra-  gone, Disegni, acqueforti e acquerelli di Cino Bozzetti; P.  Oriani, Franco Costa; C. Mollino, Gusto dell’Architettura  organica; O. Navarro Il messaggio della cultura; ancora  A. Galvano, Woyzeck di Georg Biùchner, P. Oriani, Breve  discorso su due films di Cocteau. Aggiungo — e non è un  dato secondario—dopo una pagina redazionale, quindi  di Pippo Oriani “che proviene dall'esperienza futuri-  sta” e dello stesso Albino “che proviene dal purismo  casoratiano e dal neoimpressionismo venturiano”,  dove si rivendica, dalle due parti inconciliabili (ma  l’inconciliabilità è segno di forza, di utile tensione)  la gratuità dell'atto creativo rispetto alla riflessione  critica, e l'autonomia del giudizio critico rispetto alle  generalizzazioni dell'estetica, in un tempo storico che  minaccia di deludere chi aveva sperato che la fine del  regime politico e culturale comportasse il recupero  pieno della libertà e la sua pratica esplosiva.  L'avvio del saggio è forte, al solito compromesso,  e ancora una volta lo propongo: “L'appello della pit-    ‘LA PITTURA, LO SPIRITO E IL SANGUE    L'appello della pittura risuona dal profondu del  nostro sangue — ancora con quell’urgenza — come  nei quindici anni quando sostituiva in camuff:imenti  impegnati sino alle estreme ragioni della possibile  azione, gli slanci religiosi o i presentimenti sessuuli.  Ma le vie dell'Eden sono perdute, e sarà vano lo  sforzo di ricostruire un itinerarioche approdi al-  l’innocenza d'allora, che vi riscatti la sin troppv  chiara coscienza del carattere composito e compro.  messo di ogni atto umano che non sia di rinunzia:  il peccato fondamentale dell’arte. Invano da anni  l'estetica crociana, non per nulla irritata con  il « fanciullino »  pascoliano troppo chiaramente  preanunciante le scoperte freudiane {e contro  Freud i erociani si armeranno della più ipocrita in-  comprensione) cerca di riprendere e di legittimare,  con la sterilizzata convinzione del carattere « teore.  tico» dell’arte, il troppo scoperto « alibi » kan-  tiano del « bello come simbolo del bene morale ».  Credo siu venuto il momento di confessare schiet-  tamente che il bello, proprio questo bello artistico  che ci brucia sin dalla giovinezza ogni possibilità di  rassegnazione e di conformismo, è piuttosto il « sim.  bolo del male morale ». Tanto, anche eticamente.  dla questa franchezza non perderemo nulla.   Soltanto Nietsche ha insistito con sufficiente chia-  rezza su questo carattere, profondamente « vitale »  e perciò profondamente « immorale » dell'attività  artistica: contro il quale assai poco mi paiono va-  lere le due obiezioni che implicitamente o esplici-  tamente vengono mosse dagli idealisti e dagli spiri.  tualisti. Se per i crociani — ma credo che in Gen-  tile l'implicita ammissione, inevitabile data l’iden-  tificazione di arte e sentimento e l’inseparabilità  dell'agire dal conoscere, di quanto sì è detto, fosse  più che sospettata dall'autore anche se la reto.  rica di cui sempre fu ammalato gli impedì di am-  metterlo in termini chiari; che tuttavia non man-  cano nei più diversi fra i suoi seguaci o avversari-  seguaci: dal primissimo Abbagnano disciogliente  tatto il reale in irrazionalità, appunto con una re-  ducetio ad absurdum dell’attualismo, all'Evola, al  più recente Spîrito — se per i crociani, si diceva,  la scappatoia di ridurre l’arte a pura conoscenza,  giocando sul doppio ruolo confuso insieme del-  l’« intuizione » permette di evitare lo spinoso prò-    blema, i recenti spiritualisti — ma anche fra di.    loro lo Stefanini, ad esempio, ammettendo una.« in-  sufficienza dell’arte alla vita» — pur nella auto-  ì enza in ordine al proprio valore peculiare,  finisce collo svalutare moralmente l’arte — candi-  damente invece sermoneggiano sulle comuni radici  del bello e del buono (nel secolo scorso queste  niaiseries di solito avvenivano su di uno sfondo  ontologistico vagamente giobertiano, oggi lo gnoseo-  logismo idealistico generalmente è rispettato anche  dagli spiritualisti che dell’idealismo dovrebbero es-    ser avversari) e ci avvertono che il tormento del-    l'urtistu che insegue con il diuturno lavoro il fan-  tasma che sempre gli sfugge è profondamente mo-  rale! ;   Dio volesse che fosse veramente così. E che si  potesse sul serio sperare che all'artista, dopo la  conquista su cui ha tutto giocato, della propria  immagine, fosse anche riservato per soprappiù il  paradiso delle religioni e delle etiche!   Sarà meglio invece guardarci chiaramente in fac-  cia e chiederci se veramente per il puradiso provvi.  sorio della bellezza non giochiamo la salvezza della  nostra anima — ammesso che «questa espressione  abbia un senso: quello cristiano, + quello di una  etica « laica » (ma generalmente è cripto-eristiana  anch'essa) — riconoscere per che cosa abbiamo  scommesso; chè le conseguenze del nostro « pari »  atiche se lo avremo perduto non diventerunno duv-  vero peggiori per quest’atto di franchezza.   Rimane inteso che su questa rivista, che non è  dedicata a studi filosofici, non potremo farlo che  sotto l'angolo della pittura; ma poichè è questa  arte della quale abbiamo, bene 0 male. una qual  che esperienza vissuta e poichè d'altra parte non  crediamo se non ai discorsi che nascono da questa  specie d'esperienza, la cosa non sarà fuori posto.   La coscienza rimane inquieta. E poichè sente  che tutto nel problema implica la discussione delle       CAROL RAMA Disegno - 1944    Da «Tendenza», 1946, disegno di Carol Rama.    tura risuona dal profondo del nostro sangue — ancora  con quell’urgenza — come nei quindici anni quando  sostituiva in camuffamenti impegnati sino alle estre-  me ragioni della possibile azione, gli slanci religiosi  o i presentimenti sessuali”. Geniale, perché collega  direttamente, intimamente la pittura (ma in genere  i linguaggi creativi) alla natura, al sangue appunto,  affermando “il carattere profondamente immorale  dell'attività artistica” già sostenuto da Nietzsche,  negato o perlomeno arginato invece da Idealisti e  Spiritualisti; e insistendo sulla “presenza di una  volontà — non risolta nella pura contemplazione, né  risolvibile, dato ilsuo orientamento verso l’immagine  [...] La cosaè particolarmente evidente nelle arti figu-  rative e la multiforme e aperta a direzioni divergenti  attività [...] ne è il paradigma [...] Ed è appunto ciò  che è sfuggito all’idealismo, a causa della artificiosa  distinzione [...] di teoretico e di pratico, come al confu-  sionismo attualistico che confinando l’arte nella sfera  dell’immediato sentimento cade di fatto in un troppo  semplicistico naturalismo. La distinzione fra teoretica  e pratica è certo valida, ma all’interno di ogni singolo  atto spirituale nella sua integrità, ché la vita spirituale  presenta questi due aspetti come facce sempre distinte,  sì, ma sempre inseparabili”.   Conclude Galvano (e in questa direzione trova  sostegno nella fenomenologia di Alain?!, ne “L'Imma-  culée Conception” dei surrealisti e in Breton, più che  nella poetica di Valery, almeno quando troppo insiste  sul pieno controllo cosciente dell'artista nell’elabora-  zione dell’opera): ‘Qui [...] bisogna pensare [...] ad  una volontà tutta inconscia, individuante e non ancora  individuata (come[...] Schopenhauer presentiva) e ad  unopposto momento rappresentativo che solo giustifi-  ca il valore estetico dell'immagine raggiunta negando  nel sogno l’ebbrezza del movimento fisiologico”.   Con un salto di parecchi anni, dal 1946 de La  pittura, lo spirito e il sangue ad una autopresentazione Utilissimal’ampia citazione in proposito da uno scritto ine-  dito di A. Galvano, riportata da F. Garimoldi Albino Galvano: pro-  getto di una nuova cultura, in Omaggio a Albino Galvano, cit., nota 12:  “[in Alain ovvero Emile Chartier] l'accento cadrà ... molto più  che nell’estetica idealistica, sul momento del fare che su quello  del conoscere , e sulla resistenza del mezzo sentita come condizio-  ne positiva ed essenziale al sorgere del fantasma artistico, fanta-  sma che non sarà più un'immagine al tutto congiunta a priori ad  una materiale estensione che la traduce, ma che sorgerà insieme  all'atto di esecuzione e che soltanto a posteriori rispetto a que-  sto avrà la sua concretezza “ ... “L'opera non nasce nella testa o  nel cuore, nell’intelletto o nel sentimento, per poi essere realizzata  nella pietra o sulla tela, ma, direi, nel vivo pulsare del sangue al  polso quando questo gioca le resistenze e le tensioni, gli scatti e  le flessioni del pollice e della mano nell’urto con il resistente ma-  teriale. La scultura e la pittura sono meno la realizzazione visiva  di un'immagine mentale che la materiale traccia lasciata da un  gioco di ritmi fisiologici”. Sarà in particolare Merleau-Ponty a  sviluppare il tema, per esempio negli studi dedicati a Cézanne.    lino Vieeate  colla (o crlize pus (olenda,  cuni (aza sr net&uk' a fr suina  und la gut rin % NAM (dA  Pene più 0 me0 Ara la rr tn he Ut    forata ME TISHOI: RE Peas LA LALA Les    al caso TU fi  e fa dii  Lo val poco comi pila est;  ua dn AA    Prima pagina della lettera di A. G. a Adriano Villata, 1980.    del 1980 — scritta a mano “quasi si trattasse di una  lettera destinata solo all'amico [il “Caro Villata”,  gallerista], nella quale ci si può confidare e divagare  come l'umore o la nostalgia suggeriscono” —, Galvano  ritorna sul rapporto fra il concepire e il fare, tra il fare e  il decodificare il senso in più o meno risolutive lettere;  ancora una volta mettendosi in gioco, ma senza alcuna  intenzione di assumere valore esemplare o chiedere  scusa 0 simpatia, esponendosi in tutto lo spessore  di sensibilità e intelligenza, di impossibilità (a meno  che non si scelga o si accetti la rinuncia) di sottrarsi  all'impulso profondo. E anche senza compiacimento  narcisistico: ci si esprime non per coltivare l'emozione  ma per darne testimonianza e, per quanto possibile,  esporla a sé e ad una analisi non priva di crudeltà,  comunque oggettiva. È interessante seguire il filo  del discorso, che nella scelta del tono dimesso non è  meno teso del solito.   Prima motivazione del movimento pendolare tra  pittura e scrittura, così esposto al giudizio e all’ironia  dei colleghi dell'una e dell'altra banda: l'appartenenza  “ad una generazione [quella di Cremona, di Maccari,  di Mollino, per restare tra amici] e ad un ambiente Ripubblicata in A. Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue,  cit., pag. 29 e segg.; e in A. Galvano, Diagnosi del moderno, cit. ,  All'inaugurazione di una sua personale, inizio anni ‘70.    in cui questo male, se male, era quasi una ragione di  orgoglio”. Era la generazione dei nati all’inizio del  secolo, che raccoglieva dai protagonisti del rinno-  vamento dell’arte (secessionista o avanguardistico,  rappresentato per Albino, in primo luogo e per sempre,  dal maestro Felice Casorati), una eredità che era non  meno di esperienza materiale che di elaborazione  intellettuale, un atteggiamento aperto, anzi tentato  da molteplici contraddittorie curiosità e linguaggi  espressivi (ma il quasi suggerisce l’affacciarsi di qual-  che incrinatura nella certezza adamantina esibita dai  predecessori, forse anche per il confronto inevitabile  con una generazione successiva che tornerà a proporre  arroccamenti specialistici).   Seconda motivazione: ‘[...] Tutto quantohai odiato  o amato nei giochi e nella noia dell'infanzia alimenterà  peruna vita quanto produrrai, buono o meno chesial....]   I nutrimenti terreni avranno un bel essere filtrati  in parole, in segni e colori, in note, in spettacolo, il  loro repertorio non muta, non lo hai scelto, ma ne  sei stato scelto, e tu sei quello che essi ti hanno fatto,  la tua libertà non può consistere che nell'essere loro  fedele sino alla fine, libertà di adesione non di ripudio,  e libertà nella misura in cui con il tuo ripensamento e  il tuo scavo li trasformi da passivo esser fatto in attivo  assecondamento della sorte che essi ti hanno assegnato,  in obbiettivazione in cui il loro oscuro sgorgo, la loro  inconscia matrice, si chiarisce nell'opera, nel segno  formato e consegnato all'oggetto che ti rivela agli  altri e in cui assumi responsabilità di confessione e di    10    proposta”. Insomma, è proprio il rilancio dal fare al  pensare e dal pensare al fare che definisce una identità  intuita come destino e accettata come scelta.   Ma se rimane “ovvio” il rapporto fra i nutri-  menti terreni e ciò che uno diviene e fa nel tempo, è  anche vero che “una immagine retrospettiva di sé  è sempre un’interpretazione che porta il peso della  mutata identità dell’interrogante, del penoso carico  di nostalgie, ricordi, rimpianti e rimorsi [...] e ogni  interpretazione, specialmente nell'impegno auto-  biografico, è anche una falsificazione”, per quanto  cerchi di evitare tanto l’apologia ideologica quanto  la “disgustosa e mimetica” confessione personale.   Giusto nel mezzo, fra le due citazioni del 1946  e del 1980, nel 1960 (è il caso di ricordare che è il  tempo della svolta neodada e pop che mette in crisi  e addirittura annichilisce alcuni dei pittori più con-  vinti), Galvano mostra d’avere di questo destino  ironica e malinconica ma anche dura consapevolezza.  Del fallimento egli tesse un sistema, secondo i miti  di Prometeo e Sisifo, riscoperti come”moderni” dal  Romanticismo all’Esistenzialismo. “Finis picturae?  [...] Il punto si identifica [...] con questo estremo di  coscienza contraddetta e irritata: la certezza che la  via senza uscita dell’arte oggi non ha [...] nemmeno  l'alibi della professione, del successo, del guadagno, ma  soltanto il fascino senza illusioni di una fedeltà a un  impegno individuale, quasi di una scommessa con la  propria intelligenza e con la possibilità e i limiti del  nostro stesso temperamento!”.   Diventano così esemplari l’ultima e penultima  produzione di Galvano pittore, alla quale viene dedi-  cata in questa mostra una intera sezione, iniziata verso  la fine degli anni ’70 con i ciottoli le foglie i frutti, i relitti,  proseguita con “i paesaggi (rocce, alberi, isole), i nudi, le  macchie[|...]”:esemplare neltentare una trascrizione di  archetipi, congelati inluoghi comuni della pittura, tipi,  generi e maniere (il fascino baudeleriano dei luoghi  comuni!). Ma già muovevano nella stessa direzione  ireos e cespugli d'inizio ‘70 — tracce che regrediscono  attraverso lamemoria nella gesticolazione elementare  — e prima i segni asemantici, prima ancora (siamo nella  seconda metà dei ‘60) le bandiere, i nastri, i nodi e così  via: tutte figure emblematiche, primarie e coltissime,  che niente hanno a che fare con la semplificazione, la  banalizzazione pop.   La pittura ivi coincide con la costruzione delle im-  magininominabili (nona caso varianti dell'icona della  cosa, anzi del frantume, astratta da qualsiasi contesto,  su un fondo bianco che è il segno di una definitiva  separazione dallo scorrere fenomenico), e insieme la  pittura è automatismo oggettivo, registrazione fredda  della emozione costruttiva (se non creativa): infatti  presentata tipicamente come nodo, descrizione dell’a-    23 A. Galvano, La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi, cit.    »m®)  da cor. 4 È  "ut me rematori) E  ua Br su :    Pa    ù  LE  a   Con Gorza a Palazzo Te, Mantova   zione dell’annodare, avvolgere, intricare-intrigare, 0  dello sciogliere e liberare (vedi la bellissima immagine  scattata, credo, alla galleria Martano).   Ma è tutta la vicenda di Galvano pittore e critico  che val la pena di ripercorrere in mostra, sia pure per  cenni e con discutibili tagli.   Danotarel’uso ch'egli fa dell’insegnamento casora-  tiano: del maestro, Galvano non assume passivamente  il “platonismo”, consapevole che il rapporto di Felice  con la pittura è dal principio e resta nel tempo un  rapporto “decadente”, che diventa eticamente “sano”  e formalmente “classico” solo per un atto di volontà  tanto mirabile quanto falsificante; sarebbe meglio dire  critico, con vettore opposto, sia pure, a quella che sarà la  scelta di Galvano. Che il travestimentosia storicamente  giustificato su un modello rispettabilissimo come quello  gobettiano, non vuol dire che la sua sostanza più vera  non debba essere riconosciuta nonostante, attraverso  la corazza ideologica e formale ritrovando il nucleo  profondo, ’malato”ma straordinariamente vitale.    11    Del Galvano degli anni’30-inizio ‘40, sarebbe da  approfondire l’espressionismo — che del resto condivi-  de con altri della sua generazione: Nella Marchesini,  Paola Levi Montalcini, Piero Martina, Italo Cremona,  Carol Rama. In tal senso ci si potrebbe chiedere che  peso abbia avuto, localmente, Spazzapan che esaltava  l'ispirazione e deprecava l'istinto (viene in mente la  teoria di Klages, che insiste sulla attrazione magnetica  traimmagine e “anima”, ben distinta, l’anima ispirata  e creativa, dall’istinto che è del corpo, come dalla  volontà decidente e dotata di facoltà riflessiva che è  dello spirito”); e anche Carlo Levi, l’unico dei Sei che  partecipi intimamente all’espressionismo europeo, e,  fuori sede, i romani, Scipione in particolare al quale  Albino dedicò una bellissima recensione nel ‘40, che  è lo stesso anno della prima edizione del Casorati.   In un saggio intitolato Perché non possiamo non  dirci crociani, in “Numero”, 3, 1953, Albino Galvano  sottolinea che la sua generazione “decadente” deve  a Croce specialmente questo: d'essere stata messa  nella condizione di “accettare senza malafede e senza  rimorsi i dati di quella cultura di tardo romanticismo  che, così feconda quanto a ricchezza e sottile sensibi-  lità di ricerche particolari, tanto si è dimostrata inca-  pace di una sistemazione totale... [insomma di poter  essere] decadente malgrado Croce, grazie proprio  al riscatto che il metodo crociano offriva”. Che è un  modo ottimo anche per comprendere come coerenza  di sistema e incoerenza pragmatica siano in Galvano  strettamente congiunte in dialettica tensione: la co-  erenza consistendo nella allarmata coscienza critica,  nella responsabilità che non può consentirsi “nessuna  comoda complicità”, l’incoerenza nell'essere ogni  scelta un esito che, per quanto imperfetto, è sempre  compromesso e rappresentativo. Come a dire che la  vitalità della ricerca costituisce un valore, non meno  che l'aspirazione ad una sistemazione che finalmente  rappresenti una “identità”, forse meglio “la libertà  di essere identici al proprio destino”. Perciò Galvano  non intende, tanto meno come pittore, tagliare i ponti  col passato (il suo passato, oltre che la storia); invece  semina il cammino di tracce, di residui, vorrei quasi  dire fisiologici, di lapsus, così che in ogni momento  il cammino sia ripercorribile o almeno riconoscibile,  ma anche sostituibile. Egli, in effetti, sa che nulla  va distrutto e non consuma sacrifici liberatori. Per  lui in particolare (adatto il titolo di un importante  saggio del ’63), La sublimazione astrattista non liquida  l'erotismo del Liberty, semmai ne prende le distanze,  per poterlo rimettere in circolo, come in un processo  alchemico in perenne rinnovamento.   Così Galvano passa necessariamente da un con-  cretismo geometrizzante, che di fatto ironizza — ma  non banalizza - la geometria come privilegiata ma-       24 A. Galvano, Per un'armatura, Lattes, Torino 1960, pag. 87.    nifestazione della razionalità e della chiarezza, ad  un concretismo informale che libera la possibilità  di una pittura scritta usando il campo come tabula  rasa 0 pagina intonsa, dove il gesto può scorrere ed  intricarsi, e/o come dimensione praticabile in tutto il  suo spessore magmatico, a sua volta ironizzato dalla  scoperta di una ritmica, di una metrica essenziale.  Come adire che è nella pittura (nell'arte) chesi realizza,  assumendo evidenza di mito visivo — feticcio laico —  l'unico progetto possibile senza illusioni razionaliste  e moralismi ideologici.   Un momento certamente fondamentale, sarei  tentato di dire il perno sul quale ruota il resto è quello  attorno al’60: quando la “natura” del gesto s'incontra  felicemente conlo schema, generando una concrezione  araldica, l'intenzione simbolica con il simbolo ricono-  sciuto nella memoria collettiva; ennesima variante  della tradizione dell’ornato, raccolta e riavviata dal  Liberty: insieme puro gesto e automatismo assolu-  tamente impuro. In questa mostra, il momento avrà  adeguata evidenza. Ma è anche vero che Galvano  si guarda bene dal protrarre artificiosamente quel  momento (diciamolo pure, straordinario, quasi senza  confronto in Italia), tanto che si prenderà negli anni  immediatamente successivi, dal ‘62 al ‘65 circa, una  pausa di riflessione che produrrà anziché pittura saggi  teorici che culminano in Artemis Efesia, per riprendere  il filo (la matassa) della pittura con proposte (in appa-  renza) assai differenti: le bandiere, i nastri, 1 padiglioni,  gli anelli di Moebius.   Che cos'è la pittura per Galvano, allora?   Scrive di lui nel 1974 l’amico / avversario Giulio  Carlo Argan, che ha scommesso sul progetto ideolo-  gico, vincente almeno per un certo periodo storico:  “Egli non risponde una volta per sempre, con una  definizione filosofica: infatti ciò che vuol sapere è  che cosa sia la pittura in questa precisa condizione  della cultura, della coscienza, dell’esistenza, e quale  sia il suo grado di vitalità, quali le sue possibilità di  sopravvivere in uno spazio ogni giorno più ristretto”.   Non gli si potrebbe dar torto, se non fosse che  proprio l’opera e ciò che la sottende, l’opera come atto  critico, questo è appunto il suo contributo filosofico, e  anche la sua testimonianza sapienziale, che trascrivo  da una autopresentazione del 19822:   “Dunque [la pittura], una meditazione sulla morte  imminente [...] o il recupero della gioia ottica nello  spazio ripercorso in termini di colore e di luce, sia  pure della luce irreale della memoria e del sogno? O  la scenografia di ambigue emersioni dall’inconscio?  Davvero non saprei dirlo, e, forse, è inutile porsi le  domande. Forse anche soltanto la monotona iterazione       25. G.C. Argan, in catalogo della personale, Galleria Unimedia,  Genova Galvano, Autopresentazione, in catalogo della mostra,  Piemonte Artistico Culturale, Torino 1982.    12    di una passione per il dipingere, che ripercorre con  insistenza sigle che non è più capace di vivificare colla  curiosità e il gusto avventuroso della giovinezza”.  Tante pitture, allora, e però tutte mirate ad essere  presenza di pittura e non illustrazione di concetti.  Pittore concettoso, a volte, mai concettuale nel senso di  illustratore di concetti : aggiungo,nel segno di una ine-  ludibile, per quanto mascherata vocazione poetica.”   Devo citare, almeno una volta, Edoardo Sangui-  neti, allievo e amico, grande estimatore di Galvano:  “Mi trovo [...] forzato a pensare che, alle radici del  lavoro di Galvano, come artista e come studioso,  stia un'immagine — è la parola giusta — che accenna  all'uomo come animale che è capace di immagine.  E dunque un’antropologia fondata sopra la facoltà  della visione”,   In formula perfetta, a conclusione di Storicità e  significato dell’arte astratta (1953), Galvano aveva già  precisato:“L'opposizione affermata da Mallarmé tra  la concretezza della vue e l’allusività delle visions,  l'affermazione di Alain che il poeta è l'opposto del  visionario perché sa di non vedere sino a che la mano  non abbia realmente costruito nello spazio l'oggetto  che la passione progettava, sono divenute nella co-  scienza del pittore concreto l'imperativo di una scelta  tra il peso della memoria e la libertà pericolosa di una  iniziativa tutta affidata al risultato”. F. Garimoldi,  nel saggio più volte citato”, sottolinea che Galvano  pone come centro dell’arte “l’insoluto rapporto fra  espressione ed enigma” (che cosa di più chiaramente  collocato sulla linea romanticismo-simbolismo come  la vede Albino?), citando una autopresentazione del      La seconda parte di questo scritto elabora liberamente tre  miei testi: in ordine cronologico, Témoignage de notre dignité, in Fi-  gure d'Arte, artisti a Torino dagli anni ‘50, a cura di A. Balzola, R.  Cavallo, E. Ghinassi, P. Mantovani, Alberti ed., Pescara 1991; A  proposito del pittore Albino Galvano, in Attraverso il Novecento. Albi-  no Galvano, 1907-1990, a cura di M. Pinottini, Bulzoni ed., Roma  2004; Albino Galvano pittore, catalogo della mostra, Galleria del  Ponte, Torino, 2010.   28 E. Sanguineti, Contro la ragione, “La Stampa”, 10 marzo 1990.  Un libro singolare, dove Sanguineti è figura nodale nella messa in  circolo della “linea liberty” ancora nella seconda metà del ‘900; li-  nea che Casorati, Cremona, Mollino e Galvano avevano mantenu-  ta viva con originali apporti nella prima metà del secolo, è L'altra  faccia della luna — Origini del neoliberty a Torino di Elvio Manganaro,  Libria ed., Melfi 2018. Al libro citato devo la conoscenza di un te-  sto di Galvano: Processo alla pittura in “Il Selvaggio”, 15 novembre  1938, che dà originale contributo alla interpretazione della vicenda  artistica della sua generazione, che “si gioca tutto nello spazio che  separa le Uova del 1914 da quelle del 1920, o tra l’”Icaro senza ali e  le ali senza volo del Sogno...”, di Casorati naturalmente, perché  proprio Casorati era “appartenuto paradigmaticamente ai due  mondi [...] quello della figlia di Iorio e quello della Jeune Parque”...  (E. Manganaro, L'altra faccia della luna, cit., pagg. 168-170).   29 A. Galvano, Storicità... cit., 1953.   30 EF Garimoldi, A. G. Progetto di una nuova cultura, in Omag-  gio..., cit., pag. 15.    ‘77%:"Si dà arte solo quando il non differente operare  a fini strumentali o di puro edonismo è impedito e  stravolto dai sedimenti di una vicenda individuale che  s'insinuano e dominano dove pretendeva condurre il  gioco la razionalità del progetto decisionale. A que-  sta condizione in ogni tempo si è cercato di opporre  la dignità dell’autocontrollo [...], certo vanamente,  ma anche proficuamente perché [...] la possibilità di  coinvolgere gli altri [...] non consiste se non nel pun-  tualizzato istante di tensione in cui lascia materiale  traccia di segno o di tocco quel gioco d’insidie; l'istante  in cui l’inspiegata vicenda interiore si fa immagine ed  emblema”.       Con Bartoli a Palazzo Te, Mantova, 1988.    Nota bibliografica    La discutibile scelta di privilegiare la pittura  come via di accesso alle molteplici attività di Albino  Galvano, obbliga a segnalare gli autori che hanno af-  frontato il caso con particolare intelligenza e puntuale  cultura filosofica.   E. Sanguineti, in catalogo Antologica, 1979; R.  Tessari, nello stesso catalogo, e Galvano e il mito, in  Figure d'Arte, cit. 1991; G. Carchia, Prefazione a Arte-  mis Efesia, nella riedizione del 1989, cit.; P. Fossati, F.    31 Autopresentazione, mostra personale, Galleria Weber, Tori-  no 1977.       13    Garimoldi, M.C. Mundici (a cura di), catalogo della  mostra al Circolo degli Artisti, cit. 1992; A. Balzola,  Galvano e D'Adda: l'immagine matrice, in Figure d'Arte,  cit. 1991; G. Gallino, pagg. 27-46 e F. Salza, Albino  Galvano e Jung, in“ Attraverso il Novecento”, cit. 2004;  A. Ruffino, Introduzione in Albino Galvano — Diagnosi  del moderno, cit. 2018.   A parte, segnalo il “ritratto” che ne fa Paolo Fos-  sati, con riferimento prevalente agli anni Sessanta e  Settanta, presentando Omaggio a Albino Galvano nel 1992;  e le memorie che in circa trent'anni di colloqui — non  di rado centrati su Casorati, Cremona e Galvano — ho  potuto raccogliere da Gino Gorza, l'unico artista di  generazione successiva che per cultura e gusto potesse  essere accostato a Galvano. Fu proprio Gino a volere una  mostra comune — con il significativo titolo di Sincronie  — a Mantova in Palazzo Te, nel 1988; riannodando il  filo della presentazione che Albino gli aveva dedicato  dieci anni prima, per l’Antologica nello stesso luogo.  Ricordo all’inaugurazione del 1988 la presenza di  Francesco Bartoli, documentata anchein una fotografia  dove il geniale interprete di Licini sembra inchinarsi al  geniale interprete di Artaud. Più recentemente, sempre  al Te, una giornata di studio dedicata a Bartoli è stata  anche l'occasione per rievocare la figura di Galvano  con Roberto Tessari. Anche Tessari è mancato.    Prova di ritratto    Uomoriservatissimo, comea volte chi non si neghi  alla mondanità, anzi se la imponga come esercizio.   La leggendaria disponibilità (senza ombra di  debolezza) realizza una delle forme più aristocratiche  dell'etica (per discrezione in maschera di rigore pro-  fessionale). Essenziale un fondo di malinconia, come  misura di una perdita irreparabile, e di nostalgia per  una totalità irreversibilmente frantumata.   Tra distacco soggettivo e oggettiva commozione  scorre l’impurità di un continuare a vivere, si scrive in  tracce stenografiche il diario di un sedotto ... e di un  seduttore per forza (di un gentiluomo piemontese).   Sensualissimo lettore; scrittore capace di costruire  macchine logiche come trebbie di tortura, e di avvolgere  in sontuose inestricabili ragnatele (costante una specie  di dolcezza, cui tanto meno resistono rigidi baluardi):  trascurabile vi è l'inganno, perché la circonvenzione è  ignobile, specialmente d'incapace.   Come un dovere coltiva il diletto: su questo piano  potrebbe essere magistrale se non fosse troppo fine e  pericoloso un tal modello. Nel suo sistema, la pittura  rappresenta il “concreto”. Distratto semmai da irridu-  cibile curiosità, non è mai astratto.   Ireos, sassi e conchiglie sigillano una storia so-  stanzialmente coerente, perché osano confronto con il  principio e la fine: così su una pietra tombale si posano  cose e il tempo vissuto, relitti nudi, epifanie senza velo.    Omaggio a Albino Galvano       Catalogo mostra antologica, Palazzo Chiablese, Torino, 1979.  Catalogo mostra antologica, Circolo degli Artisti, Torino, 1992.  Atti del convegno, a cura di M. Pinottini, Torino, 1997.   Antologia di scritti di A. G., a cura di A. Ruffino, Aragno editore, 2018.    Electa Piemonte    ATTRAVERSO  IL NOVECENTO:  ALBINO GALVANO  (1907-1990)    a cura di    Marzio Pinottini    BIBLIOTECA DI CULTURA / 657    BULZONI Galvano: la fedeltà alla pittura    Luca Motto    Il magistero casoratiano e la prima figurazione  Galvano nacque a Torino l’anno d'esecuzione delle Demoiselles d'Avignon  di Picasso che segnò l’imporsi e il susseguirsi delle  avanguardie: « che nel bene e nel male problematico  [...]dovevanocaratterizzare, inconcomitanza concrisi  umane, politiche e sociali ben più gravi, ilnostro secolo  sino a porre oggi il problema della “morte dell’arte”  qualunque cosa si intenda sottolineare con questo  termine apocalittico»!. Galvano pur muovendosi nel  solco della modernità, affondava le sue radici in una  meditata e personalissima assimilazione di riferimenti  pittorici dell'Ottocento e del primo Novecento, ben  lontano dalla reazione e dall’inattualità. Apparteneva  all'ambiente casoratiano e alla sua scuola «divenuta il  centro di un'opposizione cortese, tacita che non esclu-  de — la cosa è molto torinese — rapporti amichevoli o  per lo meno corretti con gli avversari»?.   Nel decennio 1918-1928 venne segnata la tempe-  rie di una Torino moderna (tuttavia non futurista) di  seguito enunciata in pochi assunti utili a comprendere  l’ambiente artistico nel quale il giovane Galvano s'in-  trodusse: la comparsa di Felice Casorati alla Promotrice  del 1919 come artista rivoluzionario e di rottura; la  «breve esistenza » di Piero Gobetti e il suo cenacolo  antifascista; le polemiche e la reazione dell'ambiente  cittadino alle scelte di «gusto» antinovecentiste di  Lionello Venturi rivolte all'arte di nuovi «primitivi»,  gli impressionisti; il fugace percorso del gruppo dei  Sei di Torino (coagulato e promosso dal duo Persico e  Venturi)che rinunciarono a «Roma madre» per «Parigi  amica»; e la vitalistica apertura culturale europea del  finanziere, collezionista e mecenate Riccardo Gualino.   Dopo un precoce apprendistato con il pittore  Giovanni Pisano e il maestro di disegno Vannini,  l'educazione di Galvano all'arte contemporanea si svi-  luppò suriviste di settore (in particolare”“Emporium”  e “L'art vivant”) e attraverso la frequentazione delle  Biennali veneziane. Alla rassegna del 1928 Galvano  poté osservare dal vivo la pittura di Felice Casorati  che rappresentò «la scoperta del mondo nuovo e spre-  giudicato che si apriva alla nostra cultura: l'ingresso  del mondo “moderno”»*.   Al termine del 1928 si iscrisse alla Scuola Libera di  Pittura di Casorati (sorta a Torino nel 1921 e struttu-  ratasi maggiormente dal 1927 nella nuova sede di via  Galliari, antistante l'abitazione di Riccardo Gualino) e  la frequentò fino al 1930. Il suo magistero, lontano da       1. A. Galvano, Autobiografia, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura  di), Albino Galvano, catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Re-  gione Piemonte, Torino Galvano, Torino e i «Secondi futuristi», in A. Galvano, Dia-  gnosi del moderno. Scritti scelti 1934 - 1985, a cura di A. Ruffino,  Nino Aragno editore, Torino 2018, p. 344.   Albino Galvano (al centro, seduto) e (da sinistra, in piedi, tra gli altri)  Filippo Scroppo, Daphne Maugham, Rina Galvano, Danila Cremo-  na, Felice Casorati, Carol Rama, Leopoldo Bertolè, Valpellice 1949.    «Ogni sistematicità d'accademia»°, non fu solamente  estetico ma anche pregno dell'eredità etica e politica  gobettiana: un debito verso quel «fanciullo puro» che  esigeva «fedeltà e non lacrime»®. Per Galvano il punto  fondamentale della sua formazione fu il trovarsi par-  tecipe di un ambiente che lo salvò «tanto dal rischio  di un'adesione acritica al regime imperante [...] e da  quello ben più grave [...] di un'immersione o som-  mersione nella Torino di quel tipo di borghesia che  amava in pittura Giacomo Grosso». L'insegnamento  del «platonico» Casorati, pervaso «d’una signorile  severità», verteva su l’«insieme» e il «tono». Dalla  monografia Felice Casorati di Galvano (1940, editore  Hoepli, Milano) si legge che il Maestro consigliava  agli allievi di «imparare a vedere il più semplicemente  possibile [...] la forma di quella determinata massa  tonale, di quella determinata massa chiaroscurale,  non la forma dell'oggetto» [...]. La forma serve qui  a distruggere la linea ed a passare al colore [...]»*.   Il clima della scuola di via Galliari fu efficacemente  narrato da Lalla Romano ne Una giovinezza inventata:  «Verso sera venivano sovente visite: Alberto Rossi,  Mario Soldati, Carlo Levi. Levi ridacchiava — con  noi — sull'indirizzo classicistico della scuola, dove gli  allievi più ambiziosi preparavano un bozzetto per il  quadro. Rideva ma affettuosamente. C'era una base  culturale comune: il disprezzo per il fascismo».I  nomi citati sono solo una parte delle personalità con  cui Galvano, all’inizio degli anni Trenta, instaurò un  duraturo rapporto amicale sulla via del confronto  artistico, tra gli altri: Paola Levi Montalcini, Sergio  Bonfantini, Riccardo Chicco, Italo Cremona, i Sei e       5 P. Gobetti, Iniziative d'arte a Torino, in “L'Ordine Nuovo”, 27  dicembre 1921.   6 F. Casorati, in “Il Mondo”, Galvano, Autobiografia Galvano, Felice Casorati, cit. pp. 369, 371.   O) L. Romano, Una giovinezza inventata (1979), Einaudi, Torino Argan, ma anche Carlo Mollino, Massimo  Mila, Leone Ginzburg e Franco Antonicelli.   La pittura postimpressionista di Galvano del  decennio Trenta e fino al 1945 si orientava in un «con-  traddittorio intento di tenere insieme i valor plastici  di Casorati e quelli dei Sei» il cui risultato «pesante e  impastato» fu autocriticamente espresso dall'artista  stesso!°. Anche una certa l’arte d'oltralpe praticata da  stranieri fascinò Galvano (Maurice de Vlaminck, Ko-  stia Terechkovitch, Christian Krog), mentre i rimandi  nostrani furono indirizzati alchiarismo lombardo eai  tonalisti romani. «Quei loro mezzi [...] misi sfasciava-  no ed intorbidivano tra le mani, rimanendo parentele  d’accatto o esperimenti di lettura, ed enorme riusciva  la dispersione e la perdita di tempo»"!.   Un repertorio antinovecentista di temi iconogra-  fici ricorrenti segnò quel periodo: «pesci, molluschi,  conchiglie, vecchi libri accartocciati, crocefissi e  acquasantiere barocchi, nudi tortili come molluschi  e paesaggi incerti tra quegli andamenti sinuosi e un  modesto cezannismo che era nell’aria»!“.   Galvano s’inserì nel circuito espositivo nel 1929,  anno in cui le arti si avviavano verso la loro fasci-  stizzazione di forma con l'istituzione del Sindacato  Fascista a cui venne affidato il compito di gestire le  manifestazioni espositive periodiche sul territorio  nazionale. Il rapporto con la società artistica di un  Novecento sarfattiano (a un passo dallo smantella-  mento definitivo) e della retorica celebrativa di Stato  era destinato tuttavia a un sostanziale fallimento.   A Torino Galvano esordì nell'alveo casoratiano  in due mostre della scuola nel 1929 e nel 1930. Dal  1930 al 1942 furono regolari le sue presenze alle espo-  sizioni annuali della Promotrice di Belle Arti con più  sporadiche puntate alla Società degli Amici dell’arte  (1931, 1932, 1934).   Il critico Emilio Zanzi, in una recensione riguar-  dante un'esposizione di vendita torinese del 1934,  sagomava i tratti pittorici del giovane Galvano: «[...]  sfuggito anzitempo alla disciplina rigorosa della  scuola di Casorati. Il Galvano in certe composizioni di  nature in silenzio ricorda la chiara e sapiente pittura  del Maestro, in altri quadroni ricerca l’effetto della  pennellatona agile ed abile, cara passione di qualche  post-impressionista»".   Alle rassegne di carattere nazionale Galvano  prese parte alla I e alla Il Quadriennale romana (1931  e 1935) dove vi fu una discreta rappresentanza torine-  se e piemontese: Felice Casorati e il suo discepolato  (Paola Levi Montalcini, Nella Marchesini, Sergio  Bonfantini, Emilio Sobrero), Daphne Maugham,  A. Galvano, Autobiografia cit., p.18.   11 A. Galvano, in catalogo della mostra, Galleria La Giostra,  Asti 1952.   12. Ibid.   13 E. Zanzi, in “La Gazzetta del popolo”, 1934    16       Albino Galvano e Filippo Scroppo alla I Mostra Internazionale  dell'Art Club, Palazzo Carignano, Torino 1949.    parte dei Sei (Carlo Levi, Francesco Menzio, Enrico  Paulucci), Giulio Da Milano, Umberto Mastroianni,  Italo Cremona. Alla Biennale di Venezia del 1930  Galvano presenziò con un’opera nella stessa sala di  Casorati e allievi, mentre nell'edizione 1936 espose  isolato (a Gigi Chessa scomparso nel 1935 venne  dedicata un'ampia retrospettiva, Menzio e Paulucci  comparivano attigui).   In questo periodo sono da indagare infine le par-  tecipazioni alle quattro edizioni del Premio Bergamo  (1939-1942). Fuuna manifestazione, insieme al Premio  Cremona, che svelò la dialettica artistica italiana: due  componenti antitetiche dello stesso volto del regime.  Il primo (promosso da Giuseppe Bottai), più elitario,  «si riallacciava a un versante dell’arte italiana colto,  internazionale e post-impressionista»!* suscitando  polemiche nell’ala più intransigente del fascismo; il  secondo (voluto da Roberto Farinacci) era sintonizzato  sull'onda delle mostre hitleriane.   AII Premio Bergamo del 1939 (in giuria Casorati,  Funi, Longhi e Argan) il terzo riconoscimento venne  suddiviso tra cinque concorrenti: si evidenziava la  presenza romana di Giuseppe Capogrossi e quella  piemontese con Menzio, Paulucci, Galvano e Piero  Martina (era presente anche Nicola Galante, non  premiato). Al secondo Premio Bergamo del 1940  Galvano ricevette una particolare menzione e il suo  dipinto fu acquistato dal Ministero dell'Educazione  Nazionale. Galvano espose anche alla terza (1941) e alla  quarta edizione (1942, vincitore l’intimista Menzio),  la rassegna scandalo della Crocifissione di Guttuso,  reinterprete drammatico e rabbioso di un’iconografia  mutuata dal sacro: anticipazione in chiave cubista  della militanza postbellica.   Il ventennio Trenta-Quaranta contrassegnò inol- AA.VV, Gli anni del Premio Bergamo: arte in I talia intorno agli  anni Trenta, catalogo della mostra, Bergamo, Electa, Milano 1993,  p. 58.    tre il compimento della formazione intellettuale di  Galvano che si laureò nel 1938 (con Angiolo Gambaro  e Nicola Abbagnano) con una tesi sulla pedagogia  della religione: primo atto dell’approfondito con-  fronto con le tematiche spiritualiste, antropologiche  e filosofiche (in primis l'influenza di Benedetto Croce  e Henri Bergson).   Tra le sue prime prove di critica d’arte si possono  menzionare il breve scritto del 1932 su Armando Spa-  dini in “L'Arte” diretta da Venturi; il saggio del 1934  su Luigi Spazzapan in “Orsa”; le collaborazioni con il  periodico milanese “Le arti plastiche (1933) e la reda-  zione delle cronache d’arte torinese per “Emporium”  (1938-1942). Si ricordano inoltre i volumi del 1938 (per  l'editore fiorentino Nemi) L'arte egiziana antica, L'arte  dell'Asia occidentale e centrale, L'arte dell'Asia orientale;  la monografia Felice Casorati edita da Hoepli (nel  1947 uscirà una seconda edizione) e Tre nature morte:  Casorati, Menzio, Paulucci pubblicato a Torino nel 1942.   Fu assistente alla Cattedra di pittura di Paulucci  all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino nel  1942 e da quell’anno, fino al 1978, insegnò storia e  filosofia negli istituti liceali. Tra inumerosissimi allievi  con i quali mantenne profondi legami si ricorda in  particolare Edoardo Sanguineti.    Dalla fase espressionista verso l'astrattismo 1945-1951    AI termine del conflitto bellico per Galvano e gli  artisti della sua generazione s'impose il confronto con  l'avanguardia, l'Europa e il moderno. «Moderna non  è soltanto l’arte prodotta nel periodo in cui viviamo,  ma quella che di voler essere moderna ha program-  matica intenzione! [...] Che assume come categoria  predicativa l'affermazione di “novità” rispetto ad  una situazione di cultura storicamente conclusa.  [...] Il concetto di moderno si chiarisce, così come un  concetto “etico” [...] per cui l'avversario non è un  modesto o nullo artista, ma il traditore di una causa  totale, il reazionario che non merita pietà e al quale  non giova la buona fede». Queste lucide affermazioni  di Galvano aiutano a delineare un settore della sua  linea di pensiero che contribuì ad animare il vivace  dibattito degli intellettuali torinesi, fautori di quel  compatto blocco culturale che, tra il 1945 e il 1947 tentò  una ricostruzione «morale e civile» della società. La  posizione politica di Galvano dopo la Liberazione fu  abbastanza distante dall’ideologia estetica del fronte  comunista. L'urto «non era tanto fra tradizione e  innovazione, anche meno tra astratto (o concreto)  e figurativo [...] ma tra militanza “costruttiva” ed  autonomia “critica” [...]»!9.          15 A. Galvano, Moderno, in Enciclopedia Universale dell'Arte, vol.  IX, Fondazione Cini, Roma-Venezia 1963.   16 G. Mantovani, Il malessere dell'arte, in A. Galvano, La pittura,  lo spirito e il sangue, a cura di G. Mantovani, Il Quadrante edizioni,    E;    Negli anni postbellici il complesso confronto-  scontro con Croce era ineludibile e la posizione di  Galvano (sviluppata in anni più tardi nel fondamen-  tale scritto Perché non possiamo non dirci crociani, 1953)  merita qui qualche breve accenno. L'intuizione pura,  come atto teoretico astorico, non poteva prescindere  dalla soggettività dell’«opera manuale». La polarità  non sussisteva tra il bello crociano, simbolo del bene  morale e il suo opposto, quanto tra lo «spirito» (il  momento razionale - contemplativo) e il «sangue» (il  principio vitale inconscio che in ultimo concretizza  l’opera con il linguaggio scelto). Scriveva Galvano  nel numero unico del periodico “Tendenza” (1946,  coideato con Pippo Oriani): «Questo bisogno del  sangue che ignora l’astratto spirito e gli anatemi e  le accuse di “naturalismo” degli idealisti o quelle di  “immoralità” degli spiritualisti è essenziale all'opera  di pittura. Essa cade o sussiste con il sangue non con  lospirito»!. L'attività di critico d’arte seguitò in quegli  anni anche su quotidiani come “La Nuova Stampa”  (nel 1946) e “Mondo Nuovo” (nel 1947 e 1948).   Tra il 1945 e il 1949 la pittura di Galvano si aprì  ad una fase espressionista slargandosi e semplifi-  candosi in campiture bidimensionali dai contorni  lineari marcati e attraverso l’uso di un cromatismo  timbrico. In un testo di autopresentazione del 1952  l'artista esplicò: «Così quando, intorno al 1941, Guttuso  guardando a Picasso, Birolli e quelli di “Corrente”  sbirciando l’espressionismo, diedero altro indirizzo  alla pittura italiana, mi trovai in ritardo rispetto a quei  coetanei e ai loro discepoli molto più giovani di me, e  con un bilancio piuttosto negativo. [...] Tentavo così  una soluzione in un breve periodo di esasperazione  “espressionistica” del segno, dove l’“illusivo” si tra-  sformava in “allusivo” a quelle immagini che potevo  considerare mie».   Galvano puntualizzava inoltre di essere stato  tentato verso «esperienze varie di carattere cultu-  ralistico, fra cui un primo richiamo al liberty che  allora fu aspramente rimproverato da certi critici (A.  Podestà) come incomprensibilmente anacronistico  ma che almeno come recupero critico, rappresentava  un'anticipazione di interessi e recuperi diventati di  moda un ventennio più tardi».   Nella Torino della Ricostruzione gli spazi esposi-  tivi erano esigui; molto spesso sorgevano in simbiosi  con una libreria come per esempio la Galleria Faber,  dove Galvano nel 1945 partecipò ad una Antologica  di Maestri contemporanei. Alla personale di Galvano  del 1946 presso la Libreria del Bosco «ci troviamo di  fronte ad un artista dalle varie esperienze», denotava          Torino Galvano, La pittura, lo spirito e il sangue, in “Tendenza”,  n.1, 1946.   18. A. Galvano, Galleria la Giostra cit.   19 A. Galvano, Autobiografia Gatto su “L'Unità”, e proseguiva: «riesce  spesso a lievitare le acquisizioni culturali ed a tradurle  in efficienti risultati creativi». Il molteplice approccio  stilistico, confessato dallo stesso Galvano nell’auto-  presentazione del 1979, è qui confermato: «leggero  impressionismo, decorativismo un po’ orientale,  [...] motivi che tendono a risolversi in figurazioni quasi  astratte». La fase pittorica più recente, concludeva  Gatto, «pare indirizzarsi verso una pittura dominata  da una volontà ed un’ansia di sintetismo formale»?.   Alla Biennale di Venezia del 1948 (la prima edi-  zione al termine del ventennio fascista nella quale  emersero le linee essenziali degli sviluppi dell’arte  moderna europea) Galvano partecipò su invito con  cinque opere (nudi e nature morte del 1947-48) in sala  con Martina e Paulucci. In quell’edizione fu parecchio  vasta la partecipazione di artisti torinesi sulla via  dell’astratto: Sandro Cherchi, Mario Davico, Franco  Garelli, Gino Gorza, Paola Levi Montalcini, Umberto  Mastroianni, Mattia Moreni, Adriano Parisot, Carol  Rama, Filippo Scroppo. All’edizione del 1950, nuova-  mente su invito, Galvano fu presente con tre opere (in  sala con Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Turcato,  Vedova, Zigaina).   Nel quadriennio 1948-1951 si registrarono nume-  rose partecipazioni dell'artista a rassegne nazionali di  verifica diretta degli sviluppi artistici contemporanei,  tra cui la Quadriennale romana del 1948 e la mostra  collettiva Arteastratta e concreta presso la Galleria Nazio-  nale d’arte moderna di Roma nel 1951(il comitato ese-  cutivo era composto da Joseph Jarema, Palma Bucarelli  e Giulio Carlo Argan). Il testo di Galvano in catalogo  analizzava la ricerca concretista propria e dei torinesi  verso una direzione lontana dal «formalismo astratto»  insenso stretto e intesa attraverso la «‘“proiezione” nelle  strutture dell'oggetto stesso di una carica emotiva, che  asua volta presuppone la totalità spirituale dell'artista  impegnato, ed impegnato “responsabilmente”, in una  prospettiva, in una scelta, in una “Weltanshaung”, cioè  in ultima analisi in un punto di vista etico e metafisico  [...]. Non può perciò stupire che anche a Torino siano  proprio gli artisti più responsabili di fronte a un loro  mondo interiore a volgersi a questa pittura. Superfluo  cercar nel dato estrinseco del gusto un’unità “munici-  pale” o di gruppo: se mai l’unità “torinese” di questi  pittori è nella condizione di cultura cui lo stesso schivo  etalvolta un poco scontroso raccoglimento della città in  cui essi lavorano, è, per taluna delle ragioni accennate,  propizia»”!.   Rilevanti furono inoltre le sortite extranazionali  del 1951. In occasione della mostra nizzarda, Peintres  de Turin, Galvano definì forme e colori delle sue com-       20 S.Gatto, Mostra d’arte. Galvano al Bosco, in “L'Unità”, 31 mag-  gio 1946.   21 A. Galvano, in Arte astratta e concreta, catalogo della mostra,  Galleria Nazionale d’arte moderna, Roma 1951.  Con Enrico Paulucci, Albino Galvano e Filippo Scroppo. Confe-  renza al Circolo degli Artisti, Torino 1967.    posizioni come «feticci laici», «costanti di sentimenti  e impulsi» che non necessitavano di riportarlo «a una  rappresentazione esteriore e imitativa». «La topografia  spirituale di questo mondo che non è né meccanica né  architettonica, ma piuttosto organica e determinata  soprattutto dalla tensione tra le forze elementarie vitali  pressanti, da una parte, e l'aspirazione religiosa o me-  tafisica dall'altra, che vuole dominarle e oggettivarle  nello spirito delle tradizioni filosofiche e religiose alle  quali nei miei quadri faccio a volte allusione anche  attraverso i titoli stessi».   Al Premio Parigi (itinerante anche a Cortina  d'Ampezzo) il critico Luigi Carluccio seguitava di  rimando: «[...] L'artista si è portato sempre su posi-  zioni di ricerca mantenendo tuttavia vivo il dialogo  fra i suoi istinti pittorici e le sue meditazioni. [...] Il  temine “feticcio laico” [...] annota con felice incidenza  che all'origine degli impulsi e dei sentimenti è sempre  vivo lo stesso dibattito tra la pressione vitale di forze  elementari, naturali, e l'aspirazione ad ordinarle in  una ragione metafisica»?3.   Il rivolgersi all'arte d'oltralpe (già a partire dalla  mostra Arte francese d'oggi, Roma e Torino 1947) ebbe  degli echi a Torino con le sei edizioni della rassegna  Pittori d'Oggi Francia- Italia (1951-1961) promosse da  Carluccio e alle quali Galvano partecipò alla prima  (1951) e alla terza (1953), così come figurava ai due  Premi Saint Vincent (1948-1949) messi in piedi dalla  fronda democristiana capeggiata da Carluccio in re-Carluccio, in Mostra Nazionale del Premio Parigi 1951, cata-  logo della mostra, Cortina d'Ampezzo 1951 e Parigi      Con Chessa e Matteis.    azione al Premio Torino del 1947, troppo polarizzato  a sinistra secondo il critico.   È di vitale importanza ricordare infine il ruolo  di Galvano come animatore culturale nel clima  di fermento postbellico, dapprima impegnato  attivamente come promotore dell’Unione Culturale  (sorta nel 1945, raccolse intellettuali antifascisti tra cui  Giulio Einaudi, Massimo Mila, Franco Antonicelli,  Lionello Venturi e tra gli artisti Casorati, Menzio,  Levi) e nel 1949 come propugnatore di due rassegne  artistiche: la I Mostra Internazionale dell'Art Club a  Torino e la Mostra d’arte contemporanea di Torre Pel-  lice. La prima — con presidente Casorati e segretario  Scroppo, organizzata dalla sede torinese dell'Art  Club, un'associazione apartitica internazionale —  mirava a presentare le nuove voci artistiche italiane  e di diversi stati esteri. La seconda, aveva sede a  Torre Pellice, che «pur nella modestia delle proprie  possibilità, possiede, come centro delle Valli Valde-  si, una secolare tradizione di cultura che ha i suoi  particolari caratteri di pensiero e di ispirazione»”4.  Era stata ideata insieme a Filippo Scroppo, artista  e critico valdese, (nativo della Sicilia ma inseritosi  dalla metà degli anni Trenta nell'ambiente cittadino)  e da Leopoldo Bertolè notaio e illuminato collezio-  nista di moderno. La Mostra d’arte contemporanea  — appuntamento estivo annuale protrattosi per un    24 Mostra d'arte italiana contemporanea, catalogo della mostra,  Collegio Valdese, Torre Pellice 1949.    19    quarantennio al quale Galvano espose  assiduamente—trasformòla cittadina della provincia  torinese in un polo culturale aggiornatissimo sulle  ricerche artistiche nazionali e con qualche non rara  puntata internazionale.    Il Movimento Arte Concreta 1952-1955    Il «confuso ribollire di tendenze astratteggianti»?,  che imperava tra il 1947 e il 1951, andò delineandosi  verso l’elusione dell’astrazione su base mimetica in  favore del concretismo. Una lucida definizione della  corrente venne offerta da Gillo Dorfles in uno scritto  del 1951, il così detto manifesto del Movimento Arte  Concreta, (MAC) fondato a Milano nel 1948 insieme  a Bruno Munari, Gianni Monnet e Atanasio Soldati.  Dorfles precisava il concetto di concreto «che non cer-  cava di creare delle opere d’arte togliendo lo spunto  o il pretesto dal mondo esterno e astraendone una  successiva immagine pittorica, ma che anzi andava alla  ricerca di forme pure, primordiali, da porre alla base  del dipinto senza che la loro possibile analogia con  alcunché di naturale avesse la minima importanza»”.   L'adesione formale al MAC di Galvano eun gruppo  di giovani torinesi — Annibale Biglione, Adriano Parisot,  Filippo Scroppo e in seguito Carol Rama e Paola Levi  Montalcini — avvenne nel 1952. A Torino il coagulo del  Movimento rappresentò una sfaccettata unione di poe-  tiche, abbastanza distante dal rigore costruttivista delle  soluzioni compositive lombarde che fondava le sue basi  nell’Astrattismo storico internazionale e locale degli  anni Trenta. In questa sede non è possibile analizzare  la presa di coscienza sulle radici dell'avanguardia delle  personalità torinesi e ci si limita al solo caso di Galvano.   Nel 19471] distacco di Galvano dal comitato promo-  tore del Premio Torino (la prima manifestazione locale di  arte attuale italiana dopola fine della guerra)non avven-  ne solo per posizioni politiche. Come chiariva Giuliano  Martano, nel catalogo della mostra Arte concreta a Torino  1947-1956, per una parte di artisti si trattava di una scelta  di «lettura in quelle matrici dell'avanguardia europea  [...]quasiin contrapposizione alle matrici trovate allora  in un neonaturalismo e del “Fronte nuovo delle arti”»”.   Per Galvano e il discepolato della scuola di Caso-  rati, alla quale riconoscevano la creazione di «una terra  concimata pronta a recepire, stratificazione di cultura  altezzosasevogliamo, maattenta[...]. Aveva purelasciato  ineredità una figurazione latente, una scansione dell’og-  getto che verrà dai torinesi lentamente e sofferentemente  decantata»°. Unosmarcamento, dunque, intotalebuona       25 T.Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra 1945 — 1957, edizio-  ni Schwarz, Milano 1957, p. 129.   26 G. Dorfles, Manifesto del MAC, ora in Arte concreta a Torino  1947 — 1956, catalogo della mostra, Sala Bolaffi, Torino 1970.   27, G. Martano, in Arte concreta a Torino 1947 — 1956 cit.   28. Ibid.    pace del Maestro, che anche Galvano intraprese: la via  verso l’astrattismo ben circoscritta e lineare.   La sua poetica, tra i torinesi, era la più distante dal  concretismo «proprio perché non è mai d'origine speri-  mentale ma la sua “avanguardia” si pone sempre come  una verifica dello sperimentalismo. Si pone insomma  come contrasto immediato fra una realtà esterna [...]  ed una realtà interna quasi avida di controllare im-  mediatamente sul terreno stesso dell’accadimento, la  validità dell’accadere, e di controllarlo appunto in via  sperimentale»?   Gli aspetti strettamente contenutistici della pittura  di Galvano della prima metà degli anni Cinquanta  erano in diretto contatto con i suoi interessi in quanto  studioso di filosofia e storia delle religioni.   Andreina Griseri notava che gli entusiasmi per  il Kandinskij volto all’astratto e per il primo Kupka  giungevano «a una presa di posizione nell’ambito  dell’arte non figurativa, chiarita in numerosi scrit-  ti, in cui il Galvano lumeggia la derivazione dalla  secessione di Klimt di molta arte contemporanea in  una interpretazione nuova dei rapporti art nouveau-  Liberty e astrattismo»?°. Degli scritti galvaniani degli  anni Cinquanta ai quali Griseri si riferisce citiamo  almeno: Storicità e significato dell’arte “astratta” (1953),  Dal simbolismo all’astrattismo (1953), Le poetiche del  Simbolismo e l'origine dell’Astrattismo figurativo (1956).   Gli intendimenti del manifesto del MAC torinese  del 1952 furono piuttosto netti. Più in generale erano  incontrapposizione con il dibattito dilagante in quegli  anni che scindeva gli artisti tra formalisti e realisti, con-  tro il neopicassismo ed estranei al «pudore» del com-  promesso dell’astratto-concreto di Venturi. A livello  localelalororicerca era indirizzata all'emancipazione  dall’orbita casoratiana, dal neoimpressionismo dei Sei  e dal secondo futurismo con il quale condividevano  lo spirito avanguardistico, ma certamente non gli in-  tenti. Biglione, Galvano, Parisot e Scroppo firmarono  il testo programmatico, con la responsabilità di «lotta  contro ogni conformismo pigrizia intellettuale». «Se  il nome stesso di “arte concreta” [...] sta a significare  il desiderio di rigore di chi ha rotto ogni ponte con  tradizioni storicamente esaurite [...] per sostituire la  loro ricerca d'una diretta “presentazione” di oggetti  in cui si vengano obiettivando i bisogni spirituali  dell’uomo, come negli strumenti del suo lavoro quo-  tidiano si proiettano i suoi bisogni materiali [...]»®.   Galvano, pur immerso in una personalissima  ricerca non figurativa, nel periodo che all'incirca si    estende tra il 1952 e il 1954, sviluppò una maggior    29. Ibid.   30 A. Griseri, Albino Galvano, in Dizionario Enciclopedico, Utet,  Torino 1957.   31. A. Biglione, A. Galvano, A. Parisot, F. Scroppo, in “Arte con-  creta” n. 9, 15 novembre 1952, ora in L. Caramel, Mac Movimento  Arte Concreta 1948 - 1958, Electa, Milano 1984, p. 58.    20    adesione al MAC. Lo spazio dei suoi dipinti, asciugato  dall'andamento curvilineo delle partiture, si popolò  di forme squadrate dalla linearità spigolosa. Tutta-  via, la freddezza costruttivista e il rigore logico del  concretismo erano solo apparenti; l'artista puntava  al contrario «ad un'arte che preservi il dialogo tra gli  schemi astratto-geometrici e quelli compositivamente  più liberi, moduli grafici e forme archetipiche non  direttamente razionalizzate»”.   Un precoce avvicinamento ai concretisti lom-  bardi lo si data già al 1950. Galvano fu presente a  Milano in due collettive: con Filippo Scroppo (1950,  presentati da Gianni Monnet) presso la Libreria Il  Salto, cenacolo della pittura concreta milanese e  alla Terza mostra di pittura astratta italiana. Astrattisti  milanesi e torinesi allestita alla Galleria Bompiani  (1951, dove esponevano i piemontesi Costa, Davico,  Mastroianni, Parisot, Scroppo, Spazzapan). I mag-  giori rappresentanti della corrente di entrambe le  regioni figuravano, Galvano compreso, anche alla  II e III Mostra d’arte contemporanea di Torre Pellice  del 1950-51.   L'allineamento al MAC di Galvano fu palesato  anche dalla sua presenza ad esposizioni promosse  dal gruppo. La sortita d'esordio dei torinesi (Biglio-  ne, Galvano, Parisot, Scroppo ai quali si aggiunsero  anche Mario Davico, Mario Merz e Ugo Giannattasio)  avvenne alla Saletta Gissi di Torino con la mostra  Pittori astratto-concreti di Milano e Torino. Non fu  però la prima presenza organica del concretismo in  città poiché già nel 1950 presso la Galleria il Grifo  si affacciarono alcuni esponenti milanesi così come  alla Quadriennale Nazionale d’Arte di Torino dove  comparve una nutrita schiera di astrattisti tra cui  anche Galvano. Commentando la mostra presso  Gissi, sul bollettino “Arte concreta” n. 9, Galvano  esibiva la profonda sicurezza di una non superficiale  accoglienza nell'ambiente cittadino e rilevava la  sfaccettatura di posizioni della compagine torinese  che collimavano in una base comune di principi.  «Principi che possono riassumersi in una profonda  fiducia nella capacità dell’uomo ad esprimersi e a  comunicare con gli altri uomini, attraverso il puro  linguaggio delle forme, attraverso l’organicità e la  coerenza ch’esso sa imprimere ad un discorso i cui  vocaboli non hanno bisogno di essere immagini e  finzioni per legarsi a una sintassi espressiva e, nei  casi più felici, poetica»®.   La politica espositiva del gruppo torinese non       32. L Mulatero, in P. Mantovani, I. Mulatero (a cura di), Lucide  inquietudini. Storie singolari dell’astratto-concreto tra il '50 e il ‘70,  Civico Museo d’arte Contemporanea di Calasetta, Calasetta 2016,  p. 26.   33 A. Galvano, Mostra di pittori concreti di Milano e Torino alla  Saletta Gissi, in “Arte concreta” n. 9 cit., ora in L. Caramel, Mac  Movimento Arte Concreta 1948 — 1958 cit., pp. 58-59.       Con un'opera dalla serie i Nastri.    ebbe seguito se non l’anno successivo alla Galleria  5. Matteo di Genova. L'eccezione è rappresentata da  Galvano che figurò in svariate mostre organizzate  dal MAC, si ricordano qui le principali: Pitture di  Albino Galvano in un esperimento di sintesi, presso lo  Studio b24 di Milano nel 1953 (valla pena rimandare  agli «asterischi» galvaniani di quel periodo, quasi  «privati manifesti» sui bollettini “Arte concreta” n.  12 e 14 che chiariscono la sua posizione all’interno  del movimento) e lo stesso anno a Torino da Gissi  esposero pittori concretisti italiani e francesi (Gal-  vano presentò collages polimaterici di ascendenza  prampoliniana); sempre al Torino l’anno successivo  Galvano fu presente ad una mostra allestita dallo  Studio b 24 in occasione del Salone dell'Automobile.  Si menziona a parte la collettiva presso la Galleria  il Fiore di Milano del 1954 dove Galvano espose  insieme a Bordoni, Jarema, Parisot e Scroppo. Nello  scritto introduttivo al catalogo elaborò stringenti  analisi nei riguardi di un’«arte figurativa che non  ripeta ma continui la natura», invitando il visitatore  a riflettere «che l'apparente chiusura ad una più  ovvia comunicazione di queste opere nulla intende  precludere alla possibilità di uno scambio e di una  penetrazione sempre possibili nell'esercizio di una    21    lettura figurativa per elementi, segno colore, mo-  vimento, materia, ecc., non differenti da quelli che  consentono la valutazione di ogni buona pittura»*.   Non sono da dimenticare infine le presenze alle  Biennali veneziane del 1952 e del 1954 con la sua  produzione concretista e la ripresa espositiva alle  rassegne della Società Promotrice di Belle Arti di  Torino (1951, 1953, 1954).    Dall'Informale al neoliberty floreale 1955- 1965    Il «logico passaggio all’astrattismo»” di Gal-  vano culminò tra il 1952 e il 1954 in una fase di  «tensione tra impaginatura attenta alle squadra-  ture neoplastiche e colore tonale impastato». La  vibrazione cromatica delle campiture, ottenuta  attraverso una libera stesura di pennellate, lo portò  a un lento e graduale sfaldamento delle sue strut-  ture geometrico-architettoniche a favore dell’indi-  pendenza dell'immagine e al protagonismo di una  componente espressiva. Sul piano formale il gesto  pittorico si faceva emancipato e l’organicità della  materia riprendeva vigore.   Si segnò qui il definitivo passaggio di Galvano  all’Informale, lontano dall’interpretazione del neona-  turalismo propugnata dal duo Carluccio-Arcangeli  (è proprio nel 1955 che furono presentati a Torino i  giovani artisti informali presso la Galleria La Bussola  nell'esposizione Niente di nuovo sotto il sole, titolo che  rivelava la volontà di mantenere una continuità con  il passato e la natura).   L'evoluzione del concretismo impose a Galvano (e  alla compagine torinese del MAC) un binario doppio  di direzioni che nonsiindirizzò all’antipittura quanto  piuttosto alla scelta di rimanere «dentro la pittura»  nell’opzione di un astrattismo lirico che lo condurrà  verso l’Informale. Un Informale, sosteneva Galvano,  affine alla «declinazione di un linguaggio asemantico  in cui tuttavia potessero trovare esito quelle allusioni  simbolistiche che già avevano un posto ben rivelato  dai titoli dei miei quadri del periodo astratto-concreto  Rica pe   Una delle prime esposizioni che offrirono un  Galvano smarcato dall’astrattismo di matrice con-  creta fu la personale (undici opere del 1954-56) alla  Biennale di Venezia del 1956 mirabilmente introdotta  da Giulio Carlo Argan. «La radice comune della sua  pittura [...]è la distinzione netta tra i concetti di forma  e immagine. L'idea di forma è inseparabile dall'idea  di arte come rappresentazione, implica sempre un  contenuto di nozioni, un riferimento alla natura, un       34 A. Galvano, in Bordoni, Galvano, Jarema, Parisot e Scroppo,  catalogo della mostra, Galleria Il Fiore, Milano 1954.   35 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 20.   36 A. Galvano, in Bordoni, Galvano, Jarema, Parisot e Scroppo cit.   37 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 20.    processo dioggettivazione. L'idea diimmagine supera  ildualismo dioggetto e soggetto, la relatività costante  di quod significat e quod significatur; mira a designare  un assoluto valore d’esistenza, a sostituire alla rap-  presentazione un'immediata semantica». Seguitava  Argan: «La sua è la ricerca di un'immagine che non  abbia determinazioni dirette o indirette nel mondo  esterno, che non si manifesti per via di similitudini o  allegorie, che dichiari esplicitamente le sue origini e  le sue ragioni esclusivamente umane, che si ponga ad  un tempo come noumeno e come fenomeno. [...] Così  la materia, non la forma, diventa mito ed immagine;  e la materia è il colore, ma anche il segno, la linea, il  punto».   Nel 1957 Galvano venne invitato da Carlo Lu-  dovico Ragghianti per una personale alla Galleria La  Strozzina di Firenze. Nell’autopresentazione l'artista  tenne a ribadire ancora una volta le convinzioni e la  coerenza del suo percorso pittorico che lo avevano  condotto all’Informale. La «formazione spirituale»  si era compiuta, esplicava Galvano, «attraverso la  mia adesione alle correnti non figurative, a quel-  l'inversione” del simbolismo nell’astrattismo che ho  cercato di spiegare storicamente in sede critica. Perciò  a Kandinskij e al Kupka del 1913 [...] agli americani  Pollock e Tobey, ai polimaterici di Prampolini. [...]  L'unico germe di “manifesto” è quello sul “feticcio  laico”. “Feticcio” cioè metafisica, ma “laico” cioè an-  timetafisica”. Credo si possa essere antimetafisici solo  nella misura in cui si è contro le false metafisiche. Nel  caso dell’arte contro la falsa “ispirazione”, l'evasione  sentimentale...»°.   Tra il 1956 al 1962 il mezzo informale di Galvano  virò verso accezioni neoliberty. La copertura totale  della tela della prima fase si distillò per mezzo di uno  sfondo neutro solcato da grafismi pittorici orientati  sempre meno verso un'immagine quanto in direzione  di archetipi floreali e calligrammidi scrittura gestuale.  Galvano recuperava, seppur allusivamente, attraverso  una nuova definizione di immagini, la figuratività  «trasformando o meglio puntualizzando i ‘feticci  laici” in “emblemi”»‘° esplicitati in forme larvali di  iris, i fiori paradigmatici del Simbolismo.   Sul finire del decennio Cinquanta e fino al 1965,  oltre alle regolari presenze alle Promotrici torinesi e  alle mostre annuali di Torre Pellice, si segnalano la  puntata alla collettiva berlinese presso la Maison de  France del 1957, le partecipazioni al V Premio Bergamo    dell’anno successivo, ai Premi Arezzo (1960) e Fiorino.    (Firenze 1960) e alla Quadriennale romana del 1963.  Di particolare rilevanza in quel periodo furono       38. G. C. Argan, in catalogo dell’ XXVIII Biennale di Venezia,  Venezia 1956.   39 A. Galvano, in catalogo della mostra, Galleria La Strozzina,  Firenze 1957.   40 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 20.    22       Nel 1972.    due mostre. La personale del 1960 presso Galleria Il  Canale di Venezia presentata da Edoardo Sanguineti  che così ultimava il suo scritto: «I fiori Mallarmé ci  costringono anche a riguardare di nuovo in faccia la  posizione dell'artista las que la vie étiole, portando cosìla  pittura ad assolvere a un compito, molto forte e molto  importante, di smascheramento dell'avanguardia,  nella forma, secondo le possibilità “moderne” di uno  “estraniamento”»*!.   Nella collettiva (Galvano, Scroppo e Levi Mon-  talcini) alla Galleria il Quadrante di Firenze, Gillo  Dorfles, accogliendo gli enunciati di Sanguineti, alluse  altresì ad un significato orientaleggiante delle pitture  di Galvano che avevano: «accolto nella loro matrice  compositiva quasi il “vuoto” il sunyata di certa arte  zenista, purrimanendo lige a una composta scansione  di ritmi dell’Abendland»”.   Pittore dunque in «senso tradizionale» si definiva  Galvano che ricusava le forme antipittoriche, schiuse  alla strada dell’arte-oggetto (della quale si interessò  in sede teorica), per abbracciare una «simulazione  d'avanguardia». Un profondo disagio lo condusse,  tra il 1962 e il 1965, a compiere una pausa dalla pittura  causata probabilmente dal cortocircuito innescato a  causa di intendimenti antitetici perseguiti dal parallelo  mestiere di critico e di artista. Come rimarcava Argan:       41 E. Sanguineti, in catalogo della mostra, Galleria Il Canale,  Venezia 1960.   42 G. Dorfles, Tre pittori torinesi, in Albino Galvano, Paola Levi  Montalcini, Filippo Scroppo, catalogo della mostra, Galleria Il Qua-  drante, Firenze 1962.   43 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 21.    Con Filippo Scroppo.    «la confluenza dei due percorsi di pensiero (e la sua  pittura è tutta pensiero) sono difficili e interiormente  sofferte[...]»*.   Assumono infine un ruolo fondamentale nella  produzione saggistica di Galvano i due volumi  pubblicati in quel periodo: Per un’Armatura (Lattes,  1960) e Artemis Efesia. Il significato del politeismo greco  (Adelphi, 1966). Sono opere difficilmente classificabili  che attingono alla filosofia, alla storia delle religioni,  alla psicoanalisi e all’antropologia. I due studi affron-  tano il problema dell’interpretazione sia culturale che  psicologica di un passato che ci coinvolge direttamente  e sono al tempo stesso «processo di autoanalisi in me-  rito al rapporto tra una figura-feticcio — un’armatura  tardomedievale e un idolo greco — e l’area psichica  della coscienza».   Il decennio 1955 -1965 fu certamente per Galvano  la fase più feconda di collaborazione con periodici e  riviste tra cui le torinesi “Sigma”, “Cratilo” e come  redattore di “Questioni” (già “Galleria di Arti e Lette-  re”)con Vincenzo Ciaffi, Mario Lattese Oscar Navarro  per l'editore Lattes. Una menzione a parte merita il    44 G. C. Argan, in catalogo della mostra, Galleria Unimedia,  Genova 1974.   45M. T. Roberto, Albino Galvano, Dizionario biografico degli  italiani, Treccani, Milano 1988.  contributo Le tigriimpagliate (1959) peril primo numero  della rivista “Azimuth” fondata da Piero Manzoni ed  Enrico Castellani. Per “Letteratura” nel 1960 Galvano  pubblicò La pittura a Torino dal ‘45 ad oggi, un lucidissi-  mosaggio che inquadrava, da testimone diretto, l’arte  torinese del dopoguerra. Successivi furono i notevoli  contributi sulla situazione artistica cittadina tra cui:  Per lo studio dell'Art Nouveau a Torino (1960), Torino e  i “secondi futuristi” (1962) e il più tardo La pittura a  Torino all’inizio del secolo ?°.    Bandiere, Nastri, «Griffonages» e Segni asemantici  1966- 1974    Nel 1966 con l'esposizione Erbe e Bandiere, presso  la Galleria Botero di Torino, Galvano sentì «il bisogno  di affiancare e poi sostituire gli emblemi ispirati alla  natura con quelli di carattere artificiale più spogli e  tendenti in qualche modo a una nuova astrazione».  In mostra le forme organiche dai tratti guizzanti  dell'ultimo Informale di Galvano furono accostate,  in un felice trait d'union, con la nuova produzione  attraverso la serie delle Bandiere. In uno scritto critico  perla suddetta mostra Gilda Chepes sottolineava: «Le  sue erbe alghe, le sue flammulae, più che bandiere,  sembrano, ad analizzarle, vive, agitate da sentimenti,  da spasimi da aneliti, da desideri»**.   L'artista perseverò nella coerenza linguistica della  sua ricerca che ancora una volta, nei più nuovi risvolti,  non si collocò in un'immediata e netta inserzione in  correnti o gruppi operativi. Gli estesi panneggiamenti  svolazzanti dai colori accesi che si stagliavano su fon-  di neutri riecheggiavano quasi un'antica tradizione  araldica. I riferimenti pittorici non erano di certo  estranei al linearismo sensuale del Liberty, anche nella  sua declinazione decorativa, rammentando inoltre  suggestioni neobarocche. Un commento di Carlo  Mollino, riguardante un'architettura baroccheggiante  di Galvano dipinta degli anni Quaranta, potrebbe  restituire puntualmente le atmosfere delle recenti  Bandiere espresse in uno: «scenario di questo tempo  immobile nella chiara decisione di un arabesco che  non si placa che in un ordine senza indulgenza, ma  vivo di un amore disincantato»?   Furono ancora le Bandiere ad essere esposte nel  1968 per una personale a Cremona alla Galleria d’arte  I Portici. Gli stendardi svolazzanti davano la prova di  una profonda conoscenza degli allora attuali linguaggi  pop e forniscono anche un «grave riverbero di anti-  chità» rendendo l’immagine «imminente e insieme  assente che par scelta e fabbricata per un pubblico Tutti gli scritti qui citati sono reperibili in A. Galvano, Dia-  gnosi del moderno, cit.   47 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 21.   48. G. Chepes, in “Borsa Arte”, 1966.   49 C. Mollino, in S. Cairola, Arte italiana del nostro tempo, 1946.    senza tempo e d’ogni tempo [...]. Proprio per questo  [...]è significante perché carica di intenzioni contrad-  dittorie e fortemente drammatiche, nella dialettica che  stabiliscono tra l’esperienza passata e l'avvento, e la  necessità del presente»”.   Dal1968Galvanosirivolse alla nuova serie pittorica  dei Nastri mantenendo una viva tangenza allo sviluppo  formale del periodo MAC. L'oggettivazione del dato  geometrico si sostituì con una figurazione elementare  di armonica tridimensionalità sull’estensione della tela.  Le masse sventolanti e libere, nelle quali si evidenzia  una ben nota propensione per l’ellissi e il semicerchio,  proseguivano l'indagine sullo spazio volumetrico.  Giuliano Martano asseriva appunto di un'«astrazione  intellettuale, in cui i segni, i ghirigori, sono veri e pro-  pri simboli codicillari, incognite d’equazione, libertà  della memoria. [...] Nastri che si dipanano nel quadro  senza né capo né coda e sono le bandiere di prima rese  a brandelli, sono una forma chiusa che si apre, che da  circonlocuzione diventa interlocuzione»?”!.   Presso la Saletta d'Arte contemporanea di Cu-  neo, nel 1972, Galvano presentò questa figurazione  elementare di volute concave e convesse di recente  produzione, che si palesavano, secondo Giorgio Brizio,  «dall’uso parco e strettamente pensato delle timbrici-  tà cromatiche. Basandosi su toni primari, operando  esclusivamente sulla opacità della parte in ombra,  Galvano può, in una suddivisione doraziana dell’in-  fluenza tonale, usare la direttrice cinetica del timbro  per equilibrare il dinamismo globale della partitura  spazio-occupato, spazio-vuoto»”.   Nel 1974 la personale alla Galleria Martano di  Torino assunse il significato di una ricapitolazione,  dal MAC al presente, in cui gli elementi nastriformi si  erano evoluti, tra il 1973 e il 1974, in forme dall’aspet-  to cellulare e in moduli verticali e curvilinei. Tracce  realizzate a carboncino, impreziosite da lievi velature  scariche di colore, campeggiavano solitarie sulla tela;  la dimensione gestuale fu affiancata dall'espressione  intellettiva dell'atto primario del dipingere. Questi  moduli nella linea filogenetica della sua pittura non-  figurativa «appaiono anche maggiormente legati  ai dettami grafici di una cultura passata attraverso  “quell’inversione del simbolismo nell’astrattismo”  [...] che riaffiora con l’organicità delle sue forme così  tese ed essenziali, rispondenti ancora una volta a  quella logica interiore che resta come la matrice vera  di ogni opera di Galvano»”.    Lostesso anno una sala personale della 25° Mostra    d'arte contemporanea di Torre Pellice venne dedicata a    50 E. Fezzi, in catalogo della mostra, Galleria d’arte I Portici,  Cremona 1968.   51. G. Martano, Albino Galvano, in “Pianeta”, 1968.   52. G. Brizio, in catalogo della mostra, Saletta d'arte contempo-  ranea, Cuneo 1972.   53. A.Dragone in “Stampa sera”, Galvano che vi espose una ventina di opere. L'artista  presentò efficacemente al pubblico la sua recente svolta  pittorica: «ho sentito il bisogno di logorare la forma,  di intercettarne la presunzione di organicità, sgranan-  done il supporto disegnativo in pochi cenni grafici su  cui il colore nonagisse più come elemento qualificante  ma soltanto come sottolineatura allusiva. [...] Come  nel ritmo stesso delle vicende vitali, a una stagione  di estroversa aggressione della percezione dello spet-  tatore si avvicendava una fase di ripiegamento sulla  discrezione, sulla riserva, sultono contenuto». Coevi  furono i Griffonages e i Segni dell'alfabeto asemantico  lavori con scritte quasi illeggibili rese «come puro  segno e gioco lineare [...] non senza un, fra ironico  e intenerito, strizzar l'occhio al “concettualismo”»59.   Sempre nel 1974 si ebbe la personale genovese  alla Galleria Unimedia per la quale Saguineti imple-  mentò la troppo riduttiva definizione del Galvano  “doppio”, critico e pittore, trascendendo anche nella  saggistica e nella filosofia e invitando a vedere «con  totale persuasione [...] la forza della sua lezione [...]  rispecchiata, con eguale fedeltà, nelle sue pagine e  sopra le sue tele». Il discorso si reiterava anche nello  scritto critico di Argan che chiudeva con un interro-  gativo dal quale Galvano non si discostò mai: «Che  cos'è la pittura?». «Ciò che vuol sapere è che cosa sia  la pittura in questa precisa condizione della cultura,  della coscienza, dell’esistenza, e quale il suo grado  di vitalità, quali le sue possibilità di sopravvivere in  uno spazio ogni giorno più ristretto»”.   Tra la ripresa dopo l'interruzione pittorica e  il 1974 si ricordano infine le puntuali presenze a  collettive con cadenza annuale come la Promotrice  delle Belle Arti e le mostre del Piemonte Artistico e  culturale di Torino; le rassegne estive di Torre Pellice  e due edizioni dell’Incontro di artisti piemontesi e liguri  a Bordighera Dal 1975 si reimpose per Galvano un nuovo  approccio rivolto alle forme naturali: la ripresa  di una figurazione espressionista pervasa d’un  realismo quasi visionario e il fascino recuperato,  come confessò lo stesso artista, per le gidiane  «nourritures terrestes». Galvano sembrò sentirsi  quasi responsabile d'un tradimento verso la pittura  allorché, per coerenza, operò una «sintesi tra l’ele-  mento naturale e il non figurativo che gli consentì       54 A. Galvano, Personale di Albino Galvano, in 25° mostra d’arte  contemporanea, catalogo della mostra, Scuole comunali, Torre Pel-  lice 1974.   55 A. Galvano, Autobiografia cit., p. 21.   56 E. Sanguineti, in catalogo della mostra, Galleria Unimedia,  Genova 1974.    57 G.C. Argan, in catalogo della mostra Galleria Unimedia, cit.       SZ    Nella bottega dell'antiquario.    un'impaginazione astratta servendosi di forme non  inventate, non di natura cerebrale ma veramente  esistenti»,   Riemerse, con la serie dei Cespugli (fino al  1977 circa), la fascinazione per i cespi di iris, tema  dominante di inizio anni Sessanta, ma questa volta  non più giocato con la «gestualità irruente» del  colore spremuto direttamente sulla tela, eredità del  linguaggio informale, ma attraverso un sedimen-  tato approccio di sottili velature di pittura a olio  utilizzata come gouache che si rifaceva alle delicate  tinte dei moduli di qualche anno precedenti. Gli  sfondi bianchi svuotati erano percorsi esplicita-  mente da segni grafici e scritte che sembrarono  dischiudere uno spiraglio perfino alla poesia  visiva. Fu Galvano stesso, riferendosi a questi la-  vori — esposti in una personale del 1977 presso la  Galleria Weber di Torino — a parlare di «archetipo  floreale» dove «il fiore dell’iris scandisce l’intrico  dei segni, grafismi di parole o di immagini, altre  volte rigidamente modulari o, almeno non anco-  ra piegati all’allusione significativa. ‘“Cespugli” Spinardi, in catalogo della mostra, Piemonte Artistico e  Culturale, Torino perciò in contrapposizione ai glifi dell’”alfabetico  asemantico” e dei griffonages che li avevano, verso  la fine del 1974, preceduti»®?.   Dal 1978 e fino al concludersi del decennio seguì  la serie dei Motivi vegetali (Ciottoli, Foglie, Frutti, Relitti).  La riappropriazione di una rappresentazione ottica-  mente realistica fu solo apparente; il candore neutro  dei fondiesaltava una suggestione di tridimensionalità  attraverso la scansione prospettica degli oggetti. Tali  elementi solitari erano estraniati dal loro contesto  naturale e inseriti negli spazi illusori di questa pittura  d’assenza.   Sul cadere diogni riferimento a contenuti simboli-  ci «o anche solo sentimentali» della pittura di Galvano,  ne scrisse Renzo Guasco in un testo che introduceva  lagrande mostra retrospettiva dell'artista organizzata  a Torino nel 1979 dalla Regione Piemonte. Tali opere,  per Guasco, «non sono più emblemi né simboli che  rimandano a un ulteriore significato. Per essi si può  forse parlare di “sospensione di senso” (per usare un  termine di Barthes), di un muto stupore di fronte alla  vita e alla natura. Le foglie morte e i relitti di Galvano  rifiutano il significato, e quindi ogni commento, o  spiegazione. Il cespuglio spezzato è solo un cespuglio  spezzato; le foglie, anche se rosse, autunnali, non sono  les feuilles mortes»®.   Con avvio del decennio Ottanta ne i Paesaggi  (Rocce, Alberi, Isole) vi fu il riutilizzo di una stesura  cromatica che spesso occupava l’intera tela con un  conseguente recupero dell'effetto tonale. Gli spazi  desolati, le «muse inquietanti», che Galvano propose  in questa fase suggerirono a Paolo Fossati richiami alla  pittura metafisica. «Luoghi, intanto, vuoti, svuotati di  allotrie presenze, come è giusto siano le radure vuote  e silenti, per il camminante che vi si ferma a pensare  e meditare. Luoghi di pensiero e di inconsci sofismi:  con i relativi feticci oppure archetipi, teste in gesso  di eroi, manichini nel pictor optimus; rami sassi acque  per Galvano»®!.   L'artista in età avanzata, provato dalla difficoltà  dell’offuscamento della vista, con le serie di guazzi su  carta di Nudi e Macchie sperimentò infine, una pittura  liquida fatta di segni colantiin un'inversione di «sgor-  bi cromatici di netta matrice informale»? Nel 1988  confessava ai lettori del catalogo della Galleria Micrò  (una delle sue ultime mostre): «Ancora una volta ho  voltato gabbana e me ne scuso a chi può dare fastidio,  Galvano, in catalogo della mostra, Galleria Weber, To-  rino 1977.   60 R. Guasco, in N. Pizzetti e G. Givone (a cura di), Albino Gal-  vano cit., p. 16.   61 P. Fossati, Per un omaggio a Galvano, in P. Fossati, F. Garimol-  di e M. C. Mundici (a cura di), Omaggio a Albino Galvano, catalogo  della mostra, Circolo degli Artisti, Torino, Electa, Milano 1992, p.  iz.   62 A.Galvano, in catalogo della mostra, Galleria Micrò, Torino  1988.    ma vorrei ricordare che vi è stata una mia stagione di  “eriffonages” [...] che a questi fogli ultimi molto si  apparenta, anche se là il segno prevaleva, monocromo  [...]. Perciò dico a mia difesa — il diritto di difendersi  è sempre riconosciuto ai colpevoli — “versatilità, ca-  pricciosità sì, incoerenza no”»®.   Molti furono gli spazi espositivi torinesi che ac-  colsero le personali di Galvano inquadrando la sua  ultima fase pittorica, tra cui: la Galleria Weber (1977),  il Piemonte Artistico e Culturale (1982), la Galleria  Cittadella (1981 e 1984) e la Galleria Micrò (1988).  Occasioni extracittadine rilevanti furono presso la  Galleria Morone di Milano (1979), la Galleria Villata  a Cerrina Monferrato (1980) e la bipersonale insieme  a Gino Gorza presso Palazzo Te a Mantova (1988). Si  rammentano poi l’antologica presso la Galleria La  Cittadella di Torino con opere dal 1930 al 1950 (1976);  la vasta esposizione del 1979 organizzata dalla Regio-  ne Piemonte presso Palazzo Chiablese di Torino che  esplorava l’intera carriera dell'artista (corredata da  un notevole apparato critico in catalogo) e le mostre  retrospettive del 1989 e 1990 alla Galleria Accademia  di Torino.   Costanti furono inoltre le partecipazioni a collet-  tive come alla Promotrice torinese (dal 1975 al 1979),  alla Galleria Martano (1976) e all'esposizione Torino  tra le due guerre presso la Galleria d’arte moderna di  Torino. Infine, nell’ambito della rinnovata attenzione  perlostoricizzato Movimento Arte Concreta, Galvano  figurò in svariate mostre a: Cavallermaggiore (1980),  Torre Pellice (1983), Gallarate (1984), Aosta (1987).   Albino Galvano morì il 18 dicembre 1990 a Torino  all’età di ottantatré anni.   La dichiarazione conclusiva sugli intendimenti  di una pratica pittorica perseguita per l'arco di una  vita intera è affidata a Galvano stesso e permette di  afferrare almeno un aspetto di questa multiforme e  primaria figura di artista, critico e intellettuale italiano  del Novecento. «Di una sola coerenza credo di poter-  mi vantare, ma è coerenza che in qualche modo mi  sequestra al di fuori di tanta arte contemporanea: la  fedeltà alla tela, al colore ai pennelli. In parole povere  ho sperimentato molto, forse troppo e troppo disper-  sivamente, ma non mi sono mai sentito vicino alle  ricerche di chi avevarifiutato o cercato un'alternativa ai  mezzi tecnici — che poi vuol dire anche espressivi — di  una tradizione che va dal Cinquecento agli impressio-  nisti, ai fauves, agli espressionisti. Fedeltà o incapacità  di uscire dalla routine? Non sta a me deciderlo. Ne  rivendico la responsabilità o il merito».    63 bid.  64 A.Galvano, in catalogo della mostra, Palazzo Te, Mantova 1988.       26       Seconda metà anni Settanta.       Alla presentazione del volume "La pittura, lo spirito e il sangue", 1988.    Da discepolo a interprete. Albino Galvano e Felice Casorati    Alessandro Botta    “Quando, a vent'anni, mi presentai alla Scuola di  via Galliari, cioè allo studio di Felice Casorati, avevo  dietro le incerte aspirazioni dettate da una pretesa mia  attitudine al disegno [...]. Poco, ma abbastanza, insie-  me alla passione per la storia dell’arte, perché seguis-  si con attenzione sulle riviste (specialmente “Empo-  rium”) le Biennali veneziane del 1926 e del 1928 che  mi educarono al gusto per l’arte contemporanea”.  Con queste parole Albino Galvano apre la sua auto-  biografia scritta per una mostra retrospettiva torinese  del 1979, definendo sin da subito le proprie origini di  formazione e circostanze di aggiornamento. Nato nel  1907, “anno in cui, con le Demoiselles’ di Picasso, l’arte  occidentale vedeva chiudersi il ciclo iniziatosi alla fine  del duecento”? si iscrive al liceo classico Cavour insie-  me a Giulio Carlo Argan (“eravamo vicini di banco”),  e presto interrompe gli studi per dedicarsi interamente  alla pittura, seguendo inizialmente le indicazioni di ar-  tisti intercettati attraverso le conoscenze familiari.‘   Un temperamento vivo e curioso, il suo, che più  che seguire le letture e gli studi che il percorso scola-  Stico gli impongono, preferisce accrescere le proprie  conoscenze con una formazione isolata, fatta di letture  personalissime: “Mi seppellivo cinque-sei ore al giorno  in biblioteca — sostiene in un'intervista —. Lì incomin-  ciai a leggere ‘La Critica’. Nel’25 avevo letto Bergson” 5  Nell’atteggiamento che caratterizza il giovane artista,  concentrato ad inseguire le proprie passioni piuttosto  che le strade già battute, si può forse leggere una conti-  nuità nella scelta di rivolgersi a Casorati come maestro,  una decisione non così scontata in una Torino dove gli  orientamenti estetici erano ancora influenzati dall’in-  gombrante figura di Giacomo Grosso e dall’insegna-  mento della paludata Accademia Albertina.   Galvano ha una fascinazione improvvisa verso  l'artista torinese, arrivata attraverso l'osservazione di-          1 A. GALVANO, Autobiografia, in N. PizzETTI, G. Givone (a cura  di), Albino Galvano, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Chia-  blese, 21 dicembre 1979 - 13 gennaio 1980), Regione Piemonte,  Torino 1979, p. 17.   2 Ibidem.   3 G. C. ARGAN, Albino Galvano [presentazione], in XXVIII Bien-  nale di Venezia, catalogo della mostra (Venezia, giugno - ottobre  1956), Alfieri Editore, Venezia 1956, p. 213; “Non eravamo tra i pri-  mi della classe: troppe cose c'interessavano, che non avevano nulla  a che fare col programma, e ne discutevamo per interi pomeriggi,  dimenticando le versioni di latino e i problemi di matematica. For-  se quell’amicizia di ragazzi ci costò qualche esame a ottobre ma,  almeno per me, non fu un'esperienza inutile” (Ibidem).   4 Galvano parla di “un apprendistato presso il Vannini, ma-  estro di disegno a cui ero stato indirizzato dal pittore Giovanni  Pisano amico di famiglia, che avevo avuto spesso occasione di  veder al cavalletto” (A. GaLvano, Autobiografia [1979], cit., p. 17).  ©) [Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], in P. Fossati, F.  GarmoLpi, M. C. Munpici (a cura di), Omaggio a Albino Galvano,  catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 23 gennaio - 1°  marzo 1992), Electa Piemonte, 1992, p. 140.    Ud       Albino Galvano alla mostra personale di Palazzo Chiablese, Torino,  1979. Archivio Storico della Città di Torino, fondo "Gazzetta del Popolo".    retta di alcuni suoi dipinti presenti nelle collezioni del  museo cittadino: “Alla Galleria di Torino — sostiene egli  stesso nell’autobiografia del 1952 — mi erano cioè pia-  ciuti piuttosto i bianchi di tempera con il rosso dei co-  ralli o il cielo spugnoso del bozzetto per il ‘Ritratto del-  la signora Wolf” che il neoquattrocentismo del ‘Ritratto  della sorella’”.. Prime indicazioni attestabili dopo il  1926, sintomatiche di un interessamento che si rafforza  man mano e che è destinato a diventare decisivo per il  suo ingresso nella scuola dopo la visita alla Biennale  veneziana del 1928, nella quale Casorati espone,” oltre  ad otto dipinti, anche due statue destinate al proscenio  per il teatro Gualino. Galvano è colpito, in questa occa-  sione, ‘“[dal]l’azzurro o il paglierino di stoffe e legni in  ‘Daphne’ che le pose ricercate dei nudi”.       6 A.GALVANO, [autobiografia], in Albino Galvano, catalogo del-  la mostra (Asti, Galleria La Giostra, 1952), Asti 1952, p.n.n.; rela-  tivamente ai dipinti di Casorati citati si veda il catalogo generale  dell'artista G. BERTOLINO, F. PoLi, Felice Casorati. Catalogo generale.  I dipinti (1904-1963), 2 voll., Allemandi & C., Torino 1995, nn. 188  (1922), 250 (1925). Da qui in poi citato come (Bertolino, Poli).   7 A. GALVANO, [autobiografia] [1952], cit., p. n.n. Relativamen-  te alla Biennale del ‘28 scrive: “Quella del 1928 volli visitarla di  persona e vi fui impressionato specialmente da Felice Casorati,  sicché decisi, scoperto che abitava a Torino, di iscrivermi alla sua  scuola.” (Ip., Autobiografia [1979], cit., p. 17).   8 Ibidem;inquell’occasione, oltre al Ritratto di Daphne (1928) (Ber-  tolino, Poli 328), Casorati espone l’opera Ragazze dormenti (o Mozart)  (1927) (309), ricordata da Galvano nel suo racconto autobiografico.    L'ingresso alla scuola, avvenuto probabilmente  verso la fine dell’anno o all’inizio di quello successivo,  lo vede inserirsi in un ambiente già consolidato, ac-  cresciuto notevolmente d’iscritti rispetto al nucleo  fondante di stretto discepolato del suo studio “che sta  tra l'accademia e il monastero” del 1921.!° La “Scuola  libera di pittura”, inaugurata nel 1927 in via Galliari  33, è ormai una realtà pubblica, che riunisce maestro  e allievi e li vede impegnati come fronte coeso nelle  esposizioni cittadine e nazionali.!   La serietà e la dedizione alla pittura sono le ca-  ratteristiche fondamentali che danno l’accesso alla  scuola: lo si ricava dalle impressioni che risuonano  con continuità tra i commenti e i ricordi degli allievi  che in tempi diversi affrontano l’alunnato casoratia-  no.! Galvano non fa eccezione: “L'accoglienza fu,  come era nel suo stile, di una signorile severità”.!  Ma, al di là delle incertezze iniziali, il maestro sem-  bra essere più colpito dalla spiccata vivacità intel-  lettuale del giovane allievo piuttosto che dalle sue  capacità pittoriche: “credo che — sottolinea Galvano  raccontando di se stesso — abbia avuto subito per  l’uomo la simpatia e la stima che poi sempre mi di-  mostrò, forse assai più scarsa la fiducia nelle mie  possibilità di pittore, il che mi fu ottimo stimolo a  intestardirmi e ad impegnarmi a fondo”!   Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del  1929 lo scolaro “intelligente ma noioso, predicatorio”,  secondo il ricordo di Lalla Romano (anche lei discepola  di Casorati),'° presenta le sue opere per la prima volta  con il gruppo di allievi alla II Esposizione d’arte allesti-  ta nello studio di via Galliari. L'esposizione “intima”,  alla sua seconda edizione, è aperta al pubblico di inte-  ressati (a visitarla, sono perlopiù personalità del milieu  intellettuale antifascista cittadino) e vuol essere una  “raccolta dei lavori più notevoli eseguiti dagli allievi  nello scorso anno”.!° La prova generale della scuola  non sembra però garantire a Galvano l’accesso all’im-    9 Galvano, a molti anni di distanza, fissa la sua presenza nella  scuola “dalla fine del 1928 a quella del 1930” (A. GaLvano, Auto-  biografia [1979], cit., p. 17).   10 P. GOBETTI, Felice Casorati pittore, Torino [1923], p. 91.   11 Perunostudiosulla scuola di Casorati e sulle vicende espo-  sitive della stessa si veda V. CavaLLaro, La scuola di Casorati, tesi  di laurea, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli Studi di  Torino, 2012, relatore: F. Rovati; F. Poi, V. CavaLLaro (a cura di),  La scuola di Felice Casorati ed Andrea Cefaly, catalogo della mostra  (Catanzaro, Complesso monumentale di San Giovanni, 26 ottobre  — 26 novembre 2017), Rubettino, Soveria Mannelli 2017.   12  testimonianze e memorie dei suoi discepoli, in C. Pianciola (a cura di),  Il critico e il pittore. Gobetti, Casorati e la sua scuola, Aras Edizioni,  Fano 2018.    13 A. GALVANO, Autobiografia [1979], cit., p. 17.   14 Ibidem.   15. L. Romano, Una giovinezza inventata, Einaudi, Torino, 1979,  p. 192.   16 E. PauLuccCI, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in “Le Arti    Plastiche”, 16 novembre 1929, p. 2.    Su questo argomento si veda A. BOTTA, Felice Casorati nelle. minente esposizione alla Galleria Valle di Genova — or-  ganizzata probabilmente da tempo e inaugurata nel  gennaio del nuovo anno -, che vuol essere l’occasio-  ne per riunire una selezione più stretta degli allievi.!”  Dovrà attendere ancora qualche mese, in primavera,  prima di assistere alla presentazione di un suo dipinto  (accolto per accettazione dalla Giuria) alla Biennale del  1930.!* Riuniti attorno al maestro, gli allievi di Casorati  — otto in totale — occupano la sala 30, attigua alla fortu-  nata e discussa retrospettiva di Modigliani ordinata da  Lionello Venturi, che non manca di far nascere alcune  corrispondenze e letture parallele con le opere dei ca-  soratiani.   Da questo momento in poi Galvano incomince-  rà ad essere presente con continuità alle mostre della  scuola. Una conferma che arriva già a poche settima-  ne di distanza con la partecipazione alla 88° esposizione  della Società Promotrice delle Belle Arti con ben quattro  dipinti. Ancora alla fine dell’anno il suo nome si regi-  stra tra gli allievi presenti alla III Esposizione d’arte di  via Galliari,' mentre nel gennaio del 1931 viene segna-  lato come uno dei “casoratiani” che espongono - que-  sta volta senza il maestro — alla mostra torinese degli  “Amici dell’ Arte”.   Se fino a questo momento le opere di Galvano  non sembrano sollecitare più di tanto l'interesse della  critica — forse perché il modello del maestro è troppo  riconoscibile nella sua pittura —, l'occasione della I Qua-  driennale d'Arte Nazionale di Roma del gennaio 1931  apre ad un interessamento che coinvolgerà da lì in poi  anche il giovane artista torinese, presente con il dipinto  Estate, riprodotto per l'occasione sulla nota rivista mi-  lanese “La casa bella”?!   Galvano, ancora coeso al gruppo almeno fino al  marzo di quell’anno (la sua presenza è confermata in  una mostra di “scuola” allestita alla galleria Milano),  Esposizione dei pittori Casorati, Bay, Bionda, Bonfantini, Mar-  chesini, Maugham, Mori, prefazione di G. Pacchioni, catalogo della  mostra (Genova, Galleria Valle, 20 gennaio - 3 febbraio 1930), Ge-  nova 1930.   18. Sitratta del dipinto Paese con un ponte; cfr. Catalogo XVII Espo-  sizione Biennale Internazionale d'Arte 1930, catalogo della mostra  (Venezia, maggio - novembre 1930) Venezia 1930, sala 30, n. 18.   19 Cfr. E. Pautucci, Cronache torinesi. Scuola di Casorati, in “Le  arti plastiche”, 16 gennaio 1931, p. 2.   20 Cfr.E. ZANZI, Cronache torinesi. La mostra degli “Amici dell’Ar-  te”, in “Emporium”, vol. LXXIII, n. 433, gennaio 1931. pp. 50-51.  21. P. Torriano, Cronache d’arte. Note alla I Quadriennale, in “La  casa bella”, marzo 1931, p. 57. Relativamente alla partecipazione  degli artisti piemontesi alla rassegna romana si veda L. IAMURRI,  Levi, Paulucci e gli altri. Presenza torinesi alla Quadriennale, in M.  Cossu, C. MicHELLI (a cura di), Cultura artistica torinese e politiche  nazionali 1920-1940, catalogo della mostra (Roma, Galleria Nazio-  nale d'Arte Moderna, 16 dicembre 2004 - 13 febbraio 2005), Electa,  Milano 2004, pp. 58-60.   22. Cfr. Bay, Bionda, Bonfantini, Casorati, Chicco, Cremona, Donati,  Galvano, Levi, Maugham, Marchesini, Mennyey, Mori, catalogo del-  la mostra (Milano, Galleria Milano, 1° - 15 marzo 1931), Milano Copertina del catalogo della mostra alla Galleria Milano, Milano 1931.    incomincia a dar segni di cedimento rispetto allo sta-  tuto casoratiano e nei confronti della scuola. Un di-  Stacco progressivo che si rende evidente nell'esercizio  Stesso della pittura, che lo vede ricercare una propria  indipendenza e nuove vie di espressione. La Promo-  trice del 1931 diventa per lui un terreno di confronto  nel quale presentare le più recenti ricerche, filtrate at-  traverso nuovi modelli nel frattempo subentrati e ma-  turati, chiariti con lucidità — a distanza di anni — dallo  Stesso artista:    Mi affascinavano il tentativo di ricostruzione formale  del mio maestro e, contemporaneamente e contradditto-  riamente, gli esiti dell’impressionismo e postimpressio-  nismo, sia nelle loro accezioni originali sia nelle riprese  locali dei Sei e, in genere, la pittura di colore e di tocco,  ovviamente legata a una visione naturalistica. Nel du-  plice e, in certo senso, contraddittorio intento di tener  Insieme i valori plastici di Casorati e quelli cromatici dei  Sei il risultato diveniva naturalmente pesante, impasta-  to, anche perché subivo fortemente l'influenza di una  certa pittura francese [...], o meglio di una pittura che  si faceva in Francia spesso da stranieri, [...] che allora  agli inizi degli anni trenta mi affascinava dalle pagine di  “L'Art Vivant”.®    Assente il maestro, Galvano è presente con tre ope-  re. La Composizione con figura, in particolare, riprodotta       23. A. Galvano, Autobiografia [1979], cit., p. 18.    29    sia in catalogo che sulla rivista “Emporium”,’° mostra  gli esiti dell'aggiornamento condotto sugli esempi dei  post-impressionisti francesi e sulle proposte figurative  dei “Sei” (sciolti ufficialmente, come gruppo, proprio nel  731), che si riconoscevano nella linea di rinnovamento  dell’arte contemporanea tracciata da Lionello Venturi.®   Il passaggio, da questo momento in poi, è breve.  Complice un disfacimento generalizzato della scuola  stessa, il pittore, alla mostra degli “Amici dell'Arte” al-  lestita nell'autunno del medesimo anno, è considerato  già da tutti un ex allievo.?? Ma la sua fedeltà al maestro  e l'amicizia che li lega lo vedranno partecipare ancora  ad una mostra di “scuola”, allestita nel teatro di Pavia  all’inizio del 1932. Accanto agli ex compagni, Galva-  no diventa una presenza eccentrica. Le sue opere, che  spaziano tra i generi (dalla natura morta al paesaggio),  mostrano la sua indecisione circa la strada da intra-  prendere, alla luce delle più recenti scoperte, passando  “da l’espressionismo a l'impressionismo senza un atti-  mo di esitazione”.   La “rottura” con Casorati — 0 presunta tale —, coin-  cide con il suo esordio di critico e con il suo avvicina-  mento a Lionello Venturi, al quale viene introdotto dal  suo compagno di studi Giulio Carlo Argan.* Nel lu-  glio del 1932 Galvano pubblica il suo primo contributo  sull’illustre rivista trimestrale “L'Arte”, che a partire  dal 1930 vede Lionello impegnato nella condirezione  accanto al padre Adolfo. La presenza del figlio, pro-  fessore all’Università di Torino, apre il periodico al di-  battito sulle arti contemporanee, fino a quel momento  escluso dai contenuti tradizionali della rivista. Il saggio  Armando Spadini e il gusto degli impressionisti? mostra  l'avvicinamento di Galvano alla critica venturiana, già  evidente nel titolo del contributo (che riecheggia il più  celebre volume del 1926)" e che si conferma nei conte-  nuti e nel soggetto stesso dell'articolo.    24 E. ZANzZI, Cronache torinesi. Dopo ottantanove anni... L'Esposi-  zione Interregionale della Promotrice di B. A., in “Emporium’”, vol.  LXXXIV, 443, novembre 1931, p. 307.   25 Alberto Rossi, sulle pagine de “L'Italia letteraria”, sottolinea  come Galvano sia ormai “teso a tutt'uomo alla ricerca di costru-  zioni personali” (A. Rossi, Una mostra interregionale, in “L'Italia  letteraria”, 12 luglio 1931, p. 4), mentre Emilio Zanzi, su “La Gaz-  zetta del Popolo”, rileva come la distanza -tra allievo e maestro-  sia ormai sensibile sia da un punto di vista cromatico che formale:  “Il giovane Galvano - fa notare - sta liberandosi dai grigi e dalle  tristezze casoratiane e ora si esperimenta, con accortezza e con  gusto, nelle esperienze di Matisse e di Friesz” (E. z. [E. Zanzil],  L'arte al Valentino. La terza Mostra regionale del Sindacato delle Belle  Arti, in “Gazzetta del Popolo”, 14 maggio 1931, p. 6).   26 Cfr.e.z. [E. Zanzi], Agli “Amici dell'Arte” pittori, scultori, ar-  chitetti, decoratori. La mensa degli avieri ideata da S. E. Balbo, in “Gaz-  zetta del Popolo”, 10 ottobre 1931, p. 7.   27, P.A.Sornini, Alla mostra Casorati II, in “Il Popolo di Pavia”,  27 gennaio 1932, p. 3.   28 Cfr. A. GALVANO, Autobiografia [1979], cit., p. 17.   29  In., Armando Spadini e il gusto degli impressionisti, in “L'Arte”,  vol. III, nuova serie, IV, luglio 1932, pp. 318-331.   30 LL. VENTURI, Il gusto dei primitivi, Zanichelli, Bologna 1926.    Accanto all'impegno pittorico, piuttosto in crisi  in questo periodo (“per una dozzina d'anni, mi mossi  un poco a casaccio”), Galvano intraprende gli studi  universitari presso la Facoltà di magistero. Una scelta  che è dettata non tanto dalla sua ben nota passione per  le materie letterarie e filosofiche o dalla sua curiosità  innata, ma più semplicemente da “problemi economi-  ci” che lo obbligano “in fretta e furia a prendere una  laurea e ad iniziare l'insegnamento in istituti privati”  La fine del suo percorso di studi, che si conclude con  una Tesi sulla pedagogia della religione discussa con  Angiolo Gambaro e Nicola Abbagnano, coincide con  la ripresa dell'attività di critico ma anche di saggista,”  che si fa particolarmente intensa a partire dal 1938 e  che lo vede collaborare con le riviste “Il Selvaggio” ed  “Emporium”.   AI di là dell'abbandono della scuola di Via Gal-  liari, Casorati resta per Galvano un solido punto di  riferimento, non tanto come esempio figurativo o di  pratica pittorica da seguire, ma come rappresentate di  un modello culturale autorevole e indipendente pre-  sente in città. L'amicizia tra i due, avviata alla fine degli  anni Venti e riconfermata in più occasioni, sembra in  questo giro di anni intensificarsi ulteriormente, antici-  pando il sodalizio che porterà alla pubblicazione della  monografia per la collana “Arte Moderna Italiana” di  Scheiwiller nel 1940, dedicata integralmente al mae-  stro.”   A partire dal 1938 (fino al 1942) incomincia a col-  laborare con “Emporium” occupandosi di curare la  sezione Cronache torinesi del mensile. Questo nascente  incarico gli permette di affrontare e commentare l’atti-  vità artistica piemontese, confrontandosi con un uni-  verso legato ad una rivista nota ed ampiamente diffusa  e discussa. Casorati è sempre presente nei suoi articoli:  viene seguito passo passo da Galvano sia nelle vesti di  pittore che di organizzatore culturale, offrendo in spe-  cial modo la propria attenzione all'impresa della galle-    31 A.GALVvano, [autobiografia] [1952], cit., p. nn.   32. [Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], cit., p. 138.   33. Da ascriversi sempre al rapporto con Venturi sono i tre vo-  lumi di Galvano, apparsi a partire dal 1938 per l'editore Nemi  di Firenze (L'arte egiziana antica [1938]; L'arte dell'Asia occidentale  e centrale [1938]; L'arte dell'Asia orientale [1939]), pubblicati nella  collana “Novissima enciclopedia monografica illustrata”.   34  “Casorati [...] sapeva rispettare la personalità dell'allievo  anche quando non era affatto d'accordo sulla visione dell’allie-    vo. Infatti quei pochi che sono venuti fuori tra i molti che c'erano -    Bonfantini, Chicco, Paola Levi Montalcini, ed io, ci siamo subito  allontanati da Casorati pur restando suoi amici, pur essendo sem-  pre aiutati da lui sul piano pratico per mostre ed esposizioni. [...]  Ma la Montalcini ed io siamo passati negli anni Cinquanta all’a-  strattismo, poi all’informale, tutte cose che Casorati... ma non ci  ha mai tolto né la sua amicizia né la sua protezione. In questo era  veramente un grandissimo signore” ([Intervista di L. Lanzardo  ad A. Galvano], cit., p. 141).   35 A. GALvano, Felice Casorati, Arte moderna italiana n. 5, Serie  A - Pittori - n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1940.    30    ria “La Zecca”, avviata dal maestro a Torino insieme a  Enrico Paulucci in via Verdi 15.5   Se appare piuttosto chiaro come Galvano tenti —  con i mezzi a sua disposizione — di promuovere e so-  stenere l’amico Casorati nelle sue molteplici attività, il  maestro, dal canto suo, cerca di aiutare il suo ex-allievo  nel suo percorso di pittore. È lo stesso Galvano a di-  chiarare apertamente, molti anni più tardi, come la sua  affermazione al Premio Bergamo sia in realtà frutto di  un aiuto arrivato dallo stesso maestro: “Casorati era  molto potente [...] mi fece accettare [al Premio Berga-  mo], mi fece sempre dare qualche premio, per cui mi  trovai agganciato”. Presente con continuità dal 1939  al 1942, Galvano si aggiudica per ben tre anni i pre-  mi in denaro del concorso. Solo nella seconda edizio-  ne non compare tra i vincitori, ma la sua opera viene  acquistata dal Ministero dell'Educazione Nazionale a  titolo di incoraggiamento.    Il.    Verso la fine del 1940 è data alle stampe la mo-  nografia “Felice Casorati” scritta da Albino Galvano,  apparsa per le edizioni Hoepli di Milano.* La pub-  blicazione si inserisce all’interno dell’ambiziosa col-  lana “Arte Moderna Italiana” inaugurata nel 1925 e  coordinata da Giovanni Scheiwiller, immaginata per  raccogliere — uno dopo l’altro — gli artisti italiani più  noti del tempo, attraverso piccole monografie illustra-  te, introdotte da un testo critico che viene di volta in  volta scelto dall'editore o dall'artista protagonista del  volume. In questo caso, è infatti Casorati a suggerire il  nome del giovane critico a Scheiwiller, incaricandolo  di aggiornare radicalmente la precedente edizione di  Raffaello Giolli, ormai vecchia di quindici anni.”   La piccola monografia di Galvano non si colloca,  all’epoca, come una novità di genere nella letteratura  artistica del pittore, ma rientra in un panorama già  piuttosto sedimentato di studi sul maestro, che si oc-  cupano di fornire uno sguardo complessivo sull'intera  produzione raggiunta sino a quel momento. Il volume       36  Ip., La collezione Della Ragione, in “Emporium”, vol LXXXVII,  520, aprile 1938, p. 220; Ip., Torino. Maccari alla “Zecca”, in “Em-  porium”, vol. LXXXIX, 531, marzo 1939, pp. 161-162. In., Torino.  Mostre alla “Zecca”, in “Emporium”, vol. XC, 537, settembre 1939,  pp. 161-163; Ip., Torino. Mostre alla “Zecca”, in “Emporium”, vol.  XC, 538, ottobre 1939, pp. 203-204.   37. [Intervista di L. Lanzardo ad A. Galvano], cit., p. 138.   38. A. GALVANO, Felice Casorati, cit. Per uno studio sulla mono-  grafia si veda A. Botta, Albino Galvano e Felice Casorati. La mono-  grafia per la collana “Arte Moderna Italiana” di Giovanni Scheiwiller,  tesi di specializzazione, Università degli Studi di Udine, 2014-  2015, relatore: F. Fergonzi.   39 R. Giotty, Felice Casorati, Arte moderna italiana n. 5, Serie  A - Pittori - n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1925. lo studio di Giolli,  infatti, limitava necessariamente l'indagine sull'artista alla prima  metà degli anni Venti.    di Gobetti del 1923,‘ che si propone come una rico-  struzione cronologica del percorso artistico (nonostan-  te la limitatezza della produzione casoratiana) apre la  strada a numerosi tentativi di interpretazione e ordi-  namento dell’opera del maestro, non limitati alle pub-  blicazioni di carattere monografico (il caso successivo  — come si è detto — è quello di Giolli) ma rintracciabili  anche all’interno di contributi meno estesi che, a par-  tire dal saggio di Venturi uscito il medesimo anno su  “Dedalo”, diventano sempre più frequenti nei tempi  a venire, anche sotto forma di presentazioni nei catalo-  ghi delle esposizioni.”   La critica contemporanea studia la produzione di  Casorati secondo principi e approcci molto differen-  ti che, verso la metà degli anni Venti, tendono a farla  rientrare in quel processo di costituzione di un'arte  nazionale ufficiale: un’annessione ai “pittori del Nove-  cento” (non pienamente condivisa dall'artista) che sarà  esplicitata nell'articolo di Margherita Sarfatti apparso  su “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” nel marzo  del 1925* e che contribuirà a determinare una lettura  della pittura di Casorati divisa “tra estetica e lettera-  tura”, destinata a rimanere ancora per molto tempo  identificativa del suo lavoro.   Intorno agli anni Trenta il lavoro di Casorati rien-  tra già nell'ottica di una ricostruzione storica più am-  pia dell’arte italiana ed internazionale: le pubblicazioni  della Sarfatti, di Virgilio Guzzi, di Vincenzo Costanti-  ni, di Anna Maria Brizio e — poco più tardi - di Ugo  Nebbia, esaminano Casorati secondo una prospettiva  generale (con le inevitabili ed ulteriori opinioni con-  traddittorie), ma sono tutte piuttosto concordi a identi-    40 P. Gost, Felice Casorati pittore, cit..  41 L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in “Dedalo”, IV, fasc. IV,  Settembre 1923, pp. 238-261.   42 Ip., Mostra individuale di Felice Casorati, in XIV Esposizione  Internazionale d'Arte della Città di Venezia, catalogo della mostra  (Venezia, aprile - ottobre 1924), Carlo Ferrari, Venezia 1924, pp.  88-89; G. PACCHIONI, Felice Casorati, in Exposition d'’artistes italiens  contemporains, catalogo della mostra (Ginevra, Musée Rath, feb-  braio 1927), Stabilimento grafico Foa, Torino 1927, p. n.n.; A. Rossi,  Felice Casorati, in 21 Artistes du Novecento Italien. Deuxième exposi-  tion du Novecento italien, catalogo della mostra (Ginevra, Galerie  Moos, giugno-luglio 1929), Richter, Ginevra 1929; M. BERNARDI,  25 opere di Felice Casorati nel salone de La Stampa, catalogo della  mostra (Torino, gennaio 1937), Tipografia del giornale “La Stam-  pa”, Torino, 1937, p. n.n. Per una ricognizione sulla fortuna critica  Casoratiana si veda P. THeA, La critica e Casorati: profilo e antologia,  in M. M. LAMBERTI, P. Fossati, Felice Casorati 1883-1963, catalogo  della mostra (Torino, Accademia Albertina, 19 febbraio - 31 marzo  1985), Fabbri Editori, Milano 1985, pp. 141-167.   43. M. SARFATTI, Pittori d'oggi. Felice Casorati, in “Rivista illustra-  ta del Popolo d’Italia”, 15 marzo 1925.   44 In. Storia della pittura moderna, Paolo Cremonese Editore,  Roma 1930; V. Guzzi, Pittura italiana contemporanea. Origini e aspet-  il, Bestetti & Tumminelli, Treves, Roma-Milano 1931; V. COSTAN-  TINI, Pittura italiana contemporanea dalla fine dell’800 ad oggi, Ulri-  co Hoepli, Milano 1934; A. M. Brizio, Ottocento Novecento, Utet,  Torino 1939; U. NEBBIA, La pittura del Novecento, Società editrice  libraria, Milano 1941.  ARTE MODERNA ITALIANA N. 5    ALBINO GALVANO    FELICE CASORATI       1940 - XIX  ULRICO HOEPLI .  MILANO    EDITORE    Felice Casorati, Ulrico Hoepli, Milano 1940.    ficare nell'opera del medesimo una tendenza interna e  personalissima alla corrente novecentista.   Le difficoltà nel rintracciare una linea condivisa  per la sua arte era già stata evidenziata da Giacomo  Debenedetti (intellettuale torinese, come Gobetti, “pre-  stato” anche lui alla critica d’arte) con l'articolo Casorati  e la critica d'arte del 1933, nel quale sottolineava come  “L'arte di Casorati pare fatta apposta per isconcerta-  re gli schemi che la più ‘scientifica’ critica d'arte s'è  data come sicuri oramai ed incontrovertibili”,’° evi-  denziando nelle conclusioni tutte le contraddizioni di  una generazione: “Linea, dunque, no: forma plastica,  no: colore, no: o quanto meno né la linea, né la forma,  né il colore intesi come schemi esclusivi ed esaurien-  ti, nell'accezione data dai critici, che di quegli schemi  si sono fatti, non pure gli interpreti, ma i banditori. E  questa è l’involontaria polemica del Casorati contro la  critica d’arte”.   Davanti a questo insieme di opinioni e approc-  ci differenti, Galvano si dimostra sin da subito molto  perplesso verso i suoi predecessori, affermando in  maniera categorica come “Ciò che è mancato più ad  una critica concludente su Casorati è appunto [...] una  comprensiva ‘lettura’ delle sue pitture”,‘ e sintetizzan-          45 G. DEBENEDETTI, Casorati e la critica d'arte, in “L'Italia lettera-  ria”, 15 gennaio 1933, p. 4.   46 Ibidem.   47 A.GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 28.    do poi, nelle prime pagine della monografia, i termini  di questa fortuna critica — che è anche incomprensio-  ne — sedimentata verso l’artista, almeno fino alla metà  degli anni Venti:    Casorati ha goduto di un momento di fortuna quando la  sua pittura, forse proprio perché meno urtante a prima  vista di quella di altri pittori di avanguardia, ebbe tutti  i suffragi e specialmente a quelli della critica che voleva  essere alla pagina, ma salvando il rispetto per la tradi-  zione [...] Erano i tempi in cui la pittura del novecento  appariva come uno sforzo neoclassico in polemica con  l’arte futurista da una parte, con l’aneddotismo elegante  dall'altra, [...] la pittura di Casorati [...] ebbe una sua  funzione in Italia per liberare il medio pubblico dagli en-  tusiasmi per Grosso, per Sartorio, per Dall’Oca Bianca.*    Rispetto ai precedenti studi la posizione di Gal-  vano è fin da subito ben chiara: risiede nell'approccio  preferenziale con cui affronta l’opera di Casorati, total-  mente inedito sino a quel momento, che viene ribadito  in più punti della monografia.   In apertura del volume il critico-pittore sottolinea  come la sua analisi non si circoscriva a una rilettura  analitica e distaccata della produzione casoratiana, ma  si sviluppi attraverso una consapevolezza fondata sul  ricordo della propria formazione: “Casorati pittore —  scrive richiamandosi ai suoi rapporti col maestro — è  stato per molti della mia generazione una esperienza  di importanza capitale in ordine alla formazione del  gusto e all'orientamento di una cultura non soltanto  limitata a fatti di specie figurativa. La pratica di di-  scepolato presso di lui e la frequente consuetudine  di Casorati uomo, hanno valso ad alcuni di noi come  un'esperienza fra le più profonde e decisive anche per  quanto riguarda la vita morale”!   L'insegnamento di Casorati, oltre a fornire una  solida base di rudimenti pittorici insieme agli stru-  menti per uno sviluppo individuale delle personalità  artistiche, è la chiave — sempre secondo Galvano — per  la comprensione stessa dell’opera del maestro, chiarita  metaforicamente in un passaggio del testo: “Casorati  è uno di quei pochissimi artisti che dopo il rapimen-  to delle muse non rimangono incoscienti di quanto  in loro è avvenuto; lo capiscono ed aiutano a capirlo  agli altri”.°° Un concetto che viene ribadito, in maniera  ancora più chiara, verso la fine del suo lungo contri-  buto per Scheiwiller: “Non molti di noi [allievi] hanno  saputo da quelle parole imparare a dipingere decente-  mente, ma certo tutti a leggere i suoi quadri un poco  meglio”.   Con queste premesse Galvano vuole dimostra-  re come la vicinanza al maestro gli permetta di avere    48 Ivi, p.7.  49 Ivi, p.d.  50 Ivi, p. 6.  51. Ivi, p.32.    32    una visione privilegiata, lucida e fedele del suo lavoro,  elevando la lettura delle opere ad un’originalità vicina  alle intenzioni del maestro, più di quanto gli altri pos-  sano avere.   AI di là degli schieramenti e dei tentativi di cate-  gorizzazione che, a più riprese, hanno interessato il la-  voro di Casorati — tra assimilazione al gruppo novecen-  tista, ascendenza neoclassica 0, ancora, appartenenza  alla poetica metafisica —, Galvano sceglie il sostantivo  “Platonismo” per riassumere gli esiti figurativi ottenu-  ti dall'artista a partire dagli anni Venti," un’indicazio-  ne che gli permette di liberarsi da ingombranti etichet-  te sino a quel momento attribuite all'opera del pittore.   È un'affermazione di Casorati a suggerire a Gal-  vano le basi per un'interpretazione platonica delle sue  opere: il critico recupera esplicitamente una dichiara-  zione del maestro che risale al 1921 espressa a margine  di un catalogo della Galleria Pesaro, nella quale chiari-  sce le proprie intenzioni —quasi programmatiche — di  esercizio pittorico: “Dipingere la verità, dimenticando  la realtà superficiale” 5° Un concetto che viene succes-  sivamente ribadito da Casorati, spogliato delle sue im-  plicazioni categoriche (rinnegate in un secondo tempo  dallo stesso pittore)? in una successiva dichiarazione,  fatta a dieci anni di distanza e riportata nel catalogo  della prima Quadriennale romana, con la quale l’ar-  tista sottolinea ancora una volta come il suo distacco  dalla realtà dei soggetti sia prerogativa fondante del  suo lavoro: “la mia pittura è staccata dalla vita”.>   La posizione “platonica” di Galvano pone il la-  voro di Casorati in netto contrasto con la pittura degli  Impressionisti (che godono invece di una notevole for-  tuna, verso gli anni Trenta, a Torino), collocando il mo-  vimento francese e il maestro torinese su due fronti op-  posti — sia da un punto di vista lirico che tecnico —: un       52  sto di Casorati preferiremmo ad ognuna quella di ‘Platonismo  (Ivi, p. 6).   53 F. Casorati, [Dichiarazione], in Arte italiana contemporanea,  catalogo della mostra (Milano, Galleria Pesaro, ottobre - novem-  bre 1921), Alfieri & Lacroix, Milano 1921; ora in In., Scritti intervi-  ste lettere, cura di E. Pontiggia, Abscondita, Milano 2004, p. 11.   54 “Scrissi allora nel catalogo alcune parole per spiegazione  del mio lavoro e quasi per contrappormi all'arte di quel tempo:  affermavo di voler dipingere la verità, dimenticando la realtà  apparente; di voler indulgere agli errori che spesso sono la sola  ragione dell’opera d’arte... Queste parole furono definite un’ere-  sia estetica; in fondo, però, esse volevano spiegare il carattere di  immobilità, di impassibilità dei contorni decisi di forma, in con-  trapposto al più o meno degenere impressionismo di sfarfalleg-  giamenti colorati, di indecisione ottica, di ricerca del movimento  nel vibrare continuo della luce” (F. CASORATI, in G. MascHERPa [a  cura di], Felice Casorati e il religioso, catalogo della mostra [Milano,  Galleria San Fedele, Milano, 1 marzo - 8 aprile 1983], Milano 1983,  p. 12).   55 E. CASORATI, Presentazione, in Prima quadriennale d'arte nazio-  nale, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle esposizioni, gen-  naio - giugno 1931), E. Pinci, Roma 1931; ora in In., Scritti interviste  lettere, cit., p. 23.    “E infatti se dovessimo trovare una parola per definire il gu-    IN    rifiuto che è categorico e si muove sulla falsariga delle  indicazioni già enunciate dall'artista nella citata pre-  sentazione del 1931: “non ho mai capito il movimento  ‘qui déplace les lignes’, e adoro invece le forme statiche  [...] la mia pittura nasce -per così dire- dall'interno e  mai trova origine dalla mutevole ‘impressione’ }° consi-  derazioni che vengono caricate di significati filosofici,  anche in questo caso, da Galvano:    Al Protagorico impressionismo per cui misura di tutte le  cose è l'uomo individuale, si contrappone dunque il Pla-  tonico Casorati richiamandoci all'ordine di una pittura  dove le cose appaiono reali in quanto hanno la maneg-  giabilità di ciò che dal flusso delle sensazioni è ritagliato  per opera dell'intelletto. Scodelle o uova, teste o seni var-  ranno come categoria.”    Al “degenere impressionismo” Casorati contrap-  pone, secondo Galvano, “i suoi caratteri di immobilità,  di impassibilità, di contorni decisi, di ‘forma’”.*   Alle premesse teoriche fanno seguito le prime  verifiche sulle opere che, a differenza dei precedenti  Studi, non seguono uno sviluppo strettamente crono-  logico ed organico della produzione casoratiana, ma si  Muovono più liberamente, procedendo secondo l’an-  damento del discorso.   | Come nelle antecedenti occasioni di studio, l’ini-  z10 dell'attività pittorica viene fatta coincidere con le  Opere del 1909, che gli valgono le prime attenzioni da  parte della critica alla Biennale di Venezia ed alla mo-  Stra degli Amatori e Cultori di Roma. Le considerazio-  ni che investono il dipinto Le vecchie (1909) e La cugina  (1909)? sottolineano nelle ricerche di Casorati “un sen-  so drammatico della vita teso in un’acuta analisi psico-  logica in cui non manca una punta di sensualità [...],  Ma temperata in una specie di serenità letteraria”’,9  Motivi che si pongono in continuità con le formulazio-  Ni espresse in precedenza sia da Gobetti che da Ventu-  Il, attenti entrambi a rilevare l’attenzione psicologica  ed il senso letterario di queste prime composizioni.‘   ._ Il salto a questo punto si fa subito brusco: l’esclu-  Silone di tutta la produzione degli anni della guerra  (che coincide con il suicidio del padre di Casorati e con  le nuove responsabilità di capofamiglia verso le due  Sorelle e la madre) è in linea con le volontà dell'artista,  che sceglierà di non conservare le opere di quel perio-  do, contraddistinte da un simbolismo e sintetismo de-  Corativo piuttosto anomalo.       56 Ibidem.  957 A. Galvano, Felice Casorati, cit., p.7.  98 Ivi, p. 6.    59 (Bertolino, Poli 40, 50).   90 A. GALvaNnO, Felice Casorati, cit., p. 9.   01 Cfr. P.Gosetti, Felice Casorati pittore, cit., p. 93; L. VENTURI,  Mostra individuale di Felice Casorati, in XIV Esposizione Internazio-  nale d'Arte della Città di Venezia, cit., p. 88.    33    Un passaggio su Le signorine (1912), che “libe-  ro questa volta da preoccupazioni di ordine realistico  ed orientato verso una completa subordinazione alla  composizione”, permette a Galvano di transitare di-  rettamente su Tiro al bersaglio del 1919, anticipando i  problemi di annullamento della terza dimensione già  evidenti nel dipinto.   Per Galvano Tiro al bersaglio rappresenta un’opera  cruciale, da cui parte tutta la produzione più celebrata  dell'artista, quella del periodo immediatamente suc-  CESSIVO:    l’opera significativa ‘Tiro al bersaglio’ (1919) [...]. In essa il  colore e la linea collo scomparire di ogni ricerca della terza  dimensione assumono per la prima volta una organicità che  è davvero il segno dell’impostarsi nella pittura di Casorati  dei problemi di cui anche oggi essa si nutre. Ridotto il qua-  dro, colla completa scomparsa delle ricerche chiaroscurali  e mancando ancora l'ulteriore ricerca spaziale, ad un sem-  plice tappeto di tinte piatte, si comprende facilmente come  linea e colore divengano funzione l'uno dell'altro, tendendo  a uno stato in cui la visione inquietante del pittore raggiun-  ge uno dei più intensi suoi momenti”    Il dipinto, in realtà, aveva sino a quel momento  goduto di una fortuna alterna: tacciato di futurismo  nella prima presentazione pubblica del 1919, è per  Gobetti un’opera dai “rapporti formali [...] indecisi”  ancora legata alla produzione dalla prima metà degli  anni Dieci, un lavoro insomma, che Casorati realizza  come “prova per testimoniare a se stesso la fine del  suo estetismo e la sua incapacità di fermarsi ormai  all'episodio”. La rivalutazione di Tiro al bersaglio,  nei fatti trova, prima di Galvano, un precedente mol-  to prossimo all'uscita della monografia Scheiwiller:  nell'agosto del 1940 Italo Cremona (anch’egli vicino a  Casorati, pur non essendo mai stato allievo della sua  scuola), in maniera analoga a Galvano ragiona sull’im-  portanza del colore e sul principio di astrazione pre-  sente nel dipinto, che anticipa le opere più compiute e  celebrate degli anni Venti:    sottrarre le cose dai variabili accidenti della luce per pe-  netrare invece il colore secondo un processo di intelli-  gente astrazione. [...] In quella curiosa vetrina di oggetti  [...] vivono infatti quei bianchi spettrali, quei colori —fin-  ti-, che sovente ritroveremo nell'aria rarefatta dove re-  spirano le sue figure, anche quelle delle parate familiari  che Casorati ha sovente composto con sincera affettuosi-  tà ma che appaiono pur sempre affacciate a una ribalta,  in uno scenario freddamente preordinato, sul mondo  dal quale l’artista le ha volontariamente allontanate.”       62 (Bertolino, Poli 71).   (Bertolino, Poli 140).   A. GALVANO, Felice Casorati, cit., pp. 10-11.  65 P. GOBETTI, Felice Casorati pittore, cit., p. 96.    Ibidem.  I. CREMONA, Felice Casorati, in “Primato. Lettere e arti d’Ita-    La rivalutazione del dipinto si pone verosimil-  mente in linea con le volontà dello stesso Casorati: l’o-  pera, che dal 1919 trova collocazione stabile nell’abita-  zione dell'artista, è ripresentata nel 1929 ad una mostra  degli allievi e riprodotta per volere dello stesso mae-  stro come prima tavola nella monografia Scheiwiller.®  Un interessamento che viene letto da Galvano come un  “Segno che una pittura senza volume ed una pittura di  colore sembra ancora a Casorati rivelatrice del senso  profondo della sua arte”.   Le opere realizzate a partire dal 1921 aprono la di-  scussione sulla funzione e l’importanza del colore per  Casorati, che viene ampiamente discussa nel testo e  che caratterizza da qui in poi tutta la monografia come  lettura univoca del decennio successivo. Accanto ad  una premessa platonica, che si confronta nuovamen-  te con le opere Meriggio (1923), Lo studio (1923) e Con-  certo (1924), allontanandole da facili letture estetiche,”  Galvano vede in “quegli slarghi formali” di pittura un  anticipo di “un’esperienza di tono che sarà chiarissima  intorno al 1931-32”.   Contrapponendosi alle interpretazioni — che vede-  vano nella linea e nella forma plastica le caratteristiche  fondanti dell’opera di Casorati — Galvano valuta la pit-  tura del maestro come una pittura essenzialmente di  colore,” spingendosi a verificare le intenzioni dell’arti-  sta e giustificare la scelta di determinati soggetti e for-  me piuttosto che altre, proprio in funzione del colore:  “Vi sono dei quadri di Casorati, e talvolta proprio i più  formali a prima vista, come ‘Daphne”? [...] che non si  afferrano in tutto il loro valore se non riferendoli al co-  lore. Casorati ama le forme semplici perché sono quelle  che permettono al colore di stendersi con la sua miglio-  re ampiezza. È strano come questa semplice verità sia  stata tanto spesso fraintesa, non mancando del resto di  contribuirvi la stessa interpretazione che il pittore ha  dato della propria opera”. Una sensibilità tonale che  porta il critico ad accostare come esempio di ‘“straordi-          lia”, I, 11, 1 agosto 1940, p. 19.   68 ‘è quanto mai significativo a questo proposito il fatto che  il pittore abbia tenuto in tempi recenti non lontani ad esporre, ad  introduzione e quasi chiave di sue opere più recenti, quel ‘Tiro  a segno’ piatto e ritagliato fra tutti che volle anche ad inizio di  queste riproduzioni” (A. GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 24).   69 Ibidem.   70 “Il ‘nudo’ e gli analoghi ‘Concerto’, ‘Meriggio’, ‘Studio’, ci  presentano un mondo che si presta ad essere interpretato in modo  equivoco, come estetistico, da chi non tenga presente che per Ca-  sorati quelle platoniche accolte di figure femminili ignude, anche  se esse presentano molta eleganza, non hanno veramente valore  per questa eleganza ma solo per lo snodarsi ritmico dei volumi”  (Ivi, p. 12). Cfr. (Bertolino, Poli 212, 215, 226).   71. A.GAlvano, Felice Casorati, cit., p. 13.   72 “La forma serve [...] a distruggere la linea ed a passare al  colore: essa è, se si vuole, il punto di partenza, ma è proprio il  colore è il punto di arrivo” (Ibidem).   73. (Bertolino, Poli 328).   74 A.GALVANO, Felice Casorati, cit., pp. 13-14.    34       ARTE MODERNA ITALIANA   | FELICE CASORATI       II ed. del volume Felice Casorati, Ulrico Hoepli, Milano 1947.    nario pre-casoratismo” l’opera di Jan Vermeer e di Ge-  orges de La Tour piuttosto che quella di Ingres, riferita  dallo stesso pittore come modello di riferimento alla  propria pittura nel “Referendum sul quadro storico”  del 1929.   A sostegno di questa sua tesi sul colore Galvano  recupera ancora una volta i ricordi dell’insegnamento  del maestro, affrontando questioni di metodo e di pra-  tica pittorica vissuta nello studio dell'artista, dove l’os-  servazione dei modelli veniva condotta non tanto sulla  forma degli oggetti, ma sui valori tonali dei medesimi:    ci limiteremo a notare come quanto resti nel ricordo di  chi è stato alla scuola di Casorati verta essenzialmente  su due punti: l'insieme e il tono. E soprattutto l’insie-  me come forma il più sintetica possibile in funzione del  tono. La forma intellettualistica di un oggetto, proprio  ciò che interessa di più al pittore formale o classico, è ciò  che Casorati consiglia all'allievo di disimparare, la for-  ma che l'allievo deve imparare a vedere il più semplice-  mente possibile è la forma di quella determinata massa  tonale, di quella determinata massa chiaroscurale, non  la forma dell'oggetto.”       75 F. CASORATI, [Risposta al referendum sul quadro storico], in  “Le arti plastiche”, 16 dicembre 1929; ora in Ip., Scritti interviste  lettere, cit., p. 22.   76 A.GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 14. Analoghe impressioni  sì ritrovano in L. RoMAnO, La scuola di Casorati, in “L'Arte”, XXXIII,    La discussione sul colore offre a Galvano il punto  di partenza per affrontare le influenze cézanniane che,  secondo una critica assodata ormai da tempo, avrebbe-  ro avuto un ruolo capitale nell'evoluzione del lessico  pittorico casoratiano, soprattutto per il genere della  natura morta.”   È Venturi, nel 1923,” a offrire per primo quest'in-  terpretazione, individuando nell'esperienza diretta  di Casorati alla Biennale del 1920 (dove, su 28 dipinti  di Cézanne presenti, erano ben sette le nature morte)  il passaggio di svolta tra Le uova sul tappeto verde del  1914 e Le uova sul cassettone del 1920:”? “Le ‘uova’ [...]  del 1913 sono un motivo di bianco su verde, le ‘uova’  del 1920 sono un motivo di forma geometrica solida e  chiara sopra un volume scuro”.8°   Per Galvano, l'avvicinamento al maestro di Aix  è da intendersi come “esperienza più morale che  pittorica”, nella quale l'evoluzione delle sue natu-  re morte rappresenta un processo interno alla pittu-  ra stessa piuttosto che il risultato di quest’incontro:  “[Uova sul cassettone] non si spiega con un riferimento  al costruire tonale del Provenzale nella sua essenza sti-  listica” — puntualizza Galvano - “ma solo col metterlo  In relazione a quello che la pittura di Casorati fu prima  d'allora” 8 Secondo il critico, più che un precedente sti-  listico, la lezione di Cézanne offre la verifica di nuove  possibilità espressive; un punto di vista che trova con-  ferma — più tardi — nelle stesse dichiarazioni del pittore,  che ripercorrono l’incontro con i dipinti alla Biennale  del 1920:    Tutta la grandezza del Maestro di Aix mi si manifestò im-  provvisa. L'emozione che ne provai fu enorme e non fu  un'emozione di sbalordimento o di stupore, che anzi mi  sentii preso da quel senso di calma, di fermezza, di equi-  librio, che solo le opere dei grandi può dare. Equilibrio!  Compresi che nella sua pittura trovava il giusto equilibrio il  problema posto e sviluppato in un senso dell'Impressioni-  smo e il grande opposto risolto da tutta la tradizione; com-  presi l'aberrazione di una certa critica che non si staccava  di insistere sui problemi di Cézanne: capii che proprio, che  Specialmente in quei difetti era il germe della sua grandez-       fasc. IV, luglio 1930, p. 380.   77. Relativamente a questo genere si vedano P. Fossati, Nature  morte di Casorati, in M. M. LamBERTI (a cura di), Casorati. Mostra  antologica, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 27 mar-  ZO - 20 maggio 1990), Electa, Milano 1989, pp. 29-38; G. BERTOLINO,  Dal repertorio di oggetti alle prime nature morte (1910-1920), in ID., F.  PoLI (a cura di), La natura morta nella pittura di Felice Casorati, cata-  logo della mostra (Iseo [Brescia], Sale dell’ Arsenale, 24 maggio-20  luglio 1997), Electa, Milano 1997, pp. 11-22.   78. L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in “Dedalo”, cit.   79 (Bertolino, Poli 114, 162); relativamente alle opere si veda  In particolare M. M. LAMBERTI, Scherzo: uova (o Le uova sul tappeto  verde) e Le uova sul cassettone, in In., P. Fossati, Felice Casorati 1883-  1963, cit., pp. 62-64; 79-80.    80. L. VENTURI, Il pittore Felice Casorati, in “Dedalo”, cit., p. 254  ù A. GALVANO, Felice Casorati, cit., p. 33.    Ivi, p. 16.    35    za. Compresi che Cézanne era il pittore della rinuncia e che   la rinuncia era la forza della pittura moderna. Non cambiai  modo di dipingere, ero troppo inconsciamente orgoglioso  per tentare un cambiamento di rotta che non avrei potu-  to fare in alcun modo. Credetti allora di approfittare della  grande lezione di Cézanne proprio irrigidendomi sulle  mie posizioni e cercando solo in profondità.*    La monografia Scheiwiller, pensata per aggiorna-  re la precedente di Giolli, in realtà affronta solo margi-  nalmente la più recente produzione del maestro, soste-  nendo per le opere più prossime la piena attuazione del  proposito coloristico în nuce già nei primi anni Venti.   Ai ricordi della Biennale del 1924, e soprattutto a  quella del 1928,* Galvano contrappone le opere espo-  ste nei primi anni Trenta: per La lezione (1929), Susanna  (1929) e Lo straniero (1930) pone l'accento su come pre-  valgano in questi dipinti “certe note di rossi improvvisi,  il taglio in controluce, il gusto, almeno nei due primi, di  accostare il nudo ad una figura maschile vestita, un de-  siderio di atmosfera serena che suggerisce lontananze  chiare e assolate” .8# Motivi pittorici che, spogliati degli  elementi accessori (come la copertina del “Selvaggio”  nella Lezione o, ancora, le pantofole rosse di Susanna),  trovano un'ulteriore compiutezza in Daphne (1934) e  Ragazza in collina” delle collezioni dei Musei Civici di  Torino, “soluzioni più aneddoticamente umane [...]  dove il motivo del controluce sulla finestra aperta so-  stituisce figure familiari o umilmente umane ai mani-  chini, mentre il paesaggio si fa sereno [...] ricavato da  quei campi di Pavarolo ormai cari all’artista”.*   Come già sottolineato da Maria Mimita Lamberti,  l'apporto di Galvano si dimostra poi piuttosto illuminan-  te nell'individuare nel tema del nudo una possibile linea  di lettura della sua produzione, sino a quel momento tra-  scurata rispetto al genere più discusso della natura morta.       83 Il passo è riportato in L. Caruccio, F. Casorati, quaderni  d'arte del Centro Culturale Olivetti, Ivrea, All'insegna del pesce  d'oro, Milano 1958, p. 22.   84 ‘Noi veniamo dall'esperienza della generazione per cui i  quadri del ‘24 rappresentarono lo scandalo dell'adolescenza che  ancora confondeva la classicità coll’accademismo e che scorgeva  in quei quadtri, visti alle esposizioni colla famiglia deplorante o  pronta al riso di fronte alle stranezze dell'arte moderna, pur qual-  che cosa di inquietante e di tentatore che non si poteva dimenti-  care [...] i quadri della biennale del ‘28 rappresentarono invece  la scoperta del mondo nuovo e spregiudicato che si apriva alla  nostra cultura” (A. GaLvano, Felice Casorati, cit., p. 15).   85 (Bertolino, Poli, 366, 368, 396). Erroneamente Galvano attri-  buisce il titolo Lo studio al dipinto La lezione esposto alla Biennale  del 1930. L’opera verrà distrutta nell'incendio del Glaspalast di  Monaco del 1931.   86 A.GAlvano, Felice Casorati, cit., p. 22.   87 (Bertolino, Poli 531, 592). Galvano, in realtà, indica il secon-  do dipinto con il titolo Estate. Cfr. A. Galvano, Felice Casorati, cit.  p.iz.    88 Ibidem.  89  M.M.LAMBERTI, I nudi nello studio, in Ip. (a cura di), Casorati.    Mostra antologica, cit., pp. 13-28 (13).       Galvano vi riconosce una traccia di continuità che,  a partire dalle Signorine del 1912 (opera che, secondo il  critico, non è da intendersi come “gruppo” ma come  insieme di figure isolate), arriva sino alla Venere bionda  del 1934, “punto di arrivo e di dissoluzione di quello  che si potrebbe chiamare il ‘tonalismo’ di Casorati”:”  secondo Galvano il motivo del nudo in Casorati si  presenta “come figura essenziale, come una forma ele-  mentare, categorica, simile a quelle delle scodelle, delle  uova, dei libri”, caratteristiche che, alla pari dei sem-  plici oggetti che popolano i suoi dipinti, permettono  quegli “slarghi formali” di pittura, oltre alla “possibi  lità di un tono uniforme”? capaci di confermare la sua  sensibilità di colorista.    III.    A distanza di sette anni dalla pubblicazione la  monografia di Galvano su Casorati viene ristampata,”  aggiornata in alcune sue parti e rivista totalmente per  quanto concerne l'apparato iconografico. È il 1947.   Tra la prima uscita e la riedizione, l’interessamen-  to che il discepolo dimostra nei confronti del maestro  è continuo e si attesta già dall'inizio del 1941 con mo-  dalità simili a quelle che avevano contraddistinto il    suo precedente impegno sulle riviste nazionali. Vi si    affiancano però nuove prospettive lavorative. Proprio  nel 1941, accanto alla sua attività di pittore e di critico  (che in questi anni, oltre alla corrispondenza per “Em-  porium” e alla collaborazione per “Il Selvaggio”, si  amplia con due contributi sulla rivista “Le Arti”) Gal-  vano è impegnato nella nuova veste di assistente alla  cattedra di “Pittura” di Enrico Paulucci presso l’Acca-  demia Albertina di Torino, assegnata contestualmente  anche a Felice Casorati per l'insegnamento di “Com-  posizione pittorica”. Incarichi che vengono entrambi  costituiti ad personam dal Ministero dell'Istruzione nel  contesto dei provvedimenti avviati da Bottai a favore  delle Accademie artistiche. Sono questi, inoltre, gli  anni nei quali Galvano va consolidando una sicurezza  economica stabile — tanto auspicata negli anni Trenta —  grazie all'insegnamento nelle scuole superiori: prima  come professore di figura disegnata nei licei artistici  piemontesi e poi, dal 1942, come docente di filosofia e  storia nei licei classici e scientifici.   La mostra Casorati Menzio Paulucci, inaugurata nel  novembre del 1940 alla Galleria Cigala di Torino, è l’oc-  casione per tornare a parlare di Casorati sulle pagine di    90 A. GaLvano, Felice Casorati, cit., p. 18; cfr. (Bertolino, Poli  501).   sa: «Ivi, p. 20.   92 Ibidem.   93 Ip, Felice Casorati, Arte moderna italiana n. 5, Serie A - Pitto-  ri - n. 4, Ulrico Hoepli, Milano 1947.   94 Cfr. F. Darmasso, Casorati e l'Accademia Albertina, in M. M.  LAMBERTI, P. Fossati, Felice Casorati 1883-1963, cit., pp. 199-205.    36       Copertina e pagine del volume Tre nature morte. Casorati Menzio Pau-  lucci, Carlo Accame, Torino 1942.    “Emporium”, presente in questa circostanza con due  pittori torinesi protagonisti della scena artistica citta-  dina (reduci entrambi dall'esperienza del gruppo dei  “Sei” ), sicuramente vicini a Casorati ma mai allievi di-  retti del maestro: il quarantaduenne Francesco Menzio  e il più giovane (di poco) Enrico Paulucci, con il quale  Casorati ha intrapreso da tempo un rapporto di stretta  collaborazione.”   Il sodalizio dei tre artisti, che non vuol essere un  principio di ricerca comune ma piuttosto un impegno  di politica culturale condivisa, si ripropone più tardi,  in modo analogo, con una mostra allestita alla Galleria  Genova del capoluogo ligure nel febbraio del 1942. La  circostanza è anticipata da una pubblicazione autono-  ma di Galvano, intitolata Tre nature morte e stampata  dalla tipografia Accame di Torino (che pubblica, nello       95 A. Galvano, Casorati, Menzio, Paulucci, in “Emporium”, XCI-  II, 554, febbraio 1941, pp. 93-95.    Stesso anno, la monografia su Casorati di Italo Cremo-  na), in un elegante edizione in folio che riporta come  Sottotitolo i nomi dei tre pittori torinesi.’ In questa oc-  casione — che si propone di presentare sinteticamente  tre opere dei rispettivi pittori, con tanto di riprodu-  zioni a colori — Galvano sceglie la natura morta come  genere esemplificativo della produzione degli stessi.  Un'operazione che nell’introduzione viene definita  come “didattica”” e che si pone in aperta polemica nei  confronti della tendenza a considerare questo genere  come motivo poco adatto alla pittura moderna: “ad  Ogni esposizione abbiamo sentito deplorare l'eccessiva  presenza di nature morte o esaltare per il loro scom-  parire di fronte ai quadri di figura”. Una difesa per  l'autonomia e dignità del genere pittorico, che non si  risparmia nel chiamare in campo i precedenti noti di  Cézanne, Manet ed ancora Renoir.   La questione, in realtà, non è nuova, ma prende  le mosse da un pensiero espresso dal maestro quasi  quindici anni prima, che rappresenta verosimilmente il  pretesto per il contributo di Galvano, che mostra que-  sto taglio così inaspettato. Sulle pagine del quotidiano  torinese “La Stampa”, Casorati lamentava nell’artico-  lo La crisi delle arti figurative i medesimi problemi di  accettazione della natura morta da parte di pubblico  € critica, con presupposti che sembravano essere gli  stessi avanzati ora da Galvano nella sua introduzione:   Ho sentito dire ed ho letto purtroppo parecchie volte  questa frase: troppe nature morte, troppe mele, troppi  aranci, troppi pomodori ecc. [...] poveri oggetti, [...]  vo1 siete i modelli più docili e più esigenti degli artisti  [...] Nei momenti più disperati della mia vita di arti-  Sta, io ho potuto riconciliarmi con la pittura dipingen-  do umilmente una scodella, un uovo, una pera”.?   . La scelta della natura morta casoratiana — vero-  sImilmente selezionata da Galvano — ricade su Le pere  verdi del 1941,!% presentata probabilmente per la prima  volta in questa sede: un’opera che gli permette di riba-  dire il principio coloristico sostenuto nella monografia  del ‘40, che viene qui chiarito con un'attenta analisi          96 Ip., Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, Carlo Accame,  Torino, 1942.  97 “La presentazione di ‘Nature morte’, dovute a tre fra i più  autentici pittori operanti oggi a Torino, potrà anche apparire, ed  essere criticata, come una iniziativa a carattere tendenzioso e po-  lemico. Non sarà forse il caso di affermare che essa ha piuttosto  un intento didattico? E proprio di educazione del pubblico: degli  intelligenti (almeno in potenza, chè degli ostinati per limitazione  Naturale di possibilità, per passione di parte o per difficoltà di  Sclogliersi da presupposti culturali privi di validità non occorre  Hr a comprendere le ragioni per cui, su di una falsa impo-  azione di presupposti, può passare per atteggiamento polemico  9, peggio, di conventicola, il semplice intento di chiarificazione  Intellettuale e critica” (Ivi, p.n.n.).  8 Ivi, p.nn.  "i F CASORATI, La crisi delle arti figurative, in “La Stampa”, 29  ra raio 1928; ora in Ip., Scritti interviste lettere, cit., pp. 19-20.  (Bertolino, Poli 682).    CY    della sua pittura (non priva di tecnicismi del mestie-  re), che si concentra sui valori tonali e sugli accordi  cromatici presenti nel dipinto, che sottendono sempre  — secondo Galvano — a problemi ed equilibri di natura  compositiva:    Sul fondo rosa e paglia un accordo di due verdi: crudo e  spento, e le chiazze rugginose e calde della putredine che  intacca i frutti; solo dal colore prende realtà il fascino di  questa natura morta, eppure il colore qui non evocherà a  nessuno la categoria della ‘forma aperta’ o la scioltezza di  un pittoricismo abbandonato: chè Casorati è anche ora il  pittore delle forme assolute e degli elementari geometrici,  ma il colore ne rivela, per distinguersi dei campi continui e  dilatati, la purezza, anzi il purismo, di impaginazione e ce  ne propone la più castigata presenza.   [...] i colori si subordinano ad una ragione compositiva  a priori [...] in essa si giustifica quel disporsi graduale di  intensità pittorica che può far apparire persino sordo (e  tale veramente sarebbe se non servisse a concentrare ogni  attenzione sull’interno ordinarsi del gruppo centrale, ma  pretendesse di disporsi sul medesimo piano di ‘bel colo-  re’ dei toni vicini) il colore locale; necessario a staccare nel  castigato e serrato gioco compositivo della frutta ritagliati  sul fondo chiaro, dove più i toni non si distinguono nella  vibrante luminosità, la bruciata profilatura delle foglie.!®!    Di respiro ben diverso, invece, è il contributo Fe-  lice Casorati (e i torinesi) apparso un anno più tardi, nel  1943, sulla rivista “Pattuglia” di Forlì.!® Nel numero di  maggio-giugno, dedicato interamente alle arti figura-  tive e curato da Giovanni Testori, Galvano traccia un  bilancio della situazione artistica torinese: accanto a  considerazioni su Casorati in linea con la monografia  Hoepli del 1940, abbandona i ricordi della scuola di via  Galliari proponendo una lettura totalmente rinnovata,  alla luce dei più recenti sviluppi espositivi. Menzio e  Paulucci rappresentano qui (insieme agli altri “Sei”,  che però non vengono nominati) i “giovani pittori che  si erano stretti intorno a Casorati” e che, seppur non  direttamente allievi dell'artista, non “rinnegavano il  debito contratto col primo ideale maestro, né erano da  lui sconfessati: anzi la stima, l'amicizia e la valutazione  dei diversi ed ugualmente validi risultati, da parte del  più anziano rimanevano intatti od accresciuti”."° Una  A.GALVANO, Tre nature morte. Casorati Menzio Paulucci, cit., p.    n.n.  102  In., Felice Casorati (e i torinesi), in “Pattuglia”, 7-8, maggio-  giugno 1943, pp. 15-16. La rivista, mensile del Guf di Forlì, viene  inaugurata nel 1941 e riporta nel sottotitolo la dicitura “Mensile  di politica, arti e lettere”. L'articolo di Galvano viene pubblicato  nell'ultimo numero della rivista, curato Giovanni Testori e in-  titolato “Omaggio alla pittura”, che si proponeva di fornire un  bilancio dell’arte italiana del ‘900. La rivista viene interrotta e se-  questrata da Mussolini per i suoi contenuti non in linea con le  direttive -in campo figurativo- imposte dal regime.   103 Ivi, p. 16.    07 ee    (E I TORINESI)    E condizioni che determinarono a To- ‘20: sei anni dopo l'altra polemica fra  rino l'orientarsi della pittura degna L. Venturi, a proposito del  di quest'ultimo,       di eu- proposito del valore positivo  tentici pittori. Condizioni in cui la eri. tivo delle influenze parigine sull'arte  tica ai pose di per se stessa come po- —ita'iana non ebbe significato diverso. Ora  lemica: © in cui da polemica fu l'one- —P. Gobetti e L. Venturi furono appunto  stà stessa della critica. La guerra del tra | primi ad esaltare l'opera di Ca  14-18 era terminata. Lo stile «libe- sorati. A dispetto danque delle av  ty » in architettura, il neo-pre-ralfuel- versioni del borghese e delle ammira  lismo tipo «In arte libertas» da cui zioni dell'aggiornato, che esalta insie  pure avevano mosso î primi passi pit- e Carrà 0 © Casorati, l'e  tori validi come Modigliani e Spadini figurativa di quest  uveva esaurita ogni pretesa alla forma- —srebbe un significato diverso, e in certo  zione di una coscienza figurativa nella senso opposto, n quello in cui si è  banalità di un'acquiescenza in cui i svolta la comune esperienza della più  fermenti di possibilità che più tard' vi viva pittura italiana? In parte si deve  scoprirà l'accorto senso del « perver- rispondere affermativamente  pEr eg sai 16 gin   lettuale per quello Hgurativo sano  ogni evasione dal fatto pittorico, E che sioo al 1928 la pittura di Casorati  quanto per queste esperienze avveniva —anche nelle punte di estrema avanguar-  ordine a le possibilità della linea cur- —.ija come in certi distrutti. di-  me di questo è quel complesso frea- —pinti, n quanto si dice. sotto l'influenza F. Casorati: “Ragazza,. (1937)  diano avveniva, in modo anche più vol- —gel gusto di Kandiski, cerca i proprii  gare è fatuo, mancati Sant'Elia e Boocio riferimenti non in un mondo mediterra-  : ma in uno nordico {quasi a fedeltà    i  H  È  È;  i    figurativo di Martino Span-  Torino poi: Thover seguitava a eredere viti e di Defendente Ferrari che guard    Memet o di Bestlovea, a confeadero assai più che quello, volto verso il       l'eleganza lineare di Modigliani con di Gaudenzio), non in un'umanità  l'imperizia del bambino (e se mai si assertrice di proporzionata statura mul  sarebbe dovuto rimproverargli un'ele- rondo det orizzonte, ma nel  panza sin troppo vicina » preoccupazio- tormento di sentirai oppressa da È  ni ostetistiche e contenutistiche simili amine mirror  quelle che limitavano fl eritico) inau- ciò di dramma per la propria persona,  guraodo quella tradizione di contenu- in quanto finita, Il sottile Tinguaggio  tismo ad oltranza e di cauto e garbato, formale, la ricerca d'equilibrio compo-  ma fondamentalmente deciso, « fin de sitivo, l'astratto rigore della sintesi po-  non recevoie » mel riguardi di una vi- Loveno sì! suggerire, insieme @ certo  conda pittoricamente valide a cui si at- codenze illustrative (i libri aperti, i  tiene con un'ostinazione che ha per io csrtigli) o agli accorgimenti ‘tecnici,  meno 2 merito della consequenzialità come l'uso della tempera verniciata, ri-  quel poco di csi valga la pena di (91 —rorimenti al quattrocento, mostro. sn  menzione della critica d'arte del quo- non poteva sfuggire ad ‘una  tidiani oggi ancora a Torino. più accorta l'assoluta continuità spi-  Un panorama, come si vede, sostan- rituale che legava il mondo d'allusioni  rialmente simile a quello del resto crepuscolari è le eleganze cstotizzanti  d'Italia, in cui tuttavia, in quegli delle « Vecchie» o delle « Signorine»  anni dell'immediato dopoguerra, Tori. attraverso 1 paradossi pseudoformali  ba ipo ipa delle « Scodelle » è delle « Uova » nella  maniera particolare e gerto senso, doppia redazione, a tappeto ed s vo-  fispetto al resto d'Italia, polemica, su tume. a questo muovo mondo di non  di un doppio piano, intellettuale e figu: —1meno quintessenziate definizioni umane  Rene a pi o spaziali, anche se nel silenzio di  IO) essere esemplificata PO quelle quinte prospettiche ora quei pro-  sizioni reciproche de «La Ronda fili proponessero le loro cadenze non  di « Rivoluzione Liberale ». Cinscuno più per la via analitica dei compisci  vede quanto diversi gli orientamenti menti particoleristici, ma per quella  umani e culturali. Ma è tipico che pro? —delle sintesi ellittiche.  prio fra Cardareti un'occe. Eppure una così diversa afferma-  sione polemica, sul Leopardi, portò a zione in ordine a scoperte pittoriche,  una discussione do andava ben una tanto dialettica decisione nel de-  oltre i termini della cortesia. Siamo nel finire il proprio mondo indipendente. F. Casorati: “ Bambina. (1932)    Felice Casorati (e i torinesi), "Pattuglia", 7-8 maggio-giugno 1943.    lettura della scena artistica cittadina che esclude total-  mente i primi discepoli dell'artista — che continuano  nel frattempo a dipingere ed esporre, non solo a Torino  — preferendo invece soffermarsi poi sulle “anomalie”  figurative (intese rispetto al tracciato casoratiano) pro-  poste da Luigi Spazzapan e Italo Cremona.   Il rapporto tra allievo e maestro, che è innanzi-  tutto di amicizia, rimane solido negli anni a seguire,  nonostante le scelte di Galvano si avviino, nel frattem-  po, verso un fronte non figurativo della pittura, che lo  vedono abbracciare l’astrazione ed aderire nel 1950 al  Mac (Movimento Arte Concreta), fondando insieme  ad Annibale Biglione, Paola Levi Montalcini, Adriano  Parisot, Carol Rama e Filippo Scroppo la sezione tori-  nese del gruppo.   Accanto alla sua attività di critico militante, più  orientata verso le verifiche nel frattempo ottenute con-  testualmente in pittura, tornerà solo raramente ad inte-  ressarsi di Casorati, soprattutto in occasione di letture  complessive e bilanci di un'epoca, che sembra ormai  essere lontana nel tempo.!%       104 Cfr. A. Galvano, Felice Casorati, in S. CAIROLA (a cura di),  Arte italiana del nostro tempo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche,  Bergamo 1946, pp. 18-20; In., La pittura a Torino dal '45 a oggi, in  “Letteratura. Rivista di lettere e di arte contemporanea”, 43-45,  gennaio-giugno 1960, pp. 55-76; ora in Ip., La pittura, lo spirito e    38    mente da ricerche solo per certi riguar- questi sforzi di giovani della cultura mona, Anch'egli amico di Casorati: ma pre riuscito a cogliere il momento di    di parallele, grazie all'autenticità della universitaria e in tutt'altra la lezione che ne ha appreso. spontanen concretezza pittorica. Senza  realizzazione figurativa è della schiet ritorno! Un rigore, un'incisività, un'analitica nì- che del resto questo gli abbia impedito  tezza di linguaggio fantastico da essa Nacque così il gruppo dei «Sei»: —tidenza di segno, una predilizione per quell'accorta coscienza teorica della po-  presupposia, s'inseriva nel dialogo della —Menzio, Chessa, Levi, Paolucci, Galanta —quei profili nettissimi che gli permettono sizione di gusto in cui il suo mondo fi-  italiana di quegli anni con una © Jessie Boswell.,Fntro e fuari le vi- di dare evidenza allucinante di inganno gurativo sì determina e del rapporti di  validità di proporzioni che tuttavia man. —cende del gruppo, Francesco Menzio isivo alla riproduzione dei i og- esso col movimento «surrealista», (di  tiene integro il valore dell'esperienza risultò allora e tale si mantiene, come i: distribuiti poi questi in un ardine cui, per una curiosa ‘e significativa  » a della la personalità più dotata che fosse ap- di fantasia di rara coerenza suggest vicenda gli interessi destati a Torino  memoria 0 più rigorosa- parsa, da Casorati in qua, fra i pit- rispondere a furono proprio nella cerchia dei col  monte impegnata in un bilanelo della tori torinesi. Un mondo di compiaci- più profondamente che gene- laboratori dell'originariamente  pittura. Tutti da « Fanciullo ad- —menti delicati, di edonismo controllato —rano l'inquietante mondo delle ansocia» sano» Seleaggio, per brev'ora torinese  dormentato » del "21, allo « Studio » del —© schivo, sceglie usa sun umanità d'ele- i oniriche e dei senza si ppunto, sino alle recenti realizzazioni  122, al « Concerto » del ‘24. ne henno zione in volti di giovani donne 0 di gnilicato, dei soprasensi di cui non si itettoniche, nella sede della società  nti i risultati più vivi. Poi el si bambini. Da questo punto di partenza —dà lettura , ma « cl Ippica di Carlo Mollino) che tatti 1 suoli  hnocorse che i valori di tono e di ero appena le due esperienze opposte, ma frata» per via di quegli emblemi pit- lettori conoscono,  ma erano pur utilizzabili în assai più —concordanti nella dissoluzione di ogni e- —torici in cui però Cremona è quasi sem- ALBINO GALVANO  concreto discorso di quanto non si lamento estrinsecamente contenutistico,  facesse dagli epigoni del peggior otto- del rigoriamo formale casoratiano in-  cento. Si affermò che i Macchiaioli tu- torno al ‘23, e del fervore cromatico de  rono fra gli artisti autentici della no- gli impressionisti intorno al ‘29 per- ===  stra tradizione; si riconobbe che un ar- —misero a Menzio di scontare in puro  tista ostile o almeno appartato di fron- sollecitazioni pittoriche quei dati del  te a ricerche futuriste, metafisiche © sentimento, si defini una visione tanto  neoclassiche era un grande pit- personale quanto coerente dove la mu  i si riscopri l'im- sicalità del colore e la freschezza del  pressionismo. Îl necclassiciamo, nel    È  È       «po  vecento » milanese, che qualcuno git si che delicati non impedirono, anzi fa-  definiva nooromantico, sì innestava, con vorirono lo spiegarsi di una confes-  Tosi, in una tradizione di pittura a- —sione umana piena di melanconica no-  perta. Soffici non più cubista predicava —biltà nel reiterato e come ansiosamento  ed esemplificava un ritorno alla natura interrogato indagare intorno alla con-  in cui l'esperienza di Cézaane non eselu- sistenza pittorica di quelle persone di  deva quella di Fattori: a Torino, do- drumma, così sottilmente lirico e di  ve già ‘intorno a Casorati una scuola cosi pausate parole, che si muovona  tendeva a ridurre a grammatica il sua nelle composizioni famigliari di Menzio.   figurativo, attraverso l’inse- Tanto Casorati che Menzio del resto  guamento universitario, Îl mecenatiamo —qutt'altro che paghi o chiusi nell'au  di un collezionista, i più rapidi con- tosoddisfazione: anzi entrambi sempre  tatti con Parigi, rapporti col gruppo sofferenti dei limiti 0 della  milanese di Persico anch'esso partito —contiagenti stanchezze che potessero cc-  in battaglia contro il neoclassicismo, appannare il gelido speo-  la lezione degli impressionisti fu at- chio di formalismi eidetici del primo,  tinta direttamente ai grandi modelli: ©  Manet, Renoir, Cézanne, in un preciso pida dell'altro. inquietudine che ci spie  senso importante due notevoli carollari). ga il piegare verso più riscntite ao Enrico Paolacei: * Piazza Navona ..   l'affermazione che Cèzanne non meno nitide pro-  veva reagito all'impressioniamo, ma lo filature lineari di Casorati dopo il ‘30,  veva continuato e che perciò la tradi- —come le | ritorni, e, meno  zione più viva di movimento an- , da monotonia le ripetizioni  dava proprio cercata in quel discorso —1delle cose meno valide di Menzio. ln  rapido ed atmosferico si, ma tutt'al. modo assai diverso, ina con accanita  tro che occasionale e vedutistico che era commovente dedizione ad un'ideale  stato proprio dei pittori che abbiamo di pura pittura che escludesse tanto  citato piuttosto che dei Monet, dei Pis- ogni intrusione intellettualistica  quento  surro, del Sisley. Secondo: che quel- ‘ ogni dispersione decorativa Enrico Pao  l'adesione all'impressionisno non po. Iucci è venuto sempre più approfon  teva che importare, da una parte, con- dendo una visione grata © improvvisa,    Van Gogh al più libero «fsuvinmo », rivivere il gusto degli impros-  che-dn qualche modo e sia pure unilate; sionisti, proprio di questa fase della  ralmente, il linguaggio di Cizanne ave- pittura torinese, possono essere riat-  ivano continuato, Gli strilli dei varii taccati, in senso diverto, Piero Mar-  Ojetti per i «salti in lunghezza da tina, temperamento delicato di colorista  Giorgione n Braque » naturalmente non eu cui è stata decisiva l'influenza di  si contarono! Ma intanto quello che te nf gie gi  importava fu che la esemplificazione cento personale una trepida, ©  vitale dei frutti di quest'esperienza cul- come smorzata, elaborazione di ogni da-  turale fosse data proprio da quei gio- to tonale degli oggetti, e Luigi Spazza-  vani pittori che sì erano stretti intorno pan la cui origine è le cui esperienze  è Casorati, pur non più così ragazzi istriano diedero ad una veramente pro  da diventar suoi allievi nel senso sco- digiosa capacità di trasfigurare |pit-  lastico della parola, © che ora nell'inì- —1toricamente, attraverso la rapidità della  ziare un lavoro diversamente orientato, —acchia e del segno, ogni dato ogget-  e vano il debito contratto col tivo una truculenza cspressionistica re-  primo ideale macatro, nè erano da Jui =—mota dal raccoglimento degli altri to-  sconfessati: anzi la stima, l'amicizia rincsi e dalla pacata visione dell'im-  © la valutazione dei diveral ed ugual. =—pressioniamo. È di questo suo pecu-  mente validi risultati, da parte del —liare atteggiamento ci restano molti mo-  più anziano rimanevano intatti od ec- menti d'espressione mirabile, speci       cootrapporre ai della mano facile è dell'illustra  < incomprensioni fra chi incegue un me- tone occasionale.  desio sforzo d'arte, ala pur attra- Opposta invece, per intento e per ri  verso divergenti esperionze di gusto. È all'impressionismo l'esperienza    i sultato,  altrettanto si può dire dell'attenzione a —Dittorica inieressantiesima di Italo Cre- Francesco Menzio: ‘ Ritratto ,,    Nel 1963, alla scomparsa del pittore, Galvano  traccerà un ricordo del maestro, a margine del catalo-  go della 14° mostra d'arte contemporanea di Torre Pelli-  ce. Non più il colore o il tono, ma quei valori umani  e di rispetto per le diversità appresi durante gli anni  di via Galliari animeranno, in conclusione, questo suo  “omaggio” di discepolo: “poiché fu anche la coscienza  di questa libertà, prima ancora morale che estetica, che  da Felice Casorati alcuni di noi ricevettero come l’inse-  gnamento più prezioso, ci è caro chiudere col richiamo  ad esso questo saluto al Maestro. Chè le sue opere par-  lano, per il rimanente, senza bisogno di commento”!°.    il sangue, a cura di G. Mantovani, Il Quadrante Edizioni, Torino  1988.   105 A. GaLvano, Omaggio a Felice Casorati, in 14° mostra d'arte con-  temporanea, catalogo della mostra (Torre Pellice, Collegio Valdese,  3 - 28 agosto 1963), Tipografia Subalpina, Torre Pellice 1963.    Gli occhi fervidi e il sapore di cenere    Albino Galvano: Decadentismo, Simbolismo, Art Nouveau    Adriano Olivieri    Approssimarsi all'opera letteraria di un uomo di  cospicua cultura quale fu Albino Galvano, significa  penetrare in una eletta densità speculativa sorpren-  dente se commisurata a un intellettuale defilato in vita  e ricorrente oggi nella ferma e attenta riflessione di  pochi storici. Come ebbe a dichiarare Galvano stesso  In una autopresentazione del 1980, non gli si perdonò  l'ambiguità di essere scrittore e pittore aggravata dalle  stigmate dell’intellettuale, categoria in cui finì suo  malgrado per giovanile quanto vocazionale passione  per la cultura. Proprio nell’ambiguità, nel marcare un  confine ideologico sottile, ordinandosi orgogliosamen-  te in disparte insieme alla generazione degli eclettici  Cremona, Mollino e Maccari, ci pare che Galvano  trovi un eccentrico terreno di appartenenza sul quale  edificare una propria filosofia personale sistematica-  mente relata all’erudizione antropologica, filosofica,  religiosa e pedagogica. Formazione altresì integrata  agli interessi misteriosofici - Galvano stesso ebbe a  definire le proprie opere “evocazioni esoteriche”  — vagamente connessi alla cultura torinese d’inizio  secolo e, in modo maggiormente probante, con lo  Studio di Casorati in via Galliari dove conobbe Daphne  Maugham che, dopo avere respirato l’aria mistica della  parigina Académie Ranson, si era trasferita a Torino  dove la sorella Cynthia con Cesarina Gurgo Salice,  Bella e Raja Markman si dilettavano già, oltre che di  danza, di teosofia. Redattore e pubblicista prolifico,  Galvano — che inizia allora ad interessarsi a Rudolf  Steiner e Madame Blavatsky — batté gli argomenti  indigesti alla cultura del suo tempo facendo di sé un  Intellettuale atipico che, come ricordava Sanguineti,  ISpirò idee ereticali nei propri allievi. Autore di pochi  libri, che punteggiarono una carriera meno prodiga  di quella del compagno di studi liceali Argan, nel  1932 conobbe Lionello Venturi che lo accolse come  collaboratore de “L'Arte” facendogli inoltre pubblicare  alcuni studi sulle civiltà extraeuropee?.   L'equivocità tra critica militante e pratica pittorica  fu un banco di prova sul quale verificare, tra continui  rilanci e azzardi, la reciproca tenuta delle parti. In  questo assiduo riversarsi delle specificità discipli-  nari consiste per Galvano il senso estremo della sua  Pittura, votata alla vanità dell'atto privato, smagata  da Ogni velleità economica e promozionale ma cro-  S!uolo rovente dal quale estrarre i concentrati succhi    di un'urgenza creativa. L'incessante ritorno all'arte  . ni n GALVANO, La pittura a Torino dal ‘45 a oggi, in “Letteratura”, I,  “n 0, p. 99-76. Poi in: “La pittura, lo spirito e il sangue”, P.MAN-  ia la cura di), Il Quadrante Edizioni, Torino, 1988, p. 155. Poi  R i ALVANO, Diagnosi del moderno. Scritti scelti 1934-1985”, A.  UFFINO (a cura di), Nino Aragno Editore, Torino, 2018, p. 393.    | L'arte egiziana antica, Firenze, 1938; L'arte dell'Asia occidentale  centrale, Firenze, 1939; L'arte dell'Asia orientale, Firenze, 1939.    39       è,    Al Liceo Gioberti di Torino, 1961-62.       dA EdO a  ad.    come artificio, come fare in sé autosufficiente, fu per  Galvano un difettivo rimedio all’insanabile scissura  della natura umana divisa tra spirito e materia, tra  razionalità e intuizione, e un’imperfetta occasione  di confronto tra individui sul piano partecipabile ed  empirico dell'immagine che, pur sempre aderente  alla condizione fabrile, trova la propria natura più  autentica nell'essere essa stessa divisa tra creazione  e imitazione. L'attività poietica, l'agire sulla materia  intesa sui presupposti estetici gettati da Alain (pen-  satore scomunicato da Croce), sottrae il discorso di  Galvano dall’osservanza teoretica idealistica come  dall'impegno etico esistenzialista e, abrogando di  fatto la condanna platonica dell’arte, accetta il va-  lore estetico come simbolo del “male”. L'arte trova  allora la propria eretica ragion d'essere nella forma  materiata, così come l’idolo o il feticcio sarebbero la  divinità in presenza e non l’ipostasi divina. Per questo  la pittura per Galvano rappresenta enigmaticamente  il “dio visto di spalle”. Quando Mosè chiese al Signo-  re di mostrargli la sua Gloria il Signore gli rispose:  «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e  proclamerò il mio nome” [...]. Soggiunse: “Ma tu  non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo  può vedermi e restare vivo [...]. Tu starai sopra la  rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella  cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò  passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle,  ma il mio volto non lo si può vedere”». L'espediente  divino narrato nell’Esodo biblico?, fatto laicamente       3 i La Sacra Bibbia, cap. 33, vers. 19 e segg.       Cesare Saccaggi, Alma Natura, Ave!, pastello su carta applicata su tela, 68x125 cm., 1898, GAM Torino.    reagire con esperienze disposte alle “proiezioni”, tra  cui l’idea del dio pagano che non tace non parla ma  accenna, sarebbe da intendersi per Galvano — che si  era laureato presso la facoltà di magistero di Torino  discutendo con Gambaro e Abbagnano una tesi su  “La pedagogia della religione” — come metafora  dell'immagine (il “dio visto di spalle” appunto), quale  unica possibilità mondana di riconquistare l’unità  primigenia dell’uomo. L'azione esercitata dall'artista  nelle condizioni oggettive della materia è, più di una  tecnica operativa, un’alchimia - ai filosofi Galvano  preferisce Jean Baptiste van Helmont e Cesare Della  Riviera — che permette il verificarsi di un'unione  tra l'esperienza concreta bloccata nell'immagine e  l’'epifania del dio inteso non in senso devozionale.  Sì tratta in sostanza dell’allontanamento dall'idea  crociana di un'arte che esisterebbe autenticamente  solo nell’intuizione e non nella funzione estrinsecante  della materia. L'arte sfugge così al concetto di rap-  presentazione candidandosi come opportunità che  contemporaneamente apre allo sguardo rinserrandosi  nell’enigma, nella manifestazione del trascendente.  Galvano percorrerà incessantemente questa terra di  frontiera: come filosofo, come storico, come pittore.  Prodromo del percorso pittorico fu l’alunnato  presso Felice Casorati, scelto peril linguaggio sufficien-  temente decantato, sintetizzato e affrancato dal dato  naturalistico per mezzo di un'operazione intellettuale  capace di conferire un ordine platonico agli oggetti  dispensati dalla polverizzazione cromatica impressionistica. Una lezione estetica essenziale quanto l’austero  contesto della scuola. Esemplarità che si concretizza  inunalto profilo morale e umano che Galvano ritiene  in dissolvimento nell'arte moderna con la quale si  conclude un ciclo plurisecolare aprendosene un altro,  tumultuoso nel bene ma anche nel male, dal quale si  sentì definitivamente estraneo dall'inizio degli anni  Sessanta. Il mondo del secondo dopoguerra sarebbe  affetto da una crisi di moralità alla quale potrebbe  unicamente fare fronte una presa di responsabilità  politica, artistica, religiosa, speculativamente limpida  ed esente da posizioni compromissorie e accomodanti  come quelle sostenute dagli artisti che vogliono salvare  i valori della tradizione pur dichiarandosi moderni.  L'intera modernità e l’idea stessa di progresso tecnico  aGalvanorisultano ree di edificare, intorno a un fulcro  di ragioni economiche (Marx) e sessuali (Freud), un  presente depauperato dall’opportunità della variazio-  ne imprevista. A una totalità di costruzione legata alla  forma, tipica del Medioevo, si avvicenda insomma  una totalità d'impiego legata allo scopo, decisamente  avvilente come comproverebbe per inverso il moder-  no carattere apologetico della narrazione tecnica e  scientifica. Giudizio estendibile al fatto estetico per  cui all'arte come atto fabrile, tipico del Medioevo,  si avvicenda l’arte come atto intellettuale, peculiare  del Rinascimento e dei secoli successivi fino al XVIII.  Seguirà il periodo reazionario e tradizionalista del  Romanticismo, caratterizzato dal recupero program-  matico degli archetipi (Jung) medievali ma rivissuti    Per un'armatura, Edizioni Lattes, Torino, 1960.    Senza il contesto sociale entro il quale quegli ideali  Sl erano formati. La spontaneità medievale diviene  nel Romanticismo programma culturale e come tale  sarà ereditata dal Decadentismo e dal Simbolismo,  il Soggettivismo dei quali impronterà di sé l'Espres-  Slonismo. Le avanguardie appaiono dominate dalla  pulsione oppositiva alla tradizione elevando a sistema  l'efficienza produttiva di un “nuovo” codificato come  autoreferenziale, programmatico e inintelligibile ma  ‘ncapace di emanciparsi dal dato naturale nonostante  esaurirsi dell'esperienza storica dell’arte illusiva. Gli  €pigoni dell’astrazione storica, i concretisti, sarebbero  Invece esonerati da questa soggezione insieme alle  Tetoriche idealistiche riuscendo, in piena ricostruzione  etica e umana, a calarsi completamente nel dato resi-  duale figurativo, ossia all'evidenza del fatto pittorico.  Fu l’esperienza che Galvano intraprese dal 1948 al  1953, con l'adesione alla branca torinese del MAC,  €sauritasi per lui nella spontanea affermazione delle  forme curvilinee tipiche del Liberty su quelle rette e  Spigolose dell’astrazione concretistica.   In una sorta di personale contropartita agli inte-  lessi spiritualistici e antropologici, Galvano pensa a Artemis Efesia, Edizioni Adelphi, Milano, 1966.    un'arte come luogo del verificarsi del mito capace di  portare a definitiva decantazione la sua inclinazione  espressionistica (rubricata dal Pallucchini) estraendo-  ne la forza panica trasfigurata in una rinnovata spinta  metafisica. Sein ambito artistico risulta evidente come  egli abbia risolto insé l’apprendistato casoratiano non  assorbendone che un clima d'insieme, metabolizzando  l'aspetto decadentistico della pittura del maestro celata  sotto la rigorosa adesione a una norma di cristallina  evidenza estetica ed etica, sul piano dell'esercizio  critico volle incrinare dialetticamente il sapere con-  solidato al fine di cogliere unitariamente il senso più  autentico della modernità. Accostandosi ai testi suoi  maggiori, nei quali dispiega un cospicuo sforzo storico  ma editati in un periodo a loro sfavorevole — “Per una  armatura” (1960) e “Arthemis Efesia” (1967), si hala  sensazione di essere dinanzi a un affascinate quanto  indefinibile prodotto letterario —saggio, disquisizione  filosofica, colta divagazione, eccentrico soliloquio,  introspezione analitica — che, pensando alla continua  permutazione tra scrittura e pittura, indurrebbe a  pensare a una creazione letteraria con statuto indipen-  denteecreativo rifiutato da Galvano incline, viceversa,    a una critica intesa come emanazione di un'attività  immanente all'atto creativo. Permane tuttavia l’eco  dell'idea crociana della storiografia e della critica che,  pur non aggiungendo nulla all'opera ma limitandosi  a sancirne la validità poetica secondo l’idea del philo-  sophusadditusartifici- contrapposta all'idea dell’artifex  additus artifici sostenuta da Annunzio e  Conti sulla scorta di Ruskin e Pater -—, attribuisce facoltà filosofiche e artistiche alla  soggettiva sensibilità intuitiva dello storico.   Coscienza “temuta e avversata”* Croce è, per  Galvano, un'autorità intellettuale che in cambio  di una piattaforma teoretica esige la partecipata  condanna delle opere che, passate al vaglio di un  accurato approccio metodologico, risultino prive  di valore poetico. Nell’acido corrosivo dell'ironia e  dialettizzando gli argomenti con lo storicismo, Croce  condanna il Decadentismo nelle accezioni mistiche,  estetizzanti, irrazionalistiche e in quella che crede  inconsistenza filosofica e spirituale, includendo in  quel termine tutto ciò che tende a sviluppi formali  astratti e condannando di fatto la fitta rete culturale  e relazionale della modernità. Nonostante ciò Croce  avrebbe il merito di avere reso accessibile e ripercor-  ribile questa fitta topografia anche nella declinazione  contraddittoria e fragilmente raffinata del vituperato  Decadentismo. Accettando la condanna crociana,  Galvano confessa la propria passione per decadenti,  esotici, erotici e apostoli misteriosofici, ponendosi  scientemente in una giurisdizione infernale come  critico e come artista nato dalla linea evolutiva del  Simbolismo. Identifica anzi quello straordinario mo-  mento storico come un estremo malinconico balenio  della civiltà al crepuscolo, un'epoca di transizione  divisa tra spirito e carne, abitata da alcuni tra i più  eletti spiriti dell'umanità capaci di creazioni difformi  ma compiute e che lo sperimentalismo modernista  delle avanguardie esaurirà.   In una sorta di ribellione alla figura paterna,  Galvano trasgredisce la raccomandazione crociana  di non leggere Rimbaud, Mallarmé, Valéry e risco-  pre, anteriormente a Cremona?, il modernismo e la  linfa vitale del Decadentismo attraverso il quadro  metodologico del filosofo abruzzese inclusivo di fatti  estetici anche diametralmente opposti alle sue idee.  A Galvano, come alla sua generazione, fu quindi im-  possibile non dirsi crociano proprio per l'opportunità    4 A. GALVANO, Perché non possiamo non dirci crociani, in “Nu-  mero — Arte e letteratura”, V, n. I-II, gennaio-marzo 1953. Poi in:  “Omaggio a Albino Galvano”, catalogo della mostra, Circolo de-  gli Artisti, Torino, gennaio-marzo 1992, P. Fossati, F. GARIMOLDI, M.  C. MunpiCI (a cura di), Electa, 1992, pp. 116-120. Poi in: A. GALVA-  NO, “Diagnosi del moderno”, cit., p. 37.   5 I. CREMONA, Il tempo dell'Art Nouveau, Firenze, 1964.    42    che quella metodologia offriva nel sistematizzare  l’intera storia. Quello che invece depose fu lo spirito  conciliante dell'estetica di Croce buona, al più, a ba-  nalizzarsi nell’idea diunmuseoimmaginario.Quando  negli anni Sessanta ebbe il proposito di approfondire  l’immagine cultuale e psicologica dell’efesina Arte-  mide, partì dalla fascinazione prodotta su di lui da  un pastello di Cesare Saccaggi, “Alma Natura, Ave!”  (1898), opera collocabile allora, quando uscì il libro, e  tuttora, in un filone di gusto piuttosto sospetto. Con  una serie di pubblicazioni’, si renderà così protago-  nista, a partire dagli anni Cinquanta, del rinnovato  interesse per l’arte Liberty dalla quale trarrà ben più  diuna semplice ragione di studio quanto invece, nella  pratica pittorica, una viva permutazione in allusioni  enigmatiche irriducibili a ogni interpretazione, quali  il fiore di iris, destituite dal ruolo di metafore e sim-  boli. Questa continuità formale si chiarisce anche  come continuità semantica quando si consideri come  Galvano e Cremona abbiano ricondotto l’arte astratta  in un comune svolgimento con il Simbolismo e con il  Liberty che, di quest’ultimo, ful’espressione impiegata  sul piano della fabbricazione. Da cui il transitare di  Galvano dalla fase concretistica a quella informale  e, più in là negli anni, a quella araldica di nastri e  bandiere per giungere appunto agli iris. Trascorrere  stilistico da non leggersi come eclettismo quanto piut-  tosto come legittimo susseguirsi tra la carica allusiva  assegnata ai reticoli cromatici astratti e la sensibilità  decorativa trasformata in materia fermentata fino alla  disgregazione dalla quale estrarre infine nuovamente  il ritmo danzante delle forme arabescate. Il Simbolismo  gli consente di riversare il misticismo nella propria  opera di pensatore e, soprattutto, di pittore. L'arte  assume quindi un valore emersivo di forze morali  (leggi spirito) — del “bene” nel momento crociano,  del “male” più tardi in modo nietzschiano — prima  ancora che estetiche (leggi sangue); diade debitrice al  suo filosofo di riferimento Ludwig Klages, altro intel-  lettuale trascurato in Italia quanto sospettato di avere  incubato l'ideologia autoritaria tedesca quando invece  più coerentemente dovrebbe essere pensato come un  epigono del romanticismo intuizionista. L'arte tenta  un'indiretta conciliazione tra spiritualità e artificio  consegnando alla storia un’estrinsecazione autentica-  mente creatrice e non solo la copia di una copia; non  una rappresentazione ma un esserci immanente. La  volontà di accogliere quel “male” come necessario gli  viene dalla presa coscienza di un'’artisticità, che arde       6 A. Galvano, Dal simbolismo all'astrattismo, in “Galleria di  lettere ed arti”, n. 4-5, 1953; Le poetiche del simbolismo e 1 ‘origine  dell'Astrattismo figurativo, in “Studi in onore di L. Venturi”, vol. II,  1956. Articoli specifici ai quali aggiungere: L'erotismo del liberty e la  sublimazione astrattista, in “Cratilo”, n. 3, 1963. i    Gabetti Isola, Casa di Erasmo, Torino, 1953-1956.    inlui fin dalla giovinezza, radicata proprio nelle opere  Create tra XIX e XX secolo e nelle elaborazioni più  irrazionalistiche. Come quella immoralità sia aperta  a fertili risultati lo si comprende appoggiandosi all’in-  terpretazione che Galvano offre delle Artemis: bianca  come simbolo coadiuvante di perfezione conchiusa ma  Statica, nera come simbolo avverso di imperfezione  e INCompiutezza ma dinamica e che in potenza può  Jenerativamente aprirsi a una riserva di possibilità  eventualmente immanifeste. Per traslato, quindi, la  hegatività del Simbolismo si apre a una plenitudine di  risultati. Permane tuttavia il concetto di fondo che la  Pittura, come prodotto di una volontà impossibilitata  a realizzarsi nell’ideale, sia il risultato di una caduta la  Cul spoglia materiale sarebbe prova di vanità e disvia-  mento. Come s'accennava sopra, Galvano si smarca  dall'idea di un'arte quale esempio del bello estetico  e del bene morale, per lui non più coincidenti, ma  accetta la disperata affermazione dell'immagine come       43    “  ”  a  »  l  Me.  È  È  n  IS  18  la .  t   :  LI  è»  ®  î    unico possibile risultato dell'impulso proiettivo delle  aspirazioni individuali o sociali. Pittura che in ultima  istanza è anche piacere sensoriale, vocazionale istinto  a testimoniare (Baudelaire), “vizio assurdo”, vanitas;  pittura come atto cultuale che mantiene in gioco la  proiezione degli archetipi, la ricchezza delle imma-  gini aderenti al mistero, almeno per quel poco che la  contemporaneità consente, poiché ilmondo nega ogni  giorno più spazio alla pittura mentre il pensiero bor-  ghese, incapace di slanci estetici e metafisici, permette  che in questa duplice assenza si innesti la tecnica, la  pianificazione, la sterile sistematicità. Per Galvano la  nostra epoca è irrimediabilmente scissa dal significato  iù autentifico della vita, dalla sua forza feticistica  poiché ha fatto di quel mondo, in cui la presenza del  dio era costante, una favola bella l'iconografia della  quale non è che una lontana immagine idealizzata  priva, per i moderni, di ogni accenno oracolare.  Queste ragioni filosofiche, di estremo interesse,    dovettero apparire perlomeno eterodosse all'atto della  loro formulazione, divise tra esistenzialismo e fenome-  nologia e affacciate all’abisso del mondo preclassico,  alle profondità eraclitee. Scostatosi dall’irrazionalismo  di Klages, Galvano non intese fare di sé un anti-razio-  nale quanto piuttosto un convinto a-razionale, come  indica la personale concezione di arte in equilibrio  tra ragionevolezza e vaticinio, secondo un fare né  pienamente consapevole poiché eroticamente privo  di volontà intellettiva, né tantomeno completamente  incosciente poiché contemplativo. Pertanto l'ipotesi  di Galvano fu più aderente alla poetica di Mallarmé  piuttosto che al pensiero di Valery, perché dove il  primo disidratando e affinando la parola poetica  pose le condizioni per un superamento del modello  simbolistico aprendo di fatto alle avanguardie, il  secondo immaginò la creatività come un processo  logico ricondotto alla piena luce della razionalità, alla  consapevolezza dell'atto. Esaltando cartesianamente  l’intellettoela coscienza, il processo creativo per Valery  è un'attività spiegabile analiticamente senza ricorrere  a misticismo, vitalismo e spiritualismo. Carnalità,  sessualità e sensualità - Croce aveva biasimato la sen-  sualità nell'opera di Mallarmé come priva di “anelito  d’innalzamento”” — furono invece le pulsioni vitali  del Simbolismo che interessarono Galvano e che la  razionalità, in un prolifico ripiegamento autoanaliti-  co, dovrebbe avocare a sé integrandole senza ripulse  pregiudiziali. Speculazione intellettuale e artistica che  rivela tutta l’enigmaticità di Galvano che oscilla tra i  termini affermati da Mallarmé, e ripresi da Alain, di  “vision”, intesacome vaghezza di ispirazione, e “vue”,  intesa come concretezza dell'oggetto in sé risolto. Se  da una parte, sull'esempio di Mallarmé — il quale pre-  cipitò le parole nell’assoluta perentorietà delle pure  idee aspirando infine a una “poésie sans les mots”®  -, Galvano pare decidersi per la “vue” aderendo al  concretismo astratto come pars construens dalla quale  pretendere risposte formali di esito certo, dall'altra,  per mezzo del multiforme divenire della sua pittura,  apre obliquamente alla possibilità allusiva dell’appa-  rire, accettando di fatto unesito provvisorio prossimo  al concetto di “vision”. L'oscillazione dalla vaghezza  creativa all'evidenza intellettuale di forme e colori è  l’unica risposta contingente possibile per Galvano che  decide di non decidere tra i termini antitetici asseriti,  approfondendolo sguardo nell'oscurità della creazio-  ne e della vita. Medesimamente il Galvano scrittore  affronta il passato eludendo la descrizione analitica  delle epoche storiche portandone bensì all’emersione    7. B. CROCE, Poesiae non poesia, Laterza, Bari, 1950, 5° edizione  riveduta, pp. 318, 319.   g S.MALLARMÉ, Divagations, Bibliothèque-Charpentier, Eugène  Fasquelle Éditeur, Parigi, 1897, p. 297.    i reconditi meccanismi, le contraddittorie spinte pul-  sionali; un’organica prassi opportuna a increspare la  ricerca storica attraverso una molteplicità di punti di  vista culturali posti in reciproco dialogo e liberamente  sollecitati.   Il rischio nell’approcciare oggi la figura di Galvano  è quello di appiattirne il pensiero, come già avvertiva  Sanguineti nel 1990°. L'illustre allievo aveva compreso  come il decadentismo pittorico di un Moreau o lette-  rario di un Huysmans fossero considerati dal maestro  un indispensabile momento storico. Galvano mostra  insomma un’idiosincrasia per quelle “mortificazioni  crepuscolarmente schifiltose”!° che avevano impedito  ai Campana, agli Onofri, agli Ungaretti e ai Montale di  superare, senza rifiutarne la “carica panica e mitica”,  il naturalismo panteistico dell’Alcyone dannunziano.  InItalia, l'assenza del dissolutivo lavacro simbolista si  era in sostanza ripercosso nella crociana deplorazione  categoriale per l’arte moderna insieme all’illusione di  potere produrre un'opera estetica autenticamente nuo-  vaeludendo il peccato originario del Decadentismo. Il  tentativo di emanciparsi dal prestigio delle autoritates  latine che aveva tentato D'Annunzio richiamandosi  ai romantici tedeschi, apriva gli occhi di Galvano ai  presocratici e alla filosofia moderna (dall’irrazionali-  smo alla scuola ermeneutica) che del classicismo aveva  assunto il senso vitalistico, indefinibile e misterioso  di una natura come rivelazione del divino. Da cui  l’idea di una suprema ragion d'essere trascendente  alla quale l’arte, per Galvano, dovrebbe aprirsi ma  che invece nelle enunciazioni contemporanee gli  pare, con buona pace di Eco, rinserrarsi in un'opera  chiusa. Con un piglio da lettura sociale dell’arte,  Galvano scrive dell’esaurimento dei rapporti storici  tra committenti e artisti e di come ciò abbia mutato  l'originaria destinazione d'uso delle opere, ridotte  così a gratuite provocazioni. Conseguentemente  proponeva le dimissioni delle categorie di giudizio  elaborate perle arti visive del passato da sostituirsi con  un equivalente delle letture psicanalitiche tentate da  Sartre su Baudelaire e da Lacan su Poe. Restato sempre  un pittore tradizionalista, Galvano si dichiara disin-  teressato a certi sviluppi artistici lasciando intendere  come il problema dell'effimerità dell’arte contempo-  ranea—compreso l'amato astrattismo geometrico—sia  anche un problema della storia dell’arte come disci-  plina. Su come debba essere poi questa storiografia  Galvano non si pronuncia se non dichiarando che il  problema della storia dell’arte debba essere anche e  SANGUINETI, Contro la ragione, in “La Stampa”, 10 marzo  1990, p. 7.   10 A. GALVANO, catalogo della mostra, Palazzo Chiablese, Tori-  no, dicembre 1979-gennaio 1980, p. 108.   11 Ibidem.    soprattutto il problema dell’uomo! Sovvengono le  parole destinate a grande fortuna critica che avrebbe  scritto Hans Belting nei pamphlet intitolati “La fine  della storia dell’arte o la libertà dell’arte” (1983) e  nel successivo “Das Ende der Kunstgeschichte. Eine  Revision nach zehnJahren” (1995)nei quali auspicava  la fine della storiografia artistica tradizionale a favore  di proposte olistiche e antropologiche avvedute delle  mutate circostanze sociopolitiche, del rimescolamento  di cultura alta e bassa, della suggestione determinata  dai linguaggi mediali, dell’emergere di realtà culturali  prima marginalizzate, dell’obsolescenza della funzio-  ne assegnata al lavoro manuale, dell’alterato ruolo di  musei e gallerie d’arte. La prospettiva delineata da  Galvano si tinge di accenti acri quando denuncia la  pacifica cittadinanza ottenuta dagli ismi ridotti alla  non nocenza di prodotti da supermarket immersi in  una rete di opportunità economiche e di complicità  professionali. Un terreno culturale desolante che  assume una disillusa trasposizione nella sua pittura  ultima, nei paesaggi desertificati, nella scelta estrema  del silenzio creativo come opzione possibile nonché  parzialmente intrapresa. Facendosi anticipatore di  posizioni storiografiche di superamento della cano-  nica divisione tra antico e moderno e concentrando  il periodo rivoluzionario dell’arte d'avanguardia tra  il 1907 e il 1925, in una sorta di personale à rebours  Galvano esprime l'opinione secondo cui i movimenti  artistici successivi si sarebbero attestati su posizioni di  assimilazione manieristica piuttosto che di irriverente  Sovversione peculiare degli ismi nei riguardi della  tradizione rappresentativa. Delinea unastoria dell’arte  moderna parallela più complessa e connettiva come  avrebbero potuto scriverla gli artisti ai quali infine  delega idealmente il compito futuro di creare un'ar-  te che, restando nell’ambito non figurativo e senza  Impossibili riflussi, riesca coerentemente a ristorare i  Valori artistici e umani del passato. Galvano insomma  invoca il diritto anon essere moderno, o peggio ancora  d avanguardia, evitando di lavorare sulla contingenza  e rifiutando l'egemonia della critica per privilegiare,  In senso dichiaratamente anticrociano, la poetica degli  artisti che al lavoro intellettuale uniscono la prassi.  Insieme alla proposta per un rinnovamento della  Storiografia artistica Galvano ne affianca un’altra di  Natura conservativa consistente nell’idea di salvaguar-  dare le opere minori del modern style, perlomeno gli  Oggetti e gli arredi non ancora distrutti (di Cometti  Per esempio). Immagina la documentazione degli  edifici Liberty finendo per invocare l'allestimento di  Una retrospettiva sull’Art Nouveau internazionale, ma    ù A. Gauvano, «Cosa nostra», in “Sigma”, Ln1, primavera  64, pp. 63-70. Poi in: “Omaggio a Albino Galvano”, 1992, cit.,  Pp. 130-133. Poi in: “Diagnosi del moderno”, cit., p. 59.  avveduta del caso italiano e piemontese nel dettaglio,  da allestirsi nella rinata Galleria di Arte Moderna di  Torino (1960). Caduta nel vuoto la proposta sarà pro-  prio Galvano a scrivere un articolo sull’Art Nouveau  a Torino! e poi, insieme a Giorgio Balmas e Lorenzo  Guasco, a curare nel 1978 al foyer del Piccolo Regio  una mostra dedicata alla pittura torinese all’inizio  del secolo. Sorta di doveroso omaggio a uno stile di  vita prima ancora che d’arte nel quale confluirono la  vita delle forme collettive e l’individualità creativa.  Dissentendo da Croce, l'interesse di Galvano per gli  oggetti si approssima alle idee espresse da Giovanni  Gentile nella prolusione al corso universitario di storia  della ceramica pronunciato nel Palazzo Comunale  di Faenza nel 1928 nel quale il filosofo, saldando  arte e vita, rivendica la dignità estetica dei prodotti  artigianali e industriali di qualità. Si consuma qui  l'ennesima contraddizione di un crociano affine alle  idee di Gentile che pur biasima per densità retorica.  Sensibile alle arti dei periodi di transizione e avvedu-  to della caducità dei giudizi, compresi i propri, per  Galvano ogni critica obiettiva deve essere sempre  un’autocritica. Augurandosi l'avvento di un esegeta  capace di rileggere l’arte tra i due secoli, così come  Sanguineti seppe fare con la letteratura, Galvano  rammenta come la sua generazione abbia vergato  parole sferzanti su Bistolfi fino a pochi anni addietro  valutato un artista di statura europea. Ma fu anche  la generazione di quei giovani i quali, raggiunti i  vent'anni nella terza decade del XX secolo, quando  dovetteroimmaginare una ribellione la fantasticarono  conle parole di Rimbaud, Gide, Lawrence e Huysmans  il cui Des Esseintes sembrò essere allora il prototipo  di un esteta come Carlo Mollino. Dell’amico, stimato  oltre che come professionista di genio anche come  dilettante d'eccezione, Galvano ammirò la capacità  di governare con la formazione culturale crociana  e il rigore razionale tipico della sua professione,  gli umori sensuali, avventurosi e ambigui del suo  animo capace di rievocare il ritmo aperto e biologico  del Liberty restituendolo nella voluttà degli interni  arredati, nell'armonia architettonica dei pieni e dei  vuoti, nella eterogenea e immaginosa commistione  di elementi organici e funzionali. Un'omogeneità  che il termine “surreale” illustra solo parzialmente  e che trova una segreta corrispondenza nelle opere  di Cremona come nei molluschi, nelle conchiglie,  negli antichi libri accartocciati e nelle acquasantiere  barocche che Galvano dipinge negli anni Trenta e  Quaranta. L'identità autopoietica generata da Torino  si manifesta nella condivisione spirituale prodotta da   A. GALVANO, Per lo studio dell'Art Nouveau a Torino, in “Bol-  lettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, nn.  14-15, 1961.    questa generazione d’eccentrici intelletti, nella speci-  fica formazione di un genius loci come Galvano e nel  progetto della Bottega d’Erasmo che Gabetti e Isola  disegnano in forme intellettualistiche neo-liberty nel  1953. Proprio in quell’anno, “A Rebours” di Huysmans  diverrà per Galvano il pretesto per puntualizzare le  proprie posizioni all’interno del Mac e più in generale  nel modo di intendere il Decadentismo!. Quando  Leonardo Borgese consigliò agli astrattisti concreti,  in chiusura della recensione alla mostra di Galvano  allestita presso lo Studio B 24 di Milano nel 19535, di  rileggersi il celebre romanzo di Huysmans nel quale,  a suo parere, ci sarebbe stato il necessario per decodi-  ficare la loro poetica, gli aderenti al gruppo accolsero  l'esortazione come una blasfemia da respingersi inte-  gralmente. Galvano ritenne legittima la protesta dei  compagni astrattisti apparendogli chiaro come Borgese  incaricasse l’ipocondriaca, solitaria ed estetizzante vita  del protagonista narrato nelromanzo, diesprimere un'e-  pidermica quota di edonismo e di sensualismo ribelle  ai disvalori della società positivistica industrializzata  e scientifica, votata al profitto, al commercio, al nuovo  capitale borghese. Dopo di che Galvano, confessando  di aderire parzialmente al pensiero del capitano della  brigata anti-astrattista Borgese, s'inalvea in una lettura  sorprendentemente sincretica aperta al riconosci-  mento dell’ambivalenza del rapporto tra astrazione  e Simbolismo. Al rifiuto delle suggestioni emotive  del Simbolismo, l’astrattismo, secondo Galvano, ne  intellettualizzerebbe le allusioni ele “corrispondenze”  (termine apertamente rimontante a Baudelaire) come  strumento oppositivo al dilagare prosastico del reali-  smo. L'astrattismo del dopoguerra ridurrebbe quindi ai  minimi termini la carica letteraria aumentando quella  metafisica, riscattando la tradizione dei padri nobili  dell’astrazione primonovecentesca e tesaurizzando nel  contempo (sulla scorta della ricostruzione filogenetica  di Pevsner) la lezione di Toorop, Gauguin, Munch  e Klimt insieme a quella degli antesignani Runge,  Blake, Antonelli, Ciurlionis, Kupka; in sostanza dei  precursori che evocarono ancora le leggi del mondo  fisico consentendo agli evoluti linguaggi non figurativi  di divincolarsi più recisamente dalla mimesi. Negli  anni tra le due guerre, sull'onda della fenomenologia  e della psicologia della forma, si assisté a un aurorale  revisionismo storiografico dell'Art Nouveau — anche  Edoardo Persico ebbe in animo di scriverne una storia!°    14. A. GALVANO (asterisco di) in, ‘Pitture di A. Galvano in un  esperimento di sintesi” (testo anonimo), Milano Studio B 24,  “Arte Concreta”, bollettino n. 12, seconda serie, febbraio 1953. Poi  in: P. Fossati, “Il movimento arte concreta 1948-1958. Materiali e  documenti”, Martano Editore, Torino, 1980, pp. 62, 63.   15 L. BorcEse, “Corriere della Sera”, 1° gennaio 1953.   16 A. Pica, Revisione del Liberty, in: “Emporium”, a. XLVII. n. 8,  vol. XCIV, n. 560, agosto 1941, p. 66.    46    — ma sarà con gli anni Sessanta e Settanta che diverrà  condivisa acquisizione la carica anticipatoria ricoperta  da Mackmurdo e dalla cultura figurativa a partire da  Blake. Anima nera del concretismo, Galvano assume  un ruolo sovversivo nel movimento proponendo ine-  dite e intelligenti aperture di senso che tuttavia non  giungeranno a ispirare un prolifico dibattito all’interno  del gruppo infragilito dalle difformità tra la posizione  intellettuale rigorosamente metodica dei milanesi e  gli arrovellamenti sulla materia fortemente allusiva  espressi dalla linea torinese. Risalendo alle sorgenti  dell’arte astratta, Galvano riannodò, in antitesi alle let-  ture formalistiche, le affinità con le fonti spiritualiste di  Decadentismo e Simbolismo e — pensando alla densità  mistica nell'opera di Huysmans sfogata in occultismo  e cattolicesimo — con le citazioni della Blavatsky e di  Steiner scritte da Kandinsky, con la prossimità di Mon-  drian ai circoli teosofici, con il lirismo magico di segni e  colori dell’orfismo di Kupka e, non ultimo, con uno dei  primitesti dedicati all’astrazione scritto da Julius Evola.   Dandy autoironico votato alla marginalità, Galva-  no disseminò il proprio percorso di tracce sulle quali  indugiare, trascorrendo liquidamente da una disciplina  all'altra in modo stupefacente per un intellettuale ani-  mato da pura vocazione pedagogica ma riottoso alla  metodicità dello studio scolastico. Attribuire un senso  univocoal suo pensiero equivarrebbe a fraintenderne la  filosofia e l’idea stessa di un'arte come autosufficiente  e spontaneistico operare nella ferita aperta tra vitali-  smo e intelletto che l’atto artistico non riesce tuttavia  a cicatrizzare. La civiltà intera corrisponde per lui alla  fenomenicità delle immagini da essa prodotte che, in  sostanza, aprirebbero al mistero quale autentico even-  to metafisico. Intendendo come piani dell’emersione  archetipica i segni dell’arte — della quale l’idealismo  si limiterebbe a coglierne l'aspetto teoretico, Alain  quello pratico e l’Esistenzialismo quello etico — sarebbe  troppo semplicistico archiviare la passione di Galvano  per Decadentismo, Simbolismo e modern style, come  l'infatuazione culturale per un'epoca vesperale. Egli  si sente invece custode ed erede di quella lacerante  contraddizione, di quella genesi oppositiva, di quella  disperata tensione verso uno spirituale fatalmente  arreso alle forme dell’estetismo, di quella magnifica e  perduta sfida, tanto da riversarne la forza vitale nella  personale proteiforme pittura così come nelle pro-  gressive illuminazioni della sua letteratura filosofica  e artistica.    Opere esposte1 Lettrice sdraiata -— 1931 — olio su tela — 63,5x81 cm       2 Autoritratto - 1940 ca — olio su tela — 23,5x18 cm       3 Astrazione - 1950 — olio su tela — 50x60 cm    et adi       4 Il giorno olio su tela 100x80 cm Pacato — 1954 — olio su tela — 90x110 cm       6 Composizione in nero — 1954 — olio su tela — 90x110 cm       / S.t.-1956-olio su carta — 34x48 cm       $ Ercole ed Anteros — — olio su tela — 85x115 cm       9 Omaggio a Van De Velde - 1959 — olio su tela — 80x90 cm       10 Ir1s — 1960 — olio su tela — 105x95 cm    58       10Y1-1960- olio su tela — 95x110 cm    3 F       12 Calligramma — — olio su tela — 100x85 cm       13 Fiori di lago — 1962 — olio su tela — 100x120 cm       14 Le jardin de cet astre — 1962 — olio su tela — 132x116 cm       15 Ireos — 1962/65 — olio su tela — 130x115 cm       16 Proposta — — olio su tela — 135x122 cm       17 Pavese — 1967 — olio su tela — 120x110 cm       18 Farfarello e Malambruno — 1967 — olio su tela — 80x60 cm       19 Gonfaloni — 1968 — olio su tela — 95x80 cm       20 Nastro n. 25 — 1968 — olio su tela — 90x80 cm       21 Nastri — 1969 olio su tela — 60x50 cm       22 Nastri colorati — 1969 - olio su tela — 110x100 cm       23 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm       24 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm    MALI       25 Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm       ter» IG    MOFBEE sie  Tre  ir" Saitta    Sl          26 Segni asemantici (dittico) - 1973 — olio su tela — 110x90 cm    pari #1 =$    Re    |a te n ; 26 Segni asemantici (dittico) - 1973 — olio su tela — 110x90 cm       27 Artemis — 1974 — olio su tela — 120x110 cm          28 Maioresque cadunt - 1974 — olio su tela — 90x80 cm   TITO       sal - — olio su tela — 70x50 cm       30 s.t.olio e carboncino su tela — 80x60 cm       31 Ireos - 1977 — olio su tela — 70x60 cm    —_—— mr LIIII:5          ——_—_ T=—r-—-r®x    (i    32 Iris n. 2 - 1975 - acquarello su carta — 40x30 cm       Sa Cespu glio — 1974 — acquarello su carta — 40x30 cm                   34 Glotre du lon g desir idees —- 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm       35 Fiori — 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm       VRREET L6 LL AIA USD GOG VE o VERDE IL I BEILET DART DIG SPARI DIO RR pia I I LITIO ODE LIL    36 Fiori acquarello su carta — 40x30 cm          37 Une Fleur — 1975 — olio su tela— 70x70 cm          38 Scrittura - 1976 — acquarello su carta — 60x50 cm       39 Sassi e foglie olio su tela — 80x80 cm       40 Foglie morte — 1978 — olio su tela — 80x80 cm       41 Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 40x30 cm          Labrit, © di DASIO LT R EDLI u DILODIAT    42 Ciottoli e rocce — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm       43 Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm    ”  —    hu    ro iiriiRRRE       44 Rocce e ciottoli — olio su tela — 80x80 cm       45 Rocce e sassi — — olio su tela — 80x80 cm       46 Rocce e sassi — 1981 — olio su tela — 80x80 cm       47 Rocce e sassi — 1982 — olio su tela — 80x80 cm    Opere in mostra    01 — Lettrice sdraiata —— olio su tela — 63,5x81 cm   02 — Autoritratto — 1940 ca — olio su tela — 23,5x18 cm   03 — Astrazione — 1950 — olio su tela — 50x60 cm   04 — Il giorno — olio su tela — 100x80 cm   05 — Pacato — — olio su tela — 90x110 cm   06 — Composizione in nero — 1954 — olio su tela — 90x110 cm  07 — s.t.-— 1956 — olio su carta — 34x48 cm   08 — Ercole ed Anteros — 1956 — olio su tela — 85x115 cm   09 — Omaggio a Van De Velde —  — olio su tela — 80x90 cm  10 — Iris-— — olio su tela — 105x95 cm   11 — Fiori  olio su tela 95x110 cm  Calligramma olio su tela — 100x85 cm   13 — Fiori di lago —- — olio su tela — 100x120 cm   14 — Le jardin de cet astre —  — olio su tela — 132x116 cm  15 — Ireos — 1962/65 — olio su tela — 130x115 cm   16 — Proposta — 1965 — olio su tela — 135x122 cm   17 — Pavese — — olio su tela — 120x110 cm   18 — Farfarello e Malambruno — 1967 — olio su tela — 80x60 cm  19 — Gonfaloni — 1968 — olio su tela — 95x80 cm   20 — Nastro n. 25 - 1968 — olio su tela — 90x80 cm   21 - Nastri — 1969 — olio su tela — 60x50 cm   22 — Nastri colorati —- 1969 — olio su tela — 110x100 cm   23 — Nastri — 1970 — olio su tela — 60x50 cm   24 — Nastri olio su tela — 60x50 cm   25 — Nastri - 1970 — olio su tela — 60x50 cm   26 — Segni asemantici (dittico) — 1973 — olio su tela — 110x90 cm  27 — Artemis — 1974 — olio su tela — 120x110 cm   28 — Matoresque cadunt — 1974 — olio su tela — 90x80 cm   29 — s.t.- 1974 -— olio su tela — 70x50 cm   30 — s.t.— 1974 — olio e carboncino su tela — 80x60 cm   31 — Ireos — 1977 — olio su tela — 70x60 cm   32 — Iris n. 21975 — acquarello su carta — 40x30 cm   33 — Cespuglio — 1974 — acquarello su carta — 40x30 cm   34 — Gloire du long desir idees — 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm  35 — Fiori —- 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm   36 — Fiori - 1975 — acquarello su carta — 40x30 cm   37 — Une Fleur — 1975 — olio su tela — 70x70 cm   38 — Scrittura — 1976 — acquarello su carta — 60x50 cm   39 — Sassi e foglie — 1978 — olio su tela — 80x80 cm   40 — Foglie morte olio su tela — 80x80 cm   41 — Ciottoli acquarello su carta — 40x30 cm   42 — Ciottoli e rocce — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm  43 — Ciottoli — 1980 — acquarello su carta — 48x35 cm   44 — Rocce e ciottoli - 1981 — olio su tela — 80x80 cm   45 — Rocce e sassi — 1981 — olio su tela — 80x80 cm   46 — Rocce e sassi — 1981 — olio su tela — 80x80 cm   4/ — Rocce e sassi — 1982 — olio su tela — 80x80 cm Finito di stampare nel mese di marzo 2021  da GARABELLO ARTEGRAFICA (SAN MAURO TORINESE). Grice: “I don’t see why Italians are obsessed with art, but Speranza is Italian, so let it be. Speranza thinks conceptual artists are the only ones – such as Keith Arnatt – worth analysing. In his more snobbish ways, he thinks to mould the male body was Pliny’s idea of art – bronze statuary of the ‘nudo maschile’ – Painting comes only second or third, and only because of the desegno – i.e . the line of beauty, which is – as shape, where ‘kallon’ resided for the Greeks!” -- Albino Galvano. Galvano. Keywords: arte naturale, Gallupi, Peirce, Grice. By uttering x (gestus), U means that p” gesto, gestus, Grice’s use of gesture. il concreto, l’astratto, Sraffa’s gesture. Il gesto di Sraffa, l’implicatura di Sraffa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galvano: implicatura concreta”– The Swimming-Pool Library. Luigi Speranza, “Grice e Galvano”.

 

Grice e Gangale – il dia-letto e la dia-lettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cirò Marina). Filosofo italiano. Grice: “I like Gangale; the fact that I taught for years in front of the martyrs memorial helps!” Porta a termine gli a San Demetrio Corone. Si iscrive alla facoltà di Filosofia di Firenze. Si laurea con “La logica della probabilita”. Iniziato in Massoneria, nella Gran Loggia d'Italia.  Porta avanti la difesa dell’idioletto e del dialetto.  Opere "Rivoluzione Protestante" (Torino, Gobetti); “Calvino (Roma, Doxa); “Apocalissi della cultura arabresca” (Roma, Doxa); “Il Protestantesimo in Italia” (Roma, Doxa); “Il dio straniero” (Milano, Doxa); “Giacomo della Marca” (Napoli); “Salve regina”; “Fragmenta ethnologica arberesca medio-calabra, Soveria Mannelli, Rubbettino. “L’arbërisht: l’utopia.  According to Louis Hjelmslev, semiotics is first and foremost a hierarchy. Its distinguishing feature is that it is guided by a dynamic principle by which it is split into dichotomies at all levels, yielding expression and content, system and process, denotative and non-denotative semiotics, and, within the latter, metasemiotics and connotative semiotics.  This text may be reproduced for non-commercial purposes, provided the complete reference is given: Sémir Badir (2006), « The Semiotic Hierarchy », in Louis Hébert (dir.), Signo[online], Rimouski (Quebec), http://www.signosemio.com/hjelmslev/semiotic-hierarchy.asp.  2. THEORY top 2.1. The terms  semiotics and semiotic [n.] designate two a priori dissimilar things. By semiotics, we mean a field of study in which we can formulate a method for analyzing signifying phenomena, as well as a theory including all the particulars of this analysis. By semiotic [sg.], we mean the result of a semiotic analysis. So for example, there is a musical semiotics that seeks to map out music as a comprehensive signifying phenomenon. And furthermore, from a synchronic perspective (the music of a given period and culture), if not from a panchronic perspective (music in general), we can say that music is itself a semiotic [sg.], being possessed of both a system (distinctions in pitch, duration, timbre, and so forth) and a process (consistent relations between sounds in their various aspects).  According to Hjelmslev, the acceptations of semiotics and semiotic must be articulated in relation to one another. Semiotics as a field of study is (ideally) conformal to the results of its analyses. As such, it is also endowed with a system and a process. In order to preserve the distinction between the two terms, we must understand that semiotics as a whole contains specialized individual semiotics [pl.], some of which are useful in developing theories and methods (the ones that Hjelmslev calls metasemiotics), while others are meant to be articulated into semiotic hierarchies (this is the role of what he calls the connotative semiotics).  Francis Whitfield, the English translator of Hjelmslev's works, drew up a chart showing the semiotic hierarchy with its constituent parts (in Hjelmslev, 1975, p. XVIII; also translated into French in Hjelmslev, 1985, p. 17).  The class of objects The class  of objects NOTE: THE LIMITS OF GRAPHICS  The above chart shows only one aspect of the functions identified between semiotic components: their paradigmatic functions (the relations between classes and their members). A more complete diagram designed to include the distinguishing features of semiotics would also show the syntagmatic functions (relations of implication) that operate between the different components. Tree diagrams do not really lend themselves to this kind of representation. This is one difficulty that Hjelmslev himself was unable to completely resolve.  2.2. SEMIOTICS AND NON-SEMIOTICS In his first work, Principes de grammaire générale, written in French in 1928, Hjelmslev sets out the principle of classification that is operative in any language [langage]. "Categories as such", he writes, "are a fixed quality of language. The principle of classification is inherent in all idioms, all times and all places" (trans. of Hjelmslev, 1928, p. 78). Thus linguistics, with its three levels of analysis (phonology, grammar, and lexicology) is a science of categories.  However he adds that "the science of categories must disregard the categories established in logic and psychology and venture right into language's territory to find the categories that are characteristic of it, that are specific to it, and that are not found anywhere outside language's domain" (trans. of Hjelmslev, 1928, p. 80). Hjelmslev soon extended this domain to include languages other than verbal ones, but not to the point of including any system of classification.  The semiotics [pl.] make up this larger domain, and they are distinguished from other systems of classification by a certain uniformity (or homogeneity) that forms the basis of their analysis at all levels. We find this uniformity first between the components of any semiotic. By custom, these components are called the expression plane and the content plane. The reason for this is that as a general rule, expression forms are visible in the object (they are "expressed"), whereas it is in the content forms that signification resides (the semiotic object "contains" content forms). However, this is beside the main point, which is that we always analyze a semiotic object (usually a text) uniformly, with an initial distinction between two components. In other words, for Hjelmslev, as for Saussure, neither expression nor content can be given predominance; they must both be analyzed together (Hjelmslev, 1928, p. 88).  NOTE: ISOMORPHISM AND NONCONFORMITY  It is true that Hjelmslev subsequently states that the semiotic planes must also not be conformal to one another; otherwise the distinction between them is nullified (Hjelmslev, 1963, p. 112). It would require too many theoretical details to explain the principle of nonconformity here. Suffice it to say that this principle is not directly related to the issue addressed in this chapter, which is hierarchical organization, and that, furthermore, nonconformity does not in any way interfere with the isomorphism of the semiotic planes (that is, their structural parallelism). Although it doesn't simplify matters any, we must acknowledge that a diagram of semiotics actually postulates a classification that is itself non-semiotic: It is a symbolicclassification, for it can be seen as either an expression plane (the terminology Hjelmslev adopts in his theory) or a content plane (the meaning assigned to each of the terms it presents), and each of these planes is conformal to the other.  2.2.2 PARADIGMATIC FUNCTIONS In one aspect of semiotic analysis, we use paradigmatic functions to establish distinctions within the individual semiotics. A paradigmatic function can always be expressed as two elements in an either... or...relation: "either this or that". In a semiotic, any element of any magnitude (a sound, word, sentence, idea, or abstract feature) can be analyzed in terms of these functions. There are three possible results: (1) two constants are identified; (2) there is no constant identified, so that the elements involved remain as variables; (3) one of the elements is considered to be the variable of the other.  The three types of paradigmatic functions either this or that, one excludes the other  constant ↓ constant  complementarity  either this or that, it makes no difference  variable ↑ variable  autonomy  either this, or more specifically that  constant –| variable  specification  For example, in French, the masculine and feminine are two constants (of content) with respect to animate beings. Conversely, with respect to inanimate elements, they are regarded as variables. In French we refer to cities, which have no designated grammatical gender, sometimes as feminine and sometimes as masculine. And finally, with respect to the class 'sex' itself, each one has a variable, since sex has been selected as the constant of content.  Naturally, linguistics aims first to establish constants, in either a relation of complementarity or of specification. From a paradigmatic standpoint, the expression plane and the content plane are complementary in semiotics (e.g., in a verbal language), whereas in a symbolic system (e.g., in a computer programming language) they are autonomous. Another aspect of semiotic analysis identifies relations between elements. A syntagmatic function can be expressed as two elements in a both... and... relation: "both this and that". Once again, three kinds of syntagmatic functions may be identified: (1) if one element is present, the other must also be present, and vice versa; (2) one element does not have to be present for the other to be present; (3) one element is required for the other to be present, but not the reverse.  The three kinds of syntagmatic functions both this and that, by necessity  constant ↔ constant  solidarity  both this and that, by contingency  variable – variable  combination  this necessarily accompanied by that   variable → constant  selection  A verbal sentence is the necessary association of a noun phrase and a verb phrase; they are the two syntagmatic constants of the sentence. Conversely, there is no consistent relation between the categories of verb and adverb: the verb can be present without the adverb, and the adverb can modify something other than a verb (an adjective, such as pretty, in very pretty). The verb and the adverb are variables relative to one another. On the other hand, an article requires a noun, but the reverse is not true; in this relation, the noun is the constant and the article is the variable.  From a syntagmatic perspective, there is always solidarity between expression and content. If the analysis identifies an expression plane for a given object, then it must also identify a content plane, and vice versa; otherwise, the object in question would not be a semiotic object (something we are not supposed to know before we begin our analysis).  NOTE ON LINGUISTIC LAWS  Necessity in syntagmatic functions is quite relative; it depends on the corpus under study. Caution would prompt us to speak of consistency rather than necessity, as language is replete with exceptions, and its rules are subject to rhetorical non-compliance. We are keeping this term nevertheless, if only to emphasize the predictive intent of linguistic analysis: whatever consistencies have been recorded in attested texts must still be valid for future texts.  2.3 DENOTATIVE SEMIOTICS AND NON-DENOTATIVE SEMIOTICS Natural languages are the first object of semiotic analysis. Their systems are identified through the paradigmatic functions, and their processes through the syntagmatic functions on both planes, expression and content. When analyzed, texts are equivalent to processes, since they constitute chains of semiotic elements that are put into relation with one another.  Semiotic analysis can be applied secondly to other kinds of language, with no theoretical adjuncts, and it is from this extension that it has earned the name  semiotics.  But in addition, semiotic analysis can be applied to a third kind of target: forms of language that cannot be reduced to two planes (their components are not even in number). These languages [langages] are termed non-denotative. There are two kinds: the metasemiotics and the connotative semiotics. A metasemiotic is rooted in a semiotic equipped with a control plane, so to speak. Through this plane, each element of content takes on an expression in a denominative capacity.   This is what we are doing when we say that in a certain advertisement for French pasta (to take a famous example used by Roland Barthes), the yellow and green colours on a red background (the colours of the Italian flag) signify "Italianicity" (Barthes, 1985, p. 23). Italianicity is a metasemiotic expression used to designate the signification of visual elements (colours).  The same function is in operation when we say that the expression arbor signifies "tree" (Saussure, 1959, p. 67), except that in this case, both expression and content take on metasemiotic expressions through the use of distinct typographical markers (italics and quotation marks) and different languages (Latin and English). In this case they are called autonyms. Metasemiotic control helps us to avoid any equivocation between expression and content in our analysis.  Finally, metasemiotic expression also has a power of generalization, by allowing categories to be designated. When we talk about the verb, as we do in linguistics, we are attributing a name to several syntagmatic functions grouped under this common denominator. To put it another way, the metasemiotic expression verb can be used to describe a syntagmatic function that is analyzed in each particular verb (Badir, 2000, pp. 122-123).  It can be helpful to include this control plane in a specific semiotic, for the human mind seems to be adept at juggling metasemiotic expressions (writing being the prime evidence of this, and so very complex). This is how a metasemiotic is formed: one of the planes is the control plane, and the other is the object semiotic. By doing this, the metasemiotic once again becomes a binary structure, but with two tiers (in the table below, E stands for expression, C for content).  Metasemiotic structure metasemiotic  control plane (E)  object semiotic (C)     expression plane (E)  content plane (C)  2.5 CONNOTATIVE SEMIOTICS The plane that is affixed to a semiotic does not always perform a control function, however. In fact, we can always affix a third plane to a semiotic in order to account for anything that has been missed by the analysis, anything that is considered to be a special case or exception.   Variants are the evidence of this analytical shortcoming. If we wish to account for them in some way nonetheless, then we define them as invariants within special or narrowed parameters that Hjelmslev calls connotators. The third plane, then, is formed by considerations that were not selected in the first-tier analysis (called  denotative). This plane is ordinarily held to be a content plane, since it is assumed that semiotic objects cannot be intrinsically modified by these considerations. (One senses a delicate point here, that is admissible only at the discretion of the analyst).  Connotative structure connotative semiotic  denotative semiotic (E)  plane of connotators (C)  expression plane (E)  content plane (C)     For example, Hjelmslev maintains that any given language may be analyzed equally well through its written texts or its oral utterances; in other words, that its rules of syntax, its morphological formations and vocabulary are common to oral as well as written productions. Certainly anyone can see that this assessment is not ill founded. Nevertheless, there are distinctions, which have inevitably been left as variants in the linguistic analysis. Ensuring compatibility between the analysis of these variants and the first-tier analysis is a matter of establishing a plane in which orality and writing can be included as two paradigmatic invariants of content of a particular type: orality and writing are set up as connotators. In this way, the first-tier analysis remains valid, although it can always be customized with respect to the newly established paradigmatic function (Hjelmslev).  From a broader perspective, we can use connotative semiotics to specify which tier of specialization to use for a particular semiotic analysis, as semiotic analysis is not apt to be applied indiscriminately to any element of language (this is only true of its theoretical components, in particular, the ones presented here). In linguistics we begin by recognizing the plurality of verbal languages, basing our analyses on distinct corpora for each language. It is the role of connotative semiotics to establish each language as a connotator. So when we speak of the "linguistic analysis of French", French is a connotator, as it determines in which particular case the analysis is valid.  At this time, the theory of semiotic hierarchy has been developed extensively only in the application for which Hjelmslev initially intended it: the metasemiotic hierarchy of verbal languages (as illustrated in Whitfield's tree diagram, reproduced in section 2.1).  Metasemiotic hierarchy with languages [langues] as the object semiotics       expression plane analysis  content plane analysis  internal semiologies  paradigmatic perspective  phonology  lexicology  syntagmatic perspective  "morphology"  grammar  external semiologies  paradigm of historical and geographic connotators  historical and dialectal phonology  historical lexicology and dialectology  comparative and historical grammar  paradigm of social connotators  sociolinguistics, linguistics of written language  paradigm of psychic connotators  pedolinguistics, psycholinguistics, study of language disabilities  paradigm of cultural connotators  rhetoric, stylistics, narratology  internal metasemiologies  phonetics  semantics  external metasemiologies  physics and physiology of sound  extrinsic interpretations  We will start by discussing the table entries. In the hierarchy there are two columns dividing the analysis into two components, labelled expression plane and the  content plane. However, this subdivision does not hold throughout (as in the case of comparative grammar), either because two different semiotic analyses bear the same name in practice, or because the analysis is non-semiotic, as it turns out. The hierarchy is divided into rows representing the object semiotics. First they are divided by their rank in the hierarchy (semiotic or metasemiotic), next by distinguishing the denotative semiotics (addressed by the internal semiologies) from the connotative semiotics (described by the external semiologies). Lastly, the denotative semiotics are divided into paradigmatic and syntagmatic functions. It should be noted that the hierarchical structure shown here is reversed in actual practice, where one always proceeds by progressive expansion, beginning with denotative analysis, or more specifically, paradigmatic analysis.  In this table, languages are denotative semiotics from the standpoint of the internal semiologies and metasemiologies; however, they are treated as connotators from the standpoint of the external semiologies and metasemiologies. The operation of the latter is dependent on the former.   In addition, the metasemiologies regulate the semiologies by allowing us to verify whether they are adequate to account for the facts of language [langage]; however, there is no one-on-one correlation between internal semiology and internal metasemiology, nor between external semiology and external metasemiology. For example, a semantic analysis can provide the basis for a lexical derivation or for a narrative schema. And the physiological analysis of sound can be used as a descriptor for a phonological invariant (e.g., using the physiological feature palatal to designate an invariant) or as a means to describe child language (e.g., the term "labial click", which describes the onomatopoeia produced by babies 12 months old, also known as the "kissing sound" – this example is cited in Jakobson, 1968, pp. 25-26, footnote).   Morphology should be understood in a specific sense, not entirely removed from the common meaning, but in a narrower sense. Morphology deals with what Hjelmslev calls the functions between grammatical forms in his Principes de grammaire Générale. Finally, note that while linguistics can be considered as one metasemiotic among others, there can be no objection to adopting the point of view that semiotics provides cultural connotators for a comprehensive linguistic analysis. These two perspectives are compatible in glossematics (Hjelmslev's theory of language) and are even seen to be complementary, to the benefit of semiotics. top BADIR, S., Hjelmslev, Paris: Belles-Lettres. BARTHES, R., "Rhetoric of the Image", in The Responsibility of Forms. Critical Essays on Music, Art, and Representation, trans. R. Howard, New York: Hill and Wang, 1985, pp. 21-40. HJELMSLEV, L., Principes de grammaire générale, Copenhagen: Bianco Lunos Bogtrykkeri, HJELMSLEV, L., Prolegomena to a Theory of Language, trans. F. Whitfield, Madison: University of Wisconsin. HJELMSLEV, L., Résumé of a Theory of Language, Madison: University of Wisconsin Press, 1975. HJELMSLEV, L., Nouveaux essais, Paris: Presses universitaires de France, 1985. JAKOBSON, R., Child Language: Aphasia and Phonological Universals, The Hague: Mouton, 1968. SAUSSURE, F. de, Course in General Linguistics, trans. W. Baskin, New York: Philosophical Library. Grice: “I like Gangale. Of course, the Italians adored him because he got Danish citizenship; also because he understood Hjemlslev as nobody does! Gangale was practical; he was into his ethnic minority. He formed good philosophical bond with Gobetti, against Croce and Gentile. It is obvious that those who know the Gangale of the Albanian studies won’t make a connection with his fight for protetantism and his adventures with Italian philosophy, with Doxa and Conscientia – but he got his doctorate and he was able to immerse in Hjelmslev’s glottology like nobody else did!” Giuseppe Gangale. Giuseppe Tommaso Saverio Domenico Gangale. Gangale. Keywords: il dia-letto e la dia-lettica, idiolect, dialect, ethno-lect, idio-letto, dia-letto, ethno-letto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gangale: dall’idioletto al dia-letto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Garbo – la fisiologia dell’amore -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I like Garbo; for one I like Firenze, for another I like a Renaissance man – I’m one!” Grice: “Garbo is extremely interesting at a time when physis did mean ‘nature’ – the physicist and the physician were the natural philosophers! At Oxford Transnatural philosophy was created against Natural Philosophy,” – Grice: “Garbo made the greatest comment on “Love unrequited” by G&S – by focusing on a ditty by Cavalcanti – Boccaccio loved the pretentious prose by Garbo on ‘eros,’ ‘amore,’ and ‘cupidus.’ –“ Studia sotto Alderotti a Bologna. Figlio di Bono, medico e chirurgo. Sotto il consiglio del padre, fu allievo a Bologna di Alderotti, suo cognato, poi uno dei più importanti rappresentanti di un riorientamento della filosofia, all che Garbo diede un contributo importante. Studia sotto Alderotti per un breve period. Torna presso la casa paterna a Firenze a seguito della guerra tra Bologna e Ferrara e fu iscritto, a fianco del padre, nella gilda di Firenze di medici e farmacisti. Le condizioni politiche migliorate gli consentirono di riprendere i suoi studi e si laurea, successivamente si sposta a Bologna, dove insegna. Quando Orsini scomunicò Bologna e, quindi, escluse i cittadini bolognesi dal frequentare lo studio generale, fu, ancora una volta, costretto a lasciare Bologna. Si transferice a Siena, con l'insolitamente alto stipendio di 90 fiorini d'oro come "dotore del chomune di Siena". Saltuariamente si recasse a Bologna nonostante la scomunica. E fu a Bologna che completa il suo commento su una parte del libro IV del Canon di Avicenna, tanto da guadagnare il soprannome di "espositore.” Torna a Bologna, inizia la sua “Dilucidatorium totius pratice scientie” un commento sul Libro I del Canon. Insegna a Padova, a causa del "propter malum statum civitatis Paduae" (come afferma nel suo commento ad Avicenna), riprese a peregrinare tra un'università e l'altra (anche se è un percorso poco chiaro, a causa delle scarse informazioni fornite dai biografi e dell'assenza dei documenti). Torna a Firenze e completa Dilucidarium. Sulla scia dell'esodo della Facoltà di Filosofia da Bologna a Siena, venne nuovamente nominato dal Comune di Siena, questa volta con uno stipendio annuo esorbitante di 350 fiorini d'oro, più 100 fiorini, perché teneva letture a casa sua, la sera. Lavora al suo commento al trattamento con piante medicinali nel libro II di Avicenna, Canon, cioè "l'Expositio super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis Avicennae", che complete dopo il ritorno a Firenze. Commenta sul “Donna mi prega” di Cavalcanti. Questo commento è conservato in un manoscritto di Boccaccio ed è stata tradotta in una versione in lingua “volgare”.  A causa dell'invidia dei suoi colleghi di Bologna, fu accusato di essersi appropriato del commento a Galeno di Torrigiani.  Le lezioni riscuotevano molto successo, allora i suoi colleghi, invidiosi, dettero il compito a un allievo che viveva con il medico di spiarlo; quest'ultimo scoprì che prepara le sue lezioni basandosi sul comment a Galeno di Torrigiani, che conserva segretamente. Il plagio e reso pubblico, addiruttura Cecco D'Ascoli ne fece scherno con i suoi allievi, e Garbo e costretto a allontanarsi da Bologna. Sia Tiraboschi che Colle notarono delle incongruenze cronologiche della vicenda. Torrigiani e co-etaneo e collega del medico alla scuola di Aldreotti, e successivamente si fece certosino in tarda età e solo da quel momento, o dopo la sua morte, avrebbe potuto prendere i suoi scritti.  L'episodio, probabilmente, indica l'atmosfera ostile – tossica -- in cui era immerso Garbo a Bologna, per questo è plausibile che decidesse di accettare l'offerta di Padova, che dopo la crisi causata dalla guerra contro Enrico VII, cerca insegnanti di fama. Tornato a Firenze, incontra Mussato in preda a un malanno, che probabilmente aveva conosciuto in precedenza a Padova e che era a Firenze in veste di ambasciatore di Padova. A Firenze, la sua stima di filosofo si riprese dai colpi bassi inflitti dai bolognesi; mostra un ritratto cordiale, sapiente ma non scontroso, con un atteggiamento affidabile e umano, che cercava di capire i segreti della natura e molto disponibile, questa era la maniera in cui appariva ai fiorentini. Descritto come una persona arguta in episodi riportati da Petrarca, che non conosceva direttamente, ma che aveva avuto contatti con Garbo. Pesso un cimitero, rispose a dei vecchi che lo volevano schernire con queste parole. La disputa è ingiusta, qui: infatti voi siete più coraggiosi perché siete a casa vostra. (Rerum memorandum libri, risposta simile a quella di Cavalcanti nel Decameròn. Un altro episodio, invece, fu la volta in cui un uomo prende in giro il suo piccolo cavallo dicendogli: "e gli insegni a camminare, ma dove hai imparato quest'arte?", e Garbo rispose: "A casa tua".  Quanto torna scrisse le "Recollectiones in Hippocratem de natura foetus" (Venezia), con la "Expositio super capitula de generatione embryonis" di Tommaso Del Garbo, suo figlio, e la "Expositio in Avicennae capitulum de generatione embrionis" di Torre. Il trattato di Garbo mostra quanto fosse dipendente dall'astrologia araba. Distingue l'anatomia dalla fisiologia. Indaga la causa delle malattie ereditarie, dicendo che dipendono da un vizio organico del cuore, dal quale ha origine lo spirito che il seme del padre trasmette al nascituro. Tratta anche di argomenti molto discussi dai filosofi del secolo, come la trasmissione dell'intelligenza tra generazioni, dell'origine del calore animale e della nascita di piante e animali per “fermentazione.” Dice nell'Expositio che torna a Firenze non per la crisi di Siena, ma per altri motivi di cui non si hanno documentazioni. Per Tiraboschi e Colle, Garbo non sarebbe mai uscito dall'Italia, mentre De Sade dice che ad Avignone  avrebbe incontrato Ascoli. Quest'ultimo è il motivo della grave colpa di cui Garbo, insieme al figlio, fu macchiato dopo il plagio già nominato. Ascoli venne allontanato da Bologna e sospeso dall'insegnamento poiché accusato di eresia, successivamente giunse a Firenze con la fama di mago e negromante, al servizio del duca Carlo di Calabria. Ascoli scrisse "Commentarii in Sphaeram Mundi Ioannis de Sacrobosco", che si ritiene fosse trattato che egli porta sul rogo, trattato che fu aspramente criticato da Garbo che gravemente accesi di rabbia e d'odio contro di lui, perché invidiosi che d'Ascoli fosse preferito come medico dal duca Carlo. I. Garbo accusa Ascoli di fronte al vescovo d'Aversa e successivamente lo denuncia all'inquisizione. Questo spinse il duca di Calabria ad allontanare Ascoli dalla sua corte e dopo fu arrestato dall'inquisitore Bonfantini. L’accusa era di essere "alieno dal vero dogma della fede". Ascoli fu bruciato sul rogo. E evidente la responsabilità di Garbo in questa condanna, per invidia e non per motivi religiosi. Garbo muore poco dopo l'esecuzione d’Ascoli. Questo, dice Grice, e causato da un incantesimo di vendetta lanciato da Ascoli.  Altre opere: La figura di Del Garbo campeggia se non come il più grande filosofo di Firenze, sicuramente come quello più nominato, sia nel bene che nel male, a prescindere dal valore che possono avere le sue opere a livello della storia della filosofia, infatti rappresenta, nell'opinione comune, il tipo ideale di filosofo, sia con i suoi pregi, che con i suoi difetti.  Tra le opere che sicuramente possiamo attribuirgli ci sono ricettari, commenti e trattati.  Tra i vari, ci sono i "Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur" (Venezia), dedicati agli studenti bolognesi che l'avevano seguito a Siena; "Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de emplastris et unguentis" (Ferrara) insieme ad un trattato sulla lebbra di Gentile da Foligno e uno sulle giunture ossee di Gentile da Firenze, ampio commento ad Avicenna, Abū l-Qāsim az-Zahrāwī e ar-Rāzī. In questo e in altri testi, rileva molte inesattezze di Avicenna e parla con tono di ammirazione dei antichi greco-romani.  Altre opere invece non sono state stampate: "De militia complexionis diversae"; una "quaestio" sulla flebotomia secondo Ugo da Siena (Bergamo, Biblioteca civica)  "Recolectiones super cirurgia Avicennae" (Modena, Bibl. Estense); Tractatus podagre (San Candido, Bibl. della Collegiata). E non va dimenticato il commento alla canzone "Donna mi prega" di Cavalcanti: "Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus" ("De natura et motu amoris venereis cantio cum enarratione Dini de Garbo", Venezia, introvabile). Il commento riguardo a “Donna mi prega” considera l'amore (eros) da un punto di vista strittamente patologico, come passione, e anche se a volte tende a sovrapporsi a “Donna mi prega”, esponendo le idee sull'amore di se stesso (“amore proprio”) che quelle di Cavalcanti, resta un importante document. Suddivide il testo in tre parti. Nella prima parte, Garbo dimostra quante e che sono le cose, che dello amore si dicono. Nella seconda parte, Garbo filosofa di quelle, che esser ne determina. Nella terza parte, la chiusa, Garbo dimostra la sufficienza di quelle cose, ch'egli ha dette. Nella seconda parte, la più importante, si segue la dimostrazione sulle *otto* caratteristiche dell'amore: I) dove si produce (nell’appetito sensitivo); II) chi lo genera? la disposizione naturale del corpo dell’amante – per non fare menzione digli influssi di Marte su Venere) quale virtù ha l’amore, dato che è passione d'appetito? Nulla. IV) Quale e l’effetto dell’amore? La  morte che impedisce le operazioni della virtù vegetativa) quale e l’essenza dell’amore? E una passione naturale). Che alterazione provoca? Infermità, malinconia, morte. VII) Che spinge a filosofare sull’amore, dato che non si può celare la passione? Lo spirito platonico) Se l'amore (o strittamente, l’amare) si dimostri via il sentire? Si. È evidente che parli come filosofo aristotelico. Per Garbo, l'amore è una malattia, una passione dell'appetito sensitivo, che può causare a sua volta molte altre malattie, e per questo va curata, con la dimenticanza e l'allontanamento, l'"accidente fero" di Cavalcanti è il maligno influsso di Marte, in congiunzione col Toro e la Bilancia, quando si trova nella casa di Venere.  Altre opere: “Dynus super quarta Fen primi cum tabula” (Venezia: Lucas Antonius Giunta Florentinus); “Expositio super tertia, quarta, et parte quintae fen IV. libri Avicennae” (Venezia: Johann Hamann für Andreas Torresanus); “Dilucidatorium totius pratice medicinalis scientie Expositio super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis Avicennae (Venezia); “Recollectiones in Hippocratem de natura foetus; “Dilucidatorium Avicennae (Ferrara) Expositio super parte quintae Fen quarti Canonis Avicennae (Ferrara, André Beaufort); “Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur (Venezia); Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de emplastris et unguentis (Ferrariae); “De militia complexionis diversae; di cui un saggio è pubblicato da Puccinotti; Recolectiones super cirurgia Avicennae (Modena, Bibl. Estense); De generatione embrionis; Dizionario biografico degli italiani.  Boccaccio, Cavalcanti’s Canzone “Donna me prega” and Dino’s Glosses The enigmatic, indeed disturbing figure of  Cavalcanti exercised the imagination of his contemporaries, especially of his fellow poets. Without naming him once, Dante talks about Guido in his youthful work, the Vita nuova, telling us that Cavalcanti was the “primo de li miei amici” (VN III), and that he was one of those who replied poetically to Dante’s first sonnet. Dante also refers to Guido’s senhal, Gio- vanna/Primavera (VN XXIV). The whole of Dante’s treatise, as a specifi- cally vernacular composition, is dedicated to this first friend (VN XXX). Amongst Dante’s Rime, also, there is a companionship sonnet addressed to Cavalcanti, “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io,” to which the older poet responded in verse. The most memorable mention by Dante occurs in canto X of Inferno, where Guido is the “grand absent,” asked after by his damned father, Ca- valcante de’ Cavalcanti. The accent in the exchange is on Guido’s implied “altezza d’ingegno,” shared with Dante (X.59), and his disdain for some- thing — unspecified — which Dante by now was pursuing (poetry? theol- ogy?). The poet later resurfaces as an allusion in Purgatorio XI.97–99, where, in an object lesson in humility, literary primacy is passed through the Guidos, presumably from Guinizelli through Cavalcanti, and on to (perhaps) Dante himself. Guido Orlandi, who wrote the enquiry sonnet, “Onde si move e donde nasce Amore?” which occasioned Cavalcanti’s famous reply, the doctrinal canzone “Donna me prega,” paints a picture of the poet in “Amico, i’ saccio ben che sa’ limare,” stressing Guido’s verbal prowess, but also his consid- erable intellectual ambition, verging on vanity. Cino da Pistoia, however, in “Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo?” reacts angrily to an accusation of plagiarism coming from Guido, and hints that his own humility is more appropriate than Cavalcanti’s self-importance. Amongst the other, almost contemporary poets who mention Cavalcanti is Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), in whose astrological apology the Acerba, he seemingly takes Guido to task, in detail, for an erroneous analysis of love’s http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 1  Heliotropia  http://www.heliotropia.org workings (particularly the function of the irascible appetite, Mars) con- tained in “Donna me prega.” Chroniclers, too, were fascinated by him, but as much for his propen- sity to engage in partisan violence as for his intellectual eminence. His contemporary Dino Compagni refers repeatedly to the powerful Cavalcanti clan’s readiness for street-fighting, and refers specifically to Guido’s ex- ploits, including his failed attempt on the life of Corso Donati, who had re- portedly organised an assassination plot against the poet on the pilgrimage route to Compostela. Dino characterises Guido as “cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio.” Giovanni Villani, writing con- siderably later, draws attention to the prickly nature of Guido’s intelli- gence: “era, come filosofo, virtudioso uomo in più cose, se non ch’era troppo tenero e stizzoso,” a description of the philosopher-poet which al- most exactly parallels Giovanni’s description of Dante himself. Amongst the later novella writers, Sacchetti would include Cavalcanti as the butt (literally) of a practical joke by a small child (Trecentonovelle LXVIII), a jape which in turn is reminiscent of a Boccaccio novella (Decameron VIII.5). Cavalcanti figures in the early commentary tradition of the Comedy, in particular as a response to the pilgrim’s discussion with Cavalcante de’ Ca- valcanti in Inferno X, and the reference to the two Guidos in Purgatorio XI. He also figures to some extent in elucidations of the two lonely, anon- ymous Florentine “giusti” in Inferno VI.73. Commenting upon Inferno X, Guido da Pisa (1327–28) says of Cavalcanti “Fuit enim iste Guido scientia magnus et moribus insignitus, sed tamen in suo sensu aliqualiter inflatus. Habebat enim scientias poeticas in derisum” [This Guido was great in knowledge and celebrated in character, but nevertheless somewhat puffed up as to his opinion of himself. For he despised the poetic discipline]. Guido da Pisa’s interpretation of Cavalcanti’s “disdegno” (Inferno X.63) as essentially poetical will be influential amongst subsequent commentators. The Ottimo commentary points to Guido’s common intellectual in- terests with Dante (“similitudine d’abito scientifico”). Later, when discus- sing the two Guidos passage in Purgatorio XI, the commentator opines: “E Guido Cavalcanti si può dire, che fossi il primo, che [le] sue canzoni fortifi- casse con filosofi[ch]e pruove, come si mostra in quella sua canzona, che comincia: ‘Donna mi prega, perch’io deggia dire.’” The Selmiano (1337), commenting upon Inferno X, again points to Cavalcanti’s intellectual im- pact: “Guido fu tenuto del maggiore ingegno e più alto che allora fosse uomo di Firenze.” The greatest contribution to the myth of Guido Cavalcanti comes from Boccaccio, who views the poet essentially through the distorting prism of http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 2  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Dante and the early Dante commentators. In the “Introduzione alla quarta giornata” of the Decameron, Boccaccio justifies his own persistence with amorousness, even in his more mature years, by claiming that such a trait was shared with Guido Cavalcanti, Dante and Cino da Pistoia in their old age. He even suggests that he could supply the biographical justifications to prove it (“istorie in mezzo”). The most consistent account of Cavalcanti, however, occurs in Decameron VI.9 where Boccaccio applies to Guido a widespread anecdote, with a “lethal” punch-line, which Petrarch, amongst others, had used some ten years previously in the Rerum Memorandarum (II, 60) about Dino del Garbo, the famous Florentine physician. The tale, now firmly attached to Cavalcanti, thanks to Boccaccio, will subsequently pass into the Dante commentary tradition when Benvenuto da Imola glos- ses the two Guidos passage in Purgatorio XI. The Decameron tale has been frequently discussed and minutely ana- lysed: what concerns us here is Boccaccio’s preliminary portrait of the poet: oltre a quello che egli fu un de’ migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale, si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sa- peva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse. [...] Guido alcuna volta speculando molto abstratto dagli uomini divenia; e per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. (Decameron) Creatively interpreting Dante, in order to give the punch-line extra signifi- cance, Boccaccio deliberately confuses (or rather suggests that the vulgar throng confuses) Guido with his father, Cavalcante de’ Cavalcanti, for it is effectively the latter who is amongst the “Epicureans” who “l’anima col corpo morta fanno” (Inferno X.15). A very similar portrait of the poet is given in the Esposizioni, where Guido is described as: uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcun altro nostro cittadino: e oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore [scil. Dante], sì come esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon dicitore in rima; ma, per ciò che la filosofia gli pareva, sì come ella è, da molto più che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. (Esposizioni X.62) The phrase “ebbe a sdegno” clearly shows Boccaccio’s debt to Inferno X.63: “Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno,” and to the view amongst early commentators, initiated by Guido da Pisa as we have seen, that the http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 3  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org disdain was for poetry, not theology. It is this Boccaccian portrait, with a distinctly Dante colouring, which will inform Filippo Villani’s much later biography of Cavalcanti in the Liber de origine civitatis Florentie [Book of the Origin of the City of Florence]. As we have seen, the anecdote in Decameron VI.9 had been previously used by Petrarch, who places Dino del Garbo as its protagonist. Dino was, in addition to being a notable physician (a pupil of Taddeo Alderotti at Bologna), a lecturer on materia medica at various universities. He had a number of commentaries to his credit, including a reading of the third and fourth fen of the fourth book of Avicenna’s Canon, dealing with surgery (a relatively new area for medicine, traditionally hostile to the knife). He also wrote a general handbook, based on book one of Avicenna, the Dilucidato- rium totius pratice medicinalis scientie [Clarification of the Whole Prac- tice of Medical Knowledge]. According to Giovanni Villani, Dino was very touchy about his academic standing, and took a mortal dislike to Cecco d’Ascoli, at the time a lecturer on the astronomy of Sacrobosco and Alca- bitius at Bologna, who publicly accused him of having plagiarised a dead colleague, Torrigiano de’ Torrigiani’s commentary on Galen. Indeed, Vil- lani suggests that Dino was instrumental in the passing of the death sen- tence on the astrologer: “molti dissono che ’l fece per invidia” (Cronica X.41). Popular opinion had it that Dino’s own puzzling death, very shortly after the astrologer’s execution, was the result of a posthumous necro- mantic revenge on Cecco’s part. Cecco wasn’t the only one to have an interest in Guido Cavalcanti’s canzone “Donna me prega.” Dino del Garbo wrote a detailed Latin com- mentary on the poem, heavily indebted to Avicenna, Haly Abbas and Ar- istotle, which was partially imitated and adapted in a vernacular version unconvincingly attributed to Egidio Romano. Medical and philosophical interest in Cavalcanti’s canzone would continue into the Renaissance, with Ficino, amongst others, clearly in debt to it. Dino’s commentary (no later than 1327) was certainly known to Boccaccio. Indeed, it has been con- vincingly argued by Antonio Enzo Quaglio (“Prima fortuna della glossa garbiana a ‘Donna me prega’ del Cavalcanti,” in GSLI 141 (1964): 336–68) that the unique surviving manuscript of the commentum (an insert in Vatican Chigiano L. V. 176, ff. 29r–32v) is a Boccaccian autograph. This particular transcription, one of the later documents reinserted into the manuscript, dates from approximately 1366, judging by the evolution of Boccaccio’s handwriting studied by Pier Giorgio Ricci (Studi sulla vita e le opere del Boccaccio, Milan-Naples: Ricciardi, 1985, p. 295 [and plate XIII]). The entire MS is reproduced phototypically in colour by Domenico http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 4  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org de Robertis (Il codice Chigiano L. V. 176 autografo di Giovanni Boccaccio, Rome-Florence: Alinari, 1974). However, already in the Teseida (1339–41), Boccaccio shows some fa- miliarity with the commentary. Perhaps he had obtained the glosses from Dino’s close acquaintance, the poet and jurist Cino da Pistoia, who had known and corresponded poetically with Cavalcanti, and who had been teaching Roman law in Naples whilst Boccaccio was a student canonist there. The commentary, entitled Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus [Writing on the Canzone of Guido Cavalcanti] has been ed- ited and published as an appendix by Guido Favati (Guido Cavalcanti, Rime, Milan-Naples: Ricciardi, 1957, pp. 359–78). An earlier, sectionalised English summary translation and secondary commentary can be found in Otto Bird, “The Canzone d’Amore of Cavalcanti According to the Com- mentary of Dino del Garbo” (Mediaeval Studies 2 (1940): 150–203 and 3 (1941): 117–60). In Italian, there is a fine translation and commentary of the glosses by Enrico Fenzi (La canzone d’amore di Guido Cavalcanti e i suoi antichi commenti, Genoa: Il Melangolo, 1999, pp. 187–219). In the Teseida, Boccaccio furnishes substantial ecphrases of the abodes of Mars and Venus, the tutelary deities of the two rivals for the hand of Emilia, Arcita and Palemone. The description of the temple of Venus in book VII, octaves 50 ff., prompts an immensely long authorial gloss, part of which is on the nature of love itself. In keeping with Boccaccio’s implied fiction that the glosses are by somebody else, he refers to himself in the third person as the “author” and reserves the first person for the fictive commentator. The gloss labours on through the various symbolic, almost personified qualities (à la Roman de la Rose) propitious to erotic passion till it reaches the figure of Cupid, or desire: Alcune ne pone quasi confermative dello appetito eccitato per le sopra- dette: tra le quali pone Cupido, il quale noi volgarmente chiamiamo Amore. Il quale amore volere mostrare come per le sopradette cose si ge- neri in noi, quantunque alla presente opera forse si converrebbe di di- chiarare, non è il mio intendimento di farlo, perciò che troppa sarebbe lunga la storia: chi disidera di vederlo, legga la canzone di Guido Caval- canti Donna me priega, etc., e le chiose che sopra vi fece Maestro Dino del Garbo. (Teseida, gloss to VII.50) What is important here is that, for Boccaccio, the poet’s canzone and the physician’s glosses were already intimately linked, presumably in a single document (as would be the case in the much later Chigian MS transcribed by Boccaccio himself). The Teseida self-commentary then continues, after this parenthesis, with further enumeration of the “author’s” selection of symbolic qualities, beginning with an elucidation of Cupid’s darts. But the http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 5  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org first sentence of this continuation shows that Boccaccio was still thinking in terms of technical definitions of love borrowed from other sources: Dice sommariamente che questo amore è una passione nata nell’anima per alcuna cosa piaciuta, la quale ferventissimamente fa disiderare di piacere alla detta cosa piaciuta e di poterla avere. The phrasing about fervent desire, in this definition, is reminiscent of a remark in Dino’s commentary: est passio quedam in qua appetitus est cum vehementi desiderio circa rem quam amat, ut scilicet coniungatur rei amate. (Favati, 371) [it is a certain passion in which there is appetite along with fervent desire concerning the thing which it loves, so that it may join with the thing be- loved] But the presence in Boccaccio’s gloss of the adjective “nata” (even though it could be construed here as meaning merely “arising”) almost certainly betrays an older source, namely the opening definition in Andreas Capel- lanus’ De arte honeste amandi (late 12th cent.): Amor est passio quedam innata procedens ex visione et immoderata co- gitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alte- rius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri. (De amore I.1) [Love is a certain inborn passion arising from the beholding of and un- controlled thinking about the beauty of the other sex, on account of which the person desires above all else to enjoy the embraces of the other person and, by common desire, fulfil all the commandments of love in this embrace] Andreas uses the term “innata” to describe erotic passion twice more, in quick succession, clearly wanting his readers to understand that its endo- genesis is an important part of his theory of love. “Innata” in the De amore is clearly adjectival in function, as shown by the following participle “pro- cedens”: but “nata” in the Teseida may be more in the nature of a past participle. The lexical fragment survives, however, despite its possible change of status, as a tell-tale sign of Boccaccio’s prior reading. For Boc- caccio, conflating the two sources was tempting, because Dino is clearly indebted, for substantial elements of his treatise, to the chaplain’s opening remarks on love, as the characteristic initial combination “passio quedam” already demonstrates. Boccaccio was not reading Cavalcanti and Dino del Garbo as an inno- cent, then, but rather as somebody who had already come across authori- tative, if somewhat obsolescent definitions. The problem for the compiler of the Teseida glosses is that the two definitions do not match. Andreas http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 6  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org believed that love was intrinsic (“innata”), the line which Guinizzelli would famously take in his canzone “Al cor gentil,” whereas Dino, following Ca- valcanti, declares that this passion was definitely exterior in origin “cau- sans ipsum principaliter est res extrinseca” (Favati, p. 360). Boccaccio at the time of his writing of the Amazon epic seems totally unaware of the in- consistency between these auctoritates. One might doubt that Boccaccio had anything more than circumstantial knowledge of the existence of Dino’s commentary. In other words possibly he hadn’t read it. But certain of the key words (“appetito” and “generare,” markedly Aristotelian terms, though present in the De amore, are simply not used as technicisms in An- dreas) imply that he has a good idea of the philosophical slant of Dino’s vocabulary. Unlike Cino da Pistoia, who is quoted unambiguously in the Filostrato (V.62–65) and Rime (XVI.8 and 13), textual traces of Cavalcanti in Boc- caccio’s fictional and creative works are rare and tantalising. The meagre harvest of possible (and hardly provable) intertextuality has been traced by Letterio Cassata, passim in hisedition of Cavalcanti (Guido Cavalcanti, Rime, Anzio: De Rubeis, 1993, esp. index, p. 353). Vittore Branca furnishes more detailed examples (Rime I, IX, XI, XIII, XXIV; Teseida X.55–57 etc.) in Boccaccio medioevale e nuovi studi sul Decameron (Florence: Sansoni, 1992, pp. 254–57). One could add to this list, tentatively, perhaps. There is possibly a hint that Boccaccio had a “cultural memory” of the opening of “Donna me prega” when writing the Filocolo, for Florio’s love is there de- scribed by an experienced Ascalion as “sì nobile accidente” (III.5.2). It could be, however, that this particular use of “accidente” (generically a very common term in the early Boccaccio) derives from a reading of Dante’s Vita nuova, where the distinction between substance and accident in love theory, probably as an echo of Cavalcanti, is also made (VN XXV.1). Another possible reprise of Cavalcanti occurs in the Teseida sequence which generates the gloss which mentions “Donna me prega” and Dino del Garbo’s glosses. In octave 53 of the seventh book, Boccaccio describes the musical and visual environment of Venus’ garden, indicating Palemon’s soul in prayer as it visits the bower: ripieno il vide quasi in ogni canto di spiritei, che qua e là volando gieno a lor posta... (VII.53.6–8) Though “spiritus” was a technical term in medicine, referring to the transmission of vital and animal forces through the body, the diminutive “spiritelli” is a characteristic Cavalcantian usage, denoting the hypostatic emanations of fragmented consciousness characteristic of the “anima http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 7  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org sbigottita.” Guido even parodied this verbal tic in a sonnet, “Pegli occhi fere un spirito sottile.” More persuasive again, in terms of intertextuality with Cavalcanti, is one of Boccaccio’s early Rime (XXI): Biasiman molti spiacevoli Amore e dicon lui accidente noioso, pien di spavento, cupido e ritroso, [...] Though Vittore Branca does not expressly say so in his commented edition of the Rime in volume V of Tutte le opere (Milan: Mondadori), this sonnet seems to parodically contrast a pessimistically Cavalcantian view of love in the first quatrain with a more Guinizellian, positive stance in the remain- der. All in all, though, compared with the massive early presence of Dante, and later of Petrarch, the verse of Cavalcanti seems to have had little prac- tical impact on Boccaccio. He seems to have been much more interested (as the layout of the glosses and the title of the autograph Chigiano LV 176 transcription shows) in “Donna me prega” as a vehicle for Dino del Garbo’s commentary, rather than as a composition in its own right. The Dino del Garbo commentary became more useful to Boccaccio when he came to write the Genealogie (ca. 1360 in its first version) and the Esposizioni (1373). By this time, his appreciation of the question of sub- stance and accident, and of intrinsic and extrinsic causality, had markedly improved, though his interest is still anything but scientific. The Genealo- gie passage occurs in the biography of Cupid, begotten from the illicit cou- pling of Mars and Venus, in IX.4. Cupid had been the figure, as we have seen, who had given rise to the mention of Dino del Garbo’s glosses on “Donna me prega” in the Teseida. This time, though used much more ex- tensively, the Garbian source is not explicitly acknowledged. Est igitur hic, quem Cupidinem dicimus, mentis quedam passio ab exte- rioribus illata, et per sensus corporeos introducta et intrinsecarum vir- tutum approbata, prestantibus ad hoc supercelestibus corporibus aptitu- dinem. Volunt namque astrologi, ut meus asserebat venerabilis Andalo, quod, quando contingat Martem in nativitate alicuius in domo Veneris, in Tauro scilicet vel in Libra reperiri, et significationem nativitatis esse, pretendere hunc, qui tunc nascitur, futurum luxuriosum, fornicatorem, et venereorum omnium abusivum, et scelestum circa talia hominem. Et ob id a phylosopho quodam, cui nomen fuit Aly, in Commento quadri- partito, dictum est quod, quandoque in nativitate alicuius Venus una cum Marte participat, habet nascenti concedere dispositionem phylocap- tionibus, fornicationibus atque luxuriis aptam. Que quidem aptitudo agit ut, quam cito talis videt mulierem aliquam, que a sensibus exterioribus commendatur, confestim ad virtutes sensitivas interiores defertur, quod placuit; et id primo devenit ad fantasiam, ab hac autem ad cogitativam http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 8  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org transmictitur, et inde ad memorativam; ab istis autem sensitivis ad eam virtutis speciem transportatur, que inter virtutes apprehensivas nobilior est, id est ad intellectum possibilem. Hic autem receptaculum est specie- rum, ut in libro De anima testatur Aristoteles. Ibi autem cognita et intel- lecta, si per voluntatem patientis fit (in qua libertas eiciendi et retinendi est) ut tanquam approbata retineatur, tunc firmata in memoria hec rei approbate passio (que iam amor seu cupido dicitur) in appetitu sensitivo ponit sedem, et ibidem, variis agentibus causis, aliquando adeo grandis et potens efficitur, ut Iovem Olympum relinquere, et tauri formam su- mere cogat. Aliquando autem minus probata seu firmata labitur et adni- chilatur; et sic ex Marte et Venere non generatur passio, sed, secundum quod supra dictum est, homines apti ad passionem suscipiendam secun- dum corpoream dispositionem producuntur; quibus non existentibus, passio non generaretur, et sic large sumendo a Marte et Venere tanquam a remotiori paululum causa Cupido generatur. (Genealogie IX.4.6–9) Rather than provide a translation into English here, we can go straight to Esposizioni V litt., 162–67, which is an outstanding example of Boccaccio’s self-volgarizzamento. The passage occurs in Boccaccio’s literal commen- tary on the episode of Paolo and Francesca, and is occasioned by Dante’s famous line “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende” (Inferno V.100). Whereas in the Teseida Boccaccio indulges in a long account of Cupid’s iconography and dismisses (“per ciò che troppa sarebbe lunga la storia”) the aetiology of love with a curt reference to Cavalcanti and Dino del Garbo, here in the Dante commentary he inverts the process, omitting the lengthy account of details Cupid’s portrait (“alle quali voler recitare sarebbe troppo lunga storia”) so as to concentrate on the explanation of love’s workings. The passage is prefaced with an apparently perfunctory explanation of Aristotle’s tripartite distinction of the kinds of love (Ni- comachean Ethics VIII.3), of which more later. Only the very last periods suffer any change from the content of the earlier Genealogie text. The cor- responding passage in the Esposizioni, the volgarizzamento of the Gene- alogie text, reads: Ma, vegnendo a quello che alla nostra materia apartiene, dico che questo Cupidine, o Amore che noi vogliam dire, è una passion di mente delle cose esteriori e, per li sensi corporei portata in essa, è poi aprovata dalle virtù intrinseche, prestando i corpi superiori attitudine a doverla rice- vere. Per ciò che, secondo che gli astrologi vogliono, e così affermava il mio venerabile precettore Andalò, quando avviene che, nella natività d’alcuno, Marte si truovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e truovisi esser significatore della natività di quel cotale che allora nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alì nel comento del Quadripartito che, qualunque ora nella natività d’alcuno Venere insieme con Marte parti- cipa, avere questa cotale participazione a concedere a colui che nasce una http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 9  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org disposizione atta agl’inamoramenti e alle fornicazioni. La quale attitu- dine ha ad aoperare che, così tosto come questo cotal vede alcuna femina, la quale da’ sensi esteriori sia commendata, incontanente quello, che di questa femina piace, è portato alle virtù sensitive interiori e questo pri- mieramente diviene alla fantasia e da questa è mandato alla virtù cogita- tiva e da quella alla memorativa; e poi da queste virtù sensitive è tra- sportato a quella spezie di virtù, la quale è più nobile intra le virtù apren- sive, cioè allo ’ntelletto possibile, per ciò che questo è il recettaculo delle spezie, sì come Aristotile scrive in libro De anima. Quivi, cioè in questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di sopra è detto, portato v’è se egli avviene che per volontà di colui nel quale è que- sta passione, con ciò sia cosa che in essa volontà sia libertà di ritenere dentro questa cotal cosa piaciuta e di mandarla fuori, questa cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore, o vero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nell’appetito sen- sitivo e quivi in varie cose adoperanti divien sì grande e fassi sì potente che egli fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne; e alcuna volta, essendo meno aprovata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente. E così non è da Marte e da Venere generata questa passione, come alcuni stimano, ma, secondo che di sopra è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a rice- vere questa passione secondo le disposizioni del corpo: la quale attitu- dine se non fosse, questa passione non si genererebbe. The translation diverges only at the end. Out goes the Ovidian reference to a love-struck Jupiter preparing to ravish Europa (Metamorphoses II.846– 75), clearly inappropriate for a commentary to a Christian poem, and in comes a limp and vague reference to shameful behaviour. Similarly, the very last concessionary formula of the Genealogie passage, conceding at least the indirect operation of Mars and Venus, is removed in its entirety, leaving the earlier categorical denial of astral influence intact. But what of the content? The making of such contentious horoscopes, predicting a libidinous disposition, could be dangerous. Villani intimates that one of the reasons for Cecco d’Ascoli’s misfortune at the stake was his disconcertingly accurate prognosis for his patron, the duke of Calabria, that his daughter Giovanna, the grand-daughter of Robert the Wise and future queen of Naples, would be subject to scandalous erotic excesses on account of her birth under the sign of Mars in the house of Venus. Though at first sight, Boccaccio is implying that his source in both pas- sages is the Genoese astronomer Andalò del Negro (almost certainly dressed up as Calmeta in Filocolo V.8) and that he is quoting from Ptol- emy’s commentator Haly Abbas and from Aristotle’s De anima, a large section of this treatment, including the reference to these auctoritates, is in fact lifted from various, almost contiguous places in Dino’s glosses. The http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 10  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org opening sentence is an extremely reductive paraphrase of a section of Dino’s commentary where the physician indicates the role of the stars in creating the dispositions of the soul. Dino writes: Alia res concurrit ad causandum aliquam passionem, que est res ex- trinseca que suam ymaginem vel speciem causat in virtute sensitiva, ad quam cognitionem vel apprehensionem consequitur appetitus talis vel talis, in quo appetitu iste passiones fundantur. Ideo auctor, ut complete ostenderet que est res generans istam passionem, primo ostendit que est dispositio naturalis corporis que reddit hominem aptum ut faciliter istam passionem incurrat; secundo ostendit que est res extrinseca ex cuius ap- prehensione consequitur in appetitu passio amoris. Secunda ibi: “Vien da veduta forma”; vel posset incipere ibi: “D’alma costume.” In prima parte quod dispositio naturalis, per quam aliquis inclinatur ad incurrendum faciliter in aliquam passionem, ex principiis proprie nati- vitatis hominis contraitur et, inter ista principia nativitatis alicuius, pre- cipua et principalia sunt corpora celestia: nam, ut dicit Philosophus in Phisicis, homo hominem generat et sol; et in De Generatione Animalium dicit quod in spiritu genitivo est natura existens proportionalis ordina- tioni astrorum. (Favati 363) [Something else is involved in causing any passion, and that is an exte- rior thing causing its image or “species” in the sensitive faculty, upon the cognition or apprehension of which there follows an appetite for this or that, in which appetite these passions are established. So the author, in order completely to show what is the thing which generates this passion, first demonstrates what is the natural disposition of the body which makes man suitable for incurring this passion easily; secondly he demon- strates what is the external thing from whose apprehension the passion of love follows in the appetite. The second starts “Vien da veduta forma”; or can start at “D’alma costume.” In the first part he shows that the natural disposition, by which some- body is inclined to incur some passion, is contracted from the principles of a person’s own birth, and, amongst these principles of a person’s birth, the foremost and most important are the heavenly bodies: for, as Aris- totle says in the Physics, man and the sun generate man; and in The Ge- neration of Animals, in the generative spirit a nature exists proportion- ally to the ordering of the stars] Boccaccio’s reference to his astrological mentor, Andalò del Negro, is an opportunistic amplification of a far less specific passage in Dino. The Garbian passage, commenting on line 18 of the canzone, reads: Hoc autem ostendit in verbo illo quod premisit cum dixit “La quale da Marte viene et fa dimora”: nam ista passio dicitur procedere a Marte isto modo, quoniam astrologi ponunt quod, quando in nativitate alicuius Mars fuerit in domo Veneris, ut in Tauro vel in Libra, et fuerit significator nativitatis eius, significabit natum fore luxuriosum, fornicatorem et om- nibus venereis abusivis scieleratum; unde quidam sapiens qui dicitur Aly, http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 11  Heliotropiain “Comento Quadripartiti,” dicit quod, quando in nativitate alicuius Venus participat cum Marte, dat inamoramentum, fornicationem, luxu- riam et talia similia, que omnia pertinent ad passionem amoris de quo loquitur auctor in hac cantilena. (Favati 363) [He shows this, however, in that word he placed before when he said “La quale da Marte viene et fa dimora”: for this passion is said to proceed from Mars in this way. Astrologers claim that, whenever, at the birth of somebody, Mars is in the house of Venus, as in Taurus or in Libra, and there is a person to do the child’s horoscope, he will signify that the child will be lustful, a fornicator, and wicked in all venereal excesses. Whence a certain sage called Haly in his commentary to the Quadripartitum says that, when at the birth of somebody Venus participates with Mars, it grants enamourment, fornication, lust and such like, which all are con- cerned with the passion of love which the author talks about in this can- zone.] Boccaccio’s reference to Andalò is rather disingenuous, if the evidence of the Calmeta episode of the Filocolo is to be believed. For there the empha- sis in that passage is almost entirely astronomical, with no hint of judicial astrology, and the authorities consulted are almost certainly limited to Ptolemy’s Almagest, Andalò’s own Introductorium, rather than the simi- larly titled work by Alcabitius, and to the Alfonsine Tables. Of Haly’s commentary to the Ptolemaic Quadripartitum there is not a trace. Boccac- cio’s early astrological culture, under the sway of Andalò, has been exam- ined in an important study by Antonio Enzo Quaglio (Scienza e mito nel Boccaccio, Padua: Liviana, 1967) and its narrative consequences (possibly more tending towards judicial astrology) in the Filocolo have been investi- gated by both Janet Levarie Smarr and Stephen Grossvogel. The adventi- tious references to Haly in the love definition in the Genealogie and Espo- sizioni are a sure sign that the late Boccaccio, whilst acknowledging his youthful enthusiasms, was now passively accepting and reproducing Dino’s quotes and mentions, rather than referring to material he knew and remembered intimately and at first hand. What then follows in Boccaccio’s account, namely the sequence of inter- iorisation, comes from Dino’s gloss to line 21. Dino’s ordering of the inner processes is, according to Otto Bird, untypical, yet Boccaccio accepts it without demur: Hic autem est ordo in apprehensione humana, sicut declaratum est in scientia naturali: quod primo species rei pervenit ad sensus exteriores, ut ad visum vel auditum vel tactum vel gustum vel olphatum, deinde ab illis pervenit ad virtutes sensitivas interiores, sicut pervenit ad fantasiam primo, deinde pervenit ad cogitativam et ultimo ad memorialem. Ab istis autem virtutibus procedit postea ista species ad virtutem nobiliorem, que virtus in homine est altissima inter virtutes adprensivas, et ista est virtus possibilis. (Favati 364–65) [For this is the sequence in human apprehension, just as it is declared in natural science. First of all the “species” of the thing reaches the exterior senses, for instance sight or hearing, touch, taste or smell, thence from these it reaches to the inner sensitive faculties, so it comes to fantasy first, then comes to the cogitative and lastly to the memorative faculty. From these faculties this “species” reaches to the nobler faculty, which in mankind is the highest amongst the apprehensive faculties, and this is the possible faculty] Dino then provides a brief explanation of the difference between the intel- lectus agens [active intellect], the reasoning function of individuation and universals, and the passive or possible intellect, merely concerned with the processing of species resulting from sensibles. The discussion is not otiose, for Dino is aware of Cavalcanti’s dramatic positioning of love right at the crucial borderline between rational and sensitive activity. Boccaccio is not at all interested in such technicalities, and moves on to a matter of much greater concern, namely the question of the relationship between love and will. The relevant passage from Dino glosses Guido’s assertion that love is “di cor volontate,” but Boccaccio characteristically leaves out Dino’s pro- fessionally inspired mention of the difference of opinion between Aristotle and Galen concerning the seat of the sensitive faculties, in the heart or in the head. Dino writes: Et nota quod istum appetitum vocavit voluntatem, que videtur intellectui attinere, ut ostenderet quod, licet amor fiat in aliquo ex dispositione na- turali per quam quis inclinatur ad incurrendum faciliter hanc passionem, tamen fit etiam ex proposito et per electionem, quod pertinet ad volun- tatem, que est libera et liberi arbitrii, cum se habeat indifferenter ad op- posita; et est simile hic, sicut etiam est in aliis passionibus ut, verbi gra- tia, de ira. Nam aliquis, licet sit dispositus ex natura ad faciliter incurren- dum in iram, tamen per voluntatem potest se retrahere ab ea, et potest etiam in eam incurrere; et simili modo etiam de amore. (Favati 364) [And note that he calls this appetite the will, because the latter is seen to appertain to the intellect, in order to show that, although love can happen to somebody through a natural disposition whereby that person is in- clined easily to incur this passion, that person does so nevertheless on purpose and by choice, and so that is a case of will, which is free and by free choice, when it is faced equally with opposites. And it is the same here, just as it is with the other passions, like anger, for instance. For somebody, even though he may be disposed by nature to get angry easily, nevertheless through his will he can draw himself back from it, and he can even indulge in it; and it is the same with love. For Dino, the question is one of classification: given the working of erotic passion specifically in the sensitive appetite, it follows that engaging in or disengaging from love is necessarily a voluntary act, and therefore in part subject also to the operations of the rational soul, where choices are made. Boccaccio’s rewording changes the emphasis substantially towards moral philosophy: love is no longer an ineluctable force, and the potential lover, being free to choose, is therefore responsible for his own actions in this field as in any other. Love, as a phenomenon of the soul, is consequent on an initial act of the will, by accepting or refusing to be drawn further into passion. Though Boccaccio’s direct quotations from the Garbian glosses are all located in a compact area, he may have been encouraged to under- line this aspect by his reading further on in the commentary, for Dino re- fers to the will obliquely later on, drawing on Haly’s Pantechne, to state more clearly than elsewhere the voluntaristic nature of passion: amor est sollicitudo melanconica, similis melanconie, in qua homo iam sibi inducit incitationem cogitationis super pulcritudinem quarundam formarum et figurarum que insunt ei. (Favati) [love is a melancholic anxiety, similar to melancholy, in which a man ac- tually brings upon himself the rousing of cogitation upon the beauty of certain forms and figures which are within him.] A fragment of this reading of Dino can be found in the Decameron, when Boccaccio describes the aegritudo amoris of the pharmacist’s daughter Lisa (X.7.8), as she struggles with cumulative “malinconia.” What is more important in the Garbian gloss is the accent on the will. The lover “sibi inducit incitationem.” And later again, Dino will return to the topic, to explain why nobles have a greater propensity for erotic pas- sion than those whose existence is marred by the struggle for economic survival: Secunda causa est quia, licet in amore, quando est multum impressus, appetitus non sit liber, imo est servus et ducitur secundum impetum huius passionis, tamen in principio, quando incipit hec passio in appe- titu, adhuc appetitus est quasi liber, ita ut possit amare et possit desistere ab amore. Et ideo initium huius passionis incipit multotiens ex proposito. (Favati 373) [The second cause is because, though in love for instance the appetite, when it is much pressed, is not free, indeed it is enslaved and is led by the impetus of this passion, nevertheless in the beginning, when this passion starts in the appetite, at that point the appetite is almost free, so that it can love or desist from love. And so the beginning of this passion fre- quently starts from choice.] http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 14  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Whereas in the Genealogie the highlighting of the question of free will served no particular purpose, and was not set within a moralising context, in the Esposizioni the moral discussion is crucial. Boccaccio has a precise task, for he is explaining the sin of those who “la ragion sommettono al talento” (Inferno V.39). Boccaccio’s own prior interpretation of this line is rather odd: Eran dannati i peccator carnali, Che la ragion sommettono al talento, cioè alla volontà. E come che questo si possa dire d’ogni peccatore inten- dere, per ciò che alcun peccatore non è che non sottometta, peccando, la ragione alla volontà, vuol nondimeno l’autore che per quel vocabolo “carnali” s’intenda singularmente per i lussuriosi. (Esposizioni V litt. 46) Boccaccio, never very consistent when adopting others’ philosophical sys- tems or terminology, seems to see no difference here between “will” and “desire.” He seems to have no real understanding of the complexities of appetition. Perhaps he was thinking of the passage in Dante’s Vita Nuova XXXIX, where the poet admits to a struggle between appetite (“cuore”) and reason (“anima”). Maybe he is using “volontà” to stand for “voglia,” the term Meo Abbracciavacca uses when he writes “e qual sommette a voglia operazione” (Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, Milan-Naples: Ricciardi, 1960, vol. I, p. 337). It is no surprise, therefore, to find that Boc- caccio now moves straight from his paraphrase of Dino del Garbo on love and will to a discussion of whether Paolo, “atto nato ad amare” (Espo- sizioni V litt., 168) was obliged to fall in love with Francesca. Boccaccio freely admits that Paolo was “flessibile,” in other words easily swayed, be- cause of his complexion. It is the same concept Boccaccio applies to Dante’s amorous disposition in the Chigi version of the Trattatello: “inchinevole molto a questo accidente” (again a fairly Garbian formula), but when it comes to the famous line: “Amor, ch’a nullo amato amar per- dona” (Inferno V.103), the moralist suddenly swings into action: Questo, salva sempre la reverenzia dell’autore, non avviene di questa spezie di amore, ma avvien bene dello amore onesto (Esposizioni V litt. 169) Here Boccaccio is returning to the Aristotelian distinction between the three varieties of love (Nicomachean Ethics VIII.3) with which he had prefaced his discussion in the Esposizioni. There, he had indicated that the sensual love indulged in by Paolo and Francesca is the morally inferior “amore dilettevole,” where the pleasure principle is foremost. It is a defi- nition totally missing from the Genealogie account of Cupid, even though it had been promised much earlier (III.22.8). Now he claims that Fran- cesca’s declaration of the inevitable reciprocity of love is misplaced, for such reciprocity can only happen with “amore onesto.” He backs this up with the definition to be found in Purgatorio XXII.10–12 (where Statius’ love for Virgil causes a corresponding affection in the older poet). But the lovers of Inferno V are seekers of pleasure only, not seekers of goodness (the “amore onesto” of Aristotle). But why did Boccaccio, between the Genealogie and the Esposizioni accounts, suddenly introduce the Aristotelian distinction? What does it have to do with Dino’s commentary? Once again, Boccaccio has been searching around in the glosses, and has found that the next argument Dino engages in is concerned with is the dual nature of love. One is the common definition: uno modo comuniter et large, secundum quod est quedam passio per quam inclinatur et movetur appetitus in aliquam rem que videtur sibi bona propter complacentiam eius, ratione cuiuscumque actus illius rei: et isto modo non accipitur hic: nam amor est circa multa, de quo amore non est presens intentio. Et de omnibus amicis ad invicem est hoc modo amor: quia amici amant se ad invicem, et tamen non amant se amore de quo est hec presens intentio; et potest etiam esse amore in uno respectu alterius, et tamen non erit amicitia inter eos: omnis enim qui est amicus alicui amatur ab illo, sed non omnis qui amat aliquem amatur ab illo; et ideo, licet omnis amicitia sit cum amore, non tamen omnis amor est cum amicitia. (Favati 371–72) [one way commonly and widely defined, according to which it is a certain passion by which the appetite is inclined and moved towards something which seems good to it on account of its pleasurability, by reason of whatever agency of that thing: and it is not accepted in this way here: for love concerns many things, about which love it is not Guido’s present in- tention to speak. Concerning all mutual friends, love is of this kind: for friends love each other reciprocally, and yet they do not love each other with the kind of love which is the topic here; and it can be a question of love in one regarding the other, and yet there will not be friendship between them: for everybody who is a friend to somebody is loved by that other person, but not everybody who loves somebody is loved by that person, and so, even if every friendship is with love, not every love is with friendship.] In his round-about way Dino is dealing here with the distinction between love “per concupiscentiam” [for desire’s sake] and “per amicitiam” [for friendship’s sake]. The first is properly the subject of Guido’s canzone, whereas the second is Aristotle’s true friendship, what Boccaccio calls “amore onesto.” Dino’s purpose is to go on to define the pathology of the illness that derives from amorous excess, the so-called “ereos,” richly in- vestigated by Massimo Ciavolella (La “Malattia d’Amore” dall’Antichità al Medioevo, Rome: Bulzoni, 1976) and before that by John Livingston http://www.heliotropia.org/02-01/usher.pdf 16  Heliotropia 2.1 (2004) http://www.heliotropia.org Lowes (“The Loveres Maladye of Hereos,” Modern Philology 11.4 [1914]: 491–546). Boccaccio, uninterested in the minutiae of such medical matters (though he refers to them in his Valerius Maximus inspired episode of Giacchetto Lamiens in the novella of the Count of Antwerp (Decameron II.8.44–48), retains the distinction but uses it for a moral purpose. Paolo and Francesca were free to retreat from their passions, as theirs was an “amor dilettevole.” Their obstinate refusal to avail themselves of the free- dom of choice inherent in the birth of such sensual passion led to their damnation. This issue of free will clearly exercised Boccaccio, for he re- turns to it belatedly in the allegorical exposition to the canto. The com- mentator has been explaining why carnal sinners, guilty of excess in what is otherwise a natural process, are punished more lightly than the other damned souls, in a circle further from the pit of hell and nearer to God. He then has another go at defining the relative roles of astrological disposition and free use of the rational faculty of choice: L’origine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia nell’attitudine a questa colpa datane da’ cieli; la quale parrebbe ne do- vesse da questo scusare, se data non ci fosse la ragione, la quale ne dimo- stra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a ciò, il libero albi- trio, nel quale è podestà di seguire qual più gli piace. (Esposizioni V all. 78) But this moralistic view of erotic passion, prompted by a public reading of the Paolo and Francesca episode and shaped, selectively, by Dino del Garbo’s glosses to Cavalcanti’s canzone, represents a very late position, beginning with the first redaction of the Genealogie, and perhaps impli- citly coeval with some of the thinking behind the remedia amoris of the Corbaccio. Boccaccio’s earlier allusions to the Inferno V episode seem to show, instead, that the involuntary nature of love, propounded by Fran- cesca, prevails. In the Filostrato, for instance, after much sighing and tearful pillow-soaking, Troiolo finally admits to his friend Pandaro the cause of his melancholy: he has fallen in love. Boccaccio’s writing at this point is saturated with reminiscences of the Paolo and Francesca passage from Inferno V. Troiolo is grateful that Pandaro is inclined to hear of his “martiro,” rhymed with “sospiro” (Dante: “sospiri” and “martiri”) and is responding to Pandaro’s “priego” since he is incapable of opposing a “nie- go” (Dante: “priega” and “niega”). Troiolo then indicates how love took over: Amore, incontro al qual chi si difende più tosto pere ed adopera in vano, d’un piacer vago tanto il cor m’accende, ch’io n’ho per quel da me fatto lontano ciascheduno altro, e questo sì m’offende, (Filostrato II.7.1–5) This is a clear echo of Francesca speaking of how love “al cor gentil ratto s’apprende [...] e ’l modo ancor m’offende” (Inferno V.100–02). Boccaccio in paraphrasing “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” here, further em- phasises the involuntary nature of such passion. The same emphasis can be seen in the Filocolo: in the “court of love” in book four, Clonico has asked the queen for a judgment on whether an unrequited or a jealous lover should be more pitied. The queen passes sentence, saying that the unrequited lover will finally get his reward, for true love induces inevitable reciprocity in the beloved: ché, ben che ella si mostri verso voi acerba al presente, e’ non può essere ch’ella non vi ami, però che amore mai non perdonò l’amare a niuno amato. (Filocolo IV.38.11) The same concept lies behind that other enamourment clearly inspired by Dante’s Paolo and Francesca, the Ovid-inspired passion of Florio and Biancifiore in Filocolo II: their love, too, is caused by Cupid’s agency, they too are apparently coerced by mutual delight. Florio clearly considers that such a situation is universal, and affects not only mortals but gods: Padre mio, sì come voi sapete, né il sommo Giove né il risplendente Apollo, da voi ora davanti ricordato, né alcuno altro iddio ebbe all’amorevole passione resistenza; né tra’ nostri predecessori fu alcuno tanto di virile forza armato, che da simile passione non fosse oppresso. (Filocolo) But perhaps the most memorable examples of such love apologies come in the Decameron. In the novella of the count of Antwerp, the queen of France lays bare her passion for the count: Egli è vero che, per la lontananza di mio marito non potendo io agli sti- moli della carne né alla forza d’amor contrastare, le quali sono di tanta potenza, che i fortissimi uomini non che le tenere donne hanno già molte volte vinti e vincono tutto il giorno, essendo io negli agi e negli ozii ne’ quali voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore e divenire innamorata mi sono lasciata correre. (Decameron) Though the power of love is emphasised, a subtle change has now taken place. We now get at least a fleeting admission that an element of volition was involved (“mi sono lasciata correre”). When we come to look at the famous justification of Ghismonda, caught in flagrante with Guiscardo by her jealous father (Decameron IV.1.31–45), we see the same refined con- cession. Her speech begins with a reminiscence of the Paolo and Francesca episode, audible in the pairing “né a negare né a pregare sono disposta.” Ghismonda, at various points, then outlines the sheer power and durabil- ity of the passion which has overtaken her: Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amer e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo. (Decameron) Though the wording has been altered, the influence of Francesca’s per- during love in Inferno V is clear: “ancor non m’abbandona” and “che mai da me non fia diviso”. But then the speech gets down to detail. It is Ghismonda’s youthful appetite, whetted by previous marriage and now enforced celibacy, which causes her to cede to her desires: Sono adunque, sí come da te generata, di carne, e sí poco vivuta, che an- cor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disi- dero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto desidero dar com- pimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello che elle mi tiravano, sí come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. (Decameron) Yet, here again, we can see that Boccaccio clearly imagines there to be a moment of decision, an instance of rational choosing, even if the flesh (and the sensitive faculties) are predisposed to “incur such passion.” To sum up then, the evidence for Boccaccio having read Dino del Garbo early on in his career, earlier than the Teseida, is quite strong. The gloss on “Donna me prega” is not associated, as one might imagine, with an interest in Cavalcanti’s vernacular verse, but rather with its availability as a con- venient manual, accessible to a non medical scholar, on the “maladye of hereos.” For this reason, perhaps, it became associated with Boccaccio’s constant re-reading of the Paolo and Francesca episode from Inferno V. What changed over time was the quality of Boccaccio’s reading of Dino, starting from an opportunistic level, where the distinction between Capel- lanus and Del Garbo is hardly felt, and ending with an interpretation which consciously develops the potential in Dino’s understanding of the role of the will. The moment of transition, however timid, seems to take place in the years of the Decameron. Grice: “So here is charming Cavalcanti writing a charaming love lyrics (Donna mi preigha) and Garbo in his worst Aristotelian jargon destroying it. I dealt with Blake (“love that never told can be”) and the best thing is to leave poetry to poets (cf. Austin rebuffing Nowell-Smith’s inability to understand Donne). The physiology of love is beyond philosophy. But in philosophy, unlike any other discipline, we respect history, and the longitudinal history of philosophy ensures that every philosopher will be familiar with the idiocies Plato makes Socrates says in Convitto about Cupido, Cupidine, Amore, Eros, Erote, Anterote, and Mars, qua symbol of maleness. In Italy they were concerned about astrology. Since the future queen of Naples had been born under the House of Mars, she will possibly be a whore!” --  Aldrobrandino Del Garbo. Garbo. Keywords: appetitus, appetitus sensitivo – spiegatura dell’amore in termine aristotelichi – amare, sentire, il patico – fornicazione – latino/volgare – Boccaccio – Petrarca – Alighieri – Cavalcanti --. de militia complexionis diversae, eros, amore, malattia, Aristotele, passione, ragione, appetite sensitive, amore, sentire – re-cognosenza da parte dell’amato dell’amore dell’amante – via senso? Marte – self-love, other-love, amore proprio, amore a se stesso, amore all’altro. Refs.: Luigi Speranza, “Garbo e Grice: amore, passione, implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gargani – Eurialo e Niso; ovvero, dell’empatia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo italiano. Grice: “I like Gargani; many of his essays are pretty interesting: he’s written on the ‘sense’ of ‘true,’ and on the ‘endless phrase,’ – la frasse infinita – which according to Griceian principles, must rely on implicature, since it involves a communicational impossibility!” -- «È un fatto che gli uomini hanno prodotto assai più cose di quanto siano propensi ad ammettere; ma ciò che essi hanno eretto nella forma di costruzioni concettuali elevate e sublimi, come se fossero separate dal caso e dal disordine, corrisponde ad un uso che essi hanno fatto della propria vita.” Aldo Giorgio Gargani (Genova), filosofo. Si laurea a Pisa sotto Barone. Collaborando con Lepschy, allora professore all'University College di Londra, e conducendo le sue ricerche al Queen's sotto la guida di Geordie McGuinness.  È stato il massimo studioso italiano di Vitters, e ha contribuito alla diffusione della filosofia di D. F. Pears. I suoi ambiti di studio sono stati prevalentemente la filosofia del linguaggio, l'estetica, l'epistemologia, e la psicoanalisi. Di particolare interesse è anche il suo tentativo di una scrittura filosofica narrativa, come in Sguardo e destino” (Laterza, Roma-Bari); “L'altra storia” (il Saggiatore, Milano); Il testo del tempo” (Laterza, Roma-Bari).  Altre opere: “Esperienza in Vitters” (Le Monnier, Firenze); “Hobbes” (Einaudi, Torino); “Vitters” (Laterza, Roma-Bari); “Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell'esperienza commune” (Einaudi, Torino ); “Vitters a Cambridge” (Stampatori Editore, Torino); “Kafka” (Guida, Napoli); “Lo stupore e il caso” (Laterza, Roma-Bari);  “La frase infinita” (Laterza, Roma-Bari); “Il coraggio di essere” (Laterza, Roma-Bari); “Stili di analisi” (Feltrinelli, Milano); “L'organizzazione condivisa. Comunicazione, invenzione, etica” (Guerini, Milano); “Il pensiero raccontato” (Laterza, Roma-Bari); “Una donna a Milano” (Marsilio, Venezia); “Il filtro creative” (Laterza, Roma-Bari); “Dalla verità al senso della verità” (Plus, Pisa); “Mondi intermedi e complessità” (Ets, Pisa); “Il gesto” (Cortina, Milano); “La filosofia della cura” (ASMEPA Edizioni, Bentivoglio); “L'arte di esistere contro i fatti” (Lamantica Edizioni, Brescia); “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane” (Einaudi, Torino). Altri contributi Relazione d'aiuto, sintonia comunicativa e organizzazione sociale, in Il vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze umane, Fondazionalismo e antifondazionalismo, Relativismo e nuovi paradigmi filosofici, Inquietudine, empatia, identità e narrazione (Pordenone). Eurialo e Niso coppia di amici, guerrieri troiani nella mitologia greca e nell'Eneide di Virgilio Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sugli argomenti mitologia romana e personaggi immaginari non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Eurialo e Niso Nisos Euryalos Louvre LL450 n2.jpg Eurialo e Niso (1827) di Jean-Baptiste Roman, Louvre SagaCiclo Troiano ed Eneide Nome orig.Euryalus e Nisus Epitetoinsigne per bellezza (Eurialo), fortissimo in armi (Niso), Irtacide (patronimico di Niso) 1ª app. inEneide di Virgilio, I secolo a.C. circa (Eurialo)  Sessomaschi Luogo di nascitaTroia (Eurialo), monte Ida (Niso) Eurialo e Niso (in latino Euryalus e Nisus) sono due personaggi che compaiono in due episodi dell'Eneidedi Virgilio. Giovani guerrieri profughi di Troia, costituiscono un grande esempio di amicizia e di valori che Virgilio teneva a riportare in vita con la sua opera.  Il particolare rapporto che li lega è definito dall'autore "amore", ciò che nel contesto dell'epoca va inteso come serena manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e l'affettuosità omoerotica. Non è l'unico caso nel poema: anche tra gli italici nemici dei troiani vi è una coppia siffatta, quella costituita dai due giovani latini Cidone e Clizio.  Il mito «… Appresentossi in prima Eurïalo con Niso. Un giovinetto di singolar bellezza Eurïalo era; e Niso un di lui fido e casto amico.»  (Virgilio, Eneide, traduzione di A. Caro, V, 425-428) Eurialo Eurialo (figlio di Ofelte, un troiano morto durante la guerra di Troia nonché lontano parente di Priamo) è il più giovane dei due amici, poco più che un fanciullo, e con la sua grande bellezza riesce sempre a ottenere il favore degli altri.  Partecipa alla gara di corsa a piedi durante i giochi funebri per Anchise, nel quinto libro dell'Eneide, a fianco dell'amico Niso e riesce a vincerla grazie all'aiuto del compagno. Nonostante le proteste di Salio, un altro corridore, che è inciampato a causa di Niso, Eurialo sfrutta le sue lacrime e il suo bell'aspetto per far sì che gli spettatori parteggino per lui.  Nel nono libro affianca nuovamente Niso nel tentativo di raggiungere Enea, passando per l'accampamento dei Rutuli addormentati. I due giovani, approfittando dell'occasione favorevole, compiono un'ingente strage di nemici. L'inesperienza di Eurialo si dimostra quando il giovinetto ruba nell'accampamento nemico diversi oggetti di valore, tra cui uno splendido elmo. Saranno proprio quei trofei a mettere a repentaglio la vita di Eurialo; da una parte il riflesso dell'elmo attirerà l'attenzione del nemico Volcente sui due compagni, dall'altra il peso del bottino ostacolerà il giovane in fuga dai soldati nemici. Eurialo muore trafitto dalla spada dello stesso Volcente in un bosco vicino all'accampamento rutulo.  In quel momento Virgilio richiama alla mente un altro paragone con il candido corpo esanime di Eurialo, ossia l'immagine di un fiore purpureo reciso da un aratro o un papavero che abbassa il capo durante la pioggia.  NisoModifica Niso appartiene a una famiglia illustre: è infatti figlio - al pari di Ippocoonte e dell'omerico Asio - del nobile troiano Irtaco che aveva sposato Arisbe, la moglie ripudiata da Priamo, chiamata anche Ida. Egli è, rispetto a Eurialo, più maturo ed esperto, avendo combattuto insieme ai fratelli nella guerra di Troia. Nel poema è ricordata tra l'altro la sua passione per la caccia, trasmessagli da entrambi i genitori. Compare per la prima volta nel quinto libro al fianco di Eurialo nella gara di corsa, in cui scivola, ma aiuta il compagno a vincere grazie a uno stratagemma.  Successivamente, nel nono libro, Niso si fa avanti per uscire dall'accampamento dei troiani assediati dai Rutuli e raggiungere Enea, ma Eurialo vuole seguirlo. Dapprima Niso non acconsente ritenendo il ragazzo non ancora pronto per affrontare un'impresa tanto rischiosa, ma, data la sua insistenza, parte con lui. Entrato nel campo nemico, Niso vi uccide parecchi giovani italici sopraffatti dal sonno, dal vino e dall'inesperienza, imitato poi da Eurialo.  Tenterà invano di salvare l'amico fatto prigioniero dai cavalieri di Volcente. Il suo affetto per il giovinetto lo spinge a vendicarne la morte; egli riuscirà nell'intento cadendo però a sua volta.  Quinto libro - La gara di corsaModifica La prima apparizione di Eurialo e Niso risale al quinto libro dell'Eneide, durante la gara di corsa a piedi svoltasi a Erice nei giochi in onore di Anchise, il defunto padre di Enea. L'episodio è peraltro tratto dalla gara avvenuta nell'Iliade fra Odisseo, Aiace d'Oileo e Antiloco, vinta da Odisseo. Niso si porta in testa, ma scivola inavvertitamente su una pozza di sangue sacrificale, probabilmente sparso da Eneaprima della celebrazione dei giochi.  A quel punto Salio, un altro partecipante, tenta di correre per il primo posto, ma Niso, mosso da un profondo affetto per l'amico, fa uno sgambetto all'avversario che finisce a terra.  Di conseguenza Eurialo sorpassa Salio e vince la gara.  Irritato per la vittoria ingiusta di Eurialo, Salio si lamenta da Enea, ma il pubblico, commosso dal pianto e dal bell'aspetto di Eurialo, parteggia per il giovinetto.  Enea consegna comunque un premio di consolazione a Salio e a Niso, rispettivamente una pelle di leone africano e uno scudo forgiato da Didimaone, e offre al giovane vincitore il premio che gli sarebbe spettato di diritto, ossia un cavallo con borchie.  Nono libro - La sortita notturna e la morte dei due giovaniNella sortita notturna del nono libro, Virgilio s'ispira a quella di Diomede e Ulisse nel decimo libro dell'Iliade, dove i due achei sorprendono nel sonno il giovane re trace Reso e dodici suoi guerrieri.  L'esercito di Turno sta cingendo d'assedio la cittadella dei Troiani sbarcati nel Lazio; Enea, alla ricerca di alleati, si è recato tra gli Etruschi. Niso si propone di uscire per andare a raggiungere Enea e avvertirlo del pericolo imminente, ma Eurialo vuole rimanere al suo fianco, pur sapendo di essere ancora molto giovane per un'impresa così rischiosa e di poter avere ancora una lunga vita davanti a sé. Dopo aver ricevuto il consenso dei compagni riguardo alla loro proposta, Eurialo e Niso si preparano a partire per la loro missione. Ascanio, il figlio di Enea, promette loro grandi premi, tra cui tazze e cucchiai d'argento, cavalli, armature, donne e schiavi, mentre gli altri troiani li equipaggiano con armi adatte all'impresa.  I due amici penetrano nel campo dei Rutuli addormentati. Niso mette al corrente Eurialo della sua intenzione di farne strage e passa immediatamente all'azione, aggredendo un amico intimo di Turno, il borioso re e augure Ramnete, che stava russando nella sua tenda su un cumulo di sontuose stuoie, e con la spada lo colpisce alla gola; introdottosi quindi negli alloggiamenti di Remo, altro importante condottiero italico, sgozza l'auriga disteso sotto i cavalli per poi staccare la testa al suo signore coricato nel letto e ancora al bellissimo giovinetto Serrano riverso a terra nel suo sonno di ubriaco dopo aver dedicato al gioco dei dadi buona parte di quella che sarebbe stata la sua ultima notte. Questi sono i più noti tra i numerosi guerrieri che finiscono vittime di Niso.  Anche Eurialo non resiste alla tentazione di uccidere qualche italico; un certo Reto, svegliatosi improvvisamente, cerca di nascondersi dietro un cratere, ma viene ucciso proprio da Eurialo. A questo punto Niso esorta il compagno a cessare la strage; i due troiani escono dal campo nemico. Eurialo porta via con sé alcuni oggetti di valore, tra cui l'elmo di Messapo (un alleato italico dei Rutuli, che non è tra le vittime).  Proprio per la vanità di Eurialo i due amici vengono avvistati da un drappello di trecento maturi cavalieri rutuli guidato da Volcente; accade infatti che i bagliori dell'elmo e il suo vistoso pennacchio attirino l'attenzione dei nemici, che incominciano allora a inseguire la coppia di troiani, rifugiatasi nel bosco.  Gli uomini di Volcente si sparpagliano quindi attraverso passaggi sconosciuti a Eurialo e Niso, che cercano una via di fuga.  Improvvisamente Niso si ritrova da solo e, correndo a ritroso per cercare l'amico, lo vede circondato da soldati italici. A quel punto, disperato, scaglia le sue armi contro i nemici e riesce a uccidere Sulmone e Tago, due cavalieri di Volcente, il quale, non capendo chi possa essere l'autore di quelle uccisioni, si scaglia su Eurialo con la spada, trafiggendolo mortalmente.  (LA)  «Talia dicta dabat; sed viribus ensis adactus transabiit costas et candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus it cruor, inque umeros cervix conlapsa recumbit: purpureus veluti cum flos succisus aratro languescit moriens lassove papavera collo demisere caput, pluvia cum forte gravantur. Mentre così dicea, Volscente il colpo  già con gran forza spinto, il bianco petto del giovine trafisse. E già morendo  Eurïalo cadea, di sangue asperso  le belle membra, e rovesciato il collo, qual reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero ch'a terra il capo inchina.»  (Traduzione di Annibal Caro) Niso allora grida disperato e si scaglia con tutta la sua violenza contro Volcente, conficcandogli quindi la spada nella bocca spalancata e uccidendolo. Il giovane viene però attaccato dagli altri soldati presenti e, morendo, si getta sull'amico e si dà finalmente pace. At Nisus ruit in medios solumque per omnis Volcentem petit in solo Volcente moratur. Quem circum glomerati hostes hinc comminus atque hinc proturbant. Instat non setius ac rotat ensem fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore condidit adverso et moriens animam abstulit hosti. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus placidaque ibi demum morte quievit. In mezzo de lo stuol Niso si scaglia  solo a Volscente, solo contra lui  pon la sua mira. I cavalier che intorno  stavano a sua difesa, or quinci or quindi  lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre  addosso a lui la sua fulminea spada  rotava a cerco. E si fe' largo in tanto  ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava,  cacciogli il ferro ne la strozza, e spinse.  Così non morse, che si vide avanti  morto il nimico. Indi da cento lance  trafitto addosso a lui, per cui moriva,  gittossi; e sopra lui contento giacque.»  (Caro) Conseguenze della morte di Eurialo e NisoModifica Sùbito dopo la morte di Eurialo e Niso, Virgilio interviene nella narrazione, assicurando ai due amici un eterno ricordo da eroi tragicamente sconfitti:  Fortunati ambo! Siquid mea carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. Fortunati ambidue! Se i versi miei tanto han di forza, né per morte mai, né per tempo sarà che 'l valor vostro glorïoso non sia, finché la stirpe d'Enea possederà del Campidoglio l'immobil sasso, e finché impero e lingua avrà l'invitta e fortunata Roma. (Caro) I corpi esanimi di Eurialo e Niso vengono portati all'interno dell'accampamento rutulo, e quivi sottoposti a decapitazione.  Le teste recise dei due giovani vengono quindi conficcate su lance e portate davanti al presidio troiano con grande clamore.  In seguito la Fama avverte la madre di Eurialo della morte del figlio. Ella, sconvolta dalla notizia, corre fuori di casa strappandosi i capelli e urlando. Ha così inizio un commovente discorso in cui sembra rimproverare il figlio per non averla nemmeno salutata per l'ultima volta prima di partire per la sua pericolosa missione, e rimpiange di non aver potuto guidare le sue esequie e rivedere il suo corpo.  La donna sembra non aver più nemmeno la forza di vivere e implora di essere uccisa dai Rutuli, trafitta dalle loro frecce. L'ultima memoria a Eurialo e Niso è offerta dai troiani che li rimpiangono con gemiti e lacrime e riportano in casa la madre di Eurialo.  Vittime di Eurialo e NisoModifica Vittime di Eurialo Le vittime di Eurialo, tutte uccise nel campo dei Rutuli, sono perlopiù anonime; fanno eccezione:  Abari Erbeso Fado Reto (l'unico che non viene ucciso nel sonno). Colpito di spada al petto, muore vomitando l'anima insieme al vino e al sangue. Vittime di Niso Cavalieri uccisi in scontro aperto (3):  Sulmone, colpito mortalmente da un dardo al petto Tago, ucciso con un dardo che gli trapassa le tempie Volcente, il comandante, cui Niso conficca la spada nella bocca spalancata Guerrieri sorpresi nel sonno:  Ramnete, augure e re italico Remo, condottiero rutulo Lamiro e Lamo, guerrieri rutuli al seguito di Remo Serrano, giovanissimo guerriero rutulo famoso per la sua bellezza, anch'egli al seguito di Remo In questo elenco vanno aggiunti i tre servi di Ramnete e l'auriga di Remo: ma il verso 328 «armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis», da alcuni tradotto «sopprime l'auriga ed armigero di Remo» è da intendersi per altri come «sopprime lo scudiero di Remo e l'auriga», quindi il numero complessivo delle vittime di Niso può variare da 12 a 13. In ogni caso Niso è, dopo Enea e Turno, il guerriero che uccide più nemici nel poema; e tra gli italici che egli sorprende nel sonno sono ben quattro quelli che subiscono la decapitazione, ovvero Remo, Lamiro, Lamo e Serrano.  Virgilio mette anche un certo Numa tra gli italici uccisi nel sonno, ma solo nella sequenza che descrive la scoperta della strage. Per molti studiosi il punto in questione sarebbe uno dei tanti sfuggiti alla revisione definitiva dell'opera: e poiché Numa viene citato insieme a Serrano, si pensa che il poeta abbia scritto erroneamente "Numa" in luogo di "Lamo" o "Remo". Peraltro in un passo del libro X il nome Numa ritorna, insieme a quelli di Volcente e Sulmone: quest'ultimo viene detto padre di quattro giovani guerrieri catturati da Enea, che poco dopo appunto uccide, in mezzo ad altri nemici, un guerriero chiamato Numa, e il figlio di Volcente, Camerte, biondo signore di Amyclae.  Raffronto con l'IliadeModifica Nel compiere la strage, i due giovani vengono paragonati dal poeta a un leone vorace che entrato in un ovile affonda i denti sulle inermi pecore; la similitudine proviene dal modello omerico con la strage dei Traci. La pagina del massacro compiuto dalla coppia troiana si caratterizza però soprattutto per la presenza di particolari cruenti, come l'immagine di Reto che vomita la sua anima intrisa del vino bevuto, e le decapitazioni operate da Niso (Diomede riserva questo trattamento a Dolone e non ai Traci addormentati); il giovane eroe tuttavia si astiene dall'incrudelire sulle teste recise delle sue vittime, divergendo in questo da altre figure epiche (Agamennone e Achille nell'Iliade; Turno e lo stesso Enea nell'Eneide). L'immagine di Eurialo morente, col giovinetto che piega il capo come un papavero, è anch'essa mutuata dall'Iliade, ma richiama un altro passo, quello dell'agonia di Gorgitione, uno dei figli di Priamo, ucciso in battaglia da Teucro nell'ottavo libro del poema. Il testo virgiliano contiene anche alcuni tratti di comicità nera (l'augure Ramnete, amante del fasto, che non riesce a prevedere la propria morte; e l'uccisione del bizzarro auriga di Remo, sorpreso mentre giace tra i suoi stessi cavalli).  Benché l'episodio della sortita notturna sia modellato su quella compiuta da Odisseo e Diomede, i troiani presentano tratti che rimandano più ad Achille e Patroclo per il rapporto che li unisce, ovvero quello di due guerrieri-amanti. In Niso peraltro si può riscontrare una personalità molto simile a quella di suo fratello Asio nell'Iliade, caratterizzata da audacia e irruenza; oltretutto anche Asio soccombe dopo aver tentato di vendicare un commilitone caduto, Otrioneo, al quale però non è sentimentalmente legato, così come non risulterebbe avere un coinvolgimento erotico col proprio auriga, destinato a perire subito dopo di lui. [1].  Interpretazione dell'episodio Affiora in questi versi lo sgomento di Virgilio di fronte agli orrori della guerra, che miete lutti su lutti. La guerra non è tra buoni e cattivi: i troiani cercano una nuova patria, gli italici si sentono minacciati. In nessun altro punto del poema soccombono così tanti eroi giovani: se si eccettuano Volcente e i suoi due cavalieri, padri di famiglia, tutti gli altri personaggi dell'episodio vanno incontro a morte prematura, non ci sono solo Eurialo e Niso, dato che i guerrieri che i due troiani uccidono nel sonno sono più o meno loro coetanei: in IX, 161-63 si dice infatti che Turno sceglie per l'assedio 1.400 giovani («bis septem Rutuli muros qui milite servent / delecti, ast illos centeni quemque sequuntur /purpurei cristis iuvenes auroque corusci»). Gioventù che va di pari passo con l'imprudenza: i Rutuli si lasciano sopraffare dal sonno, un elmo sottratto da Eurialo ai nemici sarà all'origine della sua morte. Ma morire giovani in guerra significa anche guadagnarsi la fama eterna, e a questo provvede Virgilio che manifesta lo stesso senso di rispetto per tutti i caduti: guerrieri aristocratici come Niso, Remo e Ramnete (che pur bollato dal poeta in un primo tempo come superbus per l'ostentazione del suo doppio potere è uno degli italici che Virgilio metterà tra le vittime maggiormente rimpiante dall'esercito italico, essendo indiscutibile la sua amicizia per Turno), e soldati di estrazione non nobile come Eurialo e Serrano.  Fortuna dell'episodioModifica Nell'Orlando furioso di Ludovico Ariosto i due giovani soldati saraceni Cloridano e Medoro compiono una sortita notturna nel campo dei cristiani per cercare il cadavere di Dardinello, il loro signore caduto in battaglia, e vi uccidono diversi nemici sorpresi nel sonno. Fin qui Ariosto segue Virgilio: diversa è la conclusione, che vede soccombere il solo Cloridano, mentre Medoro è destinato a essere salvato dalla bella Angelica; inoltre mancano descrizioni relative al ritrovamento dei guerrieri uccisi nella strage.  Eredità culturaleModifica A Eurialo e Niso sono stati dedicati due crateri di Dione, uno dei satelliti di Saturno. Massimo Bubola ha preso ispirazione dall'episodio virgiliano per una sua canzone scritta in collaborazione con i Gang e da questi incisa in primis, intitolata Eurialo e Niso, in cui si narra di due giovani partigiani - omonimi della coppia di personaggi virgiliani - autori di una sortita notturna contro i nazisti. Anche in questo caso la vicenda si conclude con la morte di entrambi gli amici. FontiModifica Publio Virgilio Marone, Eneide, libri V e IX. NoteModifica ^ Asio è invece molto più legato al principe troiano Deifobo, che subito dopo la sua morte decide di vendicarlo Iliade (Monti)/Libro XIII - Wikisource, su it.wikisource.org. URL consultato il 23 giugno 2021. Voci correlateModifica Temi LGBT nella mitologia Irtaco Arisbe Asio (figlio di Irtaco) Ippocoonte (figlio di Irtaco) Salio Volcente Cloridano Medoro (Orlando furioso) Ramnete Remo (Eneide) Serrano (Eneide) Lamiro e Lamo Reto Cidone e Clizio Decapitazione Reso Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Eurialo e Niso   Portale Letteratura   Portale Mitologia Scienza e filosofia della complessità. Studi in memoria di Aldo Giorgio Gargani A cura di Angelo Marinucci, Stefano Salvia, Luca Bellotti Collana “I Tempi e le Forme” (Carocci) Aldo G. Gargani: la filosofia come analisi delle possibilità di Alfonso Maurizio Iacono Introduzione di Angelo Marinucci e Stefano Salvia 1. Determinismo, linearità, prevedibilità. Il problema dei tre corpi da Newton a Poincaré di Stefano Salvia Genesi e sviluppo di un problema scientifico/La prima formulazione esplicita del problema/Dalla geometria analitica all’analisi algebrica/La controversia intorno a 1 r2/Il problema dei tre corpi ristretto/Il Sistema solare è stabile?/Dall’analisi algebrica alla meccanica analitica/La meccanica razionale e l’analisi classica/Il teorema di Poincaré: limite invalicabile o nuovo spazio di possibilità? 2. Il problema della previsione in un sistema deterministico classico di Andrea Cintio Introduzione/Il problema dello studio delle evoluzioni temporali/Sistema dinamico/Il determinismo e il problema delle previsioni delle evoluzioni/Evoluzioni caotiche/Dalle singole orbite alle famiglie di sistemi/Il problema della previsione e la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali 3. Ordine e caos nella scienza moderna di Leone Fronzoni Introduzione/La riscoperta del caos/Le biforcazioni/Coerenza e autorganizzazione/La turbolenza/Stati coerenti localizzati: i solitoni/La sincronizzazione/Coerenza e disordine nella meccanica quantistica/Entropia e complessità/Network/Conclusioni 4. Su Turing, gli algoritmi, le macchine, la prevedibilità di Luca Bellotti Alan M. Turing (1912-1954): una brevissima biografia/Una digressione: Penrose contro Turing/Algoritmi/Macchine di Turing/Un’osservazione finale: sulla prevedibilità del comportamento delle macchine di Turing 5. Come il futuro dipende dal passato e dagli eventi rari nei sistemi viventi di Giuseppe Longo Introduzione/Storia e dipendenza dal cammino in fisica: qualche confronto/La memoria: un esempio d’invariante storicizzato/Gli osservabili biologici e le loro dinamiche evolutive/Verso il futuro: sapere e imprevedibilità/Tracce invarianti di una storia/Spazi relazionali costruttivi e invarianza/Conoscenza del presente e invenzione del futuro/Il ruolo della diversità e degli eventi rari/Conclusione 6. Possibilità e realtà tra fisica e biologia di Angelo Marinucci Introduzione/Fisica classica/La meccanica quantistica/La biologia/Conclusioni Bibliografia Gli autori Scienza e filosofia della complessità: Studi in memoria di Aldo Giorgio Gargani, a cura di: Angelo Marinucci, Stefano Salvia, Luca Bellotti, Carocci, Roma, 2020 Abstract Il volume raccoglie i contributi, ampiamente elaborati, presentati al convegno Possibilità al di là della determinazione. Matematica, fisica e filosofia della complessità, tenutosi all’Università di Pisa in memoria di Aldo Giorgio Gargani. Dello studioso scomparso nel 2009 sono ben noti gli interessi filosofici per la questione, nata nella fisica moderna e in altri saperi, dell’emergere – in sistemi complessi – di possibilità che vanno, irriducibilmente, al di là della determinazione.Aldo Giorgio Gargani. Gargani.  Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’empatia, scambio, organisazzione condivisa – communicazione – implicatura come condivisa – empatia – d. f. pears --. Mcguinness, Gargani on Grice – ragione – Treccani -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gargani” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Garin – filosofia italiana – Luigi Speranza (Rieti). Filosofo italiano. Grice: “Garin is a serious student of what we may call the longitudinal, rather than latitudinal, unity of Italian philosophy! If ever there is one!” --  Italian philosopher, author of a very rich, “La cultura filosofica del rinascimento italiano.” And “L’umanesimo italiano”Grice was Lit. Hum. Oxon, so he knew. Linceo. Studia sotto Limentani. Frequenta il Liceo classico Galileo. Si laurea sotto Limentani. Vari studi sull'Illuminismo che confluiranno nel volume sui moralisti inglesi. Subito dopo la laurea sostenne e vinse il concorso per insegnare nei licei, cosa che continuò a fare fino a quando vinse la cattedra da ordinario all'università. Tra i commissari del concorso liceale c'era Guzzo, una figura che costituirà un punto di riferimento per Garin quanto meno fino ai primi anni del dopoguerra. I suoi riferimenti culturali non erano costituiti da intellettuali e politici come Gramsci, ma da filosofi di matrice spiritualista e cattolica come Lavelle,  Senne, Castelli Gattinara di Zubiena, Michele Federico Sciacca e lo stesso Guzzo. Iscritto al Partito Nazionaledal 1931, pronuncia al Lyceum di Firenze una commemorazione a Gentile. Una svolta nelle prospettiva politica, filosofica e storiografica (le tre cose non vanno separate) si ha con l'uscita dei Quaderni del carcere di Gramsci, che hanno fortemente influenzato la sua filosofia nel costante riferimento alla concretezza del pensiero, e con la pubblicazione delle Cronache di filosofia italiana”, fortemente sollecitato da Laterza. Storico della filosofia molto legato al rigore filologico e al lavoro sui testi, rifiuta la definizione di filosofo; è tuttavia considerabile tale proprio in virtù delle sue polemiche anti-speculative e come influente teorico della storiografia filosofica. Insegna a Firenze. Si ttrasferì a Pisa a causa dei perduranti disordini della rivolta studentesca iniziata nel '68, di cui non condivideva le modalità di lotta e che considerava espressione di astratto rivoluzionarismo.  La sua infaticabile avidità di letture filosofiche lo rese consigliere prezioso. L’Accademia dei Lincei gli ha conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Altre opere: “Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina”; “Gli illuministi inglesi. I Moralisti; “Il Rinascimento italiano”; “L'Umanesimo italiano”; “Medioevo e Rinascimento”; “Cronache di filosofia italiana”; “L'educazione in Europa”; “La filosofia come sapere storico”; “La filosofia nel Rinascimento italiano”; “La cultura italiana tra Ottocento e Novecento”; “Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano”; “Storia della filosofia italiana”; “Dal Rinascimento all'Illuminismo”  “Filosofi italiani”; “ Rinascite e rivoluzioni”; “Lo zodiaco della vita”; “Tra due secoli”; “Cartesio”; “L’Ermetismo del Rinascimento”; “Gli editori italiani tra Ottocento e Novecento”; “La cultura del Rinascimento”. Ciò non toglie che l'importanza della interpretazione del Rinascimento che Garin ci dà nei suoi scritti e ci documenta nelle sue edizioni, pubblicazioni, finissime traduzioni di testi umanistici di ogni tipo (filosofico, politico, critico, letterario) possa essere, senza iperbole, confrontata con l'importanza della evocazione del Burckhardt» in Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, la Repubblica, Mecacci L., La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano, su lincei. Fondo Eugenio Garin, Il percorso storiografico di un maestro, Firenze, Le Lettere, Marino Biondi, Dopo il diluvio. Eugenio Garin, l'ombra di Gentile e i bilanci della filosofia, in Un secolo fiorentino, Arezzo, Helicon,,Olivia Catanorchi e Valentina Lepri, Dal Rinascimento all'Illuminismo (Atti del convegno Firenze), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,. Michele Ciliberto, Eugenio Garin. Un intellettuale nel Novecento, RomaBari, Laterza,. Raffaele Liucci, Quelle ombre sul delitto Gentile in "Treccani Magazine", La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano, "Il Gramsci di Eugenio Garin", in Archetipi del Novecento. Filosofia della prassi e filosofia della realtà, Napoli, Bibliopolis, Umanesimo e umanesimi. Saggio introduttivo alla storiografia di Garin, Milano, FrancoAngeli, TreccaniEnciclopedie Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Eugenio Garin, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Eugenio Garin. Negli ultimi anni della sua vita, quando con ritrosia era portato a far¬  ne un sobrio bilancio, Eugenio Garin insisteva a dire di essere stato so¬  prattutto un insegnante. «Ho sempre insegnato», ripeteva. E insegnante lo  era stato da giovanissimo, appena ventenne, dei giovani della scuola di  avviamento al lavoro di Fucecchio, delle ‘ragazze di buona famiglia’ delle  Mantellate di Firenze, alle quali faceva lezione sorvegliato, giovinetto tra  giovinette, da una severa suorina, dei suoi quasi coetanei del Liceo Can-  nizzaro di Palermo, ventiduenne nel 1931, poi di quelli del Liceo scien¬  tifico Leonardo da Vinci di Firenze, mentre, precoce in tutto, sostituiva  uno dei suoi maestri, Francesco De Sarlo, neH’insegnamento universita¬  rio di Filosofia teoretica nel 1935, appena ventiseienne. Aveva, insomma,  sempre insegnato e, come si dice, in ogni ordine di scuola dall’università  in giù. Non saprei dire di Garin insegnante di liceo. Vorrei dire solo qual¬  cosa di Garin docente universitario. Credo che ognuno possa sostenere, e  con ragione, di aver conosciuto e di aver avuto un suo Garin. Non già  perché egli avesse la facoltà di adattarsi a chi per dovere o per diletto lo  volesse ascoltare. Anzi. Ma perché ciascuno era messo in grado di reagire  a quell’incontro con il proprio carattere, con la propria formazione, con    * Nel dicembre del 2004 è scomparso Eugenio Garin. Al maestro fiorentino e alla sua  opera la Biblioteca Roncioniana aveva dedicato un convegno nel 2002 (cfr. Giornata di studi,  omaggio a Eugenio Garin, «Bollettino Roncioniano», II, 2002, pp. 45-47; del convegno sono poi  usciti gli atti: Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, a cura di F. Audisio  e A. Savorelli, Firenze, Le Lettere, 2003). Pubblichiamo qui un ricordo di Garin, che Maurizio  Tonini ha letto neha cerimonia svoltasi in Palazzo vecchio il 12 gennaio febbraio 2005, aha qua¬  le sono intervenuti il Sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, Massimo Cacciali, Michele Ci¬  liberto, Mario Luzi e Paolo Rossi. Il testo è apparso neha brochure Per Eugenio Garin, Napoli,  Bibliopoli, 2055, edita a cura di Maurizio Tonini e Francesco Del Franco, che si ringraziano  per averne acconsentito la ristampa in questa sede.     6    Maurizio Tonini    le proprie attese. In altre parole egli non intendeva plasmare l’ascoltatore,  ma solo offrire occasioni, occasioni cui ognuno doveva e poteva rispon¬  dere a suo modo, liberamente. Non che il suo insegnamento fosse univo¬  co, uguale dappertutto e per tutti: era un insegnante troppo navigato per  sapere che una cosa era far lezione agli studenti di Lettere e filosofia assie¬  me, un’altra ai soli filosofi, come ci chiamava, un’altra cosa ancora ai lau¬  reati e laureandi.   Sapeva bene che era diverso rivolgersi ai colleghi in un convegno di  studio, o parlare in una casa del popolo, oppure rivolgersi a tutti, ai citta¬  dini, come spesso gli è capitato proprio qui nel Palazzo Vecchio della sua  Firenze. Cambiavano i contenuti, mutavano i toni, mai il carattere, l’alta  professionalità, medesima sempre la passione. Eugenio Garin non ha mai  spezzettato il pane della cultura: ovunque, o a chiunque avesse da parlare  o da insegnare, lo sconosciuto studente che si presentava all’esame, l’ami¬  co e collega, lo studioso straniero, il giovane laureato, tutti meritavano  sempre la stessa attenzione, il medesimo trattamento. Sì che nella sua pro¬  duzione letteraria le conferenze lincee e le lezioni al Collège de France  stanno insieme agli scritti, diciamo, d’occasione, senza che il lettore ne  colga, se non con l’aiuto di riferimenti bibliografici, la loro provenienza e  la loro destinazione.   Niente gli era più alieno, fisicamente e metaforicamente, dell’espres¬  sione ‘prendere per mano’. Garin non prendeva per mano nessuno: apre un libro, i cui capitoli anda narrando di volta in volta. Un libro sempre nuovo. Per chi sapeva apprezzarlo, quel libro conduceva a altri libri,  poi a una collana, infine a una biblioteca, spesso la sua. Un libro somi¬  gliante a quello di un autore a lui carissimo, Laurence Sterne, La vita e le  opinioni di Tristram Shandy, fatto di parentesi, di divagazioni apparenti, di  vie traverse che sembrano far perdere di vista il contenuto promesso fino  a farlo dimenticare, ma che in realtà indicano tutto ciò che è necessario  per cominciare, più tardi altrove, la lettura. Come in un libro ciascuno,  per proprio conto, doveva specchiarvisi, trovarvi, se volete, la propria  strada, senza ammiccamenti né scorciatoie. E come con un libro, ciascu¬  no instaurava con lui un rapporto individuale: per quanto paradossale, la  sua lezione non consentiva alcuna lettura corale, alcuna possibilità di di¬  spense, alcuna versione ufficiale.   Considerava la cultura, lo ha scritto, la «conquista di una più profon¬  da coscienza di sé». E l’università era cultura. In questo senso il suo non è  mai stato un insegnamento demagogicamente democratico, né si è mai  considerato un missionario, né ha considerato il proprio lavoro una mis¬  sione. Piuttosto un funzionario, come amò talora definirsi, civettando  con il motivo del trasferimento della sua famiglia a Firenze, che assicurava un viaggio su un treno sicuro, tecnicamente aggiornato, ben condotto,  ma che, al pari di un capotreno, non era, e non si considerava, poi re¬  sponsabile se i viaggiatori scendevano alle stazioni intermedie e prende¬  vano altre direzioni. Non credo si sia mai sentito coinvolto nelle scelte al¬  trui, né voleva esserlo. Non si prestava, pur avendone le doti, a essere il  pifferaio fascinatore di candide giovinette e di timidi giovinotti. Lo  avrebbe considerato un tradimento, un traviamento del suo compito, che  era appunto, e solo, quello di insegnare la filosofia, di insegnare a capirne  la storia, di fare cultura, ma sempre altro da convincere o da portare su  una strada che non fosse già in qualche modo segnata, e segnata indivi¬  dualmente, in chi lo ascoltava.   Un pescatore anche, ma un pescatore che gettava reti larghe e pro¬  fonde nelle quali si aspettava che i pesci entrassero spontaneamente, mai  che venissero catturati. I suoi pesci erano e dovevano essere studenti ma¬  turi — non venivano infatti da un esame che ne aveva certificato proprio  la maturità? — che egli considerava suoi pari, almeno per quel che riguar¬  da il cartesiano bori sens, la bona mens, la cosa più diffusa e più equamente  distribuita tra gli uomini, sì che la differenza tra lui e noi riguardava, ga¬  lileianamente, l’estensione del sapere, non la capacità di comprendere. Il  severo, severissimo Garin, che tanto spaventava le matricole, era un be¬  nevolo confessore dell’ignoranza dei suoi studenti. E quelli più maturi  imparavano subito che la migliore risposta alle domande che fioccavano  in aula era quella di confessarla subito quella ignoranza, anche quando si  era quasi sicuri della risposta (ma chi era sicuro di fronte a Garin?).   Certo, quell’estensione del sapere costituiva una barriera, una diffe¬  renza di cui era consapevole lui e consapevoli noi, una barriera quantita¬  tiva, ci faceva credere, scalabile e riducibile, quasi come una differenza di  età, mai come un’inattingibile diversità, che mai si trasformava in pater¬  nalistica condiscendenza. Quella barriera si sgretolava nella generosa di¬  sponibilità a fornire indicazioni e libri, al reiterato prestarsi a spiegare non  solo le tematiche del proprio corso, ma a offrirsi di guidare piccoli gruppi  alla lettura dei testi (Hegel, Kant o Husserl) dei corsi di altri colleghi che  ci risultassero particolarmente difficili. Il grande intellettuale non dimen¬  ticava in nessuna occasione la sua professione: non solo nel rigido adem¬  pimento dei suoi obblighi di docente, nella proverbiale puntualità, nella  scrupolosa preparazione dei corsi (i ‘bauli’ di libri che partivano anzitem¬  po per la montagna), nella paziente e tanto prodiga lettura dei capitoli  delle tesi di laurea, nella curiosità con cui ogni anno rinnovava l’incontro  con i suoi giovani interlocutori. Aveva trasformato una precoce vocazio¬  ne in una professione, in un affetto per il proprio lavoro, prima ancora  che per chi dovesse usufruirne, in una disciplina che scherzosamente at-    Eugenio Garin. La lezione di un maestro  tribuiva alle lontane origini savoiarde, ma che forse è la chiave per coglie¬  re la sua straordinaria e mai dismessa operosità, la freschezza di ogni suo  intervento. Garin non è mai stato altro che un insegnante: poche, modeste e occasionali le cariche accademiche, nelle quali emergevano un’insofferenza e una scontrosità imprevedibili nel professore, altrettanto rare  quelle istituzionali o editoriali e solo al termine, o quasi, della sua carriera  scolastica, nessuna, ovviamente, carica politica, in un uomo che aveva,  come sapete, una grande e perdurante passione civile, per la sua scuola,  per la sua città, per il suo paese. Credo che nulla gli sarebbe apparso più  estraneo e spiacevole di esser considerato a capo di qualcosa, fosse un isti¬  tuto, una rivista o una cordata accademica. Di fatto non c’è mai stata una  scuola di Garin, ci sono stati, e ci sono, tanti che hanno studiato e si sono  laureati con lui, che hanno lavorato con lui, che hanno condiviso aspetti  e momenti del suo lavoro, che si sono incontrati con lui, ma niente di  più. Incauti giovinetti, invidiavamo gli allievi di Dal PRA, che il maestro  radunava a S. Margherita o sul lago di Garda, cui apriva la «Rivista critica  di storia della filosofia», la collana del centro milanese di storia della filosofia. O quelli di Paci, che si ritrovavano su «aut aut»,  che si incontravano nelle edizioni del Saggiatore, ricordavamo e ricono¬  scevamo quelli di Banfi o quelli emergenti di Geymonat, che attendeva¬  no a imponenti opere collettive, e tanti altri che andavano sorgendo vi¬  cino e lontano. Garin non aveva nulla: non ha mai diretto opere colletti¬  ve, non ha mai organizzato convegni né li ha fatti organizzare, mai colla¬  ne editoriali. Quando ciò è avvenuto, in tarda età, con l’ISTITUTO NAZIONALE DEL RINASCIMENTO o con il «Giornale critico della filosofia italiana», tutto si è potuto e si può dire, fuori che fossero espressioni di una  scuola o di un gruppo che in lui si riconoscesse o che in lui fosse ricono¬  scibile. Neanche quando alla Scuola Normale di Pisa gli si è offerta l’opportunità di cogliere ancora una volta una straordinaria e entusiasta messe  di giovani studiosi, è venuto meno il carattere del suo insegnamento. Lì,  come in S. Marco e poi in Piazza Brunelleschi, non ha mancato di offrire  opportunità, un’occasione irripetibile, anzi, generosamente resa disponi¬  bile, ma sempre e solo per chi aveva modo e voglia di coglierla e di rea¬  lizzarne le potenzialità, ma lasciando a ciascuno la libertà di decidere, di  interpretare quell’incontro, di farne ciò che voleva. Il severo Garin non  rimproverava mai: non gli sarebbe mai venuto in mente di riprenderci,  come capitava al suo amico e collega CANTIMORI o a RAGIONIERI,  se mancavamo a una seduta di seminario e venivamo sorpresi in bi¬  blioteca o, peggio, al bar. Ma neppure gli sarebbe venuto in mente di TONINI portarci nello stesso bar a prendere un aperitivo o un caffè, come capitava  spesso con Cantimori e occasionalmente con Ragionieri.   Non voleva essere né un padre, né un maestro di vita. Non credo  neppure che volesse additarci un modello: era piuttosto una lezione di  maturità, di piena e consapevole democrazia intesa come rigoroso rispet¬  to dei ruoli, quella a cui ci chiamava, e che per molti era anche la prima.  Il suo dovere era quello di insegnare, del nostro dovevamo rispondere  noi. Scendeva dalla cattedra per aiutarci a leggere un testo, per offrirci  un’indicazione, per mostrarci un passo di un libro, sedeva tra noi a discutere di Cartesio o di Platone, e la lezione poteva proseguire nella Biblioteca di Facoltà, o vicino ai tavoli della Nazionale o tra i libri di Seeber, ma  senza mai abdicare alla sua funzione: non sarebbe mai sceso a discutere  con noi il corso dell’anno seguente, la sua organizzazione, le sue modalità. A ciascuno il suo. Non discuteva le nostre scelte di vita, i propositi di  lavoro, le carriere. Li considerava su un altro piano, nel quale l’insegnante  non doveva né poteva intromettersi: li accettava. Al massimo inarcava le  ciglia, come nei lavori che gli sottoponevamo, e abbiamo continuato a  sottoporgli, quando un impercettibile segno di lapis segnalava i dubbi e  gli errori di sintassi. Cittadino di forti passioni civili, le lasciava tutte,  fuorché quella di insegnare, fuori dall’aula. Era facile sapere come la pensa, lo leggevamo su «Paese sera», su «l’Unità», su «Rinascita», lo seguivamo nelle Case del popolo, al Circolo di cultura, ma non si è mai inne¬  scata, con lui, una forma qualsiasi di intesa, di complicità, oserei dire, che  prescindesse da quella unica e prevalente di insegnante e studente. Garin ci ha lasciato centinaia, migliaia di pagine in cui ci ha insegnato  come ricostruire figure di pensatori grandi e piccoli, da ASTORINI a  Cartesio, da CITTADINI a Giovanni PICO della Mirandola. Ha ricostruito squarci del nostro passato culturale e civile, da CROCE a GENTILE,  da GRAMSCI a LABRIOLA, da CAPPONI a VILLARI, ci ha dato testi  e momenti del nostro passato filosofico che hanno costituito e costituiscono un’eredità operante, viva e vitale per ognuno che voglia fare una  professione simile alla sua. Non ci ha potuto lasciare, ed è purtroppo destinato a perdersi, quello che gli pareva più importante: la sua lezione.   Mi accorgo, nel concludere, di aver ricordato una scuola, un’università che non c’è più. Non saprei dire se l’attuale, nella quale molti di noi si  trovano ora, sia migliore o peggiore di quella. Mi auguro, e lo auguro soprattutto ai più giovani, di potervi incontrare ancora un insegnante come Garin. L'insidia implicita nel concetto stesso di genere letterario ha non di rado contribuito a falsare la prospettiva necessaria a ben collocare la produzione filosofica dell’umanesimo. Eta in cui vennero predominando preoccupazioni critiche, in cui tutta l'attivita  spirituale e impegnata a costruire una respublica terrena, degna pienamente dell'uomo nobile, trova la sua espressione piu alta in opere di contenuto in largo senso moralistico e di tono retorico, in cui non solo si consegna un modo di concepire la vita,  ma si difende e  si giustifica polemicamente un atteggiamento originale in ogni suo tratto. Per questo chi voglia andar cercando le pagine esemplari dell’epoca,  le  piu  profondamente  espressive,  dovra  rivolgersi,  non  gia  a  testi  per  tradizione  considerati  monumenti  letterari,  ma  alle  opere  in  cui  veramente  si  manifest6  tutto  1'impegno  umano  della  nuova  civilta.  Cosi,  mentre  chi  prenda  a  scorrere  novelle  umani-  stiche  non  potra  non  uscir  deluso  da  talune,  piu  che  imitazioni,  traduzioni,  o  meglio  raffazzonamenti,  di  modelli  boccacceschi,  quali  troviamo,  tanto  per  esemplificare,  in  un  Bartolomeo  Fazio,  pagine  di  insospettata  bellezza,  capaci  di  colpire  ogni  piu  raffinata  sensibilita,  ci  si  fanno  incontro  nei  trattati  e  nei  dialoghi  di  Poggio  Bracciolini,  e  perfino  nelle  opere  di  un  filosofo  di  professione,  dall’andamento  talora  scolasticizzante,  qual  &  Ficino.  E  proprio  il  Ficino  della  Theologia  platonica,  presentando  gli  uomini  travagliati  dalla  malinconia  della  vita  e  desiderosi  che  tutto  sia  un  sogno  (wforsitan  non  sunt  vera  quae  nunc  nobis  ap  parent,  forsitan  in  praesentia  somniamus»),2  defmisce  nei  suoi  particolari  espressivi  un  tema  di  larghissima  risonanza  in  tutta  la  letteratura  europea.  Sempre FICINO,  nel  Liber  de  Sole,  pur  parafrasando  talora  l’orazione  famosa  dell'imperatore GIULIANO,  fissa  i  momenti  di  quella  «lalda  del  sole))  che,  attraverso  Leonardo  da  Vinc,  arriva  fino  alPinno  ispirato  di  Campanella.  Leonardo  rimanda  esplicitamente  all'apertura  del  terzo  libro  degli  Inni  naturali  del  Marullo;  ma  chi  veramente,  ancora  una  volta,  in  una  prosa  di  grandissimo  impegno,  ci  offre  tutti  i  temi  di  quella  si.  «L'omo  nato  nobile  e  in  citt&  libera»-  come  diii  PICCOLOMINI.  FICINO,  Opera,  Basileae,  per  Henricum  Petri.  (Theol  plat.).  lenne  preghiera  di  ringraziamento  alia  fonte  di  ogni  vita  e  di  ogni  luce,  e  proprio  Ficino.  Del  quale  e  la  non  dimenticabile  raffigu-  razione  di  una  tenebra  totale,  ove  e  spento  ogni  astro,  che  fascia  lungamente  i  viventi,  finche  di  colpo  il  cielo  si  apre  per  mo-  strare  colui  che  e  sola  forma  visibile  del  Dio  verace.  E  ficiniana  e  1'opposizione  del  carcere  oscuro  e  della  luce  di  vita,  della  te  nebra  di  morte  e  dei  germi  rinnovellati  dalla  luce  e  dal  calore  solare,  in  cui  si  articolera  il  metro  barbaro  di  Campanella.   Ma  per  rimanere  agli  scritti  di  un  medesimo  autore,  ALBERTI,  non  grande  imitatore  del  BOCCACCIO,  raggiunge  invece  la  sua  piena  efficacia  quando  costruisce  i  suoi  dialoghi,  e  sa  essere  perfettamente  originale  pur  intessendoli  di  reminiscenze  classiche.  Perfino  la  tanto  celebrata  Historia  de  Eurialo  et  Lucretia  di  Enea  Silvio  perde  tutto  il  suo  colore  innanzi  alle  pagine  dei  Commentarii'*  e  sono  piu  facili  a  dimenticarsi  i  casi  di  Lucre-  zia  che  non  le  stanze  delle  antiche  regine  divenute  nidi  di  serpi,  o  le  porpore  dei  magistrati  romani  rievocate  fra  Tedera  che  copre  le  pietre  rose  dal  tempo,  o  i  topi  che  corrono  la  notte  nei  sotterranei  di  un  convento  e  il  papa  che  caccia  sdegnato  i  monaci  ne-  gligenti.  Per  non  dire  di  quella  feroce  presentazione  dei  cardinali,  fissati  in  ritratti  nitidissimi  con  rapide  Imee  mentre  per  complottare  trasferiscono  nelle  latrine  la  solennita  del  conclave.   Poggio  consegna  a  trattati  di  morale  narrazioni  scintillanti  di  arguzia,  spesso  molto  piu  facete  di  tutte  le  sue  Facezie.  I  mari  di  Grecia  percorsi  sognando  di  Ulisse,  il  fasto  delle  corti  d'Oriente,  le  belve  africane,  i  fiumi  immensi, et  per  Nilum  horrifici  illi  anguigeni  crocodiliw,  si  alternano  a  discussioni  erudite  sulle  iscrizioni  delle  Piramidi  nelle  lettere  agli  amici  e  nel  taccuino  di  viaggio  di  quel  bizzarro  e  geniale  archeologo  che  fu  Ciriaco  dej  Pizzicolli  d'Ancona.  E  forse  il grande  Poliziano  ha  scritto  le  sue  pagine  piu  belle  nella  prolusione  al  corso  sugli  Analitici  primi  d' Aristotele  e  nella  lettera  alPAntiquario  sulla  morte  del  Magnifico Lorenzo.  Lettere  dialoghi  e  trattati,  orazioni  e  note  autobiografiche,  sono  i  monumenti  piu  alti  della  letteratura  del  Quattro  cento,  e  tanto  piu  efficaci  quanto  meno  1'autore  si  chiude  nelle   i.  «La  novella  era  un  genere  troppo  definite,  troppo  condizionato  nelle  sue  linee  essenziali  da  una  tradizione  ormai  piu  che  secolare,  perche  il  Piccolomini  potesse  eluderne  il  colorito  e  gli  schemi»  (PAPARELLI,  Enea  Silvio  Piccolomini,  Bari,  Laterza).  forme  tradizionali,  quanto  piii  si  impegna  nel  problema  concrete  che  lo  preoccupa,1  o  si  accende  di  passione  politica  nel  discorso  e  nell'invettiva,  o  si  dimentica  nella  confessione  e  nella  *lettera.   Poliziano,  che  della  produzione  letteraria  del  suo  tempo  fu  il  critico  piu  accorto  e  consapevole,  e  che  ha  dichiarato  con  grande  precisione  i  suoi  princlpi  dottrinali  nella  prefazione  ai  Miscellanea,  nella  lettera  al  Cortese  e,  soprattutto,  nella  grande  prolusione  a  Stazio  e  Quintiliano,  ha  visto  molto  bene  come  alPumanesimo  fossero  intrinsiche  particolari  maniere  espressive.  Proprio  nelle  prime  lezioni  del  suo  corso  sulle  Selve  di  Stazio,  con  la  cura  minuta  che  gli  era  propria,  si  sofferma  a  dissertare  abbastanza  a  lungo  intorno  a  due  forme  letterarie  tipiche,  Fepistola  e  il  dialogo,2  accennando  insieme  al  genere  oratorio,  da  cui  gli  altri  due  si  distaccano  pur  non  senza  svelare  un'intima  parentela.  L'epistola  —  egli  dice  —  e  il  colloquio  con  gli  assenti,  siano  essi  lon-  tani  da  noi  nello  spazio  oppure  nel  tempo:  e  vi  sono  due  specie  di  lettere,  scherzose  le  une,  gravi  e  dottrinali  le  altre  («altera  ociosa,  gravis  et  severa  altera))).3  Ma  1'epistola  deve  essere  sempre  i.  In  una  compilazione  erudita  come  i  Dies  geniales  di  Alessandro  d'Ales-  sandro  la  discussione  filologica  si  inserisce  con  eleganza  fra  il  « ritratto»  e  il  «ricordo»  senza  togliere  a  questi  alcuna  grazia,  cosi  che  la  discus  sione  di  un  testo  classico  si  colloca  nella  descrizione  di  un  compleanno  del  Pontano  o  di  una  cena  di  Ermolao  Barbaro,  o  fa  seguito  a  una  lezione  romana  del  Filelfo  (cfr.  BENEDETTO  CROCE,  Varietd  di  storia  letteraria  e  civile,  n,  Bari,  Laterza. A  proposito  del  dialogo  e  dell'epistola  come  forme  caratteristiche  dell'umanesimo  e  da  vedere  quan  to  dice  WALTER  RttEGG,  Cicero  und  der  Humanismus,  Formate  Untersuchungen  iiber  Petrarca  und  Erasmus,  Zurich,  Rhein-Verlag,  anche  se  a  proposito  della  sua  tendenza  a  ricondurre  tutto  a CICERONE e da tener  presente  la  nota  che  CROCE  stese  appunto  sull'opera del Rxiegg  (Mommsen  e  CICERONE,  in  Varietd  cit.,  pp.  1-12).  3.  II  commento  del  Poliziano  e  nel  ms.  Magliab.  vn, (Bibl.  Naz.  Firenze).  II  testo  in  questione  e  a  c.  4V-5V  («est  ergo  proprie  epistola,  id  quod  ex  Ciceronis verbis  colligimus,  scriptionis  genus  quo  certiores  fa-  cimus  absentes  si  quid  est  quod  aut  ipsorum  aut  nostra  interesse  arbitremur.  Eiusque  tamen  et  aliae  sunt  species  atque  multiplices,  sed  duae  praecipuae  .  .  .  altera  ociosa,  gravis  et  severa  altera.  Atqui  neque  omnis  materia  epistolis  accommodata  est...  Brevem  autem  concisamque  esse  oportet  simplicis  ipsius  rei  expositionem,  eamque  simplicibus  verbis.  Multas  epistolae  inesse  convenit  festivitates,  amoris  significationes,  multa  proverbia,  ut  quae  communia  sunt  atque  ipsi  multitudini  accommodata.  Qui  vero  sententias  venatur  quique  adhortationibus  utitur  nimiis,  iam  non  epistolam,  sed  artificium  oratorium. Epistola  velut  pars  altera  dia-  logi.  .  .  maiore  quadam  concinnatione  epistola  indiget  quam  dialogus imitatur  enim  hie  extemporaliter  loquentem at  epistola  scribitur»).   breve  e  concisa,  semplice,  con  semplici  espressioni,  ricca  di  brio,  di  affettuosita,  di  motti,  di  proverbi  (amulta  proverbia,  ut  quae  communia  sunt  atque  ipsi  multitudini  accommodata»).  Ne  la  lettera  deve  prendere  un  tono  troppo  sentenzioso  e  ammonitorio,  altri-  menti  non  si  ha  piu  una  lettera  ma  una  elaborata  orazione  («iam  non  epistolam,  sed  artificium  oratorium))).  L'epistola  e  come  la  battuta  singola,  e  die  rimane  quasi  sospesa,  di  un  dialogo  («velut  pars  altera  dialogi»),  anche  se  deve  essere  formalmente  piu  cu-  rata  del  dialogo,  che  per  essere  schietto  deve  imitare  ii  discorso  improwisato,  mentre  Tepistola  e  per  sua  natura  discorso  medi-  tato  e  scritto.  In  tal  modo  un  carteggio  viene  ad  essere  un  dia  logo  compiuto  e  vario;  e  non  va  dimenticato  come  proprio  il  cu-  rioso  epistolario  del  Poliziano  ci  offra  un  esempio  caratteristico  di  simili  colloqui.   Non  a  caso,  con  la  sua  grande  sensibilita  critica,  il  Poliziano  batteva  proprio  su  queste  forme:  ad  esse  infatti  si  pu6  ricondurre  quasi  tutta  la  piu  significativa  produzione  latina  in  prosa  del  Quat  trocento,  poiche  anche  il  diario,  il  taccuino  di  viaggio,  si  confi-  gura  di  continue  come  lettera  ad  un  amico.  Cosi,  per  ricordare  ancora  V Itinerarium  di  Ciriaco  d'Ancona,  noi  vi  troviamo  ripor-  tati  di  peso  i  temi  e  le  espressioni  medesime  delle  epistole.1   6  stato  detto,  ma  non  del  tutto  giustamente,  che  «PUmanesimo  fu  una  rivoluzione  formale»;3  in  verita  la  profonda  novita  for-  male  aderiva  esattamente  a  una  rivoluzione  sostanziale  che  fa-  cendo  centro  nella CONVERSAZIONE CIVILE,  nella vita civile,  po-    i.  Itinerarium:  ego quidem interea magno visendi orbis studio,  ut  ea  quae  iamdiu  mihi  maximae  curae  fuere  antiquarum  rerum  monumenta  undique  terris  diffusa  vestigare  perficiam. Hinc  ego  rei  nostrae  gratia  et  magno  utique  et  innato  visendi  orbis  desiderio. Epist.  Boruele  Grimaldo  (ins.  Targioni, Bibl.  Naz.  Firenze):  «cum  et  a  teneris  annis  summus  ille  visendi  orbis  amor  innatus  esset  ...»  Del  resto  tutta  1' opera  di  Ciriaco  e  una  serie  di  variazioni  di  questo  appassionato  motivo:  summus  ille  visendi  orbis  amor,  antiquarum  rerum  monumenta  vestigare,  quae  in  dies  longi  temporis  labe  .  .  .  collabuntur  .  .  .  litteris  mandare.  La  sete  di  conoscere  il  mondo,  il  bisogno  di  vincere  spazio  e  tempo,  di  riconqui-  stare  ogni  piu  lontano  frammento  d'umanita  e  di  sottrarlo  alia  morte,  e  insieme  questo  senso  concrete  del  passato  trovano  in  lui  una  espres-  sione  singolare.  Nella  medesima  epistola  a  Leonardo  Bruni abbiarno in sieme notizia di  un'iscrizione  inviata  da  Atene  (ex me nuper Athenis) e della difesa di Cesare contro il  Bracciolini  spedita  dall'Epiro  (ex  Epyro  hisce  nuper  diebus. Cosl,  appunto,  il  Riiegg, («der  Humanismus  ist  eine  formale,  nicht  eine  dogmatische  Revolution»).  neva  il  colloquio  come  forma  espressiva  esemplare.1  E  se  la  let-  tera  deve  essere  considerata  velut  pars  altera  dialogi,  Fattenzione  si  polarizza  sul  dialogo:  ed  in  forma  di  dialogo  e  in  genere  il  trat-  tato,  di  argomento  morale  o  politico  o  filosofico  in  senso  lato,  che  rispecchia  la  vita  di  una  umana  respublica  e  traduce  perfetta-  mente  questa  collaborazione  voita  a  formare  uomini  ccnobili  e  li-  beri»,  che  costituisce  1'essenza  stessa  della  humanitas  rinascimen-  tale.  La  quale  celebrandosi  nella  societa  umana  tende  a  persua-  dere,  a  far  culminare  ogni  incontro  in  una  trasformazione  degli  altri  attraverso  una  riforma  interiore  raggiunta  per  mezzo  della  politia  litteraria.Limiti  e  prolungamenti  del  colloquio  ci  appaiono  da  un  lato  la  notazione  autobiogranca,  dalTaltro  il  pubblico  discorso,  1'orazione,  che  attraverso  la  polemica  arriva  all'invettiva.  I  cancellieri  fiorentini,  Salutati  e  Bruni,  ci  ofFrono  esempi  insigni  di  questo  intrinsecarsi  di  letteratura  e  politica,  di  questa  prosa  che  deU'efficacia  e  potenza  espressiva  si  fa  un'arma  piu  valida  delle  schiere  combattenti.  La  lode  famosa  di  Pio  II  alia  saggezza  di  Firenze,  e  ai  suoi  dotti  cancellieri  le  cui  epistole  spaventavano  Gian  Galeazzo  Visconti  piu  di  corazzate  truppe  di  cavalleria,  non  e  che  la  proclamazione  del  valore  di  una  propaganda  fatta  su  un  piano  superiore  di  cultura  in  una  societa  educata  ad  acco-  gliere  e  a  rispettare  la  superiorita  della  cultur.  L'incontro  di  po  litica  e  cultura  a  Firenze  e  a  Venezia  ritrova  la  valutazione  della  «retorica»  di  un  Poliziano  e  di  un  Barbaro,  e  giova  a  defimre  un'epoca  che  cercava  i  suoi  titoli  di  nobilta  al  di  fuori  dei  diritti  del  sangue.  La  « virtu»,  che  non  e  certamente  un  bene  ereditato,  e  sempre  intelligenza,  humanitas.,  e  cioe  consapevolezza  e  cultura.  Anche  quando,  nelle  discussioni  non  infrequenti  sulP  argomento,  si  riconosce  il  valore  della  «milizia»,  s'intende  una  sottile  dottrina,  ove  il  valore  personale  del  capo  e  intessuto  di  sapienza.  Federigo  da  Montefeltro  —  e  poco  ci  importa  se  il  ritratto  sia  fedele  —  e  profondamente  addottrinato,  e  sa  che  i  poeti  descrivendo  le  bat-  taglie  possono  divenire  anch'essi  maestri  delParte  della  guerra.  Alfonso  il  Magnanimo  reca  seco  al  campo  una  piccola  biblioteca,  e  pensa  sempre  a  poeti  e  a  filosofi,  e  sa  che  la  parola  bene  adoprata,  ossia  veramente  espressiva,  e  piu  potente  di  ogni  esercito.   i.  C'&  appena  bisogno  di  ricordare  che  si  tratta  dei  titoli  delle  opere  di  Matteo  Palmieri  e  del  Guazzo. E  ancora  il  titolo  di  un'opera  signifi-  cativa,  quella  di  A.  Decembrio  in  cui  si  rispecchia  la  scuola  del  Guarino.  II  suo  motto,  racconta  Vespasiano  da  Bisticci,  era  che  «un  re  non  letterato,  e  un  asino  coronato  ».  II  che  non  significa,  si  badi,  che  ser  Coluccio  fosse  un  vuoto  retore,  o  Alfonso  un  re  da  ser-  mone,  ma  che  la  cultura  era,  essa,  viva  ed  efficace  e  umana,  e  perfetta  espressione  di  una  societa  capace  d'accoglierla.   L'uomo  che  nel  linguaggio  celeb ra  veramente  se  stesso -- l'uomo  si  manifesta  uomo  essenzialmente  nella  parola ,come  si  costituisce  in  pienezza  definendosi  attraverso  la  cultura  (le  litterae  che  formano  la  humanitas),  cosi  raggiunge  ogni  sua  efficacia  mondana  mediante  la  parola  persuasiva,  mediante  la  «retorica»  intesa  nel  suo  significato  profondo  di  medicina  dell'anima,  signora  delle  passioni,  educatrice  vera  dell'uomo,  costruttrice  e  distruttrice  delle  citta.  Tutto  e,  veramente,  nel  Quattrocento retorica)),  sol  che  si  ricordi  che,  d'altra  parte,  «retorica»  e  umanita,  ossia  spiritua-  lita,  consapevolezza,  ragione,  discorso  di  uomini;  perche',  veramente,  il  secolo  dell’umanesimo  e  il  Quattrocento,  in  cui  tutto  fu  inteso  sub  specie  humanitatis,  e  humanitas  e  umano  colloquio,  ossia  tutto  il  regno  delle  Muse  figlie  di  Mnemosine  —  che  e  il  piu  vero  e  il  piii  bello  dei  miti.   Con  semplicita  francescana  frate  Bernardino  da  Siena,  che  vede in  ser  Coluccio  un  maestro  e  in  Leonardo  Bruni  un  amico,  scriveva  cristianamente  le  medesime  cose:  «non  aresti  tu  gran  piacere  se  tu  vedessi  o  udissi  predicare  Gesu  Cristo,  san  Paulo,  santo  Gregorio,  santo  Geronimo  o  santo  Ambruogio?  Orsu  va,  leggi  i  loro  libri,  qual  piu  ti  piace  .  .  .  e  parlerai  con  loro,  ed  eglino  parleranno  teco;  udiranno  te  e  tu  udirai  loro».  E,  come  dice  altrove,  le  lettere  ti  faranno  «signore».  II  grande  Valla  par-  lera  di  un  sacramentum\  il  modesto  Bartolomeo  della  Fonte  dira  di  un  divinwn  mimen:  quel  «nume»  che  da  agli  uomini  anozze  e  tribunali  ed  are. Per  questo  le  litterae  sono  una  cosa  terri-  bilmente  seria,  e  la  responsabilita  di  un  termine  bene  usato  &  gravissima,  e  non  v'e  posto  per  Fozio.  Per  questo  la  poesia  in  senso  vichiano  e  da  cercarsi  la  dove  si  traducono  e  si  consegnano  i  discorsi  essenziali  per  la  vita  delFuomo.    i.  Cosi FLORA,  Umanesimo,  « Letterature  moderne»,  i,  1950,  pp.  20-Ecco  —  secondo  il  Fonzio  —  quello  che  ottiene  la  parola:  «fidem  inter  se  homines  colere,  matrimonia  inire,  seque  in  una  moenia  cogere  viribus  eloquentiae  compulit».   Per  tal  modo  quella  «poesia»  che  talora  &  lontana  dai  versi  e  dalle  novelle,  e  presente  ed  altissima  nella  pagina  di  un  filosofo  o  nell'appassionata  invettiva  di  un  politico.  La  dolcezza  del  dire  (dulcedo  et  sonoritas  verborum),  la  luce  della  forma  (lux  orationis),  che  si  invoca  per  ogni  espressione  di  vera  umanita,  vuol  far  «poesia»  di  ogni  umano  discorso;  e  nel  momento  in  cui  riesce  a  tanto  toglie  ogni  privilegiato  dominio  alle  dettere  oziose.  Perfino  un  oscuro  erudito  come  Giovanni  CASSI d'Arezzo  sa  dirci  che  in  tal  modo  nell'eloquenza  si  unificano  tutte  le  umane  attivita,  e  tutto  in  essa  si  umanizza  dawero,  e  non  perche come  taluno  ha  fan-  tasticato,  si  celebri  solo  il  letterato  ozioso,  ma  al  contrario  perche  1'uomo  e  presente  in  ogni  momento  dell'agire:  perche,  faccia  egli  il  matematico,  il  medico,  il  soldato  o  il  sacerdote,  sempre  e  innanzitutto  e  uomo,  e  il  suo  sigillo  umano  imprime  ad  ogni  sua  opera  umanamente  esprimendola,  ossia  rivestendola  della  lux  ora-  tionis.*   Di  qui  l’importanza  centrale  che  vengono  ad  assumere  le  trat-  tazioni  sulla  lingua,  sulla  sua  storia,  sulla  eleganza?  ove  la  discus-  sione  grammaticale  si  trasforma  di  continuo  in  discorso  finissimo  di  estetica:  e  quel  trapassare  dal  vocabolario,  e  magari  dal  reper-  torio  ortografico  —  basti  pensare  al  Perotto  o  al  Tortelli  —  nel-  Panalisi  critica  e  nella  dissertazione  storica.  Mentre,  contemporaneamente,  la  storia,  che  intende  farsi  vivo  specchio  della  a  vita  civile)),  e  per  eccellenza  eloquente  discorso,  ossia  prosa  politica  e  trattato  pedagogico-morale.  Bellissima  cosa  &  infatti  —  come  afferma  Bruni  —  raccontare  1'origine  prima  e  il  progresso  della  propria  citta,  e  conoscere  le  imprese  dei  popoli  liberi  (est  enim  decorum  cum  propriae  gentis  originem  et  progressus,  turn  libe-    i.  « Quasi  unum  in  corpus  convenerunt  scientiae  omnes,  et  rursus  tem-  poribus  nostris  .  .  .  eloquentiae  studiis  studia  sapientiae  coniuncta  sunt»  (da  una  lettera  del  Cassi  al  Tortelli,  contenuta  nel  Vat.  lat.  e  pubblicata  da GAMURRINI,  Arezzo  e  rUmanesimo,  Arezzo,  Cristelli,  miscellanea  in  onore  del  Petrarca  dell'Accademia  Petrarca).  2.  A  proposito  delle  eleganze  del  Valla  scrivera  il  Cortesi,  De  hominibus  doctis,  ed.  Galletti,  Florentiae,  Giovanni  Mazzoni,  conabatur  Valla  vim  verborum  exprimere  et  quasi  vias  ...  ad  structuram  orationis».   rorum  populorum...  res  gestas  cognoscere). Cortesi,  in  quel  felice  dialogo  De  hominibus  doctis,  che  e  una  vera  e  propria  storia  critica  della  letteratura  del  secolo  XV,  appunto  di-  scorrendo  delle  storie  del  Bruni,  batte  su  questo  incontro  della  verita  con  1'eleganza,  che  e  tutt'uno  con  queH'armonia  di  sapienza  ed  eloquenza  che  Benedetto  Accolti  celebr6  quale  dote  precipua  dei  Fiorentini  e  del  Veneziani  del  suo  tempo  nel  dialogo  De  prae-  stantia  virorum  sui  aevi.   Per  la  stessa  ragione  per  cui  tutto  sembrava  divenir  dialogo,  tutto  anche  e  libro  di  storia;  e  storia  e,  ancora,  colloquio  con  le  eta  antiche,  con  i  grandi  spiriti  del  passato.  II  Bruni  nell'intro-  duzione  ai  Commentarii  confessa  che  la  grande  letteratura  clas-  sica  fa  si  che  i  tempi  lontani  ci  siano  piu  vicini  e  piu  noti  dei  tempi  nostri  (mihi  quidem  Ciceronis  Demosthenisque  tempera  multo  magis  nota  videntur  quam  ilia  quae  fuerunt  iam  annis  sexaginta),  e  dichiara  che  e  compito  della  storia  immettere  nella  nostra  vita  e  nel  nostro  colloquio  il  passato,  farlo  vivo  con  noi  (quasi  picturam  quondam  .  .  .  viventem  adhuc  spirantemque).  Matteo  Palmier  i  in-  nanzi  alia  vita  di  ACCIAUOLI ci  insegna  che  la  storia  e  una  specie  di  immortalita  terrena  di  quanto  in  noi  e,  appunto,  vita  mondana;  la  storia  &  culto  e  salvezza  di  quella  parte  mortale  che  le  lettere  redimono  da  morte  dilatando  la  societk  umana  oltre  i  limiti  del  tempo  e  salvandola  dalPoblio  e  dal  destino.2    Ill   Si  aprono  qui,  tuttavia,  a  proposito  della  prosa  latina,  due  que-  stioni  fra  loro  strettamente  connesse  e  che  sembrano  in  qualche  modo,  gia  nella  loro  impostazione,  venir  contrastando  con  quei   i.  Cosi  nel  De  studiis  et  litteris  (in  HANS  BARON,  Leonardo  BRUNI Aretino  hu-  manistisch-philosophische  Schriften,  Leipzig).  Una  giusta  valutazione  dell’opera  storica  di BRUNI presenta  B.  L.  Ullman,  Leonardo  BRUNI  and  humanistic  historiography,  « Medievalia  et  Humanistica » (e,  per  quanto  si  e  sopra  osservato  su  retorica,  politica  e  storia,  son  da  vedere  i  tre  saggi  di  HANS  BARON,  Das  Erwachen  des  historischen  Denkens  im  Humanismus  des  Quattrocento,  «Hist.  Zeitschrift»,  vol.  147,  1933;  di   RUBINSTEIN,  The  Beginnings  of  Political  Thought  in  Florence:  A  Study  in  Mediaeval  Historiography,  « Journal  Warburg  Inst. »;  di CANTIMORI,  Rhetoric  and  Politics  in  Italian  Humanism,  «Journ.  Warburg  Inst.»,  i,  1937).  2.  « Corpoream  vero  partem  non  om-  nino  negligendam  ducunt,  sed  tamquam  suam  in  terra  recolendam,  ideo-  que  desiderant  illam  oblivioni  et  fato  praeripere  ...»  caratteri  stessi  che  si  sono  voluti  definire:  come,  infatti,  parlare  della  «umanita»  di  una  produzione che si serve di una lingua che nessuno ormai usa e che, dunque, gia nel mezzo espressivo pone come suo canone l’imitazione; in che modo  una  filosofia mimetica,  ricalcata  su  modelli ciiceroniani,  poteva  ol-  trepassare  i  limiti  della  erudizione?  Ma i  due  gravi  problemi, del latino umanistico e dell’imitazione classica,  gia tanto dibattuti,  hanno oramai offerto  anche  1'avvio  a  una  soluzione.   Quanto  infatti  si  obbietta  intorno  alPuso  del  latino,  in  luogo  del  volgare,  e  ad  una  presunta  frattura  che  si  opererebbe  rispetto  alia  tradizione  trecentesca,  deve  essere  corretto  con  Posservazione  che  i  generi  di  prosa  a  cui  ci  riferiamo  —  orazioni,  trattati,  epi-  stole  politiche,  dialoghi  dottrinali  —  avevano  sempre  fatto  uso  del  latino.  Non  e  quindi  esatto  dire  che  da  un  presunto  uso  del  vol  gare  si  torna  al  latino;  e  vero  invece  che  al  latino  medievale  defi  nite  barbarico,  e  cioe  goto  o  parigino,  si  oppone  un  altro  latino  che  si  determina  e  si  definisce  rispetto  ai  modelli  classici.  II  quale  latino,  che  si  dichiara  —  come  dice  esplicitamente  il PLATINA  —  integrate  da  tutta  la  piu  feconda  tradizione  postciceroniana,  ivi  compresi  i  Padri  della  Chiesa,  intende  rivendicare  i  diritti  di  una  lingua  nazionale  romana  contro  Puniversalita  di  un  gergo  scola-  stico  (lo  stile  parigino),  ed  innanzi  tutto  nel campo di una produzione costantemente  espressa in latino.  Giustamente  il  SANCTIS sottoline la frase del VALLA che proclama lingua nostra il latino vero, che si contrappone al latino gotico dell’uso medievale. La quale  « nostra lingua romana degl’umanisti,  che  si  precisa  con  caratteri  propri  cosi  rispetto  al  latino  classico  come  a  quello  barbaro,  va  vista  per  quello  che  essa  veramente  e,  anche  rispetto  al  volgare:  «un  nuovo  latino,  in  cui  la  complessita  antica  cede  il  posto  alia  scioltezza  moderna)). Il latino degl’umanisti, lingua veramente viva che aderisce in pieno a una cultura affermatasi attraverso una consapevolezza critica che  si  collocava  chia-ramente  nel  tempo  defmendo  i  propri  rapporti  cosl  col  mondo  antico  come  con  il  Medioevo;  il  latino  deigrandi  umanisti,  lungi  dal  rappresentare  una  battuta  d'arresto  o  un  momento  di  invo-   i.  Cosi  nella  prefazione  alle  Vite,  che  riportiamo  per  intero.  Rilievi  utili  in  proposito  ha  il  Sabbadini  sia  nella  Storia  del  ciceronianismo  (Torino,  Loescher),  come  nel  Metodo  degli  umanisti  (Firenze,  Le  Monnier).   luzione,  si  colloca  nella  storia  stessa  del  volgare. Il latino insegna al  volgare l'eleganza la misura la forza e 1'eloquenza, e il volgare imprime ne’ filosofi umanisti le leggi del suo andamento piano, della sua sintassi sciolta, dei  suoi  trapassi intuitivi, della sua eloquenza  interiore. Fra il latino, in cui si rispecchia pienamente tutto un atteggiamento culturale, e il volgare v’e una collaborazione che del resto  si  traduce  quasi  materialmente  nel  fatto  che  gli  autori  spesso  scrivono  1'opera  loro  in  latino  e  in  italiano.  Non  sempre  si e posto mente al fatto che  dal  Manetti  al  FICINO gli stessi trattatisti, siano pur filosofi, stendono anche in volgare le loro meditazioni. E come il loro latino e  davvero  una  lingua  low.,  cosi  il  volgare  che  adoperano  non  e  per  nulla  oppresso  da  una  imitazione  artificiosa  di  modelli  classici.   Giungiamo  cosi  a  quello  che  forse  e  il  punto  piu  delicato  ad  intendersi  dell'atteggiamento  di  questi  quattrocentisti:  Vimita zione degl’antichi. Che la posizione assunta dagl’umanisti  rispetto  agli  autori  classici  sia  alimentata  da  una  preoccupazione  storica  e  critica;  che  essi  siano  dei  filologi  desiderosi  innanzitutto  di  comprendere  gli  autori  del  passato  nelle  loro  reali  dimension! e nella loro situazione concreta: e cosa ormai in complesso pacifica. Ora gia questo  defmisce  il  senso  di  quella  imitazione che indica un atteggiamento molto caratteristico. ACCOLIT  dichiara  nettamente  la  parita  di  valore  fra  i  nuovi  autori  e  i  classici.  Poliziano  nella  polemica  col CORTESI,  che  e  un  testo  capitale,  confutera  tutte  le  istanze  del  ciceronianismo,  e  proclamera  il  valore  di  un'intera  tradizione  aff errata nel suo sviluppo, rivendicando il senso di tutto il periodo piu tardo della FILOSOFIA ROMANA (neque autem statim detenus dixerimus quod  diversion  sit»).  Ma  dira  soprattutto  1'enorme  distanza  fra  una  poesia  che  fiorisce  come  li-  bera  creazione  su  una cultura meditata e fatta proprio sangue, e l'imitazione pedestre — ilia poetas facit, haec simias.SPONGANO, Un capitolo di storia della  nostra  prosa  d'arte,  Firenze,  Sansoni,  E  cosi  sono  spesso  notevoli  le  version!  di  scrittori  celebri  come  latinisti:  TAurispa  che  traduce  Buonaccorso  da  Montemagno,  Donate  ACCIAIUOLI che  volgarizza  il  BRUNI,  e  cosi  via. interessante  ritrovare,  distesi  e  volgarizzati,  i  concetti  di  un  Valla  e  di  un  Poliziano  nei filosofi  francesi.  Per  esempio  Joachim  du  Bellay,  scrivendo  a  meta  del  sec.  XVI,  dopo  aver  tratto  dal  Valla  il  concetto  che  Roma  fu  grande  per  la  lingua imposta  all'Europa  non  meno  che  per l’impero  (“la  gloire  du  peuple  Romain  n'est  moindre  -  comme  a  dit  quelqu'unen  l’amplifacation  L'Umanesimo  e  in  questa  singolare  imitazione-creazione,  come  1'ha  chiamata  RUSSO: l'umanita fatta consapevole attraverso il rapporto stabilito con gl’altri uomini  nell'operoso  sforzo  di  raggiungere  una  sempre  pifc  alta  forma  di  vita.  Di  qui,  appunto,  il  particolare  carattere  delle  sue  piii  felici  espressioni  letterarie. de  son  langaige  que  de  ses  limites»)>  eccolo  riprendere  POLIZIANO:  «immitant  les  meilleurs  aucteurs,  se  transformant  en  eux,  les  devorant,  et  apres  les  avoir  bien  digerez,  les  convertissant  en  sang  et  nouriture  ».  Solo  cosi l’imitazione e giovevole allo scrittore. Autrement son immitation ressembleroit celle du singe. Cfr.  WEINBERG,  Critical  prefaces  of  the  French  Renaissance,  Northwestern  University  Press,  Evanston,  Illinois, Russo,  Problemi  di  metodo  critico,  Bari,  Laterza,  GARIN, Eugenio Antonio  Nacque a Rieti il 9 maggio 1909, figlio di Francesco e di Teresa Barbagli. Il nonno, intendente di Finanza, si era trasferito dalla Savoia in Toscana con l’Unità d’Italia; la madre era originaria di San Giustino nel Valdarno; il padre – allievo di Girolamo Vitelli, in rapporti amichevoli con Giorgio Pasquali, che scrisse il suo necrologio su Atene e Roma – era un giovane e valente filologo, con particolare interesse per la storia del romanzo greco, per Teocrito e per i commenti a Teocrito. La guerra e la fine prematura e quasi improvvisa – morì il 26 luglio 1920, a poco meno di quarant’anni – ne stroncarono la carriera e costrinsero il figlio ad assumersi, precocemente, pesanti responsabilità.  Garin ebbe, anche per questo, un'infanzia e un'adolescenza assai difficili e tormentate, che ebbero un peso nel rafforzare i toni disincantati e pessimisti del carattere, controllati, in genere, dall'ironia e anche dal sarcasmo, pronti però a esplodere nei momenti di  particolare amarezza o di maggior contrasto con i tempi in cui gli toccò di vivere e di lavorare.   Fin da quegli anni – duri e mai dimenticati – comprese però quale era la sua vocazione e individuò nei libri, e in uno studio assiduo e «disperatissimo», la bussola con cui avrebbe costruito, con tenacia, la propria vita: bruciando le tappe, si iscrisse a soli 16 anni, nel 1925, alla facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Firenze e si laureò col massimo dei voti in filosofia il 25 giugno 1929 con una tesi su Joseph Butler, preparata sotto la guida di Ludovico Limentani. A Firenze aveva compiuto anche gli studi elementari e medi, frequentando il Liceo Galilei, nel quale aveva insegnato il padre e dove incontrò Maria Soro, nata a Sassari il 20 agosto 1908, che sarebbe poi diventata sua moglie, con rito civile, il 17 luglio 1930.   Garin era nato a Rieti in seguito al trasferimento in quella città del padre, che come professore di liceo aveva girato, si può dire, tutta l’Italia; ma si considerò sempre fiorentino e conservò per tutta la vita un ricordo assai vivo degli anni liceali e, soprattutto, di quelli trascorsi nella facoltà di lettere di Firenze. In quel periodo fece incontri decisivi dal punto di vista sia personale sia scientifico, e non solo in ambito filosofico; stabilì rapporti con personalità come Pasquali, e conobbe compagni di studi ai quali restò legato tutta la vita, italiani e non italiani: Jacob Teicher, Nicolai Rubinstein, Cesare Luporini, il quale, nel 1979, rievocando gli anni della sua formazione (Qualcosa di me stesso, in Cesare Luporini 1909-1993, a cura di M. Moneti, numero speciale de Il ponte, LXV [2009], 11), ricordò come il giovane Garin eccellesse già allora su tutti, e fosse più avanti degli altri coetanei per maturità e sapere.   In quegli stessi anni, Garin conobbe due maestri che incisero segni profondi nella sua mente e nella sua personalità intellettuale e scientifica: Francesco De Sarlo e, soprattutto, Limentani, che lo avviò agli studi sull'Illuminismo inglese pubblicati nei primi anni Trenta, confluiti poi nel volume L'Illuminismo inglese. I moralisti (Milano 1942). Dopo aver insegnato nel Regio Convitto delle Mantellate negli anni 1929-30 e 1930-31, Garin, ottenuta nel 1930 l’abilitazione in storia e filosofia riuscendo tredicesimo nella graduatoria generale, fece nel 1931 il concorso per l'insegnamento di filosofia e storia nei licei per «sedi determinate», e lo vinse, dopo essere stato esaminato da una commissione presieduta da Augusto Guzzo. Prese servizio il 16 settembre dello stesso anno come professore straordinario di filosofia e storia presso il Liceo scientifico Stanislao Cannizzaro di Palermo, dove rimase fino al 15 settembre 1934, quando – dopo molti tentativi giustificati da motivi sia familiari sia scientifici – fu trasferito a Firenze per insegnare, come professore ordinario, filosofia e storia al Liceo scientifico Leonardo da Vinci.  Gli anni palermitani furono assai importanti e fecondi per Garin: per gli incontri umani e intellettuali che fece e per le ricerche che condusse, preparando l'importante volume Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, pubblicato a Firenze nel 1937, ma già pronto fin dal 1935. Fu a Palermo che scrisse in gran parte il suo primo libro di argomento umanistico, servendosi delle «eccellenti biblioteche pubbliche» della città, e frequentando la Biblioteca filosofica a Palazzo Reale, col «suo singolare fondatore e direttore, il dottor Amato Pojero, l'amico di Giovanni Gentile e primo editore dell'Atto puro, il bizzarro 'filosofo' noto dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a fissarla per scritto» (Una collaborazione lunga una vita, in Belfagor, LIV [1999], 6, p. 732).  A spostare Garin dagli studi iniziali sull'Illuminismo inglese verso le ricerche umanistiche e rinascimentali contribuì una pluralità di fattori: certo agirono la presenza, e il magistero, di Limentani, che in quegli stessi anni stava studiando il Bruno 'inglese' sulla scia della importante monografia su La morale di Giordano Bruno, pubblicata nel 1924.  Ma alla base di quello spostamento ci furono due altri motivi, forse più rilevanti: la centralità assunta a quella data dall'Umanesimo e dal Rinascimento nella ricerca filosofica europea intorno a problemi decisivi come la libertà, e la dignità, dell'uomo; il rapporto tra uomo, mondo, Dio; il carattere e il significato dell'esperienza umana. È stato, peraltro, Garin, in un testo degli anni Settanta (lettera a Saveria Chemotti del 16 febbraio 1978, la cui minuta è conservata presso il Fondo Garin della Scuola Normale Superiore di Pisa), a segnalare la complessità delle questioni che, negli anni Trenta, si concentravano nella discussione sul Rinascimento: domande di ordine sia filosofico sia religioso, ma tutte convergenti in una generale interrogazione sul significato dell'uomo e del suo destino, in un momento tragico della storia del mondo.  È in questo contesto che si inseriscono sia il libro su Pico sia il saggio su La "dignitas hominis" e la letteratura patristica (in La Rinascita I [1938], 4, pp. 100-146)  in cui questo intreccio di motivi si presenta in modo esemplare, con un netto primato della problematica di tipo religioso – anzi esplicitamente cristiano – e, simmetricamente, con un consapevole distacco dalle impostazioni di tipo idealistico, comprese quelle risalenti a Gentile.   Come testimoniano anche i molteplici richiami alla interpretazione di Konrad Burdach – messa in circolazione in Italia, nel 1935, anche da Delio Cantimori –, a quella data Garin era su un'onda assai diversa rispetto a Gentile che, pure, fin dal primo momento apprezzò molto i suoi lavori su Giovanni Pico, invitandolo a collaborare al Giornale critico della filosofia italiana, sul quale aveva cominciato a pubblicare fin dal 1932 con un saggio su L’etica di Giuseppe Butler (XXXIII, pp. 281-303).  Non si trattava solo di una distanza di ordine storiografico, evidente, per esempio, nella importanza che già in questi anni Garin cominciava ad assegnare alla tradizione ermetica, avviando una ricerca che avrebbe continuato, sia pure con toni e forme assai diverse, fino ai suoi ultimi anni (il saggio su Una fonte ermetica poco nota. Contributi alla storia del pensiero umanistico, destinato a essere ripreso e profondamente modificato nel 1958, uscì originariamente in La Rinascita, III [1940], pp. 202-232). Al fondo, rispetto a Gentile, c'era una forte distanza di carattere strettamente filosofico, come risulta dai principali riferimenti filosofici di Garin in questi anni: René Le Senne, Gabriel Marcel, Etienne Gilson, Louis Lavelle, forse il più importante di tutti, quello al quale si sentì a lungo più vicino.   Sono tutti autori di area francese e di matrice cristiana, convergenti, sia pure con toni differenti, nella prospettiva di un esistenzialismo religioso che appare ben presente negli scritti storici di Garin sul Rinascimento di questo periodo, pur mediati, e filtrati, da una armatura di carattere filologico ed erudito molto forte già in quegli anni (ne è una conferma il ricco e aggiornatissimo corredo bibliografico del libro su Giovanni Pico). Mancano, invece – con l'importante eccezione di Ernst Cassirer, presente già nel libro del 1937 – riferimenti altrettanto significativi ad autori di area tedesca, a cominciare da Martin Heidegger che, in quegli anni, era invece interlocutore privilegiato di altri importanti esponenti della generazione di Garin, come Luporini, suo amico fin dagli anni della Università, ma assai diverso sia per interessi filosofici che per le strade che avrebbe poi preso sul terreno politico.  È una mancanza che non stupisce, se si considera che la cultura di matrice francese fu una componente centrale della formazione di Garin, e che essa – insieme al pensiero inglese, ma con maggiore forza – ebbe un ruolo centrale nella sua attività scientifica e anche editoriale, come testimonia l'imponente opera di presentazione e traduzione di testi capitali del pensiero francese svolta insieme alla moglie – da Rousseau a Malebranche, a d'Holbach e gli Enciclopedisti.  Il primato della cultura di matrice francese era, del resto, un tratto diffuso della generazione di Garin e, in modo particolare, dell'ambiente culturale fiorentino: quello che si esprimeva in istituzioni di notevole rilievo come il Gabinetto Vieusseux – di cui in quegli anni era bibliotecario e direttore Eugenio Montale –, e la Biblioteca Filosofica di Arrigo Levasti e Piero Marrucchi, una personalità notevole, alla quale Garin rimase sempre legato e che ricordò in pagine molto intense, rievocando quell'ambiente e quell’atmosfera, in cui viveva il ricordo di una figura come Carlo Michelstaedter, alla quale anche Garin dedicò, a più riprese, molta attenzione.  Tornato a Firenze alla fine del 1934, nell'anno accademico 1935-36 ebbe un incarico di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e filosofia. Nel 1937 ottenne, poi, la libera docenza in storia della filosofia. Nel 1938, quando per effetto delle leggi razziali Limentani dovette lasciare la cattedra di filosofia morale, la facoltà decise di non chiamare su essa un altro ordinario, ma di conferire l’incarico a Garin, come il miglior discepolo di Limentani.  Nei modi possibili in quei tempi difficili, Garin espresse pubblicamente la sua fedeltà al maestro con cui si era formato, tenendo, il 30 gennaio 1940, una conferenza presso la Biblioteca Filosofica di Firenze in cui attaccò a fondo ogni forma di storicismo – identificato con il relativismo – rivendicando, da un lato, il valore della lotta, e dell'‘ostacolo’, sulla scia di Le Senne; ribadendo, dall'altro, e con massima energia, la distinzione tra vittima e carnefice, tra perseguitato e persecutore, che nessuna Provvidenza storica avrebbe mai potuto, in alcun modo, risarcire. Dopo la morte di Limentani, ne redasse poi un commosso necrologio, pubblicato in opuscolo insieme alla bibliografia dei suoi scritti (Ludovico Limentani (1884-1940), Firenze 1941).  Aveva, intanto, cominciato a partecipare a concorsi per ottenere una cattedra universitaria, che riuscì a vincere nel 1949, quando risultò primo ternato in quello per professore straordinario alla cattedra di storia della filosofia dell'Università di Cagliari (la commissione era formata da Antonio Aliotta, presidente, Eustachio Paolo Lamanna, segretario, e da Nicola Abbagnano, Antonio Banfi, Ugo Spirito). Precedentemente, nel 1938, nel 1942 e nel 1949, aveva partecipato, venendo dichiarato «maturo», a tre altri concorsi, banditi, rispettivamente, dall'Università di Messina e dall'Università di Napoli (quest’ultimo si svolse in due tornate, per l’annullamento, a causa di un ricorso, dei risultati della prima).  Difficili sul piano accademico e anche personale, quegli anni furono però fertilissimi dal punto di vista scientifico: oltre a una serie di saggi assai importanti usciti, in genere, su La Rinascita diretta da Giovanni Papini (con il quale ebbe, allora, un rapporto intenso), Garin pubblicò due importanti antologie: la prima, Il Rinascimento italiano (Milano 1941), commissionatagli da Gioacchino Volpe e stampata nella collana dell'ISPI; la seconda, Filosofi italiani del Quattrocento (Firenze 1942), uscita come pubblicazione dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. Si tratta, in entrambi i casi di opere fondamentali, destinate a lasciare una orma profonda negli studi rinascimentali. Ma lette con attenzione – e tenendo conto della inclinazione dissimulatoria tipica dell'epoca –, esse svelano con precisione quali fossero gli atteggiamenti filosofici e politici di Garin in quel momento: una posizione nettamente antifascista, trasparente nelle pagine dedicate alla critica del tiranno; un profondo interesse di tipo religioso, già emerso nei primi saggi rinascimentali della seconda metà degli anni Trenta, e ora pienamente dispiegato nella lunga Introduzione ai Filosofi italiani del Quattrocento, a cominciare dalle pagine scritte sulla morte, discorrendo di Coluccio Salutati.   Sono anni, e temi, nei quali la nota religiosa risuona con particolare forza e vigore, e non solo nei testi sull'Umanesimo. Nel 1947 pubblicò per una piccola casa editrice fiorentina, Cya, una antologia di testi tolstoiani – Ultime parole –,  nei quali è affermato con nettezza il primato della 'riforma interiore' come condizione di ogni riforma di tipo economico e sociale. Sarebbe stato, del resto, lo stesso Garin a ricordare nel 1954 che anni prima, nel pieno della guerra, aveva attraversato una vera e propria crisi di tipo religioso, subendo a fondo l'influenza di Tolstoj. Sul terreno scientifico è una inclinazione che si rivela, oltre che sul piano del linguaggio, nel forte ruolo assegnato in quegli anni a fra Girolamo Savonarola, un autore che gli fu sempre carissimo, ma che nel 1943 arrivò ad affiancare al Platone della Repubblica per il Trattato sul reggimento di Firenze.   In questi anni spicca anche il lavoro di presentazione e di traduzione dei testi fondamentali di Giovanni Pico della Mirandola: De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno (Firenze 1942); Disputationes adversus astrologiam divinatricem (ibid. 1946-52) un'impresa imponente, che contribuì a mutare in profondità sia l'immagine tradizionale di Pico, sia quella corrente del Rinascimento, ponendo le basi della interpretazione generale che Garin avrebbe proposto nel libro del 1947, Der italienische Humanismus, pubblicato nella collana diretta da Ernesto Grassi per l'editore Francke di Berna (ristampato poi nel testo originale presso Laterza nel 1952).  Furono lavori resi possibili anche dal forte sostegno di una figura singolare, ma più importante di quanto in genere si pensi, della cultura italiana di quegli anni: Enrico Castelli, il quale – oltre a pubblicare le traduzioni di Pico nell'ambito dell’Edizione nazionale dei classici del pensiero italiano promossa dal Regio Istituto di studi filosofici da lui presieduto e del quale Garin fu anche segretario della sezione toscana –, si impegnò con molta tenacia e costanza, a tutti i livelli, per fargli ottenere un distacco dal Liceo scientifico Leonardo da Vinci che gli consentisse di svolgere con maggiore tranquillità il suo lavoro. Garin sottolineò più volte che non c'è un rapporto meccanico tra storia della cultura e storia politica, precisando, per esempio, che la crisi e la fine dell'idealismo crociano si compiono nel 1968, non nel 1945. Non c'è però dubbio che con la fine della guerra sia iniziata una nuova fase della sua lunga vita sul piano sia intellettuale sia politico.   Dopo un periodo connotato dalla vicinanza a posizioni di tipo liberal-democratico (come appare chiaro dagli articoli che nel 1946 pubblicò sull'Italiano), si avvicinò infatti, sia pur progressivamente, al Partito comunista italiano, senza mai iscriversi a esso, ma diventandone, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei principali intellettuali di riferimento.  Alla base di questo netto spostamento di campo ci furono motivazioni di ordine intellettuale e di natura politica.   Sul primo punto, fu decisivo, nel 1947, l'incontro con le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che recensì subito su Leonardo, la rivista di cui, dal 1946, era diventato redattore – cioè, in effetti,  direttore –, avviando un intensissimo colloquio che sarebbe continuato lungo tutta la sua vita e che avrebbe inciso sia sulle sue ricerche umanistiche sia sulle Cronache di filosofia italiana pubblicate per i tipi di Laterza nel 1955 (ma preparate dagli articoli usciti alla fine degli anni Quaranta su Leonardo e sul Giornale critico della filosofia italiana fondato da Gentile e diretto allora da Ugo Spirito).   Dal punto di vista strettamente politico, per quanto possa apparire paradossale, in quella scelta agì il profondo, e mai venuto meno, interesse religioso di Garin: era infatti profondamente laico, non laicista. Riteneva necessario distinguere con chiarezza ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, anzi pensava che dalla confusione dell'uno e dell'altro potesse derivare una degenerazione di entrambi. Dopo il 18 aprile 1948, il partito della Democrazia cristiana gli apparve come la realizzazione concreta di questo rischio, con la ripresa, e il potenziarsi, di quelle tendenze che durante il Regime si erano espresse nel clerico-fascismo, contribuendo, a suo giudizio, a corrompere il carattere morale degli italiani. Perciò considerò negativamente l'inserzione dell'articolo 7 nella Costituzione repubblicana, ma fu per questi stessi motivi che si avvicinò al Partito comunista: per una scelta di ordine anzitutto morale e, alle origini, religiosa. Pur nel dissenso con il Partito comunista nella valutazione dell'articolo 7, Garin vide in esso la forza più intransigentemente schierata a favore di una concezione laica dello Stato e, in genere, della vita, contro il riaffiorare e l'imporsi di una nuova forma di clerico-fascismo, dannosa, ai suoi occhi, sia per la politica sia per una autentica esperienza religiosa.  I due piani – quello culturale e quello politico – si intrecciarono e si potenziarono a vicenda, nella concretezza del suo lavoro, sia in quello sul Rinascimento sia nelle ricerche sulla filosofia italiana. A quest'ultima aveva già dedicato, per incarico di Gentile, due volumi pubblicati da Vallardi nel 1947 (si tratta dell'opera: La filosofia, da non confondere con la Storia della filosofia uscita per i tipi di Vallecchi nel 1945: uno de suoi libri più belli, più vivaci, più liberi).   Le Cronache di filosofia italiana del 1955 erano, in effetti, un'altra cosa: una sorta di autobiografia di una intera generazione, quella nata al tornante del primo decennio del secolo – la stessa di Norberto Bobbio, nato anch'egli, come Garin, nel 1909, e autore, nello stesso 1955, di Politica e cultura, l'altro grande testo 'autobiografico' della loro generazione. A considerare oggi quegli anni, non appare casuale che due intellettuali di quel livello abbiano avvertito, nello stesso momento, la necessità di confrontarsi con la propria storia, sia pure da punti di vista diversi e con strumenti differenti. In Garin, assai più che in Bobbio, era infatti presente la lezione di Gramsci. Sul piano del metodo, anzitutto: La filosofia come sapere storico (Bari 1959) si conclude con un lungo saggio su Gramsci, nato come relazione al primo Convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma l'anno prima, ma anche sul piano del merito, cioè di specifiche valutazioni di uomini e cose, come Palmiro Togliatti rilevò, nel 1955, nella sua recensione a Cronache di filosofia italiana (Rinascita, 1955, n. 6).  Non solo: la lezione di Gramsci, in forme assai mediate e controllate, è visibile anche negli scritti che Garin dedicò al Rinascimento negli anni Cinquanta e fino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Nonostante che, in questo caso, i giudizi di Gramsci e Garin fossero, proprio nel merito, profondamente differenti.     L’UMANESIMO CIVILE, IL ’68, IL TRAMONTO DI UN MONDO  Quando si parla di Eugenio Garin si pensa, in genere, alla sua interpretazione del Rinascimento come 'Umanesimo civile'. È giusto, ma riduttivo per due ordini di motivi: in primo luogo, essa svolge funzioni e ruoli diversi, anche a seconda del mutare dei contesti storico-politici; in secondo luogo, a cominciare dagli anni Settanta Garin riformulò in modo profondo la sua interpretazione, dislocando l'Umanesimo civile in zone progressivamente laterali, rispetto al nucleo centrale del suo discorso (in questo senso è fondamentale Rinascite e rivoluzioni: movimenti culturali dal 14. al 18. secolo, Roma-Bari 1975: uno dei suoi lavori più importanti, insieme a La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, uscito per i tipi di Sansoni nel 1961, nel quale spicca in apertura il saggio – capitale dal punto di vista dell'Umanesimo civile – su I cancellieri umanisti della Repubblica fiorentina da Coluccio Salutati a Bartolomeo Scala, pubblicato originariamente  in Rivista storica italiana, LXXI [1959], pp. 185-209).  All'interpretazione del Rinascimento come Umanesimo civile Garin lavorava, in effetti, fin dagli anni Trenta, in convergenza con le ricerche di Hans Baron, del quale nel 1938 fece pubblicare su La Rinascita un importante saggio. Ma allora esso aveva una funzione parallela, anzi secondaria, rispetto ai motivi ermetici che Garin tendeva maggiormente a valorizzare, anche in relazione a quell'esistenzialismo religioso nel quale allora si riconosceva. Negli anni Cinquanta e Sessanta il quadro mutò in modo deciso, e  l'Umanesimo civile diventò il motivo dominante della sua interpretazione, come appare dall'antologia, fortemente lodata da Cantimori, Prosatori latini del Quattrocento(Milano-Napoli 1952). I motivi messi a fuoco nella seconda metà degli anni Trenta erano ripresi, e anzi energicamente sviluppati, a cominciare dalle tematiche magiche e astrologiche, cui dedicò nei primi anni Cinquanta due saggi fondamentali; ma essi ora venivano riformulati (per esempio, cambiò in modo consistente il giudizio sull'astrologia) ed inseriti in una prospettiva che privilegiava, in primo luogo, la dimensione mondana, terrestre – appunto, 'civile' del Rinascimento –, dando rilievo centrale al problema del rapporto tra 'vita contemplativa' e 'vita activa', e valorizzando in questa luce i grandi cancellieri fiorentini come Coluccio Salutati e Leonardo Bruni.   Ne scaturì, in quegli anni, una nuova immagine del Rinascimento, entro cui assunsero valore centrale discipline come la retorica, l'arte della memoria o esperienze filosofiche prima trascurate, o non comprese in modo adeguato, come, per esempio, il lullismo.   Su questo sfondo, Garin si pose in termini nuovi rispetto agli scritti degli anni Trenta anche il problema della genesi e dei caratteri della scienza moderna, sforzandosi di «mostrare come un moto di cultura strettamente legato nelle sue origini alla vita delle città italiane fra Trecento e Quattrocento debba considerarsi una delle premesse del rinnovamento scientifico moderno» (come scriveva nella Premessa al volume Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, p. V, pubblicato con Laterza nel 1965: una linea di ricerca, sia detto tra parentesi, che non ebbe ulteriori sviluppi, anche per i mutamenti che, di lì a poco, avrebbero sconvolto il mondo storico, coinvolgendo a fondo anche il mondo storiografico).   In questa accentuazione della dimensione civile agì certamente la lezione metodica di Gramsci, che appare con ancor maggiore chiarezza nei lavori che Garin dedicò, negli stessi anni, alla filosofia contemporanea, specie a quella italiana. Sono importanti, da questo punto di vista, sia La cultura italiana tra '800 e '900 (Bari 1962); sia, e soprattutto, quello sugli Intellettuali italiani del XX secolo (Roma 1974), che costituisce, per molti aspetti, il vertice della presenza, e della influenza, di Garin nella cultura, e anche nella politica, italiane.   Se si considera il corso della sua vita, si può azzardare un giudizio: forse furono proprio quelli gli anni in cui Garin riuscì a stabilire, nel complesso, un rapporto positivo con il proprio tempo storico, e non solo per i molti riconoscimenti pubblici che ebbe in quel periodo, dentro e fuori l'Università, in Italia e all’estero.   Nel 1952 era diventato professore ordinario di storia della filosofia medievale presso l'Università di Firenze (insegnamento che aveva tenuto per incarico dal 1941 al 1945 e dal 1947-48 al 1948-49); nel 1955 era poi subentrato a Lamanna come titolare della cattedra di storia della filosofia presso la stessa Università.   Riconoscimenti, e onori, altrettanto importanti stava avendo anche al di fuori dell'Università. Socio effettivo dell'Accademia toscana di scienze e lettere 'La Colombaria', dal 1948 ne era anche segretario generale; il 23 luglio 1965 fu  eletto socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei, diventandone socio nazionale il 23 novembre 1979; il 10 luglio 1975 ricevette dalla British Academy la Serena medal for Italian studies (gli ultimi italiani che l'avevano ottenuta – scrisse, con orgoglio, il 5 luglio 1975 al direttore della Scuola Normale comunicandogli la notizia – erano stati Roberto Longhi e Ranuccio Bianchi Bandinelli).  Al fondo, però, pur considerandosi anzitutto un insegnante, Garin era, a suo modo, un animal politicum, e avrebbe voluto essere un cittadino. Negli anni Cinquanta e per larga parte degli anni Sessanta riuscì a esserlo come non gli era accaduto prima e non sarebbe più successo dopo, intrecciando un'attività scientifica di alto livello con un impegno civile assai intenso sui temi che gli interessavano maggiormente, a iniziare dalla scuola, su cui intervenne anche con una relazione molto dura letta al Teatro Valle di Roma  il 3 giugno 1960, pubblicandola poi in volume (La cultura e la scuola nella società italiana, Torino 1960).   Negli anni successivi la situazione mutò profondamente; quell'equilibrio, sempre fragile e precario, si incrinò e Garin si distaccò, progressivamente, fino a contrapporsi, dai movimenti culturali e politici che, a cominciare dal 1968, avevano cominciato a scuotere il paese fin dalle fondamenta, nel bene e nel male. Il punto più aspro del contrasto, anzi la vera e propria rottura, si produsse alla fine del 1971, quando – si legge in una lettera del 16 novembre al preside della facoltà di lettere, Ernesto Sestan (minuta nel Fondo Garin della Scuola Normale Superiore) – fu costretto a interrompere la lezione per il «contegno oltraggioso e provocatorio di uno studente del 2° anno».  Fu una scelta assai meditata, anche se amara, quella di lasciare l’Università di Firenze, che era stata fin dagli anni giovanili la sua Alma Mater, trasferendosi, nell'anno accademico 1974-75, alla Scuola Normale Superiore di Pisa come professore – e anche questa scelta è significativa – di storia della filosofia del Rinascimento. Come scrisse il 22 giugno del 1974 al direttore della scuola, Gilberto Bernardini, sarebbe stata quella «la conclusione migliore – certo la più onorevole – di un lungo insegnamento» (minuta, ibid.).  Questo non significa che da quel momento si sia disinteressato della filosofia contemporanea, a cominciare da quella italiana. Anzi: nel 1983 pubblicò, con l'editore barese De Donato, un libro importante, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l'Unità, riprendendo in forme nuove il problema del positivismo e riaprendo, in generale, la questione del rapporto tra eredità positivistiche e filosofia del Novecento, nelle sue varie diramazioni. Ma il libro non ebbe un successo paragonabile a quello tributato nel 1974 al volume sugli Intellettuali italiani del XX secolo. Nel giro di pochi anni, la situazione era profondamente mutata e i temi trattati in quel testo, pur così importante, avevano perso peso e rilievo nel dibattito filosofico italiano, che stava ormai aprendosi, e su vasta scala, a nuove tendenze estranee alla tradizione nazionale, nel pieno di una crisi che investiva lo Stato italiano fin dalle fondamenta. Effettivamente, un intero mondo stava cominciando a finire.  Tanto più colpisce, in questa situazione, il lungo saggio  che nel 1991, in controtendenza, Garin dedicò a Giovanni Gentile pubblicandone, con l'editore Garzanti, le Opere filosofiche. Aveva ormai 82 anni: nel 1979 era uscito dai ruoli dell'insegnamento, nel 1984 era andato definitivamente in pensione, nel 1986 era diventato professore emerito della Scuola Normale; nel 1988 aveva lasciato anche la presidenza dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento assunta nel 1978. Era dunque diventato un libero studioso sciolto da qualunque vincolo di ordine istituzionale, e forse anche questo contribuisce a spiegare la libertà – e l'atteggiamento 'non conformista', si potrebbe dire – con cui si confrontò con Gentile nella lunghissima Introduzione che premise ai testi, spiegando il senso della sua scelta.  Non era un'impresa facile: i rapporti di Garin con Gentile e con Croce furono infatti assai complessi e si modificarono, e complicarono, con il tempo. Si possono però in sintesi individuare alcuni elementi di ordine generale. Dal punto di vista filosofico egli si sentì, al fondo, più vicino a Gentile: basta leggere le pagine che gli dedicò nella Storia della filosofia del 1945, e accostarle a quelle scritte nello stesso testo su Croce, per vedere come ne apprezzasse la posizione e quanto fosse invece distante da Croce. Certo, come dimostrano le Cronache, il suo giudizio sul neoidealismo italiano si approfondì col tempo e divenne assai più ricco e articolato; ma la distanza di Garin dalla 'filosofia dello spirito' non venne mai meno, perché essa coinvolgeva un punto centrale, allora e poi, della sua posizione.   Alle origini, le ragioni di quella scelta stavano precisamente qui: sul piano filosofico Gentile apparteneva a quella filosofia della libertà, specie di matrice francese, in cui il giovane Garin aveva riconosciuto il carattere principale del pensiero del nuovo secolo e anche le proprie radici, sia filosofiche sia religiose. Filosofia della libertà: cioè azione, praxis, atto, volontà. Erano i motivi che erano presenti anche nel giovane Marx, quelli che gli avevano fatto apprezzare Gramsci, sentire affine la ricerca dei Quaderni del carcere, e che, nel volume del 1991, sottolineò anche in Gentile, vedendo anzi nella sua lettura di Marx la via attraverso cui si era affermato nel nostro paese il principio della praxis, dell'azione, della volontà.  È per queste stesse ragioni – strutturali, non contingenti – che Garin fu, invece, in sostanza, lontano da Croce, pur apprezzandone il rapporto stabilito tra politica e cultura e l'immenso lavoro: non ne condivideva la concezione del circolo spirituale; lo sentiva distante per l'incapacità di afferrare la intima, e insuperabile, tragicità della vita; rifiutava la dissoluzione dell'individuo empirico, che invece per lui era fondamentale.   Certo, con il tempo maturò un giudizio assai più ricco di quello espresso negli anni Quaranta; ma alcuni elementi – in cui si esprimevano un distacco, e un dissenso, perfino di ordine generazionale – non vennero mai completamente meno. Nel 1966, in occasione del centenario della nascita di Croce, scrisse un bel saggio sui suoi rapporti con Renato Serra (Serra e Croce, in Belfagor, XXI, 1, pp. 1-13) e, pur facendogli ampi riconoscimenti, non ebbe esitazione a schierarsi, proprio per questi motivi, dalla parte di quest'ultimo. Con il '68 iniziò una profonda trasformazione del mondo storico, destinata a incidere, in vari modi, nel mondo storiografico, compreso quello di Garin, che operò mutamenti profondi nella sua posizione, a cominciare dalla concezione dell'Umanesimo civile, che nel ventennio precedente era stato il centro della sua interpretazione del Rinascimento. Ora venne configurandosi come un ideale; anzi una ideologia nobile e importante, ma pur sempre una ideologia (come appare nel Ritratto di Leonardo Bruni aretino in Atti e Memorie dell'Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze di Arezzo, XL [1970-72], pp. 1-17 ), mentre assunsero rilievo essenziale altri temi, altri autori, come risulta chiaro dal libro Lo zodiaco della vita. La polemica sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento (Roma-Bari 1976), che raccoglieva quattro lezioni tenute al Collège de France fra l'aprile e il maggio 1975. Fin dall'inizio della sua attività Garin aveva dato rilievo alle tematiche magiche, astrologiche, ermetiche, sistemandole, poi, nel contesto dell'Umanesimo civile. Ora esse ridiventarono centrali, con una particolare sporgenza dei testi e dei motivi di carattere astrologico. Alla base di questo c'era, come sempre in Garin, un convincimento di ordine teorico.   A lungo era stato persuaso che nella cultura europea fosse stata presente, e dominante, quella che egli chiamava la 'linea Pico-Sartre', secondo cui l'uomo «non ha una natura (una "specie", una "forma"), ma […] è un atto che si sceglie» (per riprendere una sua battuta contenuta nella lettera a Leonardo Amoroso del 17 luglio 1991 [minuta nel Fondo Garin della Scuola Normale Superiore di Pisa]). Era un convincimento coerente con la sua filosofia della libertà, della praxis, del primato della volontà. Negli ultimi anni furono proprio questi capisaldi che si infransero e vennero meno sbalzando in primo piano, al posto dei cancellieri fiorentini, pensatori come Pomponazzi e, soprattutto, Leon Battista Alberti, sostenitori, l'uno e l'altro, di una concezione totalmente disincantata dell'uomo e della vita, ridotta o a gioco privo di senso o a una eterna vicissitudine di uomini, di cose, di sorti. E qui si può osservare come in un microcosmo in che modo lavorava Garin, e quanto fosse profondo nella sua ricerca l'intreccio tra autobiografia e storiografia, a loro volta sostenute da una posizione teorica precisa, ma destinata, al tempo stesso, a importanti variazioni e mutamenti. Alberti era stato infatti sempre al centro della sua attenzione, ma venne a lungo inserito nella prospettiva dell’Umanesimo civile, mentre negli scritti dell'ultimo periodo si configurò come uno dei principali esponenti di una concezione che vede nell'uomo niente altro che un ludus deorum, per riprendere l'espressione utilizzata da Platone nelle Leggi e ripresa nel De fato da Pomponazzi.  Sono precisamente questi temi, e queste espressioni (citate puntualmente nello Zodiaco della vita, e rafforzate dalla scoperta che aveva fatto di alcune Intercenali inedite di Leon Battista Alberti, pubblicate su Rinascimentonel 1964), che attrassero Garin quando si convinse che la linea Pico-Sartre si era infranta ed era stata sconfitta. Né è facile dire quanto in queste posizioni storiografiche avesse inciso la crisi che fin dalla fine degli anni Sessanta stava travagliando il mondo storico, dandogli progressivamente il senso – e poi la persuasione – che una intera epoca della cultura europea stava tramontando, dissolvendo quegli ideali e quelle utopie che ne avevano sostenuto il cammino, specie nei momenti più gloriosi come il Rinascimento e l’Illuminismo.   In un intreccio profondo di autobiografia e storiografia, le pagine dell'ultimo Garin sono solcate da toni assai disincantati e pessimistici. Ma neppure in questi anni, e in questi scritti, egli si presenta al lettore in toni disarmati o vinto: troppo forte era stata la persuasione di un primato della praxis, dell'azione, della volontà perché essa potesse venire mai integralmente meno. Stava qui la sorgente originaria della sua personalità fin dagli anni Trenta, e a essa – nonostante tutto – aveva cercato di restare fedele, dipanando il filo essenziale della sua esistenza, nelle diverse situazioni in cui gli toccò di vivere, per quasi un secolo.   Quando morì, a Firenze il 29 dicembre 2004, non aveva smesso di pensare all'utopia di un mondo diverso: come gli avevano insegnato a fare i rappresentanti più eminenti dell'epoca alla quale aveva dedicato tanta parte della sua esistenza. E. G. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, Giornata di studio, Prato, Biblioteca Roncioniana, 4 maggio 2002, a cura di F. Audisio - A. Savorelli, Firenze 2003 (si vedano in particolare i saggi di C. Cesa, Momenti della formazione di uno storico della filosofia (1929-1947), pp. 15-34 e di C. Vasoli, Gli studi di E. G. su Giovanni Pico della Mirandola, pp. 65-92); G. e il Novecento, numero monografico del Giornale critico della filosofia italiana, 2; M. Ciliberto, E. G. Un intellettuale nel Novecento, Roma-Bari 2011;  E. G. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Atti del Convegno, Firenze, 6-8 marzo 2009, a cura di O. Catanorchi - V. Lepri, con Premessa di M. Ciliberto, Roma-Firenze; Il Novecento di E. G., Atti del Convegno promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci in collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 25-27 febbraio 2010, a cura di S. Ricci - G. Vacca, Roma 2011. Grice: “Don’t expect philosophical insight from Garin. He is at most an amanuensis. But like Gentile, it is helpful, if you are into minor philosophers, or minor figures, to go through the indexes of his many compilations. As with Gentile’s Storia della filosofia italiana, Garin’s is just as boring. Garin makes it more difficult in that he uses two or three words which we don’t use at Oxford: ‘pensiero’ for philosophy, ‘intellectual’ (‘intelletuali italiani del novecento’) and ‘culture’ (cultura italiana del ottocento’). By these monickers, he is attempting to include as philosophers people who we should not!” Eugenio Antonio Garin. Eugenio Garin. Garin. Keywords: cicerone come umanista – umanesimo e unamenismi – garin, umanista del Novecento – umanisti e il ritorno dei filosofi antichi – umanesimo, ovvero, il primo secolo del rinascimento – il ritorno dei filosofi antichi – retorica umanista – castelli e garin -- le griceianisme est un humanism!” humus, human, homo sapiens, homo sapiens sapiens, human vs. person, sapientia, persona -- human, umano, umanesimo – filosofia romana -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garin – umano, troppo umano – The Swimming-Pool Library.  

 

Grice e Garroni – l’implicatura di Pinocchio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Garroni; he writes very Griceianly: on lying, on Pinocchio, on semiotics, on Kant – ‘quasi-Kant’ --, and on sense perception (‘senso e paradosso’, ‘immagine, figura, communicazione’). Inizia la sua attività in Rai, dove era entrato per un invito di Gualainsieme come intervistatore e autore di trasmissioni sulla filosofia. Affianca a questo lavoro l'opera intellettuale di critica e di riflessione sull'estetica, grazie anche alla sua frequentazione del mondo artistico dell'epoca anni cinquanta, redigendo anche presentazioni e cataloghi d'arte.  Insegna a Roma. Pur essendosi tenuto fino a quel momento ai margini della vita accademica, con “La crisi semantica dell’arte” (Roma, Officina), insegna estetica. Porta un rinnovamento dell'estetica italiana dopo Croce, culminante in una innovativa traduzione della Critica della facoltà di giudizio di Kant tesa a sottolinearne la co-appartenenza di tematiche estetiche (l’estetico) ed epistemologiche (il noetico). Cura Arnheim, Macherey, Mannoni, Lukács, Brandi, Dufrenne, akobson e del Circolo linguistico di Praga e collaborato alla rivista Rassegna di filosofia, alle riviste cinematografiche Cinema Nuovo e Filmcritica e alla Enciclopedia Einaudi.Cura Benedetto, Bottari,  Melis, Fieschi, Vacchi, Greco ecc. L’estetica è una "filosofia non speciale" il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni artistiche ("il bello", “l’arte” e “la natura”), ma è finalizzato ad una visione e ad una "costruzione" del mondo fondata sull'esperienza del “senso” (il sensibile, sentire, sensate). Ciò che va rivendicata è la portata iudicativa (e non solo volitiva) delle riflessioni kantiane, che trascendono lo stato empirico delle scienze  e vivono operanti nel meglio degli indirizzi novecenteschi, magari di ciò inconsapevoli. (L’orizzonte di senso). Altre opere: “Il mito negative” (Roma, Officina); “Semiotica ed estetica. L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico” (Bari, Laterza); “Progetto di semiotica: il concetto di messagio” (Roma-Bari, Laterza); “Pinocchio uno e bino” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla "Critica del Giudizio"” (Roma, Bulzoni); “Ricognizione della semiotica” (Roma, Officina); “Estetica e linguistica” (Bologna, Il Mulino); “Senso e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica. Uno sguardo-attraverso” (Milano, Garzanti); “Sul mentare e il mentire” (Castrovillari, Teda); “Altro dall'arte. Saggi di estetica” (Roma-Bari, Laterza); “Senso e storia dell'estetica: studi offerti a Emilio Garroni” (Pietro Montani, Parma, Pratiche Editrice); "Interpretare", in Il testo letterario. Istruzioni per l'uso, Roma-Bari, Laterza); “Critica della facoltà di giudizio” (Torino, Einaudi); “Immagine e figura” (Roma-Bari, Laterza); “Scritti sul cinema: pubblicati dalla rivista "Filmcritica"; Edoardo Bruno e Alessia Cervini, Torino, Aragno, Creatività, introduzione di Paolo Virno, Macerata, Quodlibet); “La macchia gialla’ (Milano, Lerici, Dissonanzen quartett. Una storia” (Parma, Pratiche); “Racconti morali, o Della vicinanza e della lontananza, Roma, Editori riuniti); “Sulla morte e sull'arte: racconti morali, Parma, Pratiche); Lettere alla TV”, Monteleone, Storia della Radio e della Televisione italiana, Marsilio; Una puntata del 1961, tratta da Rai Teche, del programma TV "Arti e Scienze", in cui Garroni parla del Bauhaus e intervista Zevi e Gropius  Presentazione della mostra dell'Autoritratto; Articolo de La Repubblica; Intervista che riassume la nozione di estetica come "filosofia non speciale". L'intervista fa parte dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche.  Treccani L'Enciclopedia italiana". Legalità / Creatività.: Garroni legge Kant di Romeo Bufalo, in Studi di estetica, Bologna.  LORENZINI, Carlo (Collodi). - Nacque il 24 nov. 1826 a Firenze, primogenito di Domenico, originario di Cortona, cuoco del marchese Carlo Leopoldo Ginori Lisci, e di Angiolina (Maria Angela Carolina) Orzali, figlia del fattore dei marchesi Garzoni Venturi e nata a Veneri (frazione di Collodi). Degli altri nove figli di casa Lorenzini sopravvissero il terzogenito Paolo, Maria Adelaide, Giuseppina, e l'ultimo dei fratelli del L., Ippolito.  È probabile che il L. abbia frequentato le scuole elementari a Collodi, dove risulta ospitato fino al 1836 dagli zii materni Giuseppe e Teresa (forse per le disagiate condizioni della famiglia a Firenze); l'anno successivo, con il sostegno economico del marchese Ginori, entrò nel seminario di Colle di Val d'Elsa. Nell'agosto 1842 decise di interrompere gli studi in seminario, iscrivendosi nel maggio dell'anno successivo al corso di retorica e filosofia delle Scuole pie di S. Giovannino a Firenze. Terminato il corso nell'autunno del 1844, trovò subito un impiego nella libreria Piatti di Firenze, nella quale aveva già svolto lavori saltuari per potersi mantenere agli studi.  La libreria, anche casa editrice, era fra le più importanti di Firenze e frequentata da molti letterati e patrioti liberali, tra i quali G.B. Niccolini, principale autore delle edizioni Piatti, considerato dal giovane L. uno dei grandi scrittori italiani. Il L. aveva incarico di redigere notizie, recensioni e bollettini bibliografici per il catalogo delle novità della libreria e strinse profonda amicizia con G. Aiazzi, amministratore dell'impresa ed erudito bibliotecario della Rinucciniana, al quale restò legato tutta la vita. Aiazzi avviò il L., che già nel 1845 ottenne l'autorizzazione alla lettura dei libri proibiti, alle ricerche di biblioteca e d'archivio e ne accompagnò le prime prove come cronista teatrale nella Rivista di Firenze e come critico musicale nell'Arpa musicale, periodi co milanese animato da C. Tenca, dove il 29 dic. 1847 apparve il primo articolo firmato del L., L'arpa.  Nel marzo 1848 il L., insieme con il fratello Paolo e con Giulio Piatti, proprietario della libreria, si arruolò nel II battaglione fiorentino e combatté a Montanara: di questa prima esperienza militare rimangono, nelle Carte collodiane, tre lettere ad Aiazzi, già notevoli per lucidità d'osservazione e descrizione.  In estate il L. tornò a Firenze e dovette trovarsi un altro impiego anche per poter aiutare la famiglia colpita dalla malattia del padre, che morì alla fine di settembre a Cortona. Per interessamento di Aiazzi fu nominato "messaggiere" (segretario, commesso) del Senato toscano e arrotondò il modesto stipendio con un'intensa attività di collaborazione a diverse testate, in particolare, al periodico democratico Il Lampione (1848-49) di cui fu tra i fondatori. Qui pubblicò numerosi articoli, per lo più non firmati, tra i quali spiccano alcuni pezzi anticomunisti e antifemministi e, soprattutto, la serie di ritratti intitolata "fisiologie" in cui già con matura incisività satirica tratteggiava caratteri e tipi contemporanei, come quelli contrapposti del "codino" e del "crociato" (cioè il falso volontario): in essi più che "mazziniano sfegatato" (come lo definì Martini, p. 168), manifestava tendenze repubblicane e democratiche derivate da Mazzini solo "in termini generali" e in "modo indiretto" (G. Candeloro, C. Collodi nel giornalismo del Risorgimento, in Studi collodiani, p. 68).  Nella primavera del 1849, con il ritorno dei Lorena nel Granducato, il L. dapprima rinunciò all'impiego (o ne fu allontanato), poi, in giugno, fu reintegrato, ma la sua condizione lavorativa dovette restare precaria, tanto che l'autunno dell'anno successivo si dedicò alla traduzione dal francese del romanzo La figlia dell'archibugieredi M. Masson che apparve a puntate nel periodico milanese l'Italia musicale, per il quale nel 1850 compì un lungo giro tra Emilia e Lombardia come critico corrispondente; con quella rivista continuò a collaborare per tutto il 1851 (nell'agosto era di nuovo a Milano per i suoi impegni giornalistici) e il 1852, quando perdette definitivamente il suo impiego.  Con il 1853 l'impegno del L. come giornalista e pubblicista si intensificò ulteriormente ed egli divenne una delle firme di punta del periodico artistico-letterario e teatrale L'Arte(cui collaborava anche I. Nievo). Nel periodico fiorentino venne pubblicando articoli di critica musicale, teatrale e letteraria (tra cui, nel 1854, una feroce stroncatura del poema Rodolfo di G. Prati che anticipava di netto le prese di posizione negative di F. De Sanctis e G. Carducci sul poeta trentino) e prose umoristiche: tra l'altro, condusse una battaglia contro la pittura accademica convergendo sulle posizioni dei macchiaioli, i cui più importanti esponenti (T. Signorini, A. Tricca, S. Ussi) incontrava e frequentava al caffè Michelangiolo. Il tutto "con uno stile rapido e di presa immediata, che si segnala per il valore e la modernità del linguaggio" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere, p. LXXX). Contemporaneamente, fondò e diresse il periodico teatrale Lo Scaramuccia, per il quale aveva reclutato collaboratori di livello, tra cui P. Fanfani e il giovane P. Ferrigni (Coccoluto Ferrigni), poi famoso con lo pseudonimo di Yorick.  Ormai dedito a tempo pieno alla sua attività di pubblicista e scrittore, estese il raggio delle sue collaborazioni giornalistiche a periodici quali Lo Spettatore (cui collaboravano, tra gli altri, G. Giusti, N. Tommaseo e R. Bonghi) e al giornale umoristico La Lente, in cui per la prima volta usò lo pseudonimo di Collodi (nell'articolo Coda al programma della Lente, 1856).   Il L. coltivava anche ambizioni di scrittore teatrale e nel 1853 compose il dramma in due atti Gli amici di casa ispirato a un episodio reale e in cui si ritrovano evidenti influssi del romanzo Beppe Arpia di P. Emiliani Giudici: tentò invano (1854-55) di farlo rappresentare, ma il testo fu bloccato dalla censura, cosicché più tardi poté pubblicarlo (Firenze 1856), ma non riuscì a farlo mettere in scena. Sempre nel 1856 scrisse e pubblicò (ibid.) Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida storico-umoristica, nato come opuscolo-guida per viaggiatori in occasione dell'inaugurazione della ferrovia Leopolda, che collegava appunto Firenze a Livorno. In esso il L. contaminava e stravolgeva, tentando un'inedita forma di giornalismo umoristico ispirato al modello di L. Sterne (cfr. Marcheschi, in C. Collodi, Opere, pp. XV-XIX), il genere "popolare" del romanzo e quello "borghese" della guida di viaggio. Così la narrazione romanzesca, che procede in modo parodisticamente caotico e con l'intreccio ingarbugliato della narrativa d'appendice, è inframmezzata da divagazioni con informazioni utili o curiose per il viaggiatore sulle diverse località toccate dalla ferrovia.  Confortato dal buon esito di critica e pubblico del Romanzo in vapore, il L. si dedicò alla stesura di un'altra opera romanzesca di carattere parodistico, I misteri di Firenze. Scene sociali, che uscì a dispense dall'ottobre 1857, preannunciata dalla stampa sin da maggio ed elogiata per lo stile vivace e spontaneo. Il romanzo, che restò (forse intenzionalmente) interrotto al primo volume, intendeva essere sin dal titolo parodia della narrativa d'appendice alla E. Sue (I misteri di Parigi), ma si risolve, senza il consolante lieto fine del romanzo popolare, in un'amara critica della società fiorentina, moralmente e politicamente decaduta, condotta con uno stile fortemente espressivo e satirico, con esiti non di rado farseschi e surreali.  Durante la stesura di queste opere, il L. proseguì incessantemente la sua intensa attività di pubblicista e di operatore teatrale. Nel marzo 1856 assunse l'incarico di segretario della compagnia teatrale Romandiolo-Picena fondata da G. Servadio, facendo la spola nei mesi successivi tra Ancona, Bologna e Firenze e intrecciando una breve e tormentata relazione amorosa con il mezzosoprano Giulia De Filippi Sanchioli. Conclusa nell'ottobre del 1857 la sua attività di segretario della Romandiolo-Picena, tornò per breve tempo a Firenze, da dove ripartì improvvisamente (forse in seguito a un'altra infelice relazione amorosa) la primavera successiva, spostandosi tra Milano e Torino come critico del periodico L'Italia musicale.  Nella capitale sabauda nell'aprile del 1859 si arruolò nell'esercito piemontese e partecipò come soldato semplice alla guerra. Dopo l'umiliante armistizio di Villafranca, alla fine di agosto fu posto in congedo e ritornò a Firenze. Qui, amareggiato e depresso, iniziò a collaborare come "cronista settimanale" al giornale La Nazione, diretto dall'amico A. D'Ancona, espressione del gruppo moderato che faceva capo a B. Ricasoli. E proprio dalla cerchia di Ricasoli, tramite C. Bianchi, gli venne chiesto di scrivere una replica all'opuscolo La politica napoleonica e quella del governo toscano del conservatore federalista e neoguelfo E. Albèri, uscito (con la falsa indicazione di Parigi, in realtà a Firenze) ai primi di dicembre del 1859. In esso, con un violento attacco contro i toscani filopiemontesi, i plebisciti e il partito unitario, si propugnava l'istituzione di un Regno dell'Italia centrale, da assegnare, secondo il desiderio di Napoleone III, a Gerolamo Bonaparte. Il L. rispose con l'ironico e brioso Il sig. Albèri ha ragione!( Dialogo apologetico (scritto a Collodi e pubblicato a Firenze alla fine di dicembre), in cui, fingendo di schierarsi dalla parte del professore bonapartista, ne ridicolizzava la proposta politica, sottolineando come sull'ipotesi dell'annessione convergesse la volontà prevalente dei Toscani.  Nel febbraio del 1860, per interessamento del marchese Ginori e di Ricasoli, ricevette la nomina per il modesto ruolo di commesso aggregato della commissione di censura teatrale; in marzo condusse dalle colonne de La Nazione un'accesa campagna in sostegno dei plebisciti annessionistici. Nei mesi successivi si imbarcò nell'impresa della riesumazione (dal 15 maggio 1860) del quotidiano umoristico Il Lampione, di cui era insieme fondatore, compilatore e direttore (fino al marzo 1861, mentre il fratello Paolo ne era l'amministratore) e che, presentandosi come prosecuzione del giornale interrotto nel 1849, intendeva incarnare ed esprimere l'evoluzione (non solo del L.) dal repubblicanesimo quarantottesco al successivo e più maturo lealismo annessionistico.  A questa amara e disillusa evoluzione politica corrispondeva del resto l'insoddisfazione personale per la sua posizione lavorativa, ormai stabile ma modesta e non amata. Ai doveri del suo ufficio il L. si dedicò sempre senza entusiasmo, anche quando, nel 1864, ebbe la nomina a segretario di seconda classe nell'amministrazione provinciale di Firenze e poi, nel 1874, quella a segretario di prima classe: appena poté, nel giugno 1881, chiese e ottenne di essere collocato a riposo.   Le non onerose incombenze del suo impiego, pertanto, non gli impedirono di occuparsi con crescente intensità delle sue molteplici attività di pubblicista, scrittore teatrale e, infine, di cultore di cose di lingua. Così, nel novembre 1860, recandosi a Milano per contattare Tenca e il gruppo del periodico Il Crepuscolo, fu cooptato come segretario aggiunto nella Commissione promotrice del Panteon italiano, cui era collegato il progetto di un'edizione nazionale delle opere di Dante.  Nel 1861 pubblicò l'opuscolo La Manifattura delle porcellane di Doccia, steso (probabilmente per iniziativa del fratello Paolo, direttore della fabbrica Ginori) come guida storica e illustrativa dell'industria dei marchesi Ginori in occasione dell'Esposizione italiana che si tenne quell'anno a Firenze. L'opuscolo del L., che ripercorreva abbastanza fedelmente la linea espositiva di un analogo volumetto compilato ancora da Albèri circa vent'anni prima, era anche un "elogio della politica illuminata dei marchesi Carlo ("l'Owen della Toscana") e Lorenzo, per migliorare le condizioni di vita dei propri operai" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere, p. XCIII).  Sempre nel 1861, ne Il Lampione, apparve la commedia Gli estremi si toccano, in seguito ampliata (probabilmente nel 1867) con il titolo La coscienza e l'impiego, amara satira politica contro l'eterno trasformismo, e in novembre poté finalmente far rappresentare il dramma Gli amici di casa, rielaborato sul modello delle opere di V. Sardou in forma di commedia in tre atti: l'accoglienza della critica fu tiepida, ma unanime consenso ricevette la vivacità linguistica del testo.  Al teatro il L. continuò a dedicarsi per tutto il decennio successivo sia per dovere d'ufficio (dal 1862 faceva parte della Società d'incoraggiamento teatrale e il 23 sett. 1867 nella Gazzetta d'Italia apparve un suo importante articolo tecnico sulla Censura teatrale in Italia) sia come critico e in qualità di autore. Nel 1870 pubblicò a Firenze la commedia in tre atti L'onore del marito, rappresentata per la prima volta al teatro Niccolini nel 1872, rivolta non tanto alla condanna dell'adulterio quanto a sottolineare la vitalità della borghesia attiva rispetto all'infiacchita e oziosa aristocrazia italiana. In quel periodo attese anche alla stesura della commedia in quattro atti Antonietta Buontalenti, che non risulta essere stata rappresentata; al 1872 risale inoltre la composizione della commedia in due atti I ragazzi grandi, rappresentata con scarso successo a Firenze nell'agosto dell'anno successivo. Subito trascritta in forma di racconto lungo (o romanzo breve), fu pubblicata a puntate nel Fanfulla nella primavera del 1873 con il significativo sottotitolo Bozzetti e studi dal vero. Con esso per un verso si indicava il registro di spietata lucidità con cui erano ritratti i protagonisti, viziati dall'ozio, dall'agiatezza e dall'opportunismo politico; per l'altro si chiariva come il "vero" che si prefiggeva il L., più che quello del naturalismo letterario, era quello nitido, rapidamente tratteggiato e nettamente chiaroscurato en plein air della contemporanea pittura toscana.  Del resto, anche nell'intensa attività giornalistica esercitata dal L. nel quindicennio che va dall'Unità al 1876 (in particolare in La Nazione, La Gazzetta del popolo e, dal 1871, nel Fanfulla), la sua attenzione di notista politico e di osservatore e commentatore di costume andò concentrandosi, con toni progressivamente amari e disillusi, sull'esame dei problemi, dei conflitti e degli scandali dell'Italia appena unificata, con attacchi sempre più ironici e velenosi contro personaggi e provvedimenti politici (come M. Coppino e la sua legge sull'istruzione elementare, Q. Sella e la tassa sul macinato, il corso forzoso e la politica fiscale dei governi della Destra) e soprattutto contro tipi, costumi e mentalità dominanti, fino all'acme paradossale e sferzante della Delenda Toscana, sarcastica lettera aperta a M. Minghetti, pubblicata il 30 genn. 1876 nel Fanfulla. Qui, in risposta alla ventata antitoscana successiva alla polemica sul privilegiato esercizio delle ferrovie, era esposta la paradossale e sferzante proposta di sopprimere la Toscana stessa, cancellandola dalla carta geografica del Regno d'Italia.  A questa oltranza polemica, pagata peraltro cara dall'impiegato L., diffidato, in quanto dipendente del ministero degli Interni, da G. Nicotera e da F. Crispi dal pubblicare articoli politici, seguì un deciso cambiamento di attività e di orizzonti.  In primo luogo, al giornalismo etico-politico militante subentrò una fase in cui il L. si dedicò al riordino e alla pubblicazione in volume del meglio della propria produzione pubblicistica (racconti e cronache) nelle raccolte, dai titoli programmaticamente eloquenti, Macchiette (Milano 1880) e Occhi e nasi. Ricordi dal vero (Firenze 1881). In esse riunì, senza alcuna revisione, semplicemente legate con il "filo di refe", come avvertiva non senza autoironica civetteria nella prefazione di Macchiette, le prove più tipiche della prosa giornalistica, caratterizzate da "sapienti scorciature e tagli narrativi" (Asor Rosa, p. 554) a formare un antinaturalistico ritratto "alla macchia" dell'Italia contemporanea, schizzato, cioè, "dal vero" non a "figurine intere" ma con i tratti essenziali dei "profili", gli occhi e i nasi (prefazione a Occhi e nasi).   Inoltre, si fece più consapevole la sua attenzione, sempre così acuta, ai fatti di lingua, e tale senso nativo della lingua venne precisandosi in una più chiara adesione al fiorentino vivo di tono medio. Proprio per questo nel 1868 fu nominato dal ministro E. Broglio membro straordinario della giunta per la compilazione del vocabolario dell'uso fiorentino, impresa alla quale, peraltro, dette scarso contributo.  Il L. si indirizzò, dapprima casualmente e occasionalmente, poi con impegno, assiduità e adesione personale sempre più convinti, verso la letteratura per l'infanzia. Questa gli offriva un terreno di illimitata libertà fantastica in cui superare la grigia realtà del presente e insieme la possibilità di una sua piena partecipazione al clima "fortemente pedagogizzante" del "mondo morale e intellettuale del tempo", dominato da un "bisogno incoercibile di guardare al di sotto della superficie" delle cose (Asor Rosa, p. 555), dal quale prendevano le mosse i due diversi ma in fondo convergenti filoni della letteratura verista e della letteratura moralistica e normativa alla De Amicis. L'occasione per quella svolta fu offerta nel 1875 al L. dalla dinamica casa editrice fiorentina dei fratelli Paggi, all'avanguardia nel fiorente mercato dell'editoria scolastica, che gli propose di tradurre i Contes e le Histoires di Ch. Perrault, nonché le favole della Contessa di Aulnoy e di Jeanne-Marie Le Prince de Beaumont. La versione, condotta dal L. con leggere variazioni rispetto agli originali e con stile piano ed elegantissimo, uscì l'anno seguente con il titolo Racconti delle fate e le illustrazioni di E. Mazzanti.  Da allora, pur riprendendo la collaborazione al Fanfulla (1878) e continuando la sua attività di critico teatrale, il L. si mosse quasi esclusivamente nel campo della letteratura scolastica e per ragazzi. Così, sempre presso Paggi pubblicò con discreto esito i due libri di lettura Giannettino (1877), che sin nel titolo riprendeva il fortunato romanzo pedagogico Giannetto di L.A. Parravicini (1837), e Minuzzolo (1878): entrambi erano storie di bambini discoli o svogliati, ricondotti alla scuola e alla normalità dalle famiglie e da esperienze che li inducevano a riflettere (lo schema è già quello di Pinocchio, ma le peripezie dei due protagonisti si svolgono sullo sfondo della Firenze contemporanea).   Ormai accreditato tra i più ricercati autori di libri scolastici e per l'infanzia, il L. (che per le sue opere pedagogiche ottenne nel 1878 la nomina a cavaliere della Corona d'Italia e nel 1880 ricevette da A. Conti, assessore alla cultura del Comune di Firenze, l'incarico di compilare i libri di testo per le scuole fiorentine) si dedicò con insolita metodicità alla compilazione di una lunga serie di opere che configuravano una sezione autonoma, personale e sistematica, all'interno della "Biblioteca scolastica" della casa editrice Paggi. Nacque così, tra l'altro, una serie di volumi imperniati sulla figura di Giannettino: il Viaggio per l'Italia di Giannettino: Italia superiore (1880), seguito nel 1883 dal secondo volume dedicato all'Italia centrale e nel 1886 dal terzo, sull'Italia meridionale; La grammatica di Giannettino (1883); L'abbaco di Giannettino(1884); La geografia di Giannettino (1885); fino a La lanterna magica di Giannettino (1890). Con la loro formula innovativa questi testi costituirono una novità ben accolta dal mondo scolastico, ma non sempre apprezzata dai vertici più austeri e arcigni del ministero della Pubblica Istruzione (cfr. Raicich, p. 74 n.): le diverse discipline, infatti, erano esposte in forma decisamente scherzosa e discorsiva, spesso apertamente dialogica nell'intento di alleggerire la finalità didascalica del testo e rendere l'apprendimento il più possibile piacevole e "naturale".  Al centro di tale intensa attività vanno inquadrate la nascita e la complessa vicenda redazionale ed editoriale de Le avventure di Pinocchio. Il libro nacque per le insistenze di G. Biagi, vecchio amico del L., che lo voleva tra i collaboratori del periodico Il Giornale per i bambini di cui era animatore e che era stato fondato nel 1881 da F. Martini con l'ambizione di rinnovare la letteratura infantile italiana. Il L., ormai stanco e disilluso, rispose controvoglia inviando all'amico i primi tre capitoli di un testo intitolato La storia di un burattino (dallo stesso L. definito, con la consueta autoironia, "una bambinata"), pubblicati nei numeri di luglio del Giornale. I capitoli successivi apparvero nei numeri dal 4 agosto al 27 ottobre: la vicenda si concludeva al capitolo XV con l'impiccagione e la presunta morte del burattino. Forse per le insistenze di Biagi e certo per il successo riscosso dalla storia, il L., dopo molti dinieghi, si decise a proseguire la narrazione, il cui seguito, con il titolo ormai definitivo di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, iniziò a essere pubblicato (dal cap. XVI) dal febbraio 1882. La pubblicazione proseguì a ritmo irregolare durante tutto il 1882 per concludersi (con il XXXVI e ultimo capitolo) nel gennaio 1883. Velocissima fu invece la pubblicazione in volume, che uscì nel febbraio successivo presso Paggi, con le illustrazioni, di nuovo, di Mazzanti; sempre presso Paggi apparvero, e andarono presto esaurite, una seconda edizione nel 1886 (lo stesso anno in cui E. De Amicis pubblicava Cuore), una terza (1887) di cui non restano esemplari, e una quarta (1888). L'ultima edizione uscita vivente l'autore fu quella pubblicata nel 1890 presso R. Bemporad & figlio concessionari della Libreria Paggi. Non è sicuro che il L. abbia rivisto personalmente tutte queste edizioni, che pure furono stampate con il suo consenso; è certo, però, che nel corso delle varie ristampe il testo fu alterato da refusi e banalizzazioni.  Se ci si limita alle sole circostanze esterne della composizione e della pubblicazione di Pinocchio, dunque, può risultare fondata la qualifica di "capolavoro scritto per caso" risalente a P. Pancrazi. In essa, oltretutto, è cristallizzata in un'efficace formula critica la constatazione che la straordinaria qualità espressiva della "bambinata" ha finito per mettere in ombra il resto dell'intensa carriera letteraria e giornalistica del L., il quale, se non avesse scritto il suo capolavoro, sarebbe comunque restato, al di là delle sue ambizioni teatrali, uno dei protagonisti della narrativa umoristica e soprattutto del giornalismo della seconda metà dell'Ottocento.   In realtà, nell'archetipica polisemia della fiaba e con l'enigmatica perspicuità del capolavoro, in Pinocchio convergevano, in una struttura insieme profondamente coesa, traballante e sfuggente, tutte le componenti e le esperienze della vita e della carriera letteraria del L.: dalla sua lunga militanza come scrittore satirico e bozzettista (trasfusa nelle numerose figure e figurine che animano l'universo del burattino), alla sua intensa attività di autore di testi scolastici (da cui deriva il registro scherzoso e colloquiale con cui è condotta la narrazione), alla sua ricerca di una lingua non letteraria e mediana, che trova piena realizzazione nel toscano "vivo" in cui la celebre fiaba è narrata.  Di tutto ciò non si accorsero né i contemporanei, che decretarono a Le avventure di Pinocchio un successo crescente ma circoscritto all'esiguo spazio della letteratura infantile, mentre la fortuna editoriale della "bambinata" veniva crescendo fino a farne il libro più letto e tradotto al mondo dopo la Bibbia, né gli antesignani della critica collodiana (da P. Hazard, a Pancrazi, a B. Croce, fino ad A. Savinio e A. Baldini), i quali, rivolti a indagare e rivendicare Pinocchiocome capolavoro della letteratura mondiale, non si curarono di ricostruirne i nessi con la vita e la carriera del suo autore.  Negli anni della composizione e pubblicazione di Pinocchio, il L. proseguì la collaborazione al Fanfulla (fino al 1897) e assunse parte sempre più attiva nella gestione del Giornale per i bambini, di cui divenne direttore nel biennio 1883-85 e nel quale pubblicò racconti e novelle quali Chi non ha coraggio vada alla guerra. Proverbio in due parti, La festa di Natale e Pipì lo scimmiottino color di rosa, quest'ultima confluita con altri racconti e memorie, tra cui il brioso dialogo Dopo il teatro, nel volume Storie allegre pubblicato nel 1887, sempre presso Paggi.  L'anno prima era morta la madre, presso la quale il L. ancora viveva, e per lui fu un colpo da cui non riuscì a riprendersi. Gli anni successivi furono i più tristi e solitari della vita del L. che, già minato nel fisico, venne sempre più chiudendosi in se stesso e isolandosi nel suo lavoro.   Il L. morì a Firenze improvvisamente, la sera del 26 ott. 1890.  Dopo la sua morte, su incarico del fratello Paolo, il grammatico e lessicografo purista G. Rigutini ordinò e raccolse in due volumi (Note gaie e Divagazioni critico-umoristiche, editi entrambi a Firenze nel 1892) gran parte delle prose sparse del L., intervenendo con arbitrarie correzioni e aggiunte ai testi. Rigutini e il fratello Paolo, inoltre, passarono in rassegna la vasta raccolta delle sue carte, provvedendo a distruggere quasi tutte le lettere (private o d'argomento politico) che avrebbero potuto nuocere all'onorabilità del L. e di molti viventi, e soprattutto molti inediti, al fine di salvaguardare "il buon nome del Collodi scrittore" (cfr. Paolo Lorenzini [Collodi nipote], pp. 70, 74). Le non molte carte sopravvissute furono donate dall'ultimo dei fratelli, Ippolito, alla Biblioteca nazionale di Firenze.  Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale, N.A., 754: Carte Lorenzini, cassette I, II, III; un altro nucleo di carte è custodito presso l'archivio del Gruppo editoriale Giunti Bemporad Marzocco di Firenze, erede della casa editrice Paggi (cfr. M.J. Minicucci, Tra l'inedito e l'edito delle carte manoscritte di C. L., in Studi collodiani. Atti del I Convegno internazionale,( 1974, Pescia 1976, pp. 381-403). Altri documenti sono presso l'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica F.D. Guerrazzi di Livorno e presso la Biblioteca nazionale di Roma. Infine, numerosi cimeli sono conservati presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (cfr. i cataloghi Collodi giornalista e scrittore, a cura di R. Maini - P. Scapecchi, Firenze 1981; Pinocchio e pinocchiate nelle edizioni fiorentine della Marucelliana, a cura di R. Maini - M. Zangheri, Firenze 2000).  Tra le testimonianze biografiche contemporanee, i necrologi di E. Checchi e Yorick (rispettivamente nel Fanfulla della domenica e nella Domenica fiorentina, 2 nov. 1890; i profili premessi dai curatori a due successive edizioni delle Note gaie del L. (a cura di G. Rigutini, Firenze 1892, pp. V-XVI; a cura di I. Cortona [Lorenzini], ibid. 1911, pp. III-XL); G. Biagi, Il babbo di "Pinocchio": C. Collodi, in La Lettura, marzo 1907, pp. 184-190; F. Martini, Confessioni e ricordi (Firenze granducale), I, Firenze 1922, pp. 168 s.; inoltre P. Lorenzini, Collodi e Pinocchio, Firenze 1954; R. Bertacchini, Il padre di Pinocchio. Vita e opere del Collodi, Milano 1993; B. Traversetti, Introduzione a Collodi, Roma-Bari 1993; Cronologia, in C. Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano 1995, pp. LXVII-CXXIV. Manca un'edizione completa delle opere del L.: il progettato Tutto Collodi, a cura di P. Pancrazi, è rimasto interrotto al primo volume (Firenze 1948); la più ampia raccolta attualmente disponibile è quella delle Opere, a cura di D. Marcheschi, che nella Bibliografia delle opere di C. Collodi dà conto delle numerose edizioni e ristampe dei testi giornalistici e delle opere minori (narrative e teatrali) del L.: va inoltre ricordata la ristampa anastatica della Grammatica di Giannettino, a cura di F. Geymonat, Firenze 2003.  De Le avventure di Pinocchio si segnalano solo le edizioni di particolare rilievo: le due edizioni critiche, la prima a cura di A. Camilli, Firenze 1946 (basata sull'edizione Paggi del 1883); la seconda, a cura di O. Castellani Pollidori, Pescia 1983 (fondata sull'edizione Bemporad 1890 - l'ultima rivista dall'autore -, ma corredata delle varianti delle precedenti stampe e dei manoscritti dell'autore); inoltre, le tre edizioni curate da F. Tempesti (tutte pubblicate a Milano) nel 1972, nel 1983 e nel 1993, corredate da un ampio commento e da ricchi apparati documentari; infine, quella compresa nella raccolta di Opere, a cura di D. Marcheschi, cit. (pp. 359-526), con ampio corredo di note (pp. 916-1003). Tra le più recenti, quella (Torino 2002) con introd. di S. Bartezzaghi e prefaz. di G. Jervis, e quella (Milano 2002) con introd. di P. Italia (pp. VII-XXII) e prefaz. di V. Cerami (pp. XXII-XXVII).  Per il resto si rinvia (anche per la letteratura critica) alla Bibliografia Collodiana (1883-1980)di L. Volpicelli (Pescia 1980), da integrare con la citata Bibliografia di D. Marcheschi (pp. 1119-1130, aggiornata al 1994), alla consultazione del catalogo della Biblioteca Collodiana e all'Archivio digitale degli articoli su C. Collodi e Pinocchio (on-line su internet), gestiti dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi di Pescia.  La storia degli studi critici sul L. (in gran parte contributi su Pinocchio) è ricostruita in due ampie panoramiche: Da Collodi a L.: sulla fortuna critica di D. Marcheschi, in C. L. oltre l'ombra di Collodi, a cura di G.E. Viola - F. Rovigatti, Roma 1990, pp. 55-64; Pinocchio tra due secoli. Breve storia della critica collodiana di R. Bertacchini, in C. L.- Collodi nel centenario. Atti del Convegno, Roma-Pescia( 1990, Roma 1992, pp. 121-164. Pertanto, diamo per esteso solo i riferimenti agli incunaboli della critica collodiana richiamati nel testo: P. Hazard, La littérature enfantine en Italie, in Revue des deux mondes, 15 febbr. 1914, pp. 842-870; P. Pancrazi, Elogio di Pinocchio [1921], in Id., Venti uomini, un satiro e un burattino, Firenze 1923, pp. 201-205; B. Croce, Pinocchio, in Id., La letteratura della Nuova Italia, V, Bari 1939, pp. 361-365; P. Bargellini, La verità di Pinocchio, Brescia 1942; A. Savinio, Collodi, in Id., Narrate uomini la vostra storia, Milano 1944, pp. 177-195; V. Fazio Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze 1945; A. Baldini, La ragion politica di "Pinocchio" (1876), in Id., Fine Ottocento. Carducci, Pascoli, D'Annunzio e minori, Firenze 1947, pp. 118-124; P. Pancrazi, Capolavoro scritto per caso[1948], in Id., Scrittori d'oggi, 5, Segni del tempo, Bari 1950, pp. 165-171. Inoltre, va ricordato l'impulso dato allo studio della personalità e dell'opera del L. dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi, a Pescia, soprattutto con una lunga serie di congressi scientifici: Studi collodiani. Atti del I Convegno internazionale,( 1974, Pescia 1976; Pinocchio oggi. Atti del Convegno pedagogico,( 1978, Pescia-Collodi 1980; "C'era una volta un pezzo di legno". Atti del Convegno "La simbologia di Pinocchio", Pescia( 1980, Milano 1981; Folkloristi italiani del tempo del Collodi(, Pescia( 1982, a cura di P. Clemente - M. Fresta, Montepulciano 1986; Pinocchio fra i burattini. Atti del Convegno internazionale, ( 1989, a cura di F. Tempesti, Firenze 1993; Pinocchio sullo schermo e sulla scena. Atti del Convegno internazionale,( 1990, a cura di G. Flores d'Arcais, Firenze 1994; Scrittura dell'uso al tempo del Collodi( 1990, a cura di F. Tempesti, Firenze 1994; Pinocchio nella pubblicità(, Pescia( 1995, a cura di P.F. Bernacchi, Firenze 1997; Sterne e Collodi. Atti della tavola rotonda,( 1995, Lucca 1999.  Per il centenario della morte del L. vanno ricordati il volume promosso dalla Banca Toscana, C. Collodi, lo spazio delle meraviglie, a cura di R. Fedi, con introduzione di L. Comencini e Suso Cecchi D'Amico, s.l. [ma Firenze] 1990 e le citate pubblicazioni dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana a Roma: il catalogo C. L. oltre l'ombra di Collodi; e gli atti del Convegno C. L.- Collodi nel centenario.  Tra gli studi dell'ultimo decennio: M. Raicich, Di grammatica in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma 1996, pp. 3-7, 71 s., 74, 231; G. Cives, Pinocchio tra realtà e sogno, in F. Cambi - G. Cives, Il bambino e la lettura. Testi scolastici e libri per l'infanzia, Pisa 1996, pp. 279-314; E. Giachery, Tre compari intorno a un burattino, in Id., La letteratura come amicizia, Roma 1996, pp. 137-146; M. Gómez del Manzano - G. Janier Manica, Pinocchio in Spagna, Scandicci 1996; A. Asor Rosa, Le avventure di Pinocchio, in Id., Genus Italicum. Saggi sull'identità letteraria italiana nel tempo, Torino 1997, pp. 551-617; P. Citati, Il ritratto di "Pinocchio", in Id., Ritratti di donne, Milano 1997, pp. 148-160; G. Cives, Da "Pinocchio" a "Cuore": due fortune molto diverse, in Scuola e città, XLVIII (1997), pp. 13-23; M. Farnetti, I notturni di Pinocchio, in Id., L'irruzione del vedere nel pensare. Saggi sul fantastico, Pasian di Prato 1997, pp. 71-86; G. Gasparini, La corsa di Pinocchio, Milano 1997; D. Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Torino 1997, pp. 170-175; F. Tempesti, Pinocchio, in I luoghi della memoria: strutture ed eventi dell'Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1997, pp. 115-137; V. Spinazzola, Pinocchio & C., Milano 1997 (in partic. pp. 9-97); P.M. Toesca, La filosofia di Pinocchio, ovvero l'Odissea di un ragazzo per bene con memoria di burattino, in Forum Italicum, XXXI (1997), 2, pp. 459-486; L. Pizzoli, Sul contributo di "Pinocchio" alla fraseologia italiana, in Studi linguistici italiani, XXIV (1998), pp. 167-209; R. Randaccio, La "Legge shandyana del nome" nei personaggi di C. Collodi, in Riv. italiana di onomastica, IV (1998), pp. 59-69; R. Bertacchini, Collodi poeta di teatro, in Nuova Antologia, 1999, n. 2122, pp. 244-253; G. Biffi, Alcuni interrogativi su Collodi e Pinocchio, in Studi cattolici, XLIII (1999), pp. 522-526; R. Campa, La metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio", Lucca 1999; Sterne e Collodi, Lucca 1999 (testi di R. Bertacchini, D. Marcheschi, F. Tempesti); E. Guagnini, Il "Romanzo in vapore" e la tradizione delle guide e della letteratura di viaggio, in Id., Viaggi d'inchiostro. Note su viaggi e letteratura in Italia, Udine 2000, pp. 69-84; T. Iermano, Da Parravicini a De Amicis: considerazioni sulla letteratura per l'infanzia tra Risorgimento e Italia umbertina, in Studi piemontesi, 2000, n. 2, pp. 345-362; M. Carosi, Pinocchio. Un messaggio iniziatico, prefaz. di G. De Turris, Roma 2001; A. Gnocchi - M. Palmaro, Ipotesi su Pinocchio, Milano 2001; S. Moret, Pinocchio e le "pinocchiate" in Francia, in Levia gravia, III (2001), pp. 77-88; L. Tamburini, Il cuore di Collodi e quello di De Amicis, in Studi piemontesi, XXX (2001), 2, pp. 295-314; M. Villoresi, La letteratura poliziesca e del mistero ambientata a Firenze. Contributo per un itinerario di ricerca, in Archivi del nuovo, 2001, n. 8-9, pp. 65-83; M. Scollo Lavizzari, Della disubbidienza in Pinocchio, in Nuovi Argomenti, s. 5, ottobre-dicembre 2002, n. 20, pp. 322-339; F. Geymonat, Una grammatica di buon senso, in C. Collodi, La grammatica di Giannettino, a cura di F. Geymonat, Firenze 2003, pp. I-XVIII; C. Marello, La dubbia efficacia del paternalismo induttivo, ibid., pp. XIX-XXII; O. Castellani Pollidori, In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia (1961-2002), Roma 2004, ad ind.; Il giro di Pinocchio in due giornate. Convegno internazionale di studi, Pisa( 2004 (in corso di stampa).  D. Proietti Ho intervistato Emilio Garroni il 21 settembre 2004, presso la sua casa di Roma. Pochi mesi prima avevo deciso, insieme al mio relatore Prof. Leonardo Amoroso, di scrivere una tesi sull’estetica di Garroni. Garroni, molto gentilmente, non solo ha concesso l’intervista ma l’ha rivista e mi ha fornito indicazioni importanti per la stesura della tesi1. 1. Prof. Garroni, nei suoi testi c'è stato un progressivo spostamento di interesse dalla semiotica all'estetica, in che modo lo descriverebbe? Come lo motiva? Io mi sono occupato molto prima di estetica che di semiotica. Ma quando ho cominciato ad occuparmi di semiotica, l’interesse non era rivolto solo alle opere d’arte, anche se l’occasione fu questa. Perché mi sono occupato di semiotica? Sono stato attratto anch’io nel vortice della moda della semiotica, cominciata nei primi anni ’60, forse negli ultimi anni ’50. Ma forse avevo anche qualche motivo serio per farlo. Provenivo dalla cultura estetica imperante in Italia fino a tutti gli anni ’40, di tipo crociano, dove l’arte viene riportata all’intuizione, e non si dice quasi nulla di più. Non si sa in alcun modo come l’estrinsecazione di questa intuizione si strutturi e sia analizzabile. Lo stesso Croce nelle sue opere critiche conduce analisi critiche vere e proprie in modo assai esiguo. Poesia e non-poesia e quasi nient’altro. Anche i tentativi che furono fatti sulla scia 2crociana nell’ambito di arti particolari, nell’architettura da parte di Bruno Zevi , nella musica da parte di altri e così via, servirono fino a un certo punto, perché restava pur sempre quelle categoria fissa e indistinta dell’intuizione. Tanto meno si poteva sapere, come pure era nella mente di Croce, se e quando un’opera d’arte fosse veramente un’opera d’arte, se si potesse distinguere fra un’opera d’arte riuscita e un’opera d’arte non riuscita e quindi non più opera d’arte. Appunto questo intuizionismo mi urtava. Non a caso mi avvicinai in un 1 Questa intervista nasce dunque come appendice alla mia tesi di laurea, ovvero: Fiorenzo Ferrari, Estetica e filosofia in Emilio Garroni, tesi di laurea discussa presso l’Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Filosofia, relatore prof. Leonardo Amoroso, a.a. 2004-2005. 2 Cfr. Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino, 1949.   Intervista a Emilio Garroni 2  primo momento a Galvano della Volpe, citato già nel mio primo libro del ‘643 e ampiamente discusso insieme al pensiero di Anceschi, di Formaggio e di molti altri. Perché Galvano della Volpe? Perché in lui c’era l’esigenza di riportare l’opera d’arte a un uso specifico del linguaggio: in lui insomma l’opera si presentava come analizzabile, ed effettivamente della Volpe conduceva analisi semantiche, piacciano o no, più che analisi sorvolanti sulla mera forma. Tali analisi semantiche si occupavano inoltre anche di varie arti non linguistiche. L’appendice alla Critica del gusto4, che riprende il tema del Laocoonte lessinghiano, contiene infatti riferimenti, per esempio, alla pittura, e non è un caso che al proposito si citi Cesare Brandi, che non fu mai un semiotico, anzi fu un accanito antisemiotico, e tuttavia poneva le basi di un’autentica analisi dell’opera d’arte. Tra parentesi: io apprezzavo e apprezzo tuttora moltissimo Brandi, che ho sempre letto fin dall’inizio, fin dagli anni ’40. Insomma: mi interessava di poter disporre di una teoria che permettesse di analizzare, sì, la struttura delle opere, ma anche la loro struttura comunicativa. Ero tuttavia contrario al modo semplicistico allora adottato frequentemente, di prendere pezzi materiali di opere e classificarli come segni (per esempio, nell’architettura, «capitello», «colonna», «base», e così via), e ho tentato invece un’impresa molto più difficile e in qualche modo più fine, che però si dimostrò anch’essa fallimentare o piuttosto inutilizzabile. Mi sforzavo cioè di produrre una semiotica formale mediante operazioni analoghe a quelle che si conducono sul linguaggio, dove appunto si arriva a unità formali, non materiali. Monemi e fonemi, per esempio, non sono pezzetti di frase, ma unità formali costitutive della sequenza linguistica. Volevo ottenere insomma una autentica leggibilità dell’opera, non puramente retorica, ma aderente alla sua costituzione. Non pretendevo, certo, di arrivare attraverso l’analisi di un’opera a giustificare la sua bellezza o non bellezza, il giudizio estetico è un'altra cosa, volevo solo analizzare e capire l’oggetto, che poteva poi essere opera d’arte o altre cose, anche non opere d’arte, anche oggetti comuni. Ho intrapreso dunque questa impresa assai ardua, ma a un certo punto mi sono accorto che quel lavoro poteva forse essere interessante come mero esperimento, ma non portava a niente. In realtà non portava a niente né la semiotica materiale di tanti altri, né la mia semiotica formale. Ho avuto una vera e propria crisi teorica dopo aver scritto Progetto di semiotica5, libro semioticamente troppo ambizioso. La crisi si risolse con Ricognizione della semiotica6, che è una dichiarazione di abbandono sostanziale della semiotica e un’apertura più decisa, anche se già più che affiorante negli scritti precedenti, verso altri orientamenti. Una precisazione importante: mi sono distaccato dagli studi di semiotica sulla base di un accorgimento ancora più fondamentale, vale a dire: avevo tentato di utilizzare opportunamente gli strumenti linguistici anche per i linguaggi non verbali e di arrivare a soluzioni non ovviamente identiche, ma analoghe, nella definizione del loro codice, e mi sono accorto a un certo punto che neanche il codice linguistico è un vero e proprio codice. C’è, sì, una parte codificata, fonematica, monematica e grammaticale, ma nell’uso, poi, il linguaggio è creativo, continuamente si amplia, muta, e così via. E mi sono convinto che sarebbe stato assurdo pretendere qualcosa di 3 Emilio Garroni, La crisi semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma, 1964. 4 Galvano della Volpe, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano, 1960. 5 Garroni, Progetto di semiotica. Messaggi artistici e linguaggi non-verbali, Problemi teorici e applicativi, Laterza, Bari, 1972. 6 Garroni, Ricognizione della semiotica. Tre lezioni di, Officina Edizioni, Roma, 1977.   Intervista a Emilio Garroni 3  più da linguaggi chiaramente ancora meno codificati, come per esempio il presunto linguaggio figurativo. Mi ha allontanato dalla semiotica, inoltre, l’approfondimento del pensiero di Kant. Naturalmente, mi ero da sempre occupato di Kant e in particolare della terza Critica, almeno dagli anni ‘60 e anche prima, e ho tenuto sull’argomento vari corsi di lezioni. E via via che andavo maturando una mia interpretazione di Kant, essa era sempre più in collisione con una prospettiva semiotica. Non che le opere non siano analizzabili, ma sono analizzabili con strumenti diversi, non con strumenti propriamente semiotici. Ma questo è un altro discorso. 2. Come reputa di inserirsi nella tradizione kantiana in Italia? Quali sono stati e sono i suoi riferimenti imprescindibili in essa, e come ritiene di averli rielaborati? Chi sono stati e sono i suoi interlocutori privilegiati? Il riferimento più significativo è stato ed è Scaravelli. Scaravelli dà un’inter- pretazione fulminante della terza Critica7, mettendo in evidenza cose che non erano mai state viste, e che invece, dopo aver letto Scaravelli, risultano addirittura ovvie. Debbo citare anche un autore, un po’ più antico, che pure dice cose molto interessanti: Baratono, che sostanzialmente interpreta il principio estetico della facoltà di giudizio come un principio per la possibilità dell’esperienza particolare della natura e quindi della scienza8. È insomma una parziale anticipazione di Sca- ravelli. Un ultimo riferimento notevole è Vittorio Mathieu, che è giunto a risultati analoghi nei riguardi del cosiddetto Opus postumum9. Questi sono i miei più importanti riferimenti. Tutti italiani? Naturalmente ho letto e apprezzato anche molte opere di stu- diosi non italiani, da Cassirer a De Vleeschauwer, da Hinske a Guyer, e così via. Ma sa che cosa si dice, scherzando, ma fino a un certo punto, in Germania, proprio nell’ambiente di Hinske?, che gli studi kantiani si sono ormai trasferiti in Italia. I miei interlocutori... non è che io abbia tanti interlocutori. Insomma: molti che si occupano di Kant non si occupano molto di me, e io non mi occupo molto di loro. Alcuni interlocutori, sì, li ho, e ottimi. Per esempio Marcucci, con cui ho avuto anche una corrispondenza che, come lei sa, è stata pubblicata, mi pare, in «Studi di estetica»10. Con Marcucci sono in ottimi rapporti, abbiamo sempre scambiato idee, mi manda i suoi libri e i suoi saggi e io gli mando i miei. Insomma discutiamo, anche se non siamo sempre d’accordo, soprattutto sul punto fondamentale dell’interpretazione del principio estetico della facoltà di giudizio. Ma spesso è più 7 Le considerazioni più rilevanti sulla terza Critica sono in: Luigi Scaravelli, Osservazioni sulla «Critica del Giudizio» (1955), poi in Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze, 1968. 8 Cfr. Adelchi Baratono, Il pensiero come attività estetica. Introduzione alla Critica del Giudizio, in «Logos», X, 1-2, 1927. 9 Vittorio Mathieu, La filosofia trascendentale e l’ «Opus postumum» di Kant, Edizioni di «Filosofia», Torino, 1958; Immanuel Kant, Opus postumum, a cura di V. Mathieu, Zanichelli, Bologna, 1963. 10 Garroni, Silvestro Marcucci, Lettere kantiane, in «Studi di estetica», V, 1979-80.   Intervista a Emilio Garroni 4  proficuo non essere d’accordo, che l’esserlo11. E ancora: Amoroso. Con Amoroso ho scambiato idee, ho letto il suo libro su Kant che apprezzo molto12. Per esempio, ci siamo visti in occasione di un seminario kantiano a Palermo13, e abbiamo parlato a lungo. E ancora Makkreel, che ho conosciuto a Cerisy La-Salle14, e La Rocca, che mi interessa molto. A proposito di Cerisy, proprio lì Amoroso ed io scoprimmo, chiacchierando insieme, non senza stupore e forse con un po’ di disappunto, che stavamo entrambi traducendo la terza Critica15, rispettivamente: Critica della capacità di giudizio16 e Critica della facoltà di giudizio17. Ma dovrei ricordare alcuni dei miei allievi, con cui sono molto legato e con cui c’è sempre stato uno scambio molto forte su problemi kantiani: Di Giacomo, Montani, Catucci, Velotti, che ha scritto un bel libro che si occupa largamente di Kant, recentemente edito da Laterza18. E soprattutto Miki Hohenegger, con il quale ho lavorato insieme nella traduzione della terza Critica, edita da Einaudi, e nella stesura della relativa Introduzione. E altri ancora. La Rocca è un caso per me leggermente, come dire?, angustiante, perché è un ottimo studioso ed è per fortuna d’accordo con me su molti punti, abbiamo anche parlato insieme oltre che scritto reciprocamente uno dell’altro, però non accetta, al pari di Marcucci, la mia interpretazione del principio estetico come il principio stesso della facoltà del giudizio19. Eppure Kant dice, mi pare più volte e chiaramente in tutto il testo, che quello è l’unico principio costitutivo della facoltà di giudizio, mentre il principio teleologico è soltanto derivato da quello. Il caso di La Rocca è in un certo senso l’inverso del caso di Desideri, che è senza dubbio, anche lui, un studioso bravo, interessante, forse un po’ complicato qualche volta, ma bravo. Perché inverso? Perché recentemente è uscito un suo libro20, in cui lui riprende in sostanza la mia interpretazione, che a lui sta bene, al contrario di La Rocca. Ebbene, 11 Cfr. Garroni, Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del Giudizio” di Kant, Bulzoni, Roma, 1976 (2a ed. con una Premessa dell’autore: Unicopli, Milano, 1998); Marcucci, Epistemologia ed estetica in Kant, in «Physis», XIX, 1977. 12 Leonardo Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli, 1984. 13 Seminario promosso dal Centro Internazionale Studi di Estetica e svoltosi a Palermo, Grand Hotel des Palmes, 9-10 ottobre 1998. Tema del convegno: Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica; contemporaneamente all’uscita di: Alexander G. Baumgarten, Lezioni di estetica, a cura di S. Tedesco, Aesthetica, Palermo, 1998. Hanno introdotto la discussione L. Amoroso, M. Ferraris, E. Garroni, L. Russo. Partecipanti: M. Carbone, G. Carchia, P. D’Angelo, G. Di Giacomo, R. Diodato, E. Ferrario, D. Goldoni, T. Griffero, P. Kobau, G. Lombardo, E. Mattioli, M. Mazzocut-Mis, P. Montani, P. Pimpinella, L. Pizzo Russo, R. Salizzoni, S. Tedesco, G. Tomasi, S. Velotti. La relazione di Garroni e altre relazioni e comunicazioni sono state poi pubblicate in «Aesthetica Preprint», 54, 1998. 14 A Cerisy si svolgono le attività del Centre Culturel International (www.ccic-cerisy.asso.fr). 15 Il Colloquio su L’Esthétique de Kant si svolse nel giugno 1993. Gli atti sono stati poi pubblicati in: AA.VV., Kants Ästhetik, hrsg. H. Parret, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1998. 16 Kant, Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, BUR, Milano, 1995. 17 Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino, 1999. 18 Stefano Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza, Laterza, Roma-Bari, 2002. 19 Cfr. Claudio La Rocca, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia, 2003. 20 Fabrizio Desideri, Il passaggio estetico. Saggi kantiani, Il Melangolo, Genova, 2003.   Intervista a Emilio Garroni 5  curiosamente non ho mai avuto rapporti personali con lui, al contrario di La Rocca, se non di sfuggita in concorsi o cose del genere. E per di più Desideri scrive all’inizio del suo ultimo libro che questa idea gli è venuta leggendo una serie di libri, fra cui il mio, ma anche quelli di altri che negano recisamente questa tesi. Non capisco bene il perché. In ogni caso posso dire che con Desideri sono «idealmente» in rapporti di discussione. 3. Più volte Lei fa riferimento alla problematicità di una storia dell'estetica. In Estetica. Uno sguardo-attraverso21 si prendono in considerazione Burke e Batteux oltre a, naturalmente, Kant. Inoltre lì, e per un certo verso anche in Senso e paradosso22, si argomenta intorno alla possibilità di una rilettura motivata di testi definibili come «estetici» scritti prima del XVIII secolo, rilettura nella prospettiva del «senso» che è a Lei propria. Come ritiene quindi fattibile una storia dell'estetica? E con quali limiti? Non ho mai scritto una storia dell’estetica, né mi è mai venuto in mente di farlo, e ormai non la scriverò neppure in futuro. Però cominciano a uscire dei lavori interessanti, cioè esempi di una storia dell’estetica calibrata in modo diverso rispetto a quello tradizionale: una storia dell’estetica che non presume di trovare un’estetica dappertutto, tale e quale, così come si è costituita nel secolo XVIII. Si è ormai consci che si debbono fare distinzioni opportune. L’oggetto stesso della cosiddetta riflessione estetica, in senso molto lato, è diverso nei vari tempi, non è affatto identico a quello che noi chiamiamo opera d’arte bella, una categoria nata storicamente in un certo tempo. Ci sono, come dico spesso nei miei libri, somiglianze, identità parziali, ma anche differenze, talvolta molto forti, tra i vari oggetti sui quali si esercita la cosiddetta riflessione estetica. Questo significa che non si può scrivere una storia dell’estetica come storia di una disciplina e che però si può forse delineare un panorama di tutti quei fenomeni che, in qualche modo, hanno analogie con ciò che noi, poi, abbiamo chiamato opere d’arte bella e che richiedono parimenti un principio non intellettuale. Su questa base è nata una subcollanina laterziana di Cultura Moderna, da me diretta, dedicata ai problemi dell’estetica e dell’altro dall’estetica23, dove sono usciti alcuni ottimi libri, per esempio quello di Paolo D’Angelo sull’estetica della natura e dell’ambiente24. Dunque, estetica fino a un certo punto, che non si occupa di opere d’arte, ma di oggetti diversi che possono essere sottoposti a giudizi di tipo diverso, che non sono sempre, o quasi mai, puramente estetici, ma coinvolgono altri aspetti della nostra esperienza. E’ uscito poi un libro di Guastini sull’estetica antica, particolarmente interessante, perché riesce a chiarirla senza mai dimenticare che la filosofia antica non possiede una vera e propria estetica, non solo perché non sia sanzionata come disciplina, ma perché i suoi 21 Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano, 1992. 22 Garroni, Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari, 1986. 23 La serie di Laterza si chiama: «Temi per l’estetica» ed appartiene alla collana «Biblioteca di cultura moderna». 24 Paolo D’Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Laterza, Roma-Bari, 2001.   Intervista a Emilio Garroni 6  problemi erano alquanto diversi25. Ebbene, in quel libro si vedono bene, come le dicevo, e differenze e analogie. Insomma: questo è appunto un modo di fare storia dell’estetica senza pretendere di fare la storia di una disciplina, ma piuttosto la storia di un qualcosa di cangiante che circola nella riflessione e che tuttavia richiede una qualche condizione comune, qualcosa come il principio soggettivo della facoltà di giudizio. E del resto io stesso, il mio ultimo libro, l’ho intitolato L’arte e l’altro dall’arte, con questa precisa intenzione26. 4. Nei suoi più recenti saggi27, Lei lamenta il fatto che l'arte contemporanea non riesca più ad essere esemplificatrice di una prospettiva di senso: essa sarebbe solo una reduplicazione e sostituzione dell'esistente. In che modo valuta questi cambiamenti? Ritiene inoltre che vi siano nell'arte contemporanea propensioni opposte a questa tendenza generale? Sull’arte contemporanea ho poco da dire, ho poco da dire perché... Guardi, io mi sono interessato moltissimo di arte e storia dell’arte, occupandomi fin dagli anni ‘40 dell’arte antica e moderna, dai greci fino ai nostri giorni, compresa l’avanguardia novecentesca. Negli anni ’60 mi sono avvicinato di più all’arte che si stava facendo allora e ho scritto anche qualche saggio in onore di pittori che mi interessavano28. Ma questo interesse artistico è un po’ scemato col tempo. Perché? Un po’ per mie traversie intellettuali, non sempre testimoniate in libri e saggi, che mi hanno portato su altre strade. Un po’ perché credo che il giudizio che ho dato sull’arte attuale come riproposizione dell’esistente, con l’aggiunta di trovate e trovatine più o meno lodevoli, sia abbastanza valido. Io non so se esistano casi che facciano pensare il contrario, può darsi, non so dirglielo. Fino adesso non ne ho incontrati... qualcosa di «carino», sì, una invenzione che richiama l’attenzione... però tutto sommato mi pare che l’arte nella sua generalità tenda precisamente a quella riproposizione dell’esistente, attraverso i mezzi tecnologici oggi a disposizione. Le stesse installazioni, per esempio, che pure sono qualche volta opere di grande interesse, sono spesso la raccolta di oggetti trovati, ma con intenti diversissimi rispetto a Duchamps, e richiamano sempre l’esistente tale e quale, o quasi. In effetti è significativo che anche in quelle opere ci sia spessissimo un te- 25 Daniele Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, Roma-Bari, 2003. 26 Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, Roma-Bari, 2003. Pochi giorni dopo l’intervista, Garroni mi ha inviato una e-mail con la bozza di quello che sarebbe stato davvero il suo ultimo libro: Garroni, Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari, 2005. 27 Cfr. Garroni, Relazione interna, relazione esterna e combinazione delle arti, relazione presentata al Convegno della Biennale Lo scambio delle arti nel ‘900, Venezia, 1998, poi in: Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, cit.; Garroni, Senso e non-senso, conferenza letta a I Coloquio Latino-americano de Estética y de Critica di Buenos Aires e alla Facultad de Arquitectura Diseño y Urbanismo, novembre 1993, poi in: Garroni, Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda, Castrovillari, 1994. 28 Garroni, Enrico Crispolti, Alfredo Del Greco, Biblioteca di Alternative Attuali, Roma, 1962; Garroni, Arte mito e utopia: 11 dipinti di Bice Lazzari, Tipografia Fonteiana, Roma, 1964; Garroni, Il mito negativo e la pittura di Vacchi, Officina, Roma, 1964; Silvio Benedetto, Amore Uno: 6 acqueforti, presentate da E. Garroni, Il Torcoliere, Roma, 1966; Silvio Benedetto (104 opere dal 1963 ad oggi), Galleria d’arte internazionale Due Mondi, Roma, 1966.   Intervista a Emilio Garroni 7  levisore, quasi che si volesse richiamare l’attenzione sulle comunicazioni di massa e sul fatto che quello che si mostra è proprio quello che potremmo incontrare andando in una casa che non conoscevamo. Naturalmente, non sto facendo previsioni per il futuro. Può darsi che tutto cambi, basta che emerga una personalità di talento, che faccia del nuovo diverso da quello che si fa adesso. Ma, a dire la verità, io non credo molto alle capacità taumaturgiche dei singoli talenti. I talenti sono un fatto, ma il loro emergere è condizionato dai tempi. E i nostri tempi sono tempi di degradazione, inadatti a sollecitare i talenti potenziali. Insomma, se l’arte mi pare giù di tono, non credo affatto che la colpa sia degli artisti, ma piuttosto dei nostri tempi disgraziati, che oppongono all’orrore ormai quotidiano la contemplazione dell’esistente ridotto a immagine televisiva o telematica. 5. Un filosofo citato nei suoi testi (insieme ad Heidegger e Wittgenstein) è John Dewey. I riferimenti a Dewey, pur significativi, sono più circoscritti rispetto a quelli nei confronti di Heidegger e Wittgenstein. Per quale ragione? Quali sono le sue idee ed opinioni sull'autore di L'arte come esperienza? Perché cito soprattutto Heidegger e Wittgenstein? Ognuno ha i suoi filosofi preferiti. Oltre a tutto, come è stato detto da Verra, Wittgenstein e Heidegger sono i due filosofi più importanti del XX secolo. Questo forse sarà un giudizio estremo. Senza dubbio ce ne sono altri importanti, ma sicuramente questi sono tra i pochi più importanti. Io ho trovato motivi di interesse per un certo verso più in Wittgenstein che in Heidegger. Heidegger non lo accetto per molti aspetti, ma certo ha intuizioni e riflessioni notevoli. In ogni caso mi hanno aiutato entrambi, o almeno lo spero, a capire come stanno le cose con la filosofia e con il problema stesso della filosofia. E qui allora vorrei citare ancora una volta un altro filosofo, che non cita più nessuno: Carabellese. Carabellese è stato per me un insegnamento fondamentale. Il modo di ricercare di Carabellese nell’ambito filosofico era stupefacente: la lettura del testo, lo smontaggio del testo, e lo scavare nel pensiero degli autori, talvolta non senza qualche coartazione qua e là, ma in ogni caso con serietà e profondità29. Confesso di preferire di gran lunga questo metodo a quello di certi filologi che capiscono a metà. Quella era la sua caratteristica principale. Io ho tentato di ispirarmi a quel metodo, anche se l’ammissione può nuocermi presso i filologi. Pazienza. Cito Dewey per una ragione semplicissima. Perché l’estetica di Dewey è un estetica precisamente nel mio senso più che non nel senso di molti altri. Non un’estetica dell’opera d’arte. Ha come oggetto non solo l’opera d’arte, ma certe esperienze, che rimandano ad un certo principio che è lo stesso di quello del giudizio estetico in senso stretto. Veramente, Dewey non parla esplicitamente di principi, ma fa esempi che non hanno niente a che fare con l’arte, assimilandoli tuttavia a questa sotto un comune denominatore: il pranzo in un ristorante francese, oppure la tempesta (se ricordo bene) durante una crociera, e così via. Però cito molto anche Brandi. Brandi, come le dicevo, è stato molto impor- tante per me, anche per il superamento della semiotica30, ma soprattutto per alcuni 29 Sul problema interno della filosofia, cfr. Pantaleo Carabellese, Che cos’è la filosofia?, in «Rivista di Filosofia», Anno XIII, 3, 1921. 30 Per le critiche alla semiotica, cfr. Cesare Brandi, Segno e immagine, Milano, Il Saggiatore, 1960.   Intervista a Emilio Garroni 8  aspetti filosofici della sua estetica, guarda caso proprio in riferimento allo sche- matismo kantiano, e per la sua prodigiosa capacità di lettura delle opere d’arte. Basta leggere i suoi Dialoghi31, l’Architettura barocca32, il Duccio33, eccetera eccetera, per rendersene conto. 6. Da sempre Lei ha alternato alle opere filosofiche, opere di narrativa34. C'è stata un'influenza tra i due ambiti? L’argomento dei miei scritti narrativi mi imbarazza leggermente, dato che cadono del tutto al di fuori dell’ambito dei miei lavori. Tuttavia non mi imbarazza dirle che li ho scritti con la stessa attenzione degli altri scritti, e, per di più, che essi meritavano forse un’attenzione maggiore, al di fuori della ristrettissima cerchia dei miei lettori, come dire?, «convinti». Non è uno sfogo da autore deluso. E’ una convinzione, credo non immotivata, che non nasce affatto dalla delusione. Ora lei mi chiede se c’è un’interrelazione tra i due ambiti. Senza dubbio, non può non esserci, perché sono sempre io che scrivo, quell’io che ha una certa storia, personale e culturale, e che è arrivato a certi risultati, buoni, cattivi o mediocri, questo non importa, in fatto di comprensione. E tuttavia ciò che scrivo nelle opere narrative non serve a spiegare nulla dei miei saggi. Anzi sarebbe una fonte di fraintendimento utilizzare quegli scritti per capire i miei saggi filosofici. Sono semmai gli scritti narrativi che esigerebbero una spiegazione ulteriore da parte dei saggi filosofici. Infatti si pongono in una posizione più arretrata. Sono, per così dire, una fabulazione interna di chi deve arrivare ad una vera comprensione cui non arriverà mai. Sono racconti di personaggi in qualche modo nevrotici e metafisici. Per esempio, ho usato queste due parole nel sottotitolo del libretto Racconti morali35: «lontananza» e «vicinanza». Ebbene i miei personaggi oscillano precisamente tra la lontananza dal mondo e la vicinanza al mondo, ma non si pongono mai il problema se questa oscillazione sia superabile, e quindi non arrivano mai a una comprensione critica della vicinanza con gli oggetti del mondo, né si pongono il problema se sia possibile guardare da lontano il mondo intero. In questo senso preciso sono racconti metafisici che intendono lasciare insoddisfatto il lettore con quella scrittura elaborata, saltellante, ripetitiva, cosparsa di frequenti contraddizioni, tutte intenzionali, ovviamente. Infatti questi personaggi nevrotici e metafisici sono fatalmente ambivalenti e contraddittori. Si potrebbe dire, per autocitarmi, che non hanno capito 31 Brandi, Carmine o della pittura, Scialoja, Roma, 1945; Brandi, Arcadio o della Scultura. Eliante o della Architettura, Einaudi, Torino, 1956; Brandi, Celso o della Poesia, Einaudi, Torino, 1957. 32 Brandi, La prima architettura barocca: Pietro da Cortona, Borromini, Bernini, Laterza, Bari, 1970. 33 Brandi, Duccio, Vallecchi, Firenze, 1951. 34 Garroni, La macchia gialla, Lerici, Milano, 1962; Garroni, I tasmaniani, Bucciarelli, Ancona, 1963; Garroni, Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma, 1990; Garroni, Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Editori Riuniti, Roma, 1992; Garroni, Sulla morte e sull’arte. Racconti morali, Pratiche, Parma, 1994. Garroni si dedicava non solo alla letteratura ma anche alla pittura, alcuni dipinti sono riprodotti nel libro- intervista: Garroni, Doriano Fasoli, Il mestiere di capire, Edizioni Associate, Roma, 2005. 35 Garroni, Racconti morali, cit.   Intervista a Emilio Garroni 9  ciò che io chiamo «il guardare-attraverso». E tuttavia è vero che per arrivarci a capire qualcosa del genere, non dico quella formula, ma l’atteggiamento mentale che sta dietro a quella formula, forse bisogna proprio passare attraverso quelle oscillazioni tra vicinanza e lontananza. Quindi in qualche modo sono una premessa, anzi una sorta di postfazione, ai testi filosofici.  1. Emilio Garroni non è stato soltanto uno dei filosofi italiani più impor- tanti del secondo dopoguerra, ma anche una figura di intellettuale complessa e sfaccettata. Trovandosi di fronte alle sue molteplici attività e ai suoi svariati interessi, si sarebbe tentati di concentrarsi – per i fini di questo focus di «Syzetesis» dedicato ad alcuni Momenti di filosofia italiana – sui suoi contributi più convenzionalmente etichettabili come “filosofici”, quali quelli dedicati all’interpretazione del pensiero critico di Kant, tralasciando tutto il resto: le pratiche di narratore e di pittore (attraversate da specifiche auto-tematizzazioni teoriche e oggetto di riflessione saggistica), l’interesse per la psicoanalisi e la linguistica, gli interventi sulle arti visive, la letteratura e la musica – talvolta affidati a quotidiani, settimanali o cataloghi –, i numerosi saggi, sempre incisivi, su temi di grande impegno, dalla creatività alla spazialità, dalla verità alla menzogna1. A questi diversi aspetti dell’attività di Garroni potrò in effetti fa- re solo qualche cenno, tuttavia ho scelto di presentarne il pensiero se- condo un’angolazione in cui il confronto con Kant ha certamente un posto di rilievo, ma solo in funzione di quella che mi sembra la vera vocazione o passione dominante di Garroni, e che il titolo di una lunga intervista concessa a Doriano Fasoli poco prima di morire, nel 2005, mi pare colga bene: Il mestiere di capire2. L’impegno costante a capire – capire quello che la vita e la storia ci mettono davanti, capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a essere un homo sapiens”3, capire i prodotti della cosiddetta cultura, capire o com- 1 La bibliografia più completa degli scritti di Garroni, curata da A. D’Ammando, è dispo- nibile sul sito dell’associazione “Cattedra internazionale Emilio Garroni” E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni Associate, Roma 2005.  3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad essere un homo sapiens?, testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma 1992, pp. 7-16; Garroni ha poi rielaborato questo testo in uno dei suoi ultimi scritti, uscito postumo, La mente, il corpo, le cose, in P. Carignani-F. Romano (eds.), Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 27-36. 268   Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   prendere la stessa attività di capire e comprendere, cioè la filosofia – è strettamente legato in Garroni alla riflessione su quel “senso dell’espe- rienza” che ho messo nel titolo di questo saggio. Un senso che non è affatto da intendersi come la pretesa metafisica di cogliere un “senso ultimo” dell’esistenza, della storia o dell’universo (su cui la filosofia, nella prospettiva critica adottata da Garroni, ha ben poco da dire), ma neppure come una dimensione immanente ma pacifica, in cui ci si installa con un po’ di buona volontà, rassicurandosi che, essendo una condizione antropologica, possiamo acquietarci nell’ordine vigente delle cose. Tutt’altro: per Garroni, come vedremo, il senso dell’espe- rienza è piuttosto un dover essere4, trascendentalmente ineludibile ma per niente garantito nei fatti, un compito etico irto di difficoltà, intima- mente paradossale, e sempre strutturalmente pronto a rovesciarsi in non-senso. 2. Per chiarire ancora qualcosa a proposito del titolo di questo inter- vento (la sua seconda parte, “l’estetica come filosofia non speciale”), è bene ricordare che per Garroni l’estetica non è affatto una filosofia dell’arte, una disciplina con un proprio oggetto epistemico o materia- le, ma riguarda le condizioni di possibilità di fare esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle ricerche scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte, semmai, è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare5. Per Garroni, infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua possibilità non empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì un’attività empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività, che mirano a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piutto- sto il compito di «guardare-attraverso»6 le esperienze determinate, per 4 Cfr. E. Garroni, Sul dover essere del senso, in appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso, Garzanti, Milano 1992 (seconda ed., Castelvecchi, Roma 2020, con un’in- troduzione di S. Velotti), pp. 245-270, testo presentato originariamente al convegno dell’Associazione italiana di studi semiotici “Semiotica ed epistemologia delle scienze umane” (Siena, 23-25 settembre 1988).  5 Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari 1986, in particolare p. 179 ss. 6 Garroni usa il termine “guardare-attraverso”, con il trattino, per sottolinearne l’uso tecnico, quale traduzione del durchschauen usato da L. Wittgenstein nel § 90 delle Philo- sophische Untersuchungen, ed. by G. E. M. Anscombe and R. Rhees, Blackwell, Oxford 1953 (Trad. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi 1967, p. 60: «È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni [die Erscheinungen durchschauen]: la nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma alla ‘possibilità’ dei fenomeni»). 269   Stefano Velotti   risalire alle loro condizioni di possibilità intellettuali e non intellettua- li, tra cui appunto una condizione estetica, come orizzonte di senso dell’esperienza nella sua totalità indefinita e indeterminabile. Il com- pito di capire è inteso innanzitutto proprio come questo «guardare- attraverso» i fenomeni per comprenderli, cogliendone le condizioni di senso. Il cosiddetto «problema interno della filosofia»7 – con un’e- spressione ripresa questa volta da Pantaleo Carabellese, che Garroni ammirava e le cui lezioni aveva frequentato da studente alla Sapienza negli anni Quaranta – è infatti per Garroni un problema fondamentale, che riguarda il paradosso fondante della filosofia, cioè il suo esercitarsi dall’interno della stessa esperienza dalla quale, a un tempo, si distanzia per comprenderla, senza mai poter rivendicare un proprio altrove, un suo luogo metafisicamente appartato. 3. Vorrei partire, però, da qualche spunto di carattere biografico, ma solo per quel tanto che ci permette di intravedere l’urgenza anche contingente, socio-biografico-culturale, di quella passione per il capire stesso, che Garroni non considerava affatto un’esigenza contingente. Da giovane, Garroni aveva lavorato per diversi programmi televisivi della RAI, in parte dedicati alle arti, in parte ad altre questioni (ricor- do, per esempio, un bel documentario del 1960 su Adriano Olivetti, con quella che divenne la sua ultima intervista). Lavorava alla RAI per necessità, non per vocazione, per quanto la RAI di allora fosse cultu- ralmente molto più ricca di quella di oggi. Sono tanti i programmi che potrei citare a cui Garroni lavorò negli anni Cinquanta e Sessanta: tra gli altri, Piazze d’Italia, Musei d’Italia, Avventure di capolavori, Arti e scien- ze, Le tre arti, e soprattutto L’Approdo, iniziato come trasmissione radio- fonica nel 1944, con la direzione di Adriano Seroni e Leone Piccioni, diventato programma televisivo dal 1963 (come “settimanale di lettere e arti”), più tardi accompagnato da una sua rivista a stampa, nel cui comitato direttivo si trovavano alcuni dei più importanti intellettua- li dell’epoca (Riccardo Bacchelli, Carlo Bo, Emilio Cecchi, Roberto Longhi, Giuseppe Ungaretti, a cui bisognerebbe aggiungere altri col- laboratori di spicco)8, per non menzionare, nella RAI, la presenza di figure molto diverse tra loro ma tutte significative, come Carlo Emilio 7 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 130. 8 Cfr. A. Dolfi-M. C. Papini (eds.), L’Approdo: storia di un’avventura mediatica, Bulzoni, Roma 2006 e A. Grasso-V. Trione, Arte in TV. Forme di divulgazione, Johan & Levi, Monza 2014. 270    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   Gadda (tra il 1950 e il 1955) o, più tardi, di Andrea Camilleri, coetaneo di Garroni, o ancora di Umberto Eco, che di Garroni sarà, negli anni, un costante interlocutore. Garroni dà conto della sua attività televisiva in un’interessante in- tervista del 1994, da cui voglio prelevare solo una frase, apparentemente ovvia, ma credo invece rivelatrice del suo atteggiamento inflessibil- mente volto al capire: un curatore o conduttore di una trasmissione culturale, o sulle arti – dice lì Garroni – deve essere certamente colto, «ma c’è di più: deve essere, nel campo della letteratura, delle arti figura- tive, della musica, oltre che colto, anche intelligente»9. Sembra, e forse è, un’ovvietà: un conduttore di programmi culturali non deve essere uno stupido. Deve anche intelligere, deve capire. Deve insomma essere qual- cuno, precisa però subito Garroni, che sia «capace di far vivere un testo, di cogliere un problema che va a fondo, di far vedere o capire qualcosa di singolare che i più per pigrizia non vedono affatto»10. Emerge qui quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la bana- lità e la semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come un tratto costante di Garroni, che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso: non solo una prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa, scrupolosa, controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per una pratica che oggi seduce molti, anche i filo- sofi: occupare una casella nell’esistente, dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche minima particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la massima riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo – naturalmente – di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di capire. Questo compito – inteso da Garroni come un compito intellettua- le, culturale ed etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non solo l’estetica come «filosofia non speciale», cioè come filosofia tout-court, benché spesso praticata in una sua forma obliqua anche in relazione all’arte e alla letteratura; non solo il rapporto con la psico- analisi o lo studio del linguaggio, su cui sono nati, rispettivamente, il lungo sodalizio con Armando B. Ferrari e la duratura e profonda ami- cizia con Tullio De Mauro; ma anche l’attività giornalistica e, come vedremo – nelle modalità proprie, non certo assimilabili a quelle filosofico-argomentative – le stesse pratiche pittorica e narrativa. Garroni esordisce nel 1962 con un libro di racconti scritti negli anni 9 L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino 1994, p. 275. 10 Ibidem.  271   Stefano Velotti   Cinquanta, a cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera singolare, La macchia gialla11, titolo ripreso da un’incisione di Dürer, riportata sulla copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che indica un punto del suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice: «Là dove c’è la macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un dolore, direi, insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni metterà capo a una lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro filosofico-estetico – La crisi semantica delle arti12, su cui non posso soffermarmi. Né mi soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo autoritratto di Garroni, un autoritrat- to verbale dell’autore da giovane (o non più tanto giovane, dato che aveva 37 anni), a cui seguirà venti anni dopo un secondo autoritratto, questa volta dipinto (su cui tornerò in chiusura). I curatori della colla- na “Narratori” dell’editore milanese Lerici erano due nomi di grande rilievo del mondo poetico-letterario, Romano Bilenchi e Mario Luzi, i quali presentarono giustamente questa notizia biografica, o autoritrat- to semi-ironico dell’autore da quasi-giovane, come segnato da «acume» e «humour». Ne riporto qualche riga, che suggerisce una motivazione anche socio-biografica, per reazione all’ambiente di provenienza, di quella passione per il “capire” che ho indicato come la passione domi- nante di Garroni: Sono nato a Roma nel dicembre del 1925, in un ambiente ab- bastanza sciatto e approssimativo, che non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia, tanto più che certa piccola bor- ghesia romana ha le sue asprezze ma anche le sue tenerezze. Oltrepassata la trentina mi sono accorto che anche la mia for- mazione culturale è caratterizzata dalle stesse contraddizioni: una cultura apolide e spregiudicata e nello stesso tempo lacu- nosa e assai provinciale. Mi sono laureato nel 1947 in filosofia presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Roma, 11 E. Garroni, La macchia gialla, Lerici, Milano 1962. Il testo, con la relativa copertina, è reperibile integralmente sul sito dell’associazione “CiEG - Cattedra internaziona- le Emilio Garroni”  12 Ma, come ha scritto A. D’Ammando all’interno di un’ottima ricostruzione del percorso filosofico di Garroni (Il circolo estetico e il guardare-attraverso: la riflessione sull’arte di Emilio Garroni – Tesi di Dottorato in filosofia discussa alla “Sapienza – Università di Roma”, febbraio 2019), a cui rimando anche per un’analisi della Crisi semantica delle arti, «[s]i potrebbe affermare, in proposito, che “crisi”, al pari di “oriz- zonte” e “senso”, è una parola cara al pensiero di Garroni, almeno sotto il profilo del problema dell’arte e del suo statuto (quanto mai incerto e problematico)». Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   con la quale intrattengo ancora rapporti abbastanza scialbi. Ho pubblicato saltuariamente saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte su riviste specializzate, settimanali e quotidiani. La saltuarietà del mio lavoro scientifico oggettivo dipende in parte da una certa attitudine alla dissipazione, e in parte dalla mancanza di tempo. Da molti anni collaboro infatti alla tele- visione dove ho fatto un po’ di tutto dedicandomi prevalente- mente in questi ultimi tempi alla redazione e presentazione di rubriche d’arte, con intenti (dico io) nobilmente divulgativi13. A queste parole si potrebbero accostare quelle scritte oltre trent’anni dopo, su richiesta del Manifesto, che aveva invitato ventisei persona- lità della cultura a raccontare la propria esperienza personale di una visita a un museo. Garroni scelse la Galleria nazione di arte moderna di Roma: Non so se fosse possibile negli anni trenta – con la cultura licea- le imperante, bene che andasse, in assenza di una mentalità più ariosa, volta a capire, non a accettare, con giornali e riviste non specialistiche di livello assai modesto – che un museo o una galleria d’arte potessero essere immediatamente formativi per un ragazzo. Anche le famiglie da cui provenivano erano per- lopiù ignoranti e disinteressate a tutto ciò che non fosse stret- tamente tradizionale, compresa la stessa tradizione, più subita come un dato eccelso e di fatto semisconosciuto, che vissuta come genuina cultura. Non era un atteggiamento conservatore retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché chi è riuscito poi a combinare qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo. A otto-dieci anni, ero in balia della cultura e dei gusti mediocri della mia famiglia, e della cosiddetta borghesia romana cui essa apparteneva, e fui condotto più volte da certi miei zii, che si ritenevano intenditori d’arte, alla Galleria nazionale d’arte moderna [...] Voglio solo dire che quella galleria fu, negli anni trenta, il luogo della mia diseducazione. Il fatto è che una galleria o un museo non formano nessuno, se non si è già preparati a formarsi mediante ipotesi, anche sbagliate. Ma lì, in quelle visite sinistre, non erano in gioco ipotesi o sforzi per capire, ma solo meschine e dogmatiche edizioni del mondo dell’arte ne varietur. È strano che, crescendo, non mi sia allontanato per sempre dalle arti figurative. [...] [Così che la] Galleria nazionale d’arte moderna, ha avuto il me- rito, con il concorso determinante dei miei zii, di farmi capire 13 E. Garroni, La macchia gialla, cit., risvolto di copertina.  273   Stefano Velotti   come non si guarda un quadro. Che è un’abilità indimenticabi- le, come andare in bicicletta14. Abbandono ora queste incursioni biografiche – che pur nella loro rapidità credo siano indicative del modo in cui Garroni si situava nei confronti della realtà, e quindi anche della sua attività filosofica – per cercare di indicare sinteticamente il nucleo centrale della sua rifles- sione più matura, intorno a cui si raccolgono questioni complesse e interessi anche eterogenei. 4. Ho già ricordato Pantaleo Carabellese – che, al di là degli esiti del suo «ontologismo critico», Garroni considerava «uno dei pochi inse- gnanti che ho avuto all’Università che fosse anche un grande filosofo»15 – perché è probabilmente uno dei tre punti di riferimento italiani più significativi per il suo pensiero, insieme a Luigi Scaravelli – per l’inter- pretazione di Kant – e poi, su un altro piano, a Cesare Brandi. Era stato infatti proprio Carabellese, in un articolo del 1921, ad aver criticato sia Gentile, sia Croce (come poi farà anche con Spirito e Calogero) per non aver colto il «problema interno della filosofia», la domanda, cioè, con cui la filosofia diventa problema a se stessa, si interroga sul suo luogo, la sua possibilità, le sue pretese. In una postilla del 1942, Carabellese spiegava così l’incomprensione da parte di Croce e di Calogero del problema da lui sollevato: Il vero è che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più del Croce) continuano a porre il problema della filosofia come pro- blema del suo oggetto, cioè non pongono veramente il problema interno della filosofia, ma soltanto e sempre il suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono questo con quello. Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa dimostra o consente, come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storici- smo) d’accordo fanno, non è risolvere il problema interno della filosofia, ma non porlo neppure, ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non si ricerca neppure, che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa dimostra16. 14 E. Garroni, “Il piccolo Ottocento italiano”, in F. De Melis (ed.), La scoperta del museo. Ventisei guide sulla via dell’arte, Manifestolibri, Roma 1995, pp. 111-113, corsivi miei. 15 E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere di capire, cit., pp. 35-36. 16 P. Carabellese, L’ontologismo critico. Primi saggi II, Che cos’è la filosofia, Signorelli, Roma 1942, pp. 78-79. 274    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   Il problema della riflessione sul senso, per Garroni si lega stretta- mente a quello che chiama «il paradosso della filosofia» nel suo libro del 1986, intitolato appunto Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale. È forse il libro più impegnativo che Garroni abbia scritto, e certamente uno snodo centrale nello sviluppo del suo pensiero. Lì Garroni cita Carabellese e il suo articolo del 1921, e la replica di Croce dello stesso anno, sostenendo che entrambi facciano valere un’esigenza legittima: Carabellese, quella appunto del problema che la filosofia è a se stessa; Croce, quella di ribadire, quasi con fastidio, che la filosofia si conquista il suo luogo proprio solo dall’interno della conoscenza e del fare concreti e storici. Entrambi, in sostanza, inten- devano rifiutare l’idea di un luogo separato della filosofia, ma non si rendevano conto della parzialità e complementarità delle loro posi- zioni, che se rettamente intese si compongono in quello che Garroni chiamerà appunto il «paradosso fondante della filosofia». Il dissidio tra Carabellese e Croce, infatti, prefigurava una antinomia non risol- ta, formulata da Garroni in questo modo: Un problema interno della filosofia va posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un suo luogo appartato e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da Carabellese]; ma il porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e questa è la replica di Croce, che ritiene il problema di Carabel- lese insignificante]17. Garroni fa notare che il rischio che correva Carabellese, che pure po- neva un problema genuino di cui Croce si disfaceva troppo frettolo- samente, era quello di considerare la filosofia, in quanto si pone il suo “problema interno”, come una sorta di meta-linguaggio che si e- sercita su un linguaggio oggetto già compattamente costituito (una me- tafisica, o un sistema, quale era per lo stesso Carabellese il suo «onto- logismo critico»), perdendo di vista proprio quel paradosso che pure aveva fatto emergere e trasformandolo così in un paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le esigenze di Carabellese e di Croce è inve- ce comprendere la filosofia come «risalimento», o come quel «guardare- attraverso» che risale dalla concretezza dei fenomeni, dall’interno dell’e- sperienza concreta in cui stiamo, alle loro condizioni di possibilità, senza dar per scontato che una filosofia già si dia da qualche parte, e senza 17 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 131.  275   Stefano Velotti   però neppure vederla disciolta nelle indagini oggettive. Quel «guardare- attraverso» deve essere inteso dunque come «un guardare-attraverso nel guardare, non un semplice guardare a meno di un taciuto guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty, Garroni riassumeva così la sua posizione: «Una filosofia di questo tipo include la propria stranez- za, perché non è mai del tutto nel mondo e tuttavia non è mai fuori del mondo»19. Questa stranezza, questo paradosso fondante, era presentato da Garroni come una posizione fedele alla tradizione critica, in quanto opposta a posizioni metafisiche, nella specifica accezione di “non criti- che”, sia di stampo razionalistico, sia di stampo ingenuamente pragma- tista o empirista. Negli anni in cui in Italia Richard Rorty e il suo neopragmatismo sembravano raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo specchio della natura era stato presentato da Gianni Vattimo e Diego Marconi, che aprivano la loro introduzione sottolineando come questo libro si presentasse esplicitamente come «epocale»20), Garroni vi scorgeva una delle due prospettive metafisiche, non critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un lato, infatti, è certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa di una God’s eye view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno “veramente” le cose nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse che tra noi e il mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o intuitivi, presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa situazione al di fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di chi proponeva l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari – come Hilary Putnam – per confutarlo: per Garroni, porlo e comunicarlo è già confu- tarlo; immaginarlo o escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non escogitato. Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione op- posta e complementare, apparentemente demistificante, di chi, co- me il neopragmatista Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra, cioè inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze, culturali storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che avanzano pretese universali, e dovremmo conside- 18 E. Garroni-D. Fasoli, Il mestiere di capire, cit., pp. 37-38. 19 Ibidem. 20 R. Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton University Press, Princeton 1979 (Trad. it. di G. Millone e R. Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bom- piani, Milano 1986, p. V). 276    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   rare piuttosto la filosofia come un genere letterario tra gli altri. Garroni replica: Rorty avrà anche ragione, ma commette un unico errore, affer- marlo. È questo quel «taciuto guardare-attraverso» – negato in teoria, e quindi fatto valere metafisicamente come un ritorno del rimosso – a cui alludeva Garroni nel passo citato poco sopra dell’intervista con Fasoli, cioè la pretesa di stare sempre alle determinatezze dell’esperien- za, di sbarazzarsi di ogni riferimento alla sua totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella stessa pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in volta di esperienze solo con- tingenti e determinate21. Per Garroni, infatti, non si tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta, saremmo cose tra le cose22. Risalire l’esperienza concreta o guardare-attraverso i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì, essere come insetti nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il solo fatto di affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in quanto trascende le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del- l’esperienza nella sua totalità indeterminabile. 5. È questo movimento che Garroni ravvisa in Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger (sulla scorta dei quali la filosofia si configura, sì, come un domandare mediante domande determinate, ma che inclu- dono e rivelano un’autotematizzazione del domandare in genere23). Questo paradosso fondante è tutt’uno con la condizione di senso del- l’esperienza e può essere ricondotto a una delle forme antinomiche tematizzate da Kant, in particolare all’antinomia della facoltà di giudizio estetica, che, nel modo più schematico, Kant formula in questo modo: (1) Tesi: il giudizio di gusto non si fonda su concetti, ché altri- menti se ne potrebbe disputare (decidere mediante prove). 21 Questa argomentazione, qui appena accennata, viene sviluppata da E. Garroni nel primo capitolo di Estetica. Uno sguardo-attraverso, cit., pp. 11-53, anche in relazio- ne ad alcuni autori classici e a diversi autori contemporanei. 22 Su questo punto potrebbe aprirsi un confronto con il diversificato universo di alcu- ni nuovi realismi-materialismi oggi in voga (per esempio quello della flat ontology), che propongono una visione degli esseri umani proprio come “cose tra le cose”. 277  23 E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 132.   Stefano Velotti   (2) Antitesi: il giudizio di gusto si fonda su concetti, ché altri- menti, malgrado le differenze dei giudizi, non se ne potrebbe neppure discutere (avanzare l’esigenza del consenso necessario di altri con tale giudizio)24. L’antinomia può irrigidirsi in una contraddizione, oppure essere com- posta (non eliminata, ma compresa e resa praticabile), come fa Kant, spiegando che nella prima tesi si tratta di concetti determinati, nella seconda di concetti indeterminati. Ora, la struttura di questa antino- mia, e il modo in cui Kant la compone, è omologa a quella che Garroni fa valere, per esempio, in relazione al linguaggio (il motivo per cui Rorty non può affermare quel che l’uso stesso del linguaggio confu- ta). Un saggio dedicato a De Mauro, L’indeterminatezza semantica, una questione liminare, si apre con una frase che annuncia la riproposizione della struttura dell’antinomia kantiana della facoltà di giudicare, che Garroni proporrà poco dopo: Che il linguaggio sia stato talvolta considerato atto creativo in- dividuale e irripetibile oppure realizzazione o replica, secondo regole, di possibilità già interamente previste non è semplice- mente un’alternativa fondata su due ipotesi esclusive e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È qualcosa di più [...]25, in quanto entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro esclusività – fanno valere «un’esigenza che [...] non può neppure essere lasciata cadere»26. E infatti poco dopo Garroni riprende anche la forma stessa dell’antinomia kantiana, enunciando una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte: Tesi: l’uso del linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole, prima di ogni sua presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non potremmo usarlo e non ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del linguaggio presuppone l’indeterminatezza del- 24 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, in Id. Werke in zehn Bänden, vol. VIII, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmastad 1975 (Trad. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, §56, p. 173). 25 E. Garroni, L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 241. Il saggio era già stato pubblicato nel volume a cura di F. Albano Leoni et al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1998. 26 Ivi, p. 89. 278    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   27 Ivi, p. 92. 28 Ivi, p. 91. 29 Ivi, p. 105. la sua possibilità, prima di ogni unità e regole determinate, ché altrimenti non potremmo neppure determinare unità e regole per usarlo e intenderci [...]27. L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il linguag- gio così e così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso tempo lo usiamo nella sua totalità possibile indeterminata»28 o, detto ancora altri- menti, «per un verso il linguaggio richiede come una sua propria condi- zione l’indeterminatezza e per altro verso, proprio perché la richiede, la nega in favore delle sue determinazioni»29: non si darebbero espressio- ni linguistiche determinate, dotate di questo o quel significato, se non le comprendessimo come tali, cioè nella loro determinatezza, e dunque a condizione di un riferimento a una totalità indeterminata che le rende possibili e che esse “negano” in quanto, appunto, determinate. È questo il nodo a cui Garroni arriva sempre, che indaghi il lin- guaggio o la percezione, l’organizzazione della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o la natura dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello studio assiduo e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui dialettica presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una pagina, in questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste riflessioni sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che per questo motivo mi permetto di citare dif- fusamente: Ma l’analogia tra questa antinomia [kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si ferma tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni “concetto determinato/ concetto indeterminato” e “determinazione/indeterminatezza” del linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che Scaravelli ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio della quale facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la ragione, dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e tuttavia sono altrettanto indispensabili  279   Stefano Velotti   alla conoscenza empirica). Infatti la nostra conoscenza d’esperien- za, che è, sì, intellettualmente e sensibilmente determinata (pro- cede, per quanto le è dato, mediante costruzione di concetti, leggi e unificazioni di diversi leggi sotto leggi più potenti), non sarebbe possibile se non si inscrivesse innanzitutto nell’ambito di un’anti- cipazione della totalità indeterminata delle possibili conoscenze determinate – Kant scrive di “una conoscenza (di oggetti dati) in genere” –, se insomma, sull’occasione di rappresentazioni deter- minate, come nel caso esemplare dei cosiddetti giudizi di gusto, non avessimo coscienza forzatamente non intellettuale che una conoscenza d’esperienza è possibile. Esperienza possibile, però, non nel senso della possibilità della conoscenza in genere della prima Critica, (che ci dà appunto solo una tessitura analitica), ma nel senso che è possibile e ha in generale senso cercare di deter- minarla intellettualmente e sensibilmente nell’esperienza sotto il principio della facoltà di giudizio. Ma di questa totalità della conoscenza d’esperienza possibile né abbiamo una conoscenza a priori, né tantomeno possiamo fare una conoscenza di esperien- za. Non si fa esperienza di un’esperienza in genere. Ne sappiamo qualcosa in, non con un’esperienza determinata, cioè non la cono- sciamo, ma la sentiamo, mediante quel Gemeinsinn (senso o senti- mento comune, che abbiamo in comune, che ci assicura a priori della comunicabilità universale delle rappresentazioni e delle conoscenze), il quale esibisce sensibilmente e indirettamente ciò che non è propriamente esibibile e che la ragione può soltanto pensare. Qui la ragione, cioè l’idea indeterminata di una totalità, viene in qualche modo messa in scena sensibilmente mediante la facoltà di giudizio il cui principio riposa precisamente sul senso comune o il gusto, cioè mediante il sentire (esteticamente dunque) l’interna indeterminatezza del determinato30. «Sentire l’interna indeterminatezza del determinato» è uno dei modi per capire in che modo il paradosso fondante della filosofia fa della fi- losofia, come estetica non speciale, una riflessione sul senso dell’e- sperienza. Se vogliamo restare sul piano linguistico, possiamo dire in- fatti che dare significato ai concetti è determinarli, per esempio me- diante uno schema empirico o trascendentale, sempre a condizione di mettere in gioco un simultaneo e inevitabile riferimento all’inde- terminato, alla totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza, che solitamente resta implicita, e magari viene negata (come accadeva in Rorty), proprio in virtù di un surrettizio riferirvisi. 30 Ivi, pp. 110-111. 280    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   6. Il gioco delle parti tra senso e significati, e tra senso e non senso, è affrontato da Garroni in molte altre occasioni, ma viene tematizzato direttamente in una conferenza del 1988, poi pubblicata in appendi- ce al volume del 1992, Estetica. Uno sguardo-attraverso, con il titolo Sul dover essere del senso. Ora il problema non è tanto distinguere il senso dai significati, mettere in luce la condizione estetica di senso come anticipazione estetica dell’esperienza entro cui i significati possono significare, ma un problema ulteriore: riconosciuta questa condizione di senso che rende possibile e traspare in ogni significato determinato, non rischiamo infatti di «parificar[e] tutti [i significati] nel loro essere varianti di sensatezza, ‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non altrettanto ‘seri’ nel loro proprio far senso?». Come se la filosofia critica, spinta fino a questo punto, rischi che il senso possa «riassorbire in sé la sensatezza che esso condiziona [...] Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i significati storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascu- no di essi, convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio concreto di questo problema, Garroni lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far fronte l’antropologia in relazione all’etno- centrismo32: l’irrinunciabile rispetto che l’antropologia moderna ha costruito per ogni società altra rischia infatti, d’altra parte, di parifica- re ogni cultura come una variante di sensatezza, togliendole “serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente inaccettabili, avevano però almeno il pregio di prendere le culture nella loro serietà33. Ma era proprio questo ciò su cui si interrogava Garroni: non tanto la questione delle culture altre, ma della nostra stessa cultura. E con- cludeva così: Le considerazioni appena svolte non hanno [...] una vera e pro- pria conclusione. Si può dire solo questo: che si è forse messo in luce qui un nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del paradosso 31 E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, cit., p. 268. 32 Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 268 ss. 33 Si potrebbe sostenere che negli anni Novanta questo imperialismo della sensatezza sia stato proclamato (e poi smentito) da Francis Fukuyama nel suo libro The End of History and the Last Man (1992), mentre l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro serietà, e tuttavia prenderle così “seriamente” da negargli una dimensione comune di senso – veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order (1996). Le due posizioni, insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica degli ultimi trent’an- ni, «Studi di estetica» 1-2 (2014), pp. 339-367. 281    Stefano Velotti   in cui consiste la filosofia, vale a dire: che il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come non-senso, in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla [...] Forse il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse, ritroviamo – come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici estetiche del senso e le radici etiche del dover-essere34. Il problema del “prevalere” della sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso in non-senso è strettamente legato al problema spinoso della perdita di esemplarità dell’arte, della questione, cioè, se l’arte, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, non abbia pro- gressivamente ceduto a un’aderenza sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua ottusità, il suo darsi di fatto, come mero “accompagnamento” del senso, avendo per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella «regola che non si può addurre» di cui parlava Kant nel §18 della terza Critica; una «regola» indeterminata che, non potendosi “addurre” – formulare o esplicitare – può essere, appunto, solo “esemplificata” in un esempio singolare, inassimilabile a un esempio inteso come membro di una classe. 7. Nell’ultimo, breve e denso libro di Garroni – Immagine Linguaggio Figura35 – troviamo spunti inediti, ma anche una nuova sintesi di decenni di studi e ricerche. È un libro bello e importante, che attende ancora di essere esplorato a fondo, in tutta la sua fecondità, anche in relazione a ricerche in atto nel panorama nazionale e internazionale, ma che qui non posso affrontare in modo minimamente adeguato. Ricorderò solo che il perno intorno a cui ruota è la nozione di «im- magine interna» che ha preso forma attraverso «l’assiduo ripensamento del cosiddetto “schematismo” kantiano»36, e che non è confondibile in alcun modo con l’idea di poter spiegare qualcosa – della percezione o del riferimento al mondo – rimandando a immagini che avremmo nella testa. Distinte dalle «figure» (che nell’uso comune chiamiamo “imma- gini”, ma che non possono essere altro che elaborazioni, esteriorizza- zioni e riduzioni delle «immagini interne»), le «immagini interne» sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’imma- ginazione. È da escludere quindi ogni obiezione legata alla presuppo- 34 E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, cit., p. 270. 35 E. Garroni, Immagine linguaggio figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari 2005. 36 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. ix. 282    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   sizione indebita e circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di “figure nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. In questo libro tornano anche temi antichi – come quello, centra- le, della metaoperatività, un concetto già introdotto oltre trent’anni prima, in Ricognizione della semiotica37. Era l’anticipazione di uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il titolo di “metarappresentazioni”38, ma che in Garroni si estendeva già all’in- tero ambito dell’operare umano (un operare che è senso-motorio, pragmatico e corporeo, percettivo e cognitivo). In analogia e in corre- lazione con la funzione metalinguistica – che è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione operante solo mediante un linguaggio di primo livello – Garroni introduce la nozione di metaoperatività come interna e presupposta in tutte le operazioni umane e praticabile solo mediante esse. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del tipo “stimolo-risposta” da un’operazione che include già dentro di sé una generalizzazione. Piantare un chiodo con un martello è sì un’opera- zione determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma – come operazione umana – contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili (qualcosa, dunque, che potrebbe essere chiamato uno «schema operativo»39). In Immagine linguaggio figura la nostra capacità metaoperativa viene reinterpretata e specificata40 pro- prio in relazione al lavoro di quella che Garroni chiama complessiva- mente «facoltà dell’immagine», che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di un’immagine), sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’imma- ginazione nella sua specificità (delle immagini in quanto riprodotte o ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione e immaginazione sono tutte «immagini interne», costitutivamente dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile, 37 E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Officina, Roma 1977, p. 70 ss. 38 Cfr. per esempio D. Sperber (ed.), Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, Oxford University Press, Oxford 2000. 39 Una formulazione molto simile dei rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra operazione e metaoperazione – all’interno di una prospettiva “enattiva” sulla perce- zione, a cui credo sia riconducibile per molti versi anche quella proposta da Garroni – è possibile riscontrarla nei lavori di A. Noë. Per un confronto, su questi temi, tra Garroni e Noë, cfr. S. Velotti, Tecnica, in G. Ferrario (ed.), Estetica dell’arte contempora- nea, Meltemi, Milano 2019, pp. 149-170. 40 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 18 ss. 283    Stefano Velotti   dunque distinte dall’immagine-segno materialmente intesa, la «figu- ra», appunto, e che è invece sostanzialmente statica. Proprio l’attività artistica, che mette pur sempre capo a «figure» (per quanto possano essere mobili, processuali, evanescenti, eventuali) è considerata da Garroni come il venire in primo piano di questa dimensione metao- perativa – una rielaborazione della kantiana «conformità a scopi senza scopo» – interna a ogni operazione determinata. Ma nel corso di questo «ripensamento del cosiddetto “schematismo” kantiano» vengono in primo piano questioni spesso prima trascurate, come quella della corporeità, e viene messa a punto una nozione che mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se non di sfuggita e appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza41, come quella di «aggregato». Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente di uno schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere – in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto – anche il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere e proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una fami- glia o di una classe (che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali), ed è invece costituito «solo percettivamente» da «un insieme di casi effettiva- mente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente»42. Un aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e tal- volta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile in- tellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti 43. Né la funzione dell’aggregato si esaurisce all’interno della prima infan- zia, o nelle ipotesi relative a una “infanzia dell’umanità” o in forme di “pensiero magico”, se, come nota Garroni, [A]ncora oggi, nello stesso pensiero occidentale, non possono es- 41 Alludo alle considerazioni dedicate agli oggetti transizionali di D. W. Winnicot in Senso e paradosso, cit., p. 274. 42 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 11. 43 Ibidem. 284    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   sere evitati paradossi liminari, che denunciano in un certo sen- so la persistenza dell’ufficio, pur intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè dell’unione di due termini diversi e addirittu- ra opposti, in una proposizione unitaria e non più risalibile. Ba- sterebbe pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione tra incondizionato e condizionato, di soprasensibie e sensibile, e insieme del loro richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’he- geliana unità di essere e non-essere, alla questione russelliana di “classe e classe di tutte le classi”, e così via44. 8. Voglio però, in conclusione, mostrare un altro autoritratto di Garroni, molto diverso da quello, verbale, ricordato all’inizio e consegnato, con «acume» e «humour» alla bandella della Macchia gialla, perché credo che nelle pagine di Immagine linguaggio figura si trovi, su un altro regi- stro, una sua importante eco. È un polittico dipinto da Garroni tra il 1983 e il 1984, sulla soglia dei sessant’anni – dopo aver subito una seria operazione chirurgica –, composto da 13 comparti, che formano un quadrato di 115 cm per lato.  Collezione privata 44 Ivi, pp. 12-13.  285   Stefano Velotti   Alcuni comparti rappresentano frammenti del proprio corpo, vis- suti come oggetti estranei e familiari a un tempo. Figurano anche stru- menti di studio e di affezione – dalla Critica del giudizio a Tempo e rac- conto di Ricoeur –, “cose” amate, come il Dissonanzen-Quartett di Mozart (che dà anche il titolo a un suo romanzo-saggio45). Ma questo è solo un primo riconoscimento di figure presenti nel dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione46. Quando dicevo che la passione dominante di Garroni era quella di capire, di comprendere, pensavo anche a questo dipinto, che credo tro- vi una sua ricomprensione filosofica proprio in un passo del suo ultimo libro, nelle riflessioni sul corpo e su “cosa si prova ad essere un homo sapiens”. Un’operazione chirurgica diventa nelle mani di Garroni un’oc- casione per elaborare, anche operativamente e metaoperativamente, e non solo linguisticamente e intellettualmente, l’esperienza fatta o subi- ta, anzi proprio per non subire soltanto l’esperienza comunque subita, ma per esercitare, appunto, quel “dover essere del senso” già articolato verbalmente. Quel che mi interessa è mettere in contatto questa ope- razione pittorica, con un passo che, mi pare, le corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella complementarità tra determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo pensiero. Non è possibile, scri- ve Garroni in alcune notevoli pagine del suo libro47, mirare a cogliere l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo solo attraverso il deter- minato. E poi si pone una possibile obiezione: È vero: momenti di apparente non-riconoscimento e totale in- determinatezza percettiva intervengono in modo tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che non riconosciamo neppure il nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo aggrovigliato. Forse “vedremmo”, per così dire, solo l’indeterminato e ci sfuggirebbe affatto il determinato connesso con il riconoscimento di ogget- ti? Si può rispondere tranquillamente di no. Salvi i casi di pato- logie gravi, quando il mondo può forse divenire solo un magma indecifrabile e viene meno perfino il senso della nostra identità (ma parimenti dovremmo escludere il caso estremo del coma, se non addirittura dell’essere già morti), il riconoscimento non 45 E. Garroni, Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma 1990. 46 Una densa e attenta interpretazione di quest’opera è stata avanzata da A. Olivetti, dice [...]. Primi appunti su un Autoritratto di Emilio Garroni, pubblicato nel catalogo della mostra Emilio Garroni – Un Autoritratto, 4-15 dicembre 2006, Sala Santa Rita dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma. 47 E. Garroni, Immagine linguaggio figura, cit., p. 33. 286    Il senso dell’esperienza: Emilio Garroni e l’estetica come filosofia non speciale   viene meno neanche nel caso di un risveglio depresso e confu- so. Si tratta piuttosto di una sensazione di estraneità degli og- getti e delle nostre stesse parti del corpo percepite come oggetti indipendenti e in qualche modo estranei. E l’idea di estraneità modifica il riconoscimento, non lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro piede presuppone un riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo – è il nostro piede e per questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene depotenziato e in certo senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe esserci estraneo, ma il fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia cosiffatto e ci appartenga. E insomma la sensazione della stranezza delle cose del mondo, esterne e nostre. Il che implica un riconoscimento sgradito, languoroso e stupefatto48. Nelle ultime pagine, poi, il tono sempre controllato di Garroni, tenden- te piuttosto all’ironia e allo humour che allo scoramento, si lascia anda- re anche a parole amare sul nostro presente (sono gli anni del venten- nio berlusconiano, che abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a cambiare i parametri della vita pubblica, «la “mente” dei cittadini»): Ormai si è istituzionalizzato il banale ed espulso ciò che più con- ta, non tanto l’arte, di cui ci importa fino a un certo punto e solo a certe condizioni, ma soprattutto il comportamento civile, le ir- rinunciabili esigenze etiche, l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la “mente” dei cittadini, di cui invece ci importa molto in primissima istanza. E con una specie di apologo politico di trista attualità ho messo termine a questo breve saggio49. La “facoltà dell’immagine” di Emilio Garroni e il suo contributo alla ricerca  contemporanea sulla percezione   , i “contenuti non concettuali”    e l’immaginazione  . 1   L’ultimo libro di  Emilio Garroni,  Immagine Linguaggio Figura  2 , è in parte  una ripresa e un ripensamento di alcuni temi trattati quasi trent’anni prima in  Ricognizione della semiotica  3 . Da una rielaborazione dei problemi abbozzati in questo  volume del 19 77, e grazie a un’assidua  interpretazione e rielaborazione del pensiero kantiano, Garroni arriva a precisare il rapporto tra le due dimensioni irriducibili della sensibilità e  dell’intelletto   in termini di «“facoltà dell’immagine”» 4 , da un lato, e  di linguaggio e concetti, dall’altro. Nonostante  Immagine Linguaggio Figura   nomini fin dal titolo il problema della relazione tra queste due dimensioni correlate ma kantianamente irriducibili  dell’esperienza umana , lo statuto del linguaggio non è qui affrontato nella sua problematicità complessiva  all’interno di tale esperie nza, ma  solo in relazione all’«immagine interna», che deve essere considerata «la premessa e  la garanzia della realtà del significato delle parole del linguaggio» 5 . Naturalmente,  1   Relazione tenuta al convegno di studi “Emilio Garroni: determinazioni e dissonanze”, Chieti,  GARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi  , Roma-Bari, Laterza 2005.  3  I D .,  Ricognizione della semiotica. Tre lezioni  , Roma, Officina 1977.  4  I D .,  Immagine Linguaggio Figura  , cit. p. ix, dove Garroni precisa: «Chiamerò complessivamente  ‘immagine interna’ sia il precedente di un’immagine (sensazione), sia l’immagine in quanto  attualmente prodotta (pe rcezione), sia l’immagine in quanto riprodotta o ricordata -rielaborata  (immaginazione), per distinguerle complessivamente dalla ‘figura’ esteriorizzata, per esempio, mediante un disegno. […] Perciò […] mi capiterà di chiamare la facoltà che ne è responsabi le  ‘facoltà dell’immagine’, tale da riunire in sé sensazione, percezione, immaginazione».   5  I D .,  Immagine Linguaggio Figura  , cit. p. 57non bisogna cadere nell’errore di considerare le «immagini interne» come «fig  ure», (  Bilder  ,  pictures   ) che avremmo nella mente. Garroni conosce bene la critica   wittgensteiniana a quest’idea tradizionale e insostenibile. Anzi, si potrebbe considerare la teoria dell’«immagine interna» come una lunga  e meditata replica a chi confonde la critica di Wittgenstein con un rifiuto di attribuire ogni valore cognitivo o semantico alla nostra attività percettivo-immaginativa, per attenersi al solo linguaggio. Per integrare quanto è implicito nel libro a questo riguardo, credo sia oppor tuno tenere presente l’articolo che Garroni ha  dedicato a   Minisemantica  di  Tullio De Mauro 6  nel 1998, caratteristicamente intitolato  L’indeterminatezza semantica,  una questione liminare  7 . Sia sul versante della percezione e dell’immagine, sia su quello  del linguaggio e dei concetti, troviamo infatti  in quest’articolo  quella correlazione di determinato e indeterminato che è forse il nodo teorico che Garroni ha pensato più a fondo e nelle sue molteplici articolazioni: il «paradosso fondante» della filosofia, ma a nche dell’esperienza comune  - di cui Garroni parla prima nella voce i  Paradossi  dell’esperienza   scritta per  l’Enciclopedia Einaudi  , e poi in  Senso e paradosso 8   - non è altro  che un’a ntinomia inevitabile, modellata  sull’antinomia della facoltà di giudiz io della terza  Critica   kantiana. La relazione paradossale tra determinatezza e indeterminatezza è  al centro sia della trattazione della facoltà dell’immagine, sia  della facoltà del linguaggio. Qui vorrei, per un verso, mostrare quale aspetto abbiano assunto  nell’ultimo libro certi problemi già impostati in  Ricognizione della semiotica     –   creando  6  MAURO ,   Minisemantica  , Roma-Bari, Laterza 1982.  7  E MILIO  G  ARRONI ,  L’indeterminatezza semantica, una  questione liminare  , in A  A .V   V  .,   Ai limiti del linguaggio , a cura di LEONI ,  GAMBARARA ,   GENSINI ,   PIPARO ,   R   AFFAELE  S IMONE , Roma-Bari, Laterza 1998, poi in E MILIO  G  ARRONI ,  L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e   di critica  , Roma-Bari, Laterza 2003, pp. 89-115, da cui cito.  8  E MILIO  G  ARRONI ,  I paradossi dell’esperienza   ,  in A  A .V   V  .,   Enciclopedia Einaudi  , vol. XV,  Sistematica  , Einaudi, Torino 1982,  pp. 867-915 ;  I D .,  Senso e paradosso. L’estetica, una filosofia non  speciale  , Roma-Bari, Laterza 1986così un asse verticale, o di profondità temporale, all’interno de lla ricerca stessa di Garroni; per altro verso, però, vorrei tentare qualche rapido confronto tra alcuni temi fondamentali affrontati in  Immagine Linguaggio Figura   e la filosofia contemporanea, soprattutto di area analitica, con qualche riferimento anche all ’ambito  della psicologia cognitiva e discipline affini. Con il corrodersi della  “ filosofia linguistica ” , infatti, - o, se si vuole , con l’apertura della  linguistic turn   al non linguistico   –    quest’area di ricerca emersa negli ultimi 40 -50 anni ha permesso di riscoprire il problema della perc ezione e dell’immaginazione, creando  ambiti disciplinari anche molto specialistici su questioni strettamente interconnesse: dal problema della natura della  mental imagery  9   a quello dei cosiddetti “contenuti non concettuali”  della percezione (in cui un ruolo di rilievo assume anche la percezione e la cognizione degli animali non umani, da sempre tenuta presente da Garroni); da quello della natura delle rappresentazioni mentali a quello delle numerose prestazioni assegnate oggi in ambito analitico e cognitivistico  all’immaginazione.   A  lungo considerata in area analitica come una “facoltà” nebulosa, indeterminata e quindi sospetta, da qualche anno a questa parte l’immaginazione è al centro di  molte aree di ricerca: se ne parla i n relazione ai “giochi di far finta” (   games of make believe   ) 10    –    sia nel campo delle arti che in quello più generale dell’esperienza comune  9   Cfr. l’ampio  contributo di NIGEL   J.T.    THOMAS ,   Mental Imagery  , in  The Stanford Encyclopedia of Philosophy  , (Winter 2011 edition), a cura di ZALTA , URL = http://plato.stanford.edu/archives/win2011/entries/mental-imagery/. Si tratta di un buon contributo, ma è sintomatico che proprio allo schematismo kantiano Thomas dedichi uno spazio molto ridotto, e limitato alla schematismo trascen dentale dell’intelletto della prima  Critica  :  aggrappandosi alla famosa asserzione kantiana secondo cui lo schematismo è «un’arte nascosta nella profondità dell’anima umana, il cui vero impiego difficilmente saremo in grado di strappare  alla natura per esibirlo patentemente dinanzi agli occhi» (B181), Thomas mette da parte il problema concludendo che Kant, «in attempting to grapple with problems about the nature of mental representation that the Empiricists had failed to solve, left the process of image formation, and the nature of image itself, deeply misterious» (ivi, p. 14).  10  Cfr. WALTON ,   Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of Representational Arts  , Cambridge (MA), Harvard University Press 1990 (trad. it. di NANI ,   Mimesi come far finta  , Milano, Mimesis 2011- , alle ricerche sull’autismo (considerato da alcuni come una “patologia dell’immaginazione”), a quelle sull’empatia  e sulla simulazione, ai cosiddetti  “paradossi della ‘finzione”, della “suspense” o della “resistenza immaginativa” , e ai tentativi, o alle rinunce, di fornire una nozione unitaria di immaginazione che ne comprenda le varie declinazioni: u n’immaginazione pr oposizionale e non proposizionale, una  “ricostruttiva”  e una  “creativa” , e così via 11 .  Immagine Linguaggio Figura   è stato scritto senza note e senza riferimenti espliciti ad altri autori o ad altre ricerche contemporanee. Ma  è tutt’altro che un  libro estemporaneo o isolato. Anzi, Garroni lo ha potuto scrivere liberamente,  quasi “di getto”, solo perché erano almeno trent’anni che andava elaborando quei  pensieri.   Abituati ormai a pensare, come è d’uso nella filosofia analitica,  sotto  l’ombrello di etichette generalizzanti, che identificano certi assunti teorici di fondo  nei confronti dei quali occorrerebbe definirsi   –   nel caso della  mental imagery  , per esempio, il primo discrimine che troviamo è quello  fotografato dall’annoso e  fuorviante dibattito tra sostenitori delle  teorie “analogiche”  e delle teorie  “proposizionali”  -, la riflessione di Garroni sembra condotta in isolamento, e risulta  difficile da collocare sotto un’etichetta  univoca. Mentre non credo che le etichette servano davvero, in quanto tali, a far progredire la comprensione dei problemi, credo invece che un confronto sostanziale tra le proposte di Garroni e quelle elaborate in ambito anglosassone sarebbe molto proficuo per entrambi gli schieramenti. In ogni modo, se proprio volessimo collocare le posizioni di Garroni in quel dibattito   –   che nel bene e nel male è sempre più ristretto, specialistico, talvolta accecato dai propri tecnicismi, ma altre volte utile a chiarire i problemi in gioco e a suggerire soluzioni che lì, magari, non sono contemplate -, potremmo  orientarci verso l’ambito delle teorie “enattive” (  enactive   ) della percezione e delle  11   Per il nuovo interesse suscitato dall’immaginazione in ambito anglosassone negli ultimi decenni,  e le relative indicazioni bibliografiche, rimando a VELOTTI ,  La filosofia e le arti. Sentire,  pensare, immaginare  , Roma-Bari, Laterza 2012, in particolare il cap. 3immagini mentali, che costituiscono una “terza via” –   non computazionale -  rispetto a quelle “analogiche” e  a  quelle “proposizionali”.  Come che stiano le cose rispetto a questi orientamenti, il confronto approfondito e sostanziale tra le riflessioni di Garroni e le teorie della percezione,  delle immagini mentali, dell’immaginazione –   nel loro ruolo in ambito cognitivo, semantico, estetico, artistico   –   è un lavoro ancora da fare. Qui offrirò qualche spunto in relazione al problema dei cosiddetti  “contenuti non concettuali” della percezione, cominciando però dallo sviluppo  interno al pensiero di Garroni stesso, e in particolare d all’insoddisfazione per  la  semiotica denunciata nel ’77 . Alla domanda se «la semiotica [sia] sufficiente a se stessa», Garroni rispondeva di no, perché la semiotica non poteva indagare «il problema delle condizioni» grazie a cui «un qualcosa diviene segno» 12 . Lì Garroni invocava la costruzione di una «semantica trascendentale» come metateoria di una «semantica empirica» e di una «semantica logica», e indicava il suo «oggetto  specifico» nei «significati trascendentali», cioè negli «“schemi dell’immaginazione” , affrontati in sede di schematismo trascendentale nella  Kritik der reinen Vernunft  » 13 .  Garroni, d’altra parte, già avvertiva –    avendo pubblicato l’anno prima   Estetica ed epistemologia  14    –    l’insufficienza dello schematismo trascendentale della prima  Critica  ,  valido solo per (le condizioni de)la conoscenza in genere (  überhaupt   ), ma non per comprendere la conoscenza effettiva o determinata, e rimandava al «  principio trascendentale soggettivo, creativo e costruttivo » 15  indagato da Kant nella terza  Critica.  Nella Premessa a  Immagine Linguaggio Figura    si dice che l’enigma dell’immagine interna, il  12  GARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 33.  13  GARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 37.  14  E MILIO  G  ARRONI ,   Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla  Critica del Giudizio  di Kant  , Roma, Bulzoni 1976, nuova ed. con una nuova Premessa, Milano, Unicopli 1998.  15  GARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 38, c.vo nell’originale.vero e proprio tema centrale del libro, ha preso forma attraverso « l’assiduo  ripensamento del co siddetto ‘schematismo’ kantiano» 16 . Dunque, una continuità  con l’opera del ’77, ma certamente anche un’importante discontinuità: lo schematismo trascendentale, quello dei concetti puri dell’intelletto, passa decisamente in secondo piano nell’ultimo libro, mentre a venire in primo piano  sono lo schematismo empirico - quello cioè che permette di pensare la costruzione dei concetti empirici a partire dalla percezione, che Kant nella terza  Critica   chiama «esempio» - e lo schematismo «simbolico»   –   quello che funziona per analogia, in relazione a concetti non propriamente esibibili e che è responsabile non solo delle  cosiddette opere d’arte bella, ma anche del funzionamento del nostro lin guaggio 17 . Naturalmente, questi diversi schematismi, pensabili grazie alla distinzione - disponibile solo a partire dalla terza  Critica     –   tra uno schematismo «oggettivo» e un «libero schematismo», si intrecciano sempre nella produzione effettiva di enunciati e figure significanti, ma devono essere distinti a livello analitico. Già nella  Ricognizione della semiotica   Garroni metteva in chiaro come lo schematismo kantiano costituisse il superamento di ogni concezione ingenuamente referenzialistica del linguaggio. Lì si indicava una direzione di ricerca che poi si preciserà nel tempo. Si diceva:  Il ‘referente’ non è la cosa s tessa, ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle e  configurarle come il correlato implicito del linguaggio; l’ ‘operazione’ a sua volta è questo stesso  concreto manipolare, che non può essere disgiunto peraltro dal nostro rappresentarci le cose e le  nostre manipolazioni delle cose, cioè dal nostro ‘prendere le distanze’ dagli stimoli immediati, e  che suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e parlarne 18 .  16  GARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit., p. ix.  17  Cfr. KANT ,  Critica della facoltà di giudizio , ed. it. a cura di E MILIO  G  ARRONI  e H  ANSMICHAEL  H OHENEGGER  , Torino, Einaudi 1999, in particolare §49 e §59,  e l’ introduzione dei curatori. Sull’analogia in Kant v. CAPOZZI ,  Le inferenze del giudizio riflettente in Kant:  l’induzione e l’analogia  , “Studi kantiani”, XXIV (2011), pp. 11 -48.  18  G  ARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 69.È evidente, mi pare, che «l’operazione»  di cui si parla include anche la nostra nativa attività percettiva che verrà poi indagata attraverso il problema della costituzione, della natura e della funzione delle «immagini interne». Distinte dalle «figure» (che non possono essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni delle immagini interne), le immagini interne sono innanzitutto dinamiche, sono cioè ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti,  o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da  escludere quindi ogni obiezione legata alla presupposizione indebita e circolare di un  homunculus    che sarebbe a sua volta spettatore di “figure nella testa”. Figure nella  testa non ce ne sono. È invece questa operazione percettiva, dinamica e attiva, che impedisce ogn i regresso all’infinito, anche se naturalmente non pretende di dare  una  spiegazione  , in termini oggettivi, di come ciò avvenga. Un ruolo decisivo gioca qui   la nozione di  metaoperatività  introdotta in  Ricognizione della semiotica  19   e poi ripresa, anche terminologicamente, in tutta la sua  importanza, solo trent’anni  anni dopo. È interessante come, anche in questo caso, Garroni anticipasse uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il t itolo di “metarappresentazioni” 20 , ma che in Garroni si es tende già all’intero ambito dell’operare umano  (un operare che è pragmatico e corporeo, percettivo, cognitivo). In analogia e in correlazione con la funzione metalinguistica   –   che per Garroni è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione che può essere solo interna al linguaggio di primo livello   –   Garroni introduce la nozione di metaoperatività come interna a qualsiasi o perazione umana. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del  19   G  ARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 70 sgg.   20  Cfr. A A .V V.,    Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspectiv  e, a cura di SPERBER  ,   Oxford 2000genere stimolo- risposta da un’operazione che include  già dentro di sé una generalizzazione. P iantare un chiodo con un martello è sì un’operazione  determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma   –   come operazione umana   –   contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili (qualcosa, dunque, ch e potrebbe essere chiamato uno “schema operativo”  ):  “ piantare questo ch iodo”, per l’uomo, suppone “piantare i chiodi in generale” , cioè un comportamento operativo   –   metaoperativo rispetto a quello   –   volto alla fabbricazione di strumenti e alla determinazion e di variabili operative; e il “piantare chiodi in generale”  suppone ul teriormente l’“ operare in generale in vista d i possibili variabili operative” , cioè un comportamento specificamente metaoperativo. 21   Persino l’operare per prova ed errore –   tipico del comportamento animale non umano -  suppone nell’uomo un piano, una consapevolezza di operare  per prova ed errore. S appiamo che proprio l’attività artistica è considerata da Garroni come l’esemplificarsi di questa dimensione metaoperativa, e che questa dimensione  metaoperativa non è altro che una riformulazione della kantiana «conformità a scopi senza scopo». La terza parte di  Ricognizione della semiotica   è tutta incentrata sui cosiddetti linguaggi artistici, che linguaggi propriamente non sono, non solo in  quanto privi di un codice, ma in quanto strettamente condizionati da un’operatività  e da una metaoperatività irriducibili a linguaggio. Tutte le arti di cui Garroni lì parla brevemente   –    dall’architettura alla musica, dalla poesia alla narrativa alla pittura –   sono indagate a partire dal modo in cui in esse prende corpo questa nostra capacità metaoperativa, di per sé inosservabile, ma rilevabile in indici empirici in tutti i  prodotti umani, e in modo esemplare nelle opere d’arte. La stessa nozione di “ stile ”   viene riletta alla luce del manifestarsi concreto di indici metaoperativi. In estrema sintesi, questa capacità metaoperativa viene caratterizzata come una condizione  21  GARRONI ,  Ricognizione  , cit., p. 94nozioni diverse, quali gli oggetti che Winnicott ha chiamato «transizionali» 27 , di quelli che Michael Dummett ha chiamato «proto-pensieri» 28 , che sono analoghi poi a quelli che alcuni studiosi   –   a partire da Gareth Evans 29    –    chiamano “contenuti non concettuali” della percezione (c ontraddicendo, dunque,  l’idea  fatta valere da Maurizio Ferraris secondo cui la tradizione kantiana avrebbe  decretato l’equivalenza tra epistemologia e ontologia, cioè l’assimilazione di tutt o il  reale, di quel che c’è, a quel che possiamo conoscerne grazie ai nostri “schemi concettuali” , gettando così le premesse del radicale prospettivismo e costruzionismo  nietszscheano secondo cui “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, e di qui del p ostmoderno, del neopragmatismo alla Rorty, del decostruzionismo secondo cui niente è fuori dal testo, e così via) 30 .  affidata a un principio estet ico che esprime un’originaria adesione del soggetto all’esperienza, e insieme un’anticipazione distanziante di questa».   27  Già in  Senso e paradosso , cit. p. 274, GARRONI  si era riferito in un altro contesto agli oggetti transizionali di Winnicott («mediatori tra il narcisismo infantile, o primario, e le relazioni  oggettuali», obbedienti a «“quel principio di confusività” […] che violerebbe appunto “il principio aristotelico di non contraddizione”») accostandoli da un lato all’ Unheimliches    freudiano e, dall’altro, alla paradossale unità di determinato e indeterminato che ha nell’opera d’arte e nell’esperienza estetica una sua manifetsazione esemplare: «Non c’è esperienza ben determinata, apparentem ente solo ovvia, che non presupponga una condizione di transizionalità o, insomma, un paradosso-senso. E certi tipici oggetti transizionali non sono che concretizzazioni di un paradosso-senso.  Qui si legittima […] anche la creatività […] che viene esemplar mente e più tipicamente esibita  oggi, per noi e dal punto di vista di una riflessione estetica, da ciò che chiamiamo “arte” ed “esperienza estetica”» DUMMET ,   Origins of Analytical Philosophy  , Cambridge, Harvard University Press 1994, ed. it. a cura di PICARDI ,  Origini della filosofia analitica  , Torino, Einaudi   2001, cap. XII: «Il   proto-pensiero si distingue dal pensiero vero e proprio che è esercitato dagli esseri umani per i quali il linguaggio ne è il veicolo per il fatto di non essere separabile dalle attività e circostanze  presenti. […] non possiamo dare una spiegazione soddisfacente della nostra capacità di base di  apprendimento e di orientamento nel mondo trascurando il livello dei proto-pensieri» (ivi, pp. 138-139).  29  EVANS ,  The Varietis of Reference  , Oxford University Press, Oxford 1982.  30  Di FERRARIS , tra i tanti testi e articoli in cui sostiene questa tesi, si veda da ultimo il   Manifesto del nuovo realismo , Roma-Bari, Laterza 2012. Per una discussione più articolata di questadel l’esperienza che funziona come « unità costruttiva di un insieme di determinazioni linguistiche e operative», in dichiarata corrispondenza a « quell’unità  estetica delle rappresentazioni di cui si occupa Kant nella  Kritik der Urteilskraft  » 22 .   A questo punto abbandono il libro del ’77 per vedere come queste  problematiche vengano riformulate e rielaborate, in modo più adeguato, nel libro del 2005. Il nuovo strumento teorico che Garroni ha messo a punto, al di là del riferimento al principio di una «conformità a scopi senza scopo» quale senso e sentimento comune (il  Gemeinsinn   kantiano), è la nozione di «immagine interna», proprio a partire da una rielaborazione del libero schematismo della terza  Critica.  Qui la nostra capacità metaoperativa resta una nozione importante, ed è esplicitamente richiamata nel testo 23 , ma viene reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che Garroni chiama complessivamente «facoltà  dell’immagine» , che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di  un’immagine), sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in  quanto riprodotte o ricordate- rielaborate). Quella che nel ’ 77 veniva chiamata per lo più «operazione» è qui inn anzitutto l’attività di questa «facoltà dell’immagine» , dal livello senso-motorio e non ancora associato effettivamente al linguaggio e ai concetti, fino al suo pieno intrecciarsi con linguaggio e concetti, ma pur sempre  all’interno di una non riducibilità dell’una dimensione all’altra. Sensazione,  percezione e immaginazione sono tutte «immagini interne» costitutivamente  dinamiche, non fissabili in un’ icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non  sensibile, dunque distinte dall’immagine -segno materialmente intesa, che Garroni chiama «figura», e che è invece sostanzialmente statica.  22  G  ARRONI ,   Ricognizione  , GARRONI ,   Immagine Linguaggio Figura  , cit., p. 18 sggUna delle nozioni di maggior interesse che emerge subito   –   assente, direi, negli scritti precedenti   –   è quella di «aggregato». Si tratta di qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere   –   in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto   –   il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, e di classi. Un aggregato è ciò che offre una prima possibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe (che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali). Un aggregato è invece costituito «solo percettivamente» e costituisce «un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente» 24 . Un aggregato può essere costituito  da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma  solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile  intellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amat e, preoccupanti, esaltanti” 25 .  Mi sembra di poter dire che Garroni stia cercando di dar conto, con una  rielaborazione di quella che Kant avrebbe chiamato una “sintesi dell’apprensione” 26 ,  ancora priva di un’unità conc ettuale, della comune radice di  24  GARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit., p. 11  25  Ibidem.  26  Ma G  ARRONI  segnala una revisione  tendenziale dell’estetica trascendentale kantiana a un livello  molto più radicale e produttivo, già da  Senso e paradosso , (cit., p. 226): «Con la riflessione estetica della  Critica del Giudizio , il problema dell’immaginazione viene in primo piano: nasce u n nuovo schematismo   –   lo schematismo libero, senza concetti,   dell’immaginazione     –   come capacità originaria di organizzazione delle percezioni. Di conseguenza tende a ridimensionarsi notevolmente la primitiva   Estetica trascendentale  , nonché la stessa  Logica trascendentale  , della  Critica della ragion pura  . Per esempio, che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello spazio e del tempo non è che  un  aspetto, forse non il più originario appunto, della questione dell’intuizione e della sua  elab orazione nell’immaginazione (non più soltanto ‘produttiva’ e ‘riproduttiva’, ma anche ‘creatrice’), non esauribile in termini di ‘forme’ spazio - temporali rispetto a una ‘materia’ sensibile. Il centro della questione, di fronte a quell’aspetto, è ora la lor o interna capacità organizzativa Quanto alla relazione tra «aggregato» e «oggetto transizionale», mi sembra che uno degli esempi portati in  Immagine Linguaggio Figura   non lasci adito ad alcun dubbio. Nella primissima infanzia, scrive Garroni, «prima che il linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione di  un’intelligenza prev  alentemente senso-motoria», si può ipotizzare che si producano,  nel la manipolazione degli oggetti, […] riconoscimenti, usi e aggregati di oggetti in essi variamenti  disposti. Un burattino può essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo come un   vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una cope rtina o un lenzuolino possono  essere riconosciuti come oggetti d’uso, adatti per coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero  della madre, il suo abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo esterno non ancora propriamente conosciuto  e dominato; e così via. In questi casi l’aggregato è lontanissimo  dalla formazione di una futura tassonomia intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi se non fosse preceduta da quello. 31   Se queste forme prelinguistiche di aggregazione e riconoscimento sono  però contrassegnate da una vocazione al linguaggio e all’organizzazione  concettuale, ci si può chiedere se siano pensabili anche senza questa teleologia  evolutiva e se non siano per caso da pensare come l’analogo più prossim o, con le opportune specificazioni, delle rappresentazioni che dobbiamo attribuire ad alcune specie di animali non-umani. A questi, infatti, Garroni riconosce non una vera «percezione interpretante»   –   come quella umana -, ma neppure si sente di relegarli in un «ambiente» nettamente distinto da un «mondo» 32    –   come avevano fatto Scheler e Heidegger sulle orme di von Uexküll. Forse la distinzione vale per  l’ambiente sensoriale della zecca, ma sarebbe diff  icile dire la stessa cosa di un cane o delle grandi scimmie.  tesi rispetto a Kant, rimando a VELOTTI ,  Storia filosofica dell’ignoranza  , Roma-Bari, Laterza 2003, in particolare i capp. 3, 4 e 7.  31  G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit., pp. 12-13.  32  GARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit., p. 44Un mondo, senza darne qui un’impossibile definizione e accettando della parola solo l’indicazione di un senso complessivo della vita e delle cose che la avvolgono, è attribuibile anche  agli animali non-umani. Solo che sembra presentarsi non come mondo in immagine, ma come comportamento, in cui la sensazione, visiva o non visiva, svolge una funzione segnaletica e non formativa, essenziale, ma non caratterizzante propriamente una co siddetta “immagine del mondo”. 33   Mi sono soffermato brevemente sul tema della percezione infantile e degli animali non-umani perché è diventato  forse l’argomento più forte  portato dai sostenitori dei contenuti non concettuali della percezione 34 . Questo confronto tra le  posizioni di Garroni e quelle dei sostenitori dei “contenuti non concettuali” (un’espressione che Garroni non usa mai)  richiederebbe uno studio specifico, come anche la relazione  tra l’ «aggregato» e i «proto -pensieri» di Dummett, una nozione elaborata proprio per dar conto di rappresentazioni che non sono dipendenti dal linguaggio, proprie sia dunque degli infanti, sia degli animali non-umani (anche se credo che sia necessario, anche per Dummett, distinguere tra proto-pensieri suscett ibili di diventare pensieri, o “vocati’  a diventarlo, e quelli che non lo sono). Se menziono i possibili punti di convergenza della riflessione di Garroni sulla irriducibilità della percezione al linguaggio con quella di alcuni filosofi di tradizione analitica e psicologi cognitivi, non è per mostrare che il pensiero di Garroni sta al passo con i tempi, o li ha precorsi, cosa che sarebbe di pochissimo interesse. Il fatto è che Garroni mette in luce   –   spesso senza portare fino in fondo i  dettagli dell’analisi –   aspetti, implicazioni e dimensioni del problema che potrebbero essere molto fecondi se messi a contatto con la ricerca contemporanea propria di quelle diverse tradizioni. Vorrei sottolineare che non si tratta solo di un generico auspicio di integrazione di prospettive diverse, ma di confronti concreti  33  G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit., p. 44-5.  34  Non solo in E  VANS , cit., ma soprattutto, tra gli altri, in PEACOCKE, Does perception have a nonconceptual content?  , in “Journal of Philosophy”, 98 (2001), p p. 239-264 e I D .,  Phenomenology and nonconceptual content  , in “Philosophy and Phenomenological Research”, e già anche in F REDERICK   D RETSKE ,    Naturalizing the Mind  , Cambridge (MA), MIT Press 1995che potrebbero portare a risultati sorprendenti forse anche in termini di nuove acquisizioni conoscitive. Farò due esempi: il primo, già accennato, riguarda proprio  i contenuti non concettuali. Il secondo riguarda invece l’indeterminatezza delle  immagini mentali  A. È indubbio che le principali ragioni che hanno portato la filosofia della  linguistic turn   a occuparsi di fenomeni non linguistici, e in particolare di contenuti percettivi non concettuali, è legata a una serie di ragioni che trovano corrispondenze abbastanza puntuali in Garroni. E tuttavia, nonostante la loro raffinatezza, spesso queste analisi sono incapaci di vedere aspetti della questione che una riflessione filosofica come quella di Garroni aiuta a scorgere. Le ragioni che hanno dato il via al dibattito sui contenuti non concettuali sono svariate: 1. La possibilità, riconosciuta da Garroni con la nozione di «aggregato», di rappresentare nella percezione stati di cose contraddittori o impossibili da un punto di vista proposizionale e concettuale:  l’esempio che si fa di s olito sono le figure di Escher, o la « l’illusione della casca ta» di Tim Crane 35 ,  ma l’aggregato di  Garroni, come abbiamo visto rapidamente, coglie questa possibilità percettiva  innanzitutto al livello dell’immagine interna, e nella sua  necessità     –   non solo come fatto accidentale ed episodico, o artatamente escogitato e realizzato in una figura 36 . 2. Un secondo argomento è stato proposto da Peacocke, il quale ha sostenuto che il contenuto della percezione è « unit-free  » 37 : percepisco una distanza  35  T IM  C RANE ,  The Waterfall Illusion  , in “Analysis”, 48  (1988), pp. 142-147.  36  Cfr. il capitolo 8 di  Immagine Linguaggio Figura  , in cui GARRONI  analizza la differenza tra la interpretabilità plurima di alcune   figure  , e il «ruolo primario nei riguardi della varia interpretabilità del percepibile» giocato dalla «indeterminatezza percettiva» propria delle  immagini interne   in relazione al mondo reale.   PEACOCKE ,   Analogue content  , in “Proceedings of the Aristotelian Society”, determinata tra me e un oggetto senza per questo dover  usare un’unità di misura. E  queste rappresentazioni sono irriducibilmente non-concettuali. Garroni, di nuovo appoggiandosi   –   qui implicitamente - a Kant 38 , usa  un’ argomentazione analoga per mostrare come la percezione ci appaia legittimamente come soggettiva e oggettiva a un tempo, senza che ci sia nulla di contraddittorio o ossimorico, in quanto la percezione «fornisce valori oggettivi delle cose, per esempio quantitativi, tali da poter essere   poi   esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad evidenza delle cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori  oggettivi   è  nostro  [e questo avvertimento è non concettuale: nota mia] e, tanto più, la  nostra misurazione   non sta  nelle cose  , ma dipende  da un’unità di misura da noi stabilita    idonea per l’esplicitazione  [concettuale] di quei rapporti» 39 . L’avvertimento dei valori quantitativi privo di un’unità di misura è dunque la condizione, non concettuale (estetica, direbbe  Garroni con Kant) di ogni misurazione oggettiva e concettuale. 3. Un terzo argomento, avanzato da Gareth Evans e poi ripreso da molti, è la maggiore «finezza di grana» della percezione rispetto alla  “ grana ”  dei contenuti degli atteggiamenti proposizionali. Qui è facile riferirsi di nuovo a Garroni nella sua rielaborazione del pensiero kantiano, ma non tanto in relazione agli aggregati, quanto al libero schematismo e a quelle che Kant chiamava «idee estetiche» (una modalità esemplare di «immagine interna», che Kant stesso designa come «intuizione interna»: « dal punto di vista estetico l’immaginazione è libera, al fine di fornire, ma in modo non ricercato […] una copiosa e inesplicita materia [  Stoff   ]  all’intelletto, che questo,  nel suo concetto, non prendeva in considerazione  » 40  ) . E l’analisi,  centralissima, che Garroni dedica al libero schematismo, non si limita a un riferimento alle ope re d’arte (che sono, per Kant, « espressioni  di idee estetiche»), ma  38  V. KANT  ,   Critica della facoltà di giudizio , cit. § 25.  39  GARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit. p. 6.  40   KANT  ,   Critica della facoltà di giudizio , cit., § 49, c.vo mio si allarga alla stessa costruzione di schemi per concetti empirici. Garroni precisa infatti che  lo stesso schema [lo schema empirico, l’immagine -schema o, nel linguaggio della terza  Critica    kantiana, l’  «esempio»  ] è possibile dentro il quadro del rapporto dell’intera immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di certi tratti caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici  percepibili di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non sullo sfondo di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no, percepibili o no, c onfusi nell’indet erminatezza della totalità 41 .  Non si tratta, è vero, di una percezione non relazionata ai concetti (dato  il rapporto dell’immaginazione con l’intelletto) , ma è anche vero che qui nessun concetto determinato può corrispondere ai tratti caratteristici percepiti, e anzi un concetto empirico può formarsi solo su progressive selezioni a partire da una totalità indeterminata di tratti non già linguisticamente o concettualmente  classificati. Nella prospettiva di Garroni, la maggiore “finezza di grana” della  percezione verrebbe vista in un quadro più ampio di quello analitico e cognitivista,  che ha conseguenze antropologiche, semantiche, di teoria dell’arte, mentre  probabilmente potrebbe guadagnare a sua volta in precisione e articolazione da un confronto serrato con il dibattito analitico. 4. Un quarto argomento strettamente collegato al precedente è stato di nuovo messo in evidenza da Peacocke e da Michael Ayers 42 , e riguarda la possibilità di acquisire e apprendere concetti empirici. Se non si dessero contenuti non concettuali, o il nostro ragionamento sarebbe circolare (coglieremmo già concettualmente contenuti percettivi di cui invece, per ipotesi, dobbiamo costruire i concetti), oppure dovremmo supporre un innatismo fortissimo e insostenibile. La  41   GARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit. p. 98.   42 C HRISTOPHER  P EACOCKE ,   A Study of Concepts  , Cambridge (MA), MIT Press 1992, e I D .,   Does   perception… , cit.;AYERS ,   Sense experience, concepts, and content   –   objections to Davidson and  McDowell  , in R.   S CHUMACHER  , a cura di,  Perception and Reality: From Descartes to the Present  , Paderborn, Mentis 2004, pp. 239-262ripresa da parte di Garroni delle considerazioni svolte da Umberto Eco nel suo  Kant e l’ornitorinco  (che a sua volta si riferiva a Garroni) fornisce un modello per la formazione dei concetti empirici proprio a partire dai contenuti non concettuali, in forma di aggregati, che permette un riconoscimento percettivo anteriore alla costituzione di uno schema empirico, correlato a un nome comune 43 . B. Veniamo al secondo esempio. Discutendo di immagini mentali, alcuni autori di provenienza analitica hanno sostenuto che una delle caratteristiche che le differenzia dalle figure (   pictures   ) è la loro indeterminatezza. Sembrerebbe, questo, un tratto che li avvicina alla tesi di Garroni sul reciproco correlarsi di determinatezza e indeterminatezza. Ma non è così. Lo scopo di chi usa questa argomentazione 44  è quello di sostenere che le immagini mentali, essendo indeterminate, sono più simili  a descrizioni che a figure. L’argomento di Dennett è abbastanza noto, e rig  uarda il numero delle strisce del manto di una tigre:  in un’immagine mentale il numero delle  strisce di una tigre può essere indeterminato, mentre in una figura le strisce devono essere numerabili, e dunque determinate. In una descrizione, il numero delle strisce  può essere indeterminato (“questa tigre ha numerose strisce sul manto”), dunque le immagini mentali sono più vicine alle descrizioni che alle figure. Un’autorità sulla  mental imagery   come Thomas   –   insieme a molti altri - sostiene che questo argomento  non è valido, perché un’immagine mentale di una tig  re potrebbe avere un numero determinato di strisce, solo che uno potrebbe non fare in tempo a contarle perché  l’immagine mentale svanisce velocemente dalla coscienza. Inoltre, anche una figura  di una tigre potrebbe rendere impossibile contarle, in quanto sfocata o sommaria, e  43   G  ARRONI ,  Immagine Linguaggio Figura  , cit. p. 58, sgg.   44  Tra gli altri D  ANIEL  D ENNETT ,  Content and Consciousness  , London, Routledge & Kegan Paul 1969, pp. 135-7; PYLYSHIN ,  What the mind’s eye tells the mind’s brain: A critique of mental  imagery  , “Psychological Bullettin”, 80 (1973), pp. 1 -25; tra i critici di questa argomentazione, M ICHAEL   T  YE ,  The Imagery Debate  , Cambridge (MA), MIT Press 1991anche una tigre reale   –   presente alla percezione attuale e non immaginata -, data la natura frammentaria, confusa e sfuggente delle sue strisce, porrebbe molti dubbi quanto al loro numero 45 . A me sembra evidente come Dennett e gli altri autori abbiano colto solo di sfuggita un carattere delle immagini mentali o interne e ne abbiano tratto una conclusione affrettata. E come le contro-argomentazioni di  Thomas (insieme a quelle di molti altri) si mantengano sullo stesso livello, senza prendere neppure in considerazione la relazione, ben altrimenti pregnante e ricca di conseguenze, colta da Garroni tra determinatezza e indeterminatezza delle  immagini    interne   e il loro rapporto con le   figure  . L’indeterminatezza dell’immagine interna –   così come viene pensata da Garroni - non è una figura sfocata o mancante di alcuni particolari, o addirittura una figura che sarebbe determinabile se solo avessimo il tempo di esaminarla nella nostra mente. La correlazione essenziale tra determinatezza e indeterminatezza che la caratterizza è condizionata dal fatto che è  un’immagine dinamica e multimodale (visiva, olfattiva, tattile, uditiva, mnemonica,  affettiva, viscerale, e così via) e dunque non è in nessun modo una figura, neppure una figura sfocata o sbiadita o evanescente . È piuttosto un’operazione nativa e  attiva, che, nel caso della percezione visiva, è non solo filtrata dalla gamma limitata di raggi luminosi a cui è sensibile il nostro occhio, ma è resa possibile dai  movimenti saccadici e di altro genere dell’occhio, senza di cui non ci sarebbe neppure un’immagine retinica. E quest’immagine retinica è a sua volta attivamente  e selettivamente rielaborata dalla nostra «percezione interpretante» sullo sfondo di un contesto   –   oggettivo e soggettivo - che si allarga da quello visibile a quello non  visibile, fino ad estendersi alle altre caratteristiche non presenti (associazioni con altri oggetti e memorie percettive). I l problema dell’indeterminatezza condizionante dell’immagine  interna non è tanto se possiamo contare o meno certi suoi elementi, quanto quello di darne un resoconto teorico adeguato, che, per esempio, non si  45  T HOMAS ,   Mental Imagery  , cit., nota 31illuda di poterla considerare  come l’imma gine interna di un oggetto già definito e isolato dagli altri oggetti, dal mondo soggettivo e oggettivo e dal sentimento della  totalità dell’esperienza in cui siamo avvolti. Si possono anche costruire modellini  della percezione più semplici, avendo in vista la costruzione di macchine per il riconoscimento automatico di certe caratteristiche oggettuali nel mondo, ma senza illudersi che quei modellini riproducano effettivamente la percezione umana. Per concludere, vorrei citare per esteso quel che scriveva Garroni nel già citato articolo sulla indeterminatezza semantica a proposito del senso stesso di una riflessione filosofica. Credo che quel che diceva allora a proposito del linguaggio e dei linguisti, potrebbe essere ripetuto per la percezione e i percettologi, come  suggerisce l’ultimo esempio che ho portato:   Si metteva in dubbio prima che potessero esistere puri linguisti [o puri percettologi,  potremmo dire]. Forse è proprio vero: non esistono. Anzi, se l’antinomia che essi  inevitabilmente incontrano e si sforzano di comporre è sempre presente esteticamente in  loro e in tutti noi, linguisti e non linguisti, nell’anticipazione, all’interno dello stesso uso, del  linguaggio in genere nella sua totalità indeterminata, è forse addirittura possibile sostenere che la cosiddetta ‘filosofia’ si inscrive necessariamente in ciò che abbiamo detto ‘coscienza implicita del linguaggio’. È infatti difficile dire cosa sia la filosofia istituzionalmente ma che essa nasca da un qualche sforzo di comprensione dell’esperienza   e del linguaggio, consustanziale all’esperienza e a linguaggio, nella stragrande  maggioranza dei casi solo una precomprensione o un avvertimento oscuro di una  comprensione, questo sembra tutt’altro che campato in aria.  Ciò comporta una differenza rispetto a una linguistica che non vuole saperne, di  filosofemi? Forse no, se la differenza va cercata in positivo, in una determinazione dall’alto di principi e metodi. Forse sì, se invece va cercata in negativo, nell’esclusione che principi e  metodi possano essere qualcosa di assoluto e unilaterale, si ispirino poi alla indeterminatezza o alla determinazione. Ciò pare plausibile soprattutto se essa fa emergere  più nettamente la coscienza implicita che ogni nostro uso del linguaggio […] non è solo un  uso particola re […] ma contiene una componente di indeterminatezza che lo fa essere paradossalmente proprio quell’uso e permette di descriverlo proprio come quell’uso  determinato,  nello stesso uso effettivo , in tutti i sensi. Non sarebbe per caso anche un contributo non del tutto insignificante, da un punto di vista etico e politico, non sospettabile di ideologismo, alla promozione di una cultura non dogmatica, non settaria e non particolaristica? 46   46  G  ARRONI ,   L’indeterminatezza semantica  …, cit. p. 112Emilio Garroni. Garroni. Keywords: l’implicatura di Pinocchio, Freges Sinn – Germanic ‘sinn’ *not* via Latin cognate ‘sentire’ -- senso, senso fregeiano – senso freegan – “Fregean sense” – Do not multiply senses --  mentire/mentare/meinen/mean -- messagio, message, semiotic – sender, recipient, message, emittente, mittente, recipiente, message, emission, utterance, emitire, to utter – to ‘out’ --  ‘to ex-press’ Lorenzini---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garroni” – The Swimming-Pool Library.  

 

Grice e Gartida – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, Gartida succeeded Boulagoras as head of the sect of Pythagoras. He had spent some time away from Crotonne and returned t the city that had been badly damaged as a result of a feud between the Pythagoreans and their opponents. He was so upset by what he found that he is said to have died of a broken heart.

 

Grice e Gatti – poetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Gatti. Gatti is a good’un; for one, he philosophised on Aristotle’s Poetics, something we hardly do at Oxford! And many other things, too!!” -- Nato di Stanislao e Marianna De Nigro. Studia a Napoli sotto Puoti ed ebbe, come colleghi, Cusani e Sanctis. Collabora  a “Il concetto di progresso.” E a “Filosofia,” il baluardo del hegelianismo a Napoli. Le fondamenta del suo pensiero sono da ritrovarsi nell'eclettismo di Cousin, sul quale scrisse “Di una risposta di Cousin ad alcuni dubbi intorno alla sua filosofia.” Sostiene che vi sia un fondo di verità comune a tutte le scuole filosofiche e reputa indispensabile fonderle in un'unica sintesi. Abbandona la filosofia cousiniana avvicinandosi in maniera decisa all'Idealismo tedesco. Dall’idealismo nasce la convinzione secondo la quale lo sviluppo interiore della coscienza e l'evolversi della storia provengono entrambe da un principio comune: la legge universale della ragione. Influenzato da Hegel e da Schelling, considera la filosofia attuabile solo all'interno della realtà storica in quanto è la scienza generale di tutto l'esistente. Si indirizza verso l'estetismo in “L’arte.” Critica la dottrina aristotelica secondo la quale l'arte è una riproduzione (mimesi) della natura, contrapponendole la filosofia hegeliana che ritiene l'arte riproduzione (mimesi) del sovra-sensibile, delle idee, del noetico. (“L’estetico e mimesi del noetico). In “Della filosofia in Italia” si sofferma sul pensiero e la cultura italiani contestualizzandoli nella filosofia europea. Esauritosi il periodo florido della diffusione della scuola hegeliana, la rivista del Gatti andò incontro ad un lento declino e fallì anche nella creazione di una nuova testata editoriale chiamata Rivista napoletana di politica, letteratura, scienze, arti e commercio.  Altre opere: “Della fenomenologia”; “Fichte e il concetto di scienza; “La filosofia della storia in Grecia”;“Filosofia”. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. treccani. Si è detto,ora non saprei più da chi la prima volta,e poi da mol tisièsoventeripetutoche Gian BattistaVico autore di un sistema che I suoi contemporanei non poteano intendere come quello che dovea esse re la scienza di un'altra età, e il frullo di nuovi germogliamenti dello spirito, non aveaperquestaragione potuto raccoglierein vita il premio di quella gloriacheinepotipiù idoneiagiudicare dellapoteoza dellasua mente e del valore delle sue dottrine, glidoveanoalarga mano prodigare dopo lamorte. Or questo modo di considerer la cosa è senza fallo giustissimo quando vel filosofo napoletano ,come in tutti i filosofidelmondo, anziintuttiquelliuominichesonosi più che mezzanamente sollevati sull'universale , si voglia sceverare due parti es senzialmente diverse insieme , e che congiunte solo per accidente, co. stituiscono una dualità permanente nell'unità stessa dell'individuo. Di queste due parti, l'una tulla relativa è determinata dalle condizioni e. steriori della vita,da'luoghi eda'tempi a cui siappartiene ,dagli uo. mini da'qualisiè circondato, dall'educazionestessachesiè ricevuta, daglistudiiacuipiùsièpiegatalamente,dal primo librochesiè letto,dalleprimeimpressioni d'infanzia, dalle seguenti occupazioni dallafamiglia,da'parenti,dagliamici. L'altra parte sottrattaatul te queste contingenze non si appartiene veramente a njun luogo o tempo determinato ma a tutti del pari,nè ha da farsullacon alcunaspecialecondizionedivita.Laprima diquesteduepartiscen de insieme col corpo nel sepolcro e dopo della morte non se rimango no più tracce, la seconda per contrario sopravvive all'ultimo giorno ed assicura all'uoino coll'immortalità la perpetuità della sua presenza fra'più lontani nepoti. Similmente in ogni sistema per quanto nuovo e profondoefruttifero essosia, trovasiunaparte che è direltamente determinata non solo dalle proprie particolarità dell'indole e dell'ingegno delsuoautore, ma siancoradaquelledelluogoedeltempoincui venne fuori ,inmodochediquesticonservandosempre laspecialfiso nomia , ne parlecipa spesso agli errori e a'pregiudizii. Questa è quella parte caduca de’ sistemi, la qual e non so p r a v v i v e m a i a q u e l l e c o n d i zionispezialichelehannodatoorigine,eche,quandoquelleson cam biate,non ba più niun valore, ed è condannata all'obblio imman. cabile delle età posteriori,quando caduta nel dominio dell'istoria, non fapiùpartedellascienzavivaefeconda di conseguenzeediap plicazioni le cui tracce si scorgono presenti, quasi all'insaputa di tutti, in ogni ramo del sapere e in ogni manifestazione della vita.Concios siachènonsoloogninazione,ma ognisecolohaunasuaimpronta particolare, ha uno special modo di veder le cose , una sua propria lo gica,perlaqualeancheaquellecose chetieneperveredalleetàpre cedenti,nongiungeperimedesimi procedimenti,ma peraltrevie, per altri melodi, per argomentazioni e prove di diversa natura . L'altraparte,quasi l'altroelementocostitutivodiognigran sis tema , è per contrario indipendente da ogni condizione di luogo e di tempo, nonhainsénullachesiamomentaneoorelativo,ma stadi per se come un frammino della verilà assolula che mai non rivelasi lulla intera e nella sua irionfatrice purità nè alla mente di piano uo m o , nè alle investigazioni di niun secolo , imperciocchè è la conquista ideale dell'umanità che a fierissimo sudore della sua fronte ne va a po co a poco conquistando ora una ora un'altra parte in mezzo a errori ed acolpe, amensogneedaviolenze,ainganni ed a pregiudizii d'ogni maniera. L'edifiziointantodelsapere insepsibilmentema irreparabil. m e n t e s i a c c r e s c e , a t t e s o c h e l o spirito u m a n o n o n d ' a l t r a c o s a a i u l a t o c h e dall'opera del tempo , va d'ogni sistema sceverando le parti false e vane e relative a cerle determinate contingenze,va spogliando della superflua ed incomoda scoria quella parte di eterna verità che in ciascuno si rac chiude, la fa diffinitivamente sua e la trasmetle come sacro deposito e in dubitabile acquisto alla seguente ,che facendone suo pro,l'arricchisce di nuovi progressi,ne'quali quelli che vengono dopo di essa banno ad esercitare il medesimo lavoro di purificar l'eredità ricevuta e di accre s c e r e il patrimonio. Cos i l a p i a n t a f e c o n d i s s i m a d e l l a scienz a c r e s c e d i secolo in secolo con non interrotta germinazione , non altrimenti che cresce un albero fra leassiduecure dell'agricoltore cheneinnaffiae lelama diligentemente le radici ,e a suo tempo ne taglia colla scure i sermenti vecchiedisutili.Questaèquell'aureacatenadicui,senon vado errato , parlava Platone , per la quale l'un secolo trasmette all'al tro l'eredità del sapere , come un sacro deposito che esso è tenuto di accrescereasuopotereetramandarloalsusseguente;benchènon tutti isecolipossonougualmenteaccrescere queldeposito,non intuttigli elementi secondarii e contingenti che circondano i frammenti della v e rità eterna son della medesima natura e nella medesima proporzione con essa. E questo è pure quell'ecletismo pon artificiale , quale può farloun uomoounascuolaecheomancadicriteriooneha uno in cerloesirisolvepiù tostoinsincretismo,ma reale edistoricoilqua lehapersuo autorelospiritoumano stessochedisecoloinsecolova sceverando da sistemi la parle condizionata e temporanea da quella che come frammento della verilà assoluta dee restare senza alterazione niusa in suo perenne dominio . Cosi il frullone abburrattando la farina de discevera il fiore dalla crusca inutile , e cosi molte verità da' tempi nondicodiArislotilemadiParmenide ediZenone diElea,sonori maste tuttavia sulla terra , dove che tutto l'insieme di que'sistemi non è adeguato nè alla forma nè al fondo del pensiero di generazioni cosi lontanead essiperdistanzadiluoghieperdiversitàditempi. Secondo queste considerazioni è indubitato che in tutto l'insieme del sistema del Vico trovasi una parte di un valore assoluto che è ri masta per sempre nella scienza ,ed a cui eran troppo immature le menti de'suoiconleinporanei,iqualionoa neinlesero affattoosolone  frantesero e ne misconobbero la vera importanza. M a accanto a que staun'altracenehaper laqualeilfilosofonapoletanolegasi diretta menteco'suoitempi,echemeglio intesaeviepiùapprezzatada'coe. lanei non ha più per noiniun valore , ed è caduta come cosa vieta in dimenticanza. Sicché a lui , come a tutti igrandi uomini,è avvenuto che per una parteè uomoassolutamentede'suoi tempi,econessi perquella partesièmorto,dove cheperun'altraè contemporaneo de'suoi nepoti , e per essa a se medesimo sopravvive. Non giả che i puovi filosofi da lui abbiano preso il concetto della filosofia dell'isto ria,come alcunisono andatidicendo,credendo cosidiaccrescere, quando invece diminuivan la gloria e impicciolivan lavera grandez za di colui che voleano magnisicare. Conciossiache picciolissima glo ria,eche soloapochi,eforseaniuno anche dei mediocrissimie mancata,sièquelladicomporreun sistemache adaltriinunaltro secolo piacerà poi di seguire. M a grandissima si è quella d’indovina re e quasi divinare tutta una scienza per la quale la pienezza de' tempi non è ancor venuta , ed a cui un'altra età dovrà essere condotta per i nuovi progressi dello spirito , comunque per altre vie , per altri metodi e come per dialettica deduzione di principii di diversa natura , siccome appunto èavvenutoperlafilosofiadell'istoria moltotempo dopodel VICO, che primo la presenti. Manonpotendo, com'eranaturale, presentir tutto ,procedette senza metodo e senza principii proporziona. ti da cui dedurla ,sol per induzione da fatti troppo speciali ,e in mez zo a tali tendenze intellettive che rendeano impossibile qualunque ancorchè immaturo saggio diquelle costruzioni speculativesu cui solo potea la nuova scienza solidamente stabilirsi.Sicché cadde e rima. se infruttifero l'isolato tentativo sino a che la stagione più propizia non fu giunta ,a cui non furono nascoste levere vie che poteano condurre allanuova terrapromessa,scovertadalungida unarditissimonavi. gatore che per difetto de'necessarii aiuti appena vi avea potuto appro dare,manon prendernesicuramentepossesso.Quasiparechelospi ritotravedendo dilontanolanovellascienza,avesse fattoun primo tentativo per conseguirla , m a destituito degli altrezzi e delle armi che a q u e l l a conquista si r i c h i e d e a n o , a v e s s e d o v u t o tempo r p e a m e n t e mettersi giù dell'opera per fornirsi in silenzio de'mezzi che gli abbisogna  vano, e quando ebbeli tutti presti ed apparecchiati, ritornare con m a g gior confidenza all'interrotta impresa, eriuscirvicon migliorsuccesso. Non si vede egli talora quando già la fióe dell'inverno si avvicina m a ancora la primavera è di lungi ,un solitario fiorellino quasi racco gliendoiprimicalorichesicominciano amuovereperlegelateaiuole, spuntare tra'bronchi eirovi ancora arsidal freddoebianchidalla Deve? M a quel primo sforzo e troppo precoce della natu ra riman solo, nèèseguitoda altri sinoacheallastagioneavanzata,nuovitorrenti di calore tutte compenetrando le zolle più mature ,covrono di famiglie innumerevoli di fiori la faccia de'prati e i dossi delle colline. Qui m a g gioreèlacopiae la bellezza, ma piùammiratoèilfiore delfebbraio, infrulluoso e solitario indizio d'una ricchezza a venire di cui tutti lar gamente godranno , m a che poca o niuna maraviglia non saprà più ri svegliareaglisguardiassuefatti. Se poi prendiamo quel sistema del Vico nel quale appunto ha tra scesoiconfini del suotempodivinandol'avvenire,vitroveremoma pifestada pertuttolapresenzadelgiureconsultonepoletano dellafine del decimo settimo secolo , e accanto a que'principii che si veggono diventati proprietà eterna della scienza e son passati quasi nella c o scienza universale del genere umano,ne troveremo altria cui nessuno piùnonsaprebbeattribuirealcunvalore,echesipossondire caduti per terra e dispersi come cadono e sono disperse dal vento le poche fo glieseccheche ancorasitrovanoinsu'ramideglialberiamezzono vembre per lasciare nudo il tronco che alla nuova primavera di più rigogliosa vegetazione si dovrà rivestire. Troveremo lui aver messo a capo del suo sistema un dualism I cui duetermininon possonostare insieme , quello cioè di una mente ,di una ragione, di un mondo delleideechefacollesueproprieleggiilmondo de'fatti,equellodi unavolontàestraneadicuilascienzanonpuòtenere niunconto,es ·sendocheisuoiattiappuntoperessere volontarii non si possono sottomettere a niuna costruzione scientifica,cioè a priori,ma sono essen zialmente contingenti. Troveremo lui aver detto che la sua scienza del lastoria è una vera teologia delle idee divine , la qual cosa se può es serverainaltrisistemi,appuntonelsuoèfalsa.Troveremo averegli traveduto il principio che la storia dell'umanità si va facendo per m e z    zo di un successivo passaggio da una fortuna più materiale a una più spirituale,dauna piùoscuraeincertadisèauna più chiaraepiù consapevol e, m a n o n a v e r p o t u t o v e d e r e n é il c o m e n è l e leggi d i questo cammino , nè tutte le sue conseguenze, nè tutto l'insieme delle sue applicazioni. Troveremo che dopo di aver veduto la correlazione che è tra le idee e i fatti , la concepi però a rovescio dicendo che l'ordine delleideedee procederesecondol'ordine dellecose,ilche sepureè veroinunsenso tutto psicologico eaposteriori,è falsissimo,anzi privo affatto di senso,negli ordini dell'ontologia e dell'istoria.Or lutto quanto illibro della scienza nuova procedendo a questo modo svela costantemente agli occhi del riguardante la presenza di due uo mini,l'uno giureconsulto napolelanodeldecimo settimosecolo,e l'altro filosofo divinatore di un pensiero che dovea esser quello di al tri secoli a venire, e predicente una scienza che egli stesso non in tendeacheamezzo.Ma nellealtreoperequestadualità scomparisce, oalmenoilsecondoenuovouomo sieclissatantodarestarquasi tutto intero il campo al primo, cioè all'uomo dotto dell'età incuigli era sortito di vivere. Le opere contenute nel volume il cui titolo è in capodiquestoscrittosonopiùtostodiquestaseconda specieche del la prima , quantunque non bisogna dimenticare quello che del resto è quasi inutile di dire , cioè che la parte più universale dalla sua mente non si nasconde mai tanto che e'non si veggano sempre e da per tut topresenti le traccediquello spiritoche ha pensatoilprimo sulla terra una scienza dell'istoria. Io non parlerò delle diverse orazioni suvariisubbietti,dellequalilelatineson tradotteinitalianodalPo. modoro , che con tanto amore si è volto il primo tra noi a dare una raccolta compiuta delle opere del filosofo napoletano. Neppure parlerò della sua vita scritta da lui medesimo e che anche trovasi nel presente volume,importante sopra tutto per questo,che in essa trovasi delinea -la la storia intima della mente del Vico , e vi si assiste alla generazio ne di tutto il sistema nato nel suo pensiero ( cosa straordinaria e quasi incredibile ) non di un principio metafisico , che dee essere la sua vera sorgente , m a più tosto da particolari considerazioni sull'insieme del dritto romano e sull'istoriadi Roma. L'opera di cui più particolarmente mi propongo di ragionare quella dell'antichissima sapienza degli Italiani,la quale se pure io non m'inganno stranamente , non solo ci rappresenta più chiaro il Vico del suosecolo,ma noncirappresentaaltrochequesto,nèmaisenzalei dee e le teoriche che erano in voga a quell'età,e fino senza i pregiudi zi i e gli errori del tempo non sarebbe stata concepita , nė mai , neppure iltitolo,potrebbeorasaltarenellamentediniuno.Io non parlo delle speciali teoriche professatevi,di cui alcune si hanno o poco o niun v a lore, e altre ne hanno uno grandissimo m a non si appartengono al V i co propriamente,anzi a tutta la filosofia da Parmenide al Leibnitz e dal Leibnitz all'Hegel, ma quello che merita di esser considerato come pro prio di lui , si è il modo di deduzione e il procedimento con cui vi è pervenuto , pel quale una volta messosi,ne ha tirato delle conseguenze istoricheecredutodigiungereaunaseriascovertafilosologica, quan tutto riposava sopra due o tre falsi supposti che sono il perno intorno a cui si aggira tutta l'opera, e ne formano non meno la conchiusione che labase.Or ecco in che consiste tutto ilsistema.Nell'uso di alcune vo ciemodididirede'LatiniilVicoha vedutoo credutodi vedere un profondo significatometafisico, che dimostrava un gran progresso fatto in questa scienzapressoilpopolo che in quelmodo parlava; dall'uso che essi facevano delle voci causa eeffetto vero e fallo , ed altre simili egli deduce il sistema metafisico di cui quelle lo cuzioni erano l'immagine e che dovea trovarsi nelle menti dico loro che le avean irovale e che cosi le adoperavano. A questa prima scoverta poi tutta filosofica di sua natura,se ne veniva ad accoppiarecome perconsegnenza un'altrafilologicao istorica intorno alpopolo che era giunto a cosi profonda sapienza,a cosi riposta dottri na da essere autore e di quella filosofia e di que'modi di parlare.Certo ilromanononpotèessere,delqualesisaindubitatamentenon avere attesoad altro sino al tempodiPirro che all'agricoltura ed alla guerra, diche è mestieri di risalire più indietro sino al popolo da cui quello di Roma ricevette con la lingua quelle locuzioni ,e lui senza più dichiarare popolodiprofondadottrina,epressoilqualelametafisicaavea dovuto giungere a uno non comune grado di eccelleoza.Nè lastoria ci può la sciare lungamentein certinellascelta, sapendosiche iduepopoliconcui iRomani ebbero ab antico più strelte relazioni si furono i Joni della Apao. Questa serie di dedazioni ci mena alla giustificazione nel titolo dell'o pera,dell'antichissimasapienza degl'Italiani,ciòsonoiJoni e gli Etru schi,iquali per questa via si scovre aver dovuto essere dollissimi in m e tafisica,epoichèdaessipreseroiLatinigran partedellalorolingua,si trovò questa come per eredità o più presto per invasione straniera picha di concelli metafisici,comunque ilpopolochelaparlavanefosseesso medesinioinconsapevole, ničsipotessedasèsolosollevarea tanlaal tezza.Ne qui le deduzioni istoriche si arrestano,anzi partendo da quel lepremesse,siècondottiassaipiùlungi,fino acongetturarechegli Egiziani quando fioriva appresso di essi e l'imperio e la potenza e l'ar. dimento delle lontane spedizioni,navigando per il mare interno che lut to signoreggiavano,avessero doyuto dedurre floride colonic per le cosle diquelle,ecosiportareinToscanalalorofilosofia.Quivi poiessendo s u r t o u n a s s a i g r a n r e g n o c h e d i e d e il nome a l u l t o q u e l tratto di mare che Lagna di Toscana fino a Reggio l'Italia,anche la lingua degli Etru schi si dovette per quello diffondere, e di questa più dovellero prendere i popoli più vicini del Lazio. Per la qual cosa non si dec credere che Pitagora avesse dalla Ionia portato in Italia la sua filosofia, m a sibbene esser venuto in Italia ad impararla , e sol dopo di essersi ammaestrato nellametafisicaitaliana,cioèetrusca,laqualenoneraaltroche l'egi ziana,essersistabilitoinCotrone e quivifondatolascuola.Diquila sua filosofia si sparse, cando necessariamente imprimendo le sue trac ce nella lingua, della quale gran parte passò poi a'Latini,iu guisa che sc ci ha vocc latina di filosofica signicazione,quella si dee tenere essere stala prima in Egillo,poi in Toscana e quindi passala in Magna Grecia. Perquestomodo ne'fossilidellalingualatinasitrovatuttalasapienza degli Etruschi, e dalla notomia di quelli noi possiamo ricavare tutta la anctafisica che era in voga sulle rive di Arno prima che il Tevere ba  e  magna Grecia e gli Etruschi,dei quali d'altra parte si sa che furon pc. poli dottissimi, gli uni avendo dato nascimento alla filosofia italica dell'antichissima sapienza degli altri facendo ampia fede la purità del la loro religione, l'augusto concetto che essi aveano dell'ente supremo, i sontuosi sagrisizii, la teologia civile onorata , la naturale praticata, e con questo l'architettura antichissima e semplicissima,a far testimo. nianza che essi furon dotti nella geometria prima de'Greci.  gnasse la città de'sette colli. Con un passo di più m a senza allontanar ci dal sistema del Vico,anzi seguendolo fedelmente, solo affidandoci al l'uso di poche parole latine, noi possiamo esser sicuri di essere in pie no possesso della cosmologia e teogonia egiziana. Ho volutoinsisterealquantopiùalungosullevere pretensioni di questo libro del filosofo napoletano ,sol perchè basta l'esporle nettamen leperchèsenevegganochiaroilatideboliche sononè più nèman co che tutti isuoi lati,la cui poca consistenza połea essere nascosta un secolo e mezzo fa, m a ora non ha più scudo che la possa difendere da piun colpo della moderna critica. In alcuni punti poi esso ha contro di sè un inimico domestico e cognato nel Vico della scienza nuova,ilquite lecondotto da altre divinazioni più vicino alla scienza de'nostri tempi epiùlontano a quella de'suoi,poevade'principiiiqualinegano le basi su cui poggia tutto il libro dell'antichissima sapienza degl'Italiani. E in fatti in quel sistema che più lo ravvicina a noi e più lo stacca da'suoi contemporanei , egli riconosce tutta l'opera del popolo nella formazione delle lingue , e quasi lo riguarda senza ambagi come una creazionespontancadiquello,quandospiegatuttelediversitàchesono fra le une e le altre per mezzo della diversità che passa fra la natura o icostumi de'differenti popoli.Ma questo principio che veduto in tutta lasuaplenitudineesvoltosecondoilrigoredellalogicasarebbe stato fecondissimo d'importanti conseguenze, non gl'impedi di arrestarsi m a ravigliato innanzi alle locuzioni che a lui parvero troppo metafisiche dellalingualatina,pertalmodochedimenticodel popolo edelmon do delle nazioni, ostinatamente volle vedere in quelle l'opera meditata de'filosofi che dopo di averlo composte e sanzionate coll'autorità del loro sapere, le sparsero e le feccio adottare al popolo , da cui poi le c b beroineredità gli altri che la dottrina e ingran parte la lingua diquelloereditarono. Ora non iprincipii,comunque ancora incerti, dellascienzanuovacondussero il Vico aquestascried'idee, ma sibbc ne la filosofia del suo tempo , contro la qualc egli in gran parte prote stava,etuttoilgeneralmodo concuisiriguardavanoalloralecose,e cheeglisenzasaperloesenzavolerlo,etalvoitapurvolendo ilcontra rio,avca comune con tutti.Ora uno de'punti principali della filosofia   del secolo passato si è il non aver riconosciuto in piente l'opera sponla nea dell'umanità e l'aver veduto da pertutto il prodotto volontario e riflesso e però consapevole e determinato dello spirito. Nel fatto della società civile non vide altra cosa che un contratto con cui gli uomini si eranovolontariamenteconvenutifrasèdivivereinsieme per ilmag giorcomodoelamaggiorsicurezzaditutti;nellereligioninon vide cheiltrovatode'pochipercontenereimolti,e farlipiegare coll'au torità di esseri superiori agli umani , a quelle cose che essi avean risoluto essere di universale vantaggio o di loro particolare utilità; nella poesia e nelle arti non vide che l'occupazione di alcuni uomini di più squisita immaginazione e di maggiore ozio che gli altri, i quali perloropropriodilettoeperaltruisidecideano didarsiaquell'eser cizio, seguitando delle regole parte tirate dalla natura stessa delle co se,e parte stabilite per reciproca convenzione fra quelli che si era no volti al medesimo non so se mestiero o passatempo ; finalmente nellelinguenon iscorse altro cheunsottilritrovatoeunauniversa. le convenzione degli uomini , iquali essendosi accorti di avere l'organo delle voce vie più pieghevole che quello degli altri animali , si erano risolutamentedecisi,non senzaesame,divolermettereaprofittoquel Ja flessibilità della gola , e servirsene senza più a render più facili e speditelelororeciprocherelazioni.Daquestateoricanon eralungo il cammino da percorrere per giungere all'ipotesi,o per dir meglio,al laconchiusione del Vico, ilquale,come primasifuimbattutoin locuzioni che g l i pa r v e r o a v e r e d e l filosofico i n s é , s u b i t o g i u d i c ò n o n il popolo ignorante,ma sibbene ifilosofiaverne dovuto esseregliautori. Di che senza por tempo in mezzo,si diede a ricercare dove doveano poter esser que'filosofi da cui eran venuti parlari filosofici a un popo lo che non aveva filosofia , e trovolli nell'Etruria e nella Magna Grecia e, risalendo,nellapatriade'Faraoni.Maisistemi talvoltasoncuriosi davvero;ecuriosissimisieran questi,iquali negavanolecosepiù ovvie, ilfatto,lastoria,lavita,l'uomo,peraccordar tuttoa'filosofi; razzanobilissimaed'ogniconsiderazionedegnissima,ma cosipocodi sua natura operativa e fattiva da non poter creare non che tutta una Jingua,un solverbooun articolo. Ora ilfattosièche il popolo,equi, intendiamocibene,popolovalquantogenereumano ospiritoumano ,   il popolo adunque in cerle cose non è da meno e in certe altre è da più de'filosofi. Ancora non si dee credere che nello spirito de'filosofi trovi siassolutamentepiùdiquello che ènello spiritodiogniuomo,cioè nel popolo.E se nelle coloro menti trovasi tutta chiara ed aperta la teorica della ragione e degli elementi che la costituiscono,e la scienza delle sue leggi e del nodo come esse operano,la mente del popolo per mancare di quella teorica o per ignorar quellascienza non è men ri. schiarata dalla medesima ragione , nè men costituita dagli stessi ele. menti,nè men regolata dalle medesime leggi , conciossiache se cosi non fosse, la filosofia non sarebbe più la scienza dello spirito umano , ma lascienzadellospiritode’filosofi;ilche,seiononm'inganno,do vrebbe sufficientemente nuocere alla sua importanza ;la sola differen• za che passa tra il filosofo e colui che non è filosofo ,si è che l'uno sa quelcheegliha,laddovel'altroloha senzasaperlo;l'unopossiedee pur possedendo e usando della sua possessione,non ha mai posto mente a quel che egli possiede,dove che l'altro non solo possiede ma si è occupatodisapere lanatura,ilvalore,leleggi,l'importanza,gliele menti,ilmodo dioperare,lerelazioni e le condizionidiquelloonde egli è in possesso. Oralelinguesoncomefigliuoledidue madri,cioèsonoilpro. dotto di due cause che operano ngualmente nella loro formazione, v a le a dire delle attitudini naturali e delle fisiche condizioni degli orga ni della voce da un lato, e dall'altro della natura morale dell'uomo e delleleggisostanziali dello spirito.Dicheogni lingua senella parte puramente esternae fonetica de'suoni,della lorotrasformazione e cor ruzione,edel loropassaggioadaltrisecondariiederivati,eintutto quello che riguarda l'istoria naturale della parola , segue invariabil mente le leggi naturali dell'organizzamento fisico della gola, in quanto al contenuto interno di essa parola rappresenta tutti i principii psicolo gici del pensiero, tuttiglielementi ontologici che in esso si rinchiudono, esecondoleleggilogichedelpensierostessocoordinaedispone l'espressione estrinseca di tutto quello ch e il pensiero ha lavorato , e che nelle misteriose profondità della mente è stato apparecchiato.Certo si nella formazione che nell'esplicamento delle lingue non tutto si può ridurre e principii razionali,e qualche cosa ci ha che si sottrae all'ana    lisi e dipende da quella parte inesplicabile dello spirito umano ,che senza essere ilprodotto o l'espressione di una o di un'altra sua legge determinata,risultadall'azione nė descrivibile nè determinabiledi tutte quante insieme , e dall'opera simultanea di tutte quelle forze in cui si appalesa la vita nelle sue infinite manifestazioni.M a oltre a q u e sta parte che si sottrae ad ogni investigazione e ad ogni esplicazione scientifica,l'edificiodiognilinguaèlegatoper la parteestrinsecaal le leggi anatomiche e fisiologiche del corpo,e per l'intrinseca alle leg. gi morali dello spirito, in modo che siccome ogni sintassi nel coordina mento delle parole e delle frasi è regolata dalle leggi logiche del pen siero, e cosi ogni etimologia rinchiude in sè un sistema compiuto di tutte le categorie dellaragione ; e siccome non può trovarsi nello spiri to più o meno di quel che trovasi nella lingua , in cui talti i suoi ele menti raggiungono un'esistenza estrinseca ed oggettiva, e cosi non tro vasi nelle lingue nè più né meno di quel che sia nello spirito nel qua leesseelecategoriedicui esse sono l'espressionehannolaloroesi stenzaintrinsecaesoggettiva. Perlaqual cosa nonciè nullachesia meno arbitrario e meno convenzionale delle liogue ,nè ci la lingua di popolo così barbaro o selvaggio che non rappresenti e non contenga in sé un intero sistema di logica,e un intero sistema delle più recondite categorie della ragione. Ben si vede da quesle cose che egli è possibile di rendere ragiona di quelle parole latine che sembrano contenere un significato più a stratto e metafisico , senza avere a ricorrere all'ipotesi di un popolo progredito assai oltre nelle vie della dottrina e deHa filosofia, da cui i Romani nè dottiné filosofiabbiano dovuto ricavarle.Già l'ipotesidel Vico incontra nel fatto di tali difficoltà che niuno oggidi ancorchè men che mediocramente iniziato in certi studii, non avrebbela concepita nella mente senza voler che di lui si dicesse col proverbio che egii fossesi posto a pestar l'acqua nel mortaio.E in prima le parole su cui spezialmente cadono lo investigazioni filosofiche e istoriche del Vice sono di origine e di formazione cosi puramente latina che e'non si ve de che cosa abbian da fare con esse gli Etruschi o įJonii ,o come a b bia poluto saltare altrui in mente che iRomani lc abbiano prese dalle costorolingue,oalmenoimitatoda essiilmodo diadoperarle.Tan!e  più che se in ana lingua si possono trovar parole di origine straniera, ilmododiadoperarlenonèmaistraniero opresoinprestanzadaal tri,ma propriodelpopolochelaparla,ilquale nell'usarne,imprime in esse il suggello della propria nazionalità e le fa sue , senza dire che un popolo per imparare da un altro ad usare secondo un concello metafisico lesue proprie o le altrui parole,dovrebbe innanzi imparare daquellotuttoilsistemadellasuametafisica,quando nonsivuolri conoscere che ogni lingua, qualunque siesi il popolo che la parla, e indipendentemente da ogni dojtrina acquisita,è naturalmente e sponta neamente l'espressione di un sistema di metafisica riposto nel fondo dellaragione,echecostituiscel'essenzastessadiessaragione. PerilVico intantoiLatiniaveanoaogni modo dovutoimparar qnelle parole e que'modi di dire du altri popoli più dotti che essi non erano , e questi popoli non poteano essere che iJonii e gli Etruschi popoli dottissimi e con cui i Latini aveano strette relazioni. Vediamo oraquelchenongiàioounaltroma tuttoilsaperedelsecoloincuivi. viamo oppone senza paura di contradizione al più dotto napoletano del XVIII secolo. Ne è possibile d'incominciare questo esame senza fermarsi in primo luogo ad un'improprietà di linguaggio che niente nonpuò giustificareecheinnessunsistemaeinnessuna ipotesi non si può difendere. E veramente non vi è niuno il quale abbia mai p e n satoa'Joniioal dialetto jonicoper sostenerelaparenteladifiliazio netra il Greco e il Latino, e le colonic greche di cui parlail Vico, ca cui attribuisce nella formazione della lingua latina un'importanza che non si hanno maiavuta, noneranodiJuniima diDori.Ilfatto sloricochelastoria latina èposterioreallagrecaunitoall'altrofatto della relazione di simiglianza fra le due lingue avca condotto alla con chiusione che l'una lingua dovesse essere derivata dall'altra,nè lasciato alcunluogoadubitarequalesidovesse esserelamadreequalelafi gliuola fra la più giovine e la più vecchia. La stessa argomentazione poi avea fatto determinare più particolarmente questa relazione di m a ternità fra il latino e il dialetto eolico, che èquellofra'dialettidella Greciachepiù diaffinitàsihacollalingua delLazio.Intantolenuo vescovertedellascienzadellelinguehanno dimostratoquestaipotesi impossibile , havno scoverto nel Latino tracce di maggiore antichità    che pel Greco si nel sistema de'suoni e si nelle forme grammaticali non che nella genesi etimologica e nello stato attuale delle parole ; hanno scoverto la stessa specie e lo stesso grado di aslioilà , e talvolta anche maggiore,che è tra ilGreco e il latinotrovarsi eziandio fra le duelin gue classiche ed altre ancora o meno conosciute o quasi del tutto igno te prima di a questi ultimi tempi, sicchè è stato forza di ricorrere all'ai. tra ipotesi di una lingna più antica di esse lulte , da cui come da comune stipitetuttequanteesse,elealtreadessesimilidiscen dessero , allontanandosene quale più e quale meno , quale in una e quale in un'altra cosa, ma ritenendone tutte e la general fisonomia, eilsistemagrammaticale,eilcomune materialedelleradici,in mezzo a quelle differenze che debbono fra’i varii rami di uno stesso tronco essere cagionale dalle speziali condizioni fra cui ciascuno di essi si è venuto separatamente formando ed esplicando , sicché la relazione di parentela è rimasta , anzi la famiglia si è trovata cre sciutadimoltialtrimembri creduliprimaaffattoestranei,masiè trovato quella parentela essere di fraternità e non già di filiazione. N ė si può negare che il dialetto eolico sia quello tra gli altri dialetti dell'anticaGreciachepiùsirassomigliaalLatino,ma invecedi con chiuderne che questo sia nato da quello,si è dovuto inferirne che esso è come l'anello intermezzo, ilpunto di passaggio tra le due diverse forme di una medesima lingua, appunto come la storia naturale ci dimostra molte specie di animali , molte famiglie di piante, le quali sono l'anello intermezzofraduespeciediversedelmondoanimaleotra due diverse famigliedelvegetabile,equasicome ilponte percui mezzolanatura che non procede per salti,dall'una è passata all'altra.Cerlo molte paro le si possono trovare nel Latino che vi si sono introdotte direttamente dalGreco,ma questeosonodidataassaipiù recente o sirisesconoa oggetti speciali,ad usi e invenzioni,a trovati comunicati dal conımercio e dalle esterne relazioni tra due popoli in quell'epoca e a quella parte della lingua a cui si riferiscono le investigazioni etmologiche e istoriche delVico.Diparolestranierecheperaccidentesienpassatedauna lin gua a un altra ancorché di diversa indole e di diverse famiglie se ne trova in tutte le lingue, m a si è questo un fatto tutto contingente di cui sirenderagionepermezzodelfattodelleesternerelazionisenzachenulla  se ne possa conchiudere per la forniazione della lingua stessa. La parola kalamos che è ab antico nel Greco per dinotare la penna o uno stru mento aguzzo , una capna qualunque da scrivere,non è di origine greca,nèsenetrovalaradicenellelingueaffinialgreco,ma èdi patriaaffattostraniera, parendoesserenèpiùnèmanco che ilsemi ticoKalem che in Arabo dinota la penna. Certoverisimilmente è da crederecheavendoi Greciantichissimiappresoda'Fenici,po poli di stirpe e di lingua semitica , l'arte dello scrivere abbian preso anche da e s s i il n o m e dello strumento d a e s e r c i t a r e , l a n u o v a a r t e . M a dove sono le parole greche , eoliche, e joniche, come impropria mente ilfilosofo napoletano direbbe, corrispondenti a quelle con cui i Latini esprimeano non già un utensile materiale,lo strumento di un'ar te ignola prima e poi appresa , m a i concetti più intimi e più astratti dello spirito senza di cui il pensare stesso è impossibile? Lemedesimecose,ma adassaipiùforteragionesivogliono ripetere per l'Etrusco. Che da questa lingua si sieno potute intro durreuel Latinodelleparolerelativeadusidellavitaeacerimonie sacre , è cosa che facilmente sipuò concedere massime chi pensi che molti riti religiosi dall'Etruria hauno dovuto passare in R o m a , m a non èpossibileditrasformare questaazionetuttaestrinseca,questa introduzione accidentale di alcune speciali parole , in un'azione più internaequasi primitivadell'EtruscosulLatino.Veroèche questa non è propriamente l'idea del Vico , nè la conchiusione a cui egli intende di giungere coi suoi procedimenti etmologici. E già la qui. stione delle lingue era così poco avanzata , anzi così poco sopposta a' tempi del Vico, che non ad essa la sua mente si rivolse , non di es sa egli si occupò come conseguenza e coronamento della sua ipote si,masibbenediquelladellafilosofia.Einfaltinon altrovechein questo punto egli vide l'importanza della sua scoverta , e assai più che nel libro stesso v'instette nelle sue riposte a varie obbiezioni mossegli allora contro con una critica , che non vedea,e in gran parte non poteavedereiveripuntidebolieimpossibiliasosteneredi tutto ilsistema. Quivi si vede che il Vico pensava di aver fatto una stupenda sco verta istorica , perocchè vi è detto chiaramente che essendo gli Etruschi cosi doltissimi in cosi remotissima eti , come si vedea manife. b'o da' modi di dire metafisici che sol dalla loro lingua avean poluto passare nella latina , si dovea credere fermamente che la dottrina non avea poluto passare dalla Grecia in Italia, ma si da questa , cice dall'Etruria in quella , e quindi coordinando tutte le parti del siste na , ne conchiude che Pitagora non avesse portato allronde la soa fi losofia inItalia,quando alcontrariosiavea dacredere che venulo quivi ad appararla , riuscitovi poi dottissimo , si fosse fermato nella Magna Grecia a formar la sua scuola , sicchè quest'antichissima silo. sofia che la rappresentava avea dovuto passare dall' Etruria nel La. zio e dal Lazio nella Magna Grecia , e in Etruria avea dovuto primitivamente venire dall'Egitto. Ecco perchè io diceva più sopra che secondo questo sistema, le vere origini di certe parole e modi di dire della lingua latina si convengono cercarle senza più nella patria deiFaraoni.Ma tuttequeste ipotesiriposano sul falsoconcelloche ogni vocedi un contenuto edi un valore metafisico supponga un sistema metafisico divenuto popolare nel popolo che la parla , ogni sistema metafisico debba essere stato da un popolo portato nel l'altro. Se i Greci non avean potuto escogitarlo da sè , ma riceverlo da'Latini,eiLatini dagliEtruschi,egli EtruschidagliEgiziani, non so perchè non si abbiano da spingere anche più oltre le investi gazioni,ecercare daquale angolopiùremoto dellaterra avessedo vato venir trapiantata sulle rive del Nilo.  La scienza moderna che è meno corriva alle ipotesi , e comunque sia spesso accusata di sognare , più riconosce l'importanza de' fatti prima di edificare un sistema , va più guardinga in questa qui stione degli Etruschi, e non ostante la grande abbondanza de'falli che sono a sua disposizione ,non ha sapulo per anche decidere che cosa eglino fossero stati e donde venuteci , nè che cosa si fosse la loro lin gua ,se cioè semitica o di origine arja ,nè che relazioni si abbia avu ta la loro civiltà coll'egiziana. A ogni modo le induzioni per cui giungeva ilVico allesue opinioni intorno all'Etruria niunoè ora cheardirebbedicrederledialcun peso o diprenderle in sulserio. Ben sonostatialcunipiùmodernichelehannosostenute,e avregnac chè l'istoria dimostri come cosa quasi indubitata che la civillà tenga nel suo corso ilmedesimo cammino che il sole cioè da oriente în occidente,hanvolutocheiprimiprincipiidiessa fosseropassatidal l'Etruria nellaGrecia,ma han cercato con fatlieargomenti edo cumenti che al Vico mancavano di sostener la loro teorica ,comunque non sieno mai riusciti a sostenerla tanto da farla aceellare almeno permediocremeuteprobabilea'piùdottiinquestematerie. Enonha guari abbiam veduto mancare a'viviio Napoli uno deisuoi ultimi sostenitori,uomo picchissimodiabbondanteerudizione istorica,ina corrivo non so se ad:ingegno o per la natura stessa del suo spirito. ad abbracciar le opinioni più strane e le meno simili alle più comune . mentericevute.Spessosièripostocome unaspeciediamorproprio Nazionale a sostenere colesta emigrazione del sapere dall'Etruria nella Grecia.quasiperaggiungereunaltroperiodo digloriaallegloriedel l'istoria italiana E veramente pjente non è più giusto o più sacro quantoquel sentimentoper cui un popolosistudia diaccrescerei tesoro delle sue grandezze non meno presenti che future o passate, diquesteperpetuarelaricordanza nellamemoria degliuomini.Ma per esser gelosi custodi di questo tesoro noi altri Italiani non abbiamo afarviolenzaallaistoria,evolervendicareanoiquelche nonciap partiene,tantopiùchequellodicui non sipuòdubitarechesiano stro è più che bastevole a non farci desiderosi di altro.Or la nostra ve ra e indubitata istoria incomincia da Peoma ; ilche mi sembra itd'an lichitàabbaslanzaremota,eunagrandezzaabbastanza gloriosapera. verseneacontentare.Tutto quello che è prima diRoma, e già è assat in certo che cosafosse,nonci appartiene. E veramenteItalia nonera ancorailpaeserinchiuso tra le Alpie il mare, nė Halianieranoi Greci dell'estremità meridionale, I Siculi o gli Aborigeni del Lazioo gli Etruschi, Celti o gl'Iberi,sealcun trattogl'Iberine occupavano, ma beneeranoessiglielementiprimordialiiqualistrituraliefasiin sieme dall'opera del tempo e dalla forza assimilatrice di Roma ,d o veano comporre il popolo dicui ha fatto l'istoria Livio, Macchiavelli e Botta;lavoro lentoe gigantescoele con diver se proporzioni e solto diverse condizioni si è operato per altri popoli ancora; perquestaso laragionei Macedoni eran Greci,e Alessandr oche sefosse nato du'secoli prima sarebbe stato barbaro,fualsuo    Innanzi di conchiudere questo scritto che avrebbe potuto esser piùbreve,machepotrebbeprolungarsi ancora dimolto, noncredo essereinutileper megliofarcomparirelavera naturadelleobiezioni chehomosseal filosofo napoletano, il ricordarecomeeglinon a veapercosaaffattonuovailmodo dellesueinvestigazionietimologi che , anzi fin dal principio del suo scrillo afferma che egli è per fare quel medesimo per la lingua latina che avea già fatto Platone per la greca,ilqualedalleetimologieecomposizione delle parolediquella avea voluto scourire l'antichissima sapienza de'popoli che l'avean parlata.SenonchesiformavailVico un conceltoassairistrettodal Cratilo se credea a questo solo ordinato quel dialogo , il quale abbraccia tutta quanta la quistione della lingua ,della sua origine e del suo valore,coordinandola colla teorica socratica delle idee.Ben è vero che Platone anche delle etimologie si occupa in quel dialogo , e che ,ove non il fa ironicamente e come per istrazio , intende di cavare delle in . duzioni intorno a'primitivi concetti del popolo fra cui quelle parole a . veanoavutonascimento.Ma adonoredelfilosofoateniese,siconviene confessareche ilmetododellesuericerchenondeviavada'giusticon fini,nèpoteacondurload induzioniofalseoimmaginarieo arbitra rieocontrarieallagenesi delle lingueoripugnantialla vera palura. dellametafisicacheinquellesipuò trovare.Non abbiamnoiveduto che ogni lingua contiene in sè un intero sistema di metafisica , ma di netafisica spontanea che in quella si trova all'insaputa dello stesso p o  t e m p o il rappresentante dello spirito e della civiltà della Grecia , e u n a delle più alte figure dell'istoria greca.Cosi le felci gigantesche del mondo antidiluviano non sono ilcarbon fossile ma debbono divenirlo, poiché , collo scorrere del tempo e coll'azione invisibile delle forze naturali si macerano a poco a poco , le differenze scompariscono, e da ultimo si trovano riunite in una sola massa che dee poi divenire uno de'motoripiù irresistibilinelle mani dell'uomo; ma leproprie tà che fanno onnipotente il carbon fossile non si appartengono alle umide foglie delle piante naufragate nel diluvio . Così le glorie q u a si mitologiche de'Pelasgi e de' Rasena , de' Tirreni e de'Siculi non siappartengonoa'discendenti delpopolo di GiulioCesaree di Tra jano.  polo che la parola , e che ve l'ha senza saperlo , depositata ? Imperocchè le lingue figliuole tulle dell'identica natura dello spi rito e dell'identica struttura degli organi della voce sol differisco no nella loro composizione in quanto che quell'identica natura vede da diversi o opposti lati le cose , e diversamente concepisce le relazioni obbiettive che passano fra quelle.Per la qual cosa si può dalla natura di una lingua scovrire il modo in cui il popolo che prima l'ha parla la concepiva le relazioni fra le cose,e ilmodo con cui iconcetti meta fisici che presiedono segretamente alla composizione di essa si presen taronoalsuospirito.E sequestolavoroèancora oggi pienod'incer tezzeedidifficoltà,seeraimpossibilea'tempi diPlatone,che fae glicotesto?BastacheildiscepolodiSocrateabbia vedulounaverità che solo ilontanissimi nepoti poteano dimostrare ,e tentato un lavoro per compiere ilquale,moltissimi secoli di esperienze e di scoverte non han potuto somministrare finora tuttiimezzi necessarii. Ma non cre dea Platone che una setta di filosofi avesse introdotto nella lingua i concettimetafisici,apziliattribuivaalpopolo stesso,cheegliperle esigenzedelsuolinguaggio filosofico, chiamail legislatore, il quale nellasuccessivacostruzionedellalinguave livenivaspontaneamente e però inconsapevolmente trasfondendo.Në pensò mai Platone che da filosofi di altra nazione dovessero quelle parole tirar la prima loro ori gioe,e quindi esser passate a'primitivi abitatori della Grecia,che per essereancoraignoragtinonle avrebberopotutemaipiù ritrovareda sèmedesimi. Sonquesteledue ipotesisucuièfondatoillibrodel l'antichissima sapienza degl'Italiani, ma nè dell'una nè dell'altranon è colpevole l'autore del Cratilo, Seiohotroppoinsistitosuquestecose, non ègià perdesiderio eheioavessidiappiccareun'inutilegiornata colmaggiore de'filosofi napoletani,ma siper voler mostrare col suo esempio come camminando il sapere collandare del tempo, e trasformando s i quasi in ogni secolo lasuafisonomia,evedendo gliuomininellediverseetàsempre diver samentepurlemedesimecose, lagrandezza de'grandiuomininon si vuol misurare dal numero delle verità che eglino possono ancora inse guarea'lontaninepoli,acuipureessendo grandissimi,nonpossono    lalvolta insegnare più niente,ma sibbene dal grado a cui eglino si so no innalzati al di sopra de'loro contemporanei , dalle nuove vie che prima degli altri hanno aperle allo spirito, nelle quali altri c a m m i p a n do sonosi arricchiti di verità ad essi rimaste ignote , e dagli sforzi con cui hanno potuto faticosamente e oscuramente veder da lungi quel che alle seguenti generazioni è stato poi agevole di veder chiaramente e di loccare con mano , senza che per questo si possano dir sempre seguaci de'primi, alleso che avviene soventi volte che una verità giunta alla sua maturità e alla pienezza de'tempi, si mostri per nuove e più facili vieancheaspiri!imenoalli,quando altempocheeratuttaviaimma lura appena si era svelata per astrusissi mi sentieri alla potenza divina trice di solitarii ingegni. Chi è più grande di Aristotile ? m a quale è oggiscolarecheintutte lespezialiquistioni non ne sappiaepiùe meglio del maestro di coloro che sanno ? O quale è scuola filosofica a cui basterebbe il proporre la massima parte de'problemi della scienza inquelmodoappuntoincuisitrovanoproposti nell'Organoene'libri della Melafisica, anche in quei punti in cui il pensiero arislolelico quanto alla sostanza delle cose è identico col moderno ?  L'altra cosa su cui io voleva insistere siè questa ,che un uomo pec quantograndeeglisia,perquantos'innalzialdisopra de'suoicon temporanei e de'suoi tempi, par non si può mai taplo da questi separare che la più parle delle sue idee, anzi esse tulle non abbiano in quellilalorora dice,siche eglinon puòmaisepararsi dalgeneral modo d'intendere dell'etàchelovidenascere, anziappuntoperque slo ègrande , che egli tutta la compendia ed esprime , aprendole le vie agli altri nascoste che la legano coll'avvenire. Se non che se tul teleideede'suoitempiinlujsiriflollono,insiemeconquelle anche gli errori e i pregiudizii comuni penetrano nel suo spirito , nè per quanto egli se ne distacchi può giunger mai ad emanciparsene intera menle . Di che si vede quanto sia grande la semplicità di coloro che siappoggianoall'autoritàde'grandi uomini inque'punticheeglino. hanno in comune con tutta la loro generazione e che non costituisco no la loro vera e più squisita individualità.Molle volle mi è avvenuto di udir dire a proposito di speziali quistioni ; o siele voi più grande  di Dante Alighieri il quale pensava appunto cosi come voi negate di consentire.Or cerloilcanlore de'tre regni dellamorle si fuilpiù grande uomo del suo secolo,nè ci ha oggidi chi in potenza di menle e grandezza di comprensione poelica possa venire con lui in paragone , ma ilpubblicislaeilfilosofodelXIII secolo era figliuolo delmedio eroeaveacinquesecolidieducazione filosoficaed isloricamenodi noi, e il cilladino di Firenze nato l'anno di grazia mille duecento sessantacinque in molte cose non potea non pensare come frale Cipolla e Guccio Imbralta.Or chi è che vorrebbe piegarsi innanzi all'autorità di questi nomi ?Cerlo,che io mi creda,niuno. Quesle cose poi che si dicono dell'antorità de'grandi uomini van . no deltealmedesimo modo dell'autorità dell'istoriaingenerale.La sentenza di Tullio che dice l'istoria maestra della vita è veris ima se s'intendeinunsenso,ma fontedimoltierrorises'intendeinun altro. Verissima è in un senso universale e scientifico in quanto che l'istoria facendoci come assistere allo spellacolo delle diverse generazioni clic si sono succedute sulla terra,ci rende quasi contemporanei del pas sato.Permezzodiessanoipossiainoalloraformarciunconcello ge nerale del cammino del genere umano ,e delle leggi ideali che presie dono alsuccedersi dellecivilti,delleleggi,degliistituti,delle religio ni, degli stati e di tutte quante sono le manifestazioni dello spirito u - mano.Allora noi partendo da queste considerazionipossiainocom prender  il posto che anche no i occupiamo nella storia del mondo , d e terminare le nostre relazioni con le generazioni che si sono prima di noi affaticalesullaterra,edivinarquellecheabbiamocollealtreche dopo di noi bagneranno col loro sangue e coloro sudori la patria dell'uomo. In questo senso veramente la sloria è maestra della vita, come quella che ne porge il più stupendo ammaestra in e n t o che si possa , la comprensione della vila slessa in tulle le sue manifestazioni, in tuttelesuerelazionicolpassalo,colpresenteecoll'avvenire.Ma inet ta e principio d'inganni è quella sentenza presa in un senso più ristrello edempirico,quasivolessedireche lastoriainsegnaagliuominico. gli esempii de'tempi passati a sapere come eglino si abbiano da con durre ne'casi agli antichi simiglianti,Il credere a questa specie di    aulorilàistoricadipendedallafalsa supposizioneche gliavvenimenti si ripelano o si possanoripeterenelle medesimecondizioni, ilcheè tantofalsoquanto èfalsoilcrederecheilgenereumanononsimuo va , e che l'istoria non cammini. Ora ogni clà ha suoi proprii fatti e un'indole sua propria per la quale anche i fatli che sembrano rasso migliarsi in certe esterne condizioni, sono diversissimi di significato e divalore.Ilprincipiochenienteèma luttosi fa,nientepermanema tultosimuove,spezialmentenellastoriaenelcammino delgenereuma no si verifica.Ben la nalura fisica ne'rivolgimenti cosmici e tellurici si ripete,la natura morale dell'umanità non mai.A coloro iquali dicono: bencosìdeeavvenireperchècosìaltravoltaèavvenuto,ben sipuò rispondere che appunto perchè altra volta così è avvenuto non può più avvenire al medesimo modo.Dove il genere uinano cosi continua. mente agitandosi finalmente abbia da giungere , chi è che possa pre vederlo,oqualeèfilosofiachelopossaalmeno verisimilmentepre dire? Ma quando si pensa quel che era la famiglia umana al tempo delre de'reAgamennone,pernon salirepiù alto,equaleog gi è divenuta , chi non si sente di naufragare coll'anima in uti Oceano senza fondo, allorchè volge il pensiero a  coloro cui se parerà da noi la medesima distanza che divide noi dagli eroi dell'Iliade  L'Italia era pervenuta al decimosesto secolo e nella letten ratura e nelle arti ad una eccellenza , che niuna delle mo derne nazioni ha forse potuto raggiungere e che emulava se non uguagliava quella de' giorni più felici della Grecia. La poesia, la pittura, la scoltura e l'architettura quasi facea no a garaper adornare di opere eternamente duratureun pae se che già per tanti riguardi parea prediletto dal cielo , e le interne agitazioni e le discordie civili di tanti piccoli e fio renti stati pareano quasi cote che affilavano gl' ingegni, af forzavano gli spiriti e rendeanli più pronti a concepire e a ritrarre squisitamente il bello . Intanto , fra queste potenti pa lestre che aveano esercitato l'infanzia e l'adoloscenza delle no stre menti,venne l' età più matura e quasi la virilità dell' in tendimento , nella quale l'uomo, ovvero lo spirito umano, chè qui suona il medesimo, si rivolgein sè stesso per conoscere da presso quello ch 'egli è , e quello che le altre cose sono, le quali in fino a quel punto è stato contento ad ammirare ed a servirsene per sè e per le sue immaginazioni. Allora inco mincia la filosofia, la quale di necessità dee sorgere dopo la poesia, siccome la Grecia e l'Italia col fatto ne fanno pro va . Nè si potrebbe addurre in contrario la scolastica che è 13 194 antichissima , e certo precedente alla poesia, perchè quella , oltre che confinava da presso con la teologia, più presto che esser l' effetto spontaneo , per così dire , del pensiero nazio nale , lavoravasi nel seno della chiesa e nel silenzio de' chio stri , senza che il pensiero laicale vi avesse alcuna parte . Il quale , quando fu venuto il tempo propizio, si fece da sè una filosofia che veramente dalla scolastica fu diversa. Costantinopoli non cadde in vano per noi; perchè la sua rovina che fu quasi l'ultimo crollo della civiltà antica servi ad arricchirci di gran numero di monumenti dell'antica sa pienza a noi tuttavia ignoti , e a compensar con usura i nostri padri dell ' ospitale accoglienza per essi accordata ai fuggitivi figliuoli d'una nazione illustre e generosa , che dopo quattro secoli d'oppressione, dovea riacquistar l'indi pendenza , e , bella delle memorie passate e del presente trion fo, ricomparire sul fortunoso teatro del mondo, sorgendo , come Lazaro , dal polveroso sepolcro che avea accolto il suo cadavere . So bene che da alcuni si è creduto il risorgimento degli studii classici e la conoscenza più intera dell'antica civiltà essere stati più presto di nocumenlo che di utile alla mo derna , parendo loro esserne stato impedito il libero cam mino degli spiriti, e turbata l'originalità del pensiero mer cè l' innesto violento d' un vecchio ramo sovra un più gio vane tronco . Ma costoro non pensano che la civiltà di un secolo non è e non può esser un fatto isolato e da sè ma che è iotimamente legata a quella de' precedenti mercè l' aurea catena delle tradizioni , e che ogni secolo dee, in quanto può , legarsi col passato e argomentarsi di perfezionarne l'opera, piuttosto che separarsene e disdegnare di riconoscerlo , o pretendere superbamente anzi puerilmente di incominciar tutto da capo , e rifar da sè l'opera a cui le generazioni pre cedenti han lavorato .Però il risorgimento degli studi classici . e la conoscenza dell'antichità , innanzi che nuocere, ha do vuto perfezionar l'edifizio della civiltà moderna , nè in fatto pud negarsi che a risorgimento delle antiche lettere sieno 1 195 dovuti in gran parte i subiti progressi che le scienze fecero tra noi . Quando si furono rotli i cancelli un po' stretti fra cui la scolastica volea talora chiusa l'intelligenza , quando si fu meglio e vie più direttamente conosciuto il pensiero dell'an tichità , ed ecco sorgere di presente una nuova filosofia, alla quale si può dire che avessero posto mano di conserva il pensiero antico e il moderno, la sapienza greca e lo spirito italiano. I più profondi ingegni della penisola si misero a quest' opera, lavorando insieme, quale in uno e qualein un altro modo , al comune e nobilissimo scopo, e tosto si vide venir fuori dal loro numero il celebre triumvirato di Telesio, Campanella e Bruno , i quali tutti e tre videro la luce in questa meridional parte d’Italia . Comune ebbero la forza della volontà , l'ardire dell'inge gno e la potenza della mente; ma il primo restò indietro agli altri due , imperciocchè la sua opera fu puramente ne gativa , laddove questi poterono crear de sistemi che nè il tempo nè i seguenti sforzi dello spirito umano non giunse ro a far dimenticare. A così bei cominciamenti fu possibile di sperare splendidi destini per la filosofia italiana , ma la speranza anche allora, siccome spesso è, fu ingannatrice, e l'avvenire mancò a così lieti principii . Del qual fatto non si può trovare altrove la ragione che nelle condizioni della storia italiana e nella intima natura della nostra filosofia . E, in vero se, come abbiam veduto, la filosofia comparve in Ita lia quando il pensiero era abbastanza maturo per siffatta ma niera di studii , quando questo momento fu arrivato, la na zione incominciò a declinare . Quella maravigliosa abbon danza di vita che avea alimentato il movimento dello spi rito e favorito l'innalzamento di tante piccole nazionalità, nel cui seno eran comparse prima la poesia e le arti , e poi la scienza , incominciava a indebolirsi e venir meno. AL XVII secolo la conquista era compiuta; le antiche forme di reg gimento eran cadute o avean perduto della loro importan za; e le nostre sorti incominciarono ad esser , quando più e quando meno , legate a quelle di altre nazioni. Strana 196 cosa è l'ammirazione di taluni storici , siccome il Denina , per la beata tranquillità , per i giorni di serenità e di pace che spuntarono a rallegrare il bel cielo dell' Italia . Più stra na ancora è la maraviglia del Tiraboschi il quale non sa comprendere come la letteratura , le arti e in gran parte le scienze sien volte in basso stalo allora a ppunto che la pa ce di cui finalmente godea l'irrequieta terra italiana , facea sperar nuovi progressi e quasi un novello secol d'oro al nostro paese . Costoro non intendevano che quando una nazione cade, cade di necessità con essa tutto quello che è intimamente collegato con la sua vita e col suo essere . E in fatti allora la bella prosa italiana fini, allora la poesia spirò sulle labbra del Tasso , e le arti andarono ogni di più declinando. Allora incominciò la corruzione onde il sei cento è rimasto celebre nella memoria degli uomini , sic come età di decadenza. E' sembra che l'antico spirito let terario si rifuggisse un momento in Toscana per morir no bilmente nel paese stesso che l'avea veduto sorgere , sic come la pittura cercò un asilo in Bologna e parve di nuo vo levar il capo fra le mani de' tre Caracci, di Guido Reni , del Guercino e d'altri. Ma questo fu come l'ultimo sforzo del gladiatore ferito , o come l' ultimo canto del cigno che si muore . Egli è facile il concepire come una filosofia, la quale derivava da un movimento al tutto italiano, e che pe rò era legata alla fortuna del pensiero onde ella avea da nascere, dovesse cader di necessità il giorno stesso che quel pensiero veniva a perdere la nazionalità e l'indole origina le . Il medesimo senza fallo sarebbe avvenuto nell'antichità, ove la Grecia fosse caduta il giorno stesso che il gran disce polo di Anassagora bevè la cicuta , perciocchè allora a Pla tone e ad Aristotile sarebbe mancato il tempo di compari re , siccome mancò tra noi dopo la morte de Socrati italiani. Dopo questo tempo non comparve, si può dire, nessuno il cui nome fosse degno delle antiche glorie, e le menti ita taliane sembravano comprese da una mortale stanchezza, quando venne fuori tra noi Gian Battista Vico quasi a pro 197 testare in nome di tutti e mostrare al mondo che il fuoco sacro del pensiero non era già spento nel bel paese ma solo nascosto sotto tiepide ceneri. Tra una gran folla di eccel lenti giureconsulti che fiorivano di quel tempo in Napoli, dalla meditazione del diritto romano egli seppe innalzarsi alla scienza delle leggi universali che reggono il cammino del genere umano sulla terra , e dalla meditazione d'una sola città alle leggi supreme della civiltà e del corso di tut ta quanta l'umana famiglia. Ma poichè egli precorreva di due secoli i suoi contemporanei, fu non curato e poco avuto in pregio da quelli , ed è stato sol da' posteri onorato condegnamente alla sua grandezza ; gloriosa ma pur tar da e , che è più , inutile ricompensa al merito degli uo mini veramente grandi , e a' sudori per esso loro sparsi in pro di chi o non li comprende e per ignoranza o per mali gnità li dispregia , ovvero di chi più non può giovarli . Parecchi anni dopo del Vico , e immensamente a lui infe riore , comparve in Napoli l'abate Antonio Genovesi . Del quale spiacemi di dover parlare in modo che a molti sem brerà per avventura o affatto ingiusto o troppo severo . Im perciocchè io penso che il suo merito, almeno comefilosofo, chè in quanto economista non so , sia stato più del giusto esagerato de' suoi compatriotti, i quali eran pure que' me desimi che avean veduto il Vico morir nella miseria , e poco o niente avean creduto alla sua grandeza. Genovesi poi, sendo prete , credeasi in certa guisa mail'obbligo di rico noscer l'antica metafisica,ma nè seppe intender quello che veramente di più profondo trovavasi in essa , nè il più delle volte seppe spogliarla dell' aridità delle forme, non ostante che non poco pretendesse alla leggerezza dello stile , e fino alle facezie e alle arguzie il più spesso di cattivo gusto e di sdicenti alla gravità delle materie per esso lui trattate. Nato poi nel XVII secolo e fiorendo ne' principii del XVIII , credeasi parimenti obbligato di seguir le dottrine del suo secolo , senza scorgere le conseguenze a cui quelle menavano . Per tal guisa mentre come teologo avea in 198 napzi san Tommaso , intendea come filosofo seguitare il Locke e il Cartesio , allora nuovi e in voga oltremonti , e a cui l'alta mente del Vico avea mosso infin dal principio potentissima guerra. Diviso fra due estremi così opposti in sieme , e' travagliavasi pure a volerli conciliare , e parvegli che l'autore del sistema delle monadi potesse maravigliosa mente servire al suo scopo , e così volea conseguir la gloria , tanto per lui ambita , di libero pensatore e di teologo ; ma il tentativo riescì vano alla prova . Chi in fatti apra i suoi libri di leggieri si potrà accorgere d'un continuo vacilla re e di una enorme confusione, per la quale il lettore si tro va , siccome l'autore dovea essere , in una strana tenzone di discordanti dottrine che ben sono accoppiate insieme , ma non sono e non posson essere ricondotte all'accordo e all'armo nia . E, in vero, quale è la teorica onde egli ha arricchito la scienza ? quale è il sistema che si chiama dal suo nome ? quale la scuola che ha fondata ? Se pure non voglia dirsi , come si potrebbe in certo modo affermare, che egli sia sta to il primo che incominciasse a introdurre fra noi la filoso fia del XVIII secolo , la quale dovea poi più largamente spandersi e acquistar quasidiritto di cirtadinanza . Concios siachè , spezzato il legame sacro che avrebbe dovuto legarci a' nostri più antichi, rotta la tradizione e in certo modo spenta presso il più gran numero la ricordanza delle passa te glorie filosofiche, parve più facil cosa il domandare ol tremonti bella e fatta la filosofia , innanzi che travagliarsi a crearla da sè; tanto più che tra noi l'uso delle profonde me ditazioni era venuto meno , ei sistemi che lavoravansi oltre le alpi , tra per la loro comoda facilità e per la popolarità che la letteratura francese ogni di più andava acquistando, divenivano anch'essi popolari in gran parte dell' Europa. Or questa filosofia era derivata direttamente da' sistemi del Bacone e del Locke , e più indirettamente da quello del Car tesio . . 199 II . Renato Descartes avea continuato nelle astratte regioni della filosofia l'opera incominciata dalla Riforma in quelle della religione, più astratte eziandio e al tempo stesso più positive delle prime, che era senza più l'idea della libertà del pensiero . Cosiffatta idea era nata da prima in Italia , do ve non chiedea altro che la libertà del pensiero filosofico; anzi in sulle prime si fu contenti a quella solo della libera discussione contro l'Aristotile delle scuole, salvo a costruire un nuovo edifizio con le vere dottrine dello stesso Stagirita ovvero di altri filosofi dell'antichità, siccome spesso si vide fare . Ma la Riforma, confondendo i limiti di cose diverse , domandò la libertà della discussione religiosa , il che era distrugggere la religione medesima , la quale per sua es senza è fondata sulla fede , sulla credenza e sul mistero, talchè sì tosto che la discussione e l'esame incomincia, la religione finisce, dove tra il credere e il non credere , tra il si e il no , alcuna transazione non è possibile, e ogni ana lisi l' uccide. Della religione avviene lo stesso che d'una leggiadra fanciulla dalle guance rosee e da' capegli dorati , la quale sembra contaminata dal solo sguardo troppo cupi do e indagatore dell'uomo; ma non si tosto l'abbiam pos seduta e contemplati a nudo i misteri della sua bellezza , ogni prestigio è finito . Così accade delle religioni , e tutte quelle che finora hanno imperato in su la terra, vere e fal se , ne son argomento. I libri sacri degli Ebrei eran conser vati nel luogo più recondito e segreto dell' arca ; l ' Egitto che può dirsi per eccellenza il paese della religione , è la patria de' simboli e de' geroglifici , e in Grecia solo pochi savi dopo faticose prove erano iniziati a' misteri di Samo tracia e diEleusi . In somma è strana cosa il credersi obbligato ad aver pure una religione e non volerla fondata sul principio dell'autorità. E in questo veramente il principio cattolico è superiore alle dottrine de protestanti e a quelle delle altre selte del cristianesimo , come quello che non soffre di discen 200 dere ad alcuna transazione , ma riconosce in sè la fonte di ogni vero , poggiandosi in sulla autorità che è potentissi ma, come quella che ha per sè la costante tradizione e l'im mutabilità delle dottrine. Ben cammina lo spirito umano , ben fa spesso de' progressi nel suo cammino, e le scoperte si succedono e i costumi s' ingentiliscono e le scienze si arricchiscono, e quasi pare che ogni verità sia destinata a cedere il luogo ad un'altra nuova, e che lo spirito dell'uo me sia in continuo movimentoed agitazione per avvicinarsi il più che a lui è conceduto all' unico e immutabile vero , Ma dove è questo vero ? chi mai può dire di averlo ve duto , o chi mai potrà vederlo e indicare agli uomini la meta di tutti i loro sforzi in su la terra , siccome il sepolcro di Gerusalemme a' Crociati e le coste di S. Domingoa Cristo foro Colombo ? Cotesto continuo moto , coteste secolari agi tazioni stancano l'anima , la quale ha sovente bisogno di fermarsi pure a qualche cosa di fermo e indubitabile, e di trovar come un'oasi in cui riposarsi dalle fatiche del suo penoso viaggio fra le certezze e i dubbi , fra le affermazioni e le negazioni dell' intelligenza . Or la Riforma distrugge questa proprietà assoluta ed es senziale d'ogni religione, gettandola in un pelago più con trastato ancora che quello della scienza , e in una bolgia di più inestricate e spaventevoli quistioni. Ma queste ardue pretensioni della riforma furono rendute ancor più estreme dal Cartesio , il quale spinse tant' oltre il desiderio della li bertà che volle quella stranissima di dubitar di tutte quanle sono le cose create e le increate fipo delle sue conoscen ze , delle sue idee e quasi di sè medesimo, per cercar poi, se gli fosse riuscito, di costruir da sè quello stesso che erasi dilettato con una nuova voluttà a distruggere. E veramente uno smodato desiderio di azione sernbrami dover esser in chi si piace di distruggere quello che egli ha intorno , per aver poi l'illusione del creare , e , che è più strano ancora, creare partendo dal dubbio ; nuovo e titanico esempio d' un sublime veramente dinamico, 201 Che cosa è egli quindi avvenuto ? Cartesio dovea egli so . lo ricostruir da sè l ' edifizio della realtà e dell'universo con solo i mezzi che il ragionamento gli porgea . Ora e' ci ha nella realtà delle cose alcuni fatti, siccome la religione , l'isto ria , le arti, i quali non sono opera dell'intendimento ovve ro della logica. E' ci ha nella vita delle cose e degli avve nimenti che non potrebbero derivare e non derivano dalla intelligenza individuale dell'uomo , quale essa alla logica e alla psicologia apparisce, ma sibbene da altri principii e da altri motori , a cui non si può che per diverse strade per venire . Per la qual cosa chi si argomenti di costruir la realtà delle cose con solo le armi che quelle più ristrette scienze gli concedono , e' non ginngerà mai ad avere essa realtà , quale nel fatto è, ma si quale con i suoi mezzi la si può formare, e priva delle sue più nobili parti, come quel le che di gran lunga son superiori ad ogni costruzione in dividuale . La quale difficoltà si può muovere a quasi tutta quanta la filosofia moderna, e nonsolamente a quella del Car tesio a cui essa è indubitamente debitrice di si superbe pre tensioni. Or delle due cose l' una può avvenire; o che la fi losofia riconosca la sua impotenza e rinunzii alla superba impresa, ovvero che presumendo troppo altamente di sè, nieghi di riconoscer come vero quello che essa non ha po tuto creare. Egli è inutile il dire che non potendo la prima ipotesi verificarsi per esser la scienza troppo superba di sua natura e troppo sicura del fatto suo , resta che la seconda si avveri . Pur tuttavia il Cartesio , siccome suole avvenire, per essere il primo, non giunse alle assolute negazioni di cui era pure nel suo sistema il germe , che poi seppe altri logicamente tirarne , allorchè si vide al fatto qua' si erano le estreme , ma pur legittime conseguenze delle dot trine cartesiane. Succedeva intanto in Inghilterra qualche cosa di simile a quello che in Francia , comunque le forme potessero esser diverse. Quivi il Bacone avea dichiarato quasi vana ogni scienza , il cui obbietto non potesse cader sotto l' impero de' 1+ 202 - sensi, quando il Locke cercò modo di applicar questo me todo alla conoscenza dell'intendimento umano , e fu di necessità costrello a vedervi solo quello che ci ha in esso di più apparente, cioè il fatto stesso della sensazio ne . Dalla quale , per sofismi che la scienza adoperi , non giungerà mai a cavare altro che fatti singolari con cui è impossibile di venire ad alcuna spiegazione probabile di fatti più alti e di più riposta natura, siccome sono le religioni , le arti , l' istoria . Pure il Locke si ostinò nel suo cammi no ma non seppe o non volle o temè di venire al termine estremo a cui quello conducea . Non io vorrei entrar mal levadore della verità d'alcun sistema , nè far l' apologista di una più presto che d'un' altra filosofia , ma mi sdegno di certi acciecamenti della scienza e della cieca sicurtà con cui sovente si ostina a perdurare in una via , quando bene si vegga ch'essa non possa condurre se non alla negazione assoluta di certi fatti i quali essa scienza dovrebbe bensì spiegare ma negare giammai, ove non volesse , come Ales sandro fece del nodo gordiano , non sciogliere ma tor di mezzo, negandole , le difficoltà. Pertanto quando il sistema del Locke ebbe passato lo stretto e ſu giunto sulla terra a lui ospitalissima della Francia, non fu chi non gli facesse buon viso , e venne accolto non già siccome quegli che giunge nuovo in terra straniera , ma come un antico amico che dopo lunga lontananza si riduce in patria . E veramen te sua patria era per esso quella del Cartesio . E' si dice che ogni idea cerca per per sua natura di venire ad atlo ed es ser messa in pratica. Or se ci ha filosalia al mondo, de la quale si può affermare che abbia raggiunto il suo scopo, è certamente quella della sensazione . Conciossiachè la rivolu zione di Francia si argomento di rifare la civil comunanza secondo quelle dottrine, e tulto un paese e una nazione no bilissima per amore di quelle fu veduta pronta ed apparec chiata a rinunziare un bel giorno alla sua istoria , alle sue tradizioni, alle sue antiche grandezze e alle passate glorie . Concessioni senza fallo enormi , ma pur logiche , e per le quali può dirsi che Marat, Danton , Robespierre e gli altri fossero gli estremi e più conseguenti discepoli del Locke, del Condillac, del Voltaire e dell' Elvezio; sebbene al fatto siasi veduto ove quelle teoriche peccassero, e come è pur mestieri di tener saldi certi altri e più antichi principii , chi vuol conservare in vita le umane società . Tale si era lo stato delle cose in Francia quando l'Italia legata oggimai a' destini della politica straniera ,cercò ezian dio fuori disua casa una filosofia bella e fatta , e potè leg germente trovarla , siccome l'abbiamo descritta , in Francia dove come in un nuovo Eden, cercammo l'albero della scien za e della verità, benchè il frulto che ci regalo fosse morta le per noi , come quello che fini di distruggere ogni germe di forza e di natio vigore nella patria di Gregorio VII e di Dante . Vero è bene che la filosofia della sensazione non può dirsi che in Italia fosse stata accettata ciecamente e compiu tamente , ma pur tuttavia ebbe abbastanza di forza per in sinuarsi nell' universale, e produrvi certa maniera di debo lezza morale che è l'effetto della mancanza d' ogni idea più elevata e più generosa . Ma comunque avesse avuto fra noi gran numero di ammiratori e di adepti, pure , come dicevo più sopra, le più alte menti italiane non si piegarono ad ab bracciarla compiutamente ancorchè non avessero saputo di scostarsene del tutto.Solamente più tardi e quando già quel la filosofia incominciava a venir meno nella sua stessa patria, si videro comparir tra poi i libri di Paolo Costa , di Mel chiorre Gioia e del napolitano Pasquale Borrelli che a quel le dottrine più da presso si accostavano; tre menti temprate in modo da non intendersi come abbiano potuto nascere nel la patria di Dante , Michelangelo e Vico . I due ultimi, scri vendo in una lingua a mezzo barbara , intendevano l'uno di spandere e divulgar nell' universale la parte più positiva della logica del Condillac, e l'altro di rianimare le teoriche del Cabanis , mercè qualche dottrina , già forse combattuta e dimenticata, del Locke. D'altra parte il primo, dico il Costa , purista ma pedante in letteratura , crede che la me 20% desima lingua che era servita a Dante per narrare i tre re gni misteriosi della morte, e descriver fondo a tutto l'universo ; la medesima lingua che era servita al Macchiavelli per disve lare i segreti della politica del medio evo , e al Vico per di vidare il passato e l'avvenire , e far la Divina Commedia della vita , siccome l'Alighieri avea fallo quella della morte; polesse impunemente esser condotta a raccontare le lepide trasformazioni della celebre statua , che a forza di odor di rosa dovea tornare uomo , come quella dell'antico Prome teo , mercè la fiamma del sole . Tolta per tal modo al pensiero l'originalità e l'indole na zionale , la letteratura di rimbalzo dovea sentire i cattivi ef fetti dello stato morale del paese . Già essa avea perduto la sua antica grandezza al XVII secolo , la sua fulgida stella era tramontata , e quel soffio divino che ne' secoli prece cedenti avea animato le nostre lettere parea si fosse ritira to dal cielo dell'Italia in mezzo alla corruzione che invadea d' ogni parte. Per la qual cosa il XVIII secolo , trovatici in queste condizioni, ci polè facilmente vincere , chè la strada era fatta, aperta la breccia , e agevolmente si potea una cor ruzione sostituire ad un'altra , un nuovo ad un antico vi zio . Allora si giunse perfino a sostenere che l'italiana era quasi una lingua morta la quale non potea più bastare ne alle nuove esigenze, nè alle nuove idee del secolo , nè agli andamenti più svelti e più liberi del pensiero moderno, sic chè bisognava al postuito rifarla , provvedere che ringiova nisse e sopperire alla sua manifesta povertà . Non è chi ignori come l'abate Cesarotti si fu il massimo campione di questa infelicissima scuola , e come con questo scopo dettò certo suo trattato che intitolo: Saggio sulla filosofia delle lingue. Se non che giunta la cosa a questo estremo punto , bisognava di necessità che , secondo il corso ordinario degli umani eventi, ritornasse indietro. E già nella Francia in un altro ordine 205 di cose una maniera di reazione era incominciata , concios siachè l'opera dell'impero può affermarsi non essere stata altro che una possente reazione contro gli anni prossima mente passati, e una ricostruzion di quello che negli eccessi della rivoluzione stato era distrutto e che pur meritava di esistere. In Italia , strana cosa ! questa reazione incominciò dalla lingua . Già poco innanzi il Parini, l'Alfieri e qualche altro aveano incominciato a levar la voce contro la servitù dell'imitazione straniera , ma poichè il male non era an cor venuto a quel punto estremo a cui le cose um ane deb bono arrivar per ritornar indietro, le loro parole furono im produttrici di effetti immediati in su le menti de' loro con temporanei , perchè le parole eriandio de' più grandi uomini non possono riescir proficue ove non trovano gli animi ap parecchiati a riceverle, e la pienezza de' tempi non è giunta per esse. E in vero quando le cose furon più mature, del le voci men possenti di quelle che ho citate poterono ope rare ciò che a'primi fu negato, chè trovarono un eco più fa cile nell' universale . Vero è che quelli i quali osarono per i primi di opporsi alla corruzion generale furon coverli di ogni maniera di ridicolo da' dotti del tempo e regalati, per più derisione, de’ titoli di pedanti (che forse erano) e di pu risti . Ma tutto fu indarno, perchè i puristi mostrarono un coraggio da onorar qualunque eroe , e niente valse contro di essi. Or e' bisogna confessare che costoro, non si credendo che i paladini delle parole , combatteano veramente , senza pur sospettarlo, l'invasione dello spirito straniero , e, se eran pedanti , significa che anche i pedanti possono talora aver ragione contro le pretensioni della filosofia. III . Duraya giá da alcun tempo questa reazion grammaticale contro la letteratura allora corrente , quando dalla remota Calabria s' intese risuonare una voce , che protestava contro la filosofia del senso e le sue eccessive pretensioni. Colesta 206 da voce era quella del barone Galluppi da Tropea , rapito pur testè alla scienza a cui avea consacrato religiosamente la sua vita. Per ben giudicar questo filosofo è d' uopo distinguere esattamente ciò che egli ha negato da ciò che ha affermato , cioè la sua polemica col sensualismo dal suo sistema . Con ciossiachè il suo vero merito si è quello d' essere stato il pri mo in Italia a sentir la necessità d' una filosofia più ampia opporre alle minute investigazioni del Condillac,delTracy e degli altri di quella scuola . Cotesto è il vero merito del Galluppi , e per questo solo gli è dovuto un posto nell' isto ria della filosofia italiana. Vero è che le sue armi erano il più delle volte domandate alla scuola scozzese , o eziandio à quel medesimo Locke che era il vero padre delle dottrine le quali egli volea combattere ; ma cotesto non diminuisce nè il suo merito , nè l'obbligo che la filosofia italiana gli dee avere. Medesimamente egli si è il primo che abbia in cominciato a divulgare fra noi il nome e il sistema del Kant, e comunque non manchi chi sostiene che egli me desimo non fosse giunto a penetrare compiutamente in tutti i misteri e gli andirivieni e i tragetti della psicologia kan tiana , pure è cosa indubita che egli si fu il primo ad occu parsene seriamente . Certo è , come innanzi vedremo, che altri è riescito meglio di lui nell' investigar la mente del fi losofo prussiano e nel misurar tutto il valore e le possibili applicazioni di quelle teoriche, ma certo è pure che il vanto di essere stato il primo,eziandio in questo , non può negarsi al calabrese. Quanto poi al suo proprio sistema composto in parle dalle teoriche delLocke e in parte da quelle del Reid, non credo che volendo esser giusti si potrebbe parlarne con alcuna ammirazione . Conciossiachè debolissima è la sua psicologia , e quasi nulla l' ontologia , la quale egli spesso non sa distinguere da quella , e sì confonde stranamente le quistioni che all'una e all'altra scienza si appartengono. Più confusa eziandio è la logica , che egli discerne in logica pura e mista ovvero applicata, mercè della qual distinzione che in niun modo non saprebbe sostenersi , è riescito a trattar della prima delle pure forme del raziocinio, e ad ammassar nella seconda un gran numero di quistioni di psicologia e di ontologia, che non sapea come allogare altrove . Non parlo dello strano metodo con cui movendo dalla logica pura e passando per la psicologia e l' ideologia, giunge alla mista, perchè quello in cui mostrasi chiaramente tutta la debolezza delle sue teoriche , è l'applicazione che pure si argomenta di farne alla morale e all'estetica . Nell'estetica , per esempio, di cui si occupa sol di volo a proposito della teorica della volontà , senza punto curarsi de' più alti problemi che in essa si possono discutere , s'in trattiene a sostener l'opinione , un po' veramente troppo vo luttosa , che il bello può esserci rivelato dalla sensazione del tatto non altramenti che da quelle della vista e dell'udito, quasi non fosse chiara la differenza che è tra certi sensi più altaccati alle necessità della vita e però men nobili, da certi altri che servendo meno immediatamente al corpo son più liberi, e, se così può dirsi , più spirituali . Del resto e' si può dire che il Galluppi non ha veramente una certa teori ca sul bello e sulle arti , ovvero se pur l'ha , dubito forte non sia quella del Blair e del buon padre Soave , autore di un'intera enciclopedia d'istituzioni elementari per l' educa zione della povera gioventù italiana , filosofo , matematico , grammatico, relore, novelliere , moralista e Padre Somasco, che per molto tempo continuò e continua ancora in gran parte, ad infestar co' suoi libri , i seminarii, i licei e le scuo le italiane. Quanto poi al suo sistema sulla morale e sul di ritto, il Galluppi non può dirsi che siane uscito più felice mente che nelle altre parti della sua filosofia , e chi volesse prendersi giuoco di lui potrebbe leggermente qui , come al trove, trovarlo ad ogni pagina in contraddizione con sè me desimo. Non son molti anni passati che il nostro filosofo in cominciò a pubblicare per le stampe un'istoria della filosofia , ma sembra che per mancanza di soscrittori l'edizione non potesse andare innanzi , sicchè dovette smetterne il pensie ro , e l' opera morì ia sul nascere . Se in questa , come nelle 208 altre cose , l'induzione è buona, e si può indovinare che la scienza non vi abbia perduto gran fatto ; chè l'autore vi fa cea mostra d' un'erudizione non molto riposta. E' mi ricor da fra l'altro che nell'introduzione tentava ancora egli un'in terpetrazione del mito di Prometeo, e giunse per non so che strane congetture a persuadersi che il celebre prigioniero del Caucaso si era un anticore dell'Attica, che aveaprima insegna to a quelle genti i primi rudimenti di agricoltura e sopratut to la coltivazione del grano . Davvero mi sembra enorme non veder altro che questo in Prometeo inchiodato al Caucaso, per le mani di Mercurio , per comando di Giove e per decre to immutabile del destino, e mi sembra più che enorme di struggere il più profondo mito dell'antichità , e conver tire il figliuolo di Giapelo in un mietitore , con una rovinosa metamorfosi che trasforma di botto il capo d'opera del teatro di Sofocle in poco più di un' egloga. Del 1830 il barone Galluppi fu chiamato a dettar lezioni di filosofia nella regia Università di Napoli , e la scelta del governo fu facilmente accompagnata dagli applausi unanimi di tutti , imperciocchè si aspettavano cose grandissime da un uomo la cui riputazione potea dirsi gigantesca tra noi , e sul cui merito tanto più si giuraya, in quanto niuno avea ardito di dubitarne o di esaminarlo seriamente. Ma ora dopo se dici anni di esperienza deve esser conceduto di affermare che l'aspettazione pubblica è stata delusa , ed anche il suo insegnamento non ha condotto a nulla di durevole. Quale si è in fatti la scuola che egli ha fondata ? quali le verità che ha dato a svolgere a' suoi scolari ? quali applicazioni si son potute fare della sua filosofia al diritto, alle arti, alla politi ca , all'economia ed alle scienze naturali ? Per me io tengo che una filosofia la quale non è feconda di applicazioni di ogni maniera, e che si condanna a restare nel circolo delle quistioni puramente psicologiche, non meriterebbe il super bo nome a cui aspira , e più presto dovrebbe aversi quello di logomachia di scuola. Or tale si è quella del professor na politano. Però non dee arrecar maraviglia se le sue parole uon hanno avuto un eco , se il suo insegnamento è stato per duto , e se, fra tanti discepoli che han frequentato la sua scuo la , non ce ne ha pure uno di cui si possa dire : costui conti nuerà l'opera del maestro ; chè nessun'opera il maestro ha incominciata, nessuno scopo si era prefisso, e niente vi ha di più inutile che le parole da lui pronunziale per sedici anni sulla cattedra. IV . Non ricorderò che di volo i nomi del Mancini , del Tede schi, del De Grazia e del Winspeare. De’quali i due primi , si ciliani, non possono dirsi , e sopratutto il primo, che seguita tori , ma nè interi nè profondi, dell' eclettismo francese, e, poveri non meno di erudizione che di potenza di mente, possono rassomigliarsi più presto a due scolari che non si ardiscono dilungarsi dalle peste del maestro. Il terzo , cala brese di patria, è un antico militare che ha finito per consa crare i suoi giorni alla filosofia , ed ha , già sono qualche anni passati, dato fuori per le stampe un'opera in cui intende a richiamare in onore e il Locke e la filosofia dell'esperienza , ma pur con tali modificazioni che agli occhi dell'autore do vrebbero allontanar le conseguenze a cui que' sistemi finora han condotto , e che agli occhi degl' intendenti di ta' discipli ne servono solo a metter l'autore , a sua insaputa , in con tradizione con sè medesimo , e l' un principio del suo siste ma in opposizione con l'altro . Il barone Winspeare, giureconsulto di rinomanza in Na poli , si è ancora egli rivolto agli studi della filosofia, e come frutto delle sue meditazioni ha incominciato da tre o quat tro anni a pubblicare una sua opera col titolo di Saggi di filosofia intellettuale. Della quale il primo volume, che l' au tore ha chiamato Introduzione allo studio della filosofia, con tiene un compendio dell' istoria di cotesta scienza da Talete in fino al Kant . Il secondo col titolo di Dizionario della Ra gione , dev'essere un dizionario di filosofia che si proponga 14 210 lo scopo di fermare per sempre le parole della scienza e il loro significato , affine di renderne il valore così certo e in dubitato come è quello delle matematiche, e distrugger così alla loro sorgente le quistioni e le difficoltà che lacerano da tanti secoli il seno della filosofia. Imperciocchè e' sembra che l'autore abbia per ferma la celebre opinione di quasi tutto il XVIII secolo , e che ora alcuno non oserebbe di sostenere, esser cioè le più profonde quistioni filosofiche niente altro che controversie di parole, sicchè, fermato bene il valore di queste , abbiano quelle immantinente da cessare . Il terzo vo lume poi dovrà contenere una traduzione de' Nuovi Saggi del Leibnizio , nella quale il traduttore si propone di dare un vero modello della lingua filosofica italiana, ancora così povera tra noi ( non credano i lettori che io esageri) , pro ponendosi di più di venir mostrando ne' suoicomenti quello che ci ha di buono e quello che ci ha di vieto e di rancidu me metafisico nelle pagine del filosofo tedesco . Ancora qui non fo quasi che ripetere le modeste parole dell'autore . Da ultimo il quarto volume dovrà contenere un'esposizione del sistema del Reid . E qui immagini il lettore il sistema del fi losofo scozzese , che non suole esser creduto , ch' io mi sap pia, de' più oscuri ed astrusi, esposto compendiosamente dal nostro barone , in un gran volume in quarto; chè questa è la dimensione dei suoi fratelli già venuti alla luce. Secon do il Winspeare e' non ci ha che due uomini al mondo a cui la scienza abbia veramente da essere obbligata; e di costoro il primo visse , già sono trenta secoli passati, in Atene, e l' altro nacque in Iscozia l'anno di nostra salute 1710. Questi due uomini sono Socrate e il Reid . Solo il Leibnizio potreb be esser terzo tra costoro , ma egli è troppo lordato di me tafisicume per essere accettato interamente dall' illastre giu reconsulto ; e però, come è detto , e' si propone di purgarlo . Salvo adunque il greco , Jo scozzese e il tedesco , così purificalo , tutti gli altri uomini che han consacrato la loro vita alla scienza e che son giunti a rendere immortali i loro nomi, voglionsi tenere comepericolosivisionarii, i quali ov 211 vero s'ingannano per difetto di giustezza di mente , ovvero si lasciano strascinare dalla loro immaginativa. A purgar la scienza da questi malaugurati sogni è sopra tutto ordinata ľ opera del Winspeare. Innanzi di lasciar Napoli non posso trascurar di ricordare il nome di un uomo , forse poco conosciuto altrove, e che eziandio tra noi non risuona molto , ancorchè il meritasse . Ma in tutte le cose la fortuna è signora , ed anche per giun gere alla gloria è necessaria certa maniera d'impostura. Co stui è l'abate Ottavio Colecchi, il quale, sendo già profondo matematico , allorchè si rivolse seriamente alla filosofia non si potè star contento all' empirismo che forse prima avea seguito, e si rivolse in quella vece al sistema del Kant. Con ciossiachè non ci ha niente in quella filosofia che possa ap pagar la mente di un matematico usata alle astrattezze e a ricercar le proprietà più essenziali e immutabili delle cose, laddove le analisi severe ed aride del Kant più ritraggono da' metodi matematici e vie meglio possono contentare le menti che a quelle sono avvezze. Il Colecchi seppe penetrarvi così addentro , che quasi le fece sue proprie , e spesso osò modificarne alcune parti e mutarne alcune altre : tanta è la dimestichezza che egli ha acquistata col suo autore , ancor chè ardisca di rinnegarlo e levi alto la voce a sostener che e' non è kantista, per alcune divergenze che separano in sieme le loro dottrine . Ma, che che egli si dica, non si po trebbe seriamente da altri dubitare seegli sia o pur no. Due sono i punti principali della filosofia del Kant, e l' uno si è la sua teorica della ragione soggettiva, e l'altro dove distin gue la parte mutabile e l'immutabile delle umane conoscen ze, quella cioè che da' sensi deriva e quella che trae altron de la sua origine ; cominciando egli dal porre come fonda mento del suo sistema che tutto il sapere incominci con l'esperienza ma non tutto da quella derivi . Cotesto è forse il più importante e il più vero di tutti i principii kantiani , comunque sia assai più antico della critica della Ragion Pura . Il Leibnizio, fra gli altri, avea già insegnato l'anima escir dalle mani del Creatore con tutte quante le idee necessarie ed assolute, come quelle che compongono la sua propria essen za ; ma che, oscurate e quasi sepolte sotto il peso della ma teria , han bisogno che l'esperienza venga a discovrirle e quasi a far che lo spirito se ne avveda, benchè da quelle non derivino. A questa guisa appunto lo scultore, se una figura fosse impressa da natura nelle parti più interne d' una pie tra, ove questa tagliasse e levigasse, non sarebbe egli autore di essa figura , ma si cagione che quella fosse manifestata. E, assai prima del Leibnizio, la medesima dottrina può tro varsi insegnata da altri più elegantemente e con maggior di sinvoltura. Platone nel suo nobilissimo dialogo del Fedone, nel quale narra , come tutti sanno , della morte di Socrate e delle cose da lui discorse con i discepoli e con gli amici in nanzi di ber la cicuta , dimostra siccome è nelle nostre menti un' idea prima dell' uguaglianza (autò pò trov ) così astratta e generale che non si può in niun modo confondere con l'idea di duecose qualunque che sieno eguali insieme, come due pietre, due leyni o altro. Perchè dove quella è tale che noi sempre allo stesso modo la concepiamo e di necessità non possiamo comprenderla altrimenti col pensiero , questa per contrario è mutabile , sendo che il fatto quotidiano ne mo stra che quelle medesime cose , che pur ieri ne pareano uguali, ne sembrano altra volta disuguali, senza dire della differenza de' giudizii de' diversi uomini, a cui le stesse cose appaiono diversamente. Onde egli conchiude l'uguaglianza assoluta non si dover confondere con quella delle singole cose a cui questo attributo ci sembra di convenirsi. Le medesime cose Platone dimostra del bello , del giusto , del vero e di altre cosiffatte idee, che non si possono confondere con gli obbietti sensati , a cui si trova che solo per contin genza alcuno di que' modi di essere si può attribuire, e che sono come un debil raggio di quegli eterni tipi che sopra di esse cose mutabili vengonsi a riflettere , e che di quelli solo per accidente partecipano ( METÈYouTQ ). Se non che que sti obbietti mutabili e contingenti son come lo strumento 213 per cui mezzo l' anima giunge ad aver coscienza delle idee , sendo che, ogni volta che le cose uguali, belle, vere e giuste le son mostrate da' sensi, si vengono risvegliando in lei itipi eterni a quelle corrispondenti , i quali pur erano in lei ab eterno, ma si vennero oscurando il giorno che ella , lasciata la sua celeste dimora , discese nella prigione del corpo la tal guisa, secondo il divino Platone , il sapere è solo ricor danza, e l'apparare è ricordarsi. L'altro punto principale della filosofia del Kant, e pro prio a lui solo , si è la teorica della ragione che egli tiene per subbiettiva e inetta a farne conoscere altro che le appa renze, e non mai la sostanza delle cose . Teorica d'importanza principalissima, come quella da cui dipende il sapere se l' uo mo ha diritto a credere di poler giungere alla conoscenza di qualche verità , ovvero se, condannato a vivere fra illusioni e apparenze, dee rendere immagine del cane della favola, il quale credea un altro cane da lui distinto la sua propria immagine che vedea riflettuta nelle onde del ruscello . Chi concede questo punto al Kant, gli dee conceder tutta la sua filosofia e dee esser tenuto per kantista, siccome io affermo del Colecchi , quali che fossero in parti secondarie le loro di vergenze . II Colecchiha pubblicato un gran numero di articoli su di versi subbietti di filosofia speculativa e morale che poi ha raccolti in due volumi col titolo di quistioni filosofiche, ove assai spesso prende a combaltere il Galluppi , e se il faccia con buon successo , e se gli avvenga sempre di riportar facile vittoria sul nemico èinutile il dirlo. Conciossiachè il si stema slegato e debole del filosofo calabrese mal potrebbe resistere a colpi serrati della dialettica del suo avversario. A questi due volumi dovea tener dietro un terzo di quistio ni estetiche , di cui mi riesci di aver le bozze di stampa per le mani , poichè il libro non potè veder la luce . Cotesta este tica , come tutto il sistema del nostro filosofo , è quella me desima del Kant; un deserto di astrazioni senza mai incon trare un'oasi ove lo spirito possa alquanto rinfrancar le for 214 - ze . Egli è quasi che inconcepibile come quel divino rag gio che domandiamo bellezza, e che risplende misteriosa mente nelle volte de' cieli e negli occhi delle fanciulle , pos sa esser materia su cui s'innalzino de' formidabili edificii di aride astrattezze , con le quali è al postutto impossibile di dar pure una spiegazione del bello e dell'arte, alla guisa che è impossibile di trovare il mistero della vita nel cada vere , o quello della luce nelle tenebre . V. Mentre questa fortuna si aveano in Napoli le discipline filosofiche , nelle altre parti d'Italia non mancarono di esse re , ove più e ove meno, splendidamente coltivate, e in que sti ultimi tempi videro levarsi chi di gran lunga si lasciò in dielro i Napoletani. In Italia è succeduto al nostro vivente un fatto il quale è in manifesta opposizione con quello erasi veduto finora nell' istoria della nostra filosofia , la quale in fino dalla più remota antichità , ha avuta nel mezzodì della Penisola un' indole diversa che nel settentrione. Colà il ra zionalismo ha dominato , qui la scienza ha più presto incli nato al positivo e alla pratica; quasi queste due diverse ten denze della filosofia si fossero geograficamente diviso il ter reno . E in vero mentre nell'una parte venivan su la scuo la di Pitagora e quella degli Eleatici, nell' altra la sapienza etrusca s'introducea in Roma, che può dirsi il paese per ec cellenza della politica, della guerra e della legislazione. Vero è che in processo di tempo i due estremi si andarono ravvi cinando , e l' idealismo si accostò al suo contrario e quindi risultò l'indole vera della filosofia italiana, che è insieme speculativa e pratica , come quella che domanda i principii ma non dimentica le applicazioni , e , se intende di levarsi. sino al cielo in su le ale della speculazione non perde però di vista la terra . Se non che è innegabile che non ostante il ravvicinamento di queste due maniere di filosofare, pure la differenza non fu mai cancellata del tutto, e i filosofi del mezzodi restaron sempre più razionalisti , e più pratici quel li del settentrione ; testimonii il Vico e il Bruno da una parte, il Macchiavelli e il Pomponazzi, per non citarne in fioiti, dall'altra . Ora al nostro vivente , come dicevo , il fat to inverso si è veduto avvenire , chè i filosofi Napoletani non si son saputi dipartire dalla psicologia , e quelli della più alta Italia hanno ardito di sollevarsi infino all' ontologia ; quasi il coraggio delle ardue speculazioni , venuto meno a noi , si fosse rifuggito appo gli altri. E questi sono l'abate Rosmini , Terenzio MamianieVincenzo Gioberti . Antonio Rosmini ricorda in certo modo i nostri buoni fi losofanti del medio evo , i quali chiusi fra le mura di un chiostro , alternavano la vita fra la preghiera e la meditazio ne , e vedeano scorrere in silenzio i loro giorni senz'altro pensiero che quello della chiesa e della scienza . Così il no stro abate, pievano di un piccolo villaggio in quel di Nova ra, si è dedicato tutto quanto alla religione e alla filosofia, con una fede e un' anbegazione che ricordano altri tempi ed altri costumi . Egli era già conosciuto per altri scritti di fi losofia speculativa e di diritto pubblico e naturale , quando nel 1830 pubblicò per le stampe una sua opera sull'origine delle idee la quale per la profondità delle dottrine , per la forza della dialettica e per l'erudizione non comune di cui è ricca nel fatto dell'istoria della filosofia, e massime della scolastica, merita bene di essere allogata fra le più importanti che in questi ultimi anni han veduto la luce. Gran danno che sia di faticosa lettura per l'abbondanza non felice e del lo stile e delle parole . Il problema che l'autore principal mente discute in questo suo libro è quello onde è travagliala tutta la filosofia, e che più specialmente occupa la moderna, dico la questione della realtà della conoscenza. Gran cosa è veramente cotesta che molesta siffattamente la scienza . Noi siam circondati anche a nostro malgrado da una tur ba infinita di diversi obbietti ordinati quale alla soddisfazio ne de' nostri bisogni , e quale a render lieti o miserevoli i pochi giorni che dobbiam passare su' lagrimosi campi della - 216 - terra , che pur tanto amiamo ed a cui niente non ci avrebbe da legare. Or chi mai ha dubitato della realtà di tutte queste cose ? Certo se a taluno venisse talento di farlo e di dubitar seriamente se esista la donna che egli ama , l' inimico che odia , le catene che legano i suoi piedi o l'oro che brilla nella sua scarsella , e' non si dubiterebbe pure un momento di di chiararlo mentecatto , e condurlo di presente all' ospedale dei matti . Or la filosofia si è condannata di buona voglia a du bitar di queste cose e ad ignorar quello la cui ignoranza fa rebbe stimar folle un uomo agli occhi de' poveri di spirito. Nè è da credere peròche vengada modestia questo dubbio della scienza , anzi è figliuolo della superbia. Conciossiache la filosofia non vuol già conoscere le cose alla guisa medesi ma che gli altri uomini, ma si bene rendendosi ragione e chie dendo una spiegazione possibile di tutto che l'uomo pud sa pere. Quindi è addivenuto che essendo gli obbietti esterni parte della conoscenza, la si è imposto il dovere di non cre dere diffinitivamente in essi , o almanco seriamente dubitar ne in fino alla dimostrazione. E però si è messa con una calma edificante a discutere la questione di sapere se ci ha niente che esista fuori dello spirito. Soventi volte le armi le son mancate per provar quello che volea sapere, e allo ra più presto che essere incredula a sè medesima o infedele alla sua divisa , ha consentito ad accettare il nulla con una rassegnazione da disgradare un anacoreta , e a conchiudere che il genere umano s'inganna visibilmente allorchè crede alla realtà delle cose . O alliludo ! Or l'opera del Rosmini è precipuamente ordinata all'esame di una cosiffatta quistione, a cui egli giunge incominciando da una rassegna istorica de' varii sistemi antichi e moderni che su lo stesso problema si son travagliati , i quali tutti esamina con gran sottigliezza e con mirabile profondità ed erudizione . Di scute da prima la quistione dell'origine delle idee nella mente; quistione strettamente legata con quella della realtà della conoscenza, e fa vedere in una maniera non tolta da altri , come i filosofi di lutti i tempi sono andati errati in questo , o per eccesso o per difetto , dappoichè alcuni non vollero riconoscere alcuna idea primiliva nello spirito , ed altri cre dettero di vederne in maggior numero che veramente non sono . Lontano dall'errore degliuni e degli altri , il Rosmi ni ne ammette sol' una , cioè ľ idea dell'essere , forma uni versale de' nostri pensieri, idea primitiva e necessaria dello spirito , la quale non ne suppone alcun'altra prima di sè , ma bene da tutte quante le altre è supposta , come quella che alla loro formazione è necessaria . Or su questa idea riposa la realtà delle conoscenze, sendo che essa rinchiude il con cetto dell'esistenza , anzi è l'esistenza medesima ; per suo mezzo noi possiamo giungere dal mondo de pensieri a quel lo dell'esistenza, da' concetti a ' fatti. Non io qui intendo di difender l' una ovvero l'altra opi nione, ma poichè mi propongo solo di raccontare, non posso tralasciar di riferire una opposizione cheè stata fatta alla teo riea detta di sopra . Quale si è la difficoltà arrecata in mezzo dagli avversarii della realtà ? Noi non sappiamo le cose , e'di cono, ma sì le idee che ne abbiamo; o come si passa all' obbietto da quella rappresentato ? su qual ponte si supera la distanza che è da un'idea ad un fatto ? Or la vostra idea dell'essere, si è opposto al Rosmini, non è punto diversa dalle altre , e indarno vi dibattereste a dimostrare che è di differen te natura; e, se è vero, come è, che la è generale e necessa ria , non è però vero che a differenza delle altre idee di que sta medesima natura , sia di per sè stessa obbiettiva e atta a porci in relazione con le cose reali . Sicchè l' antica quistione non è stata per voi risoluta , anzi rimane tultavia intera , po tendosi opporre all'idea dell' essere le medesime difficoltà che alle altre idee, non ostante i vostri sforzi per sostenere il con trario . Vero è che l'autore , dopo cinque faticosi volumi , con una rara, non so se io dica superbia o modestia , dichiara che non è leggiera cosa l'intendere la sua dottrina , e che egli in vano si è studiato, per l'impossibilità della cosa , di esser chiaro e intelligibile . Non tacerò che a taluno è sembrato di vedere nell' opi passa dall'idea 218 - e nione del Rosmini una pericolosa teorica da cui agevolmen te si può sdrucciolare nel panteismo . Ma a questo proposito fa d'uopo por mente a tre cose; la primache siffatte conse guenze senza fallo non sono state pensate dal suo autore , e che se egli giungesse mai a persuadersi che quelle legitti mamente si possono far discendere dalle sue opinioni , certo pon indugerebbe pure un momento a ritirarle. La seconda cosa si è che non si vogliono tormentar troppo le parole le sentenze degli scrittori per condurli in una maniera o in un'altra a certi estremi punti a cui quelli non vogliono giungere e a cui regolarmente non si potrebbe menarli sen za i sottili sforzi d'una dialettica che può divenire per que sto petulanti ; chè da tutto si può giungere a tutto. Ultima mente non bisogna dimenticare che il panteismo oggidì è lo spauracchio universale, e che troppo facilmente si crede di poterlo trovare in tutte le opinioni; e se è vero che parecchi de'sistemi moderni v’inchinano, è pure strano vederlo sem pre e da per tutto. VI . Terenzio Mamiani della Rovere del 1834 pubblicò in Pa rigi un'opera di filosofia intitolata : Rinnovellamento dell'an lica filosofia italiana. Oltre al nome dell'autore che già ri suonava nella nostra penisola , cotesto titolo contribuì non poco a chiamar l'attenzione dell'universale sul libro del Mamiani . Conciossiachè si credette di vedere certo orgoglio nazionale , e quasi una bella virtù cittadina nell'idea di ri chiamare in onore e in vita la nostra antica filosofia . La ste rilità pedantesca de' nostri filosofi non avea fatto escir le loro scritture dai limiti della scuola , e privatili così d' ogni ma niera di popolarità in un paese in cui gli uomini consa crati specialmente agli studii filosofici, non sono abbastanza numerosi, perchè levi gran grido nell' universale un libro di malerie così speciali ; ma questa difficoltà il Mamiani riesci a superar felicemente . Or vediamo qual sia la sua idea . - 219 I filosofi italiani del XVI e del XVII secolo , non solo sono slati primi nell ' ordine del tempo a incominciar la guerra contro la scolastica , da cui poi dovea venir fuori la filosofia moderna , ma ancora sono entrati innanzi agli altri per la profondità e dottrina con la quale seppero eziandio trovare il vero metodo con cui unicamente le scienze speculative possono giungere a glorioso porto, riconducendole all'osser vazion della natura , da cui le astrattezze della scuola aveanle allontanate; metodo di cui il pensiero moderno mena gran vanto come della più bella delle sue invenzioni , e della sola armecon cui sipossa giungere alla scoperta della verità . An cora fecero di più, e non contenti ad indicare altrui la strada che si ha da tenere, si posero animosamenle in quella , e ri ducendo ad atlo il pensiero del loro metodo , riescirono a crear de ' sistemi a niuno secondi di quanti ne ' tempi posle riori si son veduti venir fuori. In questi sistemi certamente molte cose sono da rigettare, molte da correggere e da mo dificare , ma molte sono eziandio accanto alle prime, le quali meritano ben altra cosa che dispregio e noncuranza . La fi losofia moderna avrebbe da studiare attentamente in quelli per tirarne tutto il buono che vi è , e far tesoro delle altis sime verità che soventi volte han costato a' loro scoprilori la libertà o la vita . Sopratutlo gl ' Italiani non dovrebbero lasciar perire sotto a' loro occhi la grande opera incomin ciata da' loro avi con tanto ardire e potenza di mente, anzi dovrebbero alacremente continuarla , e in vece di tener die tro astraniere filosofie e trapiantarle siccome piante di al tro clima della loro patria, dove mai non potrebbero alli gnare siccome frutto indigeno e nazionale, bisognerebbe che si adoperassero a tult' uomo di richiamarli in vita e risve gliar la nobile tradizione d'una scienza pur nata fra essi . Le altre parti del libro del Mamiani son destinate a svol ger la vera natura di questo metodo , che , secondo lui , è quello dell ' osservazione , il quale a molti può parere non acconcio a condurre la scienza là dov'essa dee pervenire , e che a me sembra egli confonda troppo con i procedimenti I delle scienze naturali. Ancora ne viene mostrando l' appli cazione a parecchie quistioni speciali , che egli si studia di risolvere seguendo per lo più le orme de' nostri antichi filo sofi. Per menon esaminerò sino a che punto i grandi filo sofi italiani del risorgimento abbian seguito il metodo di os servazione, siccome il Mamiani l' intende, nè se questo me todo, sì utile d'altra parte alle scienze fisiche, sia sufficiente alle metafisiche, chè cotesto mi menerebbe lungi dal mio pro ponimento e getterebbe in quistioni che non ho in animo di discutere ; solo dirò qualche cosa del proposto risorgimento della nostra antica filosofia . L'idea del Mamiani si è di ri chiamar in vita tra noi le nostre tradizioni filosofiche, per chè la scienza si abbia nella penisola un tipo veramente ita liano e un'indole nazionale. Egli è indubitato che ogni pae se ha da natura una particolar fisonomia,per la quale si di stingue da tutti gli altri , e che siccome è impossibile di can cellare del tutto così è vil cosa di non rispettare come up dono della Provvideoza, e di non custodir gelosamente come un sacro pegnocontro ogoi invasione straniera. Nè questa differenza d'indole si mostra solamente ne' costumi e nelle abitudini di ogni popolo, negli istituti e nelle maniere este riori della vita ma eziandio in un modo speciale di vedere e d' intendere e di rappresentarsi le cose . Gli obbietti sì del mondo fisico che del morale , si possono giustamente chia mar poligoni, in quanto che ciascuno ha molti diversi lati, e può , rimanendo sempre il medesimo , esser considerato in mille guise diverse , e produrre , secondo queste diversi tà , mille diverse impressioni. Or quanlo più le cose posso no essere variamente riguardate , tanto più vasto campo ha l'indolenazionale di ogni popolo di spaziarsi e mostrarsi aper tamente. Nella letteratura, per esempio , esercita vastissimo impero, perchè quella abbraccia tutta la vita , nè ci ha cosa che possa esser considerata sotto più diversi aspetti che la vita umana e i suoi infiniti accidenti , da cui ogni letteratu ra direttamente sorge , facendo ritratto dalle più intime qua lità di essa vita . Per contrario poi quanto meno di realtà è negli obbietti che cadono sotto la considerazione e Y opera dello spirito , e quanto più essi son semplici o astratti; tanto più si viene a restringere il campo in cui l'indole nazionale si può mostrare. Cosi, appena se ne può scorgere le tracce nelle matematiche e nelle scienze naturali, occupandosi quel le di astrazioni nude e di semplici concetti e queste delle qualità fenomeniche ed esterne de'corpi, quali cadono sotto i sensi. Ma altrimenti avviene della filosofia perchè i prin cipii comunque razionali di cuiessa si occupa, son pieni di vitae di valore, comequelli che debbonoservire alla spiegazio ne di tutti i fatti umani e cosmici dell'universo , dell'uomo e delle civili comunanze. Certamente non ci ha nè ci po trebbe essere una verità italiana e una tedesca, ma ci ha una diversa maniera per gli Italiani e per i Tedeschi d'intendere i medesimi veri , di considerar gli stessi fatti generali , sic come di dare più importanza a una specie di essi innanzi che ad un'altra. Di qui deriva che si può giustamente parlare d'una filosofia inglese, francese o tedesca , dicendosi, per esempio, che la tedesca èpiù idealista e razionale, dove che l'inglese inclina in quella vece a starsene più dappresso a ' faiti ed è quindi più sperimentale o empirica ; differenze che trovandosi nell'indole della scienza, mostrano che ci ab bia da esserne un'altra corrispondente nell'indole delle due nazioni. In questo modo solamente si può intendere la na zionalità della filosofia , sendo però necessario di far due os servazioni su tal proposito. La prima si è che non bisogna credere alla necessità di un intero isolamento scientifico , ov vero credere che ogni idea straniera possa esser contagiosa e opporsi al libero procedimento del pensiero indigeno e na zionale. La verità non è pianta che germoglia in un solo paese, ma in tutta la terra, nè è proprietà di un solo uomo o d'un solo popolo ma di tutto quanto il genere umano; ciascuno può trovarne una parte, e tutti gli uomini sono ob bligati di riconoscerla per tale, ove che la sia , e di abbrac ciarla e farle plauso e festa. E' bisogna cercarla da per tutto, e lo spirito allorchè è forte e sicuro di sè medesimo , le darà a sua insaputa quell' atteggiamento particolare ,e quasi direi quel colore morale cheèfigliuolospontaneo dell'indole di uno o di un altro paese. Laseconda avvertenza da fare è che ogni consiglio su tal proposito dee tornare quasi inu tile , e che quindi debba riescir vano il raccomandare ad un popolo di custodir la sua nazionalità nella filosofia . Basta es sere veramente un popolo sano e robusto e sentirlo e glori arsene per avere untipo da sè e conservarlo senza fatica, e quasi non avvedendosene , in tutte le parti della vita ed eziandio nella filosofia. Ma se un paese è debole e corrotto , se già ha perduto la sua indole nativa , i consigli de'dotti saran vani, perchè avendo quelloperduto la suaoriginalità nelle al tre cose,non gli sarà possibile dicustodirla nella filosofia più presto che nella letteratura , nella politica e nelle arti . Del resto ho voluto dir queste cose più presto a proposito del Mamiani che contro di lui perchè nè l'uno nèl' altro de' due rimproveri gli si può fare. Quanto poi all'idea d' incomin ciar la scienza ove l'hanno lasciata i nostri maggiori , certo gl' Italiani d'oggidi avrebbero ben torto di dimenticare i no bilissimi lavori de'loro padri e le dottrine onde hanno splen didamente arricchito la scienza , ma è da vedere se per far questo si convenga rinunziare a tutto quello che lo spirito umano ha scoperto in processo di tempo, perchè non è ve rosimile che sieno tornati vani tutti i suoi lavori per tre se coli e più. Credo che non sia questa strettamente l'opinione del nostro autore, ma domando se vi si potrebbe giungere partendo dalla sua. VII . Eccomi finalmente arrivato a quello de' filosofi italiani no stri contemporanei che è giunto ad ottenere una fama uni versale fra noi. Ciascuno intende che io parlo dell'abate Vin cenzo Gioberti, il cui nome da qualche anno risuona univer salmente dall' uno all'altro estremo della penisola . Quindi è che ciascuno si è creduto in diritto di dar la sua opinione e 223 11 giudicarlo a sua posta , onde egli si è trovato esposto a ' più contraddittorii giudizii , alla più inetta critica , alle noiose esagerazioni del dispregio ed a quelle ancor più no iose della stupida ammirazione. Quanto a me, nemico come io sono d'ogni opinione eccessiva che si lasci volenlieri ac cecare all'odio e all' amor di parte , a' nuovi ed a' vecchi pre giudizi , dirò franco il mio parere per un uomo di un merito grandissimo, quantunque io credo che sia ancor troppo pre sto per poterlo ben giudicare, e che di lui meglio i posteri che i contemporanei potranno portar sentenza , perciocchè intorno a molte sue dottrine bisognerebbe aspettare i suoi nuovi schiarimenti e la prova del tempo . Intanto per por tare in fin da ora un giudizio più o meno esatto di quello che egli è, sarebbe mestieri di esaminare sottilmente il suo yalore come scrittore, come filosofo e come politico. Io, se condo il mio istiluto, non posso toccare che pe' generali della due prime parti e quasi niente della terza . Come scrittore, il Gioberti appartiene senza fallo alla no bilissima schiera de'Botta, de’Leopardi e degli altri che in questi ultimi tempi han cercato, ritirando la lingua italiana a'suoi principii, di renderle l'antico splendore , la forza, l'e leganza e la vivacità che ammiriamo ne'nostri grandi scrit tori de'secoli passati , e che le aveano negato la fiacchezza degli animi e i pregiudizi comuni del secolo XVIII e de’pri mi anni di quello in cui noi viviamo , e che ancora regnano appo la maggior parte de ' filosofi di cui innanzi è discorso , la cui lingua , e più ancora lo stile , si penerebbe a crederlo italiano , e si direbbe compassionevole , se la pretensione non non lo rendesse più tosto ridicolo. Il Costapuò dirsi il primo che in questi ultimi tempi abbia trattato di filosofia con cor rezione di lingua ed eleganza di stile, ma oltre a questi pre gi , non si può dire che abbia nessuna di quelle doti che co stituiscono il grande scrittore . La medesima cosa può affer marsi del Mamiani la cui lingua è pura , lo stile esalto ed elegante ma invano si cercherebbe altro nella sua prosa . Il Rosmini , senza aver nè l'uno nè l'altro di questi pregi, è di una tale abbondanza, che e'si potrebbe comodamente ridar re alla metà i volumi delle sue opere senza chiedergli il sa grifizio pur d'una idea . Tull'altra cosa è del Gioberti nelle cui pagine si trova ben altro che purezza ed eleganza sola mente; qui è ricchezza smisurata , nobiltà e vera eloquenza , tanto che si potrebbe citar de' passi da valer come modello da imitare . Conservando il tipo originale e l'antica grandez za della nostra lingua , e’la tratta pur tultavia come la lingua d'un popolo che è ancor vivo , che ancora ha uno splendido posto nel mondo, e che forse a nuove e più luminose sorti è destinato da Dio . Chè nella nostra penisola accanto a quelli che nel fatto della lingua si lasciano andare ad ogni maniera di novità, ci ha degli altri che per paura di corromperne la natia purezza , non si vorrebbero allontanare da' limiti del tre cento , e si spaventano d'ogni innovazione , come se fosse morta la lingua parlata da ventiquattro milioni d'uomini . Niuno di questi rimproveri non può farsi al Gioberti, a cui niente manca per esser giustamente allogato tra gli scrittori di prim'ordine . Pure non saprei negare che, sia effetto del l'ardente immaginativa, sia naturale impazienza e difficoltà di contenersi , si abbandona talora un po ' troppo alla sua ine sauribile abbondanza, sì che si sarebbe inclinati a trovare il suo stile in certi luoghi aleun poeo declamatorio . Non su che spirito di sofisma viene talora segretamente a turbarne l' ordinaria chiaroveggenza , per modo che per volere aver troppo compiuta vittoria de' suoi avversarii e spingerne le opinioni alle più lontane e assurde conseguenze, scaglia con tro di essi ogni maniera di opposizioni e di ragioni e di ar gomenti , della cui perfetta convenienza si potrebbe talora dubitare. Ma questo non giunge ad oscurare per niente gli altri pregi grandissimi che sono in lui . Dalle cose che abbiamo così brevemente discorse intorno alla presenle filosofia italiana, si può vedere come i nostri filosofi, attenendosi strettamente solo alle questioni psicologi che , ovvero non osando che modestamente occuparsi di quelle di altra natura , si son tenuti lungi da' più alti problemi ontologici sull'origine , l' essenza e le leggi della realtà , quistioni in cui risiede tutta la grandezza e l'importanza della filosofia e che l'hanno sollevata a un sì alto posto nel l'antichità e nel medio evo. In questi ultimi tempi i Tede schi sono stati i primi ad avvedersi che la scienza si era messa per vie troppo ristrette , e che per renderle il suo antico valore bisognava senza più ricondurla sul terreno che altra volta avea occupato , da cui le modeste pre tensioni della psicologia l'aveano scacciata , e in cui solo potea incontrarsi con quelle quistioni che più potentemente importano al genere umano, e riacquistar così la vita e l'im portanza primiera. Quest' obbligo la scienza deve indubitata mente a ' moderni Tedeschi, quali che siano state le conse guenze a cui sono giunti . Il Gioberti ha tenuto il medesimo cammino , ma con mezzi alquanto diversi , ed è venuto a conchiusioni di ben altra natura . Anch'egli vuol giungere ad una scienza più compiuta che esca dalle aridità psicolo giche, e che, piena del senso della realtà e della vita, cerchi di pervenire alla causa prima e reale d'ogni causa e d'ogni fenomeno , riproducendo nell' ordine ideale della scienza l'ordine reale della generazione. Movendo dalla teologia cri stiana, egli si è sforzato di ricondurre la scienza all' ontolo gia , in modo da conservarla d'accordo con la religione, e in vece di adoperar come i Tedeschi che fanno entrar la reli gione nella filosofia e vogliono col mezzo di questa spiegar la , egli , per opposto cammino, seguendo i più antichisistemi ortodossi, ha voluto sottomettere la filosofia alla religione , in guisa che fosse questa obbligata a riconoscer da quella ogni suo valore . Il suo punto di partenza è una formola sin letica , la quale , benchè d'accordo col Cristianesimo , anzi, appunto perchè è di accordo con esso , spiega l'uomo e l'u niverso e le loro relazioni con Dio , onde poi discendę ogni ordine d'idee e di fatti, il pensiero e la natura , le società e le civili istituzioni , la scienza a l'arte . Io non mi fermerò su ' varii punti del sistema , nè sulle varic applicazioni che egli va facendo del suo principio , nelle quali dimostra una potenza di mente mirabile e delle conoscenze non punto ordi narie , ma non posso tacere che soventi volte, siccome è moda oggidì, si lascia strascinar troppo all'amore del sistema, e a certa smania di costruzioni a priori , le quali son certamente del dominio della scienza , ma che oggi si sogliono condurre fino all'esagerazione. Per questo rispello gli antichi mi pa iono ben superiori a 'moderni, perchè Platone ed Aristotile si occupano anch'essi di costruire l'universo a priori e per mezzo delle idee , ma sanno bene fermarsi alle generalità senza discendere a taluni troppo minuti particolari , i quali sfuggono alla scienza e non si possono senza esagerazioni far discendere comodamente da' principii generali. E chi sa se nell'universo , come nell'uomo, non ci ha un punto in cui l'impero assoluto della legge ha termine , e quello dell' arbitrio , del capriccio e dell'accidente incomincia ? Certo è giusto di volere co' principii razionali spiegar le leggi e le . generalità delle cose, ma è strano il pretendere di spiegare ugualmente i più piccioli fatti, la cagione necessaria e razio nale d'ogni avvenimento , d'ogni legge, d'ogni fenomeno, d'ogni istituzione, d'ogni onda che la forza de'venti scaglia contro le rive , d'ogni foglia che la brezza dell'autunno fa . cadere dal ramo ; allora si potrebbe ripetere il detto di Na poleone, che un brieve limite separa dal sublime il ridicolo . Vediamo ora qual sia la formola suprema e creatrice del sistema del Gioberti. Ogni filosofia , egli dice, la quale muova dalla nozione semplice e astratta dell'essere, dee necessaria mente smarrire la diritta via . Siffatla nozione , come quella che si può applicare al Creatore e alle creature, senza alcuna diversità, e che però nulla può produrre, conduce all'ipotesi d'una sostanza unica , cioè al panteismo. Ora la teorica del panteismo è falsa perchè non risponde a tutte le esigenze della scienza , nelle applicazioni non trovasi d'accordo con la vera natura delle cose, distrugge la morale, ed è contraria al cristianesimo che è la veritàperfetta ela parola stessa di Dio. Però è mestieri trovar modo di escire di questa peri colosa ipotesi, la quale ha potuto soventi volte sedurre le più belle intelligenze e i più profondi spiriti. Ove la causa che conduce al panteismo eziandio quelli che meno vi vorrebbe ro pervenire , chi ben guardi la troverà nel punto stesso onde muovono, giacchè la nozione dell'essere in astratto non può menare alla realtà. Per la qual cosa a fio di cansar l'errore , è d'uopo aggiungere all'idea dell'essere qualche altra nozione che sia nello stesso tempo primitiva e sottopo sta all'altra. Se non fosse primitiva rispetto al nostro spiri to , non potremmo acquistarla altrimenti, essendo la nozione dell' essere di sua natura improduttiva; d'altra parte se non fosse sottoposta ad essa nozione dell'essere e quasi da essa ingenerata, e' si cadrebbe io un dualismo assoluto non meno assurdo dello stesso panteismo. Ma fortunatamente è facil cosa trarre l'essere dal suo stato astratto , considerandolo siccome concreto e creatore , perchè l' essere così conside rato rinchiude in sè l'idea di un effetto, cioè di un'esistenza che non fa parte della natura di quello , ma che essendo un libero prodotto della sua volontà , è legato con esso lui mercè il vincolo della creazione . Per tal modo e ' si avrebbe un sol principio da cui partirebbe lo spirito , cioè l'idea dell' essere puro e necessario che crea l'esistenza contingente, e questa verità -principioprodurrebbe un principio-fatto, cioè la realtà dell'esistenza. Così l'autore invece di partire dalla nozione astratta dell'essere , è partito da quella dell'essere che per mezzo della creazione produce altre esistenze a lui sottopo ste, ed ha espresso il suo principio supremo con la formola: l'essere crea l'esistenza; e con questo mezzo ha evitato ilpan teismo , ponendo il concetto della creazione come il lega me fra l'essere assoluto e l'esistenze contingenti. Pur tutta via questo mezzo non è paruto a tutti soddisfacente; già non è mancato chi ha detto che il suo sistema era la teorica dello Schelling battezzata e fatta cristiana , ed altri altre difficoltà hanno arrecato in mezzo. Cone è egli possibile di costruire a priori una filosofia mercè diun principio il quale contie ne in sè un dato essenzialmente contingente e di fatto, quale è quello della creazione ? 228 Se si considera l'idea della creazione legata di necessità con quella dell'essere, e allora si cade senza più nel pantei smo, o almeno nella sentenza assai vicina a quello della ne cessità della creazione ; se poi si considera essa creazione come un fatto empirico e contingente, è impossibile allora di farla discendere dal concetto dell'essere , e dedurla da esso ; anzi , essendo essa libera e volontaria , il principio si dovrebbe esprimere altrimenti, dicendosi piuttosto: l'essere vuol creare l'esistenza ; nel qual caso potrebbe domandarsi : chi v'insegna questa volontà dell'essere ? domanda a cui è difficile di soddisfare senza cadere in Cariddi per evitare Scilla . Conciossiacchè se si risponde che l'insegna il fatto , la formola a priori è distrutta, e si cade in uo circolo vizio so , col quale si verrebbe a dire che l' essere ha voluto crear l'esistenza , perchè esiste , e che l'esistenza esiste , perchè l'essere ha voluto crearla . Se poi, mutando strada, si rispon de che non già il fatto ma la nozione stessa dell' essere rin chiude il concetto della creazione, e allora si giunge diritto , come inpanzi dicevamo, alla necessità di essa creazione. Non insisterò più a lungo su questa discussione, che, come tutte le altre , ho voluto toccar solo di passaggio, ma osser verò invece alcuna cosa sull'indole generale della dottrina del Gioberti. Nati in un tempo che è succeduto ad un altro di strani rivolgimenti ed inuditi rumori, e che ancora è in certo di sè medesimo e più incerto del suo avvenire , noi possiam dire di assistere al contrasto di due opinioni , le quali si disputano ostinatamente l'impero dell'intelligenza . L'una, che è la meno seguitata, è essenzialmente conserva trice, e non crede nè al presente nè all'avvenire, ma sogna caldamente il passato , i secoli scorsi e quasi il secol d'oro della favola. L'altra, che domina appresso l'universale, non ha fede che nel presente e nell' avvenire, dispregia e deride tullo quello che non è nato pur ieri, e ciecamente crede al progresso infinito delle umane generazioni , al cammino dello spirito sempre trionfanle e vittorioso. Il Gioberti non può essere accusalo nè dell'una nè dell'altra estrema opinione, e il suo modo di vedere e giudicar le cose può dirsi essenzial mente conciliatore dell'antico e del moderno. Non egli du bita che lo spirito umano cammini , ma non crede che lutto quello ci ha di bene sulla terra sia nato ieri ; nè dubita che lo spirito progredisca, ma non crede che ogni suo mo vimento sia un progresso; in somma il passatonon è per lui unicamente l'antecedente cronologico del presente, o un ca davere senza vita e senza importanza, anzi egli vuole che se ne faccia altamente conto come di cosa che contiene in sè i germi del nostro essere presente, e che non venga punto messo in dimenticanza nelle nuove combinazioni si della scienza e sì della vita pratica. Nè punto diverso da questo è il principio delle sue opinioni politiche, nelle quali ammira il passato ma non lo crede bastevole a corrispondere a tutte le esigenze del presente , ammira il medio evo in tutto quello che ha di grande, di nobile e digeneroso ma pon vuole per questo la ricostruzione del castello feudale; vuol bene che la politica italiana sia degna del nostro secolo ma non chiama ugualmente degne del secolo tutte le utopie . Questi sono i filosofi italiani degni di essere ricordati da chi voglia tessere un quadro dello stato in che trovasi oggi la scienza fra noi . Il quale , come si può vedere, se non è da esserne troppo superbi, non è neppur tale da doyercene ver gognare, perchè accanto a nomi mediocri o poco maggiori della mediocrità, se ne trova pure altri , come quello del Ro smini e del Gioberti, degni di fare onore a qualunque tempo e a qualunque paese. Un'osservazione però sorge natural mente da tutto quello che finora abbiamo discorso, cioè che se ci ha de sistemi e de'filosofi italiani, non ci ha però una filosofia o una scuola italiana da mostrar le dottrine domi nanti universalmente, poichè dottrine comuni veramente non ce ne ha, ma ciascuno ha le sue proprie , e nessuno giunge a diffonderle in modo da formare una scuola forte ed upita da contrapporre ad un'altra .La medesima cosa mi ricorda d'aver fatto osservare a pro posito del teatro , ove dicevo che ci ha bene de' drammi e dei drammaturgi in Italia , ma non un dramma italiano , da po terne indicare l'indole generale. Sarebbe lungo cercar le ra gioni di questo fatto , ma quanto a' sistemi filosofici, non può nascondersi che ciha un punto essenzialissimo in cui tutti o almeno i più importanti si accordano , e questo è l' essere ugualmente ortodossi e cattolici. I nostri antichi non erano generalmente così solleciti di trovarsi d'accordo con la reli gione , e spesso con le prigioni, con l'esilio e co' roghipa garono la pena del loro ardimento . Oggi in mezzo alla co mune eterodossia delle scuole moderne, e soprattutto delle tedesche , i filosofi italiani si studiano di mantener collegate amorevolmente la fede e il pensiero, la religione e la scien za , e compensano con la propria ortodossia gli errori de'loro predecessori , i quali signoreggiano oltremonti e trovano nuovi seguaci e arditi rinnovellatori massimamente nelle scuole di Germania . Certamente sarebbe cosa assurda il negare che la filosofia tedesca in questi ultimi anni abbia renduti straordinarii ser vigi alla scienza, e fattole fare de'passi che mai non saranno perduti per il pensiero umano. Certamente in que' sistemi sono altissime verità, profonde escogitazioni, fortunate e fe conde applicazioni a tutti i diversi ramidel sapere e della vita , ma accettarli interamente come veri è cosa enorme ed insoffribile. Insoffribile soprattulto per poi Italiani la cui mente è dotata da natura di forme troppo originali per sofferire qualunque maniera d'imitazione , senza che tosto ritorni in caricatura, ed al cui pensiero, naturalmente chia rissimo e bisognoso di realtà e di vita , mal si convengono le astrazioni soventi volte troppo vôte de' Tedeschi, e la col trice di tenebre onde al concello alemanno piace spesso di avvilupparsi. Oltre a ciò si potrebbe dire che assai male prova ha fatto la filosofia tedesca , quando dopo tante pro messe e sì grandi rumori , si è mostrata inetta a fermar niente d'intero e di durabile, e ora quasi venuta meno , tace profondamente , e quasi non ha un'idea o una parola comuni per farsi intendere, e le scuole deboli e divise internamente o più non vivono o vivono di una vita che molto si rasso miglia alla morte. Forse che il dottor Fausto ha ragione tut tavia di lagnarsi della loro impotenza e della vanità degli sforzi per esse fatti. Prima di conchiudere sentomi spinto come di viva forza a ricordare un nome, che pochi forse sanno e che niuno ha obbligo di conoscere ma che io non voglio tacere , solamen te perchè colui che il portava ora più non vive , e perchè al tra meno sterile testimonianza di amicizia non gli posso ren dere. Io non so se le poche pagine scritte da Stefano Cusani giungeranno a'posteri, e molto più dubito delle mie , ma de sidero che i contemporanei sotto i cui occhi potrà cadere questo scritto , sappiapo che fra’giovani che ora fra noi si oc cupano di filosofia nessuno forse fu fornito più di lui di mente veramente filosofica, la quale con più sodi studii e con la malurità degli anni avrebbe forse , anzi senza forse , dato frutti degni di vera gloria . Nè vorrei che di lui si giudicasse da quello che finora avea stampalo , perchè chi il conobbe può far giudizio sicuro di quello che un giorno avrebbe potuto fare se gli fosse bastata la vita. Non so altri che faccia bene e splendidamente sperare di sè , ma non dubito che fra tanti dovrà sorgere alcuno degno degli antichi e de' nuovi nomi , perchè giovami di credere, e i fatti mi confermano nella mia opinione, che la sacra fiaccola della scienza non sia , non che spenta, affievolita nella patria del Vico , del Campanella e di Giordano Bruno. Grice: “Gatti is a difficult one to catalogue – not at Oxford! He is a man of letters and action, by man of letters we mean Lit. Hum. And Gatti, being the snob he was, would rather be seen dead than referred to as merely a ‘philosoopher’ – He edited the Museo di FILOSOFIA e letterature – and his passion (if he had one) was Vico – and more, to criticse oters. He would not speak of ‘italian philosophy,’ but of ‘philosophy in Italia’! – He wrote on Rovere, and other philosophers – but he was always ready to grade them: “Genovesi, infinitely inferior to Vico” – Incredibly that this philosopher is talking the same lingo as Machiavelli or Dante!” – His exegesis of Vico is good – he refers to the Bruno, Campanella and Telesio as the celebrated triunvirato, and there are references to some obscure philosophers in his prose – about which he writes little to enthusiase his reader!” -- Stanislao Gatti. Gatti. Keywords: poetica, Vico, Filosofia Italiana, Scritti filosofici – implicature italiane – il vico di Gatti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gatti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gaudenzio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He wrote an important work on the theory of music that survives in parts.

 

Grice e Gaudenzio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia). Filosofo italiano. The philosophical interest of his essays lies in his discussion of natural law, for which he borrows from the Porch. He argues that through the use of reason anyone could come to a knowledge of his moral obligations.

 

Grice e Gauro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gauro appears to have been a pupil of Porfirio, who may have dedicated one of his essays to him.

 

Grice e Gedalio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gedalio was a pupil of Porfirio, who dedicated his commentary on Aristotle’s Categories to him.

 

Grice e Gelli – sulla difficultà di mettere in regole la nostra lingua – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Gelli; he is a difficult philosopher, in a typical Italian fashion, mixing semiotics, philosophy, philology, and literature! His reflections on Adam’s tongue (lingua adamitica) is genial – and he proposes a distinction, which I often ignored, as Austin did, between ‘sweet language’ (lingua dolce, qua expression, or materia) and ‘content’ (forma) – The issue was central for Italians: Tuscan Italian was THE lingua because it was the sweetest – at least to Florence-born Gelli’s ears!” “Ricordati un poco di Matteo Palmieri, che era tuo vicino, che fece sempre lo speziale, e non di manco s'acquistò tante lettere ch'e' fu mandato da' Fiorentini per imbasciadore al Re di Napoli; la quale degnità gli fu data solamente per vedere una cosa sì rara, che in un uomo di sì bassa condizione, cadessono così nobili concetti di dare opera agli studi, senza lasciare il suo esercizio; e mi ricorda avere inteso che quel re ebbe a dire: pensa quel che sono a Firenze i medici, se gli speziali vi son così fatti.”. Figlio di Carlo, un agiato mercante di vini originario di Peretola e trasferitosi a Firenze col fratello, nacque in San Paolo.  Esercita per tutta la vita il mestiere di calzolaio e studia filosofia da amateur – cf. Grice, “Gioccatore di cricket amateur e filosofo profesionale” -- Discepolo di Francini, Verini, 3 Ficino e poeta di ispirazione savonaroliana, e vicino alla filosofia piagnona, participa, anche se in disparte, alle riunioni dell'Accademia, agli Orti Oricellari. Fedele a Cosimo I, ricopre cariche pubbliche di scarso rilievo, dapprima in qualità di magistrato delle arti, poi come membro del collegio dei dodici Buonomini, organo consuntivo del governo mediceo. Membro degli Umidi. Ne approva la trasformazione in Accademia Fiorentina l'anno successivo e ne fu console. Ivi tenne la sua prima lezione, commentando un passo sulla lingua di Adamo, tratto dal canto XXVI del Paradiso di Dante. Tenne saltuariamente lezioni su Dante e Petrarca. Le sue opere più famose sono I capricci del bottaio, ragionamenti fra un bottaio e la propria anima (inserito nel primo indice dei libri proibiti) e La Circe, un dialogo fra Ulisse e i propri compagni trasformati in animali. Tra le tesi sostenute nelle sue opere vi sono quelle della discendenza diretta da Noè dei fondatori di Firenze, dovuta probabilmente all'influenza sul Gelli degli “Antiquitatum variarum volumina XVII”; un falso confezionato da Annio da Viterbo, e quella della superiorità della lingua fiorentina sulle altre.  --- nominato da Cosimo I lettore ordinario della Commedia presso l'Accademia e recita nove letture dantesche, pubblicate con cadenza annuale, che ebbero grande influenza sugli interpreti di Dante durante tutto il Cinquecento fiorentino. Altre opere: “L'apparato et feste nelle nozze dello Illustrissimo Signor Duca di Firenze et della Duchessa sua Consorte”; “Egloga per il felicissimo giorno 9 di gennaio nel quale lo Eccellentissimo Signor Cosimo fu fatto Duca di Firenze”; “La sporta” “Dell'origine di Firenze”; “I capricci del bottaio”; “La Circe”; “Ragionamento sopra la difficultà di mettere in regole la nostra lingua”; “Lo errore”; “Polifila”; “Lezioni pubblicate”; “Il Gello sopra un luogo di Dante, nel XVI canto del Purgatorio della creazione dell'anima rationale”; “La prima lettione di Gelli fatta da lui l'anno, sopra un luogo di Dante nel XXVI capitol del Paradiso”; “Il Gello sopra un sonetto di M. Franc. Petrarca”; “Il Gello sopra que'due Sonetti del Petrarcha che Lodano il ritratto Della Sua M. Laura” “Il Gello sopra ‘Donna mi viene spesso nella mente’ di M. F. Petrarca, Tutte le lettioni di Gelli, fatte da lui nell'Accademia Fiorentina, Letture sopra la Commedia di Dante, Delmo Maestri, Opere di Giovan Battista Gelli, POMBA, Claudio Mutini, I dialoghi morali di Giambattista Gelli in "Storia generale della letteratura italiana V", Federico Motta Editore, Delmo Maestri, op. cit.  Claudio Mutini, op. cit.  Giovan Battista Gelli, Dialoghi, Scrittori d'Italia 240, Bari, Laterza, F. Reina, Delle opere di G. B. Gelli, Società tipografica de' classici italiani, B. Gamba,, G. B. Gelli, La Circe, Venezia, Tip. d'Alvisopoli, G. B. Gelli, La Circe e i Capricci del Bottaio (Milano, Silvestri); A. Gelli, Opere di G. B. Gelli, Firenze, Le Monnier, C. Negroni, “Lezioni petrarchesche” (Bologna, Romagnoli); C. Negroni, Letture edite e inedite di sopra la Commedia di Dante, Firenze, Bocca, A. Fabre, La Circe di G. B. Gelli, Torino, Tip. Salesiana, M. Barbi, “Trattatello dell'origine di Firenze” di Giambattista Gelli (nozze Gigliotti-Michelagnoli), Firenze, Tip. Carnesecchi, A. Ugolini, Le opere di Giambattista Gelli, Pisa, Tip. Mariotti, C. Bonardi, Giovan Battista Gelli e le sue opere, Città di Castello, Tip. Lapi, A. Ugolini, G. B. Gelli, Scritti scelti, Milano, Vallardi, U. Fresco, G. Battista Gelli. I Capricci del Bottaio, Udine, Tip. Del Bianco. M. Bontempelli, G. B. Gelli. La Circe e i Capricci del Bottaio, Istituto editoriale italiano, I. Sanesi,Opere di G. B. Gelli (Torino, POMBA, R. Tissoni, G. B. Gelli, Dialoghi, Bari, Laterza,  A. Corona Alesina, G. B. Gelli, Opere, Napoli, Fulvio Rossi, Bonora, “Retorica e invenzione” (Milano, Rizzoli); A. Montù, “Gelliana”. Dizionario biografico degli italiani.  che essere scaciato e fuggito da ogni Àno, come s ifarebbe una fiera. A. tuparli come un filosofo Giusto; che l'inuidia è quela, la quale piu che altra cosa guasta il confortio humano; e tanto peggior i efeti produce quanto e la è in huomini piu ingeniosi piu valenti, ma egli e di gia alto ilsole, io nochetu tilieui, pieno.  0 wadi à le tue faccende, con un'altra volta ragioneremo di questo pius   ellamipare? sie. Orgliè troppo innanzi giorno à levarsi, questi fratiminori hanno questo costume, di sonar sempre il mattutino in su la mez sarameglioleuarji, machefaroiopoi, egli è tanto di quià leuatadisole, chemirincrefcera, ma iopotreiuedere, fel'animamiauolesseparlar meco. Anchoracheiocomincioadubitare, chefe joseguito ,elanonmifacciimpazzare, & non èdafarsebeffe, perche secondo me, tutiqueiche impazzano, impazzan' nel'anima, nelcorpo, et cosi faràforsequestamiaàmeseiole credo cosi ognicosa. Eccoelam' hacominciatoàdire, chesi puoesseresauioe dotto senza sapere lingua grea carolarinas che è nnacosaches' io la dicessi fraque stidoti moderni, iosareiucelatopropriocomeun. gufo, iopermenonho mai sentito dire, cheesipos faeferefanio in volgare, ma pazzofibenesetnon  OVELLA lasquiladisanta Croceco E una dimostratione grandißima d'undisagio nonpicolo, esarà dunque beneraddormentarsi unpocobenecheiltempochesidorme,ècomeper duto,anzièpocomeno,chesel'huomofufemorto, Operò S 0 an zanottechel'hucmoéapuntoinJulbuondeldors mire; benche àloro cheneuannoàleto comeipol tidae'pocanoia, niente di manco nell'uniuersa lefar . i fi   n'homaineduto huomoalcunochenefiaftatofat tostimagrande, se non sa qual cosa in grammatica; ficheiononleuòcosicredere, maio potreiforseno l'hauereinte sabene, e' fara dunque meglio uedere seelauolese ragionare al quantomeco, & potrò dimandarnela, Animamia, ò anima mia cara, uo gli ãnoi fauelar'ancshotamane un poco insieme A. Di gratia Giusto, che io non ho piacere alcuno maggior di questo perche mentre che io miftòraç coltainme medesimaà parlare teco, io nounengo astare occupatainque I concetti nili, & bası, che tu hai la maggior parte del tempo; ne manco t’ho a ministrare spiriti et forze, finare quei tuoi zoccoli, et que i tuoi bariglioncin. iG. Io non mi marauiglio punto di cotesto, che io lauoro anchora io malsolen tieri; anzinonfo cosa che misiapiugraue, ale i non che melo fafarela maledettfaorzy, io non darei mai colpo. A. Er chevoreftitu? startisempre, Guruerotiosamente? G. No, mai o consumerei al tempo in qualcosa, che mi diletafsejd oue i lavorare mied'affanno et di fatica. A. Opensaquelo che egli è àmè, essendo molto piu contro ala natura mia, che a la tua. G. Io non sò cotefto, coueggoche Idioda pocihe l'huomo hebbe pecato, uoledodar glipartede la penitentia, cosi come egli haue uada. toala donnail partorir con dolore; gli diffestuman geraiil pane del sudore delupleotuoj dando gliilla   let poco a poco nel opinione mia. O tuti marauigliaui, quando iotidicena ľaltro giorno, che egli eraprufa tica, à un huomfoareunpaiodizoccoli, che Ai Ahahuediuedi, che tuuienià vorare per la piu graue, & piu faticosa cosachpeo To tessedargli studiare mezo Aristotile, eccolaragione; tu l'hardetta da uuere. A. Eglièiluero, ma il fato la sta contentarsidi quelo che è necessario solamente non cercare il superfluo, che è quello, che reca cada mille pensieri di futilià l'huomo, & lo tiene sempre occupato in terra, negli lascia maialzare la facia ra, acontentarsi del poco; perche chifacosigurue con pochi pensieri ,et è lieto il piu del tempo uatoinme, quãtomisiastatoutile il contentarmi di o quelocheioho, accomodandola uoglia a la fortuna, be et se io hauesi uoluto uiuer, òueftir meglio, e' miera a forza, òfar qual cosa dishonesta, ò andarastarecon me altri. A. Mal per i gran maestri, Giufto, feglihuo 2.1 il gode al  1 da teàtes per che lo studiare e naturale, Qvé pro Pas prio del'huomo, gloinuiaala perfetione sua, & bra 'illauorare gliè'una penitentia. G. E bisognapur ancohauer alcielo; dondeusc iprimieramente l'animasua, eo - doueeladesideradiritornar'; & fappi Giusto che il maggior bene, & la piu util cosa che si possa faro agl'huomini in questa uita, è'auezarglia buon'ho pernondir o sempre, G. Io lo credo certamente perche io ho pro minifussindicotestauogliatuti, che bisogn arebbe pochicheglirestano, ul mendo inferuitis per ogni picolo prezzo, laqualeco Sa non solsegia farequel sapientissimo filosofo di Diogene, che   cheesiseruissinda loro, perche e'non sono se non le moglie immoderate, ò della degnità, ò del poter ben mangiare, & bere suntuosamente uestire; che fanno, cheunb uomo ,che ragionevolmentepuoui uereunsessanti anni (dequalinedieci, ò dodecipri mi, non conosce quelche èfifacia; & delrestone dorme la metà) uendeque essendogli detto da Alessandro Magno, che eichiede sequellocheuolena, Orche tue togli sarebbedator ispose cheancorche fussi cosi ponero e'non gli mincaua cosa alcuna, machesegle leuaffed'innanzi,percheglitoleusilsole,laqual cosanonerainpotest:suadidargli. G. Certa mente che il dependere da se stesso e'una cosa bellissima, etuorrebbesieseramicode signori, minor giaseruo,honorandoglioubbidendogliperòfem pre,comequeglicherēgonointerrailuo godi Dio, et quando un puruuole innalzarsi, debbecercardi farlocon le virtù,& non conferuire, pensando non di mcno, chien ogni stato, glihabbiaà mancarjem pre qualcosa.A. Non tidoleradun quedeltuo; & sappi certamente che non è stato alcunoin questo mondo, douenon sia qualche incômodo, &aqual che cosache dispiaccia altrui. ne sipuoritrouareal cuno, checometuhaidetto, nonglimanchiqual, chetutiglistati daglı huominiera noàunmodo; Et diceuaàciaschedunoman caso lamenteunacosa,e quelleprimieramentedeside ra.Verbigratia, unpoucrostropiatodesiderasola mentediesersano, dapotereguadagnarsilauita, pernonhauereàireaccatando; chréfano& non hanulla, hauerdichepoteruiuere; per non hauerà lauore; ch ihadicheuiųere commodamente, has uer tanto che ei possatenere una caualcatura c u u nragazzo, & chi haquestohauer qualchedigni tà, à maggioranzasopraglialtri; & dipoessere Principe, & chi e Principe finalmente, potereper petuarsiinquello Stato, & nonhauereàmorire. A. Non'tidolereadunquetu, dihauereà lavorare un pocosedognunomancaqualcosa. G. L ha sereà lauorareunpocosarebbeunpiacere, mafem prezcomehoàfareio, chehopocoènulla;e >  cosa. G. Con questa ragioneuoleuagiaprouare unoamicomio 'undi Spetto. A. Eccochetufaipurancortu,comegli altri, m a dimmi un poco che uorrestitu ? che ti manch'egle? A. Cinquanta ducatid’ıntrata. & staremmipoiaffaiacconciamente. A. E quandotuhaueßicotestoanchorpoitimanchereb bequalchealtracosa,e desiderereftıla, cometu faihorquestaperchecometuhaidetodatsetesso, inqualsiuogliastato, sihasemprequalcosainanzi agliocchi, chseidesiderapensandocomel'huomo 79  tha, dhauersiacontentare; nientedimancopoi quandotul'haitunonticontenti, macomincia. de siderarneun'altra; ficheprudentementediseun trattou nuostro Cittadino, aunocheentrauainun disordinegrandissimo per comperareun podere', cheglieraaconfino.Tudonerestipensare, chetu haihauercanfini, e checomperatoquesto, tun'ha raiaconfinoun'altro, delqualetíuerralamedefi 2 ma uoglia.G. Iocredocertamente, cheinogni statosiadepensieri; mapiue maggioriinuno cheinun'altro. A. E' non è gia il tuo undiquegli chen'habbiao demaggiori fidianzifudatoal'huomoperpenitētiadesuoipeç Cat . t A . si di quegli ce hanno le uoglie disordinate, & chenon sicontentanodiquclchesiconuie nealostatoloro,comehauena Adam , quandogli duuennequesto,maachisiaccomodail camminar patientementein quellauitacheeglièstatochia mato;nonauuiengiacoli, G. Comenò, hauen doioaniveresolamentedellauorare, checom’iodir 2 , qualpuoeserepuidolce cosa, cheuiueredella faticadellesuemaniwediche Dauit Profeta ch'erapurRe, cometusai, chiamò questifimilibeati, & fappifinalmentequesto,che quantepiucosefihajatantepiufihahauercura; Brèmoltopiugraue & faticosoilpensierodigo Hernarelecosesuperflue, cheladolcezzadelpolle derle; & quantipiuserpiòpiulaworatorisihatan tipin , cheognibuo mon'haunramo; benfai, che èl'hamaggioreuno cheun'altro; Ma ecciquesta differentiadaifaui,a imatti; cheifauiloportancoperto, & ipazziin manodifortechelouedeogn’uno. G.Ehtuuuoi tábaid.A. Stafermo, iotelouoprouareinte stesso, quanteuoltefetuandatoaspasopercasa,po nendoipiedinelmezodemattoni,& cercando, conognidiligentiadinon toccareiconuenti? G. Omilleuolte,& fommiposto à contarei corenti del palco,& àfareseialtrecose da bambini.A. o dimmiunpoco, setuhauesifattocotestecosefuo riifanciullinontisareb boncorsi dietro, comefan noàipazzi? G. Permiafe, chetudiiluero;car non uòpiu negare dinonhauere ilmio capriccio anch'io;anzitengohoraperuerißimoquelprouen bio,cheiohopiuvoltesentitodire, che tiprunimicisiha,comebendiceuaquelPhilosofo, Mi lasciamoandarequestiragionamenti,e'mipa rechenoin'habbiamoparlatoàbastanza, Tornia moun pocoàqueglidihiermattina,chenoilasciam 2 momperfetti; perälchetudubitauidianzi,chese tumicredesi,ionontifaceßitenerepazzo; come seancortunon'hanesilatuaparte,comeglialtri. G. Otoquest'altrafeelatipiace;cheuorraitu dire, cheognounosia pazzo? A. Pazzono; Ma che ogn'uno ne sentasi. G . O questo è quafi quelmedesimo. A. Sappi Giusto .0 sela pazzia F  A. lotiuodireancorapiula, chetutrouueraipo chihuomınıalmodochehabbinolasciatofama, che setuconsideribenelauitaloro, nonhabbinoqual cheuoltaportatoilramoloroscoperto,maperche ceglieriuscitolorobenfato, nesonostatilodat,ima iononuòchenoifauelliamopiudiquesto, torniamo alragionamentonostro, dimmiun pocodondehar tusaputo,chenonsaigrammaticaa nonhaistu; diato,cheilauorarefuffedatodaIddio .G. Si quanto à le parole; maapenetrar poibeneisensibilogna altro. A. Eibafta, che tunonharestidificulànelintendereleparolė; masolamentenella inteligentia de'fenfi; laqual cosasel'hanno ancor quegli, che le leggonoingre coo in latino che tu non ti credesiche dereunalinguayé's’intendinoancututigliAu. tori,tuttelescientiechesonoinquela,perche àfarequesto, bisogna l'aiuto de preccettori de  fuffeundolorein ogni casasisentirebbe stridere.'! ,anostropri mipadriperpenitentia& paritionedeladisúbi dientialoro? G. O non losaitu,chelaitanteuol teletomcoquelitBibiacheioho.A. Ocomela intenditu? G. Perche non uuoitu cheiolainten da? non sartucheel lae in volgare? A s i sò. G. Operchemenedomandi? A. Perfarticonfeffa requelchetuhaidetto,eccodunquecheselescien tic, & la feritura facra fußıno in uolgare,tulein tenderesti per inten. 2   you  4  2 gli interpreti, anche pors'intendono con fatica grande, simile auuerebbe medesimamente, s'elefußınoinuolgare; maamebastaperhora, chetuconosca, chenonsonolelingue,chefanno glihyominidoti, malescientie;& che le lingue s'imparano, per acquistar le sciencie, che sono in quelle. G. E tperò non si puo egli esere dotto senza intendere la lingua latina, douee lefontut te, cheuuoituim parare nellanoftra A. Mera 1 cede Romani che ne le traduffono, se la lingua Latina ne è ricca; & colpa de Toschani, chenonhan no maifatto conto de la loro, feelane è pouera: G. ilfatostà, felacolpaviendz la lingua, che non sia tanto copiosa di uocaboli, ch'elenon nifi poßinoscriuere. A. Oefe ne fa di nuouo; e mettonfiinuso, dimanoinmano secondoibiso-. gni.G. oèeglilecitofarede le parolenuoueina un alingua? A siinquellechenonfono morte; G dacoloro solamente dichielefono propri.e G. Etqualichiamitumorte? A. Quelle che non siparlano naturalmente in luogo alcuno; comeso-, nohoggi, la greca, e la latina, e in questaàco lorocheniseriuonpoer non esere elalaloronatit à propria, non è lecito fare parole di nuouo. G. O percheno nè egli ancor lecito à queiforestieri,che la fanno? A. Perche non elsendoelalor naturale; non lefanno in modo chel'hab in gratia,   se la natura producesse tutte le sue coseper fette, non bisognerebbe l'arte, & fel’artepotese farle perfettedasestessa non bisognarebbe lana tura,machebisognapiu,non , e gli Hebrei dagli Egitti, non haitumar sentitochee'no si puo dire cosi alcuna che non sia stata detta prima mai Romani, chi erano altri huomini, & d'altro giudicio, che non sono hoggi I Toscan, amandopiuleca   Ponmente alcuneche n'hannofattecerti moderni nella nostra, comemedesimitàgioucuolezza, mar, cigione& fimili.G. Tugiudichiadunqueche nonsarebbeerrorefarnenellanostrae? A. Non dechilaparla naturalmente, anzisarebbecosalo-, deuole. Dimmiunpoco, credituchelalinguagre ca, òlalatina, fusincosiperfete & copiosediuoce. bolidaprincipio, comeelefurnopoi nel colmoloro, & quando fiorirnoinlorotant ipregiati scrittori? G 'No ncredere. io. A. Sianecerto,perchee nonsiritrouacosaalcuna 2 fra queste che sonoeserci tatedanoi; chesiastatenelprincipio, òprodotta perfettadilanatura, òritrouatada l'arte;perche sequestosipotesefare, l'unadilorofarebbeinus no; che fecionoancordelepa rolenuoue Cicerone Boetio seeuolseromettere. Nella lingua Romina le cose di Philosofia, & di Logica? G. Che le cauorono da altre nationi? A. Bensaichesi. G. Etdachi?A. Dai Greci, Eri Greci lhebbeno daglı Hebrei   OPINTO  feloroproprie (comeègiustoragioneuole)che Paltrui, studiauansolamentelelingueesterne,per Canarne, seuieranulla di buono, arrichirnelai loro. G. Inueritàcheinquestomiparecheefuf finomoltodalodare. A. Ricercaunpocobene tuttelecoseanticheconuedraichesitrouapochis fimi Romaniche .G.Inquestomeritonoeglinoalquantod'ef ferescusatinonessendo come tudiquella la lingua loro.A. Anzimeritono d'essereripresi doppiamente, non ti ricord aegli haucrmai sentito dire cheM. Catoneleggendocerte cose scritedaA l bino Romano in lingua greca, t& rouādonelprin cipiochesiscusauadelnonhauerlescriteconquel laeleganzache doueua, dicendoche era cittad in. Romano Ornato in Italia, e molto alieno dalla lingua greca; non, o lofare. G.Veramentechequestesonoragions tantouerechei opermenonsapreicontradirti. i A. Vedi quanto I Romani cercauano di nobilita rela lingualoro, che e' non istımauanomancolar recareinquelaqualchebela opera,chesotopore, scriuesjein greco,comfeannoque fli Toscani in latino, chenonè la lingualoro. perche faccinoquantoeifannoeinonfiuedemaineiloro scrittiquelcandore,ne quelostilechee'neilatini proprii 2 . solamentenonloscusò;masene vise, dicendo herAlbino,tuhaiuolutopiurostoha wereàchiedereperdono d'unoerrorefato,cheno > 3    coloroiqua lihaueuasottopošoconlaforzaqual che Cità,è qualche prouincia àl'imperio Romano.G. Oani mieapensieriueramentesanti,& parole degne d'un Cittad in Romano, perchel'ufitiouerode Cnta dinièsemprein qualunchemodosi puogiouareàla patria ala qualenoinonsiamomanco obligati, che, apadrıQ àlemadrinostre. A. Et perquesto è hoogiinpregiotanto la lingua loro, cheritrouan dosiinquellabuonapartedelescientie,chiuuole, acquistarle,bisognaprimacheimparı;quelladoue, seinostri Toscanitraduceßinomedesimamětequel lenellanostra,chidesiderad'imparare,non hareb, beaconsumare quattroòseideprimisuoimigliori anniinimparareunalinguaperpoterpoicolmez: zodiquellapassarealescientie,oltradiquestolefi imparcrebbonopiufacilmente conmaggiorfis curta, perchetuhaiàsaperequestocheenons'im paramaiunalinguaesterna, inmodocheelasi  plega bene,comelasuapropria, & fimlmente  al'imperiolovoqualche Cità,òqualche Regns, chequestosiailnero, leggafiilproemiochefaBoe tionellasuatradurrionedepredicamentideAria, Storiledouee 'dicecheessendohuomo consulare, et non atto à la guerra ,cercherebbe di instruire i fuor Cittadini conladottria; chenonfperaudmeri faremanco, neejeremenoutileàquegli,insegnan dolorol'ari de la greca fapientia,che 2 e 2   non si parlamaitanto sicuramente,necontantai facilità,a setunonmicredi, pontrenteaquesti. chetuconosci, chedannooperaà la lingua latina, chequandoe’uogliono parlareinquellaèparpro-, priocheeglihabbinoàaccattare le parole, contan-> tadificultà, etantoadagiofauel'ano. G. Tudi; ilnero, maquestodeRomanifucertamenteunmo) dobelissimo, àtradurenellalingualoro,dimolte cosebele; acciochechedesiderauaintenderlefuf se forzato à impararla, cosielaueniseàfpar-, gersipertutoilmondo.A. Enonfecionsola mentequesto; mainmentrecheétennonol'impe riodelmondo,eilafaceuanoancoraimparareàla maggior partede loro sudditi quasi per forza. G. Et comefaceuano? A. Haueuano fattoperlegge, chequalseuolesseimbasciaderenonpotesseellere uditoinRomaseeinonparlauaRomano, oltre àquestochetutelecauseche perla qualcosatuti Nobili di qualsiuogliare grone, & tuttigliAuuocati,& tutti Procura forieranoforzatiadimpararla.G. Oiononmi marauigliopiucheRomadiuentassesigrande,fe. Teneuan diquestimodine l'altrecose. A.Diquelo nonuoloragionarti, perchelecosebelle che causa noditutoilmondo, ne fanno chiara testimoniázs:  11 EMA 3 siagitauanoinqual a fiuogliapaese, sotoiloroGouernatori,& turtii i procesisi douessino scriuere in lingua Romana; F irü   .nessuno chescrinese in Egittio, ne. Greco chescriuefle in Hebreo,ne Latino (come io t'ho deto)chsecriueffeingreco,f& e purecen’e's nostatisonopochissimi,G.Odondehannocauato aduncheiToscaniquestausanzadiscriuereingră matica, perdireamodotun A. Daloinordi natoamorproprio,n o n delapatria,òdellalin gualoro,imperòchecofifacendo,fisonocredutief Jerestatitenutipiuualenti   àchiunqueleconfidera.G. O costume'uerämen telodeuole, ò Citta diniueramenteamatoridellapa trialoro.A. Oquesto costume Giustononfuso lamente de Romani; madituttelealtregenti:cer capurequantotuuoi, chetunontrouerai quasi mai Hebreo me quel Medico che iobaueuagia?ilqualeperpa rore dotto, mi ordinaua certe ricctte con certinomi tanto difusati, chemifaceuonmarauigliare, infra lealtreiomi ricordounamattina chemiordinòno sochericetaperquelapostemationfeaicheroheb bi,doue infral'altrecosene n’entrauauna, chee' chiamaua Rob, un'altra Tartaro,e un'altraAl tea, per le quali mi credettii oche bisognasse mandare pereseinqueste Isolenuouega porlunaera. Sapa; l'altra Grommadebotte, conl'altraMal ud.A. Otulhaipropriodetto Giusto, concofil mondo, fetuconsideribene,nonèaltro,tutto,che unaciurma, mafer Toscani attende fino a tradur. N . G. Chefannoe',co > 2 2   relefcientienellalorolingua, 10nonfodubbioalcu no, cheinbreuissimotempo, elauerrebbeinmag giorre putationecheelanonè, percheefiuedeche zao bontà gliauuiene solamenteperlabellez.   2 me elapiacemolto, G ehoggimoltoatesadefide rata ,& questo fuanaturale,laqualcosanonconoscen doiforestieri, ben sepessocoluolerlatropporipulire laguastano,ondeauuienproprioàlei,comeà unadonnabela, checredendosifarpiubellaconil lisciarsi,piufiguasta.G. Ocomepuoauueni-. requesto? A. Dirottelo, mentrecheecerca noperfarlapiuornata di fareleclausulesimilia quelladelalatinaevengonoàguastarequelasua facilità & ordinenaturale, nelqualeconsistela bellezzadiquella, oltreaquestopiglierannoal cuneparolenfatequalcheuoltadal Boccaccio, ò dal Petrarca, benche divado, lequaliquantomancole trouanousatedaeßi,tantopaionolorpiubele; co efarebbongouari, altrefi, fouente, adagiare,fouer chio,& fimili, perchee'nonhannopernatura neiluerosignificato,neiluerofuononell'orecchio, le pongonquasiinogniluogo@bene spesofuor dipropofito, & cofileuengonoàtorelasuabel lezzanaturale. G. 1odubitochefee'nonglisan noimmitarein altro,e’nonsipossadirelorocome dise PippodiferBruncllescoà Francesco dela Luna, che uolendosiscufared'unoarchitrame,ch'e   olihaueuafattosopralaloggiadegl'innocenti, chelaruvigneinsino in terra, coldirechel 'haueua Cauatodeltempiodesan Grouanni,glirispose,tu, l'haiimitatoappuntonelbrutto.Maselalinguae diquella perfettionechetudizdonde uiene, chemot tidiquestiliteratibiasimantantocoloro,chetra duconoqualcosainquela? A : Etconcheragio mi? G. Diconchelalinguanonèatta,nedegna chesitraducainleicosesimil, & chesitoglielo void riputatione, & auxilisconsi molto. A. Tut tele lingupeerle ragioni che io ti dißi dianzi, sano atte ad esprim e r e i concetti, G i bisogni dico lo socheleparlano;& quandopureelefußınoal trimenti,queichel'usanolefanno,sichenonmial. legare piuquestascusa,cheelanonuale.G. O qualcagioneadunchepuoesere,cheglimuonaa direchelecoseche   liscono, fitraduconoinuolgarefiauui & perdondiriputatione? A. Quellache iotidissi l'altrogiorno,cheeracagioneditantial trimali, malainuidiamaladetta,e ildesiderio ch'egli hannodeesertenutidapiu degli altri. : G. Certamenteiocredochetudicailnero,perche iomiricordocheritrouandomiaquestigiornidoue eranocertilitterati, & dicendounocheBernardo Segni haueuafattouolgare la Rhetoric ad Aristotele, unodilorodise cheeglihaueuafatoungran male; & domandacodelaragionerispose,perche:   enoistabene,ch'ogniuoloarehabbiaasaperequel lo, che un'altro fiharaguadagnatoinmoltianni congranfática;supelibrigrec. latini. A.O paroledisconuenienti. Iononnodirfolamentea u n Christiano, ma a chi u n c h e é huomo, sapendo che quanto noisiamoobligatiadamarciascunocagio uarcl'unà l'altro, etmoltopiual'animachealcon poalaqualenonsipuofarmaggiorbenechefaci kitargliilmododelointendere.G. Maftafalda e mi ricorda chediconoun'altracosa.A. Etches G. Diconochelecosechesitraduconod'unalingua inun'altra, nonhannomaiquellaforzanequella bellezza, cheele hannonellaloro. A. Eleron hannoanche quellanellaloro, chel'hannonel’als tre,percheognilinguahalesueargurie,& lefue. capresterie, laToscanaforsepiuchel'altre,et chinenuol sedere,leggadoue Dāte,òrl Petrarcha handettoqualcosachel'abia anchoradetoqual che Poetagreco, òlatino,etuedràchepassaronlor dimoltevolteinnāzi,etcherarissimifonquelliche Jonrimasti.adietro.G. Si,maneletradutionifa debbe attēderepiualsensochealeparole. A.1056 che si traducepercagionedelesciēze, etnõperue. Derla forzaèlabellezzadellelingue, etse'non  gr | fur fecofiiRomani,cheteneuonlalorlinguaperlapru bella del modo,nöharebbonotradottolecosediMa goneCartaginese,& dimoltialtrinela loro, nei   nonlofaperaltro,senonpen chelecose fueessendoconferuaredallelettere,che non uengonmenoleuoci,fienointesedatuttoil mondo G. Tugiudicheadunchecheilcondurre lescientienelanostralinguafiabenee?Ai An ziaffermochenonsiposafarcosapiautilenepin lodeuole, perchelamaggiorpartedeglierrorina sconodal'ignorantia,& douerebbonoiPrincipiat tenderci, conciòsiachesienocomepadridepopolis Etalpadrenons'appartienesolamente  Grecfimilmente chfeurontantsouperbi,& tan 92 tofiuana glorianadellaloro,chechiamanontut tialtrebarbare,quelledegliEgittij;odeCaldei. Nientedimancoesidebbecercareneltradurre oltreal'eferfideledidirlecosepiuornatamente chesepuo,eoperòènecesarioaunochetraduce Saper benel'unalingual'altra,G dipoipoffe derbenequelecose,òquelescientiechseitraduco 30, perpoterledirebene Gornatamentesecondo imodidiquellalingua, percheàuolerdirelecose inunalinguaconimodidel'altre,nonhagratis alcuna,da se questofioferuaffe,iltradurenonfaa rebbeforsetantobiasimato- G. E diconooltredi questochesifacontroal'intentionedel'authore. A. O comepuoesserequestochesifacontro àl'in tentionedellauthore.A. Ocomepuoessereque Stose chiunquescriue gouernare ifigliuoli,mainsegnarloro coregerli, seno   2 STŮ VINbyCo. 93 noglion farquestoditutelecosee'douerebbonals mancofarlodiquele chesononecessarië 2 e .G.Et qualisonqueste? A. Leleggi,cosilediuineco mele humane. G. Et cheutilitàarecherebbeque stoaglihumani?A. Comecheutilita! quantofa rebbonoeglinpiuamatori& piudefenforidele coseappartenentialaReligioneChristiana?sele cominciasinoàleggeredaputi,etdimaninma nofi esercitasinoinquele,comefannogliHebrci; la qual cosa non si puo fare, non leh auendob entrở dotteinuolgare,& beneacconcie:G Nonma rauigliafeglihebreifannotutisiben'parlaredel lecosedelaleggeloro,òuadinsiàuergognarei Christiani, che insegnonleggeredilorofigliuoli ò insule letere di mercantia,òınsucerteleggende danopoterimpararuisucosanessuna;doueedoue rebbonolaprimacosainsegnarloroquello,cheap partienea l'esere Christiano,sapendochequeleco sechesimparanoneprimianni,sonoquele,chesi ritengono sēprepiuche l'altrenella memoria.A. Etoltreaquesto,conquantapiureuerentia, attentionesisarebbeàgliuficidiuini  see's’inten defequel chedicono. G. Certamente che questo èuero. A. Dimmiconchediuotione,òconcheani mololo danogli huominiIddio,nõintendendoquel chesidicono,tufaipurilfauellaredeleputte,ca de papagalinonsichiamafauellare;mammita   gratiadisam Girolamochetraduseloroognicosainquellaline gua; comeueroam. Store della patriafunt.G. Cene tamente Animimia, chequestainaopinionemi piacemolto.A. Ellati puòpiacerecheelaé'an choradi Paulo Apostolo, chescriveàCorintiche doueuonoancoresidirealcuniloroofitijinhes breo,com.diroloidiora Amen,sopralabenedition uostra,seeglinonintendequelchesidice che fruttonecauerae’mu? G. o dachevenne adun que,chequandoquestecosefuronocanatelaprima uoltadihebreo,elenonfuronomoffeinvolgare? A. Perche all'horaperlamescolanzadelemolte gentiBarbare,cheeranoinqueitempiperlaItas tia, noncieraaltralinguachelalatina,laqualefuf seintesa,quafipertutto,Guedichee'nonsitrous  fcrituraalcunadiqueitempifenoninquestame  tione di suonosolamenteperchee'nonintendono quelcheesidicono(conciosiachefanelareproa priamentesia esprimereparole,chefagnifichinoi conceti, quello, cheintendecoluichefanela) adunqueilnostroleggere, òçantaresalmi,nonin tendendo quelchenoicidiciamo,èsimileaungrac chiarediputte,ècinguettaredipapagallinesoia ritrouare alcunaaltrareligionechelanostra,che tengaquestimodi,imperòchegli Hebreilaudande noiddiainhebreo,i Greci,ingreco;iLatini; in latino, conglisciauoniinistiauone,  volgare, cosilesacrecomeleciuili.A. Dala maritia de Preti, defrati,chenonbastandolos roquellaportionedelledecimechehaueuaordina, toloroIddioperlegge,àuoleruiuertantofurtuo: Jamente comee'fanno,celetengonoafcolecce deuendonoàpoco poco,comesidiceàminuto, inquelmodo, peròchee'uogliono,spauentandogli huominiconmillefalfiminacci, iqualinonsuonan cosinelaleggecomeegliinterpretano',dimas niera che egli hannocanatodimarioà pouerises colaripiuchelametadiquel >  desima, chseonolecosesacre,maquestobastu,circa àleleggidiuine.Veniamohoraalehumanefe ele, fonoquellechehannoàregolareglihuomini,& secondo l'arbitrio delle qualisidebbeuiuere, perche hannoelenoaesereinunalingua,chesiintenda perpochi? I Romani che le feciono, & n'ebbonotā te da Greci,nonlefecionperòinaltralinguache laloro;& cofisimilmenteLigurgo,Solone, & gli altri, che dette noleleggiatuttala Grecia, nonle fecionperòinaltralingua,cheinquelacheusana noipopoliloro .G.O s’elefonocosinecessarie cometudi, dondeuienėcheelenonsitraduconoin che eglihaueuano. G. Eh questo èunmalechemiparechesidia nonsolamenteàisacerdoti,ma aognuno,anzi noncehnom chepensiadaltrofenoninchemodo &potefjecauareedánaridelescarfeled'altri,e    sto  metterglinelasua,egliebëuero,chei PretieFra ti, egoi Notaichelofannoconleparolesonpiuuse lentideglialtri. A. Ehimeenosarebbeuenuto lorfatrocosiagevolmente,seglihuominihanesi nohauutopiucognitione delescrituresacre, chee’nonhanno.Etlacagionechenonfitraduco no l'humane, è fimilmentelampietàdimolti dotto rij@ auocati,checiuoglionuenderelecosecommu ni, & perpoterlo farmeglio ,hannotrouato questo belghiribizzo,cheicontrattinonsipoßinfarein uoloare, mi solamenteinquelalorobelagramma tica,chelaintendonpocoeglino,comancoglialtri; somemurauigliocertamente, chegli huomini hat binmaisopportatotantouna cosasimile,sotola qualesipuofaremilleinganni. G. Etchee'non senefaforse, esarebbemoltopiuutile,cheefifaces finonella nostra lingua,perchel'huomointende rebbequelchee'facese,& cosii testimoni quello cheeglihannoàtestificare& vorrebbonouederlo fcriuereal'hora, nòchepigliaßinoinomisolamēte, et poilodestēdesinoinsulprotocoloàloro piacimë to, mettendoàogniparolaunacetera,chesecondo me nonèaltro ch'ununcino, dovenon intendendo quelchefifaccino,bastalorosolamentediresi,ego nonpensanoalec onditionichespessouisicomprë dono; dondenasconopoimillepiatt. A , Etper questomicredoiochelofacino;ondetiuodirque    ' G47 totu uuoi. Ma de Preti,ede Fratinon udio gia chetudicamale; perchesecondocheio hointeso purdaloro, enons'appartieneàisecolari,ilripren dergli ftochenoinon cipoßiamomancodoleredeSacere dotic,ordegli Auuocati, ches ifarebbonoisuddi tidique I Principi, cheuolesinucderelorol'acquç GilSole.G. Diquestitilasceròiodire. A. Eccounadiquelle opinionicheficre deil mondoessereuera,pernonhauerl'intendimen todelleletere sacre. Dimmiunpoco,nonsiamonoi tutifigliuolidiDio,e conseguentementefrate. glidiChristo? G. Sifiamo. A. Etifrategls nonsonoequaliin quantofrategi? G. Sisono. A Adunque ancora noicomeChriftianifi gliuolidiDio,fiamoequali, e àl' unfratelos'ap partieneriprenderel'altro.G. Corestoèuero;ma eglihanno quella degnitàdelsacerdoria, cheglifa piudegnidinoi.A. Oqualpuoesseremaggior dignitàchel'eserefigliuolidiDio;uuoitucheilmi norlumecuoprail maggiore? eglièmaggiordegni tàl'effer Christiano, chel'efer Sacerdote,ò Prin. cipe, iqualisonoofituidatida Dio, & fannogli huominiministridiDio,tusaipurecheeglièpiues ferfeigliuolod'unprincipe,cheesseresuominifiro. G. Adunque io sono da piu che il Papa. A. Que stonò; cheegliè primieraměte Christiano cometes in questo noisiateequali; mapoiperesesreta   toeleto particularmětedaIddio,persuominiftróz eglivieneaesereinuncertomododapiudite,per la qual cosa tu debbihonorarlo,cometuomaggiorez manonperquesto peròtièprohibitodipotereriprē dereglierrorichee'fa, c &ommettecomehuomo, e come Christianopurch'efifacia,conquellari uerentiacheinsegnalacaritaGloamoredel prof fimo, etchequestosiailuero, tunehailo esempioin PauloApostolo, il qualedicecheriprese Pietro, che era fuo maggiore,percheeglierariprensibile subitoòeglimiraculosamětecadeuamor to,òeglin'eraportatodaDrauoli farebbe da far loro comequelsoldato, che hauendotoltoàun Fratelametà dicertopanno, cheeglihaueuaaccattatoperueftirsi, etminaccian doloil FratedirichiedergliloildidelGiuditio,gli tolequelresto;dicendo;poicheiohotanto tempoà pagarlo, iouoglioancorquest'altro  .G. Inueritachequestatua opinionenonmidispiace, maiononuogiadırlaz percheoltreàl'autoritàegli hannoancoralaforza,& fannodipoiconl'arme, ueggiēdochenonuaglionpiuloroles communiche; come nella primitiua chiesa ; chequädoeimaledina nouno,di senonhaueßinoaltrearmi te che cheleloromala ditioni, e .G. Ehime, che nonpossonoancorfaredeglialtrimiracolich'eifa Ceuano. A. Benlodises.Thomaso d'Aquino quando essendogli detto da Papa Innocētio,cheha .A. Certamen e '   OK gustatopartequádoe' furapito elterze Çıelo) dicellechenodesiderauaaltro, che  2 Heuaunmontedidanariinnanzi,& contauagli; Tuuedi Thomaso, la Chiesa no puo piu dire come el ladiceuaanticamente; Argentum & aurumnon eftmihi, Eglirispose;Ne anchefurge etambula. GOtufaitantecoseanimamia, chetumifaiueramë temarauigliare, & seimoltopiudotta, etpiuualen te; che io non credena; ma dimmiun poco; comehai tufatoàsaperlesẽzame; chemihaipurdetto, che noisiamo una cosa medesima, et chementrechetu seiunitame co non puo operarefenoninme?A .O Giufto, quesatarebbe cosatroppolungt; io uoglio che noi indugiamoaunal trauolta, cheegl è gia di, tempo che tunadiale facende tue G. ohime. tudi il uero, egli edichiaro affatto, oh come paffa uiailtempoche l'huomo non seneauuedde quando sefa, ò si ragiona di qual cosa che piacia altrui.  V andoio consider tal uota meco med RAGIONAMENTO IH FRA cosmo BÀRTOLI E GIOYAN BATISTA GELU SOPRA LE DIFFICOLTÀ DI NEHERE IN REGOLE UL NOSTRA UNCSVA. AL MOLTO REVERENDO MESSER PIERFRANCESCO 6IAHBULLARI amico SUO canssuno GIOVAN BATISTA GELLI. Da poiche voi volete pure, messer Pier Francesco mio onoratissimo, che io vi racconti il ragionamento stato tra messer Cosimo Bartoli e m quello stesso giorno che voi novamente fusto rieletto nel numero di quegli uomini che debbono riordinare e ridurre a regola la nostra lingua fiorentina; ed, a  gli  amici  non  si  può  né  debbo  negare  cosa  alcuna  che  giusta  sia,  mi  sono  risoluto  in  tutto  porlo  in  iscritto,  ma  semplice  e  puramente  come  e'  nacque allora in fra noi, e a guisa pure di dialogo, a cagione che e la cosa sia meglio intesa, e si fugga il lungo fastìdio di quella tanto noiosa replica: disse egli, e  risposi io. E perchè voi sapete come noi altri la occasione in su che egli è nato, senza replìcarvela ora altrimenti, dico solamente che usciti de la Accademia accompagnando messer Cosimo a casa sua, sopraggiuntovi da la  sera, e desiderando fuggire quella crudezza de Farla che comunemente apporta la notte, passammo in casa, e appressò ne lo scrittojo. Dove ragionando di varie cose, e eadendo, non so in che modo, in su quello che si erd il di fatto ne l'Accademia, voltatosi messer Cosimo a me, riguardatomi alquanto, cominciò sorridendo a dirmi cosi: BariolL Io ho bene assai chiaramente conosciuto oggi, GeUo mio caro, esser sommamente vero quanto  disse il Cosimo Bartoli, contemporaneo del Gelli, e uomo di molta dottrina e di molta fama  a' suoi  tempi.  Fu  ambasciatore  per  Cosimo  I  alla  Repubblica  di  Venena.  1a  c^ere  die  lasciò  son  degne  di  escer  tenute,  pia  che  non  si  fa,  in  pregio.  diyinìssimo  nostro  Dante  in  persona  di  Adamo  nel  XKYI  del  Paradiso:   Che  nullo  effetto  mai  razionabile,  Per  lo  piacere  uman,  cbe  rinovella  Seguendo  il  cielo,  fu  sempre  durabile.   Gonciossiach'  io  ho  veduto  dispiacerti  oggi  si  fattamente  ciò  che  Fanno  passato  tanto  ti  piacque,  che  con  ogni  tao  stu-  dio e  ingegno  hai  pur  fatto  quasi  che  forza  di  non  esser  di  nuovo  eletto  in  quel  piccol  numero  e  scelto,  che  debbo  ordinare  e  formare  le  regole  di  questa  lingua  ;  non  per  vie-  tare o  tórre  ad  alcuno  la  libertà  e  la  facoltà  di  parlare  e  di  scrivere  a  senno  suo,  ma  solo  perchè,  essendoci  alcuni  Accademici  assai  differenti  ne  la  pronunzia  e  ne  la  seri  tia-  ra,  chi  vorrà  pure  apprendere  la  vera  e  natia  lingua  fioren-  tina, abbia  almanco  dove  ricorrere  a  vedere  il  modo  e  la  forma  de  V  una  e  de  V  altra  cosa  comunemente  iisata  in  Fi-  renze. Il  che  nascendo  pur  da  sincerità  di  mente  e  da  de-  sio di  giovare  altrui,  non  può  essere  giustamente  se  non  lo-  dato. E  perchè  le  «ose  degne  di  loda  si  debbon  sempre  far  volentieri,  non  so  io  veder  la  cagione  che  ti  abbia  fatto  cosi  fuggire  una  impresa  tanto  onorata.  Ricordandomi^  averti  sentito  più  volte  dire,  che  tu  porti  si  grande  amore  a  questo  nostro  parlare,  il  quale,  quando  egli  è  favellato  puro  e  senza  mescuglio  di  forestiero  ne  la  nostra  pronunzia  propria,  ti  pare  si  bello,  che  tu  non  puoi  in  maniera  alcuna  credere  o  ima-  ginarti  che  e'  fusse  più  beilo  udire  o  Cesare  o  Cicerone  o  qoal  altro  Romano  si  sia,  che  alcuni  di  veri  e  nobili  citta-  dini di  Firenze,  i  quali  per  la  loro  grandezza  abbino  avuto  il  più  del  tempo  a  trattare  di  cose  gravi,  e  a  mescolarsi  poco  col  volgo,  che  ha  lingua  molto  più  bassa  e  parole  tìIì  e  plebee  :  dove,  per  V  opposi to,  costoro  hanno  parole  scelte  e  facili, che  oltre  a  la  naturale  dolcezza,  di  questa  lingua,  apportano un  certo  che  di  grandezza  e  di  nobiltà  ;  e  massima-  mente quando  essi  parlatori  hanno  atteso  a  le  lettere,  eser-  citandosi ne  gli  studj,  come  ne'  tempi  de  la  tua  fanciallezza. Qnesto  periodo  soTercfaiamente  lungo  è  guasto  andie  per  questo  gerundio  ;  invece  del  quale  dicendosi  ricordami,  tornerebbe  meglio.   erano  Bernardo  Bucellai,  Francesco  da  Biacceto,  Giovanni  Canacci,  Giovanni  Corsi,  Piero  Martelli,  Francesco  Vettori  e  altri  litterati  che  allora  si  raganavanoaTorto  de'Rncellai,  doye  to,  quando  ponevi  tal  volta  penetrare  io  maniera  alca-  na,  stavi  con  quella  reverenza  e  attenzione  a  udirli  parlare  tra  loro,  che  si  ricerca  proprio  a  gli  oracoli,  E  di  più  mi  ricorda  ancora  averti  sentito  dire  che  andavi  si  volentieri,  quando  ci  venivano  ambasciadori,  a  udirli  fare  V  orazioni,  essendo  in  qoe'  tempi  usanza  che  parlassino  la  prima  volta  pubblicamente.  Di  che  sopra  modo  ti  dilettavi,  si  per  la  dif-  ferenzia che  tu  senlivi  tra  le  lingue  loro  e  la  nostra,  e  si  per  udire  la  maniera  de  le  risposte  che  si  facevano  o  per  il  Gonfaloniere  che  fu  un  tempo  Piero  Sederini,  o  per  il  segre-  tario de la  Signoria,  che  era  messer  Marcello  Virgilio,  uo-  mo non  meno  elegante  e  facondo  ne  la  nostra  lingua  che  ne  la  latina,  e  non  manco  bel  parlatore  che  si  fosse  Pier  Soderini.  Sovviemmi  oltre  a  questo,  che  vivendo  Ruberto  Ac-  cia joli  e  Luigi  Guicciardini,  andavi  spesso  a  starti  con  loro, dii;endo  che,  oltra  i  dotti  ragionamenti,  essendo  e  T  uno  e  r  altro  litteratissimi,  ti  pigliavi  si  gran  piacere  de  lo  udir-  gli favellare,  parendoti  che  e'  si  fusse  cosi  ben  conservata  in  loro  la  grandezza  e  la  bellezza  di  questa  lingua.  De  la  qual  cosa  lodi  ancor  oggi  Jacopo  Nardi  per  le  lettere  che  e'  ti  scrive  ;  e  messer  Francesco  Vinta,  agente  ora  de  lo  illustrissi-  mo ed  eccellentissimo  Duca  nostro  appresso  la  eccellenzia  del  signor  don  Ferrante  Gonzaga,  parendoti  (secondo  che  tu  affermi)  che  egli,  ancora  che  Volterrano,  scriva  in  quella  pura  e  sincera  lingua  fiorentina  che tu hai sempre tanto pregiata. Queste cose, Gello mìo caro, per parermi tutte, contrariea  quanto  oggi  ti  ho  visto  fare,  mi  inducono  a  maravigliarmi si  grandemente  di  questa  tua  mutazione,  che,  se  non  eh'  io  considero  che  tu  sei  uomo,  cioè  variabile  e  mutabile  come  è  la  natura  di  tutti,  io  non  saprei  quello  che  avessi  a  dirmi  di  te,  se  non  (parlandoti  piacevolmente  e  liberamente,  come  noi  sogliam  fare  insieme)  che  tu  medesimo  non  sai  ancora  quello  che  tu  ti  voglia.   Gelli.  Messer  Cosimo  mio  carissimo,  voi  mi  siete  venuto  a  dosso  improvisamente  col  principio  d' una  orazione  tanto  consideraia  e  cosi  bene  affortificata  da  tante  praoTe,  ehe  io  non  80  qoasi  donde  avenni  a  pigliare  il  Inogo  o  la  via  da  poter  rispondere.  Tattavotta,  concedendoTÌ  quello  che  è  da  concedere,  cioè  che  io  sono  umuo,  la  natora  de'  quali  non  è  fidamente  yariabile  e  matahile,  come  yoi  diceste,  ma  e  tanto  sottoposta  e  atta  ad  errare,  come  voi  forse  voleste  dire  e  per  modestia  non  lo  diceste,  che,  si  come  canta  la  santa  Chiesa,  ogni  nomo  è  mendace  e  pieno  di  errori ; e  negandovi, per  Topposito,  ciò  che  è  da  negare,  cioè  che  tale  malamente sia  nato  in  me  dal  non sapere io medesimo quello che io mi voglio, vi  rispondo,  per  isgannarvi,  che  se  mai  approvai  per  vero  quel  detto  che  Umvìo  dMe  mnUar  proposito^  lo  approvo ora  e  tengo  verissimo;  poiché,  eletto  io  ancora  lo anno passato (come voi dite)  a  dare  regola  a  questa  lingua,  co-  minciai a  considerare  la  cosa  miAio  più  diligentemente  che  io  non  aveva  fotte  sino  a  qnell'  era.   Bartoli.  Egli  è  il  vero  che  questo  detto  è  molto  spesso  in  bocca  a  quegli  uomini  che  pare  che  abbino  qualche  qua-  lità più  de  gli  altrL Nientedimanco,  se e' si considera bene il significato  di  questo  nome  Sapiente,  non  pare  a  me  che  e'  si  debbia  cosi  approvare  questo  motte  come  tu  di'.  Perchè,  non  volendo  dire  altro  lo  esser  savio,  che  le  avere  una  vera  scienzia  e  certissima  cognizione  de  le  cose,  a  chi  è  savio,  perchè  egli  ha  di  già  conosciate  il  vero  essere  di  quelle,  non  accade  mutar  proposito.  Perchè  il  mutarsi  conviene  so-lamente a  colui  che  senza aver  conosciuto  0  vero,  rùsolutosi  troppo  tosto,  vede  poi  finalmente,  o  per  sé  e  per  T altrui  ammaestramento, di  avere errato;  e  non  volendo  mantenersi  nel  preso  errore,  è  costretto  a  mutar  proposito.   OeìU.  Voi  dite  il  vero.  Ma  il  conoscere  perfettamente  la  verità  de  le  cose  non  è  si  agevole,  come  voi  forse  vi  imaginate:  anzi, per il contrario, è  tanto difficfle,  che  alcuni  filo-  sofi usaron  dire  che  di  ciò  che  dicevan  gli  uomini  non  era  vera  cosa  alcuna  ;  ma  che  quello  che  e'  chiamavano  vero,  era  quel  che  pareva  loro.  De  la  quale  opinione  non  è  però  da  curarsi  molto;  si  perchè  e'  si  leverebbon  via  tutte  le  scienzie ;  e  si  ancora  per  averla  e  dottamente  e  argutamente  riprovata  e  annullata  Aristotile  col  dire  che  non  essendo  vera cosa  alcuna,  veniva  ancora  similmente  a  non  esser  vero  qael  che  dicevano  eglino.  Sì  che,  se  bene  si  paò  chiamare  solamente  savio  chi  conosce  le  cose  secondo  il  vero  esser  loro,  e'  non  è  però  inconveniente  che  a  questi  tali  ancora  bisogni  a  le  volte mutare proposito, se non per il non aver conosciuto la verità,  per  la  occasione  almanco  de' tempi:  i  quali  continovamente  vanno  si  variando  tutte  le  cose,  che  assai  manifestamente  si  vede  esser  tal  volta  bene  il  fare  uno  effetto  in  un  tempo,  che  in  un  altro  non  è  ben  farlo.  Benché  questa  non  è  propriamente  la  causa  per  la  quale  io  ho  mutato proposito  ;  ma  solamente  lo  aver  considerata  la  cosa  molto  più  che  io  non.  ave  va  prima,  e  lo  averla  discorsa  fra  me  medesimo  molto  più  diligentemente  che  in  sino  al-  lora.   Bariolù  E  con  quali  ragioni ?Perché  io  so  molto  bene  che  il  discorrere  non  è  altro  che  una  esamina  che  fa  sopra  le  cose  quella  nostra  parte  superiore,  da  ia  quale  noi  acqui-  stiamo il  nome  di  animali  ragionevoli,  considerando  non  meno  ciò  che  fa  per  una  parte,  che  tutto  quel  eh'  appartiene  a  V  altra.   GeUù  Le  ragioni  e  le  diflicultà  che  non  solo  mi  hanno  fatto  levar  via  V  animo  daquesta  impresa,  ma  ancora  giudicarla quasi  impossìbile,  sono  e  molte  e  molto  potenti;  e  quanto  più  vi  pensava  intorno,  più  mi  se  ne  offerivano  sem-  pre a  la  mente  de  l’altre  nuove.  Di  maniera  che  io  posso  dire,  che  e' sia  avvenuto  propriamente  a  me  in  questa  cosa,  come  avviene  a  chi  vede  da  lontano  una  torre  o  altra  cosa  simile;  che  quanto  egli  la  riguarda  più  di  discosto,  tanto  gli  pare  minore  e  più  bassa;  e  dipoi,  appressandosele,  quanto  più  la  guarda  da  presso,  tanto  gli  apparisce  continovamente  maggiore  e  più  alta.  Cosi  ancora  io,  mentre  che  io  stava  lontano  al  mettere  in  atto  questa  formazione  de  le  regole,  me  la  imaginava  piccola  cosa ;  ma  quando  poi  tentammo  porla  ad  effetto,  quanto  più  la  considerai,  tanto  più  mi  parve  difficile.  Imperocché,  dovendo  principalmente  esser  questa  opera  d'una  Accademia  Fiorentina,  mi  si  appresentava  subito  a  l' animo,  che  e'  bisognava  che  ella  fusse  con  tanta  arte  e  con  tal  dottrina,  che  gli  uomini  non  avessino  a  dispreizarla.    e  ridendosi  di  noi  e  di  quella,  dire  con  Orazio  in  nostra  ver-  gogna:   Parturient  tnontes;  nascetur  ridieuhu  mtu.   Sovveniyami  dipoi,  che  questo  nome  di  Accademia  era  per  generare  ne  gli  animi  de  le  persone  una  espettazione  tanto  grande,  che  e'  sarebbe  al  tutto  impossibile  il  corrispon-  derle:  laonde,  ove  egli  è  consueto  non  solamente  scusare  gli  errori  che  qualche  volta  si  riconoscono  ne  le  composizioni  de'  privati,  ma  difendergli  arditamente,  affermando  che  chiunque  opera  merita  di  esser  lodato,  in  questa  nostra  im-  presa comune  avverrebbe  tutto  V  opposito.  Perchè  i  forestieri, che  ci  vogliono  esser  maestri,  per  far  vero  il  detto  del  vulgo  che  t  più  dotti  manco  sanno,  si  porrebbono  con  ogni  industria  a  cercar  di  attaccar  lo  uncino  ;  e  gli  errori,  ancora  che  minimi,  chiamerebbono  sempre  gravissimi.  E  il  farla  in  ogni  sua  parte  con  tanta  considerazione,  che  alcune  cose  non  potessino  esser  chiamate  da  molti  errori,  credo  che  sia  al  tutto  impossibile.   Bartoli,  O  questo  perchè?   Getti.  Pela  diversità  de'  nomi  e  de  le  pronunzie  che  si  traevano  per  le  città  di  Toscana  ;  ciascuna  de  le  quali  pregiando più  le  sue  cose  che  quelle  d'altri,  stimerebbe  e  ter-  rebbe errore  quello  che  in  Firenze  sarebbe  regola.  Ma  per  meglio  esplicarvi  ancora  questo  capo,  mi  bisogna  comin-  ciarmi da  un  altro  principio.  Ditemi  chi  fa  l' una  l' altra; o le regole le lingue, o le lingue 1q regole? Bartoli. £ chi non sa che le lingue fanno le regole, essendo quelle  innanzi che  queste;  e  non  essendo  fondate  queste  m  altro,  né  avendo  altra  pruova  che  le  confermi,  se  non  r  autorità  di  esse  lingue?   GeUL  E  da  questo,  essendo  egli  come  egli  è  vero,  nasce  che  e'  non  si  può  far  regola  alcuna  che  sia  veramente  rego-  la non solo a la lingua toscana, ma ancora  a  la  fiorentina:  e  uditene  la  ragione.  Tutte  le  lingue  del  mondo  sono,  come  voi  vi  sapete,  o  variabili  o  invariabili.  Le  invariabili  sono  quelle  che  non  si  mutarono  mai,  per  tempo  o  cagione  alcuna, ma  da  quel  di  che  elle  ebbero  principio,  insino  a che elle furono al mondo, sì favellarono  sempre  in  qoel  me-  desimo modo:  come  è  quella che  gl’Ebrei  stessi  chiamano  sacra,  cioè  quella  de  la  Bibbia,  la  quale  dal  suo  nascimento  sino  al  di  d' oggi  si  è  conservata  sempre  la  medesima  ap-  punto. E  se  bene  Esdra,  loro sacerdote,  dopo  la  servitù  ba-  bilonica vi  aggiunse  punti  ed  accenti  per  farla  più  agevole  a  leggere,  non  mutò  egli  per  questo  né  lo  idioma  né  la  pro-  nunzia; laonde la  medessima lingua  favellano  ogfl^i  tutti  gli  Ebrei,  in  qualunche  parte  del  mondo  e' si  truovino,  che  fa-  vellarono i  loro  scrittori,  e  particularmente  Mosè,  il  quale  è  il  più  antico  che  elli  abbino.  La  qual  cosa  è  veramente  maravigliosa  :  perché,  non  si  mutando  quasi  le  lingue  per  altro  che  per  mescolarsi  que'cbe  le  parlano  con  genti  d'al-  tro idioma,  quale  è  quella  che  dovesse  essere  più  alterata  e  più  variata  che  la  ebrea?  Gonciossiachè  i  Giudei,  dopo  la  cacciata  loro  di  Jerusalem,  sono  già  MGGGG  anni,  senza  regno,  senza  patria  e  senza  luogo  dove  fermarsi,  sieno  andati  continovamente  errando  sino  agli  estremi  fini  della  terra,  e  mescolandosi,  a  guisa  di  peregrini,  con  tutte  le  generazio-  ni che il  sol  vede  sotto  il  suo  cielo.  E  nientedimanco  quella  lor  lingua  é  per  tutto  quella  medesima.   Bartolù  Ger lamento  che  ella  è  cosa  fuori  di  natura,  e  che  non  può  attribuirsi  se  non  a  Dio.  Il  quale,  avendo  dato  la  legge  in  quella,  e  fattovi  scrivere  tutte  le  cose  sacre  e  divine,  ha  voluto,  per  indubitata  testimonianza de  la  santis-  sima fede  nostra,  che  ella  duri  incorrotta  sempre.   GeUi,  Di  queste  dunque  si  fatte  lingue  non  occorre  che  noi  parliamo,  essendo  manifestissimo  a  ciascheduno,  che  elle  possono  agevolmente  ridursi  a  regole,  o  pigliandole da  gli  scrittori  o  prendendole  pure  da  l’uso,  perchè  è  tutt'  uno. Ma le lingue che  io  chiamai  variabili  non  si  favellano  sem-  pre in  un  modo;  anzi  vanno  variando  e  mutandosi  di  tempo  in  tempo,  quando  in  peggii^  e  quando  in  meglio,  secondo  gli  accidenti  che  accaggiono  in  quelle  provincie  a  chi  elle  sono  e  private  e  proprie,  é  secondo  che  e'vi vengono  ad  abitare  genti  d' un'  altra  lingua:  come  avvenne,  verbigrazia,  in  Italia,  ne  la  venuta  dei  Gotti  e  Vandali,  a  la  lingua  lati-  na. E  queste  tali,  od  elle  sono  morte,  cioè  mancate,  e  non  si hagionambnto  intorno  alla  lingoa;   parlano  più  in  laogo  alcuno,  ma  si  truovono  solamente  su  pe' libri  de  gli  scrittori;  od  elle  sono  vive,  e  si  parlano  an-  cora e  usano  in  qualche  paese,  come  è,  verbigrazia,  a  Firenze  la  lingua  nostra.  Di  queste  ultime  due  maniere  tengo  io  per  cosa  certa  che  le  morte  si  possine  agevolmente  mettere  in  regola;  ma  de  le  vive,  che  e' non  sia  solamente  difiQcile  il  farvi  regola  alcuna  perfetta  e  vera,  ma  che  e'  sia  quasi  al  tutto  impossibile.   Bartoli.  £  per  che  cagione?   Gellù  Dirowelo.  Né  voi  né  altro  mai  di  sano  intelletto  mi  negherà  che,  avendo  a  farsi  regole  d' una  lingua,  e'  non  si  deU)a  pigliarle  da  lei,  quando  ella  fu  favellata  meglio  che  in  alcuno  altro  tempo;  essendo  cosa  pur  ragionevole,  quando  si  hanno  a  pigliare  per  regola  le  operazioni  d'una  cosa,  pigliarlequando  ella  opera  meglio;  il  che  le  avviene  quando  ella  è  nel  suo  perfetto  essere.  E  chi  sarebbe  mai  quello,  se  non  forse  qualche  stolto,  che  avendo  a  pigliare  per  esemplo  le  operazioni  d' un  uomo,  pigliasse  quelle  che  e'  fa  ne  la  puerizia,  quando  i  sensi  suoi  interiori,  per  essere  di  troppa  umidità  ripieni  quelli  organi  ne'  quali  e'  fanno  lo  ufizio  loro,  non  potendo  porgere  a  lo  intelletto  la  facultà  che  a  perfettamente operare  gli  è  necessaria,  non  ha  esso  uomo  libero l’uso de la ragione,  e  vive  più  tosto  secondo  la  natu-  ra, che  secondo  la  mente  sua?  o  veramente  le  azioni  che  egli  fa  in  quella  parte  de  la  vecchiezza,  ne  la  quale  i  sangui,  per  il  mancamento  del  caldo  e  de  V  umido  naturali,  raffred-  dati e  diseccati  più  del  dovere,  non  somministrano  a'  medesimi sensi  gli  spiriti  atti  ed  accomodati  a  le  loro  operazioni? Ninno  certamente,  mi  penso  ;  ma  sì  bene  quelle  che  egli  fa  ne  la  sua  età  migliore:  la  quale  indubitatamente  sarà  nel  mezzo  e  nel  colmo  de  la  sua  vita;  come  poeticamente  lo  mostra  il  divinissimo  nostro  Dante,  dicendo  essersi  accorto,  che  la  vita  nostra  era  una  oscurissima  selva  di  ignoranzia :   Nel  mezzo  del  cammin  di  nostra  vita  ec.   Bartoli.  Bella  certo  e  dottissima  considerazione.  Ma  sta  saldo,  Gello;  e  prima  che  tu  proceda  più  oltre,  dimmi:  come  si  potrà  egli  trovar  già  mai,  parlando,  come  e' pare  che  la   faccia,  propriamente  ed  esattamente,  questo  colmo  de  la  vita  e  questo  essere  più  perfetto,  ne  le  cose  generabili  e  corruttìbili? Le  quali  si  come  misurate  dal  tempo,  essendo  sempre  in  moto  continolo,  non  vengono  a  stare  già  mai  in  uno  stato  medesimo,  se  non  in  uno  instante  si  indivisibile,  che  e'  non  è  possibil  segnarlo  in  maniera  alcuna:  per  il  che  viene  a  essere-  più  che  impossibile,  che  e'  vi  si  troovi  dentro  fer-  mezza.   Gellù  Confesso  io  ancora  che  questo  è  vero ,  se  voi  intendete per  la  fermezza  il  mancare^d'  ogni  moto.  Ma  questo  non  è  quello  che  io  voglio  inferire.  Anzi  dico,  che  in  tutte  le  cose  le  quali  dopo  il  principio  loro  salgono  al  sommo  e  sapremo  grado  de  la  loro  perfezione,  conviene  di  necessità  concedere,  avanti  che  elle  comincino  a  scenderne, un  certo  spazio  di  tempo ;  nel  quale  elle  non  salghino  e  non  ìscendi-no,  ma  stiano,  in  quanto  ad  essa  perfezione,  quasi  che  ferme,  e  in  uno  stato  medesimo:  essendo  di  necessità  che  in  fra  due  moti  contrari  si  truovi  sempre  un  po' di quiete;  perchè  altrimenti,  o  non  finirebbe  mai  l'uno,  o  non  comincerebbe  mai  l'altro  moto.  E  questo  lo  potete  voi  chiaramente  cono-  scere in  un  sasso  tratto  a  lo  in  su;  il  quale,  poi  che  con  la  sua  gravitade  ha  superato  la  forza  di  quella  aria  che,  fessa  violentemente  dal  braccio  di  chi  lo  trasse,  correndo  con  grandissima  celerità  a  richiudersi  perchè  quel  luogo  non  restì  vóto,  continovamente  lo  pigne  in  su,  se  egli  non  si  fermasse  alquanto,  non  tornerebbe  mai  a  lo  in  giù.  Goncios-  siachè,  non  si  fermando,  egli  anderebbe  sempre  a  lo  in  su;  e  andare  in  su  e  tornare  in  giù  in  un  tempo  medesimo  (rispetto  a  la  natura  de'  contrari,  che  non  patisce  che  eglino  stiano  insieme  in  un  medesimo  tempo,  in  un  subietto  medesimo)  non  è  possibile.  Adunque  egli  è  necessario  in  tutte  le  cose  che  dopo  il  principio  loro  hanno  accrescimento  e  dicresci-  mento  di  perfezione ,  che  e'  si  ritraevi  tra  V  uno  e  l' altro nn certo  spazio  di  tempo,  nel  quale  elle  restino  di  acqui-  starne più, e non comincino ancora a pèrderne:  il  qual  tempo  è  chiamato  da' filosofi  lo  stato,  ed  è  cosa  osservata  molto  da'  medici  ne  le  infermità  umane.  Ma  se  voi  volete  vedere  ancor  meglio  questo  che  io  dico,  leggete  quella  parte  del    Convivio  del  nostro  Dante,  dove  e'  tratta  de  la  etÀ  del’acino,  e  resteretene  capacissimo.   Bartolù  Orsù,  sta  bene:  ma  che  vnoi  ta  dire  per  questo?   GeUi,  Yo'dire,  tornando  al  nostro  proposito,  che  non  si  potendo  sapere  ne  le  lingue  vive  quando  sia  questo  loro  stato  e  questo  colmo  de  la  loro  perfezione,  egli  non  si  può  ancora  conseguentemente  farne  regole  perfette  e   intere.  Perchè,  se  bene  e'  si  può  sapere  mediante  gli  scrittori  di  quelle  quando  meglio  che  mai  elle  si  siano  favellate  per il  passato ,  nessuno  è  però  che  si  possa  promettere  per  il  futu-  ro, che  insino  a  che  elle  non  mancano,  elle  non  si  possino  favellar  meglio,  e  cosi  che  e' non possino  surgere'  ancora  alcuni  scrittori  che  le  scrivine  molto  meglio.  Come  potete  voi  mai  sapere  quale  sia  il  mezzo  o  lo  stato  d' una  cosa,  de  la  quale,  se  bene  voi  avete  il  principio  noto,  voi  non  potete  però  non  solamente  sapere  quando  abbia  ad  essere  il  fine  suo  determinatamente,  ma  né  anco  imaginarvelo  per  con-  ìetture  ;  come  forse  la  vita  e  de  V  uomo  e  di  molte  altre  cose,  le  quali  quando  sono  arrivate  a  la  lor  vecchiezza,  agevolmente si  può  farne  la  coniettura  quando  abbia  a  essere  la  morte  loro;  non  essendo  però  di  quelle,  a  chi  è  concesso  da  la  natura  il  rinovellarsi, come, verbigrazìa,rerbe  e  le  pianle  la  primavera.  Ma  le  lingue  non  sono  di  queste.  Resta  dunque,  non  si  potendo  saper  lo  stato  de  le  lingue  che  vivono,  che  e'  non  se  ne  possa  ancora  formar  regola  alcuna  ferma  e  vera:  il  che  non  avviene  de  le  già  morte,  come  ne  avete  lo  esemplo  chiaro  ne  la  latina.  Ne  la  quale  considerando  i  gramatici  cbe  ne  hanno  scritto  quale  fusse  stato  il  processo  suo,  e  giudican-  do, come  è  il  vero,  il  colmo  di  quella  essere  stato  ne  la  età  di  Cesare,  Cicerone  e  Virgilio  ;  perchè  ne'  tempi  di  Ennio  e  di  Plauto  si  vede  che  ella  era  ne  lo  augumento,  e  in  quegli  poi  di  Svetonio  e  di  Tacito,  nel  discrescimento,  fondarono  tutte  le  regole  loro  sopra  il  parlare  di  Cesare,  Cicerone  e  Virgilio, affermando  che  ciò  che  si  dicesse  per  lo  avvenire  ne  la  maniera  de'  sopra  detti,  sempre  sarebbe  detto  bene  e  lati-  namente,  e  massime  secondo  Cesare  e  Cicerone  ;  per  esser  lecito  e  conceduto  a'  poeti  lo  usare  spesso  molte  cose  ne' versi  loro,  che  non  si  comportano  ne  la  prosa.  Ma  questo  non  si    può  fare  ne  la  lingua  fiorentina,  e  molto  manco  ne  la  toscana, che vivono  ancora,  e  non  hanno  scrittori  da  fondarvi lo  intento  sno,  non  si  sapendo  se  elle  sono  ancor  per-  venute al  colmo  de  V  arco.   Bartoli,  E  se  questo  non  si  può  fare  per  via  de  gli  scritti,  chi  vieta  che  e'  non  si  faccia  almanco  per  via  de  lo  uso?   GeUi.  E  di  quale  uso?  Oh  questa  è  l' altra  difficultà,  e  non  punto  minore  de  la  precedente.   Bartoli.  E  perchè?   GeUi.  Perchè  ne'  tempi  nostri  non  avviene  di  questa  lìngua  quello  che  ne'  tempi  de'  Romani  avveniva  de  la  la-  tina; che  essendo  propria  d'una  nazione  che  dominava  allora  ad  una  grandissima  parte  di  questo  mondo,  era  tanto  stimata  e  onorata  da  ciascuno  de'  soggetti  loro,  e  in  Italia  massimamente,  che  e' non  si  trovava  nohile  alcuno  e  da  farne  stima,  per  qual  si  voglia  città,  il  quale  non  si  ingegnasse  di  parlar  la  lingua  romana.  SI  perchè  chi  non  sapeva  era  da  essi  chiamato  barbaro,  cioè  persona  inculta  e  di rozzi e aspri costumi; e si ancora per ì  bisogni che occorrevano giornalmente ne  le  faccende  é  private  e  publiche;  avendo  comandato i  Romàni  in  tutte  le  loro  Provincie,  che  e'  non  si  potesse  agitare  causa  alcuna  criminale  o  civile,  né  far  procèsso  od  ìnstrumento  alcuno,  se  non  in  lingua  latina.  Ad  imitazione  de'  quali,  per  quanto  io  n'ho  inteso  dire  da  Amerigo  Benci,  che da venticinque anni in qua ha usato molto la Francia,  e come  voi  vi  sapete,  oltra  le  pratiche  mercantili  ha  qualche  cognizione  ancora  de  le  speculative,  ordinò  il  padre  di  questo  re,  che  e' si  facesse  cosi  in  franzese  per  tutto  il  dominio  suo:  il  che  osservatosi  fino  ad  ora,  ha  tanto  migliorata  e  fatta  più  bella e  ricca  quella  lingua,  che  è una maraviglia a chi  lo  considera.  £  il  re  che  vive,  Arrigo  II,  imitando  le  vestìgio del  padre,  oltra  il  fare  osservare  quello  ordine,  fa  ancora  e  carezze  e  cortesie  grandissime  a  chi  traduce in  essa,  0  fa  opera  di  arricchirla  e  farla  perfetta.   Bartoli.  Bella  impresa  e  degna  veramente  d'un  principe,  amare  e  onorare  la  sua  lingua:  atteso  massimamente  che  nessuna  può  sormontare  e  venire  in  riputazione  senza  il  favor  del  principe  suo.    Non  sarebbe  dunque  stato  diflScile  a  ehi  avesse  voluto  mettere  in  regola  la  lingua  latina  in  que'  tempi  ehe  ella  era  yiva,  poi  che  gli  bastava  osservare  solamente  Io  uso  e  il  modo  che  tenevano  i  cittadini  romani  :  p^chè  non  era  in  que'  tempi  ehi  ardisse  pre^rre  la  sua  lingua  a  qoeUa,  e  non  confessare  che  la  vera  pronunzia  e  il  vero  modo  del  favellare  era  quello  de'  Romani,  altrimenti  detto  latino.  Ma  non  può  questo  avvenire  a  noi  de  la  nostra,  essendo  in  To-  scana tanti  principati e tanti  signori;  li  stati  de' quali,  se  non  in  tutto,  hanno  pure  in  parte  ciascuno,  come  io  dissi  in  quella  mia  traduzione a  lo  illustrissimo  e  reverendissimo  Cardinale  di  Ferrara,  qualche  favella  e  pronunzia  propria,  varia  e  diversa  da  tutte  le  altre,  e  parendo  a  ciascuno  che  la  sua  sia  meglio.  Perchè  noi  non  ci  abbiamo  imperio  alcuno  cosi  grande,  che  e'  muova  (come  i  Romani)  le  città  sottopo-  steli a  cercare  spontaneamente  di  favellare  e  onorare  quella  lingua  che  favella  chi  le  comanda.  Gonciossiachè,  quando  ben  la  Toscana  tutta  fusse  comandata  da  un  signor  solo,  lo  imperio  suo,  per  avere  ì  confini  si  presso,  non  sarebbe  mai  di  tanta  grandezza,  che  e'  fusse  oiiorato  e temuto  quanto  era  allora  quel  de' Romani.  Imperocché  i  suggetti  a  loro,  essendo  privi  d' ogni  speranza  di scir  mai  di  tale  servitù,  non  aveado  principe  aieuno  a  lo  intorno  dove  ricorrere  quando  e'  pensassero  di  ribellarsi,  erano  necessitati,  se  non  per  amore,  almeno  per  timore,  a  far  ciò  che  piaceva  à'  Romani.   Bar  Ioli. Io  cedo,  e  confesso,  quanto  a  la  grandezza  e  forza  romana,  che  egli  è  vero  tutto  quel  che  tu  di'.  Niente  dìmanco,  e'  si  vede  pur  manifestamente  ne'  tempi  nostri,  che  molte  persone  di  quakhe  spirito,  i»8i  fuor  d' Italia  come  in  Italia,  s' ingegnano  con  molto  situdio  di  apprendere  e  di  favellare  questa  nostra  lingua  non  per  altro  che  per  amore.   GelU.  Egli  è  vero  che  quello  che  ne  la  età  de'  Romani  faceva  la  forza,  lo  fa  oggi  la  bontà  e  la  bellezza  di  questa  lingua.  Ma  perchè  coloro  che  la  desiderano  e  cercano  per  loro  stessi  come  cosa  buona, la  appetiscono  edamano  in  quella   *  Intende  la  tradniione  dell'  operetta  di  Simone  Porzio  del  modo  di  orare  cristianamente.  Qui  parla  di  cose  dette  nella  lettera  dedicatoria.maniera  che  si  desidera  ed  ama  il  bene,  ella  è  ancora  dipoi  seguitata  e  adoperala  come  esso  bene,  cioè  da  ì  meno,  e  non  da  i  più.  Ma  datò  che  e'  fosse  il  vero  che  ognuno  cer-  casse di  favellare  in  lingua  toscana,  e  desiderasse  che  e'  se  ne  facessi  regole,  donde  si  arebbe  poi  a  cavarle,  non ci  essendo  ciltade  alcuna  che  signoreggi  tutta  Toscana?  Perchè  i  Luc-  chesi, i  Pisani,  i  Sanesi,  gli  Aretini,  e  qualunque  altra  città  di  questa  provìncia,  direbbe  sempre  che  la  vera  lingua  e  pronunzia  losca  fusse  veramente  la  sua;  e  il  cavare  una  parte  di  esse  regole  da  una  città  e  V  altra  da un' altra,  sce-  gliendo, come  dicono  alcuni,  il  meglio,  per  fare  un  composito  di  tutte  quante,  sarebbe  cosa  molto  difiScile,  e  poi  forse  anche  non  approvata  e  non  osservata,  non  ci  essendo  chi  la  comandi.   Bartoli.  Oh,  io  non  penso  però  che  il  luogo  donde cavare  le  regime  abbia  molta  difBcultà;  non  essendo  se  non  raris-  simi que'  che  volendo  imparar  la  lìngua  piglino  altri  autori  che  Dante,  il  Petrarca  e  '1  Boccaccio  ;  i  quali  essendo  pure  tutti  e  tre  di  Firenze,  mostrano  assai  manifestamente  donde  sì  debba  imparar  la  lingua.  Non  ostante  che  alcuni,  poco  amici  per  avventura  del  n<Mne  nostro,  hanno  voluto  privarci  del  Petrarca  e  del  Boccaccio,  facendo  questo  ultimo  da  Certaldo  e  quello  altro  Aretino,  senza  avertire  che  ser  Pe-  tracco  padre  di  messer  Francesco,  come  cittadino  che  egli  era,  ebbe  per  moglie  una  de'Ganigiani,  e  luogo  tempo  fu  cancelliere  alle  Riformagioni  ;  e  che  il  Petrarca  stesso  dice  di  sé  medesimo:   SMo  fossi  stato  fermo  a  la  spelonca  Là  dove  Apollo  diventò  profeta,  Fiorenza  avria  forse  oggi  il  suo  poeta;   e  che  Matteo  Villani  dice  ne  la  Cronica  che  e'  seguitò  dopo  Giovanni  suo  fratello  :  «  Questo  anno  furono  coronati  poeti  due  nostri  cittadini  fiorentini;  messer  Francesco  di  Petracco,  vecchio;  e  Zanobi  da  Strata,  giovane. E  che  il  Boccaccio,  nel  suo  libro  de' Fiumi,  quando  e' ragiona  de  l'Elsa,  dice:  et  quum  oppida  plura  hinc  inde  ìabens  videai,  a  dexlro,  modico  elatum  tumulo,  Certaldum,  vetus  msiellum,  Unquii:  cujus  ego    libens  memorùiffi  celebro,  sedes  qtUppe  et  natole  solum  nu^o-  rum  meorum  futi,  anUquam  illos  susciperet  FloretUia  eives.   GelH,  Egli  è  vero  che,  non  si  stimando  qaanto  a  la  lin-  gna,  altri  scrittori  che  questi  fiorentini,  rispetto  (credo  io)  al  non  si  esser  trovato  mai  in  queste  altre  favelle,  non  sola-  meate  ehi  gli  pareggi,  ma  nò  par  chi  si  appressi  loro,  e' pare  certamente  da  confessare  che  la  lingua  fiorentina  tenga  il  principato  ne  la  Toscana  ;  nìentedimanco. BartolL  Sta  fermo,  Gello,  e  non  dir  cosi;  che  noi  ci  recheremo  a  dosso  una  invidia  troppo  grande.  Perchè  e'  non  si  può  nò  debBè  negare  che  ne'  tempi  nostri  medesimi  non  ci  siano  stati  de'  forestier,  *  e  fuor  di  Toscana,  che  abbino  scritto  in  questo  idioma  si  eccellentemente,  che  e'  ne  sono  stati  lodati..   Geìlu  Si,  ma  se  voi  avvertite  bene,  vedrete  che  i  più  celebrati  fra  questi  tali  sono  selamenle  quegli  stessi  che  hanno  saputo  più  e  meglio  imitare  gli  scrittor  fiorentini  ;  e  non  son  però  stati  molti  :  e  di  questi  ne  avete  alcuno,  che  per  aver  si  bene  imitato  ed  espresso  i  concetti  altrui  con  gli  stessi  modi  e  parole de gli autori, que' dotti de L’Orto, pigliando la  metafora  da  quegli  scultori  che  attendono  più  a  improntar  V  altrui  che  a  sculpire  di  loro  artifizio,  usavano  di  dir  tra  loro:  costui  ha  formato.  Ma  voi  ci  avete  ancora  un'  altra  cosa,  che  dimostra  meglio  epiù chiaramente  quel  che  voi  dite:  che  tutti  o  la maggior  parte  de' forestieri  con-  fessano e  acconsentono  tacitamente,  che  la  lingua  che  e'  cer-  cano e  tengon  buona  ò  solamenle  la  Fiorentina;  io  intendo  di  quella  che  favellano  i  nobili  e  veri  cittadini  fiorentini  che  hanno  qualche  cognizione  o  di  lingue  o  di  scienzie  ;  e  non  di  quella  che  usano  i  plebei,  e  gli  uomini  che  hanno  cognizione  di  poche  altre  cose  che  di  quelle  che  si  conven-  gono loro  come  animali.  Perchò,  non  vi  crediate  però  che  la  plebe  di  Roma,  quando  fiori  la  lingua  latina,  favellasse  con  quella  leggiadria  che  facevano  e  Cesare  e  Cicerone.   Bartolù  Certamente  no  ;  anzi  si  legge  di  Cicerone,  che  i  Romani  stessi  lo  ammiravano,  maravigliandosi  grandemente   *  H  monicipalismo  a  que'  tempi  faceva  non  conoscere  che  non  son  forestieri  fra  loro  quelli  che  abitano  il  paese  fra  le  Alpi  e  il  lilibeo.    SOtt   de  la  8oa  eloquenzia.  Ma  quale  è  questa  cosa  che  ta  volevi  dire?   GeììL  II  non  si  esser  trovato  ancora  scrittore  alcuno  di  Toscana,  che  abbia  avuto  ardimento  a  dire  di  avere  scritto  ne  la  sua  lingua  propria,  come  dissero  Dante  e  il  Boccaccio,  r  uno  nel  Convivio,  e  V  altro  nel  Decamerone,  e  come  fanno  ancor  oggi  molti  Fiorentini.  Di  maniera  che  e'  non  si  truova  opera  alcuna,  che  si  dica  scritta  in  lingua  Pisana,  Sanese,  Lucchese,  Aretina,  o  di  qual  si  voglia  altro  luogo  toscano:  e  pure  hanno  avute  queste  città  scrittori  di  non  piccola  fama.  Laonde  non  può  avvenir  questo  per  altro,  se  non  perchè  questi  tali  conoscono  molto  bene  la  lor  lingua  naturale  non  esser  quella  che  si  stima  oggi  e  pregia  cotanto.  E  se  bene  essi  hanno  ancora  imitato  gli  scrittor  nostri,  quanto  è  loro  stato  possibile,  e'  npn  V  hanno  però  voluto  confessare  aper-  tamente e  liberamente,  giudicando,  per  avventura,  che  ciò  non  fusse  molto  onor  loro.  Anzi,  perchè  se  e' l'avessero  chiamata  Fiorentina,  e'  non  sarebbe  parato  loro  avervi  parte  alcuna  o  pochissima ,  e'  l' hanno  chiamata  Toscana  o  vulgare;  volendo,  col  chiamarla  cosi,  dare  a  intendere  a  le  persone,  che  ella  si  parli  vulgarmente  per  tutta  la  Toscana.  Il  che  si  vede  che  non  è  vero.  E  altri  dipoi  non  Toscani,  per  avervi  ancor  eglino  parte, l’hanno  chiamata  italiana.   Bartolù  Sta  fermo.  Cello,  che  Dante  ancora  egli  fu  di  opinione  che  ella  si  dovesse  chiamare  Italiana,  in  quel  li-  bretto suo  De  vulgari  eloquerUia,  se  io  mi  ricordo  bene.   Gellù  Ehi  messer  Cosimo,  non  vi  ho  io  detto  più  volte  che  cotesto  libro  non  può  essor  di  Dante,  ma  che  e'  conviene  che  qualcun  altro  l'abbia  finto,  sotto  il  colore  di  quella  promessa che  ne  la  Dante  nel  suo  Convivio? Il  che  non  può  veramente  esser  nato  da  altro,  che  da  lo  avere  troppo  arden-  temente desiderato  chi  ne  fu  lo  autore,  che  V  onor  de  la  lingua  fusse  generalmente  comune  di  tutta  la  Italia ,  e  non  particulare  di  Firenze  solo.  Ma  se  voi  forse  non  ve  ne  ricor-  date, avvertite  che  que'litterati  de  l'Orto  de'Rucellaì,dispuT  tando,  ne  la  venuta  di  Papa  Leone,  col  Trissino  (perchè  egli  fu  che  ci  condusse  la  prima  volta  questa  opera}  sopra  lo  essere  o  non  esser  ella  di  Dante,  gli  facevano  centra MifiioMAMBaro  irtouio  alla  limooa*   quella,  non  variati  né  alterati  in  maniera  akona,  come  omo,  Urrà,  mare  e  simili  ;  e  ana  grandissima  quantità  di  quegli  altri  dove  si  varia  scrfo  una  lettera,  come  leggo  e  aequa,  che  a'  Latini  son  lego  e  aqua,   GeUL  Questa  fo,  come  dite  voi,  nua  esposixione  assai  stravagante,  e  da  uomini  che,  desiderando  introdurre  cose  nuove,  volsero  mostrare  che  ciò  fusse  fatto  con  qualche  motivo ragionevole.  Ma  non  è  già  venuta  di  qui  la  diversità  della  pronunzia,  la  quale  molto  prima  si  variò,  che  e'  venisse  a  campo  si  stran  precetto.   BarioU.  E  donde  venne  dunque  la  orìgine?   GeUi,  Dicono  alcuni  diligentissimi  osservatori  de  le  cose  di  questa  lingua,  e  io  lo  confermo  con  esso  loro,  che  in  alcune città  e  luoghi  particolari  di  Toscana,  per  naturale  proprietà si  costuma  di  mettere  Vo  in  quelle  parole  ne  le  quali  in  Firenze si  mette  l' u;  di  maniera  che,  dove  noi  di-  ciamo suslanza,  singutare,  particulare,  speculare  e  specular-  tivo,  quivi  si  dice  sostanza,  singolare,  parlicolare,  speco-  lare  e  specoUUivo:  e  cosi  ancora  di  mettere  Ve  dove  noi  altri  mettiamo  V  i,  costumandosi  ordinariamente  dire  in  Firenze, principe  e  UUerato;  e  quivi  prendpe  e  letterato:  la  quale  pronunzia  arreca  a  gli  orecchi  de' Fiorentini  un  suono  cosi  sgarbato  e  tanto  spiacevole,  che  e'  non  si  traeva  tra  noi  chi  l' usi,  se  non  alcuni,  e  ben  pochi,  che  per  proprio  comodo  loro  seguitano  la  pronunzia  così  fatta  ;  non  si  curando  non  solamente  di  dare  od  accomunare  ad  altrui  quello  che  era  solamente  de'  Fiorentini,  ma  di  adulterare  e  imbastardire  una  lingua  mantenutasi  pura  e  schietta  sino  a'  di  nostri,  e  solamente  bella  e  leggiadra,  quando  manco  vi  si  accompagna  voci  o  pronunzie  di  forestieri.   Bartolù  Certamente  che  questa,  né  a'  tempi  nostri  né  a  quegli  de  li  antichi,  per  quanto  se  ne  vegga  da  le  scritture,  non  fu  mai  pronunzia  fiorentina.  £  chi  non  lo  crede,  avvertisca  e  osservi  bene,  come  coloro  che   fecero  stampare  in  Firenze  quel  Cento  novelle,  avuto  poi  univer-  salmente in  tanta  reputazione  e  tanto  pregiato,  essendo  tutti  cittadini  fiorentini  nobili  e  veri,  e  avendo  cotanti  testi  antichi  e  buoni,  e  tra  gli  altri  uno  che  é  oggi  in  guardaroba   di  Sua  Eccellenza,  scritto,  vivendo  ancora  il  Boccaccio,  da  uno  de' 'Mannelli,  e  non  solamente  copiato  da  lo  originale  de  lo  anlore,  ma  riveduto  ancora  e  corretto  da  lui  medesimo;  avyertisca,  dico,  e  osservi,  come  sempre  dissero  principe^  liUerato,  iustanzia  e  partieulare,  come  ordinariamente  si  dice  in  Firenze.   Getti,  Ritrovandosi,  adunque,  in  Padova  alcun  di  questi  tali  nel  principio  deHa  Accademia  de  gli  Infiammati,  dove  non  era  per  buona  sorte  alcuno  veramente  Fiorentino  (che  e'  non  sarebbe  forse  seguito  questo  disordine);  e  mettendo  in  uso  col  favellare  e  con  lo  scrivere  questa  lor  naturai  pronunzia,  scoperta  però  primieramente  fra  gli  Intronati;  i  Lombardi  e  i  Yeniziani,  che  cercavano  di  pronunziare  toscanamente, credendosi  che  quella  fusse  la  vera,  cominciarono non  solo  a  celebrarla,  ma  ad  usarla,  ed  a  trasferirla  ne  le  loro  stampe.  A  la  qual  cosa  si  aggiunse  presto  che  alcuni  altri  non  Toscani,  per  ispogliare  la  Toscana  di  questa  gloria,  cominciarono  a  mescolare  in  essa  molte  parole,  le  quali,  al  giudizio  mio,  né  si  favellarono  nò  si  scrissero  mai  in  Toscana;  e  oltre  a  questo,  cercarono  ancora  dì  mutarle  nome.  £  perchò  se  ella  si  dicesse  lingua  Tosca,  essi  che  erano  forestieri  non  ci  avevano  parte  alcuna,  cominciarono  a  chiamarla  chi,  come  il  Trissino, Cortigiana,  e  chi  Itala  o  Italiana,  come  il  reverendissimo  Sadoleto;  persona  dottissima veramente  e  eloquentìssima,  ma  appartata  e  in  tutto  aliena  da questa professione.  E  di costoro  non  voglio  io  veramente dir  cosa  alcuna;  ma  solo  che  io  mi  maraviglio  oltre  a  modo  di  alcuni  Toscani,  che  avendo  molto  più  rispetto  al  comodo  proprio,  che  a  la  verità,  per  la  servitù  forse  che  e'  tengono  con  alcuni  di  questi  tal,sono  concorsi  a  chiamarla  Italiana  essi  ancora  l  non  si  curando  di  vendere  per si  vii  pregio  l'onore  e  la  gloria  propria;  e  non  avendo  avvertenza che  i Genovesi, i Milanesi, que' del Lago Maggiore, i  Bergamaschi,  una  gran  parte  de' Romagnuoli,  i  Marchigiani,  i  Norcini,  gli  Abbruzzesi,  i  Pugliesi,  i  Calabresi  e  altri  infi-  niti popoli  de  la  Italia,  fanno fede  manifestissima  a chiunque favella  loro,  che  a  gran  torto  ò  posto  nome  a  la  lìngua  nostra  Italiana.    E  come  potette  più  in  cotesti  tem|M  (lasciando  or  le  querele  da  banda)  V  antorità  di  cotestoro,  che  ifoella  de' Fiorentini,  se  il  principio  de  la  lingua  e  il  fonie  è  in  Firenze,  e  fondato  in  sa  gli  scrittori  fiorentini?   GtXtL  I  Fiorentini,  attendendo  in  cotesti  tempi  quasi  tutti  a  la  mercanzia,  a  la  quale  sempre  è  stata  molto  inclinata la  città  nostra,  e  forse  |mù  per  bisogno  che  per  natura,  rispetto  a  la  magrezza  del  paese  ;  non  davano  opera  alcuna,  se  non  pochissimi,  a  la  lingua  latina,  e  molto  meno  a  la  greca  ;  e  cosi  non  venivano  a  considerare  la  propria  »  e  a  riconoscer  l'arte  e  lo  studio  che  avevano  usato  in  essa  Dante,  il  Petrarca  e  il  Boccaccio:  anzi,  quando  leggevano  questi  autori,  attendevano  pio  le  istorie,  che  altra  cosa.  Di  maniera  che,  se  vi  ricorda  bene,  crono  molto  più  stimati  allora  i  Trionfi  del  Petrarca,  che  le  Canzoni  e  Sonetti  suoi.  Ma  In  alcune  altre  città  toscane,  dove  per  la  fertilità  e  grassezza  del  lor  paese  non  è  il  guadagno si  necessario,  attendendo  que'  cittadini  a  gli  studj  de  le  buone  lettere,  cominciarono  a  considerare  molto  (Nrima  di  noi  ne'  nostri  scrittori  la  bel-  lezza di questa  lingua,  e  ad  osservare  ne  lo scriverla  quelle  terminazioni  e  quelle  concordanzie  de'  singolari  e  de'  plura-  li che  que'  nostri  avevano  usate.  Bene  è  vero  che  per  la  lor  favella  natia  pronunziando  non  come  noi,  e  mescolandoci  ancora  qualche  parola  de  le  loro,  ce  l'hanno  condotta  a  r  essere  che  voi  medesimo  vi  vedete. Lo avere adunque i nostri atteso a la mercatura  e  non  a  le  lettere ,  e  la  moltitudine de' travagli  che  sempre  ci  sono  stati,  fecero  per  lungo tempo  restare  in  dietro  e  quasi  che  perdersi  interamente  gii  avvertimenti  e  l'arte  usata  da' tre sopra  detti  ne  la  nostra  lingua;  e  i  primi  che  cominciassero  in  Firenze  a  riosservargli,  e  ne  la  fovella  e  ne  la  scrittura,  furono  quegli  stessi  litterati  che  usavano  a  l' Orto de' Rncellai.  E  ricordami  che  e'  non  potevano  restare  di  maravigliarsi  di  alcuni  litte-  rati poco  avanti  la  loro  età,  che  avevano  composto  in  versi  e  in  prosa  di  questa  lingua  senza  alcuna  osservazione;  parendo  loro  impossibile  che,  avendo  pur  veduti  gli  scritti  di  que'  tre  famosi,  e'  non  avessero  aperti  gli  occhi  a  le  loro  osservazioni,  e  non  si  fossero  accorti  in  quanta  corruzione    fosse  incorsa  la  beHìssima  lingua  che  noi  inrliamo.  Da  co-  storo avvertiti  Cosimo  Rocellaì,  Lnigfi  Alamanni,  Zanobi  Baondelmonti,  Francesco  Guidetti  e  aiconi  altri,  i  qaali»  praticando  con  esso  Cosimo»  si  trovavmo  spesso  a  rOrU»  con  qoe'  più  vecchi,  c«ninciarono  a  cavar  foori  le  dette  consi-  derazioni, e  a  metterle  tanto  in  atto,  che  la  lingua  n'  è  poi  tornata  in  quel  pregio  che  voi  vtdele.   BarloU,  Tu  di'  il  vero,  GeUo  mio  caro;  perchè  e'mi  rioor*  da  che  da  venticinque  anni  in  dietro  non  erano  versificatori io Firenze,  se  non  tre  o  qoattro;  a'  qnali,  senza  avere  altri-  menti oensiderazione  akana  di  terminazioni  di  parole ,  di  concordanzie  di  numeri,  o  d' altra  cosa  che  faccia  bello,  ba-  stava solamente  che  e'  rimassero  e  fusser  versi.  £  chi  lo  vuol  vedere  e  toccar  con  mano,  legga  le  rappresentazioni  che  si  facevano  in  que'  tempi:  le  quali  quando  io  considero  chenti  elle  sono,  e  quanto  non  solamente  poco  verisimili,  ma  impossibili  e  mostruose,  mi  fanno  tenere  per  di  poco  giudizio  e,  per  dirla  cosi  fra  noi,  molto  goffi  tutti  coloro  che  potevano  stare  a  udirle  ;  e  mi  iinno  credere  che  se  elle  si  facessero oggi cosi, i fanciulli, non che altri, uccellerebbono si a la scoperta i  compositori,  che  e'  se  ne  rimarrebbono  in-  teramente per  lor  medesimi.   eretti.  E  da  che  vi  pensate  die  nasca  questo,  se  non  da  r  essere  oggi  in  Firenze  cosi  gran  numero  di  persone  che  hanno  bonissima  cognizione  de  la  lingua  latina  e  greca?  le  quali  essendo  state  necessitale  ne  lo  impararle,  a  vedere  i  veri  poeti,  hanno  assai  chiaramente  conosciuto  che  cosa  sia  poesia,  e  quanto  sia  verbigrazia,  centra  i  precetti  de  Tarte  il  ridurre  tutta  la  vita  di  uno  uomo,  o  pur  le  azioni  di  venticinqoe  o  trenta  anni,  in  due  o  tre  ore  di  tempo  che si  consuma  nel  recitare.  E  a  cagione  che  e'  non  si  abbia  a  dire  de'  casi  loro  quel  motto  di  Orazio   Delfinum  silvis  appingit,  fluctibus  aprum,   non  hanno  solamente  lasciali  cotesti  errori,  ma  sbanditili  ancora  in  tuUo  da  le  loro  composizioni,  e  si  sono  ridotti  a  quello  uso  buono  che  avevano  i  Latini e i Greci. Olire  a  questo,  avendo  appreso  per  via  di  regole  quelle  due  lingue.    31S  miaoiiAanno  ummo  aua   c4HMM6eiido  quante  e  quali  nano  le  parti  del  pariare,  e  in  cbe  modi  elle  debbino  accompagnarsi ,  cominciano  a  favel-  lare tanto  rettamente  e  con  tanta  leggiadria,  che  io  mi  persuado  gagliardamente,  la  nostra  lingua  esser  molto  Tidna  a  quel  sommo  grado  de  la  perfexione,  oltra  il  quale  non  si  può  salire.   BartoU.  E  se  cori  è,  die  cosi  la  tengo  io  ancora,  perehè  non  si  può  eDa  adunque  mettere  in  regole,  e  farla  perfetta  alilittoT   GM.  A  le  cagioni  che  io  ve  ne  ho  di  già  assegnate,  si  aggiagne  questa  altra  ancora,  che  non  è  di  poco  momento:  ed  è  il  non  avere  in  su  che  fondare  e  formare  esse  regole;  eonciossiachè  in  su  gli  scrittori  non  si  può,  non  avendone  noi  alcuno  che  si  possa  tenere  per  bello  e  per  buono  tutte  quello  che  egli  ha  usato.  Perchè,  cominciandoci  da  qne'  tre  primi  che  sopra  gli  altri  sono  approvati,  Bante,  oltra  lo  esser  poeta,  ebbe  dal  secol  suo  rozzo  e  duro  molte  e  molte  parole lasciate  oggi  in  tutto  da  Y  uso.  H  medesimo  avviene  al Boccaccio, nel  qoal  sono  e  modi  e  parole  che,  se  ben  fìiron  belle  in  quel  secolo,  l' oso  di  oggi  non  le  riceve. E il Petrarca, se bene ha la sua lingua assai più purgata, per essere (come io dissi in Dante) poeta, per le molte licenzie che a' poeti son concedute, non è materia conveniente a formarne le regole per la prosa. BarUAL Io non so, Gello mio, come questo sia da concedere; perchè, se bene da que' primi due, rispetto a le licenzie poetiche, non si posson trar buone regole, il Boccaccio è por tanto bello e tanto pregiato universalmente, ch'io non so perchè tu lo sfugga. GéUU. Il Boccaccio, per quanto ne dicono questi suoi, si imaginò di usare i tre stili: l’alto, nei  Filocolo; il mediocre, ne la Fiammetta; e il basso, nel Decamerone. Il che se bene gli successe o no, non ci accade ragionarne ora. Basti  che la più approvata de le sue cose è il Cento novelle; opera beila certo e piacevole, ma non da essere in tutto imitate rispetto ad alcune costruzioni che, per non esser piaciute a Toso, son restate del  tutto in dietro, e ad una infinità di parole che sono oggi aborrite e fuggite da gli scrittori: come, yerbigrazla,  bwma  pezxa ìa  Intogna,  gravenza, abUawBa, niquUoso, avaecio, autorevole, contezza, deliberanza, sezzaio. M a  che  sto io a contarle a toì che ri faceste sopra la tavola y e le notaste già taile quante?  BartoU. Certamente queste si fatte voci non solamente si usano oggi da molto pochi, ma elle non sono ancora più accettate per fiorentine, e pare che elle offendine  altrui  r  orecchie,  se  pur  si  truova  qualcuno  che  V  usi.   Getti.  Non  si  possono  adunque  le  regole  toscane  cavare  da  gli  scrittori.   Bariolù  Gavinsi  le  fiorentine  (che de V altre  non  tocca  a  noi)  da l’uso  di  FirenzeGeUù  £  questo  anche  mal  si  può  fare;  dovendosi  (come  io  dissi  non  molto  avanti)  pigliar  V  uso  non  d'ogni  tempo,  ma  de  la  età  dove  la  lingua  fu  nel  suo  colino. Il che non possiamo saper noi altri,  poi  che  e  la  è  viva,  e  va  a  T  insù  ;  avvenga  che  voi  forse,  come  alcuni  forestieri,  vi  persuadia-  te che  ella  fusse  nel  sommo  grado  ne  la  età  di  que'  tre  scrittori.   Bartolù  Questo  no;  anzi  tengo  per  fermo  che  ella  fusse  nel  nascimento,  e  che  ella  avesse  quasi  principio  da  essi  tre,  per  essere  stati  Dante  e  1 Petrarca  i  primi  in  questi  paesi  che  cominciassero  avere  tanta  notizia  de la lingua latina  più  de  gli  altri  uomini,  che  e'  ne  furono  chiamati  suscita-  tori e ritrovatori;  come  apertamente  si  può  vedere  nel  pri-  vilegio conceduto  ad  esso  Petrarca,  quando  publicamente  fu  coronato  nel  CamfMdoglio:  e  il  Petrarca  e  il  Boccaccio  de  la  greca,  de  la  quale  non  si  aveva  in  Italia  notizia  alcuna  ne  la  età  loro,  se  non  piccola  e  defettiva. Laonde  bramandola questo ultimo sommamente, condusse a Firenze un Greco, per quanto si legge ne la sua vita, che glie la insegnasse, e una  quantità  di  libri  greci,  lasciati  poi  da  lui  stesso  dopo  la  morte  a  la  libreria  del  nostro  Santo  Spirito.  Costoro  adunque,  mediante  la  cognizione  di  queste  lingue,  cominciarono  a  parhire  rettamente  e  ordinatamente,  migliorando e inalzando  tanto  il  nostro  idioma  da  quello  che  egli  era,  per  quanto  veder  se  ne  può  in  que'  che  scrissero  avanti  a  loro,  che  noi  possiamo  liberamente  tenere  e  dire,  che  il   vero  nascimettto  e  principio  di  questa  libgtta  fa  solunente  dalor  tre:  ma  che  e'  non  foron  già  poi  segniti  né  imitati  ne  lo  allegarla  secondo  i  modi  posti  da  loro,  imperoceliè  chi  venne  dopo,  non  essendo  dato  a  gli  stadj^  noA  eomiderò  lecostrocioni  e  le  terminazioni  osate  da  lèro»  e  iMcMla  di  tempo  in  tempo  cadere  in  ^ella  barbarie  die  iMd  eenllm-  mo  non  son  molti  anni.  Ma  io  dico  bene>  che  poi  the  g^i  uomini  hanno  ricomincialo  a  considerarla,  come  fecero  qnegli  de  r Orto,  e  ad  osare  i  modi  de tre  nostri  Inmi ella  é  tanto  migliorata  a  poco  a  poco,  che  io la tengo  oggi  nsolto  piA  bella  universalmente,  che  eOa  non  era  ne'  tempi  loro  ;  e  che  se  eglino  scrissero  cosi  bene  allora  (^il  che  fn  molto  più  da  impotare  a  lo  ingegno  loro  che  a  4a  bontà  de  la  Ikigoa),  scriverebbero  molto  meglio  oggi  :  non  essendo  necessitati  da  la  povertà  Òe  la  lingua,  che  oggi^  è  ricchissima^  ad  osare  quelle  parole  che  più  non  piacciono,  eqoe'  modi  ohe  son  fuggiti  da'  nostri  orecchi  ;  di  modo  c^e  nel  volto  ancora  del  Petrarca  non  si  scorgerebbero  q«e'  pochi  avvegnaché  pic^  eolissimi  nei,  che  i  ben  purgati  giudizj  vi  riconoscono.   GelU.  Io  credo  che  voi  giudichiate  bene, e  che  la  cosa  stia  come  voi  dite. Ma io voglio  andare  un  passo  più  là,  e  dire,  che  essendo  ancor  vìva  la  lingua  nostra,  e  in  maggiore  speranza  di  avere  a  vivere,  che  eUa  fosse  fom  ancor  mai,  egli  non  si  può  affermare  che  la  nstnra  (la  quale  iton  si  stracca  e  non  invecchia  mal,  anzi,  se  bene  ella  varia  talora  alquanto,  è  por  sempre  quella  medesima)  non  possa  e  non  abbia  ancora  a  produrre  de  gì'  ingegni  simili  a  loro;  i  qoali,  trovando  la  nostra  lingoa  in  molto  maggior  perfezione  che  non  la  trovmrono  i  sopradetti,  serivino  non  solamente  bene  cernie  qoelli,  ma  forse  ancora  assai meglio  di  loro»   Bartolù  £  questo similmeiite  mi  par  di  credere,  essendosi veduto ne' tempi nostriche in quaiuncàe faciità, e particnlarmente ne  la  architettura, pittura  -e  scoltura,  ha  la  nostra  città  generati  aiconi  che  non  solo  haano  paseggiaU  i  famosi  antichi,  ma  forse  ancora  avanzatili  in  ^oalohe  cosa»   GellL  Non  si  poò  donqoe  dire  dM  ella  sia  ne  lo  stato  Mio>  veggendosi come di giorno in  gèomo olla va «i  soo  augomento;  e  potendosi  agevdmente  far  conieltara  da  te cose  che  soprareiigoDO,  ehe  ella  abbia  ancora  a  farsi più  ricca  e  saolto  più  beUa.   MartoU.  E  q«ali  Mm  questo  cose Gello?   GeUù  Molte  e  molte  sono,  messer  Cosimo;  e  dae  sopra  tatto  l'altre.  L'nna  de  le quali è la  moltitadine  grande di ei^oro  che  oggi  si danno,  in  Firenze a la lingna  latina  e  greca;  i  quali  imparando  quelle  con  regola, avellano  dipoi  ancora  reg<^tamente  la  nostra,  e  con  leggiadria;  e  da  questi  imparando  gli  altri,  mossi  da  quello  ingenito  desiderio  ohe  ha  ciascuno  di  non  volere,  in  quello  che  egli  può,  essere  in  maniera  alcuna soprayanzato da i suoi pari,  faranno  di  mane  in  mano  la  lingua  più  bella più  onorata,  si  col  parlare  e  si  col tradurre,  arrecandoci le scienzie  e  V  arti  che  elli  imparano  ne  l' altre  lingue.  L'a&tra  è  il  cominciare  i  principi  e  gli  uomini  grandi  e  qualificati  a  scrivere  in  questa  lingua  le  importantissime  cose  de'  governi  de  gli  Stati,  i  maneggi  de  le  guerre  e  gli  altri  negozj  gravi  de  le  faccende,  che  da  non  molto  in  dietro si  scrivevano  tutti  in  lingua  latina.  Perché,  non  vi  date  a  intendere  ehe  una  lingua  diventi  mai  ricca  e  beila  per  i  ragionamenti  de'  plebei  e  de  le  donniciuole,  che  faveUan  sempre  (rispetto  a  lo  avere  concetti  vilis6imi)di  cose  basse:  chò  e'  sono  solamente  gli  uomini  grandi  e  virtuosi,  quelli  ehe  inalzano  e  fanno  grandi  le  lingue;  imperocché,  avendo  sempre  concetti  nobili  e  alti,  e  trattando  e  maneggiando  coae  di gran momento, e ragionando  bene  spesso  e  discorrendo sopra  quelle  in  prò  e  in  contro,  persuadendo  o  dissuadendo, accusando o lodando,  e  talvolta  ancora  ammo-  nendo e  insegnando,  fanno  le  lingue  loro  copiose,  onorate,  ricche  e leggiadre.  Per  queste  due  cose  adunque,  ancora  che  altre  cagioni  non  ci  fossero,  si  può  giustamente  sperare  ^M  la  nostra  lingua  abbia  a  essere  ancora  un  giorno  tanto  pregiata  appresso molti  che  nasceranno,  quanto  sono  oggi  appresso  di  noi  e  la  greca  e  la  latina.  £  conseguentemente  concludo,  che  non  essendo  ella  ancor  pervenuta  a  lo  stato  suo,  non se ne possa far regola, che in tempo non molto lungo non abbia a scoprirsi defettuosa, e non più tale quale oggi forse ci apparirebbe. Si come avviene, per esemplo, ne la pittura; dove i ritratti de giovanetti, se bene  gli soniigliono interamente quando e' son fatti y  non  vi  corre  però  gran  tempo che,  cambiandosi lo aspetto del ritratto nel farsi egli nomo, tanto varia  la effigie, che non lo somiglia più, né  apparisce  più  qnel medesimo. BartolL  Orsù, pongbiamo  per  le  tante  cose  allegate da te,  cbe  a  r  Accademia  non  si  convenga  il  fare  queste  regole  :  vuoi  tu  però  affermare  al  tutto,  che  una  persona  privata  e particolare,  lasciando  favellare  ad  arbitrio  loro  qualonche  città  e  luogo  de  la  Toscana, senia  difettargli  o  ripotargli  da  meno  per  questo, non possa  almanco  da  i  tre  primi  nostri  scrittori  e  da  T  uso  di  Firenze formare le regole, che a'tempi  d' oggi insegnino  favellare  rettamente  a'Fiorentini  stessi,  e  a  chi  pur  volesse  imitar?   GeìU.  Oh  questo  no,  messer  Cosimo; perchè  io  mi credo  pure,  che  un  solo,  in  suo  nome  proprio  e  non  di  Accade-  mia, con tutte quelle avvertenzie che voi avete dette, sicuramente le possa fare.   Bartoli,  E con  qoal  ordine?  o  in  che  maniera?   Geìli, Dirovvelo:  ma  perchè  voi  mi  intendiate  più  facil-mente, avvertite che questa lingua, come quasi tutte l'altre cose di questo mondo, ha  due parti principali; la materia, cioè, e la forma: la materia sono le parole de le quali ella è fatta; e la forma è qod modo e quell' ordine col quale son conteste  e  tessute  insieme  l' una  parola  con  Y  altra,  che  si  chiama  ordinariamente  la  costruzione.  Di  queste  due  parti la  materiale,  o  de  le parole,  non  tengo  io  per  molto  difficile  a  metterla  in  regola;  ancora  che  ella  abbia  forse  bisogno  di  lungo  tempo,  rispetto  a  lo  aversi  a  fare  un  vocabolista  di  tutte  le  voci  che  si usano,  come  aveva  già  cominciato  il  nostro  Norchiaio,  prima  che  morte  gli  troncasse  il  volo.  Ma  de  la  costruzione,  o  volete dire de la forma, ne la quale consiste tutta la bellezza e la leggiadria de la lingua, e appresso di noi è per avventura molto più dolce che ne' nostri vicini,  non  so  io  come  ella  possa  mostrarsi  meglio  che  da  gli  esempi  de'  tre  scrittori   Bartolù  Oh  Gello,  e'  mi  ricorda,  a  questo  proposto  de  la dolcezza  de  la  testura  del  parlar  nostro,  che  messer  Alessandro  Piccolaomini,  persona dottissima e tanto rara qaanto lo sai,  ritrovandosi  in  casa  mia,  e  leggendo  aicani scritti  dì  questi  nostri,  rivoltatosi  a  me, disse:  come  può  e'  mai  essere,  messer  Cosimo  mio,  che non essendo le patrie nostre più lontane  V ttna da V altra che trenta miglia, noi altri non abbiamo le clausole  cosi  dolci  e  gli  andari  tanto  piani e si ordinati,  quanto gli veggiamo  e  sentiamo in  voi  Fiorentini?   GéìU.  £  voi  vedete  bene  che  tutti  costoro  che  fino  ad  oggi  hanno  fatto  le regole  del  parlar  toscano, distendendosi  ne  le  declinazioni  solamente, si  hanno  passato  la  costruzione  senza parlarne  se  non pochissimo, come cosa troppo difficile e ad essi forse mal riuscibile. Laonde, circa il formarequeste regole,  non maffaticherei molto ne là prima parte; ma dichiarate le parti de la orazione, e dimostrate le declinabili  e le indeclinabili,  e  gli  esempli  de'  verbi,  massimamente con quella diversità  che  è tra l'uso  moderno e quello che  e' dicono de' nostri antichi,  me n'andrei  tutto  a  la  costruzione.  Ne la quale, consistendovi  (come ho detto)  tutta  la  importanzia  di  questa  lingua,  vorrei  io  certamente usare  una diligenzia più là che estrema, togliendo  da'  tre sopra  detti  tutto  quel  che  fusse  ben detto.  Il che,  al  giudizio  mio,  solamente  sarebbe  quello che  V  uso  di  oggi  si  ha  man-  tenuto;  essendo l’orecchio  nostro  inclinato  naturalmente  a  lasciar  sempre  le  cose aspre, dure e difficili, e seguitare le dolci e le facili. Per la qual cosa, giudicando io che oggi si favelli meglio in Firenze che in nessun  de'  tempi  passati,  attribuisco  molto  a  l' uso, non di Mercato e del vulgo vile, ma de' nobili e qualificati de la nostra città, come io dissi poco di sopra. Bartoli. Questo è appunto l' ordine stesso e il modo che il nostro GiambuUari tenne in quelle sue regole, che egli, già son tre anni, donò a lo illustrissimo signor Don Francesco de' Medici primogenito di Sua Eccellenza. Gellù Voi dite il vero, che il GiambuUari che mi è quello amico che voi sapete, me le conferi molte volte, e massimamente r anno passato, quando eravamo in questo maneggio: e perchè e' mi parve sempre che egli avesse trovato la vera via, e con una diligenzia maravigiiosa  fatto  ciò  che fosse possibile farsi in questa materìa, però metto io a campo di nuovo lo stesso modo die egli ha tenuto. Ma perchè non le comunica egli ora mai con  la stampa a taUe le genti che le desiderano? BartoìL Sta di buona TogUa, Geiio, che io ne Tho tanto contaminato che  egli  finalmente  mi  ha  dato  non  solo  esse  reg(^9  ma e libera e pimia  licenzia  che  io ne  &ccia la  vof^ia  mia. E cosi fra non molti giorni comincerò a fturle stampare,  che di tanto son convenuto col Torreatmo.  GM.  Sollecitate  dunque,  messer  Cosimo  mi,  perché farete gran benefizio a chi desidera imparar dal buono. Maperchè  noi  siamo  oramai vicini a  l'ora  de la  nostra cena,  rimanetevi con  Dio,  che  a  casa  sono  aspettato.   Bartolù Dì grazia, cena con esso meco. GellL Non questa sera, messer Cosimo, che dovendo trovarmi in un altro luogo, non posso mancar de la mia promessa. Restate con la buona notte. BmtkdL Poi che cosi ti piace, va' ool oom di Dio. Tanto fu, messer Pierfranoesoo  mio  onorando,  il  ragionamento che avete chiesto; e messer Cosimo nostro ve ne può render testimonianza: Catene adunque come di cosa vostra, che io ve ne fo un presente, e vivete felice ricordandovi che il GeUo è vostro. Di  Firenze. Come ora si direbbe  importunato, o seccato. Velia  Crusca  non  è  con  questo significato.  Io non credo, magnifico signor Consolo, prudentissimi Consi glieri, e voi altri virtuosissimi Accademici e maggiori miei ono randi, ? che con voi, i quali sapete i nostri ordini, e come più per imparare esercitandomi,che per insegnare ad altri,io sia salito oggi in questo luogo,sia di bisogno che io ne faccia seusaalcuna.Ma perchèforsequalcundiquest'altriuditoripo trebbeingiustamente incolparmidipresunzione,essendoioil primo che dopo due si dottissimi e famosissimi uomini, mes ser Francesco Verini filosofo eccellentissimo, e Andrea Dazi tanto nella greca e latina lingua celebrato, sia salito sopra que sta onorata cattedra, non vi sarà grave comportare che in escusazione e scarico mio io dica loro alquante parole. Nobilissimi uditori, iquali tirati dalla fama dei valenti uomini che insino a questo giorno hanno letto in questa nostra Acca demia siate venuti qui,se ilritrovarci in cambio di quegli oggi m e, il quale sa re i molto più atto a tacere che a parlare, v i a r recherà maraviglia,non dovete perciò incolparmi di presunzione. Imperò che avendo ordinato questi miei maggiori Accademici, che per esercizio nostro,per esaltazione di questa nostra lin gua nativa,e per imparare a esprimere in quella inostri con cetti, ciascuno di noi legga una volta quello che più gli piace, ha voluto la sorte che io sia ilprimo a dar principio a così lode devole,eseionon me neinganno,utilissimoesercizio.Nè debbe. Le parole e maggiori miei onorandi mancano nella 2^ T.  La 1a T., ingiustamente potrebbe. 3 La fa T., auditori. certamente esser preso questo se non per buono e felicissimo augurio di questa nostra Accademia.Perciò che se le cose che fa la natura sono più ferme e più stabili che quelle della fortuna, per procedere quella con ordine e questa senza,ed essendo l'or. dine della natura 'andare sempre dallo imperfetto al perfetto (si come noi manifestamente veggiamo verbigrazia ? nella creazione dell'uomo, dove e l l a fa primieramente un pezzo di carne , il quale è solamente animato d'anima vegetativa come le piante,da im e dici chiamato embrione, e secondariamente infondendovi l'anima sensitiva*lo fa animale,e finalmente gli dà l'anima razionale,la quale è l'ultima perfezione sua),dovrà senza dubbio questa nostra impresa aver anch'ella felice successo,da che io,che sono il più insufficiente di sì bel numero, sono il primo a darle principio. Se dunque voi non,udirete oggi da me cosa degna de'passi spesi da voi a venire in questo luogo,non mancherete però di venire a udire quest'altriche dopo me leggeranno ; da i quali, per esser queglio e per natura e per professione di gran lunga più sufficienti che non sono io, caverete tal frutto, che di que. stie di quelli vi ristorerà largamente.La lezione nostra sarà unluogodiDantenelXXVI capitolodelParadiso;ilquale, per trattare alcune cose del parlare, mi è parso molto al pro posito nostro,essendo questa nostra Accademia stata principal mente ordinata per utilità di questa lingua,o per dir meglio, usando le parole stesse del nostro Boccaccio nella quarta gior nata,di questo nostro fiorentino,volgare. Presterretemi adun que grata udienza come avete cominciato, se non per altro, almeno per dare animo a coloro che dopo me leggeranno; da i qualisenzacomparazionecaveretemaggiore dilettoSemaggior frutto.Ma vegnamo alla nostra lezione.  La 1a T.,di quella. ? verbigrazia è della 2a T. 3 La 1a T., solamente è. 4 Nella 2a T. manca sensitiva. s La 1a T., l'ultima sua perfezione. quegli è della 2a T. 7 La 1a T.,che io non sono. 8 La 11 T., caverete e diletto maggiore ecc.   conosciuti,dico,iviziiepurgatosi”da essi,asceseper contem plazione sopra i cieli alla gloria de'beati. Intra i quali trovato il primo nostro padre A d a m o, 4 come desideroso di sapere, lo . dimandò di alcune cose ; fra le quali fu questa,che io oggi ho preso per materia del nostro ragionamento, cioè qual fusse lo idioma o vero il linguaggio nel quale, quando ei fu fatto da Dio,egliprimieramente parlò.Allaqualedimanda rispose Adamo in questa maniera: La lingua ch'io parlai fu tutta spenta Innanzi che all'opra 5 inconsumabile  Libero, sano e dritto 3 è tuo arbitrio, Fosse la gente di Nembrot intenta.6 Che nullo effetto ? mai razionabile Per lo piacer uman,che rinnovella, Seguendo il cielo, fu sempre & durabile. Avendo il divino nostro poeta Dante, poeticamente parlando, nel suo discendere allo Inferno conosciuto tutti i vizii e i p e c cati, che cosi per malizia e per matta bestialità come per umana incontinenza e fragilità si possono commettere,ed essendosene nel passare del Purgatorio in cotal modo purgato, ch'egli era tornato1in quello stato della innocenza nel quale fu creata da Iddio l'umana natura ; là dove la parte nostra inferiore, irra . zionale e mortale, alla superiore, razionale e immortale, stava obbediente, nè punto ardiva la sensitiva e carnale, dalla origi nale giustizia regolata, levarsi e combattere contro allo spirito; tal che dal suo precettore gli fu detto: fallo fora non fare a suo senno; | La 1a T.,che tornato era. 2Cr.Libero,dritto,sano. •La 1aT.,purgato. * La 1a T., Adam . 5Cr.oora. 8Cr.lagentediNembrotteattenta. • Cr, affetto. 8Cr.semprefu.   Opera di natura è ch'uom favella;' Poi fare a voi,secondo che viabbella. Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, Donde s vien la letizia che mi fascia. Elle*sichiamò poi,eciòconviene; Però che l'uso umano 5 è come fronda In ramo,che sen va,ed altra viene. Da queste parole di Adamo caviamo noi oggi tre principali conclusioni.La prima è,come la sua linguasispenseemancò tutta, innanzi che Nembrot cominciasse a edificar la torre ; cosa molto contraria alla volgare oppenione.La seconda,la ragione perchè si mutino i parlari. La terza, la risposta a una obie zione che se gli potrebbe fare,dove egli adduce alcuni esem pli in confermazione di quanto egli ha detto,come largamente si vedrà nel nostro ragionamento.Cominciamo ora adunque a esaminare la prima,con l'aiuto di Colui dal quale depende ogni nostra sufficienzia. Avendo l'onnipotenteIddio,nellaproduzione delmondo,creato tutte le cose insieme con l'uomo,non perchè elle fossero in lor medesime solamente, maperchèelle fosseroancor principio del l'altre, ciascheduna di quelle della sua specie, non tanto nel generarle, quanto nell'instruirle e governarle,bisognò ch'egli le .creasse nel loro perfetto essere.Dalla quale ragione mossi dis sero alcuni dottori ebrei che il mondo fu creato di settembre; perciò che allora pare che tutti gli alberi,insieme con l'erbe, abbianocondottoaperfezioneifruttiloro.Fu adunque(lasciando stare l'altre cose) creato l'uomo da Dio nel suo stato più per fetto, e in quanto al corpo e in quanto all'anima. In quanto al corpo,sano,bene complessionato,e di età di trenta o tren +Cr.Operanaturaleèch'uom favella. 2Cr.El. öCr.Onde.  M a , cosi o cosi, natura lascia Un : s'appellava in terra il sommo bene, Cr. El. 5 Cr. Chè l'uso de'mortali. ancor è della 2a T. 1 6  tacinque anni, secondo la maggior parte dei dottori, acciò che ei fusse atto alla generazione.E in quanto all'anima, ripieno di tutte quelle scienze, alla cognizione delle quali si può na turalmente pervenire, acciò chè ei potesse insegnare a quegli che nascessero di lui tutte quelle cose che sono necessarie alla vita e al bene esser nostro. Con questa cognizione pose Adamo inomi convenientiatuttelecose,secondolaloronatura;eformò uno idioma,o vogliam dire uno parlare,con ilquale ei po tettemanifestareaidescendentiisuoiconcetti.Ma qualfusse questa lingua, non si sa già manifestamente per alcuno scrit tore. Gli Ebrei, come si legge ne’loro dottori sopra lo XI del Genesi, ove il testo dice che alla edificazione della torre di N e m brot si parlava in terra d'una sola lingua, dicono questa essere stata la loro, ed essersi così dal principio del mondo miraco losamente conservata intera e incorrotta (la qual cosa a nes sun'altra è avvenuta giammai "), per avere parlato Iddio sempre -ma i a Moisè e a g l i altr i suo i profeti in quella ; e questo è ancora confermato da loro'con l'autorità dei loro Cabalisti,la quale può molto appresso di loro.Il che nasce dalla opinione ch'egli hanno, che quando Iddio dette la legge a Moisè sopra ilmonte Sinai,egli:glidesseancoralainterpretazionediquella, e gli manifestasse molti altri profondi misterii, contenuti e n a scosi sotto la lettera di quella, si come scrive Esdra nel suo primolibro.Ma dicano ch'egliglicomandòsch'einonscri vesse altro che la Legge,e l'altre cose dicesse a bocca a quelli che reggevano ilpopolo.Per laqual cosa,disceso dal monte, solamente le rivelò a losuè;e Iosuè dipoi a i settantadue più vecchi del popolo;e quelli dipoi per ordine successivo le re velaronoailorodiscendenti.E questadicanoesserelascienza Cabala,che non vuol dire altro che ricevuta a bocca per suc cessione. Questa oppenione ebrea ha molte difficultà. Primiera  1 giammai è della 2a T. · La 18 T., e questo ancora confermano. 3 La ja T., esso. * Cioè, dicono ; cosi, appresso , scrivano per scrivono, e simili. 5La14T.,eglicomando.   mente,sicomescrivanoiloroTalmudisti,'e'non parech'eisia vero che questa lingua ch'egli usano,e nella quale è scritta? la Legge, sia la lor prima e antica lingua.Imperò che Esdra, loro sommo sacerdote, nella restaurazione del tempio dopo la servitù Babilonica,5 temendo che se gli avveniva loro un'altra avversità simile, la Legge totalmente non si perdesse, ragunò tutti i savi loro; e fece scrivere quella, e ciò ch'ei sapevano appartenente a quella, in settantadue volumi. Ne'quali si legge che, per essere stati tanto tempo in quella servitù, mutarono molto il modo dello scrivere e dell'antica favella loro, e tro varono nuovi caratteri e nuovi punti, i quali sono quelli ch'egliusano oggi;equesto ancorapare,chesentaS.Girolamo nel prologo sopra i Libri dei Re. La ragione, per la quale ei dicano che Iddio parlo in quella, non è d'alcuno valore; i m però chè quasi tutti i loro scrittori, o la maggior parte, sopra iProfetidicanoIddiononaverparlatomai aquellivocalmente, ma quando egli ha voluto manifestare qualcosa o a Moisé a aglialtri,avere loro formato nella mente uno concetto,per il quale egli hanno inteso pienamente la volontà sua.'L'autorità Cabalistica,dalla servitù Babilonica in qua,non ha avuta molta fede; imperò che allora molti di loro, e per la servitù, e per la loro natura ch'è molto superstiziosa,come scrive Apuleio nel primo libro de'Floridi, scrissero di molte cose (dicendo di averle avute da iloro Cabalisti),che sono manifestamente contro alla lorleggeecontro alla ragione naturale;come sileggenelloro TalmutBabilonico,ilqualenonèaltrocheunoraccoltodi sen tenzie dei loro sapienti di quel tempo.Aggiugnesi ultimamente a questo, che secondo essi medesimi la loro lingua, con loro insieme, ebbe così nome da Eber figliuolo di Sem ,figliuolo di Noè , al quale nella divisione della terra toccò l a Giudea ; il c h e ·La 1aT., pererrortipografico,ha Tamuldisti;diquilosconciodella2a, che ha Tamulisti. 2 La 18 T., hanno scritto. i La 1a T., la Babilonica servitù. mai è della 2a T. La 1a T., la sua volontà. delle.   6 La 1a T.,   I Caldei,o vero Assirii,dall'altra parte dicono similmente che la lor lingua fu la prima che si parlasse mai ; e certamente ellaètantosimileallaebrea,come diceSanGirolamo?nelpro logo di sopra allegato,ch'ei si potrebbe fare coniettura ch'elle fussero già stateo una medesima.E in confermazione di questo adducanoquesteragioni,conl'autoritàdiBerosoCaldeo,'ediMna seae Damasceno, e d'Ieronimo Egizio.Primieramente e'dicano che non si truovano scritture innanzi al diluvio,se non nella lingua loro;e queste esser certe cose di astronomia, insieme con la pre dizione del diluvio scritta da Enoc,figliuolo di Iared,bene cin quecento anni innanzi a quello,in certi pezzi di terra cotta, ac ciò che leacque non l'offendessero.E similmente dicano essere nel MonteGordeo’inArmenia,incertisassi,dovedopo quellosifermò l'arca, scritte in quel luogo da Noè in memoria di tanto caso alcune cose;"e illuogo ancor nella loro lingua chiamarsi Mirmi Noa, che tanto vale uscita di Noè. Aggiungano a questo,che Abramo,ilquale fu primo a dare principio al popolo ebreo, fu da Dio primamente cavato di Caldea.Plinio pare che fusse ancor egli di questa oppenione, scrivendo che le lettere assirie 3 Male le stampe Masea ; e la 12 T., con errore più grave, facendo di due scrittori uno solo,Masea Damasceno.Anche nel Giambullari,Origine della lingua fiorentina (Fir.,1549,p.19),trovasi quasi l'errore stesso, cioè Mnassea Damasceno. Mnasea,geografodellafinedel3°sec.avantia Cristo, e Niccola di Damasco o Damasceno, storico dei tempi di Augusto, sono citati,insieme con Beroso Caldeo e con Girolamo Egiziano,da Giu seppe Flavio nel primo libro delle sue Antichità Giudaiche, là dove ei parla del Diluvio.  fu'circa trecento anni dopo ildiluvio.Si che ei pare più ra gionevole, ch'ella avesse principio allora quando ella ebbe il nome,ch'ellasifusseparlataprimatantotempo.E così,come voi vedete, questa loro oppenione è molto dubbiosa. 1 il che fu non si legge nelle 1a T. La 1a T., S. Ieronimo. 3 La 1a T., che ella fusse già stata. 4 Caldeo manca nella 2a T. 6 cotta manca nella 2a T. ? Giuseppe Flavio, loc. cit., lo chiama Monte de'Cordiei. 8 alcune cose manca nella 1a T. sono eterne:la quale non di manco non è senza molte diffi cultà. Imperò che molti istoriografi degni di fede, e particular mente Iustino nel secondo della sua Istoria,tengono che la prima terra che fusse abitata sia la Scizia,e conseguentemente la lor lingua parimente sia stata o la prima. Il nostro Dante,parendogli che ciascuna di queste oppenioni fusse dubbiosa e incerta,sicome per il testo si vede,fu d'un altro parere diverso ; e a ciò lo indusse la esperienzia, maestra delle cose.Imperò che vedendo egli per lescritture le lingue di tempo in tempo variarsi, in modo tale che come egli scrive nel suo Convito) se quei che morirono cinquecento anni sono, risuscitatitornasseroallelorocittadi,eicrederebbonoche quell fosserodastranegentioccupate,perlalinguadaloro discor dante.E non potendo però per questo persuadersi che dal prin cipiodelmondo allaedificazionedellatorre diNembrot,dove corsero circa due mila . anni, sempre si conservasse un m e d e simo modo di parlare, induce Adamo a rispondere che quella lingua,la quale eiprimieramente parlò,sispense e mancò tutta, innanzi che le genti di Nembrot cominciassero a edificare la torre. Per la quale risposta si può chiaramente vedere che il libro Della volgare eloquenza,tanto da alcuni Lombardi lodato,e tra dotto (per dire come loro) in lingua italiana, non è di Dante, ma da qualcuno altro stato cosi composto,e col nome di esso Dante mandato fuora.Con ciò sia cosa che quivi sidicas che la prima lingua,che parlasse Adamo,fuquella che usano oggi gli Ebrei, e che ella durò insino alla edificazione della torre di Nembrot ; dove qui dice Dante il contrario. Oltr'a di  5 La 1a T., 022 que sto, quivi si biasima il parlare fiorentino, il quale Dante nel suo Convito loda massimamente. Le quali contradizioni non credo iomai che Dante non avesse vedute, o vedutole, accon 1 La 1a T. ha soltanto stata . ? Le stampe hanno dalloro ;ma parrebbe qui meglio convenire dalla loro. i della torre, manca nella 2a T. *La 1aT.,dumilia. dice . sentite e scritte.E questo basti per intelligenza della nostra prima conclusione.Or vegniamo alla seconda: Che nullo effetto 1 mai razionabile, Per lo piacere uman,che rinnovella Seguendo il cielo, fu sempre ? durabile. Rende la ragione Adamo perchè si mutino e variino i par lari; e comincia da questa dizione che, dicendo che nullo effetto razionabile,cioè nessuna cosa fatta dall'uomo, il quale si chiama animal razionale,per lo piacere umano,cioè per il desiderio e per loappetitoumano:questovocabolopiacerehanellanostra lingua duoi significati; primieramente e'si piglia per ogni sorte di diletto; e appresso, perchè a tutte quelle cose che noi de sideriamo, ottenute che noi le abbiamo, ne seguita la diletta zione e il piacere, ei si piglia ancora per il desiderio e per loappetitochenoiabbiamodiunacosa;sicome noiveggiamo usarlo dal Boccaccio in molti luoghi,e particularmente nella novella di Rustico e di Alibec,dove ei dice:cheper disporla a' suoi piaceri, cio è alle sue voglie: ed in questo significato l'usa qui Dante, dicendo:per lopiacere umano,cioè per ildesiderio umano,che sirinnova esimuta,seguendo ilmoto del cielo, fu sempre durabile.E qui con grandissima arte egli aggiunse sempre; imperò che ei si truovano molti effetti dell'uomo, si come sono le scritture,le statue e la fama, Che trae l'uom del sepolcro e'n vita il serba, come disseilnostroPetrarca,lequaliduranotantotempo,che gli uomini,per non vedere ilfineloro,l'hanno chiamate eterne; ma non però sono durabili sempre.La qual cosa mirabilmente espresse Dante medesimo in un altro luogo, dicendo: Tutte le vostre cose hanno la morte 3 Come che voi;* ma celasi in alcuna Che vive 5 molto, e le vite son corte.  1 Cr.affetto. 2Cr.semprefu. ö Cr.Le vostre cose tutte hanno lor morte. i Cr. Siccome voi. 5 Cr. Che dura.   E cosiharendutolaragioneperchèiparlarisimutino.Ma per maggiore intelligenza di questa sua ragione, è di necessità vedere per quello che l'uomo si chiami razionabile,e in che modo le sue voglie, seguendo i moti del cielo, si mutino. D e vetedunque saperecheilCreatorediquestouniverso,perfarlo più bello ch'ei poteva, fece in quello di ogni sorte creature ; e quelle dispose tra loro con tanto ordine,cominciandosi dalla prima materia che riceve lo essere di tutte le cose,e salendo di grado i n g r a d o in s i n o all'ultima forma, ch'è Iddio, il quale 1 dà l'essere a tutte,che ifilosofi l'assimigliarono a i numeri;i quali sono tra loro disposti con tanto ordine, ch'ei non si può tra loro inframettere unità alcuna senza variargli. Intra queste cose, alcune o furono da lui fatte perfette, e alcune imperfette. Perfette si chiamono : quelle che furono da lui create incor ruttibili,e in certo modo eterne, ed ebbero tutte le perfe zioni che si convengono alla loro natura insieme con lo essere, sì come sono, infra i corpi, i cieli, e infra gl'intelletti, quello dell'angelo.Imperfette poi si chiamono quell'altre,che furono da luicreate corruttibili e mortali,e che non ebbero da prin cipiotuttalaloroperfezione,ma sel'hannoacquistataconil moto e con il tempo,e oltr'a questo sono sottoposte a tutte le alterazioni che arrecano seco imoti celesti; si come sono, tra i corpi, le piante e gli animali, e tra gl'intelletti, quello del l'uomo,per essere col suo corpo mirabilmente unito.E questo fece il sommo Fattore, perchè a questo universo non mancasse alcuna sorte di creature, acciò che le perfette con la loro bel lezza e perfezione di natura ci tirassino alla contemplazione di esso Iddio sommo,e le imperfette, poste a lato a quelle,ci ren dessino la loro bellezza più maravigliosa e più desiderabile. L a qual cosa veggiamo noi che usano ancora 6 nei loro canti i m u . sici,mescolandovi delle consonanze imperfette, perchè quelle r e n dino poi le perfette più dolci e più grate a gli orecchi de gli iLa 1aT.,che. 2 2a T., alcune ne furono. 3 La 1a T., chiamo io. * La 1a T., Imperfette chiamo io ecc. 5 La 1a T., che ancor fanno.   ascoltanti.Ma perchè questo sommo benefattore e padre volle che ogni cosa potesse acquistare la perfezione sua, dette a cia scuna un valore e una virtù per la quale ad essa si conducessi, e una voglia e un desiderio ardentissimo che a quella le ti rassi; si come agli elementi uno valore che gli spigne a quei luoghi dove ei sono sempre perfetti, come alla terra lo andare alcentro,ealfuocoalconcavodellaluna,làdoveegliève ramente fuoco; (imperò che,come noi abbiamo da Aristotile nel primo delle Meteore, questo che noi veggiamo non è fuoco, m a è una soprabbondanza di calore,sicome è ilghiaccio nell'acqua una soprabbondanza di freddo); e alle piante uno principio in trinseco,' per il quale elle si nutrissero ed aumentassero e po tessero generare dell'altre simili a loro;? e agli animali uno principio di moto intrinseco, per il quale ei potessero fuggire quelle cose che fossero nocive e disconvenienti alla natura loro, e seguir quelle che fosser loro salutifere e convenienti, insieme con un desiderio innato che gli spingesse a cercarle. Questo principio nelle piante e negli animali è stato chiamato dai filo sofi natura, che altro non vuol dire, che quella potenza onde ha origine e principio quel moto,per il quale egli acquistano le loro perfezioni.E desiderando similmente ancor che l'intel letto dell'uomo acquistasse la sua perfezione, gli diede una po tenza o vero facultà, con la quale ei potesse similmente acqui starla,chiamata dai filosofi discorso o vero ragione.Imperò che l'intelletto dell'uomo non ha da natura altra cognizione che quella dei primi principii,insieme con ildesiderio dello inten dere,ch'è lasua perfezione:iquali,sìcome noi abbiamo da Ari stotile nel quarto della sua Prima filosofia,' sono le conclusioni che sono parimente chiare e note a tutti gl'intelletti, subito ch'egli hanno inteso itermini loro,come sarebbe questa:egliè impossi bile che in un medesimo tempo una cosa medesima sia e non sia; perchè ciascuno intelletto,subito ch'eisa che cosa è essere,e che 1La 1aT.,uno intrinsecoprincipio. ? La 1a T., dell'altre a loro simili. 3 La 1a T., valore. 4 La 2a T., della sua Filosofia.  40. Vol.II. cosa è non essere,sa che questa conclusione è vera per proprio lume intellettuale, e non l'impara per esperienza o per esercizio alcuno. Onde bendisse il nostro Dante nel suo Purgatorio: Da questa cognizione intellettuale de iprimi principii,come da cosa nota,partendosi l'intelletto dell'uomo,con una potenzia ch'egli ha va discorrendo e raziocinando (se così dir si puote) all'intelligenzia delle cose ch'ei non intendeva,ed empiesi di intelligibili,doveprimaeracome una tavola rasa;ecosìviene ad acquistare la sua perfezione. Questa potenzia nella nostra lingua si chiama ragione; e da lei è l'uomo poi chiamato ra zionale, così come quell'altre cose, che io prima vi dissi, per acquistare la loro perfezione con la natura, son chiamate n a turali. Questo nome razionale ? non si può dare all'Angelo, a n cora ch'egli abbia lo intelletto,per essere quello • d'una natura pura intellettuale; la quale fu creata da Dio con tutte le sue perfezioni, cioè piena di tutte le specie intelligibili (onde non sel'haacquistare conalcunasuaoperazione,comel'uomo);e che oltra di questo è 8 di tanta virtù,che quando Iddio gli a p presentasse qualche nuovo intelligibile, ei lo intenderebbe s u bito per semplice lume dell'intelletto,nel modo che intendiamo noi iprimi principii,e senza alcun discorso,e tutto perfetta menteinunoinstantee in uno tempo indivisibile;enonprima una parte e poi l'altra, si come fa l'intellettonostro ne l’in tender suo,o per non essere di tanta perfezione; m a farebbe in quel modo che fa uno lume,quando egli è portato in una stanza buia, che la illumina tutta in uno istante, e non prima una parte e di poi un'altra. E per questo dicano alcuni teologi che gli Angeli che peccarono non si sono mai potuti pentire ; i m p e r ò c h e ne l'intender suo, non è nella 1a T.  Però là onde nasca 1 l'intelletto Delle prime notizie, uomo non sape. 1Gr. vegnd . ? La 1a T. manca di questa parola. 3La1aT.ha:perchèegliè. ·La18T.,enonsel'haavuteacquistare. 5La1aT. hasolo: Oltra a di questo egli è ecc.    intendendo quegli ciò ch'egl'intendano per semplice 'apprensione d'intelletto, lo intendano immutabilmente, e senza mai potere variareemutare illoro intendimento;sicome ancora noi non possiamo mutarci di quelle cose che noi intendiamo per semplice lume d'intelletto, come sonoiprimiprincipii;ilchenon avviene di poi di quelle che noi intendiamo per discorso di ra gione.E peròsichiama l'Angelo creatura intellettuale, el'uomo creatura razionale e discorsiva. E perchè,in quanto al corpo, l'uomo è composto di questa materia elementare della quale sono composte tutte le altre cose sotto la luna, la quale m a teria è obligata e sottoposta alle alterazioni che inducano i moti celesti in lei,egli è da quegli insieme con l'altre cose di versamente disposto.Onde cosi come la terra altra disposizione riceve dai cieli il verno, quando ella ha a corrompere i semi e generare le cose, e altra la primavera, quando ella si ha a vestire di erbe e di fiori, così la complessione nostra altrimenti è disposta in uno tempo,e altrimenti in un altro;onde l'anima nostra razionale,in quanto ellaè fondata in su questa nostra complessione corporale,altre voglie ha in un tempo,e altre in un altro. Imperò ch'ella è tanto mirabilmente unita con quello,che l'operazioni che ancor totalmente dependono da lei mentre ch'ella è in esso corpo, si attribuiscano al tutto; onde dice il Filosofo nel primo Dell'anima, che chi dicesse : l'anima mia odia,o l'anima mia ama, sarebbe come dire:l'anima mia fila,ol'animamiatesse.E seciònonfusse,cioèchel'anima seguisse la disposizione del corpo,egli ne avverrebbe,sicome apertamente pruova Galeno in una operetta ch'ei fa di questa materia, che l'operazioni degli uomini sarebbero tutte a un modo medesimo;3di che manifestamente si vede il contrario. Imperò che le anime nostre nella loro sustanzia,e,come dicono questi teologi, in puris naturalibus, sono tutte in un medesimo modo e d'una medesima virtù;ma pigliano poi diversi costumi, secondo la complessione de'corpi ne'quali elle sono incluse,  1La1aT.,perunasemplice. 4 La 1a T.,con manifesto errore,mutabilmente. 3La1aT., a un modo.   e hanno diverse voglie, secondo che quegli si variano per i moti celesti.E questo basti per la seconda parte del nostro ra gionamento. Or vegniamo alla terza e ultima. Risponde dottissimamente in questa ultima parte Adamo a una tacita obiezione, che se gli sarebbe potuto fare; la quale Ma,cosiocosi,naturalascia Poi fare a voi secondo che v'abbella. Per le quali parole voi avete a considerare che l'uomo è c o m posto di due nature,o vogliam dire di due parti;con l'una delle quali,laqualeèl'animaincorporea,immortale,razionalee li bera,egliè simile alleIntelligenzie celesti;econ l'altra,laquale è ilcorpomortaleeirrazionale,èsimileaglianimalibruti.E ciò fu dalla natura fatto con mirabile artificio; imperò che avendo ella fatto in questo universo delle creature irrazionali,corporee e mortali, e delle razionali, incorporee e d i m mortali , e non volendo che siandasse da l'uno estremo all'altro senza mezzo,le fu necessario fare l'uomo, che con una parte communicasse con  1 Opera di natura3 è ch'uom favella; può,non leggesi nella 2a T. ? naturale, manca nella 2^ T. 3 Cr. Opera naturale. è questa. Potrebbe dire alcuno:A me non pare che questa tua ragione, Adamo,conchiuda e sia bastante;imperò che tudi'che iltuo parlare mancò per essere effetto dell'uomo, e gli effetti dell'uomo col tempo mancano tutti,per esser esso uomo ,ch'è la loro causa , caducoemortale;enessunoeffettopuò esseredimaggiorperfe zione che la sua causa. Questo è ben vero, che gli effetti che procedano semplicemente dall'uomo non sono sempre durabili; m a il parlare non è di questi. Imperò che non è suo effetto totalmente, ma è sua propietà naturale;' le quali così fatte pro pietànon siseparano mai dallaspecie loro,sìcome lacalidità dal fuoco, e la frigidità dall'acqua. Dunque come di'tu ch'ei mancasse per esser suo effetto ? Alle quali parole così risponde Adamo:    queste, e con un'altra con quelle . E però il parlar suo, insiem e con l'altre sue operazioni, si può similmente considerare in due modi. Primieramentesi può considerare come sua proprietàna turale; e questo è il parlare istesso in genere,non si ristrignendo piùaunomodocheaunoaltro;'einquestomodoeglinon mancherà mai all'uomo,ma sempre che saranno uomini,sempre parleranno;e di questo non parla qui Adamo.Secondariamente si può considerare come cosa dependente dalla parte libera e r a zionale dell'uomo ; e questo è il modo del parlare (e non il par lare),come sarebbegreco,latino,o toscano;e in questo modo è egli effetto dell'uomo, e variasi e mutasi secondo che pare a gli uomini.E però disse il Filosofo che i nomi sono stati posti alle cose,secondo ch'è piaciuto a gli uomini.E questo è quello chedicequiAdamo,chemancòemutossi.Onde diceneltesto: Opera di natura è ch'uom favella, cioè : egli è cosa naturale all'u o m o il parlare ; m a così o così, m a più in questo modo che in quello,natura lascia poi fare a voi, secondo che vi abbella, cioè secondo che vi piace;chè cosi si gnifica questo verbo.Il quale è verbo provenzale,che a quei tempi era in uso ; e dal medesimo Poeta ancora fu usato,? nella medesima significazione, nel Purgatorio in persona di Arnaldo di Provenza, che fu nei tempi suoi compositore molto famoso, sì come noi veggiamo per le parole del Petrarca ne'suoi Trionfi. E così è soluta questa obiezione.Ma per maggiore dichiara zione di questo testo, voglio che noi veggiamo per quello che il parlare sia stato dato dalla natura solamente all'uomo, e non ad alcun'altracreatura,ese egliènecessarioono;imperò che la natura, così com'ella non manca mai nelle cose necessarie, non abbonda ancora mais nelle soverchie. ' La 1a T., non si ristrignendo più a questo modo che a quello. 1La 1aT.hasolo:ancorausato.  Avendo la naturà fatto l'uomo, in quanto al corpo, il più imperfetto e debole di alcun altro animale (il che forse le fu 3 ancora mai, non è nella 1a T.   forza, per volerlo fare più prudente che alcun altro,donde gli bisognò farlo di più temperata complessione),ne avviene che ogni minima cosa l'offende; il che non fa così agli altri animali.Oltr'a di questo,avendogli dato lo intelletto in certo modo imperfetto e ilminimo tra le intelligenze,come noi abbiamo dal Filosofo nel libro Dell'anima,e desiderando ch'ei potesse conseguire la perfezione e dell'uno e dell'altro,le fu necessario concedergli il parlare, con il quale ei potesse chiedere i bisogni del corpo, e apparare le cose necessarie alla perfezione dell'anima. Voi vedete,inquantoalcorpo,ch'einasceignudo,ehassia ve stire della pelle degli altri animali, a procacciarsi il cibo, e a fabricare le case,dov'ei possa difendersi da quegli incommodi che arrecano'seco le varie stagioni de'tempi.Vedete ancora di poi,in quanto all'anima,che gli bisogna apparare molte cose,se non necessarie allo essere,almanco al bene essere della sua vita, senzalequaliellasarebbemiseraeinfelice.Ilchenon avviene a gli altri animali;' perciò che ei sono vestiti dalla natura, e per tutto truovano i cibi convenienti alla lor vita ; e senza alcuno maestro, ma solamente da naturale instinto guidati, si sanno fare le case, e ciò che fa loro di mestieri a conservarsi. Vedete la rondine, che quando viene il tempo di fare i suoi figliuoli, sa per natura fare il nido ; e di poi, veggendogli nati ciechi,vaacercare lacelidonia perguarirgli. E le formiche similmente sono da lei spinte,quando ifrumenti sono sparsi su per l'aie, a pigliarne e riporgli nelle lor buche. Che bisogno adunque avevano glianimali di parlare? Chè, seeisono d'una specie medesima,hanno bisogno di sìpoche cose, e tutti a un modo,e son spinti dalla natura a cercarle:e se ei sono di varie specie,non convengonoinsieme. Ma all'uomo è egli certamente stato necessario ;imperò che egli ha bisogno di tante cose,e quanto al corpo e quanto all'anima,che nessuno se le può procacciare per sè solo; e però è stato bisogno che si accozzino insieme molti, e che l'uno sovvenga al bisogno dell'altro. Il che non 4 La 1a T., Il che a gli altri animali non avviene. 2 La 1a T., è dalla natura spinta a cercare. 3 La 1a T., hanno di sì poche cose bisogno.  si saria potuto fare senza questo mezzo del parlare,con ilquale l'uno possa manifestare all'altro i suoi bisogni ; e per questo la natura l'ha dato solamente all'uomo,come quella che non manca mai'nellecosenecessarie.E peròèquichiamatodalPoetail parlare operazione naturale dell'uomo, cioè necessaria alla n a tura sua.E se alcuno mi opponesse,dicendo che ci sono an cora de gli animali che parlano,si come gli stornegli, le gazze, i papagalli,e non solamente l'uomo,si risponde che il loro non èparlare,ma èunaimitazionedivoce;imperòcheeinonin tendono ciò che ei dicano,e dicano sempre quelle parole che egli hanno nell'udire imparate,o a proposito o no ch'elle si sieno. E se alcun altro dicesse : C o m e di'tu che il parlare è solamente dell'uomo ?non abbiamo noi nelle sacre lettere,in molti luoghi, ch'e'parlanoancoragliangeli?dicocheilparlarenon s'appar tiene all'angelo,come angelo.Imperò che gli angeli sono spiriti, e sono loro manifesti iconcetti l'uno dell'altro; ma se eglino alcuna volta hanno parlato, ei l'hanno fatto per manifestarsi a noi e per bisogno nostro, e hanno preso corpi, dal ripercoti mento de i quali hanno formate le voci o vero suoni,e con la lor virtù le hanno poi terminate e fatte significative; si come ei fecero nell'asina di Balaam, la quale coi suoi strumenti natu rali faceva la voce,e l'angelo la terminava e faceva significativa. Avete du nque veduto come il parlare è solamente dell'uomo, e com'ei sia sua operazione e proprietà naturale. Della qual conclusioneioprobabilmentecavo una particularlodedellano stra lingua;equesta siè,ch'ellasiapiùpropria all'uomo,che alcun'altrachesiparli.E chequestosiailvero,lopruovocosì. Tanto quanto una operazione è all'uomo più propria e secondo la sua natura, tanto glièanco più facileemen faticosa; il parlare nostro gli è men faticoso e più facile che alcun altro; a dunque gli è più proprio, e più secondo la natura sua.E che La 1a T. ha:imperò cheei no nintendonociòcheeidicano,cheèil propriodelparlare.E cheeisiailvero,avvertitechee'diconosempre quelle parole ecc.  i La fa T.,che mai non manca. ? La 1a T., gli storni.   questosiailvero,ponetementechenessunalinguaèpiù fa cile a imparare,che la nostra.Pigliate uno che non sappia altra lingua che lasua,emenateloinTurchia,nellaMagna,fraSpa gnuoli,Francesi o Schiavoni,o tra quale altra gente sivoglia; e poi lo menate tra noi. Voi vedrete (e questo ne dimostra la esperienzia) ch'ei non imparerà di qual si voglia lingua tanto in uno anno, quanto ei farà della nostra in uno mese. Il che non avviene per altro, che per la facilità d'essa, e per la pro prietà ch'ella ha con la natura umana.Un'altra cagione si po trebbe forse ancor dire che fusse quella, per la quale questa nostra lingua s'impara così facilmente.E questa siè,per avere tutte le sue parole che finiscono in lettere vocali ; le quali per essere, come scrive Macrobio, quasi che naturali all'uomo, si mandon più facilmente alla memoria che l'altre,e ancora più lungamente si ritengono.Donde nasce forse ancora quella m a ravigliosa bellezzach'ellaha, scrivendo Quintiliano,chequante più lettere vocali ha una parola, tanto è più dolce e più grato il suo suono. Seguita Adamo ilparlar suo;e per confermazione delle cose ch'egli ha dette adduce per esemplo,che innanzi ch'ei morisse, gliuominimutaronoilnomeaDio;edoveprimalochiama vano Uno,gli posero nome El.Nelle quali parole ei fa quella bellaargomentazione cheilogicichiamanoamaiori;laquale io credo che noi potremo ? chiamare dalla parte più importante. Fa dunque Adamo questa argomentazione, per volere provare che la sua lingua mancò, dicendo: Se Iddio, il quale è sola mente stabile e immutabile in tutto questo universo, a mio tempo mutò nome, che credete voi che facessero l'altre cose, le quali sono in sempiterno moto e continuamente si variano ? Di poi dice che noi non ci debbiamo maravigliare diquesto; con ciò sia cosa che l'uso umano continuamente si muti e si varii in ciascuna operazione nostra. E assomigliandolo alle frondi, fa una comparazione tanto dotta e tanto bella, che io  1La1aT.,eifaunaargomentazione. 2 Così le stampe; ma forse la lezione vera ha da essere potremmo. 3La 1aT.hasolo:conciòsiachel'usoumanocontinovamentesimuta. Pria ? ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè: prima ch'io morissi e discendessi nel Purgatorio,o vero nel Limbo,dove andavano tutte l'anime di coloro che crede vano l'avvenimento di Cristo.Ambascia è quella infermità che iGreci e iLatini chiamano asma,e ancora da noi toscanamente si chiama asima;la quale è una difficultà di alitare, che, se condo Aezio nell'ottavo, nasce dall'avere ristretti i meati del polmone (cioè quei luoghi dove passa lo spirito a rinfrescamento del cuore),e ripieni di materie grosse eviscose;'o veramente nasce da debolezza di virtù naturale. Galeno nel quarto libro De'luoghiinfettidicech'ellapuòancorprocedereda infiamma zione di cuore;e dà lo esemplo di coloro che hanno la feb bre,e di coloro che si sono affaticati nel correre, i quali, per avere acceso ilcalore nel cuore ed eccitatolo,'patiscono que sta difficultà di respirare. E perchè ancora coloro che sono rinchiusi in luoghi che non abbino esito,o son ripieni di vapori grossi, patiscano questa difficultà, si dice per similitudine che gli hanno l'ambascia. Ora perchè ilLimbo,come voi avete da Dante medesimo, è un luogo appiccato con l'Inferno nel ventre della Terra; e ne'luoghi che sono sotterra,per esser ripieni di vapori,che il sole continuamente tira da quella, si respira con difficultà, dice qui Adamo: Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè,al Limbo tra gli altri santi padri.Questo luogo ancora nelle sacre lettere è chiamato il seno di Abramo ; e la cagione è , perchè Abramo fu il primo,che lasciati gl'Idoli venissi al cultos  perme nonsapreichealtralodedarmele,senondirech'ella' è di Dante ; perciò che io non ho mai visto ancora autore al cuno che in questo l'avanzi.Dice adunque il testo: 1 La 18 T., che dire ella ecc. ?Malela2aT.,Prima.3 La 1a T.,di materia grossa e viscosa. La 1a T., escitatolo. 5 La 1a T., venne al vero culto.   di Dio;onde gli fu promesso che del seme suo uscirebbe la redenzione del mondo. E però coloro che morivano,andando in questo luogo, si diceva che gli andavano a riposarsi nel seno di A b r a m o, cioè nella promissione che fu data da Dio ad Abramo. Dice adunque Adamo: pria ch'io scendessi a questo luogo,il sommo bene, cioè Iddio, Donde vien la letizia che mi fascia, cioè, da cui viene la mia beatitudine (imperò che, come noi a b biamoin San Giovanni alXVIIcapitolo, altrononèvitaeterna chevedereIddio), era chiamato dagliuominiUno.Ilqualenome glifupostodaqueglipersimilitudine,eper alcune proprietadi cheha l'unità con Dio,sìcome è,essere semplice,indivisibile, non essere numero, ma principio di tutti,e mantenere tutte le coseinessere;perchè,come voi avete da Boezio,tantoèuna cosa,quantoellaèuna;lequalituttecosesonoinDio.Im però che egli è semplice e indivisibile; non è alcuna di queste cose che noi veggiamo,ma principio di tutte,e mantienle in essere continuamente ; e molte altre proprietà simili al l'unità , comesileggenelladottrinapitagorica.E perògliposerogli uominiquestonomeUno;perchènonpotendoporglinomi che significassero la sua sustanzia (perchè nessuno conosce il Padre , se non ilFigliuolo,come noi abbiamo in San Matteo allo XI ), gli ponevano di quegli che significano ? qualche sua proprietà. Dipoi,lasciandoquestonome Uno,lochiamaronoEl,cioèDio; il quale nome gli fu ancora posto per una proprietà sua. I m però che considerando gli uomini la maravigliosa potenza de le opere sue, lo assimigliarono a l'ardere del fuoco, non si ritro vando infra l'operazioni delle cose naturali potenzia alcuna che superiquelladelfuoco.Onde diceiltesto:Ellesichiamdpoi. Avvertite che tuttiitesticheiohovistidicano:Eli sichiamo poi; ilche non può stare;imperò che Eli vuol dire Iddio mio; 1 La 28 T., ha ;ma la lezione è mal sicura,poiché il passo nella stampa è guasto, e potrebbe non essere stato emendato interamente nelle correzioni a detta edizione. In quella del Doni, le parole a l'unità mancano.  La fa T., significavano.   donde la sentenza non quadrerebbe a dire:ei si chiamò poi Iddio mio.Anzi sichiamò El, che vuol dire Iddio.E per fare il verso intero disse Elle,e non El,come ei devea;e usò qui lo Elle in quel modo ch'egli usò nel XXIII canto del Pur gatorio lo m , dicendo : Ben avria quivi conosciuto l'emme. Questo nome El fu ancora posto a Dio per una sua proprietà; perchè tanto è adireEl,quanto potenteeconservatore.E per questa cagione una gran parte degli angeli,per essere stati da Dio ordinati e deputati a governare e mantenere questo uni verso,hanno incluso nel nome loro questo nome diIddio El; nè senza quello si possono nella ebraica lingua proferire, si come è Gabriel,che vuol dire grazia o vero virtù di Dio, Raf fael,medicina di Dio,e così va discorrendo de gli altri.La qual cosa non è senza gran misterio,come potrà ben vedere chi vorrà diligentemente esaminarla nel santissimo Reuclino e nell'uni versalissimo'Agrippa.Di poiseguitailtesto:eciòconviene,e questa è cosa conveniente;però che l'uso umano Dottissimamente e con grande artificio assomiglia il Poeta i c o stumi dei mortali alle fronde.Imperò che,come voisapete,le fronde si generano e cascano da gli alberi per la disposizione che fa il sole con l'altre stelle, appressandosi o discostandosi da quegli; e così le nostre voglie, sì come noi abbiamo a suf ficenzia di sopra dichiarato, si mutano e si variano secondo la disposizionecheilcieloinduceneinostricorpi.E questobasti per dichiarazione di questo testo. Se altra volta ne fia data occasione,noi c'ingegneremo di sodisfarvi maggiormente per la grata audienza che voi ne avete prestata; della quale somma mente vi ringraziamo. 1 La 1a T., e universalissimo. Grice: “The issues Gelli addresses are interesting, but hardly Oxonian.” Grice: “Gelli is considering ‘our tongue’ (nostrra lingua) and conversing on how difficult it is to set it to rules – not impossible, though. Cf. my procedures. Gelli is confused about ethnicity. The Roman ethnicity is different from the Latin ethnicity, -- or rather the Latin ethnicity involved more than the Roman ethnicity – yet he uses freely and undistinnctly ‘lingua romana’ and ‘lingua latina’ – or ‘latino’ meaning sermone – otherwise, he refers to ‘i romani’ – never to ‘I latini’ – the thing is – with who is he contrasting them? With the fioreusciti fiorentini like himself, the flourished Florentines – lingua fiorentina – but he seems to prefer lingua toscana – he accepts that lingua napoletana is quite a different thing, since he himself cared to translate from ‘lingua napoletana’ to ‘lingua toscana’ – more interestingly, he is into Toschani (thus spelled) --. And here comes the myth which some have called evangelist. Etruria as the cradle of Tuscany, and Hebrew and Adam’s tongue as the ‘lingua primigenia’. Gelli is clear about the nature of language – made for ‘uno possa manifestare all’altro i suoi bisogni. Like Plato, he revels in the dialogic form, of a cooper with his own soul – what about Boezio and Cicerone, he asks. They are different. Cicero tried to ENRICH (make piu ricca) the lingua he thought was the ‘piu bella del mondo’ – Boezio the same. But the Toschani are not Romani – and so the cooper can do as he wishes!” Giovan Battista Gelli. Gelli. Keywords: sulla difficultà di mettere in regole la nostra lingua, lingua, linguaggio, Grice on English, idiolect, dialect, Language, ---. Noe – origine della lingua, la lingua di Adamo – la lingua fiorentina -- Accademia agli Orti Oricellari; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gellio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio Gellio – Arrian dedicated the discoruses of Epitteto to Gellio, who presumably took at least an interest in the Porch.

 

Grice e Gemmis – il console – filosofia italiana – Luigi Speranza (Terlizzi). Filosofo italiano. Grice: “I love Gemmis.” Grice: “Gemmis is a good example of how an Italian philosopher differs from a philosophy don at Oxford – ‘don’ is derogatory; whereas de’ Gemmis is a barone! – And he writes about ‘reason,’ ‘ragione’ – with Abate Genovesi --; unlike a ‘don’ at Oxford who would over-do reason to keep a post at his college!” – Grice: “In them days, Italian illuminists took reason very seriously, and possibly ‘light,’ too!” Ferrante de Gemmis (Terlizzi), filosofo. Figlio del Barone di Castel Foce Tommaso de Gemmis e di Francesca Bruni dei baroni di Cannavalle, fu fratello di Gioacchino, rettore dell'Altamura, di Giuseppe de Gemmis, Presidente della Regia Camera della Sommaria, e di Giovanni Andrea, Consigliere della Suprema Corte di Giustizia.  Si trasferì in Napoli affidato al prozio, il potente Ministro Ferrante Maddalena, dove studia dai più prestigiosi precettori. Fu allievo di Genovesi, di cui divenne amico e con cui mantenne una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere familiari del celebre illuminista. Si laurea a Napoli, il ministro Maddalena lo introdusse negli ambienti più esclusivi della corte partenopea istituendolo erede universale con la clausola di aggiungere il suo cognome, obbligo mai rispettato dai discendenti. Morto il pro-zio, e nominato dal sovrano giudice a Cava de' Tirreni e fu malvisto a corte poiché rinunzia alla carica per ritirarsi a Terlizzi, per stare vicino al padre malato. Qui si dedica ai suoi studi di filosofia e da vita ad una fervida attività culturale rivelandosi l'esponente primario dell'illuminismo. Istituì una Accademia, vero e proprio cenacolo culturale con scopo di ricerca scientifica e di attuazione pratica di conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione Reale perché sospetto centro di idee liberali, l'Accademia dovette chiudere, ma gli incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento epistolare di Genovesi. Sposa Caterina Lioyi, di nobile famiglia di orientamento massonico. Fu governatore de promosse il riscatto della città dal diritto di molitura che aveva la duchessa di Giovinazzo donna Eleonora Giudice. Fonda il Conservatorio delle Orfanelle a la scuola pubblica con reale approvazione. Fu inoltre incaricato da Ferdinando I di Borbone al riordinamento dell'amministrazione della Città, che fu divisa in tre ceti in base ai ranghi. Ebbe sette figli, tra cui Tommaso de Gemmis Maddalena, capitano dei R. R. eserciti e governatore militare di Terlizzi; Elisabetta, moglie di Giuseppe de Samuele Cagnazzi, fratello del celebre Luca de Samuele Cagnazzi; Cecilia, sposatasi con Pietro Lupis e Giuseppe, sposato a Donna Maria de Introna, dalla cui discendenza avrà origine il ramo di Gennaro de Gemmis. De Gemmis scrive numerose opere letterarie e filosofiche, che volle pubblicate anonime per modestia e che oggi sono andate perdute, salvo “Tavole cronologiche della Storia Universale” (Napoli, Stamperia della Soc. Letteraria e tipografica). Gaetano Valente Feudalesimo e feudatari Terlizzi nel Settecento, Molfetta, Mezzina, Cabreo de Gemmis, Biblioteca Provinciale de Gemmis, Bari Ruggiero Di Castiglione, La Massoneria nelle Due Sicilie e i fratelli  meridionali del '700, Gangemi Editore, Roma.  FERRANTE DE GEMMIS Figlio di Tommaso de Gemmis e di Francesca Bruni dei baroni di Cannavalle, fu fratello di mons. Gioacchino de Gemmis, rettore dell'Università di Altamura e di Giuseppe de Gemmis, Presidente della Regia Camera della Sommaria. All'età di undici anni si trasferì nella capitale affidato al prozio, il potente Ministro Ferrante Maddalena, dove studiò grammatica, eloquenza greca e latina, logica e matematica dai più prestigiosi precettori dell'epoca. Fu anche allievo dell'Abate Antonio Genovesi, di cui divenne amico e con cui mantenne una cospicua corrispondenza epistolare raccolta nelle Lettere familiari del celebre illuminista. Laureatosi in diritto all'Università di Napoli il ministro Maddalena lo introdusse nella pratica forense e negli ambienti più esclusivi della corte partenopea istituendolo, alla fine, erede universale con la clausola di aggiungere il suo cognome al proprio, obbligo mai rispettato dai discendenti. Morto il prozio nel 1752 fu nominato dal Re giudice a Cava de' Tirreni e fu malvisto a corte poiché rinunziò alla carica per ritirarsi a Terlizzi nel 1754. Qui si dedicò ai suoi studi di filosofia e diede vita ad una fervida attività culturale rivelandosi esponente primario dell'illuminismo della regione. Istituì una Accademia a Terlizzi, vero e proprio cenacolo culturale con scopo di ricerca scientifica e di attuazione pratica di conoscenze in campo agricolo. Purtroppo, non ottenendo l'approvazione Reale perché sospetto centro di idee liberali, l'Accademia dovette chiudere ma gli incontri culturali proseguirono ufficiosamente per anni grazie anche all'incoraggiamento di Antonio Genovesi. Ebbe un grave incidente per la caduta da un calesse, per cui subì una difficile operazione e a stento salvò la vita. Prese in moglie nel 1757 Donna Caterina Lioy di Terlizzi. La nobile famiglia Lioy, di orientamento massonico, si trasferirà in quegli anni a Vicenza dove avrà i natali il nipote Paolo Lioy. Fu governatore di Terlizzi e promosse il riscatto della città dal diritto dell'ius moliendi, diritto di molitura, che aveva la duchessa di Giovinazzo donna Eleonora Giudice. Fondò il Conservatorio delle Orfanelle nel 1769 e nello stesso anno aprì le scuole pubbliche con reale approvazione. Fu inoltre incaricato da Francesco I di Borbone al riordinamento dell'amministrazione della Città, divenuta regia nel 1774. Ebbe sette figli, tra cui Tommaso de Gemmis Maddalena, capitano dei R. R. eserciti e governatore militare di Terlizzi; Elisabetta, moglie di Giuseppe de Samuele Cagnazzi, fratello del celebre Luca de Samuele Cagnazzi; Cecilia, sposatasi con Pietro Lupis e Giuseppe, sposato a Donna Maria de Introna, dalla cui discendenza avrà origine il ramo di Gennaro de Gemmis. Scrisse numerose opere letterarie e filosofiche, che volle pubblicate anonime per modestia e che oggi sono andate perdute, salvo il libro storico intitolato "Tavole cronologiche della Storia Universale" pubblicato a Napoli nella stamperia della Soc. Letteraria e tipografica nel 1782. Ne scrisse la biografia Vitangelo Bisceglia pubblicata nel "Dizionario degli uomini illustri del Regno". Morì a Terlizzi, largamente stimato, il 21 aprile 1803, e fu sepolto nella cappella nobiliare de Gemmis di Terlizzi.Ferrante de Gemmis. Gemmis. Keyowords: il console, tavola cronologica della storia universal. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gemmis” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gennadio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Marsiglia) – Gennadio argues that the divine is the only incorporeal being, but that both souls and angels are material.

 

Grice e Genovese -- tribù – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Genovese; for one, he has explored the philosophy of ‘vincoli,’ which is all that my theory of communication is about!” Grice: “Genovese has explored the etymology of ‘tribe,’ as originating with Romolo!” Gricce: “Genovese has punned on Kant’s silly ‘pure reason,’ surely what Kant meant was a pure critique of reason – since ‘pure’ is hardly synonymous with ‘theoretical,’ which the treatise is all about! When Kant goes on to write Part II, he qualifies ‘reason,’ as ‘practical,’ HARDLY impure!” – Studia a Pisa e Parigi sotto Foucault al Collège de France. Interessato alla teoria dei sistemi, entra in contatto con Luhmann. La teoria sociologica costituirà da allora una parte importante della sua riflessione. Membro della Fondazione per la critica sociale, fa parte della redazione della rivista La società degli individui e lascia la redazione di Il Ponte per contrasti sulla direzione della rivista.  Formatosi in una prospettiva hegelo-marxista vicina alla Scuola di Francoforte, se ne allontana progressivamente (come si può osservare già in “Dell’ideologia inconsapevole. attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno” (Napoli, Liguori), assumendo sempre più nettamente una postura scettico-relativista con un’attenzione alle scienze sociali e, in esse, alla funzione, appunto relativistica, svolta dall’antropologia culturale. Indicativo di questo passaggio è l’articolo su “Hume e la filosofia antropologica” in “Tra scetticismo e nichilismo” (Pisa, Ets), in cui nel contempo si nota l’interesse per la teoria dei sistemi.  La forma compiuta dell’evoluzione della sua filosofia si trova in “La tribù occidentale”, “Per una nuova teoria critica” (Torino, Bollati Boringhieri), e:Un illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario” (Torino, Rosenberg e Sellier), in cui, nella presa di distanze dalla soluzione di Habermas (v. Speranza, “Grice e Habermas”), si profila una logica dell’ibridazione e del paradosso come fuoriuscita dalla dialettica di marca hegeliana.  Questa linea è approfondita, in senso più strettamente politico con il rilancio di un’idea di socialismo, nel successivo “Convivenza difficile” (Milano, Feltrinelli), “L’Occidente tra declino e utopia” (Milano, Feltrinelli), e soprattutto, facendo i conti finali con la teoria dei sistemi, nel “Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione, potere” (Napoli, Cronopio),  a tutt’oggi la sua opera teoricamente più significativa. Si è dedicato in modo particolare ai temi politici e civili con “Che cos’è il berlusconismo” (Roma, Manifesto); “Il destino dell’intellettuale” (Roma, Manifesto), “Totalitarismi e populismi” (Roma, Manifesto) -- tutti pubblicati dalla casa editrice Manifesto di Roma, e intervenendo regolarmente in rete nel sito “Le parole e le cose” e in quello della rivista Il Ponte. I suoi interessi estetico-letterari si esprimono dapprima con “Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva” – keywords: scena intersoggetiva – (Napoli, Liguori), in cui, nel rivisitare il mitico personaggio teatrale, e poi anche filmico, creato da Wedekind, affronta il tema della cosiddetta lotta dei sessi, ripreso con un romanzo breve in forma epistolare (“L’anti-eros”, Firenze, Ponte alle Grazie) in cui sono presenti sia una chiara vena satirica sia il tentativo di fare filosofia in altro modo, in una vaga ispirazione kierkegaardiana. Seguono i libri di viaggio, o apparentemente tali nella miscela di finzione narrativa e saggismo, Falso diario e Tango italiano (Torino, Bollati Boringhieri); “L’Occidente (“Roma, Manifestolibri), e ancora quello che probabilmente è il suo libro più sofferto, insieme documento di una crisi e stravolta autobiografia visionaria, “Ci sono le fate a Stoccolma. Dal diario dell'esilio mentale” (Reggio Emilia, Diabasis). Altre opere:  “Modi di attribuzione” (Napoli, Liguori); “Figure del paradosso” (Napoli, Liguori); “Critica della ragione impure” (Milano, Bruno Mondadori); “Gli attrezzi del filosofo” (Roma, Manifesto). “L'idea, o forse dovrei dire il gesto, mi sembra felice: invece di scrivere un saggio su x (ideologico, politico, storico) scrivere di sé come turista a disagio che vorrebbe scrivere un libro su x», G. Bollati a R. Genovese, leGiulio Bollati. Lo studioso, l'editore, Torino, Bollati Boringhieri, A. Tricomi, La Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet. “Genovese è quasi costretto non semplicemente ad alternare, ma addirittura a sovrapporre, ad arricchire l'uno con le peculiarità degli altri, e infine a rendere, più che reversibili, indistinguibili, registri argomentativi e stilistici tra loro assai diversi. Ci sono le fate a Stoccolma diventa perciò il libro di un  filosofo, senza che mai si possano individuare luoghi del testo in cui una delle anime che lo ispirano prenda nettamente il sopravvento». I.Ledueleggendetroianaeromulea.– I.Ilprimopopolo,ossia iRamni,iTiziieiLuceri.– IV.Laplebe. Dopo la rivoluzione portata nella storia tradizionale romana dal l'olandese Perizonio, con le sue Animadversiones historicae, e dal Beaufort con la sua famosa Dissertation sur l'incertitude des cinq premiers siècles de l'histoire romaine, lavori che si succedettero alla distanza di mezzo secolo (1), la critica, che era rimasta ne gletta nell'evo antico e nel medio, perchè riguardata o inutile o incapace di produrre frutti fecondi, comparve un elemento neces sario nello studio di quella storia tradizionale. E di quei due critici va detto ciò che in una pubblicazione recentissima. La prima edizione delle Animadversiones venne in luce ad Amsterdam nel 1685,equelladella Dis sertation beaufortiana ad Utrecht. Storia di Roma narrate da  R . Bonghi, Manifesto di Brioschi, Giorgini e Minghetti.QuestitresignorirecanoilseguentegiudiziosullaStoriaRomanadiB.G.NIEBUHR: Amalgama felice di erudizione e di critica, l'opera del Niebhur (sic) era fatta col sentimento che vi domina, non tanto per dare una nuova direzione allo studio delle antichità, quanto per ispirarne l'amore ». Questo giudizio dimostra che gli autori del Manifesto non sono storici. Ma appunto perchè non sono tali, avreb bero potuto astenersi dal profferire sul fondatore della critica storica moderna un giudizio che dilàdelle Alpi fará un'impressione tutt'altro che lusinghiera per noi. Al giudiziodegli scrittori del Manifesto, con trapponiamo quello del Savigny e dello Schwegler, la cui competenza insiffatto argomento non èscono sciatadaalcuno. Savigny, ne'suoi “Vermischte-Schriften”, così parla della storia romana del Niebuhr:«L'opera del Niebuhr ha impresso alla trattazione della storia dell'antichità un carattere affatto nuovo (Niebuhrs Werk hat der Behandlung der Geschichte des Alterthums einen ganz neuen Charakter verliehen -- Essa ha inalzato l’ideale della storiografia e fissato l'indirizzo di ogni ricerca nel campo Rivista di Storia Italiana. Origini Romane. 13 I. I critici: loro scuole: Niebuhr, Schwegler, Mommsen , Bonghi. I.  ragione, aparernostro, del Niebuhr; che, cioè, questisi propo nesse più d'inspirare l'amore allo studio delle antichità romane,che di dare a quello studio un indirizzo nuovo. L'opera del Niebuhr mirasoprattuttoaquesto secondoscopo;quantoall'altro,delde stare l'interesse per lo studio delle antichità,esso rampollava natu ralmente dal primo ; mentre la critica del PERIZONIO e del Beaufort, pel suo carattere negativo, non poteva prefiggersi che quest'ultimo scopo. Sebbene però ilconcorsodellacritica fosse, dopolacomparsadel l'opera del Perizonio, generalmente ammesso,esso non fu usato da tutti secondo l'ufficio suo. E se i più se ne giovarono per ret tificare od anche per abbattere del tutto la tradizione romana, non mancarono anche coloro che se ne servissero in senso op posto, che è a dire, in difesa di essa tradizione.  Fra questi ultimi vanno segnalati Kobbe (“Römische Geschichte”), Gerlach e Bachhofen (“Geschichte der Römer), Newmann (“Royal Rome,” ecc.) e Duruy (“Histoire des Romains”). Gli altri scrittori, e sono il maggior numero, si divisero in due scuole:all'una vanno ascritti iseguaci del NIEBUHR, all'altraisuoi correttori. Oggi il campo è tenuto dai secondi , in mezzo ai quali spiccano le due splendide figure di Schwegler e di Mommsen. Costoro sono pure campioni di due metodi diversi nel l'applicazione della critica alla storia tradizionale romana. Il metodo dello Schwegler è severamente analitico. Egli espone prima la tra dizione in tutti i suoi minuti particolari e con le sue variant. Poi, nel paragrafo successivo, assoggetta la tradizione ad un rigoroso esame critico, diretto a scovrirne la genesi,e ilcarattere degli ele menti che concorsero a crearla. In questa diagnosi spicca, colla potenza di acume dello scrittore, la sua meravigliosa erudizione. Dopo di avere ben fermato il concetto della leggenda e del mito, e fissate del secondo le categorie diverse (mito etiologico, etimologico, ecc.), egli procede a classificare geneticamente i singoli elementi della tradizione romana, e ci dice quali debbano ascriversi delleantichità romane -- Schwegler (Röm. Gesch.) aggiunge:« La Storia Romana del Niebuhr, opera sotto ogni rispetto classica, non solo diede una nuova direzione allo studio dell'antichità fatto sinora, ma è ancora il punto di partenza e il fondamento a tutte le ricerche future, alle quali egli segnò l'indirizzo e diede il più fecondo impulso (Seinerömische   Geschichte,eingrossartiges,injeder Beziehung classisches Werk,ist nicht nur der Brennpankt und Abschluss der bisherigen, sondern auch der Ausganzspunkt und die Grundlage aller spätern Forschungen, zu denen es den Anstoss und die fruchtbarste Anregung gegeben hat). alla leggenda, quali all'una o all'altra forma del mito, e quali deb bano aversi in conto di storici. Non oseremmo asserire che in questa minuta classificazione Schwegler cogliesse sempre nelsegno. Ma dobbiamo pur dichiarare che in essa nulla apparisce mai di co scientemente arbitrario; di maniera che si potrà dissentire da una data sua opinione, perchè faccian difetto gli argomenti con cui c o m provarla, non già perchè gli argomenti siano stati usati a sproposito. L'opera di Schwegler, comparsa or fanno 30 anni, è rimasta, a parer nostro, fino ad oggi insuperata. Il metodo delMommsen ètuttol'oppostodiquello dello Schwegler. Qua il racconto tradizionale è preso in esame capo per capo ; là di esso non è fatto nemmen parola. In luogo della tradizione, abbiamo un racconto ricostruito dalla critica, senza però che estrinsecamente apparisca traccia di siffatto lavoro.Non vi è dubbio che questo m e todo presenti maggiori attrattive dell'altro,perocchè escluda ogni processo dimostrativo; ma appunto perciò porta anche maggiore responsabilità a chi lo segue ; e offre più largo campo alle censure. La Storia romana del Mommsen ne incontro difatti di vive ed acerbe, sebbene il valore generale della sua opera fosse da tutti rico nosciuto. La polemica suscitata da essa torna poi a grande profitto della critica storica, perchè essa diè occasione al Mommsen di lumeggiare alcuni luoghi oscuri della Storia romana, mercè una serie di monografie storico-critiche, che egli raccolse col titolo di “Ricerche romane” – “Römische Forschungen.” Il metodo di Schwegler trova in questi ultimi giorni un am plificatore fra noi,in Ruggiero Bonghi.La sua Storia di Roma, da molti anni aspettata, ha cominciato ora a comparire in luce col primo volume. Il chiarissimo autore premette ad esso una lettera in risposta al manifesto dei triumviri che aveano promosso la pub blicazione della sua opera.In questa lettera egli dice, che « gli pa reva strano e vergognoso che una storia tutta nostra non avesse mai ritrovato in Italia chi dopo gli antichi avesse intrapreso di narrarla.Veramente, gli storici nazionali di Roma antica non mancano, come non mancarono i critici, e da Lorenzo Valla ad Atto Vannucci trovasi una schiera numerosa di dotti che a quello studio applicarono l'ingegno e la dottrina. In questa schiera spiccano i nomi di ORIOLI, di UCCELLI, di ROSSI, di CANAL, di CANINA, le cui opere dimostrano, che noi non ci eravamo con tentati, come afferma il Bonghi, di tradurre prima Rollin, poi Niebuhr e Mommsen . E se la letteratura nostra mancasse pure di codeste opere, non basterebbero le pagine inspirate che sulla storia romana dettarono il MACHIAVELLI e il VICO, per ismentire il basso concetto che il Bonghi reca della storiografia italiana? Il volume che abbiamo davanti non contiene sufficiente materia, perchè si possa dire fin d'ora in quale misura l'aspettazione dell'opera sia stata soddisfatta. Perché l'autore, amplificando, come si è detto, il metodo dello Schwegler , premette alla critica storica la critica letteraria della tradizione. All'esame di ciò che vi può es sere di storico nella tradizione e della genesi sua, egli manda innanzi la ricerca della sua forma primigenia. Per ora non abbiamo che la sua dichiarazione di avere scoverto « in una selva selvaggia ed aspra e forte di dissensi, di congetture, di questioni d'ogni fatta qualche sentiero non ancora battuto »; lo che acuisce il desiderio di averesott'occhi la seconda parte del volume, che avrebbedo vuto comparire insieme con la prima , con la quale ha comune il subbietto, e della quale è l'anima. L'autore stesso riconosce che lo scompagnare le due parti, come si è fatto, « avrebbe reso meno facile ai lettori di comprendere il suo disegno. E così appunto è avvenuto. Ed io devo confessare che questa difficoltà è nata anche in me, sebbene il lungo esercizio mi abbia reso in certo modo fa migliare questo studio. Dopo illavoro diligentissimo di Schwegler, a me era parsa meno necessaria quest'opera di gran pazienza e fatica, come l’autore stesso chiama e con ragione,l'esameminu tissimo cui sottopose la tradizione.E perchè a ciò solo non si rimane l'opera sua nel volume pubblicato,ma qua elàeglifuindottodallo sviluppo della sua analisi, ad entrare nel merito storico della tradizione, la separazione della seconda parte dalla prima è ancor più deplorata.Senza di essa noi avremmo,per esempio,chiaritosubito la teorica, con la quale l'autore chiude il suo discorso sulla leggenda di ROMOLO, e che messa fuoriamo di assioma storico,anoi è parsa mancante della necessaria chiarezza, per poterci risolvere ad accettarla. Eccola con le parole stesse dell'Autore : « Del rima nente,ènecessario,dic'egli, tenere ben distinte queste tre dimande. Prima, se una leggenda contenga elementi storici. Seconda, quale sebbene pero l'Italia abbia fatto il dover suo in questo impor tante studio, ciò non iscema l'interesse che desta nei dotti la com parsa di un'opera, dettata da una mente che della sua grande potenza avea dato saggi copiosissimi nelle discipline più svariate. la storia sia stata. Terza, come la leggenda sia nata. Noi abbiamo obbligo di rispondere di no alla prima dimanda,se ci si prova che debba essere negativa, pur quando non abbiam modo - e moltissime volte anche a tempi molto più vicini ai nostri, che non sono quelli della fondazione di ROMA, non ne abbiamo il modo — di rispondere nè in tutto nè in parte alla seconda ed alla terza ». Come si vede, questo giudizio riesce alquanto oscuro, particolarmente perché gli manca una dichiarazione di termini, senza la quale non se ne può misurare il valore. Che cosa intende BONGHI per leggenda? Ciò che noi chiamiamo leggenda, i Tedeschi chiamano Sage, ma la differenza sta tutta nella forma, mentre un solo ne è il concetto. Ora il concetto della leggenda è questo. Cioè, il ricordo di un evento notevole trasmesso oralmente, soprattutto per mezzo di canti popolari, dall'una all'altra generazione, e colorito dalla fantasia per modo da imprimere ad esso un carattere prodigioso. Il nucleo della leggendaèadunque storico. Il mito, invece, è tutt'altra cosa. In luogo del fatto storico che costituisce l'essenza della leggenda, nel mito abbiamo come elemento essenziale e come motivo genetico una data idea, resa concreta e sensibile per mezzo di un intreccio di fatti immaginarii. Ora, nella tradizione romana leggenda e mito trovansi mescolati insieme, e il lavoro della critica consiste in cio appunto, di sceverare l'una dall'altro, e liberare entrambi dagli invo lucri che hanno impresso a ciascuno il carattere proprio. Questo lavoro, che non è meno improbo, e per la storia è assai più utile di quello fatto dal BONGHI nel primo volume della sua opera, e già tentato da molti. Ed è in esso che apparirà nel vero valor suo l'opera dell'illustre storico. Il presente volume si chiude all'anno 283 della fondazione di Roma. Ed ecco la ragione che BONGHI dà di questa fermata. -- Succede, dice BONGHI, non addirittura il primo fatto certo della storia interna di ROMA, ma quello de'suoi fatti certi più antichi da cui tutta la sua storia anteriore è spiegata, e tutta la sua storia posteriore,è,se mi si permette la parola, preformata. L’elezione dei tribuni nei comizii tribute. Per ciò che riguarda la certezza del fatto accennato, notiamo che esso, tanto rispetto alla sua cronologia, quanto rispetto al suo stesso contenuto, è tutt'altro che sicuro.Fatti certi dei primi secoli di Roma non ponno chiamarsi che quelli i quali sono attestati da documenti autentici. Ed essi sono : la fondazione del tempio federale di Diana sull'AVENTINO, avvenuta sotto il regno di Servio Tullio : il trattato  federale stipulato da Tarquinio il Juniore coi Sabini : il primo trat tato di navigazione e commercio conchiuso da Roma con Cartagine subito dopo il bando di quel re. E il patto federale conchiuso da Roma colle città latine sotto il secondo consolato di Spurio Cassio. Questi sonoifatti,chesiponno chiamarcerti,perchèqualcunodegli storici maggiori dichiarò di avere visto il documento originale in cui erano consacrati. Tale qualifica non può essere data alla lex Publilia, il cui contenuto forma ancor oggi obbietto di disputazioni fra i critici. Il Bonghi ci dice fin d'ora com'egli spieghi il tenore di quella legge, ed io sono curioso di sentire con quali nuovi ar gomenti egli suffragherà una opinione,che oggi è abbandonata dai più; e cioè, che prima della lex Publilia i tribuni della plebe fos sero eletti in altra sede fuorchè nei comizii tributi.Nei nostri Saggi critici noi esprimemmo il nostro avviso sul tenore della lex Publilia, e rimandiamo il lettore a quel nostro libro, non essendo il caso di ripeterquiciòchescrivemmoaltrove.— Un'ultima osservazione. BONGHI dice, che il fatto del 283 è quello dei fatti certi più antichi di Roma, che spiega tutta la sua storia anteriore.Aspetto di avere la dimostrazione di questo asserto prima di giudicarlo. Per ora, la mia opinione, è che al disopra di quel fatto (badisi che qui si parla di fatti interni) ci stia l'altro della creazione del tribunato della plebe, da cui tanto la lex Publilia, quanto le successive leges tribuniciae e manarono come prodotti necessarii di un fattore comune. Il primo problema che si affaccia alla critica nello studio delle romane origini, è come avvenisse l'innesto della leggenda troiana nella leggenda romulea, perchè è fuor d'ogni dubbio che l'una e l'altra traessero origine da fonti diverse. E mentre la romulea è creazione paesana, nata sui luoghi stessi che sono la scena del suo racconto, la troiana è indubbiamente importazione straniera. Però non tutti gli elementi di questa seconda leggenda sono nati di fuori. Dal momento che l'eroe troiano ha posto piede nel Lazio, la leggenda lo mette in relazione con le popolazioni indigene, facendogli imprendere una serie di guerre coi Latini, Sabini ed Etruschi.Ora, se tolgasi il protagonista che è un personaggio favoloso, il racconto di quelle guerre racchiude indubbiamente elementi storici, che la sciati inavvertiti da CATONE e da Dionisio, furono segnalati e lumeggiati dall'autore dell’ “Eneide.” Infatti,mentre presso idue primi,le lotte combattute da Enea si presentano come guerre dinastiche, nelle quali i popoli appariscono come stromento delle ambizioni di questo o di quel principe. Presso VIRGILIO quelle lotte assumono fin da principio la proporzione di una guerra di stirpi italiche,in cui sono adombrati gli sconvolgimenti politico-sociali onde il Lazio fu teatro nella età pre-romana. Quel Turno che negli altri racconti figura come capo dei Rutuli, nell’ “Eneide” comparisce come duce di una intera confederazione di città italiche e di popoli di diversa stirpe. Alla sua chiamata accorrono iguerrieri di Laurento,Ardea, An tenne, Crustumerio, Tiburi, Atina, Preneste, Gabii, Anagnia, e con essi gli Aurunci,i Volsci,i Sabini, i Falisci. Per tener fronte a tanta oste, Enea, seguendo il consiglio d’Evandro, rivolgesi ai Tirreni,iquali eransidirecenteliberatidal tirannoMezenzio, divenuto ora alleato di Turno. E col loro ausilio, conquista Laurento. Ora, levando da questo racconto la parte leggendaria che è la intromessa di Enea, chiaro apparisce il contenuto storico di esso.Ivi troviamo adombrati, da un lato,iprogressi della conquista etrusca nella valle inferiore del Tevere, e dall'altro, gli sforzi operati dai popoli del Lazio per redimere il paese dalla servitù straniera.Alla quale impresa i latini trovano ausiliarii non pure nelle città fini time del Lazio, ma ancora in un popolo di stirpe sabellica che la primavera sacra ha già portato sulla frontiera latina, e a cui la parte avuta nella liberazione del Lazio frutta una stanza nel Set timonzio. Così per mezzo di VIRGILIO noi siamo posti in grado di spiegare la presenza dei Sabini sul Quirinale e sul Capitolino, comple tando la tradizione romana, il cui contenuto storico, purificato da gl’innesti leggendarii,consiste nel presentarciidue popoli,latinoe sabino, viventi già l'uno presso l'altro sul Settimonzio, e riusciti a pacificarsi e ad unirsi insieme dopo di essere stati lungamente in guerra fra loro. Ancora nei tempi storici, noi troviamo gl’etruschi imperanti nella Campania ; prima di arrivare nella valle del Vol turno, essi aveano dovuto trarre in loro potere la valle inferiore del Tevere, che è a dire , il LAZIO. Senza l'Eneide non sapremmo come questo paese ricuperata avesse la sua libertà.L'Eneide ci apprende che ricuperolla per mezzo di una insurrezione popolare capitanata da un eroe. Quest'eroe è TURNO. Enea gli ha strappato dal capo il lauro dei prodi. Ma l’Eneaitalicoèunmito;Turno invece è persona rimasta viva nella tradizione di un popolo. Ed è singolare, che dal gran cantore d’Enea la critica storica sia stata messa sulla via di riconoscere in TURNO un EROE ITALICO, e di rendergli la sua corona. Dopo questa digressione, che non c'èparsafuoridiluogo,ve niamo ora a risolvere il problema della confusione avvenuta di due leggende,tanto diverse l'una dall'altra, sia perla fonte da cui emanano, sia pel loro contenuto. La tradizione romana nella sua forma più antica, non -- Ennius dicit Iliam fuisse filiam Aeneae,quod si est,Aeneas arus est Romuli » Servio,ad Æn.,VI,778. sa nulla nè dell'una nè dell'altra leggenda. Prima che la boria destata dalla potenza di Roma, introducesse il troiano Enea nelle romane origini, a che nascesse il bisogno di spiegare riflessivamente l'origine nomi, di instituti e di consuetudini di antiche che si trovavano esistenti da tempo immemorabile, senza che fosse stato riferito ab antiquo come fossero nate,la fondazione di Roma erasi spiegata in quel modo semplice, in cui l'antichità si figura la origine di tutte le città greco-italiche, vale a dire,per mezzo di un fondatore epo n i m o . Una città che no ma vasi Roma, dove a a dunque, secondo il concetto dell'antichità, avere avuto per fondatore un Romo, progenie divina al pari di tutti i fondatori eponimi. Ed a noi fu serbata questa tradizione semplice della origine di Roma, la quale biamente la più antica. Ne dobbiamo è indub la conoscenza al grammatico FESTO, che la tolse dallo storico Antigono. « Antigonus, italicae historiae scriptor, ait, RHOMUM quemdam nomine, Jove conceptum urbem condidisse in Palatio , ,Romae eiquededissenomen».Così Festo all'articolo Romam . La tradizione romulea, nella quale l'eponimo ROMO diventa ROMOLO e gli è dato Remo per fratello,e l'uno e l'altro sono aggregati alla dinastia dei Silvii che regnava ad Alba Lunga e ripeteva la sua origine da Enea; questa tradizione era dunque ignota all'antichità.Lo stesso ENNIO non la conosce che in uno stato ancora embrionale, giacchè ENNIO dà alla madre di Romolo, Ilia, Enea per padre. Pero , il concetto inspiratore della leggenda è già nato col poeta rudiese, come è nato l'intrecciamento delle due leggende Ora come avvenne questa sovrapposizione . della leggenda troiana alla romulea? La ragione psicologica del fatto fu data già da VICO in quella boria delle nazioni, le quali appena son pervenute leggenda ad un alto grado di potenza, non sdegnano loro origini oscure, e aspirano a fastose e insigni. VICO accenna anche la capitale cagione che indusse i romani, quando andarono in cerca di origini fastose, a fissare la mente sulla leggenda di Enea.Ei laattribuisce alla fama strepitosa che ebbe per lo mondo la guerra di Troia, a cagione del poema di Omero e della introduzione dell'Occidente nel ciclo troiano, dovuta alla via che si fece percorrere al reduce Ulisse. Però se la boria nazionale fu la causa inspiratrice della fusione delle due leggende, a questa non mancarono altri impulsi. Quando il Senato romano, verso la fine della prima guerra punica, inter venne nella contesa fra gl’etoli e gl’acarnani, e giustifica la sua intromessa in favore dei secondi, osservando che gli Acarnani erano il solo popolo greco, il quale non avesse partecipato alla guerra contro i Troiani progenitori dei Romani , era l'orgoglio nazionale che ispirava quella dichiarazione. Similmente, quando il senato accetta l'amicizia offerta dal re Seleuco, ponendovi per condizione che liberasse i Troiani da ogni tributo ; e quando Flaminino , nel pre sentareidonativideiRomani aiDioscurieadApollo,chiamòisuoi concittadini col nome di Eneadi, è sempre l'orgoglio nazionale che inspira la fusione delle due leggende. Ma allorquando la politica militare di Roma ebbe prodotto in seno  Altri fattori vanno considerati. E , soprattutto, la parte che nella propagazione della leggenda di Enea in Italia ebbero le numerose colonie greche dell'Italia meridionale, e più specialmente Cuma, che oltre ad essere la più antica e la più vicina al Lazio, era di pro venienza diretta dall'Asia Minore, e precisamente dalla Misia, luogo finitimo alla Troade. E come le colonie greco-italiche divennero al trettanti centri propagatori del culto di Afrodite Alveias, dea dei naviganti, con cui la leggenda di Enea è intimamente collegata, cosi l'oracolo della Sibilla cumana divenne ilcentro propagatore dei fausti vaticinii, onde la religione della dardanica Afrodite confor tava nel suo esilio la famiglia degli Eneadi. Già nell’ “Iliade” è fatta allusione a quei vaticinii, dicendosi che la famiglia di Enea era serbata ad un nuovo e splendido avvenire, mentre quella di Priamo era stata destinata alla perdizione. Ora , in questa promessa di un glorioso avvenire serbato alla progenie di Enea giace il motivo riflesso dell'amalgama delle due leggende troiana e romulea. Roma costitui se stessa obbietto dei vaticinii sibillini, e dichiarò avvenute in se stessa le promesse fatte ai discendenti di Enea. Già ENNIO presenta in questo modo il fatto, dicendo che Troia era risorta in Roma, e non andrà guari che la repubblica innalza a domma nazionale l'origine troiana della potente metropoli.   alla Repubblica i suoi effetti liberticidi, e la maestà quiritaria che era in bocca a tutte le nazioni straniere, ed era oggetto di terrore e di riverenza universale, scomparve dal popolo per riassumersi in un uomo, l'orgoglio nazionale passò in seconda linea per cedere il primo posto all'interesse dinastico creato da un usurpatore.Il grande anello di congiunzione fra la leggenda di Enea e la dinastia dei Cesari è quel famoso Julo, che comparisce nella genealogia degli Eneadi, or quale figlio, or quale nipote di Enea. E cosi nell'uno,come nell'altro grado, sembra siavi stato introdotto dai Giulii stessi, dopo che fu sorto il giorno di loro grande fortuna. Infatti, gli scrittori più an tichi della leggenda non conoscono quel nome , sebbene più nomi attribuiscano al presunto figlio di Enea,chiamandolo ora Eurileone, ora Ascanio, ora Ilo. Forse quest'ultimo nome, che ricorda quello della patria Ilio,suggerì l'idea della finzione genetica,ed Ilo diventò facilmente Julo progenitore degli Julii. Ciò spiegherebbe il fatto del comparir di quel nome per la prima volta negli scrittori cesarei. C o m un quesia dell'origine sua, venne un giorno che il popolo romano apprese per bocca di Caio GIULIO CESARE, ch'esso avea nel suo seno una progenie di celesti, e che dalla morte di Romolo in poi essa avea camminato fuori del diritto divino, nel cui sentiero era ora chia mato a ritornare. Il giorno in cui Cesare, essendo questore,recitò dalla tribuna del Foro il panegirico di sua zia Giulia, fu decisivo per le sorti di Roma e del mondo. E là che egli annunzia al popolo stupito, che la sua famiglia eraaduntempoprogeniedidèiedire.«Amitae meae Juliae maternum genus ab regibus ortum,paternum cum Diis immortalibus conjunctum est.Nam ab Anco Marcio sunt Marcii reges, quo nomine fuit mater, a Venere Julii, cujus gentis familia est nostra. Est ergo in genere et sanctitas regum qui plurimum inter homines pollent, et caerimonias deorum, quorum ipsi in pote state sunt reges » (1). Quando GIULIO CESARE recita questa orazione non avea che 32 anni di età , e non avea fatto ancora il suo ingresso nella politica militante, comecchè avesse già coperto parecchie magistrature.Ma l'uomo che avea osato fare pubblicamente l'apologia della regia potestà e pro clamare la origine divina della sua famiglia, avea già intuito il futuro e divisato di rivolgerne a suo profitto il realizzamento. Nel seguente anno , infatti, lo vediamo stretto in lega con Pompeo , e SVETONIO, Caes ., avviato a compiere il cammino trionfale che da Farsaglia lo condurrà a Munda, e metterà nelle sue mani l'impero del mondo. Riassumendo per tanto le cose in sinquidette, notamo che se la leggenda romulea è anteriore alla troiana, all'una e all'altra so vrasta per antichità la leggenda semplice,riferitada Antigono,che Roma avesse avuto per fondatore un eroe eponimo progenie di celesti, e cioè, che fosse nata nello stesso modo in cui l'antichità si figura l'origine di tutte le città greco-italiche: che la leggenda ro mulea, sebbene nata sul suolo romano, mostrasi nelle sue parti es senziali come il prodotto di una invenzione riflessa, avente in mira di spiegare sistematicamente le origini di nomi, d'instituti e di consuetudini antiche che si trovavano esistenti da tempo immemorabile, senza che fosse stato riferito come avessero avuto nascimento : che la leggenda troiana, divulgata in Occidente per mezzo delle colonie italiche e degli oracoli sibillini, fu introdotta nella leggenda romulea, quando la boria destata nei Romani dalla loro potenza li obbligo ad andare in cerca di origini fastose da sostituire alla ori gine volgare trasmessa loro dai maggiori. E come la discendenza di Enea era stata creata per soddisfare l'orgoglio di un popolo conquistatore, cosi essa e scaltramente usufruita da GIULIO CESARE per legittimare la sua opera liberticida. Un altro problema non meno interessante della fusione delle due leggende troiana e romulea,per mezzo della quale si spiegò l'ori gine della città di Roma,è quello che concerne la formazione del suo primo popolo. La tradizione romana spiega questa formazione in un modo semplicissimo. Romolo, dopo che ebbe per la morte di Tito Tazio raccolta nelle sue mani la sovranità sui socii Sabini del Settimonzio, parti il popolo in tre tribù, e pose a ciascuna il nome del duce che aveala capitanata. Ai suoi pose pertanto il nome di Ramnenses ; ai seguaci di Tazio il nome di Titienses, e a quelli diLucumone,cheavealoaiutatonellaguerra contro i Sabini,il nome di Lucerenses. Quanto alla nazionalità, la tradizione ne at tribuisce una propria a ciascuna tribù.I Ramnenses di Romolo sono per lei Latini ; i Titienses di Tazio sono Sabini, e iLucerenses di Lucumone sono Etruschi. Però, se la tradizione è concorde ri spetto alla origine dei due primi nomi, non lo è rispetto a quella  III.   del terzo. Il Lucumone di CICERONE diventa presso Plutarco illucus asyli, e presso Paolo Diacono il titolo dignitario e il nome topico si trasformano in una persona, in Lucero re di Ardea. Queste va rianti attestano per se stesse la mal ferma base su cui riposa co desta tradizione. Livio se la sbriga, dicendo il nome dei Luceri di incerta origine. Ma se lo storico maggiore di Roma qualifica d'in certezza l'origine dei Luceri , la filologia dichiara impossibile la derivazione dei Ramni da Romolo, avendo questi due nomi radicali affatto diverse. Pure la origine dei nomi sarebbe cosa di poco interesse, quando ad essi non si annettesse la origine della nazionalità. Il Lucumone o il re Lucero da cui si è derivato il nome della terza tribù ro mana, si è prodotto come testimonio della origine etrusca di questa tribù, e da ciò si trasse la conclusione, che la nazione romana uscisse fuori da tre elementi etnici, il latino, il sabino e l'etrusco, e fosse quindi una nazione mista. Diciamo subito che questa opinione è oggi abbandonata, e che la critica moderna, dopo di avere impugnato la provenienza etrusca deiLuceri,non arrestandosiaquestoresultamentonegativo,hapur risoluto positivamente la questione, dimostrando che iLuceri devono essere tenutiincontodiunaschiattalatina;ondelanazionero mana sarebbe stata composta di due elementi etnici omogenei , il latino e il sabino, ramificazioni entrambi del gran ceppo italico,chePrima della pubblicazione della Storia Romana di SCHWEGLER ,l'origine etrusca dei Luceri era ammessa dalla maggior parte degli storici. Tra i fautori di essa vanno ricordati: Feodor Eago, Untergang der Naturstaaton,WACHSMUTH, Aeltere Geschichte des römischen Staats, GÖTTLING, Geschichte der römischen Staatsverfassung, USCHOLD, Geschichte des trojanischen Krieges. KORTÜm,Römische Geschichte, BECKER, Handbuch der römischen alterthümer, WALTER, Geschichte des römischen Rechts, SCHÖMANN, De Tullo Hostilio,PUCCELLI, Altreviste sugl’antichi popoli italiani, Cortona, VANNUCCI, Storia dell'Italia antica, Fir., L'origine latina, anzi albana, dei Luceri è ammessa da Niebun, Römische Geschichte, da SCHWEOLER, Römische Geschichte, –da NIEMEYER, De equitibus romanis, BREDA, Centurie-Verfassung des Servius Tullius da KLAUSEN, Aeneas und die Penaten dal Römische Alterthümer, Mommsen si limita ad osservare, non esseircvhinailcchutns ostacolo ad ammettere la origine latina dei Luceri (Ueber die Herkunft der Lucerer lässtzu erklären), sagen,als das nichts in Wege steht die gleich den Ramnern für eine latinischeque Glelmaeidnidaendare in cerca Röm. Gesch. Ihne invece è scettico, e dice che è fatica sprecata dall'ag del vero su una questione nella quale le fonti ci lasciano al buio, e che non si gu2a0d.agna nulla giugnere un'opinione nuova a quella degl’antichi, Röm. Gesch., Leipzig, dal LANGE, parer nostro, che Ihne non ha bene studiato la quistione, altrimenti troverebbe che si guadagna qualche cosa da questa aggiunta. Il primo guadagno che si fa è quello di avere chiarito il significato del nome di questa terza tribù. Lucere vuol dire risplendere; Luceri equivarrebbe adunque ad illustres. E questo appellativo ben si addice alla nobiltà di Alba, la quale, dopo la distruzione della loro patria, fu trasferita nel Settimonzio ed ebbe per sua stanza il Celio. Cid dimostra,a  immigro in Italia dopo iljapigicoe prima dei Raseni. Noi diremo gli argomenti coi quali si impugna la origine etrusca dei Luceri ; indi ci faremo a dire quelli coi quali si dimostró la loro origine latina, e la loro provenienza da Alba Longa. Prima di tutto, vuolsi avere presente, che la origine etrusca dei Luceri non è che una mera presunzione, mancante di una tradizione positiva, e desunta da dati estrinseci ed accidentali, che pas sati sotto il crogiuolo della critica, non danno alcun frutto. L'uno di questi dati fu somministrato da certa analogia che si riscontra fra il nome della terza tribù e quello di Lucumone , che è titolo gentilizio e dignitario presso gl’etruschi. E come il nome del colle Celio si è voluto spiegare derivandolo da un duce etrusco per nome Cele Vibenna,ilquale,secondo alcuni (Varrone),altempo di Romolo, secondo altri (Tacito), al tempo di Tarquinio Prisco, sarebbesi sta bilito con una grossa schiera dei suoi connazionali nel Settimonzio; cosi il nome Luceri che portavano gli abitanti del Celio si spiego per mezzo del titolo di Lucumone che portava il Vibenna. L'altro dato è ancor più arbitrario, in quanto che fu desunto dalla ubicazione geografica di Roma,quasicheilfattodeltrovarsiRoma in mezzo a tre schiatte diverse, generar dovesse necessariamente l'ef fetto, che essa componesse la sua cittadinanza con ciascuna delle tre schiatte, per modo che esse vi fossero rappresentate tutte pro porzionalmente. A questo concetto subbiettivo si contrappone vitto riosamente per ciò che riguarda il contingente etrusco, il famoso motto del trans Tiberim vendere, e del senso latissimo che esso acquisto e mantenne per lungo volgere di secoli, anche dopo che gli Etruschi erano caduti sotto la dipendenza di Roma, ed il Tevere cessa di essere un confine politico. In verità,che se gli Etruschi avessero dato a Roma un contingente proporzionale della sua cittadinanza, quel motto diverrebbe uno strano enimma. Perchè esso non si riferisce tanto alla divisione politica dei due stati, romano ed etrusco, quanto alla differenza di nazionalità, avvertita e vivamente sentita nella lingua, nelle istituzioni politiche e civili, e nei costumi dei Romani. Ma se i dati estrinseci su cui fu eretta l'ipotesi della origine etrusca dei Luceri non giustificano siffatta conghiettura, le prove intrinseche dimostrano addirittura la sua falsità. Queste prove si de sumono dalla lingua e dalla religione dei Romani. È ovvio,che se gli Etruschi avessero dato un proprio contributo alla formazione del popolo romano, in tal caso la lingua latina dovrebbe somministrare la chiave per decifrare le inscrizioni etrusche, ed essa stessado vrebbe contenere tale copia di voci etrusche da assumere il carat tere di una lingua mista, ossia, di una lingua formata di due diversi organismi ; ma nè il latino aiuta a spiegare l'etrusco, nè nella co stituzione organica della lingua del Lazio apparisce alcun vestigio di miscele eterogenee;chè,anzi,la caratteristica peculiare della lingua latina è la straordinaria uniformità della sua struttura; lo che attesta la uniformità della sua formazione. Alla stessa conclusione conduce l'esame delle istituzioni religiose di Roma. Se i Luceri fosserostatiunatribù etrusca,lareligione romana conterrebbe traccie di divinità e di culti etruschi,come ne presenta di divinità sabine. Imperocchè il pareggiamento successivo della terza tribù alle due prime dovesse avere per effetto la mutua comunicazione dei rispettivi culti, come cið era avvenuto prima fra i Ramni e i Tizii, ossia fra Latini e Sabini. Ora, la religione ro mana non presenta una sola divinità e un solo culto che vesta un carattere etrusco. Anche lo stato d'inferiorità, in che,rispetto alla tribù dei ramni e dei tizii, trovasi la tribù dei Luceri,portato al grado da tenere costoro fino al tempo di Tarquinio Prisco esclusi dal Senato, contraddice alla ipotesi che i Luceri entrassero fin dal l'origine di Roma a formar parte del primo popolo, e compissero di questo la compagine etnica recando nel suo seno l'elemento etrusco. Questo stato d'inferiorità si spiega invece in modo semplice e na turale, quando ammettasi che la tribù dei Luceri fosse costituita dai nobili d'Alba tramutati a Roma, e che quindi entrasse più tardi a formar parte del primo popolo. Alla posteriore aggregazione dei Luceri alle due primitive tribù, e allo stato d'inferiorità dei primi rispetto alle seconde accenna il verso di Properzio. Hinc Taties Ramnesque viri, Luceresque coloni. Non mancano poi le prove dirette, dimostranti che i Luceri , oltre ad essere e n trati posteriormente nel consorzio dei Romani e dei Tizii,sono pure di origine albana. Tito Livio (II, 33), parlando degli stanziamenti condotti dal re Anco Marcio sul colle Aventino, osserva che egli assegn ai vinti Latini per sede quel colle, perché gli altri quattro, il Palatino, il Capitolino, il Quirinale e il Celio (il Viminale e l'Esquilino furono aggiunti alla città solo dal tempo di Servio Tullio) erano già popolati ; e cioè, il colle Palatino dai Romani primitivi, ossia dai Ramni. E il Capitolino e il Quirinale dai Sabini, e il Celio dagl’Albani. Ora, se questi ultimi ebbero per loro stanza il Celio, non saprebbesi davvero dove collocare iLuceri,quando non siammettesse che i Luceri e gli Albani fossero la stessa cosa. La critica adunque negando la origine etrusca dei Luceri, ha messo in sodo il fatto che la nazione romana venne composta di due elementi etnici,anzichè di tre,il latino,cioè,e ilsabino.Questa composizione spiega il carattere che distingue la nazione romana dalle altre na zioni italiche. Questo carattere è il prodotto della fusione di due stirpi che parevano fatte apposta per completarsi a vicenda. Dall'e lemento sabino il popolo romano riceverà la frugalità, lo spirito religioso, la severità dei costumi, il principio della patriapotestas lasciata senza freno dalle leggi. Sono la base di granito e il duro cemento che i sabini apportano all'edifizio romano (1). Se nel sabino prevale lo spirito di conservazione, nel latino predomina lo spirito di sviluppo. Ma come il primo non è inflessibile, così il se condo non è radicale. E dal contrasto fra la mobilità latina e la stabilità sabina derivò quel lento, ma pur continuo e sicuro sviluppo della costituzione romana, che formd di essa la più grande creazione politica della civiltà antica. Ma le tribù dei Ramni, dei Tizii e dei Luceri non formano tutto il popolo romano. Accanto a loro comparisce, come parte costitutiva di esso popolo,la plebe,la quale,dopo di essere rimasta a lungo in uno stato di semi-dipendenza dal primo popolo , ossia dal patriziato, fini col prevalere su di esso, ed obbligarlo a seguire la sua via. Ora, come sorse questo ceto sociale? Ecco il terzo problema che ci proponiamo di risolvere in questo breve nostro lavoro. I Romani non erano ignari di questo prezioso patrimonio che avevano ricevuto dai Sabini. Ce lo attesta Catone per bocca di SERVIO. Sabinorum mores populum romanum secutum CANOTE dici SERVIO ad En. Vedi Devaux, Études politiquessur les principaux événements del'histoire romaine, Paris. La quistione dell'origine della plebe e studiata particolarmente da STRESSER,Versuch über die römischen Plebejer der ältesten Zeit, Elberfeld, PELLEGRINO, Ueber den ursprünglichen Religionsunterschiedder Patricier und Plebejer, Leipzig, lune, Forschungen auf dem Gebieteder römischen Verfassungsgeschichte, Frankfurta. KRUSZYNSKI, Die römische Plebs in ihrer politischen Entwickelung vom Ursprunge bis zur völligen Gleichstellunng mit den Patriciern, Lemberg, SCHWEGLER, Römische Geschichte. TOPHOFF, De plebe romana, Essen. WALLINDER, De statu plebejorum Romanorum ante primam inmontem sacrum secessionem quaestiones, Upsaliae. Lange, Verbindung der plebs mit dem patricischen Staate nei Römische Alterthümer, Berlin. Gli storici antichi erano affatto all'oscuro intorno il fatto della origine del ceto plebeo di Roma. La sola cosa che essi sapessero era che la plebe erasi trovata sempre in uno stato d'antagonismo verso il patriziato. Da ciò la definizione negativa che essi davano della plebe, chiamandola il ceto in cui gentes civium patriciae non insunt.Perqualviapoil'antagonismo fossenato,oinaltriter mini, come la plebe avesse avuto origine,ciò essi riguardavano come una quistione oziosa, imperocchè a loro paresse assurda l'idea che fossemai esistito uno Stato romano senza plebe;onde per loro era un assioma, che patriziato e plebe fossero nati e cresciuti insieme collo Stato romano. Contro questa presunzione stava però il fatto, non considerato, della condizione giuridica diversa in che trovavansi due ceti sociali all'infuori del patriziato, la quale attestava che essi non erano nati insieme nè allo stesso modo. Accanto alla plebe,trovasi, cioè, nei primi tempi dello Stato romano, la clientela, caratterizzata e distinta dalla plebe dalla forma speciale della sua dipendenza. Mentre la dipendenza della plebe avea un carattere impersonale e comprendeva ilceto nella sua generalità,quelladellaclientelaimpe gnava giuridicamente l'individuo come persona e non come consorte, ed appunto perciò esso nomavasi “cliente” -- da cluere, klúeiv, dipendere -- in quanto che fosse ascritto alla gente di un patrono,e da questo dipendesse. Che se nel giure politico plebei e clienti trovansi originariamente costituiti nella stessa condizione negative. Nel giure privato, la condizione loro era assai diversa. Il cliente nè possedeva del proprio, nè poteva stare in giudizio; mentre ilplebeo possedeva su questo campo piena personalità giuridica (civitas sine suffragio); di guisa che, quando per la costituzione di Servio Tullio, il censo divenne il fattore del diritto di suffragio,questo diritto iplebei conseguirono, mentre i clienti ne rimasero orbi come per il passato. Ora, questa differenza esistente fra i due ceti inferiori non si pud altrimente spiegare fuorché ritenendo,che l'origine loro fosse,rispetto al tempo e al modo, diversa. La clientela deve certamente avere preceduto la plebe, e l'inferiorità della prima rispetto alla seconda dimostra che la forza, che creò la sottomissione dei due ceti, eser citò sui vinti ridotti in clientela un impero più assoluto che su quelli ridotti in istato di plebeità. Perchè il cliente conseguire potesse iljus suffragii faceva mestieri che il dominium ,che egli te nevacome peculium,glifosse assegnatocomeliberaproprietàexjure Quiritium.Ilqualeattoequiva leva in certo modo ad una manumissio censu. Ora, se l'istituzione della clientela è più antica che quella della plebe, è forza cercarne l'origine nella prima conquista che frutto ai Ramni edaiTiziiil dominio del Settimonzio. Gli abitanti primitivi di quella regione devono avere formato il nucleo della clientela romana, che le ulteriori conquiste vennero via via ingrossando. Ma tra la prima e le ulteriori conquiste, corse, rispetto agli ef fetti sociali, forte differenza. Se la prima non produsse che dei clienti e degli schiavi, le successive produssero particolarmente dei plebei. Già l'interesse politico consigliava i conquistatori a tempe rare verso i nuovi vinti il rigore dell'antico jus gentium ; e noi non abbiamo memoria della piena applicazione di quel diritto che verso la città di Collazia. E se alle famiglie imperanti fosse pur piaciuto di partire i novelli sudditi fra le genti romane, traducen dole sotto la loro clientela, la monarchia dovea opporsi a questo uso della conquista che avrebbe con pregiudizio della regia potestà accresciuto in modo esorbitante la potenza dell'aristocrazia. E chi erano poi questi vinti? Erano Latini : appartenevano, cioè, a quella stirpe che avea coi ramni formato il nucleo della cittadi nanza romana ; erano dunque connazionali dei Romani. Che se co storo aveano avuto pei vinti Albani tale riguardo, da ammetterli nel loro consorzio religioso e politico, perchè vorrassi ammettere che verso gl’altri popoli latini, sottomessi pure colle armi, applicassero in tutto il suo rigore il diritto della guerra? E ove pure si ammettesse che questo rigore fosse usato, come ci renderemmo ra gione del sorgere di questa plebe e della importanza sociale che venne improvvisamente acquistando, così da presentarsi come un potente appoggio della monarchia, e da ricevere da questa servigi e beneficî che schiuderanno all'avvenir suo il più vasto orizzonte? Non dimentichiamo che questi plebei son Latini. La tradizione stessa ci dice quando e per opera di chi i popoli del Lazio caddero sotto ladizionediRoma.La distruzionediAlbaLonga,eiltramuta mento dei nobili Albani nel Settimonzio , portarono per effetto lo scoppio di ostilità fra le città latine, erettesi a vindici della loro antica metropoli, e Roma che pretende, come conquistatrice di Alba Longa, di essere riconosciuta anche come erede della sua [Livio ci ha trasmessa la formula deditionis di Collazio, che egli attinse verisimilmente dai C o m mentarii Pontificum : « Rex interrogavit: dedistisne vos populumque Con latinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia, divina humanaque omnia in meam populique romani dicionem? Dedimus ». Livio, I, 38. La domanda del re è rivolta ai deputati di Collazia. Rivista di Storia Italiana.] egemonia sulla confederazione latina. La grossa guerra scoppia sotto Anco Marcio. Non è dubbio che questi, prima di scendere in campo, approfittasse delle gelosie esistenti fra l'una e l'altra città latina, e che sono effetto di ogni confederazione a base ristretta, per rompere il fascio con promesse e lusinghe date a tempo e a luogo. Senza ciò, non potremmo avere ragione della sua facile e completa vittoria.Ora che cosa fece Anco Marcio di questi nuovi vinti? Gli storici antichi ce lo apprendono in modo chiaro : « Ancus Marcius, dice CICERONE, quum Latinos bello devicisset, adscivit eos in ci vitatem. E LIVIO, completando il racconto di CICERONE, osserva che Anco segui rispetto ai vinti Latini il costume regum priorum , onde anche allora parecchie migliaia di Latini furono introdotti nellacittadinanzaromana: «tum quoque multis millibus Latinorum in civitatem acceptis. Non cicuriamo del racconto tradizionale , che fa materialmente introdurredaAncoinRoma questivinti, eas segnare ad essi per sede il colle Aventino e la valle Murcia . In questo racconto, la prolessi storica è manifesta: che sappiamo in modo in contestabile, chefinoallafinedelIII°secolodiRoma,l'Aventino fu disabitato. Ma lasciando da parte questo particolare, ciò che va considerato nel racconto tradizionale è il fatto della cittadinanza concessa d’Anco Marcio ai vinti Latini. E perchè, nè questa era la prima guerra combattuta vittoriosamente da Roma contro i Latini, e nemmeno era la prima volta che della vittoria fosse fatto quest'uso; ne emerge,e Livio avvalora l'induzione nostra,che se la conquista d’Anco da il maggior contingente al ceto plebeo, essa non ne inizio la formazione, come suppone Niebuhr, seguito in cio da Schwegler, da Lange e d’altri. Bonghi, per ora si limita a dire, che non credechela plebedovesse lasuaorigine adAnco,e promette, che procurerà altrove di esporre donde sia nata l'opinione di una condotta rispetto a'vintinei re di Roma, cosi diversa da quella che per molto tempo appare propria della città nel seguito della sua storia ».E perchè insin d'ora egli dichiara esposta a molti e gravi dubbii cosi larga concessione di cittadinanza, il desiderio di sapere quale opinione l'insigne storico porti sul gravissimo tema della ori [Lo fece abitare la “les Icilia de Aventino publicando”. Il tenore di questa legge ci è dato da Dionisio, il quale attesta di aver letto il testo originale di essa inciso in una colonna di bronzo che sorgeva nel tempio di Diana sull'Aventino. Drox ., X , DeRep., Liv.] gine della plebe romana rimane più fortemente sentito.Comunque sia perd dell'opinione del Bonghi su ciò, noi rimaniamo saldi nella nostra, laquale, oltre ad avere il suffragio delle fonti, ha pure in suo favore la condizione sociale da cui la romana plebe fu costituita. Il plebeo romano è agricoltore. Egli non è nè commerciante nè indu striale;queste arti,che nell'antichità erano assai meno considerate dell'agricoltura, sono professate in Roma peculiarmente daiclientie dai liberti. Codesta condizione sociale della plebe romana è attestata dalla tradizione in più modi. Ora, essa ci dice che Servio Tullio, per poter avere l'appoggio della plebe alla sua esaltazione al trono, chiamòincittà i rurali, e per bocca di CATONE ci dice che gl’agricoltori formavano il nerbo della fanteria romana.. Ma un testi monio che serve per tutti, è l'antica istituzione che le adunanze plebee, ossia i comizii tributi,non sipotessero tenere cheneigiorni di mercato (nundines), e che ogni proposta di legge dovesse pubbli carsi tre giorni di mercato (trinundines) prima di essere messa a partito Anche la condotta tenuta dalla plebe nella sua lotta col patriziato conferma questa condizione sua. Gli storici qualificano siffatta condotta colle parole modestia, verecundia e patientia. Sono doti codeste che appariscono più proprie di coloro che attendono alla col tura dei campi, che di coloro che praticano l'industria e il commercio. E se le contese sociali di Roma non degenerarono in « Ex agricolis viri fortissimi et milites strenuissi migignuntur -- Catone, De re rustica , Praef., MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia. Rutilius scribit Romanos instituisse nundinas, ut octo quidem diebus in agris rustici opus facerent,nono autem die intermisso rure ad mercatum legesque acci piendas Romam venirent,et ut scita atque consultafrequentiore populo referrentur,quae trinundino die proposito a singulis atque universis facile poscebantur. Ci sia permesso di riportare su l'influenza educativa dell'agricoltura un brano di una conferenza che tenemmo all'Esposizione Nazionale di Milano, col titolo : L'industria nei suoi rapporti colla civilta. Gli economisti, dicevamo, sogliono distinguere due specie di lavoro. Quello che agisce sulle cose, e quello che agisce sugl’uomini. Questa distinzione non è esatta. Se tolgasi il lavoro puramente intellet tuale,ogni altro agisce ad un tempo su gli uomini e su le cose. Questa duplice azione viene esercitata sopratutto dall'agricoltura e dall'industria. Dal raffronto fra queste due arti ritrarremo la ragione psicologica del nesso intimo che esiste fra l'industria e la libertà. « L'agricoltore riguarda la terra come fonte unica della ricchezza ; essa è per lui una provvidenza e un mistero ad un tempo. Perciò noi lo vediamo affezionato al suo suolo, ivi fissato in istabile sede, ed unito in pacifico consorzio co' suoi conterranei. Da questo legame contratto dall'uomo colla terra che lo nutre nacque ilprimo concetto di patria,come dai consorziigeneratidall'agricolturaebberooriginoiprimi stati. Ma la terra non è per l'agricoltore solo una provvidenza, essa è per lui anche un mistero. E questo lato misterioso sarà una sorgente feconda di superstizioni, che egli porterà facilmente anche nei negozi civili, o nelle maggiori contingenze della vita pubblica. Quei soldati di Nicia e Demostene, che una notte ricusarono di levare il campo da Siracusaerifugiarsia  [Livio, CICERONE, de Rep. Riassumendo pertanto le cose dette intorno la formazione della plebe romana, diremo,che sebbene la genesi di quel ceto non possa essere chiarita in tutti i suoi particolari, tuttavia hannosi dati positivi, I quali rilevano di che elementi fosse formato, e la ragione po litica che indusse i vincitori a trattare i vinti con una generosità di cui non si ha esempio nella storia dell'antichità. Questi dati ci dimostrano ancora che la istituzione della clientela precedette quella della plebe, e ci spiegano il diverso trattamento avuto dai primi vinti rispetto ai secondi. Catania, perchè quella notte comparve in cielo un ecclisse lunare, erano agricoltori dell'Attica. E l'es sere essi rimasti in quel luogo portò per effetto lo sterminio della flotta e dell'esercito ateniese, e la ro vina di Atene. Del resto, non è da meravigliarsi che l'agricoltore sia superstizioso. Quel grano che egli consegna alla terra per riceverlo moltiplicato, non gli dice come sia avvenuto il fatto della moltiplicazione sua mentre questo evento che ogni anno si rinnova gli stordisce l'intelletto, altri fenomeni del mondo fisico, dinaturadeleteria, gli riempiono l'animo disgomento e di terrore. L'uragano cheglidevastailcampo; la grandine che gli distrugge le messi, gli appariscono mandatarii di forze arcane che gli fanno la dallo stesso principio che aveva dato nascimento alle gerarchie ipercosiniche ebbero origine le gerarchie sociali, trasformate ben presto in tirannidi. Il despota non è un uomo come un altro. Egli è il mandatario di un ente superiore che gli affida l'incarico d'imperare in suo nome. E l'agricoltore subisce rassegnato il suo imperio, e comprende nel suo culto mandatario e mandante, dai quali altro non impetra che la sua pace.Quanto diverso è il magistero civile che si consegue dall'industria ! Anche l'industriale ritrae dalla natura fisica la materia del suo lavoro. Ma questa materia in luogo di essere per luiunmistero,èinvece una rivelazione. Essa gli rivela che egli coll'opera della sua intelligenza non solo può trasformare i pro dotti della natura e adattarli a'suoi bisogni,ma può anche sorprendere i segreti di essa e svelarli. Si, l'intelligenza gl'insegna ch'egli può perfino combattere contro la natura,ora congiungendo mari da lei divisi, ora atterrando baluardi da lei inalzati fra l'una e l'altra regione, ora sopprimendo colla vaporiera e coll'elettrico le distanze. Se l'agricoltore può chiamarsi servo della natura, l'industriale può dirsi suo ribelle. Ed è mai possibile che quest'uomo, al quale l'impero della natura è troppo grave, possa rassegnarsi a sopportare l'impero di un suo simile ? »  guerre civili, come avvenne in tutti gli altri Stati dell'antichità conjattura della loro libertà, cio e particolarmente dovuto al carattere longanimeepaziente della plebe romana, la quale, convinta del suo diritto, lascia che il tempo ne facesse maturare la coscienza anche nei suoi avversarii, e transigette sopra uno scacco patito oggi per essere più sicura della vittoria domani. guerra , e contro le quali egli non sa difendersi. Da ciò il suo ricorso ad una tutela che lo educherà alla sommes sione per prepararlo alla servitù. In questi misteri del mondo fisico è riposta quindi la genesi tanto delle religioni, quanto delle teocrazie. Le due specie divine, l'una delle quali risiede in cielo in mezzo alla luce, l'altra negli abissi del tartaro, sono emanazioni antropomorfe delle forze benefiche e malefiche della na tura.Createlespecie, e facile creare una simbolica, per mezzo della quale spiegare i diversi fenomeni e momenti della natura fisica. In questa simbolica vediamo attribuita una importanza affatto speciale al fenomeno della fecondazione terrestre. I latini simboleggiarono quel fenomeno in una festa nuziale divina chesirinnovava ognianno nel mese di dicembre, quando la natura si raccoglie in sè, e serba in istato latente le sue forze per ispiegarle rigogliose tra poco. Così ebbero origine in Roma i saturnali, la più popolare delle feste romane, durante la quale era concesso anche agli schiavi di ricordarsi di essere uomini. La chiesa cristiana sostituì ai Saturnali la nascita del Cristo, e non poteva collocare in migliore luogo la comparsa dell'uomo che veniva ad insegnare, essere tutti gli uomini eguali davanti a Dio. La clientela sorse colla conquista del Settimonzio, ossia, colla for mazione del primo stato. E clienti diventarono i prischi abitatori di quella contrada. La plebe surse invece col primo sviluppo che con seguì lo stato romano fuori del Settimonzio, nelle altre contrade del Lazio. Una eccezione fu fatta cogli Albani, e fu eccezione di privilegio dovuta al primato che Alba Longa possedeva verso le città della lega latina. Sia la riverenza che tributar si volle all'antica metropoli; sial'interesse político,che consigliavalalarghezzaverso i vinti Albani, per poter più facilmente ridurre le città latine ad accomodarsi alla nuova padronanza. E l'una e l'altra ragione portano per effetto, che gli Albani venissero dai vincitori accolti nel loro consorzio religioso e politico,e costituiti in una nuova tribù. Questa larghezza non poteva essere usata verso le altre città la tine, e cið per più ragioni. Prima di tutto, va considerato il carattere d'inferiorità che, rispetto alla loro importanza, si manifesta fra esse città e Roma. Se eccettuisi Alba Longa, che ha una posi zione privilegiata rispetto alle città latine confederate, queste son tutte sul piede di una piena eguaglianza vicendevole. E però, nessuna di esse puo invocare dal vincitore un trattamento eccezio nale accampando privilegi anteriori che non erano stati posseduti. Però, se la eguaglianza delle città vinte fra loro non dava luogo a sperare che iljus gentium non sarebbe stato applicato verso di esse in tutto il suo rigore, vi erano altre ragioni che creavano questa speranza, la quale ebbe poi nel fatto sua piena conferma. L'una di queste ragioni era riposta nella connazionalità esistente tra vinti e vincitori, Roma, dovesse la sua origine all'atto geniale di un fondatore, o alla deliberazione di un'assemblea, non poteva dimenticare che dal Lazio erano partiti i suoi primi fondatori, i Ramni; e che dal Lazio , essa avea tolto i suoi costumi e le sue primitive istituzioni. Dopo il tramutamento in Roma dei vinti Albani, la latinità di Roma ebbe rafforzato il suo contingente, onde avvenne che i rapporti morali fra lei ed il Lazio si facessero più forti e più sentiti. I quali rapporti non poterono rimanere senza influenza il giorno in cui la vittoria trasse le città latine sotto la dipendenza di Roma. Anche l'interesse monarchico concorse a mitigare la sorte dei vinti. Importa ai re di rivolgere a loro profitto questa novella forza che ora introducevasi nello Stato, per potere col mezzo di essa mettere un freno alle tendenze invaditrici del patriziato. Cosi, pel concorso di due circostanze, che apparentemente contraddiceansi, i vinti Latini ebbero pur essi da Roma un trattamento eccezionale. Non furono ascritti nel consorzio gentilizio come i nobili Albani , ma non vennero nemmeno degradati allo stato di clientela. Diven tarono invece plebe, che vuol dire massa disorganizzata (da pleo, plenus). Ma non e lontano il giorno, che essa conseguirà pure un organismo suo ; e allora il nome non rappresentando più la cosa, non le rimarrà che come ricordo storico. E sarà il giorno, in cui, per opera di Servio Tullio, al principio teocratico che cinge in nome del diritto divino di una cerchia di ferro i privilegi del patriziato, si sostituirà il principio timocratico, che aprirà quella cerchia per attribuire il privilegio al censo. Fu questa la prima breccia aperta nella cittadella del patriziato; dopo di essa,la espugnazione della fortezza diventava quistione di arte strategica, che è a dire, qui stione di tempo. Bologna, giugno. Ma se la plebe nel suo nascere non avesse posseduta la persona litàgiuridicacheimplicavailjus commercii,essanonavrebbe po tuto pervenire per mezzo del diritto di proprietà a quello del suf fragio, e la riforma di Servio Tullio sarebbe rimasta sterile per lei, come sarebbe mancata la ragione politica di crearla.Rino Genovese. Genovese. Keywords: tribù, attribution, self-ascription, ascription, labelling, power, language, illuminism, critical illuminism, critical theory, critica della ragione impura; tribu occidentale; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Genovese” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Genovesi – logica pei giovanetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castiglione del Genovese). Filosofo. Grice: “I like Genovesi.” Grice: “Genovesi is a good’un – he reminds me of Oxford – his treatise on logic he called ‘per gli giovenetti,’ which is, as Piaget would say, as it would.” Grice: “Genovesi reminds me of Strawson, or rather of myself teaching logic to Strawson back in that infamous term of 1938!” – Grice: “I like Genovesi; I don’t think Socrates taught logic to Alcebiades; he couldn’t teach since the ‘dialogue’ is hardly the way to do it; and then Socrates did not teach logic to Plato; Plato did not teach logic to Aristotle, since the dialogue is not the way to go – so it is possibly Aristotle who first ‘taught’ logic to Alexander – this would indicate that he felt the need to change the form from silly dialogical exchanges to actual propositions that Alexander could swallow – “Sign” is what stands for something – a word is the sign of an idea – the idea is the sign for a thing.” – and so on. “Some things imply others; others IMPLICATE others.” – Grice: “Genovesi has an interesting bunch of things to say about logic, but then any writer of a ‘tractatulus’ in logic would: so he explores the natural/conventional distinction as applied to signs, and then the affirmation and negation, and pragmatic concerns with obscurity and ambiguity – and sophismata – and complex ‘causal’ propositions, -- quite a genius – and if a palaeo-Griceian, if I may myself say so!” Figlio di Salvatore, calzolaio e piccolo imprenditore, e di Adriana Alfinito di San Mango. Il padre lo indirizza in tenera età verso gli studi. E affidato agli insegnamenti di Niccolò Genovese, un congiunto, medico tornato da Napoli, il quale lo istruì in filosofia peripatetica per due anni e in quella cartesiana per un anno. Nel corso degli studi filosofici, si innamora di Angela Dragone. Questo amore non trovò l'approvazione del severissimo genitore il quale condusse immediatamente il figlio a Buccino, dove abitavano alcuni parenti, presso il convento dei Padri Agostiniani dove seguì gli insegnamenti filosofici di Abbamonte, appassionandosi al latino di Catone e Varrone. Insegna retorica a Salerno dove incontra Doti, dal quale riceve lezioni di perfezionamento nel latino.Si trasferì a Napoli, dove intraprese dapprima la carriera forense, che lasciò presto. Fonda una scuola privata di metafisica e teologia. A Napoli fu in contatto con Vico e ottenne la cattedra di metafisica. Alcune sue posizione contenute in “Elementa Metaphysicae” furono dai suoi nemici considerate eretiche, e dovette servirsi dell'intervento dell'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, e di Benedetto XIV per conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce lascia l'insegnamento della metafisica a Napoli, per passare all'etica, cattedra che era stata tenuta in passato da Vico.  L'evoluzione dalla metafisica- all'etica prosegue con il passaggio all' “economia” quando si compì la trasformazione 'da metafisico a mercante', come egli stesso ebbe a scrivere nella sua autobiografia. Insegna'commercio e meccanica, con fondi privati da Intieri, la prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa, se non consideriamo cattedre di economia quelle istituite negli anni venti Professorei n Prussia nell'ambito della tradizione camerale. Il suo lavoro come economista è stato quello più fecondo, tanto che Genovesi divenne un autore fondamentale. Si diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta allo spirito e al costume della Contro-Riforma: gli spunti di polemica antigesuitica e anticlericale, la ripresa della lotta in difesa dell'autonomia di un sato laico contro ogni interferenza del cattolicesimo, ai primi elementi di una teoria delle monarchie illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano letterario, l'avvento di una poetica e di una critica più aperte e coraggiose.  In pratica, fu l'inizio della vera rivoluzione culturale che si attuò nella seconda metà del Settecento sotto il segno dell'Illuminismo caratterizzata dalla necessità di trasformare integralmente i cardini dciviltà in tutte le sue manifestazioni. In questo ambito, la filosofia politica di Genovesi e decisamente di tipo riformatore, un anglofilo sotto spoglie francesi. Nella sua filosofia, persegue un compromesso tra idealismo ed empirismo, cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali valori religiosi della filosofia cristiana. Riceve l'influenza del nuovo panorama culturale italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti il concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo stato di "oscurità" (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les Lumières). Prese coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale dopo il periodo d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della necessità di intervenire per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a nuovi splendori. “Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici e che cominciava ad avere in orrore studi si turbolenti, e spesso sanguinosi, feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non pensare più a queste materie.»  Per tale motivo, abbandona la metafisica e si dedica all’economia affermando tra le altre cose, che l’economia deve servire ai governi per alimentare la ricchezza e la potenza del stato. Ritiene che per favorire il benessere “sociale” sia necessario promuovere la cultura e la civiltà, per questo motivo è il primo cattedratico ad impartire le sue lezioni in italiano. Docente di economia politica, occupa una cattedra istituita appositamente per lui di “commercio e meccanica” a Napoli da Intieri. Soggiorna più volte nel palazzo proprio di Intieri a Massaquano per lunghi periodi dove si rifugiava per trovare "la musa ispiratrice" e lì infatti scrisse alcune sue opere. Sostiene che anche le donne e i contadini abbiano diritti alla cultura poiché questa è uno strumento fondamentale per realizzare l'ordine e l'economia nelle famiglie, e di conseguenza nella società, è inoltre importante anche l'educazione degli uomini e in particolar modo lo sviluppo delle arti e delle scienze, contrapponendosi all'idea di Rousseau per il quale il progresso costituisce la fonte di tutti i mali. Denuncia anche la presenza di un numero eccessivo di persone che vivono esclusivamente di rendita e affronta tematiche importanti come problemi di debito pubblico, inflazione e circolazione monetaria.  Il suo pensiero economico è espresso in Lezioni di commercio o sia di economia civile  e considerate una delle prime opere di filosofia economica. Cerca, così, di indicare la via per alcune riforme fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà fondiaria, del protezionismo governativo su commerci e industrie.  Tenne sempre le sue lezioni in italiano grazie alla sua passione per il civile: viene ricordato per essere stato il primo docente a esprimersi in italiano durante i suoi corsi e per essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e di logica in italiano. Così operò, anche e soprattutto, per diffondere lo studio dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo atteggiamento Genovesi è ancora una volta in piena continuità con gli umanisti, giudicando anche questo un mezzo di incivilimento. Altre opera: Lezioni di commercio (Milano, Fondazione Mansutti). Altre opera: Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata, Napoli; Elementorum artis logicae-criticae libri quinque Gli elementi dell'arto logico-critica, Venezia) Meditazioni filosofiche; Lettere filosofiche;  Lettere Accademiche; Memorie Autobiografiche; Lezioni di commercio o sia d'economia civile; Della diceosina o sia della Filosofia del Giusto e dell'Onesto; Delle Scienze Metafisiche per li giovanetti 1767; Altre opere da ricordare sono La logica per i giovanetti, Istituzioni di Metafisica per Principianti e Lettere familiari, che testimoniano l'intensa corrispondenza epistolare tra l'abate e il letterato dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei pochi testimoni dell'illuminismo pugliese. Corpaci, F., Antonio Genovesi; note sul pensiero politico, Giuffrè, Peter Jones, Reception of David Hume in Europe, Continuum, Palatano, Rosario; Genovesi, Antonio. Antonio Genovesi: teoria del commercio, LUISS University Press,.Antonio Genovesi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 10 maggio.  Lucio Villari, Il pensiero economico di Antonio Genovesi, Le Monnier, Chines, Loredana. Su alcuni aspetti linguistici degli scritti di Genovesi, Pensiero politico, Davide Alessandra, Antonio Genovesi: uno dei padri dell'illuminismo meridionale, su historiaiuris.com,. M. Bonomelli (a cura di, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa, Luigino Bruni, Voce "Antonio Genovesi" in Il Pensiero Economico Italiano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani.  Luigino Bruni e Stefano Zamagni, Economia civile, Il Mulino, Bologna,. A. M. Fusco, Antonio Genovesi e il suo mercantilismo "rinnovato", in A. M. Fusco, Visite in soffitta. Saggi di storia del pensiero economico, Napoli, Editoriale Scientifica, Giuseppe Galasso, Il pensiero religioso di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, G. Genovese, Contro le "Penelopi della filosofia". Note sulle Lettere accademiche di Antonio Genovesi, L'acropoli, G. Genovese, Tra Vico e Rousseau: le autobiografie di Antonio Genovesi, L'acropoli, D. Ippolito, Antonio Genovesi lettore di Beccaria, Materiali per una storia della cultura giuridica, C. Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel pensiero di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, M.L.Perna, Eluggero Pii e l'edizione delle opere di Antonio Genovesi Dialoghi e altri scritti. Intorno alle Lezioni di Commercio, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, A. M. 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Corrado Barbagallo, Antonio Genovesi, Estratto da: Rassegna Storica Salernitana.  Antonio Genovesi 1 2 non è uno di quei filosofi, che  fanno compiere un passo innanzi al pensiero filosofico.  A paragone del grande Giambattista Vico, che si gloria di  aver avuto maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue  opere con profondo rispetto : , il Genovesi apparisce come  uno di quei mille ammiratori, più o meno sinceri, che il  Vico ebbe tra i suoi contemporanei e tra gli uomini più  illuminati delle generazioni successive; i quali ebbero un  certo sentore di alcune teorie di lui, concordanti o no  con dottrine congeneri di altri pensatori e da annoverare  tra le parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i  problemi originali posti e risoluti dal Vico, si può dire,  non ebbero senso. Se pertanto nella storia del pensiero  il Vico rappresenta quello che egli rappresenta a’ nostri  occhi di storici che han penetrato il significato di quei  problemi, il Genovesi dopo di lui è un arresto o una de¬  viazione. Quella vena speculativa altissima nello scolaro Discorso tenuto al Teatro Verdi di Salerno, il 17 gennaio 1932,  ì n occasione del monumento inaugurato lo stesso giorno a Castiglione  del Genovesi. L’illustre Vico, uno de’ fu miei maestri, uomo  d’immortai fama per la sua Scienza Nuova » (Lez. di Comm.,  Napoli, Il nostro Vico nella  Scienza Nuova, libro maraviglioso e uno dei pochi che in queste ma¬  terie [su Omero] facciano onore all’ Italia » (Logica e Metafisica, Mi¬  lano, Classici italiani, ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    è inaridita. Il pensiero ha cambiato strada, abbandonando  gli ardui argomenti con cui s’era cimentato.   Ma il paragone col Vico storicamente non è giusto.   I due pensatori in verità appartengono a due piani  storici, da uno dei quali non si passa all’altro direttamente.  Se il Genovesi non ebbe occhi per vedere i problemi del  Vico, neanche il Vico, dalla parte sua, ebbe occhi per  vedere quelli del Genovesi. Uomini di tempra diversa,  con diversi interessi spirituali, si può dire che il maestro  abbia pensato sempre al cielo, e lo scolaro alla terra.  L’uno non si guarda mai attorno se non come uomo  privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge alla  sua scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si  assorbe tutto, estraniandosi affatto dai pensieri, dalle  gioie e dai dolori della vita quotidiana. Dove non sono  in verità gli attori del dramma che egli ama studiare e  nel cui studio concentra infatti le energie più potenti  della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra i coe¬  tanei come l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non  è di questo mondo. Quantunque il suo animo, propria¬  mente, sia a questo mondo legato così strettamente come  nessun altro mai, e di questo mondo, scrutato con sguardo  penetrante fino al profondo, aspiri appassionatamente  a intendere il significato, e in questo mondo appunto  agogni con titanico sforzo a conquistarsi razionalmente,  col pensiero, un suo posto. Ma questo mondo egli vuol  vederlo sub specie aeterni, come mondo che è sempre lo  stesso, in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti  sempre diversi, ma per l’interna virtù che lo muove con  immutabile legge.   L’altro invece è tutto occhi pel mondo che si agita  intorno a lui, nella scuola e fuori della scuola; nelle città  e nelle campagne; nello Stato e nella Chiesa; a Napoli,  per tutta Italia, e di là dalle Alpi. L’istruzione del  popolo e l’educazione dei giovani; l’agricoltura e il commercio; l’economia del Regno, e i problemi della feudalità  e della manomorta; il problema della moltitudine degli  ecclesiastici eccessiva in rapporto alla popolazione; e poi  la questione giurisdizionale e l’ardente lotta anticuria-  lista in difesa dei diritti dello Stato; e via via tutte le  questioni che erano all’ordine del giorno nella Napoli del  tempo, o che uno spirito alacre ricavava da quelle a cui  la pubblica opinione s’interessava. E poiché i paesi  allora alla testa della cultura europea erano insieme  Inghilterra e Francia, e i libri che si pubblicavano in  quelle lingue i più letti, celebrati e discussi, ecco quelle  lingue, insieme con le classiche, a cui il Vico si era limitato,  studiate e possedute con animo pronto a seguire il movi¬  mento della letteratura straniera in ogni campo di ri¬  cerche filosofiche e sociali. Allargato quindi enormemente  l’orizzonte. Non più quel carattere antiquato e accade¬  mico della scienza tradizionale, nel cui cerchio si muove  ancora il Vico, modernissimo per la sostanza de’ suoi  problemi, arcaico per la forma (lingua ed erudizione)  E la modernità segna la fine di quel chiuso provincia¬  lismo, onde lo scrittore napoletano si era sentito sempre  cittadino di Napoli. Genovesi guarda più in là del  Garigliano e del Tronto. Egli si sente italiano; e come  italiano, partecipe dell’unica società europea della cultura.  Italiano e moderno, si lascia alle spalle il vecchio mondo  tradizionale dell’accademia fratesca e teologizzante e  dell’angusta provincia, e respira largo, apre le finestre  della scuola della letteratura e del pensiero, e vive nel  tempo suo e si sforza d’interessare gli uomini, tutti, al  sapere e al lavoro dell’ intelligenza.   Siamo, come dicevo, in un piano diverso da quello  della pura filosofia. Qui si può dire che la filosofia ri-  nunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli per  risorgere in forma più adeguata alle sue esigenze più  profonde. Ciò che è tante volte avvenuto nella storia; e avviene continuamente nella vita. Il pensiero sale, sale,  si purifica, si libera dal rappresentare fantastico e corpulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana,  per ridiscendere tosto al concreto della realtà che con  quell’astrazione ha cercato di definire e più perfetta¬  mente possedere: alla realtà che è corpo e fantasma,  e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso impeto  dell’essere che tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di  ogni esistenza e di ogni luce. Il progresso è pur sempre  in certo modo regresso; e se si volesse andare avanti,  avanti sempre, si finirebbe col precipitare nel vuoto.  Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna toccare  la terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come  l’Anteo della favola, da gigante che ha già la forza per  rialzarsi: che ha, in altri termini, un certo grado di co¬  scienza filosofica.  Vogliamo sentire dallo stesso Genovesi qual fosse il  suo ideale di cultura ? Basta leggere un suo Discorso sopra  il vero fine delle lettere e delle scienze, che pubblicò  innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari  per far rifiorire Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi  per giustificare la nuova via per cui egli si metteva, dopo  aver anche lui pubblicato i suoi libri di Logica, di Me¬  tafisica e di Teologia in lingua latina. In questi stessi  libri, per altro non è difficile scorgere le tendenze innova¬  trici del Genovesi e il carattere dominante del suo pen¬  siero filosofico, del quale ci proveremo qui appresso a  dare un sommario cenno ; ma ancora non è avvenuta la  radicale conversione per cui la mente dello scrittore, dopo  che ebbe trovato negli studi economici e sociali una ma¬  teria più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma  storica, e ritrovò propriamente se stesso.   In questo Discorso il Genovesi propugna una sorta di  filosofia « reale », com’egli dice, e cioè pratica ed applicativa: come dire una filosofia non propriamente specu¬  lativa e filosofica; e prende a partito tutti i più celebrati  filosofi della tradizione e le loro dottrine. Esalta bensì  la ragione come quella che << più di tutte le nostre doti  ci rassomiglia a Dio », « la sola cosa, per cui l’uomo si  solleva sopra tutto ciò ch’è in terra»: la ragione, «arte  universale » governatrice di tutte le arti e strumenti onde  l’uman genere arricchisce la vita e viene ogni dì perfe¬  zionando il sistema dei mezzi diretti ad accrescerne il  benessere. Ma ne addita nelle astratte speculazioni e  schernisce i deviamenti già nell’antichità derivati appunto  dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni oziose,  sottili, astruse e atte nondimeno a suscitare la stima e  l’ammirazione dei semplici e a procacciare una riputazione  fallace.   « Poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto so¬  gliono più stimare quel che meno intendono, i dialettici  ed i metafisici. I don Chisciotti della repubblica delle  lettere, combattenti con gli indistruttibili giganti delle  chimere, per la gloria vanissima di sottilissimo ingegno,  loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed usur¬  parono il premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca  fatale, che riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti  la Grecia, e ne’ secoli assai più vicini buona parte del-  1 ’ Europa ».   Eppure, la prima e più antica filosofia era stata una  « filosofia tutta cose ». I più antichi filosofi erano stati i  legislatori, i padri, i sacerdoti delle nazioni, studiosi di  etica, economica, politica; persuasi anch’essi, al pari di  tutti i buoni cittadini, che, « come partecipavano a’ comodi  della società, così dovevano aver parte alle cure e alle  fatiche » pel bene pubblico e domestico. Vennero dopo i  tempi di corruzione, in cui prevalse la massima che l’ozio  fosse un nobile e onorato mestiere. E quindi la genia infi¬  nita di coloro che sono «peste del vero sapere e della virtù»; «i quali si credettero nati o per garrire inutil¬  mente, o per disputare di cose inintelligibili, o per met¬  tere empiamente in ridicolo le sante ed utili cognizioni,  le leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà ». Ven¬  nero i grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti  de’ sogni dei poeti, o mercanti de’ propri»; vennero i  metafisici, «Penelopi della filosofia, implicati in disciorre  quelle tele, che eransi tessute colle loro mani » ; verniero  i dialettici, che « tendevano indissolubili lacciuoli alla  ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie  gittavan del negro, sotto cui il vero e il falso prendesse  un sol volto ». Socrate, — il gran Socrate, di cui fu detto  che richiamò la filosofia dal cielo in terra e a cui infatti  gli uomini devono di sapere che tutto quello che si vuole  intendere essi non lo possono cercare se non nel pensiero,  cioè in se medesimi, — dal Genovesi non è ricordato qui  se non come colui che insegnò la più ricca e la più bella  possessione dell’uomo essere l’ozio. Dei suoi scolari non  gli giova menzionare altri che Aristippo e Diogene il  Cinico, corruttori del costume. Di Pitagora a scherno  ricorda la monade e il binario; e l’uno di Parmenide; e  l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme di Platone  e le entelechie di Aristotele; ed altre cosiffatte «bambole  di ragione » degli altri più celebrati filosofi.   Che dire poi della filosofia medievale ? Non si può  leggerne la storia « senza aver pietà della debolezza del-  l’ingegno umano ». Poveri scolastici ! «Vestono corazze  di carta, che stimano del più fino metallo; e combattono  con i mulini a vento, come con i Giganti distruttori del-  l’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce fuor del nostro  mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra cosa,  fuor che di ciò che ci appartiene o c’ interessa ».   In questa caricatura della storia della filosofia super¬  fluo avvertire lo strazio che il Genovesi fa delle più im¬  portanti dottrine dei maggiori pensatori. Voglio solo riferire in proposito un altro periodo, tipico documento  degli stravolgimenti storici di questa invettiva, e insieme  dello spirito che la moveva:«La materia prima,  che Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagli Arabi,  fu di sì vivi e vaghi colori arricchita in mano di Abelardo,  e di alcuni altri, che divenne una Divinità, la quale poi  il più empio e il più freddo de’ filosofi del passato secolo,  si studiò di adornare con un sistema geometrico ». Allu¬  sione a Spinoza, che pure Genovesi aveva studiato con  grande interesse ’.   « Alle quali cose quante volte io penso », conchiude il  nostro filosofo, « forte mi meraviglio, come gli agricoltori,  i pastori e tutti gli altri coltivatori delle arti per cui l'uman  genere si sostiene, abbian potuto tollerare in pace una  razza di uomini, i quali, lungi di dar loro il menomo ri¬  schiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’ frutti  della loro industria godevano, pare che si ridessero delle  loro fatighe, o che gli riguardassero come animali di  altra specie, fatti da Dio in forma umana per servire  a’ loro piaceri ».   Lode a Bacone, che proclamò la necessità di ristaura-  zione dalle fondamenta tutto il sapere, e dimostrò che  « si poteva essere filosofo con assai gloria, senza essere  peso inutile agli altri uomini ». Lo studio della natura,  l’esperienza, « gran maestra delle utili cognizioni », la  geometria « nutrice di tutte le arti » vennero in grande  onore. L’ Europa cambiò faccia. Ogni nazione ebbe il  suo Ercole, uccisore dei mostri che la infestavano. L'Italia  ebbe Galileo. Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa a  questa nuova scienza, forse perché con maggior vigore  questa potesse irrompervi a rendere più glorioso il rin-    1 Cfr. la sua lettera a R. Sterlich; dove racconta  come potè studiare, quando aveva 28 anni, 1 ’Etica di Spinoza: Leti,  fam., ed. Napoli, novamento che il Regno, ristaurato dal primo dei Bor¬  boni, doveva promuovere. Genovesi ha qui un concetto  che rammenta l’hegeliano spirito del mondo. « Egli è  veramente un certo Genio, che discorre per le nazioni,  e che in dati intervalli le anima, e le raccende, quello  che o primamente mena, o estinte ravviva le lettere e  le belle arti ». Ma questo Genio, secondo il Genovesi,   « vuol essere sempre accarezzato, sollecitato e alimen¬  tato. Può dirsi che la curiosità, la più utile molla del-  l’animo umano, il dischiuda dal suo guscio, la gloria  l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione l’aguzzi  e ’l rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’ali¬  menta ». Insomma, il rinnovamento del pensiero richie¬  deva a Napoli le più propizie condizioni create dalla  nuova vita impressa allo Stato dal nuovo Regno.   Grande infatti il progresso già avvenuto in Napoli,  delle arti, delle scienze, della ragione che le alimenta.  Ma « un certo lezzo dell’antica barbarie » (prisci vestigia  ruris) è rimasto tuttavia attaccato agli scrittori. La  ragione non è pervenuta ancora alla sua maturità: è  ancora tutta nell’ intelletto, e deve passare nel cuore e  nelle mani. È bella, non è operatrice; adorna, non utile.  Bisogna che diventi pratica e realtà; come può solamente  quando « tutta si è così diffusa nel costume e nelle arti,  che noi l’adoperiamo come sovrana regola, quasi senza  accorgercene » : come accade alle bestie, in cui « la cogni¬  zione è tutta uso, perché è l’arte di Dio lavorante su la  materia, ed in Dio non ci sono Enti di ragione»:  cioè le astrattezze che si annidano nel cervello dei filosofi.  I dotti napoletani hanno bensì coltivato lo studio delle  leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei dialettici:  questioni sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla vita.  Tutta una forma di sapere, in cui, insomma, secondo il  Genovesi, c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è cuore;  e c’è cattivo gusto. Manca, diremmo oggi, il senso scientifico; e gl'ingegni si credono più grandi quando sono  ammirati come incomprensibili, che quando stimati come  utili.   La pratica dell' insegnamento (insegnava già egli da  sedici anni) aveva dimostrato al Genovesi che Napoli era  un semenzaio di nobili e glandi ingegni ; ma i migliori  ingoiavano avidamente la nuova filosofia prima di di¬  gerir la vecchia. Avvezzi alle sottigliezze vane e alla  « ciarleria », troppo ancora se ne compiacevano per fare  il debito onore alle scienze sode, feconde, che avevano  già trasformato la cultura inglese, francese, olandese.  Sacrifichiamo dunque « una volta la seduttrice e vana  gloria dell’astratta speculazione al giusto desiderio della  parte più grande degli uomini, i quali ci vogliono men  contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il divin  dono della ragione perché intendiamo, che il vero sapere  non è di sì gelosa natura che voglia essere di pochi ». Esso  deve giungere al popolo. Il quale ha bisogno di essere illu¬  minato, e non seguito nella sua naturale ritrosia alle  novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento tenace  alla tradizione. Deve essere indotto a profittare delle  osservazioni e delle invenzioni dei dotti. Deve essere in¬  gentilito, rianimato, spronato ad elevarsi. E si deve quindi  operare su di esso non con le leggi che non cambiano gli  uomini, sì con la « savia educazione e coltura di questa  sì preziosa derrata dell'uomo, da che egli comincia a  sbucciare dal suo guscio ».   Curare l'educazione. È uno degli articoli principali  dell’apostolato del Genovesi 1 ; poiché i contemporanei,  a suo giudizio, curavano più i « testi di fiori » e le piante    1 Sulla educazione e istruzione popolare vedi Lez. di Comm., parte I,  cc. VI e Vili; e Logica, Senza educazione «oltre¬  ché non è possibile, che la popolazione si aumenti.... ma, pure dove  avviene che cresca, la repubblica si potrà ben dire aumentata di semi¬  uomini, ma non di forze» (Lez. di Comm., peregrine che avevano per avventura ne’ loro giardini,  che non i figli. E raccomandava la massima diligenza  nella scelta dei maestri, poiché molto, a suo giudizio,  mancava per questa parte il Regno di Napoli. Bisogna  sentire il ritratto vivo che ce ne ha lasciato:   « I maestri di scuola pongono poca cura a studiar l’urbanità e l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti  d’onore: sovente i loro moti, gesti, tuono di voce e tutto  il lor volto, che suol esser lo specchio dei ragazzi, spira  tutt’altra cosa che gentilezza: la loro lingua è più fre¬  quentemente un gergo corrotto de’ vari dialetti del nostro  Regno, che la bella e nobile della pulitissima Italia: final¬  mente, dirò io che il lor costume sia sempre il più puro  e il più santo ? Inoltre, quasi tutti si studiano di coltivar  assai più la memoria de’ loro allievi che la ragione e il  cuore. Un solecismo o barbarismo in lingua latina è da  loro più severamente punito, che molti a’ gentiluomini  sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi solecismi di  ragione e di costume. Si adirano anche spesso, gridano  e fanno dei schiamazzi in testa a’ loro allievi; gli battono  senza misericordia, e gli trattano più da servi, che da  figli: tutte cose più atte a fare o stupidi o villani o zotici  e feroci i ragazzi, che ad allevargli nel sapere, nelle virtù,  nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi ben anche  spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito  dire a molti di coloro un proverbio, che fa disonore agli  esseri ragionevoli : che i fanciulli si curan  colle mazze».   3. — Un filosofo che parla questo linguaggio umano,  familiare, e che pensa come s’è veduto, dei filosofi e dei  loro sistemi, evidentemente non è un filosofo di professione.  Sarà un filosofo che avrà qualche cosa da dire più e meglio  dei filosofi di professione; ma non potrà facilmente an¬  dare d’accordo con questi. Così poco rispettoso di quelle  Si    che sono le idee e le maniere per loro più rispettabili e  venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto fa¬  stidio verso le questioni che formano il nutrimento e il  vanto dei loro cervelli, certo potrà, per caso, trovarsi in  mezzo ad essi: ma vi starà a disagio, e se ne trarrà fuori,  spontaneamente o per necessità, appena se ne presenti  l’occasione.   L’abate Genovesi, nato nella terra di Castiglione 1 ’ Ognissanti, fu avviato quattordicenne agli studi di  filosofia da un suo stretto congiunto, che gli insegnò per  due anni filosofia scolastica e per un terzo anno filosofìa  cartesiana (filosofìa di moda allora nel Napoletano);  quindi, poiché il padre lo volle ecclesiastico, obbligato ad  apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli ordini  minori nel 1730, promosso suddiacono nel settembre '35.  Chiamato questo anno a insegnar rettorica nel seminario  di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo conto  con gran fervore ; finché nel '37 sarà ordinato prete J'e  un’eredità allora conseguita gli consentirà di recarsi l’anno  appresso a Napoli, per appagare in quella Università e  nella consuetudine degli illustri letterati della metropoli  la sua sete ardentissima di sapere. A Napoli frequentò  molti corsi; tra gli altri, fino al *41, quello di Giambattista  Vico; di cui, ci racconta un anonimo biografo, aveva  già da un anno letta la Scienza Nuova : « Il perché corse  ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la sua servitù, ebbe  l’onore della sua amicizia » Insoddisfatto della filosofìa  che s’insegnava, disegnò programmi suoi, e aprì una sua  scuola privata; finché nel '41 il Cappellano Maggiore  monsignor Galiani, che era l’uomo che poteva intenderlo,  gli affidò l’incarico d’insegnare nell’ Università Metafìsica. Aveva letto Malebranche, Locke, studiato Spinoza    1 Note di A. Cutolo alle Memorie autobiogr. del G., in Ardi. stor.  nap., 1924, p. 261.   2 Cutolo, Noie cit. e Leibniz; e dettava agli alunni, come volevano i rego¬  lamenti del tempo, le sue lezioni in latino. Ne nacquero gli  Elementi di Metafisica in lingua latina, in cinque tomi; il  primo dei quali pubblicato nel '43, pel metodo geometrico  con cui la dottrina era esposta (metodo, si sussurrava, caro  ai protestanti), per le novità che conteneva, per le con¬  cessioni che faceva al razionalismo, per quello scetticismo  moderato che vi dominava, procurò all’autore ire e per¬  secuzioni dei censori ecclesiastici, aprendo una serie di  contestazioni teologiche, che alienarono sempre più il  suo animo dagli studi che rimanevano in Italia, e sopratutto nel Mezzogiorno, monopolio quasi esclusivo dei  frati.   Ma ecco che nel '44 il Galiani gli viene in aiuto pas¬  sandolo dall’ incarico di Metafisica alla cattedra ordinaria  di Etica : insegnamento più conforme all’ ingegno del  Genovesi, e da lui infatti tenuto per un decennio con  grande efficacia per l’eloquenza delle sue lezioni, la mo¬  dernità della dottrina, la ricchezza e praticità delle que¬  stioni trattate. Pure alla Metafìsica nel '45 s’aggiungeva  in cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in latino.  E queste opere si ristampavano e si diffondevano in  Italia e fuori d’Italia. Nondimeno l’autore nel '65 poteva  scrivere a un amico : « La Metafìsica (mia) fatta pei teo¬  logi e frati, non può piacere ai fìsici e ai matematici, come  neppure piace a me. E con tutto ciò, la Logica e la Meta¬  fìsica s’insegna in molti collegi di Francia, e in quasi  tutte le scuole di Germania» '. Avevano fortuna; poiché  questi libri rispondevano al bisogno delle scuole, e nel  loro andamento eclettico e largamente informativo ben  s’adattavano alla tendenza media degli studiosi non risolutamente moderni ma neppur ciecamente chiusi nella  tradizione, e disposti quindi a conciliare nova et vetera    1 Leti, jam., II, 67.  e farsi una filosofia senza compromettersi; ma, come  si vede, non finivano di contentare l’autore stesso. Anche  i due libri De iure et officiis eran nati dalla scuola  e per la scuola (in usum tironum) ; e del pari altri due  brevi compendii latini di Logica ('5 2) e di Metafisica. Ma quando al Genovesi sarà possibile avere una scuola  a modo suo, intorno a materie nuove, indirizzate a pub¬  blica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli non  scriverà più latino. Che gioia quando fu istituita per lui,  nell’ Università, la cattedra di « Commercio e Economia »,  fondata dal suo vecchio amico, facoltoso e autorevole,  il fiorentino Bartolomeo Intieri, studioso di macchine  agricole e di questioni economiche: ingegno pratico alla  toscana, avverso a ogni oziosità speculativa ! Allora il  Genovesi si sentì davvero maestro, e veramente filosofo.   Grande l’attesa nel pubblico per il nuovo insegnamento ;  ma potente altresì l’estro del nuovo insegnante e l’im¬  peto e il calore della sua eloquenza. Quando il 5 novembre  del ’54 tenne la sua prima lezione, fu un avvenimento  nella vita del Genovesi e nella storia non soltanto della  cultura napoletana ma della scienza europea. Poiché que¬  sta del Genovesi fu la prima cattedra istituita in Europa  di Economia politica: dovuta, s’intende, non al semplice  intuito d’un privato ma al movimento degli studi che la  situazione economica del Regno di Napoli aveva prodotto.  In una lettera dello stesso mese il Genovesi scriveva a  un amico 1 : « Nel dì 5 corrente feci il mio discorso pre¬  liminare, 0 sia l'apertura alla nuova Cattedra del Com¬  mercio con uno straordinario concorso, tuttoché io non  avessi fatto invito. Parlai un’ora, non solo senza niente  aver mandato a memoria, ma senza aver niente scritto  di quello che dissi. Con tutto ciò il discorso fu ricevuto  con applauso, e subito diffuso per tutta la città. È stata    Leu. falli., I, 108.     bella ! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho potuto  lor dire, che dopo averlo letto n’aveva perduto anche  l’originale.... Il giorno seguente cominciai a dettare.  Grande fu la meraviglia in sentir dettare italiano ; sicché,  essendomene accorto, nello incominciare la spiegazione  dovetti cominciare dai pregi della lingua italiana, e urtar  di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia.... La scuola  è stata sempre piena in guisa che molti non ci hanno  trovato luogo ; ma la maggior parte sono uditori di barba,  e di vari ceti. Gli scriventi sono circa cento.... Gran moto  è nato da queste lezioni nella città, e tutti i ceti domanda¬  vano libri di economia, di commercio, di arti, di agri¬  coltura ; e questo è buon principio ».   Da questo corso, che il Genovesi proseguì finché le  forze gli bastarono (morì il 23 settembre 1769, ma un  anno prima per malattia aveva dovuto lasciare la cat¬  tedra), trassero origine le belle Lezioni di Commercio ossia  di Economia civile in due volumi, che rimarranno tra le opere classiche della nuova scienza: opera  riboccante d’ingegno, di erudizione, di brio e di amore  del pubblico interesse, dall’agricoltura alla pubblica istru¬  zione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del com¬  mercio della Gran Bretagna di John Cary con un Ragio¬  namento del Commercio in universale e lunghe e impor¬  tanti annotazioni del Genovesi sul commercio del Regno,  e altri scritti minori. In questi stessi anni il laborioso  scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle sue  opere latine. Sono del '58 le sue Meditazioni filosofiche,  che arieggiano quelle di Cartesio; ed ebbero l’ammira¬  zione del Baretti 1 ; e del '59 le Lettere filosofiche ; come    1 Da leggere l'articolo che gli dedicò nel 2 0 numero della Frusta  Letteraria: dove il Baretti giudica il libro con questi  termini di alto elogio (ed. Piccioni, Bari, Fra le tante migliaia e migliaia di libri scritti nella nostra lingua,  io non ne conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli del Galileo, del '64 le Lettere accademiche. Imprende a scrivere  in italiano un Corso di filosofia. E volle scriverlo per i  giovani (com’egli stesso faceva sapere a un amico) « che  son curiosi di sapere se le scienze potessero così parlare  italiano come una volta parlarono greco e latino. Il mo¬  tivo che mi muove, è una massima, che può stare che  sia falsa, ma 1’ ho nondimeno per vera, cioè che ogni  nazione che non ha molti libri di scienze e di arti nella  sua lingua è barbara ». Perciò in Francia nell’età di  Luigi XIV s’era cominciato a scrivere di filosofia in  francese. Perciò aveva seguito l'esempio l’Inghilterra.  E altrettanto si cominciava a fare in Germania. Dove  non si scrive nella propria lingua, dice il Genovesi, si  accenderà magari mi lume grande e brillantissimo, ma  questo resterà « nondimeno sepolto in que’ lanternoni da  antiquari d’onde non tralucono che pochi tenebrosi  raggi. E nelle stesse Lezioni di Commercio inculcava come    che sia tanto pregno di pensamento e di vera scienza quanto è questo  primo tomo di questo nostro ampio, sublime ed aggiustatissimo pen¬  satore Antonio Genovesi ».   Al Baretti non andava lo stile del Genovesi, seguace della scuola  toscaneggiante del Di Capua: «Una cosa però disapprovo in lui asso¬  lutamente, e questo è lo stile suo.... perché troppo a studio intralciato  e rigirato si, che non poche volte abbuia il pensiero. — Com' è pos¬  sibile, ho detto tra me stesso mille volte leggendo queste sue tanto  stimabili meditazioni, — com’è possibile che un uomo il quale è una  aquila quando si tratta di pensare, si mostri poi un pollo quando si  tratta di esprimere i suoi pensieri ? Come mai un Genovesi ha potuto  avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di certi secchi e  tisici uccellacci di Toscana ? Eh, Genovesi mio, adopera gli abbin¬  dolati stili del Boccaccio, del Bembo e del Casa quando ti verrà ghi¬  ribizzo di scrivere qualche accademica diceria, qualche cicalata, qualche  insulsa tiritera al modo fiorentino antico e moderno; ma quando scrivi  le tue sublimi Meditazioni, lascia scorrere velocemente la penna....;  e lascia nelle Frammette e negli Asolani e ne’ Galatei, e in altri tali spre¬  gevolissimi libercoli i tuoi tanti conciossiacosacché e i perocché.... e tutte  quell’altre cacherie e smorfie di lingua, che tanti nostri muffati gram-  maticuzzi vorrebbero tuttavia far credere il non plus ultra dello scri¬  vere ».   1 Cfr. la pref. alla Logica italiana. certissimo assioma politico » che una nazione non sarà  mai perfettamente culta nelle scienze, nelle arti, nelle  maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e i  libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà  dipendere da una lingua forestiera; la quale, non essendo  intesa che da una picciolissima parte del popolo, tutto  il resto sarà fuori della sfera del lume delle lettere....  Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre idee  e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere  in un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? Finché in un paese le scienze saranno in un gergo stra¬  niero alla maggior parte del popolo, avremo sempre, dice  il Genovesi -, « molte scuole inutili, molto tempo perduto,  molti cervelli stupiditi; e mancheremo delle necessarie,  né ha possibile di avere delle buone teste ».   Con questo ideale di una scienza che penetri il popolo  per svegliarne e metterne in moto tutte le forze morali  ed economiche, il Genovesi voleva scuole e quando  furono da Napoli espulsi i Gesuiti e riordinata la pubblica  istruzione ed egli a tal fine invitato a scrivere un Piano  di riforme 3, non dimenticò nelle sue proposte le scuole  del popolo —; voleva metodi razionali e semplici perché  fossero efficaci gl’ insegnamenti accostati al popolo c ai  giovinetti; voleva accademie, che, abbandonando la vec¬  chia letteratura e le discussioni vane della filosofia in¬  feconda, si rivolgessero alle ricerche sperimentali e alle  arti più necessarie alla vita; e voleva, come sè visto,  libri in italiano, attraenti e di facile lettura. Ma aveva  pure il suo ideale di una dottrina che, liberando il popolo  dalle superstizioni e dai pregiudizi, e rinvigorendo nelle  coscienze i convincimenti morali e la fede religiosa che ne  Per questo Piano, vedi gli appunti che ne pubblico G. M. galanti, Elogio stor. di A. Genovesi, Firenze, è sempre il fondamento, potesse aprire la strada a quel  rinnovamento che egli auspicava: potesse infondere negli  uomini e nelle nazioni la fede nella ragione, di cui egli  era l’apostolo. Tutto il suo sistema riformatore era in¬  somma ispirato a una filosofia.   Della qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati di  Logica e di Metafisica, che, bene accolti dai contempo¬  ranei e più volte ristampati (è almeno da ricordare 1 edi¬  zione che della Logica volle curare, nel 1832, il Romagnosi), sono entrati a far parte della letteratura filosofica  nazionale, si scorgono i lineamenti anche da chi non ri¬  cerchi i ponderosi volumi latini, che li precedettero e  prepararono.   Il Genovesi è un empirista t , ma non e un sensista, e  tanto meno un materialista. Combatte le idee innate,  ma cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto,  e la ragione, che l’uomo che medita trova in se stesso  come attività sovrana, libera, signoreggiatrice, col suo  giudizio, dell’universo, vede conforme a una ragione  creatrice universale, divina L’uomo per essa è immor¬  tale. Per essa destinato a vincere il dolore, a superare  ogni difficoltà, a viver felice. Questa ragione infatti non  è fredda astratta intelligenza. Essa è energia ( energetico ,  dice Genovesi) perché è anche passione, cuore i. Non    1 Come empirista, Genovesi, pur non ripudiando ogni metafisica,  insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche speculative alle  questioni essenziali per una concezione sana e morale della vita. Insi¬  stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano. Vedi Gentile,  Stona della filos. ital. dal Genovesi al Galluppi, Milano, Treves, ’ dov'è particolarmente studiata la dottrina della conoscenza  di Genovesi. Oltre i luoghi ivi citati (voi. I, p. xm), e le frequenti di¬  chiarazioni che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1 infecondità  delle più astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi Logica, Notevole in special modo la lett. del 2 aprile 1763   a P. Saffiotti. Vedi Meditazioni filosofiche, Milano, Silvestri, Logica, Vedi Logica, distrugge la passione; una passione infatti si combatte  con un’altra passione. E poiché ogni essere è ragione, e  soffre e aspira a godere, essa, non essendo individuale,  ma comune e universale, stringe in un vincolo di amore  gli uomini.   Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una concezione  leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche  per Genovesi i corpi, scomposti negli elementi semplici  di cui sono formati, si riducono a sostanze spirituali,  attive. E tutte le qualità sensibili dei corpi non sono  altro che fenomeni, nostre sensazioni.   Lo spirito è attività : è quella stessa forza che è in tutte  le cose che sono in natura, e che tende ad espandersi.  In noi questa forza si svela nella ragione, che è prima di  tutto coscienza, affermazione di sé. Questa forza è attiva  e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il suo dominio,  a trionfare. Il mondo non è, infine, se non questo svol¬  gimento della ragione, che nel suo progressivo prevalere  è cultura sempre più intensa e sempre più diffusa; è  benessere in cui lo spirito viene ritrovando e procuran¬  dosi le condizioni più favorevoli al suo sviluppo ; è amore  degli altri, insieme coi quali ogni uomo viene adempiendo  in comune il destino della sua natura, la libera vita della  ragione.   Questa la fede del Genovesi. Questa la sorgente dell’en¬  tusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo dalla  cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute,  infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il  segreto della potente azione da lui esercitata sul suo  tempo, promovendo nuovi studi, animando i giovani alla  lotta contro il vecchio mondo: contro la feudalità in fa¬  vore dei lavoratori della terra e della nascente borghesia;  contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il  pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la  religione; contro tutto ciò che nel pensiero e nelle istituzioni impedisse 0 ostacolasse il libero sviluppo del  lavoro, della civiltà, della ragione.   Antonio Genovesi non fu un rivoluzionario; ma fu  un educatore di rivoluzionari, che quando scoppierà  in Francia la grande Rivoluzione, o crederanno di obbe¬  dire alla voce del vecchio maestro accogliendone una  scintilla anche a Napoli, e quindi suscitando il glorioso  incendio della Repubblica Partenopea, celebrazione di  una grande fede idealistica ancorché astrattamente gia¬  cobina, santificata dal martirio 0, uomini di grande  accorgimento ed equilibrio, come Galanti e Cuoco, con  più profonda intelligenza dell’ insegnamento del Genovesi,  ne trarranno argomento a una più realistica concezione  politica della libertà necessaria al popolo napoletano:  poiché vedranno come il maestro aveva veduto, che  questa libertà non poteva essere vitale, se non era forte  della forza di uno Stato ben ordinato e potente: di uno  Stato infine in cui tutta l’Italia, prima o poi, doveva  unirsi tutta in un corpo solo tra l’Alpi e il mare.   Questa idea di un’ Italia unificata dal Galanti, il più  fido dei discepoli del Genovesi, passò al Cuoco, e dal  Cuoco, come oggi sappiamo, passerà al Mazzini; ma era  stata preconizzata a Napoli dal Genovesi. La cui com¬  memorazione io non potrei meglio concludere che rileg¬  gendo una sua pagina del 1757, a proposito della sicurezza  necessaria al commercio, e impossibile senza una fiotta  militare adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno  di Napoli, che era tuttavia il maggiore e più potente  Stato d’Italia: «Vorrei io», scriveva nel detto anno il  Genovesi, «in questo luogo dire un pensiero, che ho  sempre meco d’intorno all’animo avuto, ed hollo tut¬  tavia; ma io temo ch’egli non sia per incontrar male   1 Sulla scuola del Genovesi e la sua importanza storica, A. Simioni,  Le origini del Risorgimento politico dell' Italia meridionale, voi. I, Mes¬  sina, Principato, presso coloro, che niuno amore hanno e niun zelo nutri¬  scono per l’Italia, come madre nostra. Ma il dirò pure  in qualunque parte sia per prendersi da chi non guarda  più in là del proprio utile.   « A voler considerare l’Italia nostra, e dalla parte del  suo sito, e da quella degl’ ingegni, e per quello che ha ella  altre volte fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e come  dilacerata, si converrà di leggieri, ch'ella tra tutte le na¬  zioni di Europa sia fatta a dominare; perocché il suo  clima non può esser più bello, né più acconcio il suo sito  rispetto alle terre e al mare che la circondano, né più  perspicaci e accorti e destri e capaci di scienze e di arti  e duranti di gran fatiche, e oltre a ciò più amanti della  vera gloria, i suoi popoli, di quel ch’essi sono. Ond’ è  dunque, ch’ella sia non solo rimasta tanto addietro al-  l’altre nazioni in tutto ciò, che par suo proprio, ma dive¬  nuta in certo modo serva di tutte quelle che il vogliono ?  Ella non è stata di ciò causa la sola mollezza, che le con¬  quiste de’ Romani v’apportarono; perocché questa mor¬  bidezza, che le ricchezze e la pace v’avevano introdotta,  non durò lungo tempo; ma la vera cagione del suo avvi¬  limento è stata quell’averla i suoi figli medesimi in tante  e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha perduto il suo  primo nome e l’antico suo vigore.   « Gran cagione è questa della ruma delle nazioni. Pur  nondimeno, ella potrebbe meno nuocerci, se quei tanti  principati, deposta ormai la non necessaria gelosia, la  quale hanno spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero,  sperimentata e al comune d’Italia e a se medesimi fu¬  nesta, volessero meglio considerare i propri e i comuni  interessi, e in qualche forma di concordia e di unità ri¬  dursi. Questa sarebbe la sola maniera di veder rifiorire  il vigore degl’ Italiani.   « Potrebbe per questa via aver l’Italia nostra delle  formidabili armate navali, e di tante truppe terrestri.  che la facessero stimare e rispettare non che dalle po¬  tenze d’oltremare, che pure spesso l'infestano, ma dalle  più riguardevoli che sono in Europa. Ella non vorrebbe  ambire altro imperio, che quello che la natura le ha cir¬  coscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il suo.  Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e  le industrie, dilatarsi il suo commercio, e tutte le sue parti  nuovo abito e la pristina bellezza prendere. Se questi  sensi s’ispirassero ai pastori di tutte le sue parti, forse  che non sarebbe questo un voto platonico. E mi pare che  i principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri gelosi,  che per massime vecchie che son passate ai posteri più  per costume che per sode ragioni. Non son ora i tempi  ch'erano: e quelle cagioni di reciproci timori, che pote¬  vano una volta essere ragionevoli, sono ora non solo vane,  ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si considerano.  Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le cose  sono al presente, sperare altronde la sua salute, che dalla  concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e  vero interesse suol riunire anche i nemici: non avrà egli  forza da riunire i gelosi ?   Rettor del Cielo, io chieggo  Che la pietà che ti condusse in terra.   Ti volga al tuo diletto almo paese » ».    Al Genovesi dunque, il più filosofo dei grandi riforma¬  tori italiani del Settecento, spetta il merito di essere stato  il più italiano di tutti. Egli scosse il petto dei giovani, e  vi infuse una fede nella civiltà che è scienza ed è libertà.  Egli indicò agl’ Italiani 1 * Italia, che non c’era, ma co-    1 Carv, Storia del Comm. della Gran Bretagna, Napoli, 1757, II, p. 35.  Pagina celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa nelle sue Letture del  Risorgimento Italiano.minciava a presentirsi, ed egli l’annunziò, insegnando  come le si potesse preparare la via. E la sua voce si riper¬  cosse di generazione in generazione, finché l’Italia venne.  E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando  la letteratura alla vita, la filosofia all'uomo, ammaz¬  zando l’accademia e l’ozio ancorché dotto ed elegante,  educando il popolo a credere nella cultura, a servire  l’ideale, andando incontro per esso anche alla morte.  Fulgido esempio i martiri del '99. Stato laico e veramente  sovrano, religione tutta rivolta alla vita dello spirito,  libera da ogni cupidigia e pretesa mondana; libera la  ragione, rispettata come cosa sacra la scienza, e la scuola  che la promuove. E di là dal breve confine della provincia,  per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata, consa¬  pevole di una sua missione civile. Questa la scuola del  Genovesi. Perciò gl’ Italiani devono ricordare il suo nome;  perciò devono annoverare Antonio Genovesi, lui così  modesto, così riservato e chiuso tra la scuola e i libri, tra  i padri della patria. E nella scuola italiana particolar¬  mente deve esser ricordato come esempio ed ammonimento  contro la pseudoscienza astratta dalla vita sempre rina¬  scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in vita Antonio  Genovesi e furono perseguitati dalla sua dialettica e dal  suo frizzo, hanno cambiato veste, e non natura. E contro  di essi bisogna ancora combattere, ancora difendersi.  Perciò Genovesi è vivo.  GENOVESI, Antonio. - Nacque il 1° nov. 1713 a Castiglione (ora Castiglione del Genovesi), piccolo paese dell'Appennino campano a pochi chilometri da Salerno, primogenito dei quattro figli di Salvatore e di Adriana Alfenito. La famiglia, un tempo benestante, era decaduta da "civile" in "basso" stato, e viveva con i modesti proventi del lavoro del padre calzolaio e di una piccola proprietà. Allo sforzo di recuperare una condizione economicamente più solida e socialmente più prestigiosa, nonché alle strategie familiari in uso nella società del tempo e della zona, si deve la precoce destinazione del G. alla carriera ecclesiastica, realisticamente accettata dal ragazzo come unica strada percorribile per accedere agli studi superiori e a una professione intellettuale, per la quale si sentiva particolarmente tagliato, poi vissuta sempre con autentica adesione a una religiosità profondamente sentita. Affidato a parenti membri del clero locale, il G. compì i primi studi nel paese natio, praticamente da autodidatta, completando il corso di lettere latine a tredici anni. Seguirono tre anni dedicati alla filosofia, dapprima quella scolastica, per la quale maturò un rapido rifiuto, poi quella cartesiana, sotto la guida di un medico suo parente, Niccolò Genovesi, a sua volta allievo del medico cartesiano napoletano N. Cirillo. Le due autobiografie redatte dal G. e rimaste incompiute e inedite in vita (la prima si ferma al 1748: Autobiografia I, in P. Zambelli, La formazione, pp. 797-916; la seconda al 1755: Vita di A. G., in Illuministi italiani, pp. 47-83) ci trasmettono il ritratto di un adolescente vivace, intelligente e ricettivo, fortemente motivato allo studio per curiosità intellettuale e desiderio di primeggiare, ambizioso e abile nella dialettica. Nello stesso tempo fu iniziato al gusto della letteratura dai consigli di un altro amico del luogo, S. Parrilli; gliene derivò una passione, che durò tutta la vita, per i poemi cavallereschi, per Dante e Petrarca, alla quale seguì il nascere di un altrettanto intenso interesse per la storia.  Ma il padre sorvegliava attentamente che il ragazzo non si concedesse distrazioni. La rigidezza paterna ebbe modo di manifestarsi più duramente quando il giovane si innamorò, ricambiato, di una giovane compaesana, Angela Dragone. Per impedire che questo amore cambiasse i programmi di vita del giovane, il padre gli impose il trasferimento a Buccino (sempre non lontano da Salerno), in casa di parenti, mentre la ragazza fu costretta al matrimonio con un pastore. Il G., pur profondamente addolorato e deluso, trovò conforto nella maggiore apertura e possibilità di contatti che il nuovo ambiente, sempre provinciale ma più aperto e animato, gli offriva, e nell'amicizia con l'arciprete G. Abbamonte, che migliorò la sua preparazione classica e stimolò l'interesse per la teologia e il diritto civile e canonico. Prende gli ordini minori. Nel frattempo, spinto dalla necessità di rendersi indipendente economicamente, con l'appoggio dell'arcivescovo di Salerno G.F. Di Capua, che ne aveva apprezzato le doti esaminandolo per il diaconato, ottenne l'insegnamento di retorica presso il seminario della città, dove rimase due anni. Ordinato sacerdote nel Natale del 1737, l'anno seguente, fornito del modesto capitale di 600 ducati ereditato da uno zio materno, insieme con il fratello Pietro, destinato alla carriera forense, si trasferì nella capitale del Regno, dove avrebbe trascorso tutto il resto della vita, allontanandosene solo per brevi periodi di villeggiatura. Abbandonato rapidamente il progetto di intraprendere anche la professione forense, che gli parve avere "poca conformità […] con le massime del puro cristianesimo" (Vita, p. 53), insofferente del formalismo giuridico e dell'ambiente del foro, scelse definitivamente gli studi filosofici. Frequentò le lezioni di N. De Martino e dell'ormai anziano Vico - di cui già conosceva la Scienza nuova -, conobbe P.M. Doria, si legò di amicizia con Appiano Buonafede, che lo descrive, in quei primi anni napoletani, in un acuto ed efficace profilo (Ritratti poetici, storici e critici di vari uomini di lettere, Venezia 1788, p. 266). Lasciò inattuato il progetto di un'opera ispirata a Platone, La repubblica divina, per rivolgersi avidamente alla cultura anglo-olandese, ai neoplatonici di Cambridge, a J. Le Clerc, a Newton, a Locke (progettando una traduzione dal francese del Cristianesimo ragionevole), al giusnaturalismo. Nel 1739 aprì una scuola privata, in cui insegnare i suoi "nuovi piani di filosofia e di teologia", in particolare il "piano di un'etica" (Vita), frutto delle riflessioni di quegli anni. Cominciò a maturare in quest'esperienza - che durerà tutta la vita - la vocazione pedagogica che caratterizzerà tutta l'attività del G. e che si realizzerà in un metodo d'insegnamento dinamico, in cui l'ampliarsi dell'orizzonte culturale del docente sollecitava e promuoveva l'apprendimento in interazione costante con i giovani. Il carattere innovativo e il successo della scuola gli procurarono l'amicizia e la protezione di M. Cusano, di G. Orlandi e, soprattutto, del cappellano maggiore C. Galiani, autentico iniziatore della nuova cultura newtoniana a Napoli, fondatore dell'Accademia delle scienze e promotore della riforma universitaria, da poco avviata.  Attraverso il Galiani, il G. ottenne il primo incarico universitario, come professore straordinario di materie metafisiche, e cominciò a insegnare nel novembre 1745. Era nel frattempo approdato a una visione filosofica fondata su un "eclettismo programmatico", che tendeva alla serena composizione di un costante atteggiamento apologetico con la più totale disponibilità verso i portati della cultura innovatrice, di cui si appropriava con onnivora curiosità. Ne dette la prima dimostrazione nel manuale degli Elementa metaphysicae (Napoli 1743), prima tappa dell'ambizioso progetto di un corso completo di filosofia. Proprio per queste caratteristiche, nonostante la sostanziale ortodossia e l'approvazione del revisore regio G. Orlandi, l'opera fu duramente attaccata dagli ambienti ecclesiastici. La protezione del Galiani e la disponibilità ad accettare di chiarire le proprie posizioni in una Appendix pubblicata nel 1744 salvarono il G. dalla denuncia al S. Uffizio. La polemica però accrebbe la sua notorietà a Napoli e fuori del Regno; divenne abituale frequentatore del salotto letterario di M. Di Sarno, bibliotecario di José Joaquín marchese di Montealegre (duca di Salas), primo segretario di Stato. Le tesi esposte nella Metafisica attirarono l'attenzione di A. Conti, con il quale il G. avviò uno scambio di lettere filosofiche sulla natura delle idee, stampate nel 1746 (poi in Letterefamiliari, Venezia. Passa alla cattedra di etica, con buon successo per la rinnovata affluenza di studenti. Nello stesso anno pubblicò, in collaborazione con G. Orlandi, cui si devono le note scientifiche, gli Elementa physicae di P. van Musschenbroek, ai quali premise una Disputatio physico-historica de rerum corporearum origine et constitutione, agile e precisa sintesi delle idee scientifiche dall'antichità al presente. La manifesta adesione al newtonismo si colloca tuttavia ancora all'interno di una visione spiritualizzante e ortodossa, che connette la visione del cosmo di Newton al vitalismo di Cardano e di Campanella e con la platonica anima mundi. L'opera ebbe grande fortuna, come pure il contemporaneo manuale di logica Elementorum artis logico-criticae libri V(Napoli), che gli procurò gli elogi di L.A. Muratori, con il quale avviò un carteggio, quasi totalmente perduto, destinato a durare fino alla morte del modenese. Ma altri e più pericolosi attacchi si andavano preparando nel clima di scontro determinatosi a Napoli a causa del tentativo, peraltro fallito, di introdurre il tribunale dell'Inquisizione, messo in atto dall'arcivescovo cardinale G. Spinelli.  Pubblica la seconda parte della Metafisica, dedicandola a Benedetto XIV con l'evidente scopo di garantirsi un'autorevole tutela, e nel contempo portava a compimento la stesura del manuale di teologia cui attendeva dai primi anni Quaranta: gli Universae theologiae elementa. Quando, nel 1748, si rese vacante la cattedra di tale disciplina, il G. ritenne di avere giusto titolo per concorrervi con buone probabilità di successo. Ma la sua candidatura provocò violente opposizioni. In base alla denuncia di un altro concorrente, l'abate I. Molinari, la Curia romana volle esaminare il manoscritto, mentre la corte di Napoli ne affida la revisione a Barba. Nonostante i suoi timori, anche questa volta G. riusce a evitare la denuncia per eresia, soprattutto in virtù dell'appoggio dei gesuiti, ostili all'arcivescovo Spinelli, della sua personale amicizia con il padre provinciale della Compagnia e del fatto che, sul piano dottrinale, si definiva mezzo molinista in materia di grazia. Ma in questa occasione fu assai tiepido l'appoggio del Galiani, che gli impose la rinuncia non solo alla cattedra, ma anche all'insegnamento privato della teologia e alla pubblicazione degli Universae theologiae elementa, provocando la decisione del G. di abbandonare "studi sì turbolenti e spesso sanguinosi" (Vita).  Il G. continuò a insegnare etica fino al 1753, mentre proseguiva il completamento della Metafisica con un quarto volume, dedicato al giusnaturalismo. Reinterpretando Grozio e soprattutto Pufendorf, G. vede nel giusnaturalismo le basi per rinnovare un'etica razionalmente e scientificamente fondabile, in grado di definire il quadro di valori di una società mercantile, i cui problemi si venivano ormai collocando al centro dei suoi interessi. La persecuzione di cui era stato oggetto, oltre ad allargare la cerchia delle sue frequentazioni amichevoli a personaggi come Raimondo di Sangro principe di Sansevero e Felice, gli aveva offerto infatti l'occasione di entrare a far parte del cenacolo che in quegli anni si era venuto a creare intorno a INTIERI. Ormai avanzato nell'età, questo abile e fortunato imprenditore toscano, amico di C. Galiani e cofondatore dell'Accademia delle scienze, ritiratosi a poco a poco dalle sue multiformi attività, aveva raccolto intorno a sé vecchi e soprattutto nuovi esponenti dell'intellettualità napoletana, come RINUCCINI, ORLANDI, GALIANI, con i quali aveva avviato una fruttuosa consuetudine di discussione, tesa a stimolare non solo la circolazione delle idee in rapporto con la cultura internazionale, ma anche l'attività di collaboratori più giovani e la loro concreta azione nel contesto politico e sociale del Regno. Il cenacolo dell'Intieri fu infatti tra i primi a leggere e commentare l'Esprit des loisdi Montesquieu. Dalle opere e dai carteggi di quegli anni emerge con chiarezza l'auto-rappresentazione di questo gruppo di intellettuali come forza operante nel nuovo contesto politico: la ritrovata indipendenza del Regno, che appare loro come conditio sine qua non per l'avvio di un processo di cambiamento e di modernizzazione.  Vero e proprio manifesto del programma riformatore del gruppo, incentrato sull'ineludibile nesso teoria-prassi, che ne costituì la novità immediatamente percepita dai contemporanei, fu il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, maturato durante la villeggiatura nella villa intieriana di Massa Equana, e pubblicato all'inizio dell'anno seguente a Napoli insieme con il Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura di U. Montelatici e con la Relazione dell'erba orobanche di P.A. Micheli. Il G. operava così la sua scelta di campo, presentandosi come l'interprete più convinto di quel programma e il più attivamente impegnato nella sua realizzazione.  Requisito indispensabile per il progetto di riforma era la diffusione di una nuova cultura scientifica, economica, tecnologica, posta al centro degli interessi di una intellettualità nuova. A essa, come campo di indagine, ma anche di azione, doveva rivolgersi la "studiosa gioventù" del Regno, distolta dagli studi forensi e da speculazioni astratte, e avviata da un lato a una conoscenza cosmopolita di idee e linguaggi, dall'altro a sviluppare capacità di osservazione e di studio dei fenomeni naturali e sociali della realtà in cui viveva.  A questa istanza della cultura intieriana corrispose il progetto che meglio ne rappresentò la realizzazione istituzionale: la costituzione presso l'Università di Napoli di una cattedra di meccanica e commercio- cioè la prima di economia politica in Europa -, che Intieri volle finanziare con un lascito di 7500 ducati che garantisse una rendita di 300 ducati annui, a condizione che essa venisse affidata al G., che l'insegnamento fosse svolto in lingua italiana e che anche in futuro ne fossero esclusi rappresentanti del clero regolare. La nuova cattedra fu inaugurata il 5 nov. 1754, con grande affluenza di pubblico. Il G. presentò il nuovo corso con una prolusione che avrebbe poi sviluppato nel ragionamento sul commercio in universale, pubblicato in estratto e poi in apertura della Storia del commercio della Gran Brettagna scritta da John Cary (Napoli).  Questo grosso centone in tre volumi conteneva pure la traduzione dell'Essai sur le commerce d'Angleterre di V. de Gournay e G.-M. Butel-Dumont (Paris), i quali avevano a loro volta tradotto e aggiornato l'Essay on the state of England di J. Cary (Bristol 1695), e la traduzione-rifacimento genovesiana dell'England's treasure of commerce di T. Mun (London), corredate dalle ampie e ricche annotazioni dello stesso G. e da altri suoi saggi (Ragionamento filosofico sulle forze e gli effetti delle gran ricchezze e Ragionamento sulla fede pubblica) destinati a ricomparire negli Elementi del commercio e nelle posteriori Lezioni di commercio o sia di economia civile.  Contemporaneamente G. procedeva alla stesura del suo corso biennale di Elementi del commercio, che anche nel titolo riecheggiavano gli Eléments du commerce di F.-L. Véron de Fortbonnais.  Ambedue le opere avevano un palese carattere propedeutico, non solo per i destinatari, ma in certo modo per lo stesso autore, che nel suo sforzo di informazione e acquisizione di nuove competenze sembra lavorare in parallelo con i suoi allievi e lettori. Il discorso genovesiano assolveva a una duplice funzione: definire contenuti e linguaggi della nuova cultura economica; tracciare le linee di un programma di politica economica per il governo, nel quadro dell'assolutismo illuminato, che viene considerato come la garanzia istituzionale delle riforme. Esso si articola sulla polarizzazione tra il cosmopolitismo culturale, perseguito con la consueta ampiezza e tempestività di letture, e il patriottismo, consistente nell'attenzione alle specifiche condizioni del Regno, su cui misurare l'effettiva validità degli interventi. Sul primo versante i termini di confronto scelti da G. furono la Spagna e l'Inghilterra. L'una, studiata attraverso le opere di G. Uztáriz e B. de Ulloa, per le evidenti analogie con la situazione del Regno; l'altra, proposta come il modello più avanzato di economia mercantile, nel quale erano ormai operanti le strutture della moderna circolazione di merci, monete e idee. Su di essa G. si documentava con ostinata puntualità, trovando la referenza più significativa nei Political discourses di D. Hume. L'elemento di mediazione culturale, approdo dei riformatori napoletani alla koinè illuministica degli anni Sessanta, era costituito dalle opere e dai dibattiti francesi, da J.-F. Melon a Fortbonnais, a Plumard de Dangeul. Sull'altro versante, il G. articolava una serie di proposte operative per una conoscenza sperimentalmente e statisticamente fondata delle reali condizioni del Regno (andamento demografico, natura e produttività dei terreni, configurazione della proprietà attraverso il catasto, strade e comunicazioni ecc.), cui dovevano collaborare gentiluomini e parroci, intellettuali e proprietari, creando una rete di società agrarie e scientifiche diffuse sul territorio e radicate nella società provinciale. La politica economica di un paese povero di materie prime e del tutto marginale nel commercio internazionale doveva puntare allo sviluppo qualitativo e quantitativo della produzione agricola, destinata al mercato reso libero dai vincoli interni.  L'adesione piena del G. alla liberalizzazione del commercio interno dei grani si manifestò, in concomitanza con la grave carestia che colpì il Regno nel 1764, attraverso la pubblicazione dell'Agricoltore sperimentato di TRINCI (Napoli) e delle Riflessioni sull'economia generale de' grani (Napoli; traduzione della Police des grains di C. Herbert, Berlin 1755), da lui prefati e commentati. La fiducia nella possibilità di realizzare le riforme si scontrava, tuttavia, con la crescente consapevolezza della natura strutturale degli ostacoli che vi si opponevano. La concentrazione delle terre nelle mani di una nobiltà feudale ancora detentrice di poteri giurisdizionali e di un clero numericamente eccessivo, attaccato ai propri privilegi, impediva la formazione di una proprietà contadina, che ormai appariva a G. la condizione necessaria perché si sviluppasse non solo l'iniziativa economica, ma pure l'auspicata mobilità sociale. Sono quindi i problemi della società civile quelli cui il G. guarda con maggiore attenzione nell'ultimo quinquennio della sua vita, che rappresenta un'ulteriore scansione della sua attività.   Tra il 1764 e il 1769 il suo impegno politico e culturale si caratterizzava per una sempre più accentuata polivalenza di funzioni, legata alla sua ormai consolidata posizione di maître à penser. All'insegnamento universitario e privato si aggiunsero infatti le consulenze per Tanucci e per la giunta degli Abusi, sui problemi più scottanti del momento: dalla liberalizzazione del commercio dei grani ai trattati di commercio, dalla monetazione alla redazione dei nuovi piani di studio per le scuole ex gesuitiche (nel quadro di una vigorosa ripresa della battaglia giurisdizionalistica per l'abolizione della cattedra delle decretali); per l'istituzione di nuove cariche in difesa delle prerogative regie, per la lotta alla manomorta. Si intensificò soprattutto l'attività editoriale, relativa alla pubblicazione di opere proprie e altrui, che investì tutti gli aspetti della sua attività di studioso e di insegnante. Ne fece parte un corso completo di "istituzioni filosofiche per i giovanetti", in italiano, articolato nella Logica (Napoli), nella Diceosina, osia della filosofia del giusto e dell'onesto (Napoli), nelle Scienze metafisiche(ibid. 1767). Contemporaneamente, il G. stendeva i Dialoghi morali e le note all'Esprit des lois (pubblicate postume nel 1777).  In questo contesto si collocano le tre edizioni delle Lezioni di commercio o sia di economia civile, cui il G. lavorò direttamente: le due napoletane, rispettivamente 1765-67 e 1768-70 e quella intermedia del 1768, promossa a Milano dall'allievo T. Odazi. Alle Lezionifanno da contrappunto, su un tema specifico carissimo al G., le due edizioni delle Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o gl'ignoranti, in cui la ripresa della polemica con Rousseau si amplia a un riesame critico dello sviluppo delle società umana. I testi che nascono da questa attività multidisciplinare rappresentano l'espressione più compiuta di un modusoperandi già sperimentato, fondato su una memoria interna, attraverso la quale il G. riutilizza e riorganizza continuamente i materiali della sua riflessione, in uno sforzo onnicomprensivo che tende a coagulare in una sintesi complessa, pur se talvolta ridondante, tutte le tensioni intellettuali e politiche degli ultimi anni di vita. Le ampie varianti recepiscono anche le spinte di circostanze esterne: per queste caratteristiche, le Lezioni si presentano come l'autentica summa del pensiero genovesiano, un vero e proprio work in progress di letteratura militante.  Il G. colloca le problematiche dell'economia in un più ampio quadro di considerazioni sulla società, sulle sue dinamiche, esaminate negli aspetti antropologici e psicologici, secondo una linea storicizzante alla quale contribuisce con una sua versione della teoria stadiale, per approdare a un più ampio affresco della situazione del Regno. Il confronto tra gli Elementi e le tre edizioni delle Lezioni mette in luce l'evoluzione del suo pensiero sui temi più caratterizzanti, dalla popolazione al lusso alla tassazione, e l'intensificarsi della polemica antifeudale e anticuriale. Diventa centrale il problema della comunicazione, elemento caratterizzante della società e del vivere civile e di conseguenza della lingua, alla quale dedica anche una riflessione teorica nella Logica, e dei mezzi, delle sedi, delle modalità attraverso le quali essa può realizzarsi e costituire l'asse portante della formazione dell'opinione pubblica.   La morte lo colse a Napoli il 12 sett. 1769.  Negli anni seguenti la sua opera fu oggetto di aspri attacchi e di appassionate difese, culminate nell'elogio storico dedicatogli dall'allievo G.M. Galanti (Napoli 1772). Larga ma diversificata fu l'eco della sua opera nelle altre aree d'Italia e di Europa. Nonostante la fortuna dell'edizione milanese delle Lezioni, sulla quale furono esemplate tutte le successive ristampe, in realtà l'opera genovesiana non venne apprezzata nella Lombardia asburgica, proiettata verso la fisiocrazia, perché considerata troppo farraginosa e legata ai problemi di una società sottosviluppata. In Francia l'annunciato progetto di PINGERON di tradurre le Lezioni non ebbe seguito. In Germania, invece, vennero tradotti sia la Storia del commercio(Leipzig 1788), sia le Lezioni (ibid. 1776), a cura rispettivamente di A. Witzmann e di C.A. Wichmann. Molto più ampia fu invece la diffusione dell'opera genovesiana, sia filosofica sia economica, nella penisola iberica. In Spagna, infatti, apparve una traduzione in castigliano delle Lezioni (1785-86), a cura di V. de Villava, mentre nei paesi di lingua portoghese i suoi corsi di filosofia costituirono la base dell'insegnamento universitario per tutto l'ottocento.  Edizioni: Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1962, pp. 3-330; Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Milano 1962; Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell'onesto, a cura di F. Arata, Milano 1973; Scritti, a cura di F. Venturi, Torino 1977; Delle lezioni di commercio o sia di economia civile, Varese 1977 (rist. anast. dell'ed. Milano 1768); Scritti economici, a cura di M.L. Perna, Napoli 1984; Se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati. Lettere accademiche, a cura di G. Gaspari, Carnago 1993; Lezioni di commercio o sia di economia civile con gli "Elementi del commercio", a cura di M.L. Perna, Napoli 1998; Dialoghi e altri scritti. Intorno alle "Lezioni di commercio", a cura di E. Pii, Napoli. Fonti e Bibl.: Le carte genovesiane conservate si trovano a: Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIII.B.39; ms. XIII.B.92; ms. XIV.B.53; Arch. di Stato di Napoli, Casa reale antica. Diversi, f. 868; ibid., LII, Affari gesuitici, ff. Altamura, Archivio Biblioteca Museo civico, Fondo Serena, Carte Genovesi; Arch. di Stato di Milano, Piani di economia pubblica, Autografi, 164; Arch. segr. Vaticano, Nunziatura di Napoli, Arch. di Stato di Torino, Materie economiche. Zecche e monete, n. 9. Inoltre, copie manoscritte della Theologia sono conservate a Bari, Biblioteca nazionale, ms. III.16; Ibid., Biblioteca provinciale De Gemmis, Fondo De Gemmis; Fano, Biblioteca civica Federiciana, Fondo Collegio Nolfi, ms. 9; Macerata, Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms.; Napoli, Biblioteca oratoriana dei gerolamini, ms. Varie lettere sono conservate a: Firenze, Arch. stor. dell'Accademia dei Georgofili, Carteggio, b. 23; Ibid., Biblioteca nazionale, Autografi Gonnelli; Forlì, Biblioteca comunale, Autografi Piancastelli; Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss. Beccaria, B.231; Modena, Biblioteca Estense, MC.103.1; Ibid., ArchivioMuratoriano, filza 65; Ibid., Autografoteca Campori; Torino, Biblioteca civica, Collezione Nomis di Cossilla; Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Mss. Lettere XLI.26.   G. Racioppi, A. G., Napoli; G.M. Monti, Due grandi riformatori del Settecento, A. G. e G.M. Galanti, Firenze 1926; Studi in onore di A. G., Napoli 1956; L. Villari, Il pensiero economico di A. G., Firenze 1959; A. Potolicchio, Postille autografe inedite alla "Logica" di A. G., in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di scienze, lettere ed arti in Napoli, LXXIII (1962), pp. 1-67; F. Corpaci, A. G. note sul pensiero politico, Milano 1966; O. Nuccio, Un grande riformatore napoletano. A. G.: scienza economica e problemi di rinnovamento sociale a Napoli nella seconda metà del XVIII secolo, Roma; M. Agrimi, A. G. e l'Illuminismo riformatore del Mezzogiorno, in Belfagor, Badaloni, Antonio Conti, Milano 1968, ad indicem; M. De Luca, Gli economisti napoletani del Settecento e la politica di sviluppo, Napoli, passim; M.T. Marcialis, Note sulla "Disputatio physico-historica" di A. G., in Annali delle facoltà di lettere, filosofia e magistero dell'Università di Cagliari, XXXII (1969), pp. 301-333; F. Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1; M. De Luca, Scienza economica e politica sociale nel pensiero di A. G., Napoli,  Garin, A. G. storico della scienza, in Id., Dal Rinascimento all'Illuminismo, Pisa 1970, pp. 301-333; R. Villari, A. G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, in Studi storici; E. De Mas, Montesquieu, G. e le edizioni italiane dello "Spirito delle leggi", Firenze 1971; P. Addante, A. G. e la polemica antibayliana nella filosofia del Settecento. Contributo di ricerche storico-filosofiche, Bari 1972; P. Zambelli, La formazione filosofica di A. G., Napoli; Economisti italiani del XVIII secolo, Roma Arata, A. G.:una proposta di morale illuminista, Padova 1978 (rec. di G. Imbriglia, in Boll. del Centro di studi vichiani, X [1980], pp. 225-232); P. Zambelli, A. G. and eighteenth-century empiricism in Italy, in Journal of the history of philosophy, Piscitelli, Il pensiero degli economisti italiani nel Settecento sull'agricoltura, la proprietà terriera e la condizione dei contadini, in Clio, XV (1979), pp. 245-292; D. Demarco, Il dibattito settecentesco sulla popolazione in Italia, in La popolazione italiana nel Settecento. Relazioni presentate al Convegno su: La ripresa demografica del Settecento, … 1979, Bologna 1980, pp. 539-590; A. Pennisi, Filosofia del linguaggio e filosofia civile nel pensiero di A. G., in Le forme e la storia, I (1980), pp. 321-380; V. Ferrone, Scienza, natura, religione, Napoli, Taranto, Il progetto di G. e l'economia civile di V.E. Sergio: un modello di sviluppo borghese, in Nuovi Quaderni del Meridione, XXI (1983), pp. 29-50; M.T. Marcialis, G. tra Wolff e Locke. Metafisica ed empirismo nella "Ontosophia" genovesiana, Cagliari, Pii, A. G.: dalla politica economica alla politica "civile", Firenze, Battista, La storiografia su G. oggi, in Quaderni di storia dell'economia politica, III (1985), pp. 277-296; M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, Firenze 1986, pp. Garin, A. G. metafisico e storico, in Giorn. critico della filosofia italiana, Bellamy, Da "metafisico" a "mercatante". A. G. and the development of a new language of commerce in eighteenth-century Naples, in The languages of political theory in early-modern Europe, a cura di A. Pagden, Cambridge, Battista, Sul popolazionismo degli economisti meridionali prima di Malthus, in Le teorie della popolazione prima di Malthus, a cura di G. Gioli, Milano 1987, pp. 237-260; M. Fatica, Il lavoro come mediazione tra l'uomo "civile" e la natura: alcuni problemi di "police" in G. e nei suoi referenti culturali, in Prospettive Settanta; M.T. Marcialis, Natura e sensibilità nell'opera manualistica di A. G., Cagliari 1987; A. Pennisi, Grammatici, metafisici, mercatanti. Riflessioni linguistiche sul Settecento meridionale, in Teorie e pratiche linguistiche, a cura di L. Formigari, Bologna 1987, pp. 83-107; Id., La linguistica dei mercatanti, Napoli 1987, pp. 137-198; V. Ferrone, I profeti dell'Illuminismo, Bari, Galasso, La filosofia in soccorso de' governi, Napoli, Pagden, La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli nel secolo XVIII, in Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, a cura di D. Gambetta, Torino 1989, pp. 166-169, 173 s., 177-181; M.T. Marcialis, Legge di natura e calcolo della ragione nell'ultimo G., in Materiali per una storia della cultura giuridica, Robertson, The Enlightenment above national context: political economy in eighteenth-century Scotland and Naples, in The Historical Journal, Perna, L'universo comunicativo di A. G., in Atti del Convegno Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, Napoli. Antonio Genovesi. Genovesi. Keywords: logica per gli giovanetti, critica della ragione economica, scambio conversazionale --. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Genovesi: critica della ragione economica” --  per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Gentile – Enea all’inferno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taggia). Filosofo italiano. Grice: “It seems every philosopher has a catabasis – as Eneas did!” “Falamonica spends a ‘stagione’ in hell, too!” -- “I do like Falamonica – the way he makes ‘Aristoteil’ rhyme! “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” – Grice: Falamonica is interesting: there is Socrates teaching Alcibiades, and Socrates teaching Plato, and Plato teaching Aristotle, and Aristotle teaching Alexander!” Figlio di Pancrazio Falamonica Gentile e Violantina Piccamiglio. Venne in contatto coll’astrologia. Compose i Canti, poema dottrinale in terzine di 42 canti, chiaramente derivato dalla Commedia di Dante. Grice: “It is a fun philosophical comedy: “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” Opere: “Canti. Dizionario Biografico degli Italiani. FALLAMONICA GENTILE, Bartolomeo. - Di antica famiglia genovese, che negli anni 1460-1480 entrò nell'"albergo" dei Gentile (e da qui è l'origine del doppio cognome con il quale è conosciuto: cfr. Grendi), nacque a Genova, nella contrada di S. Pancrazio, intorno al 1450, da Pancrazio e da Violantina Piccamiglio.  Nulla si sa intorno alla sua formazione ed ai suoi studi. Il primo documento nel quale è nominato è il testamento del padre, del 1469. In una data incerta della fine del sec. XV si trasferì in Spagna, dove svolse attività mercantile. Durante il soggiorno spagnolo fu tra i protagonisti della rinascita del lullismo, partecipando alle attività della scuola di Jaume Janer a Valencia. Fu promotore di iniziative editoriali, fra le quali la pubblicazione del Liber artis metaphisicalisdello stesso Janer, una sorta di summaenciclopedica del lullismo, stampata a Valencia nel 1506; dalla dedicatoria apprendiamo che il F. studiò le dottrine di R. Lullo con Janer. Da un'altra dedicatoria, quella di Alfonso Proaza, un altro importante membro della scuola lulliana di Valencia, alla Disputatio Remondi christiani et Homerii sarraceni del 1510, apprendiamo che il F. si era dedicato anche a studi di astronomia e di medicina, e che sollecitò Proaza a pubblicare testi di Lullo. Il F. fu inoltre in possesso di manoscritti di Lullo, del quale subì l'influenza anche nei testi letterari di cui fu autore.  Diciotto sonetti di argomento religioso, appartenenti alla tipica tradizione poetica catalana fra XV e XVI secolo e nei quali è anche rilevabile l'influenza delle opere poetiche di Lullo, furono pubblicati per la prima volta nell'edizione di Valencia del 1514 del Cancionero general. Nell'edizione del 1520 del Cancionero (quella da noi consultata) sono suddivisi in cinque sonetti "sobre ecce homo", un sonetto "in dialogo de Dio", un sonetto "de trinitate", un sonetto "a la verge Maria par les guerres dela sglesia", cinque sonetti "en llor del glorios nom de Iesus" e cinque sonetti "en llahor del nom dela gloriosa verge Maria".  Non si sa di preciso quando il F. rientrò a Genova, dove morì presumibilmente in una data compresa fra il primo e il secondo decennio del sec. XVI.  In vecchiaia ("Lasciando a dietro il sessagesim anno") si dedicò alla stesura di un poema, che ci è stato tramandato ed è stato pubblicato con il generico titolo di Canti. In quarantadue canti in terzine, di cui il primo ha la funzione di proemio, il F. costruisce un poema dottrinale secondo il modello dantesco del viaggio nei regni oltremondani. Ma la particolarità del testo del F., cui non manca una certa abilità nella costruzione del discorso in poesia, è data dall'aver scelto come guida del viaggio proprio Raimondo Lullo, il filosofo cui aveva dedicato molti dei suoi studi durante il soggiorno spagnolo. Nei quarantadue canti troviamo trattati i temi più caratteristici della filosofia lulliana. I primi canti sono dedicati alla divisione e descrizione dell'universo ("de' cieli, de' elementi, de' minerali, de' vegetali, degli animali, dell'uomo, de' morali"), cui seguono canti sulla divinità e sul messaggio cristiano ("pronostico della cristiana religione, della divina essenza, della generazione e spirazione eterna, della creazione del mondo, della natura angelica, della incarnazione, della concezione, della passione, de' sacramenti, della predestinazione"), sull'uomo e i suoi peccati ("del divino e mondano amore, dell'usura, del giuoco, dello scandalo e della fama"), e, in ultimo, i canti del vero e proprio viaggio nei regni dell'oltretomba ("dell'inferno, del purgatorio, del final giudizio, del paradiso"). La storia del testo dei Canti è stata piuttosto tormentata: ricordati negli Annali della Repubblica di Genova di Agostino Giustiniani, già Uberto Foglietta nei Clarorum Ligurum Elogia lamentava l'inaccessibilità del testo, che si credette perduto durante i secoli XVII e XVIII. Nel 1821 venne data la notizia del ritrovamento del poema, che venne descritto nella Storia letteraria della Liguria da Giambattista Spotorno. Dopo alcuni saggi di pubblicazione, i Canti vennero finalmente editi, in una veste non particolarmente curata, a cura di Giuseppe Gazzino (Genova 1877). In questa edizione i Canti sono accompagnati da un canto in terzine Alla Vergine e da tre sonetti In nome di Lei, che fanno parte di quelli già pubblicati nel Cancionero.  Fonti e Bibl.: R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova 1687 (reprint, Bologna 1971), p. 49; (segnalazione in G. Spotomo, Storia letteraria della Liguria, II, Genova 1824, pp. 189-204; Giorn. stor. della letteratura ital., XIV [1889], p. 333); S. Caramella, B. G. F. (contributo alla storia del lullismo nei primordi del Cinquecento), in Dante e la Liguria. Studi e ricerche, Milano 1925, pp. 127-176; E. Levi, Un poeta italo-catalano del Quattrocento, in Estudis Universitaris catalans, XXII (1936), pp. 681-685; M. Battlori, El lulismo, en Italia, in Revista de filosofia, II (1943), pp. 504 ss.; D.W. McPheeters, The Italian poet and lullist B. G. in XVIth century Valencia, in Symposium, VII (1953), pp. 375-379; P. Zambelli, Il De audito cabalistico e la tradizione lulliana nel Rinascimento, Firenze 1965, p. 127; L. Grillo, Seconda appendice ai tre volumi della raccolta degli Elogi di liguri illustri, Genova 1976, pp. 183 s.; M. Pereira, Bernardo Lavinheta e la diffusione del lullismo a Parigi nei primi anni del '500, in Interpres, V (1983-1984), p. 256; E. Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi, in Mélanges de l'Ecole Française de Rome, M.-A., - Temps modernes,CRIT ICA. SOPRA UN POEMA di Bartolommeo Falamonica. N o n sono che pochi anni dacchè si scopri un poema di B a r tolomeoGentile Falamonica,uomo ligure,daluiscritto tra il 1470 e il 1490. Il Giustiniani e qualche altro G e novese aveano parlato di quell'uomo con assai lode ; m a deploravano la perdita di quella Opera sua , che andava smarrita. Il sig. Spatorno nella recente sua Storia lette raria della Liguria dà un'analisi di quel Poema,che merita per,ognirispetto d'essere conosciuto.Il manoscritto oggi trovasi presso il marchese Giancarlo di Negro , p a trizio genovesc, amatore e cultore di ogni ottimo studio. Il poema del Falamonica non ha titolo; la materia diceilcitatoGiustiniani ėtuttafilosoficaeteologica, con interpretazione di leggi pontificie e cesaree. Lo stesso attesta ilsig.Spatorno. L'A.incomincia dal favellare de'Cieli; e iprimi suoi versi sono questi: Nel tempo che s'inclina ilfiore e l'erba, 38 TARIETA': WY > Perdar lecarespoglieal'aspraterra, Partendo dalla età dolce e superba , Lasciando addietro il sessagesim ' anno ... Vedea che l'error m 'avea condotto 39 Aristotil ... Intanto gli apparve dalle parti occidentali una gran Stella in formadiromito,dinome Raimondo (Lullo) spiegò il suo desiderio di conoscere la verità , e di lasciare alcun vestigio di sè dopo morte ; e Raimondo disse:stasecuro. e lo condusse al Sole,acciò lo guidasse ne'Cieli. Per man mi prese  Tornava senza onor dallamia guerra Con tutte mie speranze sparse al vento , De'miei passati giorni indarno spesi, Ch'ogni piacere in me restava spento... 2 motor che mi costrinse il senso E mi condusse in una oscura valle. Iviilpoetaudìprimaun suonodiguerra;poiunaltro come di favelle che parlavano del Cielo e della Terra. e > Nel Il Canto vede Saturno, poi Marte, poiGiove; e il Sole gli dice : Già presso al fin che tutto il mondo atterra. Allor mi ritrovai tutto scontento A volgerealmioverobenlespalle... Ed eccouscir del Ciel, nonsosiofalle Un gran E vidi ch'eran Spirti in quel deserto Qual dicea in prosa, e qual cantava in versi. E conobbe tutti esser poeti , e in tanto numero E vedi alfin colui che fra'mortali Più degno par di tutto quel Collegio , Levarsi contra tutti e batter l'ali , Questa è la introduzione , e costituisce il primo Canto del Poema. Nel II Canto si trova in luogo , dal quale si vede sotto i piedi la Luna e i Pianeti; e sentiva il movimento delle sfere.VideilcerchiodelleStellefisse edaciòprende occasione di parlare degli Astronomi , il più moderno dei quali è il Regiomontano , morto nel 1476, ed afferma non essere possibile l'eternitàdel mondo. Ma qui conviene omai fermar le piante Ch'ionon potreidituttiinomidirti. Ne dice però una lunga lista di greci e latini: nd ram menta alcun italiano. "Ei li lasciò tutti per gire a' filosofi, tra i quali dà il primo luogo ad Aristotele, di cui dice   Perquellestradeluminose e.terse Ch'ionon potealasciarlaviaserena. Il Sole dà al poeta un de'suoi rai, onde possa vedere gli oggetti terreni. E inquesto Canto, e nel VI parla dell'aria,!della dell? E la lussuria il buon smeraldo affrena; Vedi l'assenzio,ch'apre e scalda e sciolve: Che già della bell'arte han fatto vizio... Vacuando idenari,e non gli umori. Nel Canto IX ragiona della vitasensitiva degli animali e delleproprietà delle varie specie. E le cicogne d'empietà nemiche... ecc. d'onde prende occasione di parlare della empietà degli u o mini, Che gli uomini son fatti fere ed orsi: Qual strazia , qual uccide, qual graffigna. Cosi servate son le sacre norme. Le cose accennate formano la prima cantica del poema ; ed incomincia la seconda parlando dell'uomo. Alzato già del Ciel a tanto lume , acqua e del fuoco. Nel VII parla de minerali,e delle supposte aque? tempi meravigliose virtù delle pietre preziose ,dicendo terra , Stringel'acanto> e falevenesalde; Tempo era omai d'entrar nel mio volume : Dove trovai del mondo tanta parte· Finchè io ti mostri la mia casa propria. Nel Canto IV visita Venere, Mercurio, e la Luna ; e fa molte dimande di fisica, elerisolvecolla dottrinape= ripatetica che allora correva. Nel canto V parla degli elementi ; e vi s'introduce così: Era mia vista di luce si piena, Son gli ametisti incontro all'ebriopoto , Contra ilvenenoilgran giacinto è noto. Nel Canto VIII parla della vegetazione, e delle proprietà vereo immaginarie dellepiante. Torna l'altea la gran durezza in polve. cec. E contro i Medici. Falcon leale,eladralaperdice... Adulterate son le cose sante ... La genteritornatasimaligna, Come si mostra in le passate carte , Ch'io vidi in lui siccome linea al punto Quanto Dio crca , e quanto poi comparte ,   Ogni mondana ed immortal bellezza ... Nel Canto Il parla della immortalità e libertà dell'ani ma ,e delle idee e degli affetti. Ogni pensier, e quanto qui s'adopra opra In questa nostra carne per sua forina (l'anina) Il lume della vita è la scienza .. Questa partefilosoficaè chiusa con un pronostico della Religione cristiana. Il Genio del Sole lascia finalmente il poeta ;e come questi nell'accomiatarsi sentendo una voce terribile, abbraccia spaventato il suo duce , esso sdegnato Come uomo irato qui fra noi s' incende , si volge al'Eterno, e lo prega di far sentire l'indigna zionesuaalla Terra piena di tirannide, disimoniayd'inu gratitudine e di avarizia. Han fatto un altro Dio tutto mondano ; Creato per usanza un'altra legge; E posto in terraallorquando s'aggiorna  O somma vita, dove son raccolte Ligate qui col tempo , e là disciolte ; Eterno libro , in cui si nota e scrive E posto già il tuo nome tutto in vano. E commette al poeta di palesare queste cose a tutto il mondo escriverlealettered'oro;minacciandochese gliuomini non ritornano buoni, saranno preda dei Maomet tani,che alloraaveano presa Otranto.Questa secondaCan ticatermina coi seguenti versi. Che nulla per di fuora par si scopra. Nel I I I Canto espone il difetto delle virtù , e spezialmente della carità , onde l'anima va dannata. Chiudendo incrudel pianto sua giornata. 1. Canti I V , V e V I trattano di cose morali . Nobil naturà , in cui si trova giunto Le vitenostrepriache insesienvive, Per l'alme che lassù si fanno dive ; Fammi sentir sìcome dentro s' Mortal non è colui che mai non erra . Ch e per ricchezza l'uom non è giocondo : Un fonte di sospetti è signoria... Seguilipochi,e non lavolgargente... Da poimi vidituttii sensi presi: Con un gridar che uscia da que'paesi Oh ! mondo pravo , torna , tornia, torna.   Ed ecco allor m'apparve quel divino Miomastroantiquo (Lullo). I Canti I e II trattano della essenza divina secondo la dottrina e le sottigliezze degli Scolastici. Nel Canto III il poeta si sforza di mettere in versi la generazione del Verbo, e la spirazione eterna,giusta gli astrusi concetti delle scuole. NelIVragionadellacreazionedelMondo;nelV della natura angelica con tutte ledivisioni gerarchiche. Nel VI e VII tratta della incarnazione del Verbo. Poi dellaconcezione, seguendolanotasentenzadiScoto Più degno , più eccellente, più gentile , Di non veder la sua vision divina fermazione,dellaEucaristia, dela Penitenza,edelleIna dulgenze. Nel Codice autografo , dice il sig. Spatorno , è Jasciato in bianco ciò che apparteneva agli altritre Sacra menti.Favellaposciailpoeta dellapredestinazioneedel l'amore divino emondano. Quest'ultimo lo ispira contro Usura in pravi volentier s'annida ... E cresce questa piaga al mondo ognora. Quanto son pianegià le vie di morte ! Ne’susseguenticanti inveiscecontro ilgiuoco; indi ra. giona delloscandalo e della fama. La terza parte del Poema ha per soggetto ilMondo ir. visibile, e comincia dall'Inferno.  E più decente ancora all'Infinito. Della più mite dottrina poi si mostra seguace rispetto ai fanciulli morti senza battesimo. Che poco curan giàdiveder Dio Di quanto in sè contien filosofia. In due Canti espone la passione del Redentore ; nè pia. ceranno a tutti le disperazioni della Vergine a piè della croce.In duealtriCanti ragiona delBattesimo, dellaCon I La Cantica terza abbraccia la parte teologica ; e comin cia così. Eragià fattosicom'uom selvaggio. Non hanno danno alcun , se non quel bando Giocando insieme tutti e giubilando , Non hannopiù sospiro alcun,nè stento, E sono al lor parer si gloriosi Siccome fanno al mondo i più viziosi. E lisuppone occupati M Busura.   Secondo differenzia di peccati. A guardiade'superbistannoileoni,de'lasciviiporci; de'golosi gli orsi: Viensi poial Giudizio universale Così montaro inCiel disquadrein squadre. Ilpoema si chiude col Paradiso partito in seicapitoli. Nel I si parla della felicità de'Giusti. Nel IIsono ricor datituttiipiùcelebripersonaggi dell'anticaalleanza;fra quali ètaciuto diSaloinone,che secondo l'opinionedel b.Alessandro Sauli si teneva per dannato. NelIII si trattadegli Apostoli, dei Discepoli e degl'Innocenti, Nel IV parlandosi de' Martiri cosi dice di S . Lorenzo . Felice tu , mia Genoa , che l'onori , Eccelsocavalier di Cristo atleta. Giorgio chiamato, e vera insegna e duce Di nostra gran Liguria. Flegias,Cocito,furie d'Acheronte, Aletto con Megera e Tesifone. Lascio la Stige , e Lete , e Flegetonte, Ed ogni simulacro de Poeti Seguendo solo l'ortodossa fonte. Ne fu già l'occhio mio cotanto ardito Il Purgatorio delFalamonica ha forma di anfiteatro; le grotte che rinchiudono le anime , sono dispostesotto gli scaglioni, e sopra questistanno demonii in sembianza di animali. La valle tenebrosa ed ipfelice D'ogni ben priva,e d'ogni male carca E le corone d'uno e d'altro impero Correr fra l'onde , e naufragar con elle ... E come il balenar seconda il tuono. M a l'invito del Giudice eterno agli Eletti, dice il signor Spatorno,sa troppodiquellelicenzedantesche pena si perdonano all'Autoredella incomparabil Commedia. E Roma,ovefursparsiisuoidolori. E di S. Giorgio. > cheap Cerbero lascio , Minos e Plutone , Da riveder qual fosse quello e questo. Cið gli frutterà guerra presso gli adoratori d'ogni cosa di Dante. Venite a me del nome mio maacipio, Diletti e benedetti dal mio padre. Che come miei fratelliio vi recipio. Felice ancor la Spagna , dov'ei nacque ,   Nel V Canto si parla ancora de martiri. Nel VI de' dottori,monaci,ronitieconfessori,ediquesti l'ul timo è s. Bernardino di Siena. Di Bernardino parlo ,che a l'uscita Di questa schiera il più moderno parve , Fra tanta moltitudine infinita. E chiama s.Anna Ava del Figlio , e Socera del Padre Miserere di un cuor che in tes'adombra ! e dichiarando di sottomettere l'Opera sua al giudizio di Santa Chiesa. G. B.  Nostro celeste in Ciel... Chiude poi ilcapitolo e tutto il poema, volgendosi a Dio , e pregandolo Ch'io la rimetto a lisuoi santi piedi. Tale è l'analisi che ci ha data del poema del Fala monica ilsig.Spatorno.Non potevaquestaesserepiùam pia dovendo costituire parte di un articolo della sua Opera. Ma egli ha lasciato maggior desideriodel medesimo, poi chè pare anoi, che altri passi, e forse più felici, dovreb b'essocontenere,se,comedicegli,questo poemadopola CommediadiDante,eprima dell'Orlandofuriosodee tenersi per la migliore composizione poetica che in quel l'intervallo l'Italia abbia avuta. Noi speriamo che il signor di Negro lo comunicherà al Pubblico colle stampe. E vidi alfin colui che fra’ mortali più degno par di tutto quell collegio levarsi contra tutti e batter l’ali. Dico Aristotil posto in sì gran pregio di lor filosofanti un lume acceso E pur dal ciel si trova dato in spregio si ch’io restai fra me tutto sospeso con l’alma or.  Falamonica. Bartolomeo Fallamonica Gentile. Gentile. Keywords: Enea all’inferno, parodies of the Divine Comedy, Raimondo Lullo, Bruno e Lullo, il libro dell’amante e dell’amato, ars amative. Commedia filosofica.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gentile – implicatura dell’atto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castelvetrano). Filosofo italiano. Grice: “Do not multiply the senses of ‘state’ (normative, prerogative) beyond necessity.” Grice: “It’s difficult to assess the philosophy of Gentile; he is a Peirceian, like me –. He ie into ‘conventional sign’ and ‘natural sign’ – and considers intersubjectivity as a way to suprass the type of Berkeleyan idealism – his tradition is Plathegel, mine is Ariskant!” Grice: “The roots of Gentile’s philosophy are in Hegel’s logic, as are Bradley’s, Bosanquet, and Collingwood’s! – and Croce’s!” -- idealist philosopher. He taught philosophy at Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics as the process of an objectified thought. Gentile’s actualism or actual idealism claims that only the pure act of thinking or the transcendental subject can undergo a dialectical process. All reality, such as nature, God, good, and evil, is immanent in the dialectics of the transcendental subject, which is distinct from the empirical subject. Among his major works are “La teoria generale dello spirito come atto puro” and “Sistema di logica come teoria del conoscere.” Gentile sees conversation is a concerted act that overcomes the apparent difficulties of inter-subjectivity and realizes a unity within two transcendental subjects. Actualism was pretty influential. With Croce’s historicism, it influenced two Oxonian idealists discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet and R. G. Collingwood (vide: H. P. Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The Nature of Metaphysics, London, Macmillan). Insieme a Croce uno dei maggiori esponenti del idealismo, nonché un importante protagonista della cultura, fonda L’Istituto dell'Enciclopedia Italiana e artifice della riforma della pubblica istruzione (Riforma Gentile). La sua filosofia è detta attualismo.  Inoltre fu figura di spicco del fascismo italiano. In seguito alla sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, fu assassinato durante la seconda guerra mondiale da alcuni partigiani comunisti dei GAP. «Era un omone che ispirava grande simpatia; con la pancia incontenibile, i bei capelli brizzolati sopra un faccione rosso acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché un filosofo: così mi apparve, benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi di religione, freschi di lettura. Bonario, familiare (paternalista), mi fece l'impressione di un vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità sull'indiscusso ruolo di patriarca” (Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie. Figlio di Giovanni e Teresa Curti. Frequenta il ginnasio/liceo "Ximenes" a Trapani. Vince quindi il concorso per posti di interno di Pisa, dove si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia. A Pisa ha come maestri, tra gli altri, Ancona, professore di letteratura, legato al metodo storico e al positivismo e di idee liberali, Crivellucci, professore di storia, e Jaja, hegeliano seguace di Spaventa, che influirono molto su Gentile. Dopo la laurea, con massimo dei voti e ottenimento del diritto di pubblicazione della tesi, ed un corso di perfezionamento a Firenze, ottiene una cattedra in filosofia presso il convitto nazionale Pagano di Campobasso. Si sposta a Napoli.  Sposa Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso: dal loro matrimonio nasceranno Federico Gentile, i gemelli Gaetano Gentile e Giovanni Gentile junior, Giuseppe Gentile, e Tonino Gentile Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Ottiene poi la cattedra a Palermo, dove frequenta il circolo di Pojero e fonda “Nuovi Doveri.” A Pisa e Roma. Insegna a Palermo, Pisa, Roma e Milano. Durante gli studi a Pisa incontra Croce con cui intratterrà un carteggio continuo. Uniti dall'idealismo (su cui avevano comunque idee diverse), contrastarono assieme il positivismo e le degenerazioni dell'università italiana. Insieme fondano “La Critica”  al rinnovamento della cultura italiana. L'attualismo ha configurazione sistematica. Divenne membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione. All'inizio della prima guerra mondiale, tra i dubbi della non belligeranza, si schiera a favore della guerra come conclusione del Risorgimento. Rivela a sé stesso la passione politica che gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più soltanto quella del filosofo che parla “ex cathedra”,  ma quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al pubblico. Partecipa attivamente al dibattito politico e culturale. E tra i firmatari del manifesto del “Gruppo Nazionale Liberale”, che, insieme ad altri gruppi nazionalisti e di ex combattenti forma l' “Alleanza” per le elezioni politiche, il cui programma politico prevede la rivendicazione di uno stato forte, anche se provvisto di larghe autonomie regionali e comunali, capace di combattere la metastasi burocratica, il protezionismo, le aperture democratiche alla Nitti, rivelatosi «inetto a tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di cogliere e tanto meno interpretare i sentimenti più schietti e nobili».  Fonda il “Giornale critico della filosofia italiana”.  Diviene consigliere comunale al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene nominato anche assessore supplente alla X Ripartizione, A. B. A., ovvero alle “Antichità” e alle “Belle Arti”, sempre del Municipio di Roma. Diviene socio dell'Accademia dei Lincei.  Gentile non mostra particolare interesse nel confronto del fascismo. Fu solo allora che prese posizione in merito, dichiarando di vedere in Mussolini un difensore di un “liberalismo” risorgimentale nel quale si riconosce.“Mi son dovuto persuadere che il ‘liberalismo’, com'io l'intendo e come lo intendeno gli uomini della gloriosa destra che guida l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge, e perciò nello stato forte, e nello stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai ‘liberali’, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per l'appunto, da Lei.” (Lettera a Mussolini). All'insediamento del regime viene nominato ministro della Pubblica Istruzione, attuando La Riforma Gentile, fortemente innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge Casati di più di sessant'anni prima! Diviene senatore del Regno. Si iscrive al Partito Nazionale con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale. Dopo la crisi Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato a presiedere la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello Statuto Albertino (poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento giuridico dello stato). Resta fascista e pubblica il “Manifesto degli intellettuali” in cui vede la filosofia come un possibile motore della rigenerazione degli italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo manifesto sancisce l'allontanamento di Gentile da Croce, che gli risponde con un tipico “contro-manifesto”. Promuove la nascita dell'Istituto di Cultura. Per le numerose cariche, esercita un forte influsso sulla cultura italiana, specialmente nel settore filosofico. È imembro dell'Istituto Treccani. A Gentile si devono in gran parte il livello culturale e l'ampiezza della visione dell'Enciclopedia Italiana. Invita infatti a collaborare alla nuova impresa 3.266 filosofi di diverso orientamento, poiché nell'opera si deve coinvolgere tutta la cultura italiana, compresi molti studiosi notoriamente anti-fascisti, che ebbero spesso da tale lavoro il loro unico sostentamento. Riesce in tal modo a mantenere una sostanziale autonomia, nella redazione dell'Enciclopedia Italiana, dalle interferenze del regime. È coinvolto nell'istituzione del Giuramento di fedeltà al regime che causerà l'allontanamento di alcuni dall'Università.  Inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Fonda il Centro nazionale di studi manzoniani. Fonda la Domus Galilaeana a Pisa.  Non mancano comunque i dissensi col regime. In particolare, la sua filosofia subisce un duro colpo alla firma dei Patti Lateranensi tra il cattolicesimo e lo stato. Sebbene riconosca il cattolicesimo come una forma della spiritualità, ritiene di non poter accettare uno stato NON laico. Questo evento segna una svolta nel suo impegno politico militante, è inoltre contrario all'insegnamento del cattolicesimo nel ginnasio e nel liceo. Il Sant'Uffizio mette all'”Indice” le sue opere a causa del loro riconoscimento, nel solco dell'idealismo, del cattolicesimo come una mera "forma dello spirito” -- totalmente inferiore alla filosofia: ‘theologia ancilla philosophiae.” “La mia religione, in cui vi sono anche alcune velate critiche al cattolicesimo e ispirata da Alighieri, Gioberti e Manzoni.” Degna di nota anche la sua difesa di Bruno, il filosofo eretico condannato al rogo dall'Inquisizione, al quale dedica una apologia, impegnandosi anche presso Mussolini perché la statua di Bruno in Campo de' Fiori e opera dello scultore anticlericale Ettore Ferrarinon fosse rimossa, come richiesto da alcuni cattolici. Comincia una lunga polemica contro Vecchi, che Gentile accusa di “inquinare la cultura”.“Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e negatrice.”“Roma accolse sempre e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli.” “Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe, l'orbe.” “La Roma antica volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice intelligenza a ogni persona a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo alieno da sé che fosse umano.”“Sono i popoli – come i longobardi! -- piccoli e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo schivo e sterile.”In La mia religione dichiara di essere credente nello stato laico – ‘stato no laico e una contradictio in terminis’ --  Nel Discorso del Campidoglio esorta all'unità. Si ritira a Troghi, dove filosofa su la “Genesi e struttura della società” nel nel quale teorizza su la politica dell’umanesimo. Considera “Genesi e struttura della societa” il coronamento dei suoi studi speculativi tanto che mostrando il manoscritto, scherzando disse. "I vostri amici possono uccidermi ora se vogliono.”“Il mia missione nella vita è compietata.”La caduta di Mussolini non preoccupa particolarmente Gentile che intese il tutto come un avvicendamento al governo. Inoltre la nomina nel primo governo Badoglio di alcuni ministri che precedentemente erano stati suoi collaboratori lo conforta. In particolare la amicizia con Severi spinse Gentile ad inviargli una lettera di auguri per la nomina e a sottoporgli alcune questioni rimaste in sospeso con il governo precedente.  Severi rispose a Gentile lanciandogli un duro e inatteso attacco. Travisandone volontariamente i contenuti evitando però di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si fosse proposto come consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la proposta. Gentile replica a Severi e rassegna le dimissioni da Pisa. Gentile respinse in un primo tempo la proposta di Biggini di entrare al Governo, dopo un incontro con Mussolini sul lago di Garda si convinse ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Divenne presidente della Reale Accademia d'Italia, con l'obiettivo di riformare L’Accademia dei Lincei che fu assorbita dall'Accademia. “Venne qui tempo fa un amico a cercarmi, ed io dissi francamente i motivi politici per cui desideravo restare in disparte.”“Ma egli mi assicurò che io potevo benissimo restare in disparate.”“Ma dovevo fare una visita al mio amico che desidera vedermi ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla mia persona.”“Negare questa visita non era possibile.”“Feci comodamente il viaggio con Fortunato.”“Ebbi un colloquio di quasi due ore, che fu commoventissimo.”“Dissi tutto il mio pensiero, feci molte osservazioni, di cui comincio a vedere qualche benefico aspetto”“Credo di aver fatto molto bene all’Italia.”“Non mi chiese nulla, non mi fece offerta.”“Il colloquio fu a quattr'occhi.”“La nomina fu poi combinata col ministro amico e portata qui da me da un Direttore generale.”“Non accettarla sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita.”Sostenne la chiamata alle armi e la coscrizione militare dei giovani nell'esercito della RSI, auspicando il ri-pristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta di Mussolini.  Intanto il figlio, Federico Gentile, capitano d'artiglieria del Regio Esercito, era stato internato dai tedeschi in un campo di prigionia a Leopoli in condizioni particolarmente severe.Federico Gentile e l'unico ufficiale italiano del campo a non ricevere la posta di ritorno. Federico Gentile aveva aderito alla RSI, ma non aveva accettato l'arruolamento nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare in Italia da civile.Gentile elogia pubblicamente al "Condottiero della grande Germania", e lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse.Pochi giorni dopo, Federico Gentile, venne trasferito in un campo meno duro.Infine, gli fu permesso il ritorno. Per il suo appoggio dichiarato alla leva per la difesa della RSI, riceve  diverse missive contenenti minacce di morte. In una in particolare era riportato: "Tu sei responsabile dell'assassinio dei cinque". L'accusa era riferita alla fucilazione di cinque renitenti alla leva rastrellati dai militi della R. S. I. -- fucilazione orchestrata da Carità, che detesta Gentile, ricambiato. Ha infatti minacciato di denunciare le eccessive violenze del suo reparto allo stesso Mussolini.Gentile non e assolutamente collegato con tale evento. Il governo repubblicano gli offre quindi una scorta armata che però Gentile declina.“Non sono così importante, ma poi se hanno delle accuse da muovermi sono sempre disponibile.”Considerato in ambito resistenziale come il filosofo del regime, apologo della repressione e di un regime ostaggio di un esercito occupante, e ucciso isulla soglia di Villa di Montalto al Salviatino, da gappisti di ispirazione comunista. Il commando si apposta circa nei pressi della villa.Appena giunse in auto, il gappista Fanciullacci si avvicina, tenendo sotto braccio un libro di filosofia – “Apperance and Reality,” di Bradley -- per nascondere la rivoltella e farsi così credere un filosofo.Abbassa il vetro per prestare ascolto.E subito raggiunto dai colpi della rivoltella. Fuggito il gappista in bicicletta, l'autista si diresse all'ospedale Careggi per trasferirvi il filosofo moribondo.Gentile, colpito direttamente al cuore e in pieno petto, in breve spira.Fu un episodio che divise lo stesso fronte di resistenza e che è al centro di polemiche non sopite, venendo infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola esclusione del Partito Comunista, che ri-vendicò l'esecuzione. Fu sepolto nella basilica di Santa Croce, il foscoliano tempio dell'itale glorie. Dopo l'attentato, le autorità della R. S. I.,  dopo aver sospettato all'inizio lo stesso Mario Carità promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni su Fanciulacci.Venne disposto l'arresto di cinque, indicati da come i mandanti morali.Grazie al diretto intervento della famiglia, gli arrestati sono rimessi in libertà. All'interno di Santa Croce si inaugura un convegno di studi gentiliani. La filosofia di Gentile fu da lui denominata “attualismo” o idealismo attuale.L'unica vera realtà è un “atto” puro del «pensiero che pensa», cioè l'auto-coscienza, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente.Solo quello che si realizza tramite lo spirito rappresenta la realtà in cui il filosofo si riconosce. Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non c'è distinzione tra “soggetto” e “oggetto” – dunque l’intersoggetivita e un pseudo-problema. Avversa pertanto ogni dualismo rivendicando il monismo e l'unità di natura (corpo, materia) e spirito (anima, forma) (monismo).Al'interno, assieme al primato, la auto-coscienza è vista come “sintesi” della tesi del soggeto e l’antitesi dell’oggetto.Questo e un atto in cui il primo, la tesi, il soggetto, pone se stesso e pone il secondo (auto-concetto).In ciò consiste l'”autoctisi” –Non hanno quindi senso un orientamento solo spiritualista o solo materialista (naturalista).Non ha senso la divisione netta tra spirito (l’astratto) e materia (astrazzione) del platonismo, in quanto la realtà è Una.Qui è evidente l'influsso dell’aristotelismo (hyle-morphe) e il panteismo rinascimentale e anche dell’ “immanentismo” (contro il transcendentalismo) più che dell'hegelismo.Di Hegel, a differenza di Croce, che era fautore di uno storicismo assoluto (o idealismo storicista), per cui tutta la realtà è “storia” e non “atto” in senso aristotelico (energeia/dunamis – actus – cf. Grice, “What is actual”), non apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto l'impianto idealistico relativo alla auto-coscienza.La auto-coscienza è considerata il fondamento del reale. Anche vi è un errore in Hegel nella formulazione della “dialettica”. Ma questo non consiste unicamente, come afferma Croce. Croce infatti sostiene che "tutto è Spirito". La critica di Croce non è sufficiente.Gentile sostiene che Hegel confunde la dialettica del “implicare” (‘impiegare”) (che ha individuato correttamente) con la dialettica dell’ “implicatum” ‘empiegato’. Lascia forti residui della dialettica dell’impiegato,cioè quella del determinato e delle scienze. Gentile inoltre non accetta la “dialettica dei distinti” (A distinto da B) che Croce, in base al adagio che "non ogni negazione è opposizione") introduce posto accanto alla “dialettica degli opposti" (A opposto B). Infatti Gentile  ritiene la ‘dialettica dei distinti’ un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica propria.Questa invece si esplica in un “atto” in cui utilizza la dialettica (A opposto B, sintesi C) in un atto puro.Questa dialettica si esplica quindi nel rapporto dell’impiegare e l’impiegato.Recuperando La Dottrina della scienza di Fichte, Gentile afferma che lo spirito (anima, forma) è fondante in quanto unità di autocoscienza, atto; l'atto puro –, è il principio e la forma della realtà diveniente, non esistente (Gott im Werden – dall’divenire all’essere). La dialettica dell'atto puro e l’opposizione tra la soggettività (il soggeto) rappresentata dall'espressione --  intention-based semantics -- (tesi) e l'oggettività (oggeto) – cf. inter-soggetivo -- rappresentata dal positivism scientism. (antitesi), cui fa da soluzione nell’atto puro (sintesi). L'atto puro si fonda sull'opposizione della «logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero pensato” – cfr. implicans – implicatum. impiegatore – impiegante – impiegato --. La prima è una dialettica materiale– implicans/impiegante --, la seconda una logica formale – l’impiegato --.Gentile dedica la sua attenzione al tema della soggettività dell'espressione nel vivere del spirito. Se da un lato l'espressione è il prodotto di un sentimento soggettivo o una intenzione, dall'altro l’espressione è un atto puro “sintetico” – “composito” -- non analitico – or divisso -- che coglie tutti i momenti della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni caratteri del questo che Grice chiama il discorso razionale o la conversazione come cooperazione razionale. Sviluppando fino in fondo la filosofia di Spaventa, la filosofia dell’atto puro, per il quale la realtà esiste solo nell'atto puro che pensa la realta.è stato interpretato come un idealismo soggettivo (una forma di soggettivismo – o intersoggetivismo), sebbene Gentile tende a respingere tale definizione, non essendo quell'atto preceduto né dal “soggetto” né tantomeno dall'”oggetto” -- bensì coincidente con l'Idea stessa, e a differenza di Fichte, in cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un "cattivo infinito" è in realtà immanente (non trascendente) all'esperienza, proprio perché l’atto puro e creatore d una esperienza (datum). Gentile e un ideologo del regime.La filosofia politica di Gentile è  fortemente attivista e attualista (cioè trasponte l'attualismo del atto puro nel campo veramente inter-soggetivo dello scambio sociale.La politica coniughi «prassi e pensiero» (lo pratico e lo speculative) che sia insieme «una azione a cui è immanente una ‘dottrina’ condivisa.’”Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà, in Gentile troviamo il primato del futuro, l’utopia, l’ideale regolativo. Ma, allo stesso tempo, un recupero della concezione romantica illuminsita di una Ragione intesa come Spirito universale che tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione meramente strumentale mezzo-fine. In questo, l’analogia con Grice e obvia. Per Gentile, ad esempio, il «modo generale di concepire la vita» proprio della sua dottrina è di tipo «spiritualistico». La dottrina non è la sola qualificazione politica che dà dello speculative.Gentile infatti e un ‘liberale’ -- nonostante sembri respingere quasi in toto il ‘liberalismo ottocentesco’ ne La dottrina del regime.Difatti la sua concezione politica riprende la concezione di Hege di un stato etico o morale -- per cui ‘libero’ (free) non è primariamente l'individuo o persona atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo stato stesso nel suo processo storico. Un individuo e  ‘libero’ se esplica la sua moralità nella forma istituzionale di suo stato libero -- come chiarisce nella 'Enciclopedia italiana. L'individuo esprime la sua libertà individuale personale solo all'interno di un stato libero ("libertà nella legge" – lo giuridico -- ), con ciò a dire in un contesto istituzionale organizzato (positivismo kelseniano). Un esempio di questa concezione lo si può trovare nella destra storica, la quale governa l'Unità d'Italia.Impone un governo autoritario (concezione ereditata poi dalla sinistra storica di Crispi) che riusce a moderare l'individualità dei singoli, quella che Gentile definisce come la spinta alla disgregazione.Questo modello di governo forte è giusto (lo giuridico) in quanto, per definizione, un stato libero e un stato etico, definito alla Mazzini come "stato educatore". Se Gentile voglia uno stato totalitario vero e proprio è questione invece incerta.Di certo nella sua fase prettamente del regime, Gentile fa riferimento a un ‘stato totale", l'organismo che accoglie tutto in sé.Con il regime si può avere vero "liberalismo" in quanto riporta al valore primigenio del Risorgimento. Gentile dimostra un forte approccio storicistico, secondo il quale il regime trade la sua legittimazione dalla storia, sarebbe appunto una vera fase storica, non una mera mistica o dottrina o ideologia. Il Risorgimento non e olo un'operazione politica, ma un "atto di fede".Il campione di suddetto atto di fede e Mazzini: anti-illuminista e romantico, anti-francese, spiritualista e nemico dei principi materialistici. Lo stato giolittiano rappresenta invece un tradimento dei valori risorgimentali.Per rompere questo “status quo” degenerativo del processo italiano e necessario una rivoluzione. Porta un nuovo assetto, ma anche statale, perché va a colmare una lacuna che vige nel sistema del stato. Insiste molto sulla novità di questa rivoluzione. è un modo nuovo di concepire una nazione, ha una consapevolezza mistica di ciò che sta compiendo. Un duce viene perciò dipinto come un vero eroe idealistico. La missione della rivoluzione è quella di creare l'Uomo nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a grandi imprese. Questo nuovo tipo di uomo e anti-tetico al carattere che Giolitti tentò di imprimere a una nazione e che connota l'Italia come una nazione scettica, mediocre e furbastra. In quanto ideologo, Gentile sostiene che la dottrina revoluzionaria si deve istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso l'istituzione del Gran Consiglio. La dottrina si deve inoltre far assorbire dall'italianità (e non il contrario). Il fine è che nella società italiana non vi siano più contra-dizioni, nessuna differenza tra cultura italiana e cultura della dottrina. Bisogna arrivare ad una comunità omogenea e compatta anche in ambito lavorativo.  Attraverso l'istituzione della  cooperative e la corporazione, la quale deve sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la collaborazione o cooperazione di classe. Anche qua Gentile riprende le teorie di Mazzini, oltre che il distributismo. Il corporativismo (di cui le estreme realizzazioni saranno la democrazia organica e la “socializzazione” dell'economia, progettate nella R. S. I.) permette di giungere ad uno stato di fatto in cui i problemi economici si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza provocare fratture all'interno della società, ed evitando una lotta di classe (classe bassa, casse media, classe alta) grazie alla “terza via” della dottrina. Gentile sostenne, opponendosi all'ala estrema e intransigente l'idea una riconciliazione, la più ampia possibile, di tutti gli italiani.Pur riconoscendosi nella R. S. I., invita pubblicamente il “popolo sano” ad ascoltare “la voce della Patria”, esortandolo alla pacificazione e ad evitare una “lotta fratricida", di cui comunque non vedrà la fine.  Il gentilismo fu una delle cinque correnti culturali del regime, assieme alla sinistra "rivoluzionario" di Malaparte, Maccari, Bottai, e Marinetti; la dottrina clericale; la mistica di Giani, Arnaldo, e Mussolini; e il neo-ghibellinismo pagano di Evola. Per l'idealista Gentile, a differenza di Croce, che ritene il Marxismo solo "passione politica", causata da uno sdegno morale a causa delle ingiustizie sociali, il marxismo è una filosofia della storia derivata da Hegel. Gentile afferma infatti che la concezione materialistica della storia è costruita da Marx sostituendo la Materia -- la struttura economica -- allo Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà, che comprende la materia (all'interno della Filosofia della natura), come momento del suo sviluppo.Secondo Marx invece, avendo scambiato il relativo con l'assoluto, si finisce con l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè, il fatto economico) la funzione dell'Assoluto che per Hegel si sviluppa dialetticamente ed è determinato a priori rendendo così determinato a priori l'empirico: la struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia marxiana sia pertanto una errata filosofia della storia hegeliana "rovesciata", però la filosofia di Marx possiede ugualmente un pregio: è una "filosofia della prassi". Nelle Tesi su Feuerbach, che Gentile cura, il "Moro" infatti critica il materialismo volgare.Questo concepisce metafisicamente l'oggetto come dato e il soggetto come mero ricettore dell'essenza-oggetto. Nonostante ciò, secondo Gentile, Marx, attribuisce alla “prassi”, considerata come attività sensibile umana, la funzione di far derivare a torto il pensiero medesimo.I filosofo di Treviri infatti considera il pensiero una forma derivata dell'attività sensitiva e non un atto che ponga l'oggetto. Gentile sostiene invece (contro Marx e il Marxismo) come sia l'atto del pensiero,come atto puro a porre l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a crearlo.Gentile riflette a lungo sulla funzione pedagogica e unisce la pedagogia con la filosofia, avviando una rifondazione in senso idealistico della prima, negandone i nessi con la psicologia e con l'etica. L'educazione deve essere intesa come un attuarsi, uno svolgersi dello spirito stesso che realizza così la propria autonomia. L'insegnamento è spirito in atto, di cui non si possono fissare le fasi o prescrivere il metodo.Il metodo è il maestro o tutore, il quale non deve attenersi ad alcuna didattica programmata ma affrontare questo compito sulla scorta delle proprie risorse interiori. Programmare la didattica sarebbe come cristallizzare il fuoco creatore e diveniente dello spirito che è alla base dell'educazione. Al maestro o tutore è richiesta una vasta cultura e null'altro.Il metodo verrà da sé, perché il metodo risiede nella Cultura stessa che si forma continuamente da sé nel suo processo infinito di creazione e ri-creazione.Il dualismo scolaro-maestro (tutore/tutee) deve risolversi in unità – il dialogo socratico -- attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che tramite la cultura muove l'educatore (tutore) verso l'educando (tutee – Gentile qui usa una forma romana, ‘educando’ – cfr. ‘implicandum’ -- e lo riassorbe nell'universalità dell'atto spirituale. «Il maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro dell'essere divino, dello spirito». Il maestro incarna lo spirito stesso, l'allievo (l’educando, il tutee, lo scolareo) deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro, proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi (auto-diddatica), facendo del tutto propri i grandi contenuti presentati.Questi concetti ispirano la riforma scolastica attuata da Gentile in veste di ministro della Pubblica istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi desideri. Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma scolastica sono in particolare la concezione della scuola come membro fondamentale dello stato (viene infatti istituito un esame di stato che sancisce la fine di ogni ciclo scolastico, anche se gli studi sono effettuati in un istituto privato) e il predominio delle discipline del gruppo umanistico-filologico.Gentile fu ministro della pubblica istruzione e mise in atto la sua riforma scolastica, e definita da Mussolini "la più riformante delle riforme", in sostituzione della vecchia legge Casati. Essa era fortemente meritocratica e censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile individua l'organizzazione della scuola secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola di tipo piramidale, cioè pensata e dedicata ai migliori e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo ‘professionale’ per il popolo. I gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli, o comunque a quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse di studio perché gli studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire gli studi (cf. Grice, a “Midlands scholarship boy bound to Corpus!”). La logica e messa in secondo piano, poiché e una materia priva  di valore universale, che ha la sua importanza solo a livello ‘professionale’.Difatti Giovanni Gentile, a differenza di Croce che sosteneva l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche sulla scienza, pur criticando gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le materie letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al dialogo, con matematici e fisici italiani (come Majorana, collaboratore di Enrico Fermi nel gruppo dei "ragazzi di via Panisperna", che divenne anche amico del figlio Giovanni Gentile jr., coetaneo del Majorana) e cercò di instaurare un confronto costruttivo con il scientism.L'”obbligo” scolastico fu innalzato a 14 anni e fu istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni. L'allievo che termina la scuola elementare ha la possibilità di scegliere tra il ginnasio/liceo classico e la scuola scientifica oppure un istituto tecnico.Solo il ginnasio-liceo permette l'accesso alla faculta di filosofia nella universita di Bologna.In questo modo però viene mantenuta una profonda divisione tra classi – l’elite, la classe alta, la classe media, e la classe basssa (questo vincolo fu rimosso completamente). Ciò anda incontro alla visione patriarcale del Duce.Anche Gentile nel complesso mostrò posizioni poco ricettive verso il femminismo ("il femminismo è morto" dirà), sebbene più sfumate, sostenendo che i licei dovessero formare i "futuri capi" guerrieri.Nel triennio dell'istruzione classica viene poi introdotta, in sostituzione, la filosofia, adatta alla elite o classe dominanti e alla futura classe dirigente, ma non al popolo minuto. Gentile è un filosofo della secolarizzazione e della risoluzione della trascendenza in prassi in ciò accomunato a Marx -, determinante addirittura per lo stesso comunismo italiano attraverso la ripresa che ne fece Gramsci. Da sottolineare che già sulla rivista L'Ordine Nuovo, Gobetti nota sche Gentile «format la cultura filosofica italiana.”. Di tutt'altro avviso Sasso, secondo il quale a dover essere rivalutata non è affatto la disastrosa prassi politica di Gentile, la cui «passionale» adesione alla dottrina «fu filosofica, forse, a parole ma nelle cose no». Ciò che merita ancora di essere studiato, sostiene Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in atto», e tra essa «e la dottrina non c'è, né ci può essere, alcun nesso». La filosofia di Gentile e la «fascistizzazione dell'attualismo» e pertanto una «deformazione dell'idealismo”. Al di là della sua appartenenza politica, si attribuisce comunque a Gentile un notevole spessore filosofico. Gentile fu fascista e pagò con la vita la sua fedeltà alla dottrina. Ma fu anche profondo pensatore. Lo riconobbero, nel primo dopoguerra, persino Gramsci e Togliatti. Per approfondire gli studi sull'opera di Gentile e create l' “Istituto di studi gentiliani” e la "Fondazione Giovanni Gentile" a Roma. La filosofia gentiliana è stimata anche dal Severino, che ravvisandovi una condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la considera uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale. Gentile e certamente un romantico, forse l'ultima più vigorosa figura del Romanticismo europeo.Gli venne dedicato un francobollo delle Poste italiane, unico tra le personalità di primo piano del regime ad avere questa celebrazione da parte della Repubblica Italiana.  L'assassinio di Gentile fu una carognata ingiusta e vigliacca. Gentile non era fascista. Che gli antifascisti furono dei acasotto perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero il coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano minato.Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italianastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italia, Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania nazista)nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania). “L'atto del pensare come atto puro; La riforma della dialettica hegeliana” (Firenze, Sansoni); La filosofia della guerra; Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze, Sansoni); I fondamenti della filosofia del diritto; “Sistema di logica come teoria del conoscere; Guerra e fede (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Dopo la vittoria (raccolta di articoli scritti durante la guerra) Discorsi di religione; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia; Frammenti di storia della filosofia”; “La filosofia dell'arte”; “Introduzione alla filosofia”; “Genesi e struttura della società” “L'attualismo V. Cicero e con introduzione di E. Severino, Bompiani, Milano  Di carattere storiografico Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca”; “Rosmini e Gioberti”; “Marx”; “Dal Genovesi al Galluppi”; “Telesio; “Studi vichiani” “Le origini della filosofia contemporanea in Italia”; “Il tramonto della cultura siciliana; Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento; Frammenti di estetica e letteratura; La cultura piemontese; Gino Capponi e la cultura toscana del secolo XIX; Studi sul Rinascimento; I profeti del Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti; Bertrando Spaventa; Manzoni e Leopardi; Economia ed etica; Giovanni Gentile un filosofo scomodo; L'insegnamento della filosofia nei licei; Scuola e filosofia; Sommario di pedagogia come scienza filosofica” “I problemi della scolastica e il pensiero italiano; Il problema scolastico del dopoguerra; La riforma dell'educazione, Bari, Laterza); Educazione e scuola laica; La nuova scuola media; La riforma della scuola in Italia; “Manifesto degli intellettuali”; Che cos'è la cultura? Origini e dottrina”; “La mia religione”; “Discorso agli Italiani”; “Essenza” la prima parte si trova nella Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T.: la prima e la seconda si trovano in l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma; un'altra opera in cui si trova questo testo è in Origini e dottrina del fascismo, istituto nazionale fascista di cultura, Roma; altro testo in cui si trova si intitola Lo stato etico corporativo). La filosofia del fascismo (Origini e dottrina del fascismo; si trova in Politica e Cultura, oppure lo si può trovare le libro intitolato L’Identità” un altro libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni de Il libro italiano del mondo, Roma); Che cosa è il fascismo-discorsi e polemiche (Firenze, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola; Giovanni Gentile Scritti per il Corriere. Note  Vi è chi attribuisce al neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe posto l'istruzione scientifica in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico letteraria (L'Italia della scienza negata, in Il Sole; altri invece respingono questa interpretazione, ricordando che durante l'egemonia gentiliana nacquero numerosi enti scientifici (Croce e Gentile amici della scienza, in Corriere della Sera. 10 giugno.).  Cit. di Geno Pampaloni tratta da Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Marcello Staglieno, Milano, Rizzoli. Manifesto cit. in Eugenio Di Rienzo, Storia d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, Cfr. Vito de Luca, Un consigliere comunale di nome Giovanni Gentile. Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, "Nuova Storia contemporanea", Dello stesso autore,cfr. "Giovanni Gentile. Al di là di destra e sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro", Chieti, Solfanelli,,Scheda senatore GENTILE Giovanni  Paolo Simoncelli41.  Amedeo Benedetti, "L'Enciclopedia Italiana Treccani e la sua biblioteca", Biblioteche Oggi, Milano, Testo qui  Ripubblicato nel 1991 come Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S. saggi cult. cont.  Giordano Bruno. LE VICENDE DELLA STATUA  «De Vecchi, Cesare Maria», Treccani  Paolo Simoncelli207.  La scelta di campo, Marco Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le bufale, l'Opinione, 30 marzo   Paolo Mieli, Gentile criticò in pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo vano  Paolo Simoncelli43.  Paolo Simoncelli40.  Paolo Simoncelli34.  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo; "Giovanni Gentile" di Gabriele Turi; Giovanni Gentile in “Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia”Treccani  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo23.  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo24.  Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo, Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo, Sellerio, Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo26.  Vittorio Vettori, Giovanni Gentile, Editrice Italiana, Roma, Simonetta Fiori, dirigere la casa editrice Sansoni esecondo la testimonianza dell'ex interermania.html Io, italiano prigioniero in Germania, in La Repubblica, Antonio Carioti, Quando Gentile s'inchinò a Hitler per salvare il figlio, in Corriere della Sera, Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", "Historia", Raffaello Uboldi, Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata; Arnoldo Mondadori Editore, Milano56: "Gentile, sdegnato, ha minacciato di denunciarlo a Mussolini"  Elio Chianesi, La Benvenuti non volle mai raccontare i precisi particolari, dal suo punto di vista: «Questa è una cosa che non dirò mai. Perché potrei fare rovesciare tutte le cose. Perché non è come è stato detto. Come è andata l’azione dei Gap io non lo voglio dire. Me l’hanno chiesto in tanti ma non l’ho rivelato mai a nessuno». Vedi un intervento della Benvenuti anche in M. C. Carratù ().  Paolo Paoletti, "Il Delitto Gentile" esecutori e mandanti, Ed. Le Lettere, L'omicidio raccontato da Giuseppe Martini "Paolo" uno dei due esecutori materiali"...Sicuramente (Fanciullacci l'altro esecutore) gli chiese se era il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa parte, non attraverso i due finestrini posteriori..."  Resistenza: "Angela", la ragazza col fiore rosso  Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che Gentile doveva morire, in Corriere della Sera,  «Per fare in modo che i gappisti incaricati dell'agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso l'Accademia d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile imbarazzo.»  (Teresa Mattei)  Luciano Canfora, "Giovanni Gentile nella RSI" in La Repubblica Sociale Italiana Poggio, Annali della Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che Gentile doveva morire, sul Corriere della Sera,: "L'omicidio di Gentile, anziano e inerme, suscitò una forte impressione e fu disapprovato dal CLN toscano, con l'astensione dei comunisti. Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione, scrisse un articolo per dissociarsi."  Maria Cristina Carratù, E dopo 70 anni nuovi scenari dietro l'esecuzione di Giovanni Gentile, La Repubblica, 24 aprile   Renzo Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi", articolo su "Historia", Ecco le carte che assolvono l'archeologo  Romano302.  Gabriele Turi, "Giovanni Gentile" Così Gaetano Gentile ricordò il suo intervento presso la prefettura: «Quella sera stessa, per desiderio di mia Madre, io mi recai dal capo della Provincia e gli parlai della voce [di rappresaglie] diffusasi in città, esprimendogli la ferma e calda preghiera di mia Madre che quel proposito, se effettivamente esisteva, venisse abbandonato e anzi gli arrestati rilasciati. Dissi anche, naturalmente, come a me sembrasse in fondo superfluo dover esprimere tale preghiera proprio in quella stanza in cui ancora quella mattina la voce di mio Padre si era levata a deplorare la tragica inutilità di un metodo, dal quale non poteva seguire che il ripetersi indefinito di una crudele successione di attentati e rappresaglie. Era ovvio poi che, indipendentemente dalla eventuale giustificazione politica o militare di atti simili, nulla del genere poteva aver luogo in occasione della morte di mio Padre, alla quale si doveva da parte del Governo e delle autorità fiorentine questo gesto di rispetto delle sue convinzioni e del suo costante atteggiamento».  Firenze: due consiglieri, via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su liberoquotidiano. 15 novembre  16 novembre ).  «Attualismo», Enciclopedia Treccani  Diego Fusaro, Giovanni Gentile  Sull'importanza della riforma della dialettica idealista di matrice hegeliana in Gentile, si veda quest'intervista a Gennaro Sasso. L'intervista è compresa nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienza Filosofiche.  Bruno Minozzi, Saggio di una teoria dell'essere come presenza pura, Il Mulino, Gentile quindi contestava a Fichte la trascendenza dell'Io assoluto rispetto al non-io, e di restare così in un dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del pensiero, ma solo da un agire pratico dilatato all'infinito ("cattivo infinito"), fermo alla contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale Fichte «s'irretisce in un idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire da sé» (Discorsi di religione, Firenze, Sansoni).  Giovanni Gentile, Benito Mussolini, La dottrina del fascismo.  Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Marcello Staglieno, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, Vito de Luca, Giovanni Gentile e il liberalismo, Mussolini, Gioacchino Volpe, Giovanni Gentile, Fascismo, Enciclopedia Italiana.  Augusto Del Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana", G. Belardelli, Il fascismo e Giuseppe Mazzini  Giovanni Gentile, Manifesto degli intellettuali fascisti  Giovanni Gentile, "Ricostruire" in Corriere della Sera, Cfr. Libertà e liberalismo ("Conferenza tenuta all'Università  di Bologna"), in Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, Il pensiero pedagogico di Giovanni Gentile  La riforma Gentile, su pbmstoria. Si veda anche ne Il fascismo al governo della scuola, in Annali, Milano, Istituto Giangiacomo Feltrinelli,  «[Boffi:] Qual è il criterio su cui si è fondata Vostra Eccellenza nella limitazione delle iscrizioni? — Gentile: Questa limitazione non c'è nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle scuole di cultura e risponde alla necessità di mantenere alto il livello di dette scuole chiudendole ai deboli e agli incapaci; dipende anche dalla riduzione del numero degli scolari nelle singole classi fatta per evidenti ragioni didattiche, quelle stesse che hanno consigliato l'abolizione delle classi aggiunte; ma soprattutto dalla necessità di consigliare agli italiani un diverso indirizzo nella loro attività.  Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali, di commercianti, di artieri, di minuti professionisti, che portino nella esplicazione delle loro arti e dei loro mestieri quello spirito fine della Nazione che finora li ha spinti a disertare le scuole industriali, commerciali e professionali per seguire la scuola umanistica.»  (R.Sandron, Il fascismo al governo della scuola, iscorsi e interviste, Ferruccio E. Boffi, Giuseppe Spadafora, Giovanni Gentile: la pedagogia, la scuola: atti del Convegno di pedagogia e altri studi, Armando Editore, 1997261.  Enrico Galavotti, La filosofia italiana e il neoidealismo di Croce e Gentile, Homolaicus.  Il mistero di Ettore Majorana  Eleonora Guglielman, Dalla scuola per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo femminile della riforma Gentile e i suoi precedenti storici, in Da un secolo all'altro. Contributi per una "storia dell'insegnamento della storia" (M. Guspini), Roma, Anicia, Una parte del lavoro è stata in precedenza pubblicata, con alcune varianti, sulla rivista "Scuola e Città" con il titolo Il liceo femminile Manacorda D'Amico, Katia Romagnoli, Donne, la Resistenza "taciuta". L'esclusione delle donne nella società fascista  G. Gentile, La donna nella coscienza moderna, in La donna e il fanciullo. Due conferenze, Firenze, Sansoni, De Grazia, Le donne nel regime fascista,  G. 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Zur Deformation einer idealistischen Philosophie, in «Acta Universitatis Reginaehradecensis, Humanistica I» Filosofia: A Firenze Convegno Studi Gentiliani  Fondazione Gentile | Dipartimento di Filosofia | SapienzaRoma Liberiamo la filosofia di Giovanni Gentile dalla faziosità del '900  Emanuele Severino: Ecco perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto Quotidiano  È Gentile il profeta del la civiltà tecnica.  «I nemici di Giovanni Gentile», puntata de Il tempo e la storia, documentario Rai  Emanuele Severino, dalla quarta di copertina de L'attualismo, Milano, Giunti,   Nicola Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, "La partigiana Fallaci fa a pezzi l'antifascismo", pubblicato da Il Giornale.  Monografie principali Armando Carlini, Studi gentiliani,  VIII di Giovanni Gentile, la vita e il pensiero a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici, Firenze, Sansoni, Aldo Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, Sergio Romano, Giovanni Gentile. 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Saggio su Gentile, Vettori, Gentile, Roma, Editrice Italiana, Marcello Veneziani, Giovanni GentilePensare l'Italia, Le Lettere, Firenze,   Attualismo (filosofia) Fascismo Idealismo italiano Manifesto degli intellettuali fascisti Riforma Gentile Uccisione di Gentile Spirito, Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Gentile, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Gentile, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Giovanni Gentile, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Giovanni Gentile, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Gentile, su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. H  Questa soluzione della trascendenza è cara, s'intende, ai :filosofi che per la loro indole amano starsene alla fine­ stra a godere dello spettacolo che essi contemplano, ma di cui non hanno la responsabilità (né merito, né demerito). Nella strada la gente ignara soffre, combatte, muore; alla .lìnestra il filosofo (che come tale deve essere puro pensiero) imperturbato, spiega, si rende conto e si frega le mani. Il vecchio ideale di Lucrezio, che è alla base della eterna leggenda del filosofo che si libera delle passioni e rinunzia all'azione per chiudersi nel pensiero: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari qucmquam'st iucunda voluptas sed quibus ipse malis careas quia cernere suave'st: suavc ctiam belli certamiua magna tueri per campos instrncta tua sine parte perieli: sed nil dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapienlum tempia serena, despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantis quaerere vita.e, certarc ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes rerumqne potiri. O miseras hominum mentes, o pectora caeca. L'etica come legge. Disciplina. Positivismo ed empirismo. Legge. Prammatismo. Prassi e teoria. -Oggetto del volere. Volontà- autoctisi. Praticità del conoscere. Unità cli teorico e pratico. L·atto. L'individuo. Senso realistico e senso idealistico della individualità. Individuo e società. Comunità immanente ali' individuo come sua legge. La comunità ideale e la gloria.  Vox populi. La concretezza dell'individuo. La conquista dei valori. li processo d<>IJa individualità. La parti­colarità dell'individuo nello spazio e nel tempo. Il carattere.Velleità, volere, carattere. Il carattere attraverso la condotta empirica. Critica del concetto della molteplicità degli atti o l'unità del volere. Presente ed estemporaneo nel carattere. Trascendentalità del carattere.Il coraggio civile. - i> La socialità origmaria.Società trascendentale o società in interiore homine. Alte" e socius. Dalla cosa al socio. Il dialogo intemo, o trascendentale. Il momento dell'alterità. La dialettica pratica. La crisi dell'Universo. sare più al clovere che ai doveri - 0. Il bene e il male. La categoria etica e l'esperienza. Dialettica dell'Io. - 3. li nulla. -Unicità della categoria logica. La legge dell'uomo: Pett.sa/ Intendere e amare. Intendere pratico. La categoria etica. Il senso morale e la sua inattualità. Dovere e doveri. - 8. Errore di metodo nell'etica. Necessità cli pen­ --Lo Stato. Concetto dello Stato. Nazione e Stato. Diritto. Governo e governati. Autorità e libertà. Il liberalismo. Etica e politica. Stato etico. Moralismo, Stato ed econoraia . Economicità dell'uomo e quincù dello Stato. - 2. Umanità dell'operare economico. - 3. Operare utilitario o utile? Umano e subumano. Il corpo e l'anima. Naturalità dell'utile. Le scienze della logica dell'astratto. Lo schema del naturalismo nella logica dell'astratto. La forma mate­ matica dell'economia. - ro. [L'utilitarismo. -L'edonismo. - 12. Moralità ed eudemonia.Natura e Spirito. Economia e politica. Stato e religione. Rapporto essenziale tra i due termiai. Laicità. Rel-igio 1nstntme111u,n regni. - 4. Immanenza della religione nello Stato. Stato e scienza. Scienza e filosofia; e rapporto di questa con lo Stato. - 2. Necessità cli questo rapporlo. Cultura. Scienze naturali. L'obbligo di critica della filosofia. Immanenza della filosofia nella politica dello Stato. Lo Stato e gli Stati. Libertà e infinità dello Stato. - 2. P!ui:alità degli Stati, unità dello Stato. - 3. Critica del punto di vista intellettualistico. Concreto punto di vista pratico.  Il riconoscimento degli altri Stati e il Diritto internazionale, - 6,_ )La guerra. -7.) La pace e la collaborazione umana. -fil Impero e ordine nuovo. Xl.-LaStoria. La Storia come storia dello Stato. Storia dell'uomo. Statolatria. Autocritica dello Stato. Rivoluzione. L'Unico.  Umansimo del lavoro. Famiglia. Categorie di lavoratori e rappresentanza politica.-LaPolitica. Definizione della politica. Etica e politica. Im­ possioilità cli un'etica apolitica. Il privato e il pubblico. La teoria dei limiti dello stato. Stato autoritario e demo­crazia. L'anarchismo e il Jiberalis1:no. Bellum omnium contra omnes. Guerra e pace.Ordine. Senti­ mento politico. Genio politico. La politica del fanciullo. La politica in ogni forma di attività umana. Politica dell'arte. Politica della scienza. Politica della lede. - 18. Chiesa e proselitismo. La dottrina della tolleranza. -La politica diritto e dovere. p. 93   l:).'DICE 19r XIII. - La Società trascendentale, la morte e l' im­ mortalità. 11 motivo della fede nell’immortalità. Immortalità e religione. L'equivoco. Illusioni. - 5. Fuga tn01-t1s. - 6. La difficoltà del problema e la soluzione. La morte. L'immanenza dell'azione.NUOVI INDIZI DI HEGELLOSIGKEIT ITALIANA Bollami dell' Università di Leida in un suo interessante opuscolo, qualche anno fa mettev a in, mostra una  lunga fdza di evidenti spropositi commessi da filosofi con¬  temporanei di ogni risma nel parlare di Hegel. E dopo  avere rilevato con 1 ’ Herbart, con l’Alexander, col Barth. col Taggart, che Hegel non concepì mai la follìa 4 Lde-  durre dal pensiero auro ciò che non è puro pensier o (realtà  naturale e realtà storica), ma volle solo sistemare logicamente, — comunque poi si giudichi questa sistemazion e e  la sua possibilità. — la cognizione necessariamente empirica della natura e della storia, soggiungeva: «Intanto  anche F. Paulsen in vólliger Hcgellosigkeit afferma (nel  suo Kant, p. 177) che Hegel deduce a priori la stessa  natura ».Di questa Hegellosigkeit, che non saprei davvero come  tradurre in italiano, di questo stato d' hegeliana innocenza,  cosi caro tuttavia agli studiosi di filosofia italiani, fu dato  recentemente dal Croce 2 qualche cenno' significativo dove  si mostrò con quanta competenza sia stato spesso giudi¬  cato in Italia 1 Hegel da quelli che volevano passare per    1 Alte I ernunft unii netto I’erstami, Leiden. Critica. Saggi critici. suoi avversari. Una prova recentissima ne ha avuta però  lo scrivente per aver curata una nuova ristampa degli Lh -  menti di filosofia 1 di Francesco Fiorentino secondo la pri¬  mitiva edizione del 1877, dall’autore più tardi parzialmente  rifatta e radicalmente mutata nell’ indirizzo dottrinale. Al¬  cuni (tra i quali uomini dotti nella storia della filosofia)  han rimproverato il nuovo editore di aver voluto dare un  Fiorentino hegeliano, laddove il Fiorentino dagli studi  degli ultimi anni della sua vita era stato costretto ad ab¬  bandonare le dottrine di Hegel per accostarsi al neokan¬  tismo. E un insegnante di liceo, a chi proponeva il libro  per testo scolastico, opponeva senz'altro ch’egli non po¬  teva adottare «un libro prettamente hegeliano!)).   Molto probabilmente l’unico fondamento di quest’as¬  serzione, che io denuncio soltanto per richiamare ancora  una volta l’attenzione sulla comune Hegellosigkeit, è in  ciò, che questo libro è stato ristampato per cura mia, e  da me consigliato ai colleghi dei nostri licei. Ma, trala¬  sciando i motivi che mi hanno indotto ad additare il ma¬  nuale del Fiorentino, nella sua forma originaria, come  l ’unico , fra quanti ne abbiamo in Italia, degna , ancoraci  es ser m esso nelle mani dei giov ani e tolto a base d’un  p j nmp~ìnsegnamento filosofico (motivi che credo di avere  sufficientemente accennati nella mia prefazione alla detta  ristampa), qui voglio solo annunziare, col debito  permesso dei colleglli accusatori, che il libro del Fioren¬  tino nella prima edizione non è punto hegeliano;  e che la differenza tra la prima e la seconda edizione non è  divario tra hegelismo e kantismo, ma tra kan¬  tismo ed empirismo spenceriano.   Poiché ne avevo l’occasione, a me parve opportuno to¬  gliere di mano ai giovani, che cominciano a riflettere su  cose filosofiche, un libro, — raccomandato al nome di  Francesco Fiorentino, per tanti titoli benemerito della cul¬  tura filosofica italiana, — nel quale s’insegnava a riflet¬  tere su verità di questo genere : « Kant intende • per a  priori soltanto ciò che non‘è derivato dalla sperienza, ma  che invece è condizione indispensabile, perchè la sperienza    1 Torino, Paravia, 1007: voi I: Psicologia e Logica  sia possibile. Egli non investiga, se questo a priori abbia  potuto originarsi da una associazione di esperienze ante¬  riori accumulate, trasmessa poi per eredità; nè poteva ai  suoi tempi, e prima del Darwin, porre il problema in questi  nuovi termini. L ’q trio ri kantiano è una funzione dell o  spinto , non già un dato : e questo ritenghiamo anche noi :  ma ciò non toglie, che pure di questa funzione si possa  cercare di spiegare la genesi», un libro, in cui si dichia¬  rava che l’d priori kantiano è una semplice fer¬  mata al concetto dell’ attività preformata a  compiere certe funzioni, senza di cui la  sperienza non si farebbe; e che « la filosofia  moderna.... domanda: come si è preformata ? E cerca di  trovar la risposta in due fattori: l’asso¬  ci a z i o n è e la eredità; la prima che accumula, la  seconda che trasmette. Per loro mezzo, l’a priori  dell’individuo sarebbe ciò ch’è poste¬  riori per la specie» (23* ed., pp. 30-31 n.).   E altrove : « Se il fine etico, che è la vita comune, è  stato il risultato di una lunga lotta per l’esistenza, è pur  sempre vero che cotesto primo acquisto viene  oggi trasmesso come eredità, che gl’in¬  dividui trovano, e non debbono più riacquistare »  tp. 288 n.). Proposizioni che si equivalgono nei due campi  della conoscenza e della pratica, e di cui lo stesso Fio¬  rentino. ci dice la fonte, dove avverte (p. 304) che «nella  filosofia dello Spencer ogni a priori è sbandito, e tutto è  spiegato con l’adattamento, o con la trasmissione eredita¬  ria ». E tutta la seconda edizione è ispirata a questo prin¬  cipio della negazione di ogni assoluto a priori: onde si  costruisce nèi primi capitoli una teoria psicologica della  conoscenza che non occorre qui valutare. Quello che non  ha bisogno certamente d’ulteriore schiarimento, è che tale  negazione dell'a priori e tale confusione del problema psi¬  cologico con lo gnoseologico, non può a niun patto ac¬  cettarsi come integrazione del kantismo.   C’era un Fiorentino, che pur poteva presentarsi ai gio¬  vani, e che io ho rimesso in luce; un Fiorentino che non  s’era lasciato sfuggire il vero punto di questa questione  fondamentale dell'a priori, che è pòi il problema di vita o di morte per Io spirito, e quindi della scienza e della  moralità Nella prima edizione lo stesso Fiorentino aveva  detto « Vuoisi avvertire, che l’o priori non si deve inten¬  dere come qualche cosa di preesistente, di preformato.... ma  come una funzione essenziale dello spirito » (nuova ediz.,  P 33 )- Aveva discusso, opponendole l’una all altra, le dot¬  trine di Kant e di Spencer intorno all’apriorità o aposterio¬  rità della coscienza, e aveva dimostrato che non se ne può  dare nessuna derivazione empirica perchè « la coscienza è un  rapporto tale, di cui nel mondo esterno non si trova il cor¬  rispondente; ed è un rapporto semplice, che non si può de¬  durre dalla risultante delle nostre rappresentazioni. L’Io, la  coscienza è originaria. 11 fondamento dell'esperienza  non può essere attinto mediante l’esperienza » (57). E questo fondamento è nella coscienza e nelle sue categorie.  « Se tutto derivasse davvero da dati sperimentali, nè l’idea  di sostanza, nè quella di causa, quali noi le concepiamo,  sarebbero ammissibili. Questo mi pare puro e schietto kantismo ; e se. il con¬  cetto d’una possibile integrazione di Kant per via delle  ricerche psicogenetiche è uno sproposito, che oggi non ha  più bisogno d'essere dimostrato tale, mi pare anche evi-,  dente che ricondurre il manuale del Fiorentino a’ suoi  principii fosse dovere imprescindibile d’ ogni nuovo edi¬  tore, hegeliano o non hegeliano. Perchè, dato e. non con¬  cesso che empiristi si possa essere per proprio conto,  certo per nessuno è più sostenibile una svista di questo  genere per cui, appunto a proposito dell interpretazione  di Kant, una questione gnoseologica si scambia con una  questione psicogenetica.   Hegel, dunque, non c’ è entrato proprio per nulla, be  ci fosse stata del Fiorentino un’edizione hegeliana ante¬  riore alla kantiana, chi sa!, avrei preferito il Fiorentino  hegeliano al kantiano. Ma gabellare per hegeliano quello  che ho dovuto e potuto scegliere, francamente, mi pare  indizio di Hegellosigkeit ! Pur troppo, anche nella prima  redazione del suo manuale il Fiorentino rende omaggio  al fantasma della materia opposta all’attività formale dello  spirito; e nell’etica, invece di correggere il timido forma¬  lismo kantiano col formalismo assoluto, crede di compierlo  con l’eudemonismo aristotelico. Non importa: sempre meglio, infinitamente meglio Kant, anche se non perfezio¬  nato, che Spencer!   Si sente, per esser sinceri, negli Elementi del Fiorentino un’eco lontana dei Principii di filosofia (1867) dello  Spaventa. Ma non più che un'eco, nel paragrafo sull’auto-coscienza. Ma, se Hegel s'avesse a rannicchiare  in quell'autoctisi della coscienza accordata con tutto  il formalismo astratto accettato e difeso dal Fiorentino,  io ritengo che potrebbero andare a braccetto con lui tutti  i kantiani più scrupolosi del mondo.Genovesi comincia a pubblicare in  Napoli i suoi Elemento, metaphysicae. Vico ha due profonde intuizioni fon¬  damentali: una intorno alla potenza costruttiva dello  spirito, per cui anticipò il principio di soggettivismo  kantiano; P altra intorno al concetto dell’ assoluto come  sviluppo nella natura e nel pensiero, per cui anticipò  il principio della nuova metafisica dimostrata dalla Lo-  >jica di Ucgel. Ne’ 6tioi Elementi di metafisica il Geno¬  vesi invece si mostra seguace di un incoerente sincre¬  tismo, in cui la monadologia leibniziana s’ accoppia con  l’empirismo di Locke. Così la tradizione del grande  pensiero di Vico è spenta sul nascere, e finita con  1’ uomo che nella solitaria meditazione del diritto, anzi  di tutto lo spirito come vive nella storia, aveva attinto  una forza speculativa che lo pose al di sopra e fuori  del tempo suo, episodio solenne nella storia del pen¬  siero italiano. Gl’ interpetri del pensiero di Vico non  furono nè i suoi coetanei, nè i suoi immediati successori  nella filosofia italiana in genere e napoletana in ispecie. La vera interpetrazione cominciò in Germania col Jacobi, 1  dopo Kant, e fu compiuta in Italia in quel fervore di  pensiero nuovo, che venne suscitato dall’ hegelismo, da  Bertrando Spaventa. Tra Vico e Spaventa — i cui primi scritti cadono  attorno al 1850, — per tutto un secolo, c’ è un’ inter¬  ruzione nello sviluppo dell’ idealismo iniziato dalle opere  di \ ico ; nella quale il pensiero napoletano si appropria ed  elabora per conto suo la moderna filosofia europea. Questo  movimento, che riempie tutto il secolo che va dalla  metà del secolo XVIII alla metà del XIX, può essere  designato dai nomi dei due pensatori che aprono e chiu¬  dono tale periodo, Dal Genovesi al Galluppi. E così  appunto s’intitola la monografia, nella quale ho cercatq  d’illustrare tutti gli studi speculativi più notevoli di  cotesto periodo. 3   Può recar meraviglia, che la ricerca sia così limitata  dentro i brevi confini di spazio accennati dai nomi stessi  del Genovesi e del Galluppi, e corrispondenti ai confini  del reame di Napoli, ila chi ponga mente alle condizioni  d Italia per tutto il tempo del dominio borbonico, alle  piofonde differenze civili e politiche e letterarie, in una  paiola, storiche, tra la parte meridionale e il resto della  penisola, troverà ovvia e storicamente esatta la linea  da me tracciata intorno ai pensatori che ho studiati e    Vedi lo scritto Voti den gòtlUchen Lìingen unii ihrer Offenbarung  (1811), in Werke, Leipzig. Sul kantismo vicinano cfr.  specialmente Tocco, Descartes jugé par Vico in Reme de métaphy-  sigue et de morale del luglio 1896, pp. 568-78, e gli scritti da me  citati nel Discorso premesso agli Scritti filosofici di B. Si’avknta Na-  poli, Vedi tfli Scritti Studi di letteratura , storia , filosofia , pubbi. da B. Crock, voi. I  (Napoli, Edizione della Critica). considerati come formanti una speciale serie storica  a sé.   3. Pel carattere generale della loro filosofia questi  pensatori costituiscono una continuata corrente di em¬  pirismo, a cominciare dal Genovesi stesso, in cui ben  presto il principio critico dominante nell’ empirismo  lockiano corrode ogni concetto metafisico, fino ad COLECCHI, filosofo abruzzese pochissimo noto  — benché i suoi scritti consacrati all’ interpretazione di  Kant, quelli specialmente relativi alla filosofia pratica,  possano ancora esser letti con profitto — il quale, pur  combattendo la «filosofia dell’esperienza» del Galluppi  dal punto ili vista del kantismo, insiste tuttavia su  talune correzioni eh’ ei vorrebbe apportare alla Critica  Mia ragion pura in un senso decisamente empirico¬  oggettivo.   Ma tutti quosti empiristi si potrebbero dividere in  due generazioni: 1 una di ideologi e l’altra di criiicisti;  e tra mezzo a queste un gruppo di seguaci della filosofia  scozzese e di eclettici. Tra gl’ ideologi scrittori come DELFICO, BORRELLI e BOZZELLI meritano  certamente di esser posti accanto agl’ ideologi contem¬  poranei francesi, ai Cabanis, ai Destutt de Tracy, coi  quali essi formano quasi una sola famiglia, rispecchian¬  done spesso il pensiero pur senza ripeterlo. Anzi il Bor-  relh e il Bozzelli stanno, 1’ uno per la sua genealogia del  pensiero (com’ ei chiamava la sua filosofia dello spirito) e  per la sua critica di Kant, e 1’ altro pel suo tentativo di  morale intellettualistico-utilitaria, al di sopra dei francesi;    di 8 ‘ ba,la a " a dala di P“*»bUM*lone delle opere   di quest! filosofi e al tempo (leir influenza da essi esercitata; giacché  per a nascita due degli ideologi furono più giovani dei criiicisti.        il cui valore nondimeno fu giustamente rivendicato nella  storia della filosofia dall’ ottima monografia del profes¬  sore F. Picavet su Les idéologues.  Una pari rivendicazione in prò dei confratelli italiani  vuol essere in parte il mio lavoro, mediante una larga  notizia e uno schiarimento delle loro dottrine. Onde ci  son rimasti documenti notevolissimi in libri ed opuscoli  estremamente rari, nelle riviste del tempo e in mano¬  scritti ancora inediti.   4. In mezzo alle due generazioni alcuni pensatori levano la voce contro le tendenze materialistiche, palesi   o nascoste, proprie del pensiero speculativo di questi  ideologi, traendo autorità e argomenti dalla filosofia del  senso comune del Reid o dall’ eclettico spiritualismo del  Cousin e della sua scuola. Non hanno nessuna origina¬  lità di dottrine : ma con le loro esposizioni e coi loro  commenti di molti libri francesi, eco, per quanto fioea,  di celebri filosofie europee, valgono a suscitare o pro¬  muovere un moto di studi e di partecipazione al lavoro  filosofico straniero, onde a poco a poco si ringagliardisce  la fibra del pensiero napoletano, e si prepara una scuola  di veramente alto e libero filosofare: da cui uscirà l’e¬  stetica di Francesco De Sanctis e la metafisica e la  storia della filosofia di Bertrando Spaventa. In questa  parte la mia monografia studia scrittori mediocri, testi¬  moni di cotesta preparazione al risveglio filosofico po¬  steriore.   5. Nella seconda generazione campeggiano due figure  principali: P. Galluppi e 0. Colecchi: due kantiani, di  cui si può dire che la vita speculativa si consumi tutta  nella meditazione del criticismo. Ed entrambi riescono  per due vie opposte al medesimo risultato, che è di  accettarlo sostanzialmente e di farne penetrare profonda¬  mente lo spirito nella filosofia del loro paese. Il Galluppi   À combatte sempre, o quasi sempre, un Kant immaginario  con le armi del Kant reale ; e il Colecchi combatte con  le armi stesse un immaginario Galluppi, o almeno un  Galluppi che non è il vero, poiché non vede di lui che  la dichiarata opposizione al kantismo, e non scorge mai  il valore intrinseco delle dottrine da lui professate. Dalla  curiosa situazione di questi due pensatori, che genera  altre false posizioni nella filosofia italiana successiva,  nascono, com’è agevole pensare, due conseguenze: 1°  che la scuola dei galluppiani continuerà a combattere  Kant e tutta la filosofia tedesca posteriore, sempre meglio  conosciuta in grazia dell’influsso francese già accennato;  2° che la scuola del Colecchi e dei tedescheggianti con¬  tinuerà per un pezzo a disconoscere il vero valore del  pensiero del Galluppi e di quella filosofia italiana, che  da lui prende le mosse : ossia della rosminiana e giobertiana.   6. Se da queste ricerche si sottrae la parte che con¬  cerne il Genovesi e il Galluppi, si può dire che esse  scoprano una regione presso che sconosciuta nel campo  della filosofia moderna. E poiché anche del Genovesi e  del Galluppi questo studio analitico della serie in cui  essi rientrano, pono sotto una luce in parte nuova e in  parte più chiara il significato e il valore, può pure af¬  fermarsi, che l’insieme di queste ricerche colmi una  lacuna nella storia della filosofia italiana, anzi della  europea. Vico, infatti, e l’interpetrazione di Vico, i due  termini al cui intervallo coleste ricerche si riferiscono,  non sono due capitoli della storia della filosofia italiana,  ma due capitoli della storia della filosofia europea: ed  è difetto gravissimo quello che può notarsi in proposito  in tutte le recenti storie straniere della filosofia moderna.  A. Genovesi, M. Delfico, P. Borrelli, F. P. Bozzelli,  P. Galluppi e 0. Colecchi sono nomi ai quali, una volta conosciuti gli scritti a cui sono legati, devesi pur  rovare un posto, e non degl’ infimi, nel quadro degli  u imi tentativi dell’empirismo naturalistico e materia¬  listico del secolo XVIII e delle feconde discussioni  suscitate dalle Critiche di Kant in ogni paese civile. « Il trionfo dell’ Idea » in Italia :   Antonio Tari e Floriano Del Zio   Fin dal 29 ottobre 1860 B. Spaventa era stato nomi¬  nato professore di Filosofìa nell’ Università di Napoli ;  e la sua nomina — scriveva a lui stesso il De Meis, da  Napoli — era stata accolta in questa città « con una  commovente impazienza dai giovani e dal pubblico ». Ma   10 Spaventa chiese ed ottenne di tornare e restare qualche  tempo a Bologna, dove nel maggio era passato, da Mo¬  dena, a insegnare Storia della filosofìa, per farvi almeno   11 primo corso semestrale e « non mancare al suo dovere  verso quella Università». A Napoli, dopo una rapida  corsa nel novembre, non andò se non negli ultimi  mesi dell’ anno appresso. Era a Torino dall’aprile, perchè  eletto deputato di Atessa (ma la sua elezione fu annul¬  lata il 25 giugno per eccedenza del numero legale di  deputati professori, * quando gli pervenne la seguente    1 Già pubblicato nella Critica del 1906; ma qui ristampato con  molte aggiunte.   * Vedi per questi particolari il mio B. Spaventa, Firenze, Vai-  lecchi, 1925, p. 109. lettera di Floriano Del Zio, che è un curioso documento  delle disposizioni degli animi verso 1’ hegelismo nella  gioventù colta di Napoli, da cui lo Spaventa era atteso :   Napoli, 30 giugno 61.   Amico carissimo,   Mi prendo licenza di togliervi con questa mia una piccola  parte del tempo che cosi lodevolmente sacrate alla scienza.   E per due ragioni. Per procurarmi il bene di aver vostre  novello, e per dirvi poi alcunché sul trionfo dell’ Idea, alla  qualo abbiamo data la nostra fede.   Sono pervenute qui in Napoli parecchie copie del nuovo  libro di Vera (V Hégélianisme et la Fhilosophie). T. lavoro  scritto con molta spiritosità, e che non solo porrà a dovere  1’ intelletto superficialissimo degli ecclettici francesi, ma farà  pure il suo buon effetto in mezzo al dilettantismo filosofico  de’ nostri dominatici. Si comincia a sentire come il Pensiero  sia P infinita misura e forza, che, battuto ogni positivismo  storico e morale, eleverà ad armonia vivente Essere e Spirito,  Natura ed Umanità. — Son persuaso p. es. che il signor Pes¬  ame, che tanto ride dell’ Jissere-per-si — e della Fila ridotta  a Pensiero da De Meis, cesserà di sparlarne così frequeu-  temeute, dopo che avrà contemplato il gaio spettacolo che ha  dato di sé Monsieur Jauet.   Come Hegel disse che ai tempi della Rivoluzione francese  una nuova vita, un nuovo sole sorgevano per risplendere in  mezzo agli uomini, noi possiamo dire che oggi il suo proprio  principio filosofico, l’Assoluto Spirito, è la forza che dovrà  consapevolmente invadere ogni cosa, e chiarificare le creature  tutte quante di un raggio della idealità infinita. Affrettatevi,  amico, a partecipare alla gran vittoria. Felice voi, che siete  sì bene apparecchiato a questa lotta, che chiude nel proprio  grembo 1’ adempimento della libertà assoluta dell’ Uomo, e  quel regno di giustizia e di amore, a cui tutte cose corrono  come al bacio dell’ Universo, giusta il bel dotto di Schiller:  Diesen Kur der ganzen IVelt !   Il punto però che nel libro del Vera avrei desiderato più  estesamente sviluppato, è quello della pluralità dei mondi. I,a  dottrina di Hegel su questa materia non può essere difesa  che movendo dal principio dell’ Unità della Coscienza di si dello Spirito, unità che, nel presupposto della pluralità de’  mondi, avrebbe fuori di sè i circoli della vita siderea oltre¬  tellurici ; e cesserebbe d’ essere in conseguenza la pieua ed  una Coscienza di sè. A questa è necessario che tutto 1* essere  sia suo sapere.   La dottrina poi dello Spirito assoluto, ne andrebbe, in quel  presupposto, interamente falsata. Noi non conosceremmo pili  l’Assoluto, come vuole Hegel, ma l’Assoluto umano. E, non  potendo darsi ripetizioni nello spirito, si dovrebbero porre,  post’ i mondi come innumerabili, intellezioni intinite, infinita¬  mente diverse, dell’ istesso Assoluto. E dove sarebbe l’idealità,  1’ unificamento di esse? Se si risponde: nell’Idea medesima  dell’Assoluto — , altri potrebbe osservare che quest’ idea ap¬  punto è quella che deve essere concreta nell’Umanità. L’U¬  nità della Rivelazione universale dello Spirito sarebbe sempre  un postulato. Krause immagina una sintesi superiore do’  pianeti e delle stelle; ma la comunione dell’Umanità terrestre  colla solare è sempre data da lui come un’ intuizione, come  un desiderio!   Anche il signor Tari, riconosce nella sua Lettera la necessità  della pluralità de’ mondi. Ma in questa ipotesi vedo sempre  che 1’ indeterminato piglia il Inogo del sistematico, e che il  fantastico si sostituisce alla scienza. Diventa oramai neces¬  sario di approfondire maggiormeute 1’ infinito matematico nel-  1’ influito filosofico, e sottomettere cosi 1’ astronomia al con¬  cetto della finalità assoluta, lo Spirito.   La lettera però del Tari appunto perchè, com’ ei dice,  tiene il germe del suo proprio sistema, avrebbe dovuto essere  più lunga e scritta più chiaramente.   Vi prego intanto mandarmi una copia della vostra prolu¬  sione alla storia della filosofia italiana, perché n’ ebbi ili dono  nell’anno scorso una copia dal vostro fratello D. Silvio; ma  quando scesi in Basilicata per 1’ insurrezione, la sperdei a  Potenza, e non ho potuto procurarmene un’ altra. Se poi con  questa mia preghiera dovessi riuscire indiscreto, allora usa¬  temi la cortesia dirmi presso chi è vendibile a Torino, perchè  sarà mia cura farla richiedere da librai napoletani.   Quando portate a stampa il vostro libro su Gioberti f Esso  dovrà levar grido straordinario, secondo che mi accennano i  comuni amici, e per quanto ancor io presagisco dal vostro  ingegno. Date presto ; e nel frattempo compiacetevi di tenermi di tanto in tanto consapevole de’ vostri stndii, e segnatemi •   quelle opere che possono concorrere all’ aumento vero della  scienza.   I miei ossequi a Tari ed all’ egregio De Sanctis. Se posso  attestarvi in alcunché la uiia devozione, comandatemi libe¬  ramente.   Vostro amico  Flokiano Dei. Zio.   AH’ Egregio Spaventa   Deputato al Parlamento Italiano in  Torino.   II libro, da cui il Del Zio prende le mosse, è 1 ’ Hé-  gélianisme et la Philosophie (Paris, Detken 1861), che il  Vera, allora professore di Storia della filosofia nell’Ac¬  cademia di Milano, aveva pubblicato poco innanzi per  ribattere le critiche mosse ali* hegelismo da Paul Janet  e da altri scolari del Cousin. — Enrico Pessima, già di¬  scepolo del Galluppi, dal Galluppi era passato al Gio¬  berti e dal Gioberti al Krause; e mormorava contro  Hegel e gli hegeliani 1 .   La lettera di Tari, a cui il Del Zio accenna,  è un articolo, uscito appunto nel fascicolo della torinese Rivista contemporanea, col titolo:   De’ rapporti del Kantismo collo stato della filosofia in  Alemagna, Lettera filosofica. Il difetto di chiarezza la¬  mentato in questo scritto dal Del Zio, e divenuto  poi sempre maggiore e sempre più caratteristico del-  P ingegno del Tari, — che ingegno ebbe e una certa  bizzarra genialità — aveva fatto dire allo Spaventa, in  una lettera a suo fratello Silvio, dell’8 marzo 1858:   «Ho letto molti mesi fa un articolo di Totonno... Un    1 Vedi il mio B. Spaventa, p. 114; Spaventa, La fllos. ital. in re¬  lazione con la fllos. europea,' p. 275 e una lettera dello stesso Pes-  sina nella Critica  articolo filosofico, come puoi immaginarti, sopra un  punto di estetica. Mi pare che abbia studiato finora per  imparare a non farsi capire. I tedeschi non sono facili  a comprendersi, e la colpa è un po’ anche loro. Ma i  più difficili tedeschi sono facilissimi di fronte a Totonno;  il quale mi pare che abbia preso da costoro più i di¬  fetti che i pregi. Ti dico, in confidenza, che sono ri¬  masto trasecolato; e che, dopo tanti anni e con tanto  ozio, mi aspettavo qualcosa di meglio da lui »*.   « Dopo tanti anni ! » S’erano conosciuti a Cassino, quando  Bertrando insegnava a Montecassino (tra il 1838 e il  1840); e il secondo giorno, seduti fraternamente sulla  sponda d’ un letto, Bertrando apriva così la conversa¬  zione: «Dunque, che ne pensate delle categorie kan¬  tiane?»-. Da lui lo Spaventa aveva appreso i rudimenti  del tedesco ; e, col suo aiuto, acquistato familiarità con  la letteratura filosofica tedesca. Nella quale il Tari,  chiuso dal 1849 al 18G0 nella solitudine di un villaggio  (Terelle, in provincia di Caserta), s’era sprofondato,  accumulando una meravigliosa erudizione. Questa però  non valse in verità a rischiarare il suo pensiero. Il  quale dall’assoluto idealismo di Hegel finì nell’agno¬  sticismo del suo cosidetto Innominabile ; in cui credette  si '_ lovesse fondere in una unità superiore lo spinozismo  e 1’hegelismo; in quanto il divenire della logica pre¬  suppone un principio, che, essendo fuori del divenire,  è fuori della logica; e non si può chiamare Volontà, nè  Monade, nè Inconscio, nè Noumeno, nè altro; poiché  ogni nome importerebbe conoscenza, quindi un movi¬  mento di pensiero, quindi il divenire. È un’ essenza    p 'ri SPAVBNTA ’ Dal 184i al i8G1 < leU < scruti e (toc., ed. Croce,» Cotuono, Le lettere di A. Tari in diresa dell’ « Innomina¬  bile», Iranl, Vecchi, non battezzata e non battezzatile, l’Innominabile. « An-  ch’ io, Bpecie di Lohengrin, difendo il santo Graal.  Sapete qual’ è? La dotta ignoranza, che Hegel chia¬  mava l’ignoranza dotta».   Non è questo il luogo di chiarire questo innominabi-  liBmo o limitiamo, — com’ egli anche lo chiamò, — del  Tari *. Giova piuttosto ricordare un aneddoto dello Spa¬  venta. Il quale, richiesto di consiglio da uno scolaro  del Tari per una dissertazione di laurea circa il diritto  di punire, il 29 settembre 1882, gli scriveva : « Ti vo¬  levo suggerire di chiedere consiglio al nostro caro Tari.  Chi sa, l’Innominabile! Ma come cavare da lui il di¬  ritto di punire? Mi ricordo di aver detto a Tari, quando  fu nominato professore ordinario (nel 1873), che la sua  nomina era in contradizione coll’ esistenza dell’Innomi¬  nabile, principio, essenza, natura, causa di ogni cosa  e avvenimento. Figurati il diritto di punire!» 1 . — Il  Tari, che di questa lettera doveva aver notizia dallo  scolaro, rispondeva a questo: « Par¬  liamo ora un pò del quesito, con cui mi tenta 1’ ami¬  cissimo Bertrando Spaventa. Eccolo: —Come concilie¬  remo il diritto di punire con la dottrina dell’ Innomi¬  nabile? — Se fossi profeta, o figlio di profeta, di  rimbecco direi : Vade retro, Satana. Noli tentare Tariiim  admiratorem tuum! —- Ma, non essendo Gesù, nè gesuita,  mi contento di rispondere con un tibi quoque. Ossia: —  Anche a te, o pensatore liberissimo, fa intoppo questa  pietra di giuridico scandalo? Anche a te metterebbe  conto salvar capra e cavolo ; cioè la capra della Feno¬  menalità di ogni fatto umano, ed il cavolo della pretesa    * V. le mie Orig. della / Uos. contemp. in Italia, III, pari. II,  pp. 28-37.   * COTI’GNO, Leu. cit M p. 43.        Giustizia Assoluta? Eppure ricordo che, disputando  con me di questo brocardico, uscisti in questa categorica  sentenza: — La pena non è che una valvola di sicu-  rezza che la società impiega a garentirsi di chi la in¬  sidia 1 . E di fatto, il voler costruire a priori un ma¬  nifesto modus rivendi essenziale, epperò cangevole etno-  crono-topograflcamente è marcia follia. La Idea Giustizia  Assoluta anzidetto, s’ ha a lasciare nel natio concavo  della luna, insieme al cervello dei tanti Astolfì dell’in¬  natismo. Chi ben pensa, riconosce la deplorevole povertà  di siffatte deduzioni... Diritti e doveri, Pene e ricom¬  pense non giacevano in seno a Giove, a mo’ delle uova  dell’aquila esopiana, ad aspettare che lo scarafaggio  umano le facesse rotolare nel basso mondo; ma si for¬  marono, con un quasi stillicidio psicologico, a poco a  poco scavandosi un bucherello nel naturale egoismo...   E tutta la giustificazione delle pene, da quella del ta¬  glione e quella penitenziaria, che è ancora in Werden  si riduce a formare la necessità di salvarsi al bosco  dalle belve accoppandole, ed alla città dai birboni ren¬  dendoli incapaci di nuocere. Ora quali sono i birboni?  ** U1 e 11 busil tis; e qui interviene P Innominabile a  comporre la gran lite, illuminando i legislatori sul da  fare in sullo sdrucciolo del dispotismo, dove si trovano  sempre... Il codice penale, non che un bene in sè, è un  necessario male, presso a poco simigliante alla chirurgica  estirpazione di un arto, il quale, se curabile, anche a  dilungo, l’operatore rispetta religiosamente... Un inno-    mi 'n^ 10 S , paventa avrà l )ure " sa[0 '(«està frase. Ma la valvola per  del delino, ! V ? Cbe neCessaria ' c °“>« necessaria era l'insidia   dello s r n e a,,a | S0Cie,A: d ’"' ,a necf8sUà Andata su"» natura  o spirito, ossia sul concetto concreto del bene. Il genuino pensiero  dello spaventa intorno all'assoluta giustificazione della pena é ne  suoi Principi di dica, ed. Gentile, p. 102 sgg.        minabilista può solo affermare, in barba a tutti i dot¬  trinari criminalisti del mondo, come qualmente il bar¬  baro Kedivè egiziano funzionerà legalmente, da par suo,  fucilando e forse impalando 1’ eroe Arabi pascià, reo di  non aver saputo nascere dove e quando dovea. Ed in-  neggerà al magnanimo Umberto, il quale, facendo grazia  all’abietto Passannante, confondeva molti tirannelli stra¬  nieri e mostravasi anche dappiù del Re Galantuomo  suo padre, cioè filantropo e progressista. In Oriente il  palo, in Occidente 35 legislazioni che aboliscono il car¬  nefice (v. ult. lett. di Victor Hugo): chi ha ragione?  Secondo l’illustre prof. Vera ha ragione il palo!... 1  Insomma, le cose anzidette tumultuariamente, a modo  mio, rispondono su per giù al caro mio tentatore Asmo-  deo Spaventa »*. — Avviatosi per la sua striida, il Tari,  dunque, negava coraggiosamente jT diritto come diritto.  Poeto-1’ assoluto di là dal divenire, nel divenire, ch’egli  vedeva indirizzato a un Nirvana iperindividualistico, non  poteva trovare niente d’ assoluto. Per lui il magnifico  proemio dello Spaventa ai Prineipii di etica (1869) in¬  torno al rapporto dell’assoluto col relativo, e quindi al  concetto dell’ assoluta relazione (per cui 1’ assoluta giu¬  stizia non solo comporta, ma richiede per la propria  realizzazione tutti i modi di esistema cangevoli etno-crono-  topouraficamentc), non era stato scritto. E come in quel  concetto è il segreto dell’ hegelismo, era naturale che  egli non riuscisse ad orientarsi e a vedere la nullità  del suo Innominabile in quanto tale, in quanto sostanza,  cioè di qua dallo spirito.   Il Tari fu insomma de’ tanti che girarono attorno a    1 A. Vbra nel 1883 pubblicò un opuscolo La pena iti morte (risi,  nel Sappi filosofici, Napoli, Morano, 1883. pp. 37-381, dove svolgeva le  ragioni del sistema hegeliano in sostegno della pena di morte.   * COTUONO, Hegel, ricevendone magari ispirazione e suggestioni fe¬  conde, senza scoprire il principio vero del suo pensiero.  Molti si ritrassero presto sconfortati dall’impresa; etra  questi il Del Zio, che con tanto entusiasmo nel ’61  studiava le opere e la letteratura hegeliana; e ansiosa¬  mente aspettava gli scritti dello Spaventa (la prolusione  letta a Modena sul Carattere e sviluppo della filosofia  italiana del secolo A VI sino al nostro tempo ‘ e la Filo¬  sofia di Gioberti, di cui il I» volume usci nel 1863) per  fede vaga che indi potesse venirgli la luce.   Il Del Zio allora si preparava a un corso di lezioni,  sulla Enciclopedia di Hegel. Al quale infatti proluse  alcuni mesi dopo con una enfatica lettura, la quale,  come documento aneli’ essa de’ tempi, merita d* essere  ricordata: Prolusione al corso di lezioni sulla Enciclopedia  delle scienze filosofiche di Hegel; letta in privato con¬  vegno ne’ dì 16 e 18 novembre 1861*: scritto pieno di  giovanile entusiasmo e di ardore filosofico. Oltre le opere  del Vera, fin allora pubblicate, l’Autore vi cita ed esalta  1 aurea operetta di Karl Werder (Logile, als Commentar  u. Ergdnzung zu Hegels ÌViss. der Logik, 1 Abili, Ber¬  lino Idèi) « restuta incompiuta con grave danno di co¬  loro che s’ iniziano alla filosofia hegeliana » (p. 22);  i Esquisse de logique di K. L. Michelet (Paris, 1866); e    1 Risi, in Scritti filosofici, ed. Gentile pp. 115 sgg. Giorgio Pallavi¬  cino, a una figliola del quale lo Spaventa aveva privatamente Im¬  partito qualche lezione, gii scriveva per questo opuscolo:   Amico pregiatissimo,   l.a ringrazio della sua Prolusione — un magnifico lavoro — il quale  rnfiìf. -u- l Sn me . *' (le ?. l . ller ‘° di vp| ter presto pubblicata la grande  Opera eli Ella sta meditando. Ammiratore di Vincenzo Giohprti. posso  io non ammirare il suo degno interprete: II. Spaventa? lo l’ammiro  e i amo!    Giorgio Palla vicino.   * Napoli, S. Marchese, IMI, di pp. 8-1 In 16». Reca quest'epigrafe:  « Essere, sapersi e volersi come la Personalità eterna dello Spirito,  ecco il line della lilosofla ». di questo le lezioni Ueber die Persònliehkeit Oottes u.  Unsterblichkeit der Seele, oder die ewige Persònliehkeit des  Geistes (Berlin, 1841) ; le quali « quando furono pub¬  blicate, tenevano aspetto di polemica negativa in rap¬  porto a certi donimi dell’ intelletto ; ma 1’ avanzato  sviluppo della scienza ha tolto loro il senso irreligioso,  che gli avversarti accaniti dell’ hegelianismo volevano  a forza vedervi dentro. E debbono così considerarsi come  la teorica potente della nuova sintesi dall’ umanità »  (p. 41): ciò che appare, nota il Del Zio, dell’opera  maggiore del Michelet, Die Epvphanie der ewigen Per-  sònlichkeit des Geistes (in tre diali., 1844, 47 e 52). A  proposito del problema hegeliano del punto di partenza  fenomenologico e logico della filosofia, l’Autore dichiarava  di sperare che le difficoltà sarebbero state da lui sciolte  più chiaramente nelle note a una sua traduzione del  System der Wissenschaft, ein philosophisches Eincheiridion  (Koenigsberg, 1850) del Rosenkranz : « che avrei di già  pubblicata senza la tirannide borbonica, o la guerra che  tutto il mondo ha fatto e fa presso noi al libero pensiero»  (p. 23). Un altro suo lavoro concerneva la filosofia di  Krause, la quale, specialmente per mezzo di Ahrens  (il cui Corso di diritto naturale , 1838, era molto letto  dagli avvocati di Napoli, ed era stato anche tradotto  già due volte in italiano, da Francesco Trincherà e da  Vincenzo De Castro 1 ) poteva dirsi « in qualche modo  popolare nelle nostre province ». « Le sue Lezioni sul  sistema della scienza (Vorlesungen nb. System der Philos.,  1828)», dice il Del Zio, « e 1’ampio sviluppo enciclo-    1 Corso Ul Diruto naturale o della ftlos. del dir. traci, da Fr. Trin¬  cherà, Napoli. 18-11, e Capolago, 1812. Nuova trad. eseguita sulla  quarta ed. dal prof. V. De Castro, 2. voli., Napoli, Stab. Tip. dell'An¬  cora, 1860. Più tardi la sesta ed. (uscita in ted., Vienna, 1870-71) fu Irad.  in italiano da A. Margllieri, Napoli pedico eh’ egli tentò dare a tutto lo scibile rivelano in  classico modo il fermento incommensurabile dal quale  era travagliata 1’ intera Allemagna alla vigilia dell’ ap¬  parizione d’ Hegel sul teatro della scienza. Ma in Krause  c’ è il presentimento della scoperta, che fu fatta invece  da Hegel »; e questo giudizio era il « risultamento di una  conveniente disamina » . « A tanto speriamo di adempiere  più tardi, pubblicando un nostro lavoro, che ha per ti¬  tolo: Studii sul rapporto del Sistema della scienza di  Krause a quello di Hegel » . Appunto per quella certa  popolarità che il Krausismo aveva acquistata anche nel  Napoletano, il Del Zio stimava opportuno che fosse di¬  scussa la sua teorica generale da’ cultori della filosofia.  « Se non cominciamo a disputare pubblicamente sulle  nostre convinzioni speculative, il trionfo della scienza  e il progresso della nazione non saranno nè liberi nè  universali » L’opuscolo era dedicato Alia gioventù napoletana con  parole di questo tono : « A voi dedico, o fratelli, questo  piccolo lavoro, il quale non è altro che il programma  dell andamento scientifico, a cui dovrebbe avviarsi, se¬  condo le mie convinzioni, il nostro paese, per essere  in armoniu coll’ indirizzo generale della scienza in Eu¬  ropa. Se vi parrà vero, Voi, più che me, potrete con¬  durlo ad atto, perchè 1’ amico vostro, comechè giovane,  è già percosso dai dolori dell’ animo e dalle sofferenze  lei corpo che 1’ opera dissolutrice della tirannide seppe  in molti generare negli anni scorsi». Continuava an¬  nunziando che, accettato il suo programma, tre fiamme  divine sarebbero venute ad accendere 1’ anima dei gio¬  vani napoletani : tre sedendovi d’ un unico sole, il libero  Pensiero ; le tre fiamme della Filosofia, della Rivoluzione,  dell’Amore. «Colla prima darete fine alla superstizione  del Papato, la più maligna fra quelle che ancora corrodono lo spirito moderno. Colla seconda scrollerete il  Dritto divino ed ogni altra specie d’irragionevole im¬  perio. E coll’ ultimo tramuterete le rovine in creazione  eterna di bellezza e di verità ; costituirete I* Italia, e  getterete il fondamento alla fratellanza democratica di  tutta Europa».   Svolto brevemente il concetto della Fenomenologia  dello spirilo, per mostrare come lo spirito sia necessa¬  riamente condotto dalla sua interna dialettica al punto  di vista del sapere assoluto, il Del Zio schizzava con  pochi tratti l ’ideale della scieina, a cui egli invitava  con molto calore : « Deliberando di seguirmi fraterna¬  mente nel mondo del sapere, renderete testimonianza  dell’ istinto divino che move lo spirito del nostro tempo,  e della vita novella d’Italia resa a sè stessa ed alla  sua naturale grandezza... Il nuovo metodo dell’insegna¬  mento filosofi co è il metodo della morte e dell’ amore  assoluto», della morte alle cose finite e a se stesso, e  dell’ amore per 1’ assoluto, in cui lo spirito deve rina¬  scere. Quindi combatteva le obbiezioni mosse all’ hege¬  lismo «dalla corta vista dell’intelletto 1 o del sentimen¬  talismo ipocrita della santocchieria » . Ai filosofi dell’ in¬  telletto, del pensare finito addebitava la loro incosciente  predilezione dello scetticismo e del nullismo: e dimo¬  strava che « non solo il sapere assoluto è possibile, ma  che esso è 1’ unicamente possibile » ; poiché ninna realtà  finita, naturale o spirituale, può dirsi conosciuta fuori  del sistema, in cui essa va concepita. Ai mistici di  buona o di mala fede, cercava d’ additare il carattere  intrinsecamente religioso della filosofia hegeliana, nella  quale la verità della religione non è negata, ma trasfi¬  gurata e fatta valere per la ragione, assolutamente. In-    1 Intelletto (Verstand), nel senso di Hegel.      fine, combattendo anche lui il pregiudizio, allora sal¬  dissimo tra i giobertiani di Napoli, del primato italico-  e della filosofia nazionale, sosteneva, a simiglianza dello  Spaventa, ohe « la grandezza del nostro spirito non è  tanto nel sapersi precursore di tutto l’incivilimento  occidentale, quanto nel prevedere che dev’ esserne il  successore eterno ». Si ammira Vico: ma egli « travagliò  por tutta la vita per provare che uno spirito solo regge  il mondo delle nazioni, che una è la mente dell’ Uma¬  nità, e che un piano ideale stringe in armonia assoluta  la totalità de’ fatti politici e le forme svariatissime del-  1’ intera vita sociale». «La storia della filosofia è dav¬  vero un’ opera unica, una sola attività produttrice...  Le frutta abbondanti di quei primi pensieri filosofici,  che gl’ italiani del XV e XVI secolo destarono nella  coscienza umana sono appunto i grandi sistemi della fi¬  losofia moderna... Nutricandoci del supere e della vita  europea, noi vendicheremo lo spirito de’ padri nostri,  celebreremo la festa di commemorazione a quel Risor¬  gimento, che il papato e l’Impero soffocarono nel sangue  di tutta la Penisola» : sopra tutto a Bruno, la cui vita  randagia per 1’ Europa, ma cominciata in Italia e in  Italia tragicamente finita, sembra al Del Zio il sim¬  bolo divino del corso storico della filosofia mo¬  derna nel mondo. E col ricordo della vita del Bruno e  un invito a vendicarne la morte facendo tornare in  Italia la sua filosofia arricchita nel suo secolare viaggio,  termina questa prolusione.   Cinque giorni dopo leggeva nell’ Università la prolu¬  sione al suo corso lo Spaventa, tornando a trattare il  tema : Della nazionalità nella filosofia. Fiorenti Waddingtoìi e D. Spaventa   Affrettando col desiderio la pubblicazione dell’ impor¬  tante carteggio della marchesa M. Fiorenti Waddington  tuttavia posseduto dalla famiglia di Francesco Fio¬  rentino, gioverà spigolare tra le carte dello Spaventa,  alcune lettere e ricordi di questa egregia donna, che  non ci paiono inutili alla storia della fortuna di  Hegel in Italia. Quando la Florenzi entrò in rela¬  zione con lo Spaventa aveva passata la sessantina,  essendo nata nel 1802: da Schelling era giunta fino a  Hegel : dall’ ammirazione del Mamiani, per la conver¬  sazione frequente col Fiorentino, che da Bologna andava  spesso a Perugia ospite suo, era potuta passare a quella  del critico severo della prefazione, che il Mamiani nel  1844 aveva premessa alla sua traduzione del Bruno di  Schelling 1 . Prefazione desiderata da lei, che ne caròla  promessa con un certo imperio di belletta che. ancor pos¬  siede, come il Mamiani scriveva al suo fratello Giuseppe  il 7 aprile 1844 ;* prefazione piaciuta già allo stesso  Schelling. 3 Ma ben presto la marchesa tedescheggiente  e libera pensatrice e il conte italianissimo e cantore dei  santi cattolici, s’ erano accorti di non potersi intendere.  Già in una lettera del 1846, 4 il Mamiani le rimprove-    ' Vedi B. Spaventa, Saggi di critica. Napoli, Gliio. 1867, pp. 366 sgg.  Intorno alla Florenzi v. le mie Origini della, fllos. contemp. in Italia  III, parte II, pp 37-50.   * Mamiani, Leti, dall’ esilio a cura di E. Viterbo. Roma, 1809. 1, 211.   * In una sua lettera a un suo amico, del 26 dicembre 1845, il Ma-  raiant scriveva: «Quantunque lo vi discorra della tllosolla tedesca  moderna con gran franchezza di giudicio, lo Schelling non se ne tiene  punto mal soddisfatto, e scrivendo alla traduttrice, che è la march.  Florenzi, ha detto di me parole onorevolissime » (op. cit. I, 320). Cfr.  il Bruno stesso, ed. I.e Monnier, 1859, p. 213.   * Leti, cit.. Il, -10. Cfr. la lett. al fratello rava di ragionare un po’ alla tedesca, e , non avendo alla  mano ragioni ferme ed evidenti, essersi rairolta della  nebbia del suo grande maestro, lo Schelling. L’ anno ap¬  presso le scriveva: « ìli congratulo molto con voi dello  studiare indefesso che fate e dello involgervi coraggiosa  tra le tenebre sacre della metafisica dello Schelling». 1  Era quasi un addio dalla spiaggia a chi si avventurava  per il rischioso viaggio!   Sul principio del 18GB, la Fiorenti aveva pubblicato  i suoi Filosofemi di Cosmologia e di Ontologia (Perugia,  V. Bartelli) ; e il Fiorentino, che doveva scriverne una  recensione, nella Rivista Italiana (o Effemeridi della P.  di Torino, del 20 aprile 1863, a. IV, pp. 250-52), la  incitò a mandarne un esemplare allo Spaventa. Quindi  la seguente lettera :   Signore,   Se un nostro amicissimo, e molto suo conoscente, non m’ in¬  coraggiasse a mandarle il mio libretto testé stampato, io non  oserei inviarglielo. Esporlo al giudizio d’ uno de’ più distinti  lilosofi è al certo temerità più die grande. Ma io mi affido  più assai all’ indulgenza di cui sono capaci i grandi uomini,  e temo maggiormente i piccoli. Ardisco ancora dimandare il  suo leale, franco giudizio e la sua severa censura; ed ancbo  la disapprovazione mi sarà più cara assai di qualsiasi com¬  plimento.   È dunque sotto l’egida del nostro amico che il mio libretto  vieue a cercarla. Mi abbia per iscusata s’ io l’incomodo por  cosa di sì poco valore; ma, le ripeto, io riposo nella indulgenza  sua. Me le offerisco e raccomando.   Perugia, li 20 marzo 1863.   Obb.ma   M. Marianna Florbnzi WAnDiNcroN.   Lo Spaventa in ricambio le mandò il suo volume  Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, starn-    1 Lett., li, 314.      pato 1’ anno innanzi ; a cui la Florenzi fece gran festa,  diffondendolo nel circolo di letterati e filosofi, 1 che si  raccoglievano intorno a lei.   € Dono prezioso, scriveva all’ autore il 9 maggio  del '63, di cui mi valgo per miu istruzione e per  ammirare uno de’ più grandi filosofi (o il più grande),  che ora dia fama alla nostra nazione » .   Da altre lettere della colta gentildonna si rileva che  tra gli ammiratori guadagnati da lei allo Spaventa, de¬  siderosi di leggere i suoi scritti, v’ erano anche delle  donne. Tanto poteva 1’ esempio della Florenzi !   Il 25 maggio questa mandava allo Spaventa un suo  piccolo discorso sojrra l' Eleroyenia che doveva essere stam¬  pato coi Filosofemi. Era instancabile : quando, nel giugno  1864, lo Spaventa le ebbe mandata la memoria su Le  prime categorie della logica di Hegel, ella poteva annun¬  ziargli un suo nuovo lavoro, che avrebbe toccato anche  quell’argomento (Saggio di psicologia e di logica, Fi¬  renze, 1864): «Mi preme sempre di leggere le cose sue,  e per questo ho indugiato a dirmene grata e ricono¬  scente. Non ho parole per esprimerle quanto quella  lettura mi abbia soddisfatta. Un ingegno come il suo  non poteva a meno di escogitare fino al fondo l’argo¬  mento trattato, ed in vero non c’ è nessuno che abbia  penetrato tanto addentro la dottrina e le intenzioni di  llegel, il più formidabile dei tedeschi filosofi.   «Ella ha ragione: chi è mai entrato sì puramente  nella scienza del filosofo?   « Tanto più piacere mi ha recato il suo scritto in  quanto che io aveva già compiti due capitoli del libro  che scrivo ora : Il divenire e V essere e il non essere, pen-    1 Cfr. la Necrologia che scrisse di lei il Fiorentino, in Scritti vari,  Napoli, 1876, p. 410-1.        siero ed essere. Quanta istruzione io posso ricavare da  lei ! Dunque, per tutto il piacere e per tutto 1’ utile ri¬  cevuto io ne la ringrazio di cuore ed anima » (Lettera  del ló giugno ’64).   In una poscritta d’ una delle sue lettere la Florenzi  scriveva allo Spaventa: «Vi prego di fare il grande  sforzo di rispondermi al pili presto » . Lo Spaventa, in¬  fatti, era tardissimo a scrivere, anche se chi aspettava  era una dama così gentile. Il Fiorentino badava a fare  le sue scuse. Così, in una lettera allo Spaventa del 19  novembre 1804, gli scriveva : « Alla marchesa Florenzi  ho parecchie volte detto quale sia la vostra indole, perciò  non ho durato fatica a persuaderla della vostra trascu-  ranzn nello scrivere. Ella ha sotto i torchi due saggi,  uno di logica e 1’ altro di psicologia, ed aspetta di averli  in pronto per rispondervi. Credo che li avrà prima che  il mese finisca. Li ha composti con l’intendimento di  dare due lavoretti elementari, e mi sembrano molto giu¬  diziosi e precisi e chiari, da qualche capitolo almeno  che ho scorso, correggendo gli stamponi che le venivano  quando io ero colà. A proposito di lei, che cosa avete  fatto per l’Accademia, di cui mi parlaste costà? Io non  le ho detto nulla, com’ era vostro desiderio ; e sarebbe  cosa ben fatta se si potesse effettuare, perchè veramente  è una donna meravigliosa per 1’ ardore che ha per la  scienza » .   Lo Spaventa aveva pensato di premiare la nobilissima  operosità e il virile animo, onde la Florenzi proseguiva  gli studi filosofici, facendola ascrivere all’Accademia  delle scienze morali e politiche di Napoli. Nomina che  la scrittrice gradì molto, e ne fregiò il frontespizio  de’ suoi libri pubblicati dopo il 1865. Primo il Saggio  sulla natura (Firenze, 1866), che è dedicato appunto allo  Spaventa: non per orgoglio , ma soltanto perla fiducia...che gl’ ingegni, quanto più sono alti , tanto maggiore in¬  dulgenza tisano alle persone di buona volontà. Gliene chiese  licenza il 14 dicembre 1865 con una lettera molto mo¬  desta, dove sono espressi gli stessi sentimenti della de¬  dica a stampa, e da cui s’ apprende che il Saggio era  da tre mesi in tipografia.   Nell’aprile del ’G6 fu a Napoli il'cav. Evelino Wad-  dington, marito della marchesa, ed ebbe dallo Spaventa  liete accoglienze. «Egli se n’è tornato», scriveva il  Fiorentino, « contento di aver conosciuto un uomo  del vostro ingegno e con quella franca ed ingenua indole,  che è segno infallibile». E come a Napoli si prepa¬  rava, in occasione d’ una esposizione di cotone, un Con¬  gresso scientifico italiano, la Florenzi contava di venirci  anche lei; come infatti ci venne: «Ebbi la vostra me¬  moria 1 che ho letta con grande attenzione per racco¬  glierne quell’ utile che sogliono apportare i vostri scritti.  Evelino fu molto contento di conoscervi e lo sarò pur  io fra poco, perchè ai primi di agosto contiamo di essere  costì nuli’ ostante gli eventi del monito.   « Mi faceste dire di fare un qualche piccolo discorso  per 1’ occasione del Congresso; e 1’ ho tracciato alquanto,  e per distenderlo vorrei la certezza se si fa o no codesto  Congresso.   « Io presumo che no, stante 1’ imminenza della  guerra ; nulla di meno vi prego a scrivercene una riga ;  ed ancora più mi preme sapere se vi troverete in Na¬  poli a quell’epoca, o alla campagna, ed in quale cam¬  pagna, od in quale città ; infine, mi direte dove dimo¬  rerete » (15 giugno ’6G).    1 La dottrina della conoscema di G. Bruno, pubbl. negli Atti  dell'Acc. delle Se. mor. e poi. di Napoli del 1865; risi. In Saggi di cri¬  tica pp.  Un’ ultima lettera del 8 agosto 1867, ha un certo in¬  teresse, per l’accenno che vi si fa al discorso Della  immortalità dell’ anima umana, che la Florenzi pubblicò  nel maggio 1868 :   « Io mi preparo o mi sono già preparata a scrivere  un opuscolo sulla immortalità dell’anima: problema  scabroso! ma che voglio sostenere perchè sento 1’ im¬  mortalità dentro di me e voglio essere immortale a tutti  i costi. Sarà dolorosa ai feuerbachiani miei amici 1 la  mia assoluta opposizione».   Nè anche gli amici hegeliani, non feuerbachiani, d’ I-  talia fecero plauso all’ assunto della marchesa. E lo  Spaventa alluderà forse, con quell’ ironia che gli era  propria, al discorso poco persuasivo della Florenzi,  quando nello stesso maggio 1868, scrivendo al De Meis,  la chiamava: « la nostra immortale Marchesa, — immortale  almeno come, socia della Beale nostra Accademia » . !   L’intimo pensiero dello Spaventa sull’ immortalità  dell’ anima individuale apparisce dal principio d’ una  malinconica lettera da lui scritta al De Meis il 13  luglio 1880 ; dove ricorda la sua prima figliuola morta  a tre anni :   Napoli, 13 luglio 80.   Mio caro Camillo,   Spero che la festa di quel sant’ nomo del De Lellis, 3 tuo  omonimo concittadino e la tua, ti riconoilieranno cogli amici.  In particolare io conto sulla reminiscenza, anche involontaria,  di que’ maccheroni al pomidoro; di quella Irittata e di quelle  cocozzelle, oramai divenuti celebri no’ nostri annali domestici.  Via de’ Fiori a San Salvario, n... 4 . Il numero non lo ricordo    1 II Ff.ii* *riiach, coni' è noto, nel Gcdanhen iiber Tod und Sterb-  li chheil (183(1) sostenne la mortalità dell'anima.   J v. scritti filoio/lci. ed. Gentile, p. 303 n.   8 San Camillo De I.ellis, di Bucchianico, patria del De Meis.   • Recapito dello Spaventa a Torino. Il numero era 23. Isabella  Scano. moglie dello Spaventa, a lui sopravvissula, morta più, e non ho tempo (li consultare la signora Isabella, che  attende alle faccende di casa. Non lo ricordo; ma fa lo stesso:  ricordo il luogo, il prato, la soala, il piano, le stanze e il  mio tavolino da lavoro, e tutte le miuchionerie che scrivevo :  le cose futili e le serie; il mio chiodo Bolare e i misturi he¬  geliani svelati ; e te che venivi ogni giorno, angelo consola¬  tore, e le chiacchiere che facevamo insieme; e la mia povera  prima Mimi e lo sue ultime parole: — Papà lavorai — Papà  lavora! — Io non so so (|uella casa sia rimasta ancora in piedi;  oramai non vedo piti Torino da circa vent’ anni : ma ella sus¬  siste tuttora qui, come forse non ha mai meglio esistito iu  realtà, nel mio cervello, o, come (licevano una volta, nell’ a-  nima mia; o non si dileguerà se non quando questo cervello  (Papà lavora, Papà lavora), non ci sarà piti. E che ne sarà!  Che significa nou esserci pi fi i Diverrà proprio nullaf Eppure  è stato ed è. O ci è proprio uu modo di essere che non è  sussisterei E sussistere cos’ài 1/orgoglio e la balordaggine  umana ha trovato lo consolazione: — tutto nasce e perisce, è  vero, ma gli atomi restano, e son sempre quelli, non mutali  mai. — Bella scoperta! me li fo fritti gli atomi, io.   Troppo serio per la festa di San Camillo ; troppo malinco¬  nico, anzi. Ma va e freua la mia fantasia!...   Lo Spaventa, non occorre dirlo, non era materialista.  Ma nella concezione hegeliana della natura e dello spi¬  rito non trovava posto per lo spiritualismo astratto, e  quindi neppure per l’immortalità personale.   3.   Il primo scolaro (li B. Spaventa (F. Fiorentino).   Battaglie carducciane ancddote.   Nella nota polemica del 1876 con l’Acri il Fiorentino  dice di aver conosciuto tardi lo Spaventa, e poco prima  i suoi libri. « Letti i suoi libri, intravidi un altro  mondo, e mi parve rinascere. Allora ero  professore a Maddaloni, e stavo a Napoli. Tra i molti che si preparavano a combatterlo c’ero io; ma, lettolo,  mi sentii tirare verso lui, e capii che i suoi avversarii  non valevano neppure i suoi calzari. Quale fu la mia  maraviglia, quando dai più sinceri riseppi, ch’ei non  avevano lotto nulla di lui, e che lo combattevano,  perchè volevano combatterlo, senza sapere perchè! ». 1  Allora infatti egli si presentò allo Spaventa. Ma, quando,  sullo scorcio del ’62, andò a Bologna professore di Storia  della filosofia, non E aveva visto che due volte o tre. * *  L’ultima di queste ne ebbe consigli e suggerimenti  circa gli studi per cui la Biblioteca Universitaria di  Bologna avrebbe potuto offrirgli E opportunità. Giacché  dallo Spaventa egli fu stimolato a intraprendere quelle  ricerche sui nostri filosofi del Risorgimento, da cui pro¬  vennero le sue opere più importanti. E quando si di¬  visero, lo Spaventa dovette annunziargli il libro, che  allora stampava, Prolusione e introduzione alle lezioni  di filosofia , dove il Fiorentino avrebbe trovato uno  schema della storia della filosofia italiana. Glielo inviò  poi infatti con una lettera, della quale possediamo la  risposta :   Mio carissimo amico,   La vostra lettera e il vostro libro lungamente aspettati  mi sono arrivati carissimi. Mi son messo subito a leggerlo,  e posso dirvi di averne scorsa quasi la metà; se non che  intendo rifarmici sopra, come prima avrò satisfatto l'impa¬  ziente desiderio con questa prima lettura. Voi mi riuscite  sempre profondo e stringato ragionatore ; oogliete nel criticare  il nodo del sistema, c ne mostrate lo scioglimento cosi luci¬  damente che meglio non si può. lo vi ho sempre tenuto, e  vi tengo a ninno secondo nell’arto difficilissima della critica  filosofica, eh’ è quella appuuto, di cui noi Italiaui abbiamo    ' La fllos. contemp. in Italia, Napoli, specialmente bisogno, serondochè voi avete maestrevolmente  notato. Le considerazioni su la lìlosofia nazionale sono esatte,  e l’indole della filosofìa del Risorgimento, che io ho letta  fino al Bruno, è scolpita cou molta fiuezza, e contorni assai  rilevati. Le osservazioni su l’antichissima sapienza degl’i¬  taliani del Vico, e ricavate qunuto al fondo dalla Scienza  nuova, sono inappuntabili ; ed a rifiutarlo bisognerebbe di¬  sconoscere la teorica della parola dal Vico medesimo adottata.  Io mi rallegro di tutto cuore con voi, mio carissimo amico,  ed auguro all’ Italia molti uomini che vi rassomiglino.   Negli scrittori, come negli uomini, a me piace la lealtà del  manifestare le proprie convinzioni, quali che si fossero; la  coscienziosa ricerca nel formarsele, ed il saldo proposito del  sostenerle. Ora invece si scrivacchia e si cinguetta a spro¬  posito, e più ilei nomi e dell’autorità si fa caso, che non  della verità eterna ed immutabile. Voi siete molto opportuno  nelle condizioni poco prospero del nostro paese, e gran bene  potrete fare. Esperto come siete di gran parte delle nostre  città, dovete conoscere meglio di me, che cotesta o nessuna  può spingere e continuare il movimento della italiana filo*  sofìa. Qui se ne ha pochissima cura: alla mia scuola usano  pochi uditori, alle altre della mia facoltà meno che pochi,  o nessuno. Per buona ventura è venuto qua a continuare i  suoi studi filosofici un bravo giovane delle provincia meri¬  dionali, un tal Donato Jaja, quel medesimo che mi accom¬  pagnava, quando presi commiato da voi. Ila buon ingegno,  e buona volontà, eh’è ancora più rara no’ nostri giovani.  Altri vanno e vengono più per curiosità che per vaghezza ili  studio: sono le comete di tutte le cattedre.   Tra pochi altri giorni vi manderò la Prolusione che lessi  qui, e che ho fatta inserire sul Progresso che si stampa costà.  Me no aspètto vostro giudizio, che quanto so che sia com¬  petente, altrettanto voglio che sia ingenuo e franco. Voi  sapete che io non mi sdegno dell’essere appuntato e corrotto:  amo la verità più del mio amor proprio...   A libri filosofici qui si sta molto male, e sebbene mi sia  stato promesso che qualcheduno dei più necessari si farebbe  venire, pure io ci conto molto poco per la scarsezza dell’as¬  segnamento di cui gode questa Universitaria Biblioteca. Avrei  bisogno di buoni espositori di Platone e di Aristotile, perchè  questo anno mi occupo della filosofia greca, e intanto, tranne  alcuni commentatori antichi, non si trova altro. Ho fatto ve¬  nire «lei mio la esposizione della Logica aristotelica di Bar-  thólemy; ina a far venire tutto a proprie spese come si riescef  ìi questo per me un gran contrattempo, c, senza le vostre  prevenzioni, quasi inaspettato o iuusputtabile. Chi diamine  poteva credere che la dotta Bologna viveva ancora in pieno  Medio Evo»   pi Pomponazzi ci è il solo libro dell'Immortalità. I mano¬  scritti di Boccaferrato versano più su la tisica aristotelica, che  su la metafisica: ed oltre a ciò sono poco agevoli a leggere,  e a parer mio ili poco giovamento. Ho trovato pori» Scoto  Krigena, e Patrizzi, che costà non mi era riuscito avere. Oopo  che avrò letti questi, mi metterò a studiare la storia della  filosofia indiana del Colebrooke, che voi mi diceste buona. * 1  Mi dimenticai l’altra volta di dirvi, che Vittorio Cousin  scriveva alla Florenzi una lettera sn quel mio lavoretto in¬  torno al Bruno, dove sentenziava degl’italiani a modo suo.  È piuttosto una lunga lettera, di cui io ho copia, che vi  manderò, se vi aggrada leggerla. Parla altresì del Vera.®  Ecco quante ve no ho dette, e forse vi avrò annoiato: ma  io sentiva il bisogno di trattenermi con voi, e P ho fatto alla  mia usanza, e senza riserva. Io, oltre all’ammirarvi, vi amo  assai, e stimo che questo all’etto che vi porto renila più  scusabili le molte ciarle che faccio nello scrivervi. Quando  avrete tempo scrivetemi, perchò mi è caro comunicare con  qualche spirito privilegiato ed amico in tanta solitudine in  cui vivo. Se potessi in qualche cosa adoperarmi per voi, mi  terrei fortunatissimo di farlo. Addio, adunque, mio carissimo  amico, ed amate   Di Bologna, 12 del 1863.   Il tutto vostro  Francesco Fiorentino.    1 Enrico Tommaso Colebrooke (1765-1837), celebre indianista, pre¬  sidente della Società Asiatica londinese, autore degli Kssai/s on thè  Vedas and on thè phtlosophu of thè llindous nel I voi dei Miscclla-  neous Essaj/s (London, 1837, 3.» ediz., 1873); — e a parte: Essays on  thè relii/ion and phtlos. of thè Hlndous, 3.» ediz., London, 1858.   1 Tra la corrispondenza Inedita del Cousin ci sono lettere del  Fiorentino: vedi Gentile, Albori delta nuova Italia, I, 150.La Prolusione al corso di storia della filosofia (letta  il 25 novembre 1862) fu dal Fiorentino pubblicata nel  Progresso di Napoli (a. IL voi. II, 1863, pp. 22-33) ;  ma non venne più ristampata. È infatti ancora un do¬  cumento della fase giobertiana del pensiero del Fio¬  rentino, quantunque vi appariscano le prime tracce dei  nuovi studi e delle nuove tendenze dell’ autore. Giova  riferirne qualche brano:   Il pensiero, o signori, regola il mondo o lo riempie, perché  esso è la pienezza ed il vigore dell’ essere : è la sua compe¬  netrazione, e la sua identità. L’ essere senza il pensiero è spar¬  pagliato, disterminato, e però incompiuto e Unito. Imperocché  l’essere compie se medesimo geminandosi, vale a dire facen¬  dosi principio e fine; ed il mezzo, pel quale esso si pone e  conclude, è il pensiero, la relazione, l'identità suprema...  (p. 23).   Se non che esso nel mondo inorganico si occulta inconsa¬  pevole, eil in certo modo seppellito, comincia ad agitarsi  operoso nel vegetale, si va sempre pifi disimpacciando dal  grave involucro della materia nella forma dell’animale; e si  sveglia libero e padrone di sé filialmente nella coscienza  umana... Il pensiero divino che trasparisce attraverso tutto  il creato, si che ogui cosa, secondo la frase biblica, appaia  piena dello spirito di Dio, non parla poi e non si rivela am¬  piamente, se non nella coscienza dell’uomo. Il resto della  natura è parola scritta, rinchiusa, direi quasi cristallizzata:  l’uomo solo è parola viva e palpitante... (p. 24)   La dualità di natura e spirito non è insuperabile.  Essa inette capo « nell’ unità cosmica ». E in virtù di  questa la natura tende allo spirito; che comincia bensì  aneli’ esso come forza individua partecipante all’ uni¬  versità del cosmo ; ma esso si generalizza pensandosi.   ...Do spirito è l’attuazione compiuta dell’unità cosmica, e  ciò che questa è in potenza, ed esso è in atto. Or quando  lo spirito si abbia assimilato la natura e sé stesso per quella  serie di sviluppamenti che va spiegata nella Fenomenologia, egli, a rendere scientifico il suo processo spontaneo ed in-  cosoio di sé, si rifà sopra il cammino fatto. E può rifarsi in  tre modi. Quando rigira sè in sò, dà luogo a quel ripensa¬  mento che si dice riflessione psicologica; e quando si ripete  su la natura, partorisce la riflessione detta dal Gioberti ontolo¬  gica. Ma sopra eoteste due guise di riflettere, ve u’ ba una  terza, che lo vince di pregio e di amplitudine, vale a dire  la riflessione logica, nella quale lo spirito si rivolgo su la  sua azione medesima, sul proprio pensiero... su la natura e   10 stesso spirito è Dio, ossia l’unità vera, l’unità che non  è il moltiplico, ma lo fa. Se l’unità cosmica fosso tutto, 1’ ul¬  timo grado del pensiero sarebbe la riflessione psicologica e  l’ontologica, e la logica non sarebbe possibile. V’è logica,  perché v’ha un assoluto perfettamente uno; v’è la logica,  perchè v’è Dio... Da logica è dunque l’unità finale della  cosmologia e della psicologia, come la protologia n’ era stata  1’ unità primitiva. L’ unità assoluta, 1’ unità cosmica, 1' anima,   11 concetto; ecco le quattro gradazioni, per le quali passa il  pensiero speculativo, produceudo una scienza eh’è la prima  e la massima, e che comprende la protologia, la cosmologia,  la psicologia e la logica. . (p. 2fi)   Venendo alla storia della filosofia, il Fiorentino di¬  chiara che il disegno della storia si deve modellare  su quello della scienza : sicché la storia dev’ essere essa  medesima un sistema. « Una storia che non fosse un  sistema ma un’ imbastitura di fatti racimolati qua e là,  non sarebbe meritevole di tanto nome». Quindi la con¬  nessione da preferire tra i vari sistemi è quella logica.   So bene io essersi talvolta tenuto conto o della successione  cronologica, o della continuità etnografica; confesso che  queste maniere contengono qualche parte di vero ; che il  tempo maturi ed incalzi le deduzioni della logicn ; che la  scienza alcune volte si sviluppi come un dramma vivente in  una nazione: nondimeno il pensiero, essendo di natura estem¬  poranea ed eslraspaziale, mal si potrebbe acconciare tra questi  angusti cancelli... Egli è da maravigliaro intanto come fra  tanti che hanno trattato la storia della filosofia quasi uiuno  abbia fatto capo dellu genesi logica dei sistemi, salvo l’Hegel    in cui celesta legge si appalesa inflessibile come il fato; e  nelle cni mani la storia si trasforma in una geometria, dove  nulla viene lasciato all’arbitrio del pensatore. Hegel accorcia  e distende i sistemi come il Procuste della favola, affinché  tutti ripetessero costantemente il ritmo prescelto della trico¬  tomia. Il Richtor inchina per contrario a sostenere l’au¬  tonomia delle scuole e dei sistemi ; sminuzza, taglia i nervi,  e leva di mezzo ogni addentellato. Nel primo 1’ uniformità ò  monotona, nell’altro la varietà rimaue disordinata ed inor¬  ganica. Contemporaro però questi due estremi, badare alla  continuità del pensiero universale, senza disconoscere l'in¬  fluenza individuale, è proprio mettersi sul giusto mezzo, ed  in postura convenevole, onde si possa portar giudicio sopra  i sistemi. E qnando dico sistemi, io non guardo alla breccia (f),  ma alla radice: non all’aspetto subbiettivo, o nlla convinzione  del filosofo, ma alla materia, eli’ è stata fondamento della  sua opinione. Voglio vedere non quel ch’egli crede, ma quali  cause lo abbiano sforzato a questa credenza... (p. 29)   La storia della filosofia presuppone un sistema, che  sia come il regolo con cui conviene riscontrare e mi¬  surare le dottrine. E dalla maggiore o minore ampiezza  del criterio di una storia, dipende il valore di questa.   Hegel ha immedesimato la storia della filosofia col suo si¬  stema, affermando non essere tutti gli altri se non momenti del  suo, e (singolare ardimento!! egli non si è peritato di pian¬  tare le colonne di Ercole della filosofia ! L’avvenire giudicherà  di lui, provando coi fatti, se dopo la grande Enciclopedia  ancora allo spirito umano qualche cosa rimarrà da fare.   Infine il Fiorentino toccava la questione di una filo¬  sofia italiana contestata dagli storici stranieri.   Mettendo n rassegna le nazioni filosofiche di Europa, Hegel  tripartisce il mondo della filosofia moderna, maiorasco ina¬  lienabile, tra l’Inghilterra la Germania e la Francia... Il  Cousin di poi, n cui non tornava conto una terza nazione,  non avendo una tripartizione a fare, ridusse le partite, e  diede luogo a due nazioni soltanto, alla Germania ed alla  Francia... Il professore di Berlino e quello della Sorbona si  trovano peri» d’accordo nel diseredare l’Italia. E perchè 1  Forse Telesio e Galileo non parlarono mai del metodo spe¬  rimentale ? Giordano Bruno non mosse dall’unità della sostanza  prima ancora dello stesso Spinoza? Campanella non iniziò la  osservazione psicologica? K Vico non partì dalla conversione  del vero col fatto, statuendo il fondamento più solido cito  potesse avere la filosofia? Nulla di tutto questo, o signori;  tre termini bisognarono all’ Hegel, due al Consin, e per noi  non rimase luogo. L’Italia, se diamo retta alle divisioni di  oltremonte non ha fatto mai nulla, non ha pensato mai a  nuli», e sola, spogliata del comune retaggio dell’urnan go-  nero, ella è costretta a stare spettatrice stupida od ingloriosa  delle maraviglie altrui. Troppo beata, se il passato della Ger¬  mania o della Francia potesse diventare il suo presente;  troppo venturosa se, chiamata dalla straniera magnanimità, le  venisse consentito di spigolare nel campo, ove a si larghi  manipoli hanno gli altri mietuto.   Mi rincresce, o signori, di dover prorompere in parole  amare verso uomini al cui ingegno porto di cuore molta ri-  vegenza; me ne rincresce ancora più forte per dover rinfre¬  scare titoli lunga stagione abusati, quando la gloria dei padri  fu chiamata a coprire la riprovevolissima inerzia de’ figli. No,  io protesto, signori, die noi non vogliamo addormentarci sugli  allori dei nostri padri, che noi non vogliamo farci belli della  loro gloria, fragile schermo alle immeritate rampogne... (p. 31)   Il Fiorentino ricordava la « gran sollecitudine » che  a Napoli egli aveva visto « affaticare gl’ intelletti traen¬  done argomento a bene sperare e ad asserire che forse  la filosofìa era « deputata a maturare i fati della patria».  Faceva voti cho quel « desiderio ardentissimo » si dif¬  fondesse da Napoli per tutta Italia ; « lieto di poter  proseguire l’impresa, che qui (a Bologna) inaugurava il  suo illustre predecessore»; cioè lo Spaventa. Infine,  una patriottica perorazione :   Por gli altri, o signori, la scienza può essere forse un ad¬  dobbo ed un decoro, por noi italiani è desiderio di riscossa,  è condizione indispensabile di vita. Noi non sapremmo pas¬  sarcene senza tralignare dalla nostra antica fierezza, senza disconoscere la missione nostra nella storia. E poi grandi  cose ancora ne avanzano a fare, nè potremmo meglio allenarci,  che fortificandoci la mento di profondi studi. Nella infanzia  dei popoli era la fede che operava prodigi, e remica possibili  le Crociate; nella loro virilità non si possono aspettare altri  miracoli, che lineili della scienza... Un pensiero che non fosse  progenitore fecondo di magnanimi fatti, io lo disdegnerei;  ma esso avventurosamente non sarebbe nemmeno da dire  pensiero, si bene fantasma vano, e passeggero capriccio. Io  nel filosofo anzi tutto voglio guardare l’uomo coni’esso è, e  voglio trovarcelo vergine, schietto, maschio e vigoroso. Io  batto le mani a Socrate che combatte u Potidca, sento un cotal  orgoglio di coltivare la scienza elio mantenne serena la fronte  di Giordano Bruno avanti al rogo: applaudo a Kicbte che  lascia la cattedra di Jena e corre sui campi di Lipsia; e non  so rifinire di ridurmi nella memoria Sl’acteria, Mestre e Cur-  tatouo, ove siete caduti voi, Santarosa, Poerio e Pilla, va¬  lorosi ingegni, valorosissimi cittadini.   Sì, o giovani, di profondi veri e di magnanimi fatti noi  abbiamo bisogno, e 1’ Italia sarà. Addoppiate gli sforzi... Per¬  corriamo di conserva e con alacrità 1' arduo arringo della  scieuza, e siamo certi di cooperare in tal guisa potentemente  al riscatto della patria nostra. La scieuza lo iniziò, ed essa  indubitatamente lo coronerà, snebbiando le nienti, aprendo il  cuore a piò candidi alletti ed utlbrzando le braccia della no¬  vella ed adulta generazione. Un ultimo sforzo ancora, e quanto  prima il Ponte di Rialto risuouerà dell’ eco dell’ inno nazionale  cantato sulle serve lagune dell’Adriatico, e le piume dei nostri  bersaglieri si agiteranno al vento che spira dai sette colli  (pp. 32-33).   Dagli studi sulla filosofia greca pel corso universitario  annunziato nella lettera del 12 gennaio 1863, fatti sotto  l’ispirazione dello Spaventa, uscì il Saggio storico sulla  filosofia greca (Firenze, Le Monnier, 1864), dove il gio-  bertiuno di tre anni innanzi, autore dell’ opuscolo 11  Panteismo e G. Bruno, si palesava hegeliano e scolaro  dello Spaventa, di cui infatti metteva a proposito la  memoria su Le prime categoi'ie della Logica ili Hegel.   Così il Fiorentino si staccava coraggiosamente da’vecchi amici di Napoli : onde nella conclusione del Saggio  (p. 302) accennava: «Devoto alla verità, non mi ter¬  ranno del certo impastoiato nè vecchie preoccupazioni,  nè codarde paure». Non gli mancarono, infatti, silenzii  sdegnosi e tacite rampogne, seguite da una rottura,  che fu la prima origine della polemica scoppiata dodici  anni dopo con l’Acri e il Eornari. Nella seguente lettera  ne abbiamo il più antico documento:   Mio carissimo amico,   Vi so infinitamente grado di llo coso gentili che mi dito  del mio libro, o non vi nascondo che le vostro parole mi  sono valso di sprone efficacissimo a seguitare. Voi sapete di  quanto peso io tenga il vostro parere? o come lo anteponga  ad ogni nitro che potessi avere in Italia, o anche (V oltre¬  mente 5 onde me n* è venuta allegrezza o buona voglia da  non potersi misurare. Per me la filosofìa è stata sempre un  amore, e perciò mi vi sou messo in buona fede, e senza preoc¬  cupazione di partigiano. Non timido amico del vero, io  dirò sempre aperto il mio modo di vedere; ed in ciò debbo  confessare che voi mi siete stato esempio e conforto. Delle  altrui dicerie non mi brigo; conserverò P amicizia a chi me  la continua non ostante il dissidio delle opinioni, coni’ è mio  costume; uon mi dorrà di perdere amici, i quali pretendessero  d impormi un treno, e di vincolarmi con pastoie, che Panimo  mio, non che nou comportare, anzi disdegna.   Questo anno mi occuperò «Iella filosofìa tedesca, e epocial-  nmnte di Kant, lo cui opere ho già tutte, oltre ad altre espo¬  sizioni, tra le quali quella del Cousin. Sopra tutto ho in  pn.'gio il vostro lavoro su Kant e Rosmini, dove mi pare ve¬  dere il kantismo scolpito con tutP i suoi pregi e le sue la¬  cune.   Mi vo procacciando i nostri filosofi «lei Risorgimento, per  occuparmene in un lavoro che ho in animo di stendere que-  st’anuo medesimo. Ditemi voi se le biblioteche di Torino,  dove siete stato, ne hanno qualcuno, e quale; perchè potrei  chiedere al Ministro che fossero di mano in ninno mandati a  questa hibliot«^ca por studiarli...   Vi ricordo e rnccomando da ultimo l’affare della Metafisica  1-1 — Gentili:. Storia della filosofia.      Aristotile del Bonghi, avendo egli ora il tempo di de¬  dicarsi alla continuazione di quella stampa. Add.o, uno ca¬  rissimo amico, e ricordate ed amate    Di Bologna,   Il tutto rostro        £—5S-Svt*-- —   Addio.   Dal lavoro su Kant e Rosmini dello Spaventa ossia  La filosofia di Kant e la sua relazione con la filosofie  italiana (Torino, 1860, rist. in Scritti filos pp. 1- 9)  il Fiorentino aveva mostrato nel Saggio di avere ben  compreso il valore della categoria kantiana. Ma poco  vantaggio potè certo cavare dalla esposizione <  Cousifr^Li «fe filosofìa di Kano che - 18«  era stata pure tradotta in italiano da F. Irmctiera  eredità, probabilmente, dei primi studi di Napoli, avan  alla conoscenza dello Spaventa. Della tradurne della  Metafisica di Aristotele, di cui il Bonghi aveva pubblicati  i primi sei libri a Torino nel 1854, il Fiorent.no in¬  sieme col Bonatelli, che allora gli era collega a Bologna  procurava di rendere possibile, con una sottoscrizione .  resto della stampa, anzi la pubblicazione completa, con  hTristampa della prima parte; ed è a deplorare che non  ‘ S riusci», e che Jop» il Bonghi ne .1*» *»b.n.  donato il pensiero, quantunque la sua interpretazione   non sia senza difetti.   TTT^ale che allora pubblicavano a Napoli il De Sancii» e .1  Settembrini.  Il corso 1864-65 fu in effetti consacrato a Kant. Della  prolusione è notizia in quest’ altra lettera, dove il Fio¬  rentino torna a lagnarsi del silenzio del Fornari, dando  a divedere quanto pur ne soffriva il suo animo affettuoso':   Carissimo amico,   ...Io sono venuto qua a passarvi le feste, ed ieri, appena,  arrivato, vi ho trovato la vostra lettera rinviatami da Bologna.  Aspetto con premura la vostra lunga lettera, ora che le va¬  canze ve ne lasciano il tempo.   Ho letto a Bologna una prolusione su Kant, di cui questo  anno mi occupo precipuamente. Sarà stampata a Firenze in  un nuovo giornale scientifico, elio ha per titolo La civiltà  italiana, e eh’è diretto da De Gubernatis. Quando ne avrò  gli estratti, ve ne manderò uno subito. Se voi voleste scrivere  qualche rosetta, o in qualche modo valervi di questo nuovo  giornale, so che De Gnbernatis no sarebbe lietissimo, fc un  bravo giovane, che io ho conosciuto, e che vi ammira molto.   Sapete voi, che, avendo mandato il mio libro ad alcuni a  Napoli, non ne ho avuto neanche risposta! Che voglia dire,  non so ; ma mi par barbara usanza il voler imprigionare la  mente umana. La mia, non si lascia inceppare, e rinunzio vo¬  lentieri ad alcuno amicizie, quando queste non possono con¬  ciliarsi con l’amore della verità.   Por la soscrizione ili Bonghi vi rinnovo le premuro, perchè  egli sta aspettando che io gli rimandi i manifesti. So come  si vada incontro ad inconvenienti, ma noi non assumiamo  nessun obbligo personale. Addio, mio carissimo amico, ed  amate   Di Perugia, 26 dicembre 1861.   Il vostro afet.mo sempre  F. Fiorentino.   La Civiltà italiana pubblicò nei primi tre numeri (I  trimestre, gennaio 1865) il discorso del Fiorentino : Em-  manuele Kant ed il mondo moderno; come pubblicò di  lui stesso il 19 febbraio 1865 (n. 8) lo scritto su I dia-    1 Cfr. quello che se ne dice nella Filos. contemp., p. 139.        Ioghi di Rucellai; dall’aprile al giugno dello  stesso anno (II trimestre), le  lettere Stilla Scienza Nuova di Vico / e nel luglio, il  discorso Dell’armonia del concelto di Dante come filologo,  come storico, come statisla (II semestre, nn. 1 e 2): lavori  tutti ristampati più tardi dall’ autore, salvo il primo,  negli Scritti vari (1876).   Del discorso su Kant dimenticato conviene riferire  qualche pagina, la quale dimostra quanto il fiorentino  avesse profittato della lettura degli scritti dello Spaventa.   Ecco, per esempio, come poneva il problema kantiano :   jjji sperienzu prima di Kant era stata smaltita siccome il  fondamento più stallilo della scienza, o come le colonne di  Ercole, di là dalle quali non era dato allo spirito umano  travalicare senza pericolo d’imminente naufragio. Kant ri¬  flette, clic la sperieuza è tiu fatto, e ebe perciò non può  essere primitivo; essendo un risultamento, del quale si può  e si deve cercare la guisa e la ragione del nascimento. Egli  adunque propone una domanda nuova nella storia della tìlosoiìa.  coni’è possibile la sperienzat E più generalmente ancora:  coni’ è possibile il conoscerei Con la quale domanda 1 oriz¬  zonte della scienza si trova onninamente cangiato, e i vecchi  filosofi seriamente imbrogliati. Il Galluppi, che primo in Italia  giudicò convenevolmente il movimento kantiano, si accolse  di questa novità di problema, e con la Bolita sua semplicità  di linguaggio la espose così: — Prima di Kant la filosofia era  dommutio .1 o scettica: con lui comincia una nuova forma, la  critica. E prima, difatti, i filosofi o ammettevano la sperieuza,  o no; Kant uè l’nmmise, nè la rifiutò; ma disse: come si  formai II problema così mutato non versava più sull’esi¬  stenza del fatto, ma sul suo nascimento; e cotesto è la mu¬  tazione più sostanziale che Kant avesse recato in mezzo nella  scienza filosofica.   I.a Scolastica mutuava or dalla tradizione religiosa, or dalla  storia, or finalmente dalla filologia il contenuto della sua  scienza: presupponeva l’anima, il mondo, Dio, i loro attributi,  la loro origine, e vi attagliava una forma scientifica per pal¬  liare l’intrinseco difetto. Cartesio se ne sdegnò, e sopprimendo quel vuoto ingombro, fece capo alla coscienza, dove credette  trovare il punto stabile, sul quale puntellando la leva onni¬  potente del pensiero si mettesse in grado di smuovere il mondo  antico, e di sfasciarlo. La filosofia sperimentalo sotterra¬  tagli ridusse lo spirito a tavola rasa, e vi disegnò sopra le  prime linee della scienza nascente. Kant sorpassò l’uno e  l’altra, e soffiò su tutto il sapere precedente, perfino su la  coscienza di Cartesio, pertìuo su la sperienza di Locke ; es¬  sendoché entrambe contenevano degli elementi variabili,  ed egli, messo su l'avviso dalle rigide deduzioni di limile]  non voleva più far entrare nella scienza nulla elio avesse  sembianza di mutabilità.   Esposte rapidamente la unificazione del molteplice,  onde nell’esperienza kantiana s’intuisce il sensibile e  onde si giudica per mezzo delle categorie le intuizioni,  il fiorentino dimostra come la vera unificazione ancora  non sia compiuta, essendosi passati dall’ opposizione  della materia e della forma dell’intuizione a quella di  intuizione e categoria.   Il legame primitivo, ove si rannoda il multiplo sì della  sensibilità, come della intuizione, è l’unità trascendentale  della coscienza. E badiamo che non ci tragga in inganno il  nome medesimo di coscienza, di cui Kant si vale in due si¬  gnificazioni ben differenti. Questa coscienza trascendentale ò  primitiva ed originaria; producondo gli opposti, non può ella  essere un opposto; se no, si andrebbe all’infinito. L’altra  coscienza di soconda muno vien oontraseguata con la giunta  di empirica, ed è una fattura di quella primo, come ogni  altro fenomeno: va costruita con la forma del tempo, con le  categorie di possanza, di causa, di relazione, e via via. La  coscienza empirica, insomma, ò posteriore assai alla coscienza  trascendentale, la quale sola ò unità originaria e feconda.   L non è senza ragione se ho ribadito questa distinzione,  essendo capitalissima nel sistema che stiamo abbozzando, il  vero merito di Kant non è di avere trovato i concetti a priori,  ma di avere posto a capo della sintesi quella eli’ ei chiama  energia porlentota, vale a dire la unità sintetica originaria della  coscienza. L’illustre prof. Spaventa lia con molto aocorgimento messo in sodo questo punto, criticando la esposizione che il Ro-  smiui aveva fatto del Kant. Non è gii che gli opposti sieno  dati, e che lo spirito, trovandoli, se ne impadronisca e li  vada elaborando: questo processo ci era prima di Kant, ed  egli lo ha sorpassato, vedendone la insufficienza. Imperocché  quale conoscenza potessi avere, posto che i termini, ond ella  si compone, fossero stati accoppiati per caso e alla rinlusaf  Data da uua parte la intuizione, dall’altra la categoria, e  poi lo spirito che le sforza ad un’ unione innaturale, o per  lo meno arbitraria ; non si vede che il giudizio sarebbe  un’imbastitura come quella che descrive Orazio, e non già  un processo dello spirito, il cui carattere specialissimo è  l’intimità? Se lo spirito adunque unisce gli opposti, è perchè  entrambi scaturiscano da una sorgente comune, e perchè il  riunirli è per lui una scria necessità.   Ma Kant non fu coerente a questo concetto della sua  energia portentosa. Confusa la coscienza trascendentale  pura con l’empirica, ritenne impossibile la deduzione  logica delle categorie, che ripescò perciò empiricamente  attraverso i giudizi ; stralciò il pensiero dall’ essere, fa  cendo della sua attività una forma affatto vuota ; e finì  nel noumeno inconoscibile.   E la conseguenza è giusta, ogni volta che si ammetti' un  pensiero che non pensa nulla, e, di rincontro, un essere che  non può essere pensato. Se non che lo sbaglio sta appunto  in questa concessione. Un pensiero vuoto non è : un essere  non pensato non è: sono due astratti, ai quali voi accordate,  con soverchia larghezza, forma e persona. Che vuol dir mai  cotesta cosa in sè, che fatalmente sfugge al nostro intelletto?  Cotesto essere oscuro, che brilla per la sua mancanza, e dopo  balenato alla mente, si cela per sempre? Voi diti' di non co¬  noscerlo ed io vi replico con 1’ Hegel, chi' nulla è più Incile  a conoscere di questo punto oscuro. Esso è l’oggetto del  pensiero spogliato di ogni determinazione, vuotato di ogni  contenuto, ridotto alla mingherlina condizione il’ identità pu¬  ramente astratta. Or dunque non raffigurate in lui uuu crea¬  tura vostra?. Nè le altre due Critiche riescono a sanare pienamente  le conseguenze prodotte da questa opposizione risorta  tra pensiero ed essere nella Critica della ragion pura.   Nella stessa Civiltà italiana (II sem., n. 10, 17 set¬  tembre 1865) il Fiorentino inserì una recensione del  primo di quei tanti libri che poi Ruffaele Mariano venne  compilando sui libri altrui : Lassalle e il suo Eraclito,  € saggio di filosofia hegeliana » (Firenze, 1865). Recen¬  sione benevola verso il giovine autore, nella quale giova  rilevare due osservazioni, che mostrano già nel ’65 ben  determinate le due direzioni divergenti degli scolari del  Vera da una parte e di quelli dello Spaventa dall’ altra.  Una è questa : « Perchè chiamate rivoluzionaria, in senso  di... retriva la filosofia di Rosmini? Perchè dir filastrocca  quelln del Gioberti? Questo acerbo procedere verso due  illustri italiani, quando anche si fondasse sul vero, non  sarebbe certo modesto consiglio il tenerlo. Nè veggo che  l’essere hegeliano debba di necessità far avere in poco  conto le loro dottrine, perchè la critica imparziale e  seria, che P illustre prof. Spaventa ha fatto dell’ uno e  dell’altro, prova il contrario».   L’altra è anche più notevole: «Ammesso come pre¬  feribile [a quello di Lassalle] il giudicio di Hegel sopra  Eraclito, non v’ha proprio nulla a ridire, specialmente  su la relazione che P Hegel pone tra Eraclito e P ultimo  degli Eleatici? E forse vero che Eraclito segni un  progresso sopra Zenone? Pare che, Eraclito essendo stato  prima di Zenone, la dialettica obbiettiva di quello sa¬  rebbe apparsa alla coscienza speculativa prima della  dialettica zenoniana ; onde l’andamento storico, per lo  meno, sembra essere stato da Hegel capovolto. Dico ciò,  allinchè l’egregio Mariano si tenga in guardia inverso  la eccessiva fiducia nell’ autorità di maestri, per grandi  che fossero. Le colonne di Ercole dell’ ingegno umano. bisogna tenerle discoste più che si può ; e se si potesse  affondarle nell’Oceano, tanto meglio. Anche lo Spa¬  venta era di quest’avviso.   Nel 1865 il Fiorentino si accinse al suo lavoro sul  Pomponazzi, pur continuando all’Università i corsi sulla  filosofìa tedesca moderna. E scriveva allo Spaventa:    Mio carissimo amico,   È trascorso gran tempo che manco <li vostre nuovo, non  ostante die vi abbia scritto durante le vacanze, quando il  Settembrini mi fece sapere ch’oravate a diporto nella cam¬  pagna. Ora che il oholèra si sente a Napoli, io sono divenuto  inquieto per causa di qualche amico elle vi ho, e più d ogni  altro per causa vostra. Levatemi da questa iuquietitudine  scrivendomi due parole che m’informassero della vostra salute.   Io sono tornato qui prima della riapertura della Università,  e vi ho riprese le mie lozioni. Ho passate le vacanze qualche  giorno a Ravenna, un po’ a Firenze, un po’ a Perugia, e poi  il più del tempo in villa.   Sto esponendo la filosofìa tedesca da Kant in qua ; e ciò  alla Università. Sto preparando una biografia ilei Pomponazzi  ricavata dalle sue opero medesime, per leggerla nella Società  di Storia Patria, di cui faccio parte. Se questa prima non  dispiacerà, o non parrà inutile, ne farò qualche altra di  qualche pensatore più importante che abbia insegnato a Bo¬  logna. Oltre l’Acbillini, chi altro mi suggerireste voif Forse  potrei farla ancora del Cromonini, che, stato a Ferrara, può  dirsi delle stesse provinole di Emilia: del Zabarella no, eh’è  stato soltanto a Padova. Io poi a queste biografie, elle leggerò  nella Deputazione di Storia Patria, aggiungerò per conto mio  la esposizione e la critica del contenuto filosofico dei loro  libri, compiendo di ciascuno una monografia. Che ve ne  pare t   ...Col medesimo ordinario vi spedisco un libretto conte¬  nente alcune mie lettere su la Scienza Nuova. Le scrissi per  compiacere a De Gubernatis, che mi chiese qualcosa per la  sua Civiltà italiana. Non sapendo se abbiate o no avuto quel  periodico, ve le mando così radunato, come le feci estrarre;      e vi prego di accettarla come testimonianza della mia sincera  stima ed amicizia.   Addio adunque, datemi presto vostre nuove, e ricordate ed  amato   Di Bologna, 30 novembre 1865.   Il vostro afi.mo amico  P. Fiorentino.   E questo il primo disegno del Pomponazzi, la cui  biografìa fu prima inserita negli atti della Deputazione  di Storia Patria per le provincie di Romagna (1867), e  poi riprodotta in capo al volume pubblicato nel maggio  1868. Il 19 giugno 1867 il Fiorentino, che diventava  sempre più intrinseco dello Spaventa, tornava a darne  notizia all’ amico : « Io aspetto la nuova ristampa [della  tua memoria] sul Campanella, 1 perché essendomene  quest’ anno occupato nel corso scolastico, sono desideroso  di vedere come tu l’hai trattato. Ora sono attorno ad  una monografia sul Pomponazzi, attorno a cui raggrup¬  però i più celebri suoi contemporanei. Me lo stampa il Le  Monnier... Me ne dà cinquanta copie e 150 lire pei libri  che mi sono occorsi ». E il 26 aprile 1868: « La stampa  del mio libro è finita, e sono attorno a scrivere due  parole di conclusione, per le quali ho aspettato di ri¬  leggere tutto il libro, che non avevo riletto, nè ricopiato,  dopo scrittolo. A Firenze, nella Magliabechiana, trovai  di Pomponazzi un manoscritto inedito col titolo di Quae-  sliones ammostiate : * le chiesi al Napoli. 3 Mi promise di  spedirle subito, ed ancora non le vedo. Ciò mi turba  non poco, non potendo sbrigare subito la stampa. Ma¬  ledetta fiaccona degl’italiani! ».    1 III Saggi ili critica, Napoli, 1867.   5 Cfr. Fiorentino, Pomponazzi, p. 509.   «Federigo Napoli, allora segretario generale del Ministero della I. P.Uscito il libro, il Fiorentino, mandato che l’ebbe allo  Spaventa, ne attendeva con la solita ansietà un giudizio.  E giudice, in altro campo, era stato quell’anno lo Spa¬  venta a Bologna, tra ire, sospetti e timori, di cui un’eco  risuona anche nella lettera qui appresso riferita del  Fiorentino. Era stato col Brioschi e il Messedaglia a  fare quella ispezione alla Università, di cui parla il  Carducci in Ceneri c faville ; e aveva riferito lui al Mi¬  nistero.   Mio Carissimo amico,   Ilo ricevuto i manoscritti del Gatti, che ho consegnato  subito al Siciliani, uonchè lo due dispense che mi mancavano,  e di cui ti ringrazio vivamente... Non ho visto incora l>e  Meis, ma fari) di tutto per leggere la lettera di venti pagine: 1  ci dovrà essere una epopea intera.   Qui si fa un grati dir male di te per la famosa relazione: *  io uon l’ho letta, e se non la leggerò, non me ne sto al detto  di nessuno. Mi si è detto cose, alle quali, come puoi pensare,  non ho potuto dar credito: tra le altre cose che voi avete  dato una patente d’ignoranti a tutta l’università in massa,  e che in difetto di scienza, si va in cerca di popolarità nello  associazioni politiche, lo per me, se fosBe vero il detto, nou  protesterei per l’ignoranza, che sento di averne una grossa  dose in corpo, nm protesterei per la popolarità, perchè non  no ho avuto mai gran voglia ; e se si acquista nei cliilie, ci  vorrà un pezzo prima che me ne tocchi un briciolo. Manco  male se si acquistasse dormendo, perchè allora potrei averci  delle pretensioni. Fuori di scherzo, quello che si bucina qui,  e che ha prodotte molte ire, nò senza ragione se fosse vero,    1 La lettera al De Meis che fu pubblicala col titolo Paolotttsmo,  positivismo e raslonallsmo , c che é qui appresso citata.   « Si allude a una Relazione da lo Spaventa presentata al Ministero  della P. I. in seguito ad una inchiesta da lui fatta in commissione  col Brioschi e col Messedaglia, nell’ Università di Bologna, iter ragioni  d'ordine politico, nel 1868. Un articolo del Carducci su questa faccenda,  pubblicato Dell'Amico del popolo, di Bologna, del 29-H0 luglio iami. si  può vedere nel volume teneri e faville, serie I: Opere, è qnell’aver messo sotto nini tuie cntegorin, e tutti in un  fascio, i professori bolognesi, lo sono nn mezzo proscritto, perchè  sapendomi tuo amico, o si guardano di me, o mi tempestano  a tutta furia.   Lasciamo questa miseria. Ho letto i documenti che il Berti  lui stampato della vita di Bruno. Il processo veneto, se  non e stato adulterato il contenuto, fa mostra di poca fer¬  mezza, o non so persuadermene. Che cosa ne dici tu! Gli hai  visti! 1   Ho tra le mani pure la seconda edizione delle opere di  Comte, e voglio leggerla tutta, perchè ne ho Ietto soltanto  esposizioni, benché assai larghe.   Il mio libro è (inito, almeno le correzioni ultime le mandai  una settimana fa, ma ancora noi vedo. Appena uscirà, scriverò  a Firenze, che di là stesso te ne mandino mia copia, per far  più presto. Tu poi leggila col tuo comodo, e dimmene il tuo  parere, quando potrai. Capisco che hai molto da fare, o che  non puoi tutto quello che vuoi.   Mi prometto di avere qualcosa di tuo pel giornale; qualcosa  del Settembrini, fosse anche tuia pagina. Il Siciliani spesso  me ne fa premura... Io non solo non ti ammazzo, ma ti rin¬  grazio, e col vecchio adagio ti ripeto: meglio tardi che inai.  Non credo però a quel « subito », con cui vuoi darmi ad in¬  tendere che mi scriverai del lavoro di Labriola.* * Sii contenterei  che fosse tra nn mese.   Hai avuto il libro del De Meis! 3 Dopo il Don Chisciotte non  ho letto libro che mi avesse fatto rider tanto : le cause del  riso sono spesso gravide di grandi pensieri. Mi piace molto,  ma molto. Qui l’hanno con lui tutti, il dott. Rossi perchè  noi trova abbastanza filosofo, le donne per essere state chiamate  animali domestici, e portino i bambini per essere stati ingiuriati    1 II Fiorentino, esaminali più lardi gli atti del processo veneto,  si confermò Infatti nel sospetto che fossero adulterati. Vedi un suo  scritto nel Oiorn. napol. di fllos. e teli., luglio 1878.   * Non saprei dire a qual lavoro si alluda.   * Il Dopo la laurea del l)e Meis (1808-69).        per tignosetti. La contessa Gozzadiui 1 gli scrisse una lettera,  nella quale si firmava: « l’animale domestico di Gozzadini*.   Addio, mio carissimo Spaventa, veglimi bene come te ne  voglio io   Di Bologna, 19 maggio ’68.   Aff.mo tuo amico  F. Fiorentino.   Lo Spaventa dovette rassicurarlo sul contenuto della  famosa Relazione. Quindi quest’ altra lettera del Fio¬  rentino :   Mio carissimo amico,   Ero capacitato anche prima, che tu non potevi aver detto  tutta quella roba da chiodi di questa Università, che altri  diceva, ed i pih credevano, lo perù, come amico, mi tenui  in obbligo di informartene, non per conto mio, ma per tua  regola. Tu puoi già pensarti, che con gli altri ho detto, e  gridato, e asseverato, esser impossibile che tu avessi voluto,  e potuto dire quello che non era; e elio la verità poi non si  può, nè si dove tacere. La tua lunga lettera mi ha fatto bene,  perchè mi ha snebbiato adatto la meute: il cuore, già s’in¬  tendo, propendeva sempre a darti ragione, e non ci era bi¬  sogno di altri eccitamenti. Io dunque non solo non ti ammazzo,  ma neppure ti muovo un rimprovero, molto meno poi per  mie personali considerazioni, lo sono un misto di stoico, di  cinico, e di scettico, che di questi tre elementi non so quale  prevalga pih. Dal Ministero non voglio nastri, dagli studenti  non voglio applausi; dunque, mi sento in grado di resistere  ad ogni tentazione. Ad una sola cosa non resisto, ed è il  bisogno di voler bene agli amici, e di dir loro franca, ed  anche brusca la verità.   Tu avrai dovuto ricevere a quest’ ora una copia del mio  Pomponazti; perchè io, vedendo il ritardo di Le Monnier a  spedirmene le copie, commisi ad un mio amico di spedirne    1 Maria Teresa G., di cui scrisse la Vi la 11 marito, Giovanni Goz-  zadini (Bologna, Zanichelli, 1884), con pref. di G. Carducci. V. pure  Carducci, Opere, III, 369 ss.          una copia almeno a te ila Firenze stessa. Fa il tuo commotlo  nel leggerlo, ma poi dammene il piìl severo giudizio die tu  possa, perchè da nessuno me lo aspetto piìi aspro e più  istruttivo. Chi mi dica: bravo, non ini mancherà; ed anzi  più me lo dirà chi meno me ne crederà degno, nè io ho da  peccar contro la modestia per accettarli, o per pronunziarmeli  io stesso; ma chi mi mancherà di certo sarà chi mi dica: qui  hai sbagliato, là avresti dovuto pensar meglio: queste pagine  avresti dovuto bruciarle intere intere. Kbbene, voglio che  quest’uno non mi manchi, e dovrai essere tu. Mettiti al naso  l’inseparabile occhiale, aggrotta le ciglia, prendi quel cipiglio  mezzo tragico che hai nella fotografìa di Napoli ; e per dir  tutto in una parola, figurati di scrivere una pagina di quella  relazione, per la quale vivrai eterno tra gli archivi del Mi¬  nistero, e poi scrivimi un letterone quanto quello che scrivesti  a De Meis. Più male parole ci troverò, e più te ne renderò  grazie.   A proposito, quella tua lettera, con partito unanime, fu li¬  cenziata alla stampa, riseoandone certi nomi propri, e certe  espressioui che ricordavano il Candelaio di Brano... Io mi oc¬  cuperò in alcuni articoli successivi dei tuoi lavori. Vorrei  farne tre o quattro, o quanti me ne verranno, per far notare  lo sviluppo della filosofia italiana secondo la tua critica, che  a me pare una vera scoperta. Ma aspetto prima di finire le  lezioni, perchè tu sai che questa rivista non è tanto facile...  Addio, mio carissimo Spaventa, e veglimi bene come te no  voglio io   Di Bologna, 3 giugno 1868.   Ajff.mo tuo amico  F. Fiorentino.   La lettera dello Spaventa, stampata nella Rivisiti Bo¬  lognese, , che allora il Fiorentino pubblicava con l’Al-  bicini, il Siciliani e il Panzacchi, è quella al De Meis,  col titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo (rist.  in Scritli filosofici, pp. 291 sg.). Gli articoli che il Fio¬  rentino aveva in animo di scrivere sulla scoperta dello  Spaventa, non furono più scritti. Ma egli se ne occupò  qualche anno più tardi in quello inserito nell’itoh'a  dell’ Hillebrand.  STORIA DELLA FILOSOFIA    E poiché abbiamo accennato alle brighe universitarie  bolognesi del 1868, di cui fu tanta parte il Carducci,  diamo pure un altro curioso brano di lettera del Fioren¬  tino, diretta allo Spaventa poco dopo la sua partenza  da Bologna, dove si serba il ricordo d’una polemica  del Carducci col De Meis e col Fiorentino:   « Io sono stato poco bene, parte per la stagione che  corre, parte ancora per una certa polemica, nella quale  ci siamo trovati De Meis ed io, e di cui non so se ti  è pervenuto rumore. Or dunque, hai da sapere, che il  Carducci, credendo dall’articolo di De Meis, intitolato  Il sovrano, 1 offesa la dignità del suo partito, gli scrisse  contro nell’-Amico del popolo parole aspre. Gli diede del-  l’imbecille, chiamò citrullerie le cose dette dal De Meis...  L’ articolo non era firmato ; ma io sapeva esserne stato  autore il Carducci, per aver questi scritto le stesse cose  in una lettera particolare al Siciliani. s Risposi io, di¬  cendo... potersi combattere le opinioni, senza insultare  le persone. Il Carducci si rivolse contro di me una prima  volta ; ed io lo avvertii privatamente, che lo avrei jHinto  sul vivo. Non si stette a questo avviso, e ripigliò da  capo una tirata contro di De Meis e di me ad un tempo »  (18 marzo 1868).   Il Fiorentino replicò, ed ebbe, a quel che sembra,  l’ultima parola. Ma, «tutto ciò mi ha irritato», egli  scriveva nella stessa lettera, « ed il povero De Meis  n’era rimasto seriamente afflitto : dopo avuta la rivincita,  che tutta Bologna ha approvato, si è rinfrancato ; ed ora    * Pubbl. nella Rivista bolognese del 1868.   * Documenti dell’amicizia del Carducci per P. Siciliani sono i  giudizi del primo sul Rinnovamento della filosofia positiva in Italia  del Siciliani, In Ceneri e faville, 8. II, Opere , VII, 362-68: e le af¬  fettuose parole Alla bara di P. Siciliani, in Ceneri e faville, s. Ili,  Opere, XI, 313-316.      è allegro e sta bene... Eccoti descritta la nostra battaglia,  eh’è finita con nostro decoro».   Quegli articoli il Carducci non li volle pili ristampati.  Ma insieme con quelli del Fiorentino sono stati rin¬  tracciati dal Croce, che ha così potuto tessere la storia  di questo aneddoto. 1   In un’altra lettera di due anni appresso (25 maggio  1870) del Fiorentino allo Spaventa si legge ancora: « Io  sono sul punto di rientrare in lizza col Carducci, che  mi ha provocato con una nuova lettera insolentissima.  Questa nuova contesa, alla quale non ho potuto sot¬  trarmi, mi fa crescere il desiderio di allontanarmi de¬  finitivamente da Bologna ». Nel novembre 1871 il Fio¬  rentino, infatti, si fece tramutare nell’ Università di  Napoli, come professore di Filosofia della storia.   Ma non aveva lasciato Bologna quando cominciò a  lavorare intorno al Telesio. Ecco infatti che cosa scriveva  allo Spaventa il 14 gennaio 1869:   Mio carissimo amico,   Sono passati sei lunglii mesi che uè ti ho piti visto, nò ho  avuto tue nuove, tranne questa che mi diede tuo fratello,  che tu eri stato a villeggiare negli Abruzzi. Ora è cominciato  un anno nuovo, e voglio ritentare se tu, chi sa, volessi pure  incominciare una vita nuova. Dalla parte mia non voglio  mancare di mandarti i miei augnrii, tra i quali non ultimo  quello di scrivere un poco più frequentemente agli amici. Vedi,  che non ho detto di pensare o di voler bene ad essi, perchè  so che per questo riguardo non ci è bisogno di miglioramenti.   Io quest’ anno mi occupo di Leibniz o di Spinoza princi¬  palmente, poi dei seguaci, e, se mi avanzerò il tempo, di Ma¬  lebranche. Mi servo, oltre alle opere loro, di varii espositori  e critici, tra i quali della stupenda storia di lCuiio Fischer.    1 Vedi B. Crocb, Documenti carducciani: una dimenticata potè-  mica tra II Carducci, F. Fiorentino e A. C. De Mele, nella Critica  vili (1910), pp. 401-421.       t    Avrei intenzione di scrivere quulclie cosa sul movimento  telesiano, ed ho scritto per avere alcuni manoscritti che ri¬  guardano Telesio, e che si trovano parte costà, parte a  Firenze. 1 lo aspetto sempre il tuo parere sul mio libro;  parere, che per essere più aspettato, e piìì pregiato di tutti,  si fa lungamente desiderare. Ma verràf Lo spero.   Hai letto che cosa ne scrisse Franti sul Centralblatt? Egli  stesso mandommi con molta cortesia un numero di quel gior¬  nale, dove ci era la sua rivista sul mio libro.   Con De Meis ci vediamo spesso, ma egli non è in grado di  darmi tue nuove, più che io non sia riguardo a lui. La  neve ieri si è fatta vedere la prima volta in città: tu però  quest’anno non verrai a goderne lo spettacolo. Io quasi quasi  sarei tentato di pregare che a qualche professore saltasse in  capo di tribuneggiare per la tassa del macinato, per vederti  comparire in commissione straordinaria. Ma non vorrei poi il  danno del prossimo: in questo sono cristiano.   Tra questi giorni scriverò a Vera per invitarlo a scrivere  qualche cosa su la nostra Rivista. 11 Siciliaui, con le suo  velleità ortodosse, n’ò uscito, come saprai, ed io e l’Albicini  vorremmo tenerla in piedi, anche uu po’ più decorosamente.  Con te non ci vogliono inviti; ma, lo so purtroppo, non c’è  neppure da far grande assegnamento.   Addio, mio carissimo, scrivimi qualche riga, anche per dire  a chi mi doumnda di te, che sei vivo o sano.   Di Bologna, 14 del 1869.   Aff.mo tuo amico  F. Fiokentino.   L’articolo del Franti sul Pomponazzi uscì nel Cen-  tralblait del 30 ottobre 1868, e fu tradotto dal Tocco e  pubblicato in Italia, in una difesa dell’opera del maestro  contro gli attacchi della Civiltà Cattolica (nella Rivista  contemporanea di Torino, a. 1860, voi. LVI, pp. 247 58).   Del Telesio si torna a parlare in una lettera del 9  novembre 1869 : « Tocco ti ha mandato la prima dispensa    1 Vedi L. Settembrini, Epistolario, con pref. e note di F. Fio¬  rentino, 3.* ed. Napoli.  delle sue Lezioni, * 1 e so che aspetta il tuo giudizio. Io  ho cominciato a scrivacchiare le prime pagine di un  lavoro sul Telosio, che non so come mi potrà riuscire.  Aspetto la tua memoria completa su P Etica di Hegel. 1  Quanti più ne conosco, tanto più ti stimo e ti voglio  bene. Dimmi ora una cosa; vorrei dedicare a te ed  a De Meis questo mio lavoruccio sul Telesio, quando'  sarà finito: accetteresti tu la dedica? Tra me e te non  ci sono timori di adulazione, o di altri secondi fini :  è una pubblica professione di stima e di amicizia, che  mi piacerebbe di fare...». Il primo volume del Telesio  (18<2) fu dedicato, infatti, allo Spaventa: non solo  come testimonianza di amicizia, ma come dovere di gra¬  titudine e di giustizia: di giustizia verso chi aveva  scritto i saggi sul Bruno e sul Campanella ; di grati¬  tudine per l 'insolita luce che scintillava da essi, e da  cui il I iorentino era rimasto colpito. In questi studi  storici sui filosofi italiani del risorgimento il Fiorentino  infatti non fu, come s’è detto, se non uno scolaro dello  Spaventa: da lui avviato e da lui guidato.   Ecco come cou lo Spaventa si consigliava per pre¬  pararsi al primo corso di Filosofia della storia da tenere  a Napoli :   Camerino, 26 luglio 1871.   Mio carissimo amico,   Ti Borivo da Camerino, per sapere come stai, poiché non  mi iti dato di rivederti a Bologna, dove sperava poter passare  qualche giornata cou te. Avevo anzi desiderio di discorrere    1 F. Tocco, Lezioni di filosofia ad uso de’ Licei, Bologna, R. Ti¬  pografia, 1889, con pref. del Fiorentino.   1 il proemio a gli Studi sull'mica di Hegel era uscito nel 1869 nella  Riv. bolognese; ma l’anno stesso fu ristampalo con gli Studi negli  Atti della R. Acc. delle se. mor. e poi. di Napoli; e il tutto fu ripub¬  blicato da me nel 190-1 col titolo di Principti di Elica (Napoli, Pierro). teco seriamente, per sapere che cosa avresti creduto meglio,  ch’io potessi insegnare nel corso dell’unno venturo in coleste  Università. Tu sai meglio di me i bisogni, i desideri!, ed  anche i gusti di costà, lo per me vorrei far poche chiacchiere  sui generali, e, detto quel tanto eli’è indispensabile come in¬  troduzione, entrare a dirittura nel tema, che sarebbe, salvo  tuo avviso in contrario, il mondo grimo. Dol mondo orientale  so poco: avrei bisogno di studiare prima; ed il tempo, per  questo anno almeno, mi manca. Della Grecia conosco qualche  cosa, e con questi tre mesi di studio mi preparerei suffiiiien-  temente. Che cosa ne dici tu? Quali libri mi consigli di leg¬  gere ? lo sto rileggendo gli storici greci ; e dopo averli riletti  testualmente, uii gioverò del Grote e del Curtius. Per la parte  letteraria ho il Milller (Ottofrodo); per le religioni, la Storia  di Alfredo Minirv; per la parte filosofica, il Zeller; per arte  greca forse mi gioverebbe il Winckelmann, ...a noi so, perchè  ancora non lMio lotto.   Da tutti questi potrei attingerò, si sa, i materiali; ma U  resto è da fare. Le poche linee di Hegel nella Filosofia Mia  storia mi servirebbero di traccia: sui tuoi consigli poi faccio  largo assegnamento. Intanto comincia dal darmene qualcuno,  e fa presto...   Tutto tuo  F. Fiorentino.    Aggiungo qui appresso un altro gruppetto di lettere  o frammenti di lettere dello stesso Fiorentino allo Spa¬  venta, di cui trassi copia alcuni anni fa dalla carte  dello Spaventa ora depositate presso la biblioteca della  Società napoletana di storia patria ; poiché anche queste  lettere e frammenti / gettano qualche luce sugli studi,  sulle passioni, sulle idee, che si agitavano in Italia in¬  torno allo Spaventa.   (Pisa). — Ieri sera parti di Pisa Silvio, ed  a quest’ora sarà a Milano, e domani parlerà a Bergamo. Si  trattenne con me la giornata d’ ieri, ed arrivò qni avantier-  sera. Sta benissimo, e me ne sono consolato tanto. Gli dissi   elle ti avrei scritto stamattina ed al solito ti mando queBta  lettera col liciti. 1   K la tna lunga lettera? 15 rimasta tra i pii desiderii, di  cui è lastricato, dicono, 1’ inferno.   Io ho scritto una risposta all' accademico linceo Pietro Hu-  cione. 1 Si sta stampando a Napoli, e vorrei che tu ne guardassi  le prove prima di pubblicarsi. Ne ho scritto al Zumbini,  perchè te la mostrasse. Gli ho fatta una lavata di capo delle  mie solite. La presunzione e P ignoranza nel Ferri si bilan¬  ciano tanto, che non so a quale delle due dare la preferenza.   Aspetto tua lettera dopo letto questo articolo: mi preme  sapere il tuo giudizio, e ti do piena facoltà di mutare, e di  cancellare anche qualche cosa, die non ti paia conveniente,  o inesatta.   (Portici, 9 settembre ’73). — Ieri tornai da Soma, dove la¬  sciai Silvio che stava benissimo. Ho trovato qui una lettera  dello Zeller, clic mi annunziava la sua venuta a Napoli. Oggi  P ho visto, ed ho insieme saputo dal Labriola, che tu sei a  Maddaloni. Vuoi vederlo? Oggi si è parlato di te, ed egli de¬  sidererebbe di conoscerti di persona, come ti conosce di fama.  Dimora questa settimana...   (Pisa, 31 dicembre ’7(i) — Prima che tramonti l’ultimo sole  ili questo anno, e sta già per tramontare, voglio scriverti. Il  tuo ostinato silenzio avrebbe scoraggiato ogni altro, non me,  ohe quando si tratta di te, il peggio che possa pensare è,  che il calamaio l'abbi o smarrito, o asciutto come la sabbia.  Kccoci ora intesi : tu taci, io scrivo.   Io sto bene, e tutti di casa pure, salvo la Tuta 3 eh’è un  po raffreddata. E tu? E donna Isabella? E Camillo e la  Mimi f 4 Speriamo che stiate bene, ed auguriamo che stiate  meglio.    Pisa 1501 ** 0 ’* malenla lico, che insegnava nella Università di   lll0R0, '° Luigi Ferri, cui era sialo tra gli amici dello Spaventa  applicato tale nomignolo dopo elle Vittorio Imbruni nel Olorn  Napol. di filo.,, e leu , aveva rilevato lo strafalcione dal  j ,, commesso nel trascrivere f.V. Antologia, voi. XX, 1872) l'epitrrafe  della tomba del Cusano in S. Pietro In Vincoli leggendo: Promise*  Pelei lìucionts [invece di retri — bucionisj non fefetut eum »   HestItuta Trebbi, moglie del Fiorentino.   * Isabella Scano moglie dello Spaventa; Camillo e Mimi tigli.   Ln disfatta del nostro partito mi ha commosso non por me,  che sai quanto io stimi il genere umano in massa; ma pe  miei amici, per tuo fratello specialmente, che non ha alte  vita, si può dire, che la politica. Ne sono stato costernato,  ancora è scemata l’impressione. Nicotor» è dunque 1 arbitro  dell’Italia, e tutti, o quasi, gli si curvano, gl. si prosternano  innanzi. Quanta viltà 1 Quanta corruzione! Vaie il pregio <  curarsi del prossimo! E una terribile domanda : piò si conosce  il moudo, e piti si devo disprezzare: Leopardi non aveva  torto. Ma... c’ è un ma; ed io ti confesso che non mi “ ,re “ do -  con tutte le ragioni in contrario. Mi sono chiuso, vivo tra.  miei ed i libri, non vedo nessuno, non conosco e “   conosciuto, e mi sento beato in questo silenzio ed in questa  oscurità. 11 mio Niuarello cresce eh’è una delizia, ad ha tonto  alletto e tanto accorgimento, che mi diverte e mi ristora,  tess’io vederlo giovane fatto come il tuo (.umilio   Non Io perchè, mi sento ora più legato alla vita, come non   Cì iTn povero 1 Settembrini f  A casa mia ci fu lutto come  se fosse morta persona nostra: lessi la notizia su la Gazze a  dell’Emilia, ed insieme appresi la scondita di bihio.  colpi in una volta. Ma Silvio tornerà alla Camera, e al Mi¬  nistero, se il senso dell’ onestà non sarà spento nel nostro  nomilo ; il povero Settembrini non tornerà piu .   • Penso di scrivere per lui un articolo sul Giornale napoletano;  è la sola cosa ch’io possa fare per lui. Ma lasciamo questo   tr Che3 U rfacendo t lo sto scrivendo certe lezioni di  filosofia pei Licei: il Morano mi è stato addosso, e finalmente  mi ci sono piegato. È cosa molto ardua, ed il noti poterti  allargare quante vorresti, toglie gran parte della scioltezza  del pensiero, ed anche dello stilo. Farò alla meglio e quel  eli’è peggio, in fretta. 11 Morano commise lo sbaglio di un   f..U, munirò ...» »». «,•«•*>   fogli, ora con la spada alle reni ni’...calza per la tonti   n u azione.   i n settembrini mori addi 3 novembre 1878. Il Fiorentino non   scrisse poi l'articolo di cui parla in questa lettera; del rimpianto  scrisse P°' ,, u Scriui va .u di tener, polii, ed atte   (Napoli, Morano. 1873; e V Epistolario (ivi, 1883), premettendo agl.   uni e all'altro belle e affettuose prelazioni. All’ Università faccio nu corso di Etica, ed lio riletto la  tua memoria su l’Etica di Hegel. Hai visto il giudizio  portato dal Berlini 1 su di te, o di Hegel f Ci ho avuto molto  gusto, perchè la sua autorità non è sospetta, come In mia,  appresso la filosofia italiana. Povero Bortini, spento anche lui 1   Scrivimi, se puoi, e se vuoi: lascio la cosa al tuo arbitrio ;  non cosi, il volormi bene che in mezzo a tanti disiugauni  mi preme e mi giova assai.   Alla tua famiglia di tanti augurii anche da parte della  mia, e tu credimi sempre, e non a parole.   S. — Vedi se puoi sorivere qualche cosa pel Giornale  napoletano.   (Samhinse, 25 agosto 1877). — Ed ora un’altra notizia.  L’arciprete Pompa mi perseguita per causa tua: ha scritto  su l' Eburino, giornale che si stampa ad Elicli, una recensione  di un uuovo capolavoro artistico dell’Acri, e dico che io sono vo¬  tato a te anima e corpo. Fin qui non erra : ma il reverendo, pos¬  sessore de’ documenti della storia antidiluviana, non sa farsi  capace della mia polemica contro il vice-gesh, ed il vice-  Fornari; cioè contro il Fornari, e l’Acri.   Quest'ultimo, dopo di aver ponzato altri 14 mesi, è venuto  fuori con un opuscolo su Spinoza ; non so che cosa dica, e  come c’entri coi giudizi su la filosofia italiana, ch’egli doveva  convalidare. Non ho nessuna intenzione di rispondere, qua¬  lunque sia il libro, che ancora non conosco, se non per la  receusione dell’arciprete noetico».    1 Su G. M. Berlini (1818-1876) v. lo mio Origini della fllos. contemp.  in Italia. 1,* 129-201. Il giudizio cui alludo 11 Fiorentino, é contenuto  in una lettera del Berlini al prof. P. Merlo, pubblicala nel Giornale  napoletano di fllos. e letl. (ottobre 1876) IV, 823, dov’é detto: « Vi ringra¬  zio di avermi mandato lo scritto dello Spaventa, che io considero corno  il più serio e il più chiaroveggente degli Hegeliani d'Italia. Volendo lo  terminare un corso di filosofia elementare ad uso de’ licei... mi sono  creduto in obbligo di tener conto delle dottrine di quel valentuomo,  tanto più che io sono sempre in questa persuasione, che II restringere  il vocabolo scienza a significare puramente i risultati dell'esperienza,  dell'osservazione e dell’induzione, come si fa oggidì, negando ogni  valore scientifico alle discipline speculative, sia non solo arbitrario,  ma contradittorio... Quindi io credo che sla salutare un ritorno ad  Hegel, o per dir meglio, al suo metodo, e a quella sua assoluta, e  direi quasi eroica fiducia nelle forze della ragione umana ».  STORIA DELLA FILOSOFIA    (Pisa). — Prima di scordarmi, ae hai por¬  tata la Vita di Giordano Urlino, 1 dalla al Betti che me la  porterà: se no, mandala a Domenico Morano, affinchè me  la l'accia pervenire.   li Bruno si sta copiando, e dentro questa settimana co-  mincerò a mandare il manoscritto. Spero che tu hai con¬  certato pei caratteri, pel formato, per la carta. Se non avessi  ancora stabilito niente, scrivo che aspettino Beuz’altro il tuo  ritorno.   Il Peipers mi ha risposto che a Gottinga si conserva sol¬  tanto il manoscritto delP Oratio coneolatona ; ma non mi dice  neppure s’è autografo. Quest’ orazione io la trovai a Roma  tra la collezione degli opuscoli del Cardinal Valenti, ed è  rarissima. Vale la pena di far veniro il manoscritto? Nota  che a Gottinga, la copia stampata non l’hanno neppure.   L’edizione del Gfrorer ! non si trova in commercio : il  Zeller uii ha mandato la sua, la quale però è mancante della  quinta dispensa. Ne ho data commissione, ma non so se mi  riuscirà pescarla.   Ho scritto per l’edizione del Tugiui, Ve Umbrie idearum.   Ho riscontrato il Buhle : non dice nulla di manoscritti : porta  un catalogo delle opere abbastanza esatto. Ho trovato qualche  altra notizia sul Bruno uelPAoidalio. 3   Dopo che tu partisti di Roma, riseppi che nell’archivio  della congregazione di San Giovanni decollato c’ era la no¬  tizia del giorno della esecuzione del Bruno, e che questa  data non corrisponde a quella generalmente ritenuta (17 Feb¬  braio 1600).* * Mi è stata promessa una copia, benché quei  fratacchioni non vogliano far supero nulla. La notizia ag¬  giunge, che a nessun patto si volle convertire. Come sai,  questa notizia è un documento autentico, perchè finora non  c’ è altro che la lettera di quel furfante dello Scioppio. I.a Vita scritta da D. Berti (Torino, Paravia, 1888).   * Ossia il volume degli Scritti latini del Bruno, pubblicati nel 1838  (frontespizio 1831) da A. Kr. Gfrorer a Stoccarda.   * Cfr. la pref. dello stesso Fiorentino alle Opere latine del Bruno,  ed. naz , I, p. XX.   * Il doc. pubbl. in facsimile nel voi. Ili delle Opere latine del  Bruno a cura di F. Tocco e G. Vitelli (Firenze. 1891).      Inoltre il cav. Podestà 1 * mi disse, che a lui orati venute sot-  t’occhio parecchie carte mauoscritte concernenti il Bruno: non  sapeva però dove. Cercai una giornata intera, ma ce ne vo¬  levano delle dozzine di giornate, ed io avevo fretta di tornare.  Il Podestà mi promise di continuare le ricerche: se no, ci  andrò io per lina settimana.   Mi ci sono messo, o voglio riuscire.   Tornato tjiti, trovai Nino ammalato di febbre gastrica: com¬  parvero lo macchie difteriche; in un giorno si pennellarono tre  volte; due altre volte il giorno appresso: disparvero. Ma come  fossi stato io d’animo, tu puoi pensarlo. I nervi mi ballano  ancor», o tra giorni andremo in campagna, in una villa che  ho trovata in iptel di Lucca.   Ilo avuto i titoli di Bàrbera, 5 quelli del Siciliani non ancora:  conosco gli uni e gli altri; ma r/itid agenduml Sono tra l’in¬  cudine e il martello, e non so a qual partito appigliarmi.   E tu dimorerai a Napoli? Ovvero andrai in campagna, e  dovei Vorrei saperlo.   Il Labriola mi ha mandato un suo articolo su la libertà; 3 * e  vorrebbe ne dicessi qualche parola: mi ci trovo imbrogliato.  Capisco il Labriola, quando parla, non lo capisco quando  Bcrive. Non ha stabilità di pensiero, ondeggia in aria, ed  ha la pretensione di parere elaborato, come egli mi scrive.  Capisco Herbart, non capisco lui. L’oscurità non è nelle  parole, o nello stile, è dentro la testa.   Ilo letto il discorso di Silvio, e poi Insita sdegnosa lettera  all’Opinione, tritai maturità ili pensiero nel primo, e qual forza  di carattere nella seconda! Il discorso appartiene al mondo  moderno, ma la lettera è di altri tempi, ed ora non tutti  possono gustarla.   Salutamelo tanto, anche da parte della mia famiglia, che  fa lo stesso con te.    1 11 bibliotecario Bartolomeo P. <m. noi 1910), allora nella Vltt.   Emanuele di Roma.   ’ Luigi Bàrbera, che fu professore di Filosofia morale nella R. Uni¬  versità di Bologna.   * Del concetto della libertà, studio psicologico, nell'Archivio di sta¬   tìstica del 1S78 (risi, in Lakkiola, Scritti cori, ed. Croce, M’ero dimenticato di raccomandarti il Persiani. È  impaurito, perché il relatore 1 non sei tn, ina un lombardo  (forse il Teneaf), e par che dalla Lombardia non si riprometta  gran che di bene. Son certo però che tn potrai njutarlo  sempre.   (Pisa, 22 marzo 1877). — Avantieri ti scrissi a Napoli,  ed ora avendo saputo che il Betti ò stato chiamato per tele¬  grafo, ti rescrivo da capo, e ti manderò questa lettera per mezzo  suo. Io non gliela posso portare di persona, perchè sono al¬  quanto infreddato a causa della lezione d’ieri.   Tu che sei la fenice dei Presidenti, specialmente quanto  a prudenza, vedi se non entra fra le attribuzioni presidenziali  quello che ti chiedo io.   Ho bisogno di venire a Roma, perchè il primo volume è  finito, e per continuare la stampa voglio esser certo che il  ministro non adduca cavilli : nel qual caso pianterei 11 la  baracca. Premesso ciò, e visto e considerato che il Ministero  ha premura pel Siciliani, e poca o punta premura pel concorso  di Torino, visto e considerato, che sta alla chiaroveggente  perspicacia del Presidente il decidere se necessiti la convo¬  cazione del concilio: io riproporrei che tu ci convocassi; che,  convocati nell’ interesse del pubblico erario, stimoli i padri  ecumenici di Roma a finir la eterna questione di Torino; e  son certo, come ogni dottor Pangloss, che tutto andrò per lo  meglio in questo perfettissimo mondo, tranne il mio raffreddore  che sempre piò s’ inasprisce.   Ed ora che ti ho detto il mio desiderio, tu con quell’occhio  critico che ti rende (che cosa dico!) che ti rende piuttosto  singolare che raro, farai quel che crederai.   Ed orn da capo, ma su di un altro argomento, una notizia.  Nell’ultima puntata (stile mamianico) della Filosofia delle  scuole italiane, il sullodato Conte scrivendo all’amico Ferri,  sai che cosa gli dico f Che in tutta Europa (le pelli rosse e gli  Zulus non ci vanno compresi) a parlare di Platouo e delle  idee non ci sono rimasti altri che loro due. Povero Platone !  Chi glielo avrebbe detto, che dopo tante feste, e tanti conviti,    1 Nel Consiglio Superiore della P. I., di cui Carlo Tenca, come lo  Spaventa, faceva parte, e da cui il Persiani aspettava 1’ abilitazione  all' insegnamento. tanti commensali (a 20 franchi l’uno) che lo ringiovanirono,  lo restaurarono, lo rinnovarono, oramai, finita la digestione del  pranzo, ognuno lift preso la sua via e di idee non ne vuol  sapere nessuno più? Chi avrebbe creduto che perfino quello  ragazze, tanto belline, tanto plutoniche, si son buttate anche  loro al materialismo 1 1 Ah ragazzo, ragazze: da voi me lo  aspettavo, che sareste rimaste platoniche lino ad aver  trovato un marito, o un facente funzione; ma il Finali, il  Monabrea, il Borgatti, tutta gente massiccia, chi avrebbe mai  creduto ohe avrebbero lasciato nelle peste il Conte ed il suo  illustre oommilitonef   Vista la brutta china, direbbe il Sella, io proporrei (il  raffreddore mi ha dato un diluvio di proposte) che il Ma-  miani ed il Ferri siano impagliati, e ben conservati nell’atrio  dell’Accademia de’ Licei con questa memore iscrizione:   QUESTI BIPEDI IMPLUMI  ULTIMI DELLA SPECIE ESTINTA  RIMASERO platonici,   ESSI SOLI IN EUROPA  DOPO IL PRANZO PLATONICO Dopo della qual cerimonia vorrei che l’Accademia prelodata  a voti unanimi incaricasse il poeta pindarico B. Spaventa  perchè ne celebrasse condegnamente l’eroismo. E diamine 1  Alle Termopili furono treceuto finalmente, eppure Simonide  s’incaricò di cantarne: qui si tratta di line soli, in Europa,  non contro schiere barbariche, ma contro eserciti di dotti, e non  ti paro che ci sia più materia di canto? Ridettici bene, e poi  dimmi il tuo avviso.   Tu duuque hai leggicchiato il mio amico Marino! 5 Beato te,    1 Scolare dell’ Istituto superiore di Magistero, allora fondato a  Roma: le quali — era la prima volta che si vedevano tante signorine  in una Università — frequentavano alla Sapienza le lezioni di D. Berti.   * Su questo pranzo v. le mie Orig. della fllos. contemp., I, 1 p. 117.   * Una critica che I.uigi Marino (che fu poi professore di Filosofia  morale nella Università di Catania) aveva pubblicata degli Elementi  di flloso/la del Fiorentino.        che hai tanto tempo da marineggiare. Io l’ho qui il suo  libro, ma non mi è avanzato un briciolo di tempo: ed ho una  sua lettera autografa, che impaglierò pure. Povero giovane!  Mi ha scritto con una ingenuità, ohe se mi fosse vicino, lo  abhraccerei. Abbracciarlo sì, ma leggere no. Non gli ho neppure  risposto, ed ho fatto male. Volevo leggere prima e poi scri¬  vere. La bestia che sono stato! Bisogna fare il rovescio: uè  senza un perchè i metodi moderni fanno precedere la scrittura  alla lettura. Berti, p. es., fondatore della moderna pedagogia  prima lm scritto lo suo opere, e solo da qualche mese iu qua,  a quanto mi assicurano, si sta esercitando nella lettura.   A proposito, vorrei venire a Berna per informarmi da lui,  perchè Camoeraceneie, che vuol «lire di Cambrai, egli l'ha  tradotto della Sorbona : facendo poi una dottn osservazione,  che cioè il Bruno or* saltato a piè pari dentro la rocca dol-  1’ aristotelismo eco.   E poi vorrei sapere, perchè dice che il De immenso, è un  libro, uno tA’ tanti in cui è divisa l’opera De monade, nu¬  mero et figura; quando il De immenso ole. contiene otto libri,  ed il De monade, che sarebbe il contenente, non contiene nè  otto, nè due, perchè è un libro solo, unico tiglio di madre  vedova.   Sono piccoli nèi, lo so, ma che dimostrano una piccolissima  cosa: il precetto pedagogico che testò avevo 1’onore di dirti,  cioè ch’egli prima scrisse, poi lesse ; o forse scrisse, e poi  spese, nello stampare, il tempo che doveva impiegare nella  lettura.   11 Barzelletti 1 però assicura eh’è il gran capolavoro della  critica italiana : così mi han dotto, perchè io, al solito, non  1’ ho visto ; e poiché 1’ articolo sarà tradotto certamente dnl-  l’inglese nella lingua degli Zulus, io mi tiguro la festa che  faranno quegli eruditi di laggiù.   A furia di scrivere, mi sono snebbiato un poco il capo,  ina temo forte di averlo annebbiato a te; legge di compen¬  sazione. Quando io mi trovavo a discorrere di lilosotia col  Berti, rimanevo muto: tu eri più fortunato di me, avevi il  pretesto di andare a fumare. Io che ho abborrito sempre il    1 Nell’ art. sulla Filoso/la in Italia pubbl. in una rivista inglese,  e poi tradotto nella Muova Antologia del 15 febbraio 187».tabacco, »e tornassi deputato, per non dovermi ingoiare quelle  forti dosi di filosofia scientifica, che mi somministrava il nostro  Berti, m’imparerei a fumare. Meglio lo stomaco sconvolto,  elle il cervello come un mulino. Spero bene però che non  sarò costretto a nessuno di questi tormenti. Non mi dicesti se Morano ti diede o no la prima parte  del Manuale ili moria della filosofia. Fattelo ilare, e leggic¬  chialo: invece di Marino, potresti dure un’ occhiata al libro  mio. Vorrei sapere se quel tanto è sullìciente per la coltura  generale, o s'ò dippiit, o di meno. Mi servirebbe di norma  per le altre duo parti (Portici). Ha lettera dal Zeller,  che ancora ò a Roma, e seppi del viaggio che faceste insieme  felicemente. M’incaricò pure di dirti tante cose per la lettera  che poi gli scrivesti da Napoli. Egli è in giro dalla mattina  nlla sera, e crede che noi ci vediamo quotidianamente, e non  che siamo a due poli opposti. Ha la ricetta : si è fatta la bobba, ma non li’ è venuta  fuori la storia delle prove dell’esistenza di Uio.   Per un concorso a una cattedra universitaria, della  cui commissione faceva parte il Fiorentino ed era presidente io Spaventa, questi lo aveva pregato di raccogliere gli appunti per una relazione sulla voluminosa  Storia delle prove dell! esistenza di Dio di Romualdo Bobba.  Il Fiorentino, il 19 aprile 1879, da Pisa gli rispondeva. Letto il tuo, piò volte espresso, desiderio, ho posto mano  alla lettura del Itobbu. Un corto estro maccaronico mi invase  alla prima pagina; ma ho lasciato il poema lutino ai primi  due versi e mezzo. Eccoteli:   Iufainem, liertrunde, iubes supportare laborcm,   Insipidimi scilicet putidumqiie ingoiare bobatam ;   Obediain tamen etc. Esto prendendo appunti; ma che diavolo vuoi appuntaret  Finirà prima la pazienza mia, che le sue sciocchezze. È un  pover’ uomo, e noi uccideremo un morto. (Pisa. — E poi c’è il secondo libro della  Legge morale di  Crescenzio: il titolo è Francesco Fiorentino. Te lo saresti sognato eh’ io dovessi diventare nn secondo libro  della legge morale! Neppure per idea: la Puglia fa miracoli.   Ma la cosa non Unisce qui : il terzo libro sarai tu. 1 u  in persona! con gli occhiali, con gli stivali alla prussiana,  tu sarai un libro di un’opera. Non so se l’opera avrà molti altri libri : a congetturare  dall’opera de intellectn dello stesso autore, ch’era divisa in  100 libri, par checi debbano entrare il mellifluo D’Èrcole, il veronese Bertinaria, ed il truculento Ferri, con parecchi altri  personaggi minori. Ogni libro costa 20 centesimi : ed io per  ora sono venduto a questo prozzo : tu iorse salirai a cinque  soldi ; o calerai a tre, secondo che P opera seguirà il processo  ascensivo o il discensivo.   Il bello consiste ne' documenti. Nella copertina 1 autore dimostra che io sono causa di parecchie depredazioni e grassazioni nei pressi di Casale. La mia influenza venefica s è  esercitata, per non so quale selezione, su la provincia di Ales¬  sandria: e la tua! Probabilmente verso Girgenti, o in quei  pressi. Che non ci sii stato non preme, l’etica hegeliana è come la filossera, si estende per salti di 70 chilometri la volta.   Delle stroncature, come oggi si direbbe, dei De Cre¬  scenzio ormai chi se ne ricorda più ? Ma c’ è sempre  qualche De Crescenzio in giro, pronto a dimostrare,  come quattro e quattro fanno otto, che il tal filosofo o  il tal altro sovverte la legge morale, il buon senso, o  le leggi fondamentali della logica ecc. Ma il filosofo può  accogliere siffatte dimostrazioni con lo stesso buon umore  del Fiorentino. Intorno al Fiorentino v. le mie Origini della filosofia contemporanea in Italia. Giovanni Gentile. Keywords: Reale Accademia d’Italia, what does ‘fascista’ applies to – philosophically? To ‘state’ – how is it defined philosophically? Opera complete frammenti di storia di filosofia 3 volls -- - Refs.: Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice – Luigi Speranza, “Grice e Gentile: implicatura conversazionale” -- Conversation and inter-subjectivity. – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice e Gentile – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo italiano. Grice: “I love Gentile; like me, he is interested in Aristotle’s immotum motor, and the idea of number in Plato – but he extends his views to all the rest of philosophy of language; if Vitters wrote a ‘trattato,’ so did Gentile!” – Si laurea a Pisa sotto Carlini. Insegna a Mantova, Vigevano, Padova e Trieste. Fonda il Bollettino filosofico. Considerato il fondatore della "scuola padovana" di metafisica neo-aristotelica.  Altre opera: “La dottrina platonica delle idee numeri e Aristotele” (Pisa: Tip. Pacini-Mariotti); “I fondamenti metafisici della morale di Seneca” (Milano: Vita e pensiero); “La metafisica presofistica; con un'appendice su Il valore classico della metafisica antica, Padova: MILANI); “La politica di Platone, Padova: MILANI); Institutio: sommario storico di filosofia dell'educazione, Verona: La Scaligera); “Umanesimo e tecnica, Verona: Arti grafiche Chiamenti); “Bacone, Brescia: La Scuola); “Didattica: testo ad uso degli istituti magistrali e dei giovani maestri, Milano: Marzorati); “Filosofia e umanesimo, Brescia: La scuola); “Il problema della filosofia moderna, Brescia: La scuola); “Come si pone il problema metafisico, Padova: Liviana); I grandi moralisti, Torino: Edizioni Radio Italiana); “La riforma silenziosa della scuola: il completamento dell'istruzione primaria ma inferiore, Bologna: G. Malipiero); “Se e come è possibile la storia della filosofia, Padova: Liviana); “Storia della filosofia -- Periodo antico e medioevale -- Dal Rinascimento fino a Kant -- La filosofia contemporanea -- Padova: RADAR); Saggi di una nuova storia della filosofia, Padova: MILANI); Breve trattato di filosofia, Padova: MILANI). Dizionario biografico degli italiani. Gentile occupa sicuramente un posto importan-te nella storia della filosofia del secolo scorso, ma – se fin dall’inizio non vogliamo avanzare discorsi di carattere celebrativo o commemorativo, quanto innanzitutto teoretico – forse dovremmo dire, più correttamente e semplicemente, che egli occupa un posto importante nella storia della filosofia. Il senso di questa affermazione, e la ragione per cui vale la pena di rinnovare, anche in questa sede, la riflessione sul maestro patavino, è che egli ci rimette davanti alla struttura essenziale del filosofare. La sua concezione della filosofia come “problematicità pura” si di-mostra infatti quale dice di essere, veramente “classica”, in quanto, evidenziando in tale problematicità quella che non può non essere con-siderata la caratteristica fondamentale e imprescindibile del filosofare, mostra di possedere essa stessa un valore permanente ed attuale.Ricordato come fondatore della scuola padovana della metafisica classica, Gentile, proprio in virtù del riconoscimento dell’attitudine problematica del filosofare, poté affrancarsi dalla sua formazione idealisti-co-attualista e aderire alla scoperta aristotelica dell’Atto puro quale princi-pio divino trascendente l’esperienza. Egli sviluppò così una posizione ori-ginale che, giunta a maturità speculativa negli scritti padovani del secondo dopoguerra, si distingueva, oltre che dalla corrente neoidealista, ancora attiva soprattutto nel pensiero di Ugo Spirito, anche dalle due filosofie di ispirazione cristiana allora prevalenti, la filosofia neotomistica, nelle sue va-rie declinazioni (Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e la filosofia neoclassica di Gustavo Bontadini. Le sue opere più significative, in particolare  Come si pone il problema metafisico  (Padova 1955),   Breve trattato di filosofia  (Padova) e  Trattato di filosofia  (Napoli), non sono tuttavia solo innovative per l’epoca in cui sono state concepite, ma, come si accennava, restano a tutt’oggi testi vivi e parlanti, che, nella radicalità del domandare su cui si fondano, appaiono in grado di raccordare la prospettiva metafisica anche alla sensibilità esigente e inquieta del nostro tempo   Sent from the all new AOL app for iOSLa fecondità della problematicità pura non è peraltro esaurita dai suoi esiti metafisici: il “domandare tutto che è un tutto domandare” è ben più che una formula descrittiva della natura della filosofia, è un vero e proprio “metodo”, che il maestro patavino dispiega nei più diversi ambiti del suo impegno teoretico. E che anche nel nuovo millennio merita attenzione. Di questo domandare filosofico vogliamo dunque continuare a va-gliare la profondità speculativa, a cominciare dai “saggi” qui raccolti, che intendono sviluppare i motivi di interesse riscontrati nel pensiero di Gentile da alcuni studiosi che lo hanno, direttamente o indiretta-mente, conosciuto. Questa stessa problematicità può del resto essere assunta anche come chiave di lettura dei contributi che presentiamo, essendo ravvi-sabile quale principio animatore, ora espressamente tematizzato, ora silenziosamente sottostante l’opportuno ripensamento dei vari aspetti dell’opera filosofica del nostro Autore. Il nesso risulta subito evidente nell’articolo di Enrico Berti, uno dei primi e forse il principale tra gli allievi, che in un saggio denso di ricordi, si sofferma su uno scritto apparentemente secondario tra gli ultimi pubblicati dal Maestro, forse l’ultimo, dedicato alla possibilità di pregare il Motore immoto. Si tratta infatti sicuramente di un’occasione per ripercorrere nei suoi tratti essenziali l’interpretazione gentiliana della metafisica aristotelica, per ripensare le due caratteristiche fondamentali del “Dio” dello Stagirita, la trascendenza e l’intelligenza, ma anche – ci sembra di poter aggiungere – per ritrovare in quel pregare l’espressione estrema, e forse più autentica, del “domandare tutto-tutto domanda-re”, che, di fronte alla Causa suprema ordinatrice del cosmo, poteva, e forse doveva, assumere connotazioni affettive e oranti. Il tema del domandare puro e integrale è ancor più pienamente al centro del saggio di Maria Cristina Bartolomei, che di tale domandare indaga le potenzialità, sia come ineludibile punto di partenza di ogni ricerca filosofica, sia come fulcro di “fruttuosi collegamenti” con alcu-ni pensatori contemporanei, evidenziandone, pur nella distanza e divergenza delle posizioni, la comunicabilità e l’inaspettata consonanza su punti fondamentali. È quanto si verifica con Adorno, a proposito della legittimità della problematica metafisica e delle caratteristiche di apertura e processualità che connotano la conoscenza dei suoi oggetti, i concetti; con Badiou, per la specifica intenzione di verità che distin-gue la filosofia dagli altri saperi; con Weischedel, sotto il profilo della necessaria radicalità dell’interrogare filosofico, che, anche laddove non giunga ad esiti metafisici o teologici, non può non avvertire la realtàdel mistero che lo sollecita. In tutti questi casi – conclude l’Autrice – la posizione di Gentile, interloquendo costruttivamente con linee di pensiero profondamente differenti da quella propria della metafisica classica, dimostra una inesausta vitalità filosofica.Il terzo saggio, redatto da Gabriele De Anna, affronta il problema del valore morale dell’azione cercandone la soluzione nelle pagine del  Trattato di filosofia , e rinvenendola nel ricorso all’uso pratico dell’intelli-genza che coglie il principio nell’esperienza, e quindi una normatività nel reale. In questa lettura l’importanza della problematicità gentiliana emerge specialmente nel farci intendere come il manifestarsi del principio, e quindi del “valore”, sia inseparabile dall’esperienza, intesa come atto che precede e trascende continuamente la distinzione soggetto-oggetto nella sua costitutiva tensione al sapere. Ma essa ci fa anche meglio compren-dere la prospettiva metafisica di Gentile, che si presenta come ripresa della concezione aristotelica, ma allo stesso tempo accoglie dal pensiero moderno l’attenzione al ruolo del soggetto, si dice “classica”, ma non è per questo “oggettivista”, come altre, più note, versioni della stessa. Una particolare declinazione dell’azione morale è costituita dalla pra-tica pedagogica, un altro dei grandi temi della riflessione filosofica gen-tiliana, cui è dedicato il quarto e ultimo saggio, frutto della riflessione comune di Carla Xodo e Mirca Benetton. La pedagogia di Gentile è una pedagogia umanista, poiché «l’umanesimo – egli scriveva – che è ricerca di classicità, si attua come   paideia , cioè come sforzo di realizzare nelle più diverse situazioni storiche l’essenza dell’uomo», e pertanto non è un si-stema compiuto, ma una sollecitazione a riprendere instancabilmente la ricerca speculativa sulla verità della persona, ulteriore espressione di quel domandare radicale in cui si traduce ogni serio impegno filosofico. Le Autrici sottolineano come in questa prospettiva, considerando l’essere umano nella sua integralità, l’umanesimo, anziché contrapporsi, si possa intrecciare fecondamente, anche in ambito scolastico, con la scienza, la tecnica, e le attività professionali, persino manuali. L’indicazione è di preziosa attualità e ci fornisce un’altra conferma della potenza del domandare filosofico, che percorre tutti questi testi. In essi possiamo infatti vedere tale domandare vigorosamente rinno-varsi tramite la voce di Gentile. D’altra parte, a sua volta, lo stesso Gentile, in un necessario scambio di ruoli, tramite questo domandare, persiste a interrogare e a interrogarci. Ci auguriamo che possa profi-cuamente interrogare anche l’attento lettore. Marino Gentile. Gentile. Keywords: storia della filosofia period antico – filosofia romana, la preghiera, segno dei romani – italici antici – pre-sofistica – pre-Georgia –l’uso di ‘classico’ in latino classico ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gentili – filosofia italiana – la filosofia romana arcaica -- Luigi Speranza (Valmontone). Filosofo. Grice: “I love Gentile, and Austin and Ryle do too – he is a classicist – from central Italy therefore he FEELS Roman – he has explored the beginnings of philosophical thinking in Lazio, as opposed to the old schools of Velia, Crotone, and Agrigento --.” Si laurea  a Roma sotto Mercati e Perrotta. Isegna a Urbino. Fonda Il Centro di studi sulla metrica latina. Figlio di Attilio e Giuseppina Cicciarelli. Frequent il Liceo Classico "Ovidio" di Sulmona. Studia a Roma sotto Romagnoli, laureandosi sotto Mercati con “Un Studio critico intorno alla storia di Agatia e alla sua tradizione manoscritta”. Insegna a Roma, al Liceo Classico "Virgilio" di Roma.  Quando Perrotta si avvicendò a Romagnoli a Roma, Gentili ne fu subito conquistato e Perrotta lo  volle come assistente.  Dal suo maestro Gentili apprese l'arte della filologia e la passione per la metrica latina (“Metrica e ritmica”). Influenza significativamente gli allora giovani della filologica latina capitolina, tra cui Rossi e Privitera che ricorda come quelle "lezioni non avevano il tono pacato delle lezioni ex cathedra. Come docente, Gentili era bifronte. Si può, anzi, dire che bifronte fosse sempre; secondo i casi poteva essere flessibile o intransigente, giocoso o severo". Le sue erano esercitazioni, erano seminari. Bbasava l'insegnamento sulle sue ricerche.  Gli anni '50 non sono facili, sono anni di studio intensi e febbrili per lo studioso che culmineranno, insieme ai volumi sulla metrica, con una serie di lavori sui lirici: oltre alla già ricordata antologia Polinnia, il saggio Bacchilide. Studi e l'edizione di Ancreonte, Insegna a Lecce dove ebbe modo di frequentare Prato insieme al quale divenne coautore della teubneriana edizione dei Poetae elegiaci.La svolta decisiva, tuttavia, fu rappresentata dalla chiamata a Urbino dove nello stesso anno venne inaugurata la Facoltà di Lettere grazie all'impegno di Bo. Cura la Medea di Seneca (Istituto Nazionale del Dramma Antico, Mazara del Vallo). Altre opere: “Lo spettacolo nel mondo antico, Roma, Bulzoni); “Storia e biografia nel pensiero antico” Bari-Roma, Laterza. Cfr. Bruno Gentili, Eric R. Dodds mentitore? “La idea della comunicazione nella tradizione classica" Treccani.  La cultura e l’opinione pubblica: anche nel mondo romano antico il rapporto è stato difficile, spesso conflittuale. Le origini della retorica e della filosofia a Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico; l’arco di tempo della difficoltà dei rapporti va almeno dall’inizio del secondo secolo a.C., al principio del primo. E non solo: tensioni, incomprensioni e scontri non mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci di dissenso da Nerone, che erano le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche con ciò che la mentalità comune pensava dell’imperatore: ma qui la nostra analisi si limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima aveva trovato resistenze nella concretezza tradizionale dei Romani: l’astrazione filosofica di origine greca suscitava sospetti diffusi, come se si trattasse di un imbroglio, un raggiro. Non mancarono le espulsioni dei filosofi a partire almeno dal 190-180 a.C. Celebre la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene., perché giudicati pericolosi per la società romana: soprattutto tale appariva quel Carneade sul quale si interrogava don Abbondio nella notte degli imbrogli. Ma insieme alla filosofia venne colpita la retorica, cioè la tecnica del parlare bene, che pure era d’importazione greca. Svetonio ci racconta delle difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo che nel 161 a.C. un decreto del Senato bandiva dalla città insieme retori e filosofi greci. Ma la novità culturale non si arrestava per decreto: e la tecnica retorica riprese fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente apprezzata anche dai Romani: purché fosse rigorosamente controllata dall’aristocrazia. E così accadde che nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola di retorica a Roma, per iniziativa di un personaggio non molto famoso: Plozio Gallo. Era la scuola dei rhetores Latini, della quale parla anche Cicerone, per testimoniarci dei successo che essa riscontrava presso i giovani di allora e del suo rammarico per non potervi accedere: il giovane Arpinate era infatti trattenuto da altri maestri, che lo indirizzavano allo studio della retorica solo in greco, come una volta si faceva. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di Plozio Gallo? Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i consiglieri di Cicerone agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto didattici, quanto politici: la scuola dei retori latini rischiava agli occhi loro, e agli occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un pericoloso centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di accesso al potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del maestro, cioè di Plozio Gallo, col popolare Mario, in anni di contrasti fortissimi in Roma, culminati nella guerra del 91 a.C. per il diritto di cittadinanza degli Italici. È sempre Cicerone a informarci, nel trattato intitolato De oratore , dell’esistenza di questi maestri e del loro insegnamento, e lo fa per bocca di Lucio Licinio Crasso che, allora censore, li aveva colpiti con un editto di chiusura della scuola. Era una scuola di impudenza e di perdita di tempo, agli occhi di Crasso e dei suoi amici: essi andavano ripetendo che la mente dei ragazzi diveniva ottusa e si rafforzava la loro pericolosa sfacciatagggine, mentre i nuovi retori si proponevano esattamente il contrario: aprire la mente degli alunni, farli ragionare, spiegare il perché delle cose e dei problemi. Il nuovo genere di insegnamento consisteva sostanzialmente in una sintesi di retorica e filosofia, in vista della formazione di un uomo di cultura completa. Si doveva trattare quindi del superamento di una preparazione esclusivamente tecnica e precettistica, a vantaggio di una formazione globale dell’oratore: questi diveniva così il depositario di una cultura in grado di fargli reggere con competenza il timone della repubblica romana. È in questo contesto culturale e sociale pieno di fermenti e di stimoli nuovi che si formò il giovane Cicerone.  E. Badi?n, nella recensione al volume Gli storiografi latini tra mandati in frammenti, Atti del Convegno, Urbino, a cura di S. Boldrini, S. Lanciotti, C. Questa, R. Raffaelli (Studi Urb. n.s. B ), pubblicata in Am. Journ. Philol., una recensione per altro biliosa e insieme presuntuosa, nella stragrande maggioranza dei contributi, dedica al mi? saggio 'Storiografia greca e storiografia ro mana arcaica' appena due parole: "the long essay in unoriginal medio crity, e.g. a potted survey by B. Gentili": un giudizio dr?sticamente negativo, non sorretto da un'ombra di argomentazione; diverso eviden temente il par?re di D. Musti, che ne ha inserito un lungo brano nel reading, da lui curato, La storiografia greca. Guida storica e critica, Bari. Certamente ognuno, nel recensire un libro, ha il diritto di giudicare come crede Topera che recensisce, ma ha il dovere di motivare con una qualche analisi il proprio punto di vista, se non altro per mettere in grado il lettore di comprendere il senso critico del discorso. Se ilBadi?n si fosse soltanto limitato ad esprimere il suo dissenso o il suo scetticismo sulle mie tesi, non avrei ritenuto necessario que quale liquida molto perentoriamente la sto mio intervento. Ma quando egli definisce sic et simpliciter "non ad una "rassegna raffazzonata", il suo giudizio in uno stato originale" ilmio discorso, debbo pensare che egli d'ira, provocato forse dal fatto che io non ho citato il suo saggio riducendolo abbia espresso 'The Early Historians', in Latin Historians, edited by T.A. Dorey, London 1966, pp. 1-38, che, esso si, ? realmente una rassegna, certo ben informata e corretta ma senza alcuna pretesa di originalit?. Egli stesso del resto lo presenta come un'esposizione panor?mica intesa a riproporre alla storiografia di lingua inglese una tem?tica da essa obliterata. Faccio notare, d'altra parte, che questo suo sag gio ? stato da me citato, a proposito della cronaca pontificale, nel volume che ho scritto in collaborazione scorso storico nel pensiero greco e B. Gentili con G. Cerri, Le teorie del di Roma mie 1975, ricerche la storiografia p. 82 n. 2 e che rappresenta Pedizione arcaica, delle dettato infon certa ricon "prag definir? Dunque, giudizio dato mente dotta m?tica" "non sulP argomento. solo un risentimento che, prima ancora che agli effettivi contenuti di questo ingiusto, del mio tipo appare un rispetto sa che la studio. alla t?cnica di tipo Come quella da nel soleo ? me allora ed tucidideo-polibiano. una nuova tesi, Topera storiografia 'isocratea'? possibile proposta illustrata, indico come originale" che riconduce di Che cosa io intenda quella che con questa storiografia degli Annales di Fabio Pittore Pontificum di Fabio chiarito in un precedente saggio, sulla rivista II Verri, al quale di proposito avevo rinviato alPinizio del mio intervento nel Convegno di Urbino ora ripubblicato in Communication Arts in the Ancient World, ed. by E.A. Havelock and J.P. Hershbell, New York. E avevo esaustivamente pubblicato frammento delle varie ancora: pu? dirmi programma tico di il Badi?n se la mia Sempronio Asellione interpretazione del con una ? nuova A questo punto sarebbe doveroso da parte del Badi?n tornare sul Pargomento per dimostrare, se ? in grado di farlo, che Pimpostazione del mio discorso ? effettivamente priva di qualsiasi originalit? e non ? altro che una rassegna rabberciata di idee altrui. Universit? di Urbino  Letteratura: addio al grecista insigne studioso di metrica. Accademico dei Lincei e professore emerito ad Urbino Roma, 9 gen. - (Adnkronos) - Il grecista Bruno Gentili, insigne studioso della letteratura classica e in particolare della metrica greca, e' morto ieri a Roma all'eta' di 98 anni. L'annuncio della scomparsa e' stato dato dall'Accademia dei Lincei di cui era socio. Nato a Valmontone (Roma). Professore dell'Universita' di Urbino, dove ha insegnato letteratura greca dal 1963, nella Facolta' di Lettere che insieme al rettore Carlo Bo ha contribuito a istituire. E' stato fondatore nel 1966 della rivista ''Quaderni urbinati di cultura classica'', di cui e' stato a lungo direttore.  Filologo rigoroso, Gentili si e' dedicato allo studio della lirica e della metrica greca arcaica, curando anche edizioni critiche di testi di diversi poeti. Tra i suoi libri ''L'Iliuperside nelle figurazioni anteriori a Virgilio'' (1941), ''Metrica greca arcaica'' (1949), ''La metrica dei greci, l'edizione critica di Anacreonte, ''Bacchilide. Studi', ''Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca'' (1965); l'antologia ''Polinnia. Poesia greca arcaica'' (in collaborazione con G. Perrotta).  La vasta bibliografia di Gentili comprende anche ''Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la storiografia romana arcaica'' (in collaborazione con G. Cerri, 1975), ''Storia della letteratura latina'' (in collaborazione con E. Pasoli e M. Simonetti, 1976), ''Lo spettacolo nel mondo antico. Teatro ellenistico e teatro romano arcaico'' (1977), ''Storia e biografia nel pensiero antico'' (in collab. con G. Cerri) e ''Poesia e pubblico nella Grecia antica'' (1984), che che e' valsa all'autore il Premio Viareggio-saggistica 1984.  (Sin-Pam/Ct/Adnkronos) CLASSICITÀ E CONTEMPORANEITÀ:BRUNO GENTILI NEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI DEL NOVECENTO «Kein Volk der Geschichte, auch das begabteste nicht, läßt sich isoliert betrachten. Ein jedes wird durch äußere Anstöße aus zuständlichem Dasein in geschichtliches Leben übergeführt. Weder seine äußere noch seine innere Geschichte kann verstanden werden, ohne die Fäden zu verfolgen, die es mit außen verbinden».(Usener 1907, 11).«Il senso vero di una vita piena è quello che essa imprime di più anche sulla quotidianità: la ricerca. Ricerca. Ricerca. Ricerca. Il possesso che noi abbiamo di certi principi (che a loro modo sono verità) è labile e sfuggente – e non appena noi ci illudiamo di stringerlo, ecco scom-pare».(  Diari Anceschi).1. Il periodo successivo alla morte di Bruno Gentili nel suo novanta-novesimo anno d’età, il 7 gennaio 2014, ha visto comparire vari ampi e impegnati ricordi ad opera di alcuni tra i colleghi e allievi più vicini. Con attenzione e devozione vi sono evocati i momenti e i contributi più signi-ficativi nella carriera scientifica del grande grecista scomparso; nel riper-correrla si dà davvero la possibilità di posare lo sguardo su ottant’anni di storia della filologia classica, via via italiana europea e mondiale, sin dagli anni Trenta del Novecento. A tutti comune è il riconoscimento del forte valore innovativo nell’incessante attività critica e filologica di Gentili, a partire soprattutto dalla metà degli anni Sessanta con la fondazione dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», «vera e propria officina intellet-tuale» dove su impulso del fondatore e direttore «la filologia classica, sen-za mai smarrire la dimensione tecnica e specialistica, si apre al confronto serrato non solo con l’archeologia, la storia e l’ermeneutica, ma anche con discipline emergenti quali l’antropologia, la semiotica, la linguistica e la sociologia della letteratura» 1 . A tale sensibilità può ben connettersi la visione che sino ai suoi ultimi anni Gentili elaborò della traduzione, nel- la ricerca e nell’asserzione di una «teorica eminentemente pragmatica»,  1  Così Catenacci 2014, 450e quindi «una poetica non astratta, non prefigurata su schemi di modelli già esperiti», così sempre tendendo a «una poetica aperta che si costrui- sca gli strumenti adeguati ad una maggiore portata di comunicazione»: il problema del tradurre è così definito nei termini «di quell’idea cui aspira l’antropologia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche e sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo» 2 . Una prospettiva che nello studio e nella ‘traduzione’ dall’antico (e dell’antico) a Gentili certo si schiuse in relazio- ne e risposta alle sfide prodotte dai grandi mutamenti culturali e sociali, di rilievo antropologico appunto, degli ultimi quattro decenni del XX se-colo: una prospettiva di ‘apertura’ nell’analisi e negli strumenti applicati all’interpretazione dei testi antichi, e in particolare della Grecia di età ar-caica, che mi è sembrato potesse essere bene espressa dalla prima citazio-ne in esergo, di un altro grande innovatore degli studi classici al volgere di un secolo, Usener. Il passo proviene da un discorso rettorale bonnense del 1882 riproposto in occasione del Congresso inter-nazionale della FIEC tenutosi a Bonn nel 1969 3 , e richiamato da Gentili nel famoso saggio   L’arte della filologia  (1981). A differenza della for-tunata citazione nietzschiana d’incipit («filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tem-po, divenire lento»), il rimando a Usener è passato piuttosto inosservato. Gentili si rifà alla   Rede  bonnense, dal titolo   Philologie und Geschichts- wissenschaft  4 , discutendo della prevalente natura ‘storica’ o ‘scientifica’ della filologia classica e rinvenendo «una impostazione sostanzialmente corretta del problema» nella distinzione attribuita a Usener, «che delimitò i due campi specifici della ricerca, riservando alla filologia la critica e la ricostruzione del testo e all’indagine storica l’interpretazione globale del mondo antico» 5 . La prolusione di Usener si apre con un panorama della storia degli stu-di classici sin dal XVI secolo francese e ugonotto 6 , subito poi riservando  2  Gentili 1989, 61, dalla relazione presentata al convegno   La traduzione dei testi classici .  Teoria prassi storia  (Palermo 6-9 aprile 1988), nei cui Atti poi comparve (Gentili 1991).  3  All’interno della   Festschrift   per il convegno curata da W. Schmidt (Schmidt 1969, 13-36); al congresso bonnense Gentili presentò il fondamentale intervento   L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo. Sin-cronia e diacronia nello studio di una cultura orale  (Gentili 1969). 4  Usener 1907.  5  Gentili, 299. 6  Che la riflessione sulla storia della filologia classica sia strettamente connessa ai temi trattati nella prolusione rettorale è ben chiarito nella postilla che la intro-duce: «Die Geschichte einer Wissenschaft verzeichnet nicht bloß Leistungen. In ihrer Geschichte entfaltet sich ihr Begriff, der nicht unberührt bleiben kann von dem Wandel der Generationen. Die wissenschaftliche Arbeit bedarf der Selbstbe-sinnung, will sie nicht ziellos in der Unendlichkeit des Einzelnen umhertreiben." grande rilievo al genio di Bentley («zur Grundlegung einer Wissenschaft […] die Wege dazu hat erst das Genie Rich. Bentleys gebahnt»), pur rico-noscendo solo alla cultura tedesca, nel fatale trapasso tra XVIII e XIX se-colo, la decisiva spinta perché lo studio dell’antichità classica si costituisse «zu einer geschlossenen philologischen Wissenschaft». Grazie soprattutto all’impegno di dotti come Melantone e Camerarius, la centralità della Pa-rola proclamata dalla Riforma si era rivelata determinante per assicurare la presenza dell’insegnamento del greco nelle nuove scuole volte primaria- mente alla formazione dei pastori evangelici, finché nei rifondatori della letteratura tedesca del XVIII secolo (Klopstock, Lessing, Hamann, Herder) «der gottergebene idealistische Sinn des norddeutschen Protestantismus», laicizzandosi, risultò fecondo per la rinascita della cultura e della scienza tedesca grazie a figure come Winckelmann, Reiske, Heyne 7 . L’organica sistematizzazione delle varie discipline volte al fine della   Rekonstruktion des Altertums  secondo l’intuizione dei grandi edificatori e teorizzatori dell’  Altertumswissenschaft  , Wolf e soprattutto Boeckh, nel corso del XIX secolo si fece altresì modello per le nuove filologie applicate alle varie letterature d’Europa, come pure per le discipline storico-filologiche volte allo studio del ben più antico patrimonio di cultura e civiltà delle lingue mesopotamiche, semitiche e arie. A fronte dell’enorme ampliarsi delle co-noscenze non solo all’interno dell’  Altertumswissenschaft  , con diretto rife-rimento al mondo classico nelle sue varie epoche e aspetti, ma soprattutto all’esterno, negli orizzonti aperti dalle antiche civiltà del Vicino Orien-te rivelate dall’archeologia, Usener riconosce l’impossibilità di isolare la civiltà greca dall’attenta considerazione di quegli influssi, certo determi-nanti nella genesi almeno dell’arte greca: «heute zeigen die Reste Babylons und Ninivehs verglichen mit den griechischen und italischen Gräberfunden  jedem, der Augen hat zu sehen, von wo jene hellenische Kunst […] ihre Anstöße und auf lange hin nachwirkenden Vorbilder empfangen hat». In realtà a Usener preme soprattutto mettere in rilievo che il concetto stesso di storia si è enormemente ampliato, al di là della tradizionale identificazio- ne nella «pragmatische Entwicklung der Haupt-und Staats-aktionen von Fürsten und Völkern», ormai annettendo territori ignoti, nati dall’indagine delle origini delle lingue, dei credi, dei costumi, dei miti («die unbegrenz-te Ferne einer vorgeschichtlichen Geschichte»). In tale condizione appare al professore bonnense ormai impossibile aderire a una costruzione della filologia quale quella boeckhiana. La filologia, egli afferma, non può più essere intesa come scienza storica, perché radicalmente mutata è la visione stessa della storia propria del tardo XIX secolo 8 . La filologia è piuttosto da  7  Onde se «la moderna poesia italiana e francese è figlia degli studi umanistici, la letteratura tedesca è invece legata alla nostra filologia in uno stretto rapporto di sorellanza» (Usener 1907, 7). 8  Usener è in proposito molto chiaro: «Es bleibt also dabei: eine geschichtlicheconsiderarsi «ein Studienkreis», un insieme di discipline che vertendo sulla parola scritta, e così assolvendo alla funzione di arte o metodo di decisivo valore nel fissare i contenuti della conoscenza storica, costituisce «die le-tzte Voraussetzung aller geschichtlichen Forschung» 9 : una filologia come tecnica dell’interpretazione che, potenziata dalla prospettiva comparatista, assunse forse agli occhi di Usener i tratti di «una sorta di antropologia» 10 . Ho indugiato sul saggio di Usener perché l’insieme della sua opera, spesso poco apprezzata dal mondo filologico tedesco contemporaneo, gode da anni di crescente attenzione 11 , anche in ragione degli interessi ‘trasversali’, comparativi e  religionsgeschichtlich  che l’attraversano e innervano, non privi di influssi sullo sviluppo della teologia dapprima protestante e poi cattolica nella Germania del XX secolo 12 , e forse anche sulle origini degli studi novecenteschi italiani di storia delle religioni e di storia del cristia-nesimo 13 . Notevole è, nelle pagine di Gentili sull’arte della filologia, il suo ri-farsi a Usener. Sin dal titolo, a Nietzsche esse intendono forse associare proprio il filologo bonnense, quasi provocatorio (in una prolusione retto-rale del 1882!) nel definire   Kunst   l’essenza dell’attività filologica 14 , pri- Wissenschaft ist die Philologie nicht. Sie konnte und mußte als solche erschei-nen zu der Zeit, als die Geschichtswissenschaft in ihrem heutigen Begriff noch nicht vorhanden war […]. Es war die Zeit, wo die moderne Geschichtswissenschaft zuerst ihre Blüten trieb. Alles hat seine Zeit». 9  «Wenn es also wahr ist, daß der Boden aller geschichtlichen Wissenschaft das geschriebene Wort ist, so folgt, daß die Kunst, welche dasselbe feststellt und deutet mittels ihres grammatischen Vermögens, die letzte Voraussetzung aller geschicht-lichen Forschung ist. Diese Kunst haben wir in der Philologie erkannt» (Usener 1907, 26). 10  Così Momigliano 1985, 166. 11  A partire soprattutto dal seminario del febbraio 1982 presso la Scuola Nor-male di Pisa coordinato da Arnaldo Momigliano e subito pubblicato come   Aspetti di Hermann Usener filologo della religione  (Arrighetti [et al.] 1982). Sono apparse negli ultimi anni edizioni italiane di varie opere di Usener, tra le quali Usener 1993; Usener 2008; Usener 2010. 12  Assai notevole e davvero anticipatrice, nonché oggi di particolare attualità, è la lettera del dicembre 1888 al teologo bavarese I. von Doellinger, nella quale Use-ner afferma che «lo scopo ultimo ed inespresso dei miei sforzi è quello di aiutare a preparare l’unità della Chiesa della nostra nazione», passo su cui attira l’attenzione Momigliano 1985, 147. 13  È opportuno ricordare l’attenta, e assai poco nota, presentazione che del   Le-benswerk  di Usener, «grande maestro che l’Italia colta quasi ignora», diede Pesta-lozza 1909 (che cito dall’estratto), sulla rivista del modernismo cattolico milanese «Il Rinnovamento» cessata quello stesso anno: su Pestalozza, in quegli anni presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano primo libero docente e poi primo do-cente in Italia di Storia delle religioni, vd. i riferimenti in Benedetto 2008. 14  Non sorprende il dissenso, rispettoso ma chiaro, che subito espresse il trenta-quattrenne Wilamowitz circa la visione della filologia presente nella   Rektoratsre-de , prospettandone una ben diversa: «Die alte Poesie (und natürlich ebenso Rechtmariamente volta a fondare l’affidabilità della   parola scritta . La centralità del testo, oggi preferiamo dire: quel testo visto da Gentili come «struttura complessa di materiali linguistici, di implicazioni metrico-ritmiche, refe-renziali e pragmatiche» 15  nel cui processo interpretativo «una pluralità di discipline» è coinvolta (uno  Studienkreis , appunto) 16 . Senza qui proporsi di passare in rassegna l’ampia, varia, settantennale attività scientifica di Bruno Gentili 17 , si cercherà piuttosto di soffermarsi su alcuni aspetti, quali soprattutto il rapporto con la figura di Gennaro Perrotta e in genere con gli studi italiani di filologia classica nella prima metà del Novecento, la produzione degli anni ’50 e ’60, e la serie di saggi «di portata fondativa» 18  scritti da Gentili tra la metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, nei qua-li evidente è una svolta per gli studi sulla lirica greca, e notevole l’interesse verso temi e problemi della traduzione dall’antico.2. L’esordio di Gentili si ebbe nel pieno della Seconda guerra mondiale con un articolo nato dalla tesi di laurea con Silvio Giuseppe Mercati, dedi-cato soprattutto a passare in rassegna quattro inesplorati codici delle  Storie  di Agazia conservati in biblioteche italiane (tre Vaticani e un Marciano) 19 . In quegli anni drammatici il giovane studioso li collazionò in parte, avendo in animo di preparare una nuova edizione critica dell’opera 20 , in vista del-la quale non tace anzi l’intenzione di provvedere a «un nuova collazione accurata» di un manoscritto Vulcaniano conservato nell’allora inaccessi-bile Leida 21 . Il netto cambiamento di interessi e «una decisa virata ver- und Glaube und Geschichte) ist tot: unsere Aufgabe ist, sie zu beleben […] dann  empfinde ich, daß Philologie doch etwas für sich ist, oder wenigstens ihr τέλος  hat» (lett. del febbraio 1883 in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder III 1994 2 , 28), e cfr. Sassi 1982, 79. 15  Gentili  «Philologie in dieser Auffassung ist nicht eine Wissenschaft, sondern ein Stu-dienkreis» (Usener 1907, 16). 17  Sin d’ora rimando alle molte informazioni e osservazioni desumibili dal   Ri-cordo di Bruno Gentili  di Angeli Bernardini 2013; Catenacci 2014; Cerri 2014; Lomiento 2014; G. A. Privitera, commemorazione lincea dell’11 aprile 2014, ac-cessibile on line presso  www.lincei.it/files/documenti/Privitera_commemorazio-ne_Gentili.pdf  ; Tedeschi 2014. 18  Cerri 2014, 230. Non si tratterà di Gentili editore e critico del testo, tema che di per sé richiederebbe apposita discussione. 19  Gentili 1944. 20  Come chiaramente lascia intendere la chiusa dell’articolo: «Da quanto abbia-mo detto appare chiaro che la sola finora ad avere almeno l’aspetto di edizione cri-tica ed anche il metodo è quella del Niebuhr, in quanto si fonda sul valore effettivo di una parte della tradizione. Ma l’uso di tutto il materiale manoscritto, secondo gli intendimenti che ho esposto, trae con sé la necessità di una recensione del testo di Agatia, che si fondi su basi più complete e quindi più solide. E questo compito, se le forze non mi verranno meno, spero di poter assolvere». 21  Vd. in particolare p. 168: «occorrerebbe perciò una nuova collazione accurata  Sent from the all new AOL app for iOSso la poesia greca arcaica» 22  si legano all’incontro con Gennaro Perrotta (1900-1962), dal 1938 sulla cattedra romana di Greco come successore di Romagnoli e impegnato nel rinnovamento su modello crociano dello studio della lirica greca ( Saffo e  Pindaro. Due saggi critici  uscì presso Laterza), ma attento altresì all’esegesi puntuale di frammenti e ritrovamenti papiracei, in particolare con interventi accolti nei pasqualiani «Studi italiani di filologia classica» (nota è in particolare la polemica intorno al ‘poeta degli epodi di Strasbur-go’) 24 . Un’importante rassegna ad opera di Perrotta su   La filologia classica nell’ultimo ventennio , apparsa per il Natale di Roma in un volu-me promosso dal Ministero dell’Educazione Nazionale (Perrotta 1943), se è priva non solo di elogi ma si può dire di qualsiasi menzione del morente Regime, è peraltro chiarissima sin dalle prime righe nell’affermare che il «vero progresso» segnato nel precedente ventennio dalla filologia classi-ca in Italia è spiegabile perché essa «ha sentito profondamente l’influsso dell’estetica moderna, anzi di tutto il pensiero moderno», con sicuro ri-ferimento al crocianesimo e in genere agli orientamenti antipositivistici: «superate le polemiche del periodo precedente, la filologia classica ha preso un nuovo indirizzo […] vivificata dalle correnti nuove della cultura moderna, è divenuta meno arida e pedantesca», e finanche «abbondano i saggi critici, che una volta avrebbero destato scandalo». Dopo un rapido ma attento ragguaglio di commenti, edizioni critiche ed edizioni di papiri pubblicati nel periodo considerato, l’articolo si conclude appunto notando che mentre «in qualunque campo la filologia classica italiana può sostene-re dignitosamente il confronto con quella delle altre Nazioni», proprio «nel campo della critica letteraria, essa supera di gran lunga la filologia classica di qualunque altro Paese del mondo» 25 . Cinque anni dopo, nell’Italia e nell’Europa del 1948, presentando ai let-tori insieme al condirettore Gino Funaioli la nuova rivista «Maia» («nome caro a due grandi poeti, a Gabriele d’Annunzio e a John Keats»), in sostan-ziale continuità e coerenza con se stesso Perrotta indicherà la via della ripresa dello «studio della civiltà antica, per noi moderni» in un «rinnovato umanesimo», fondato sull’incontro tra l’eredità del classicismo europeo  del manoscritto, che mi propongo di fare quanto prima»; si tratta del Cod. Vulc. 54, usato da Bonaventura Vulcanius per l’ editio princeps  del testo greco del   De impe-rio et rebus gestis Iustiniani imperatoris libri quinque , uscita a Leida nel 1594 (cfr. Dewitte 1981, 196). B. Vulcanius (B. de Smet), e professore nella nuovissima università di Leida. Lomiento Su circostanze e contesto della successione illuminanti scorci in Canfora 2005, 19-20 e   passim . 24  Sulla quale, e sulla persuasiva identificazione in Ipponatte sostenuta da Per-rotta, vd. Gamberale 1994, 75; Sisti 1994, 43-45; Morelli 1996, 24. 25  Perrotta 1943  Sent from the all new AOL app for iOSdegli ultimi due secoli («la tradizione gloriosa di Goethe e di Humboldt, di Gioacchino Winckelmann e di Federico Schlegel, di Shelley e di Keats, di Hölderlin e di Nietzsche, di Foscolo e di Leopardi, di Carducci e di Pasco-li») e una pratica filologica che, nutrita di adeguata consapevolezza critica e storica, trascendesse le mai del tutto sopite conseguenze delle polemiche, e dei connessi schieramenti, che avevano lacerato gli studi classici italiani d’inizio secolo: Il nostro ideale è il filologo che abbia l’abnegazione d’un grammatico alessandri-no e l’entusiasmo d’un umanista del Quattrocento, la tecnica filologica e il senso storico dei grandi filologi dell’Ottocento, il senso artistico e la coscienza critica dei migliori critici letterari dell’età nostra. L’ideale della nostra rivista è la storia senza lo storicismo, la filologia senza il filologismo, la critica estetica senza l’estetismo e il vacuo filosofismo 26 . Non manca subito di séguito una citazione da Nietzsche, dalla qua-le risulta «la filologia nel suo senso più elevato rappresentata, come me- glio non si potrebbe, con alta fantasia poetica» 27 . Né manca un richiamo a Nietzsche, in quella stessa prima annata di «Maia», nell’ampia e intensa commemorazione che Perrotta dedicò nel decennale della morte a Ettore Romagnoli 28 , accostato a Nietzsche nell’accesa e ‘immaginifica’ giovinez- za di filologo 29 , quindi rievocato come professore universitario a Catania  26  Funaioli – Perrotta 1948. Che punto nodale del «discorso sulla filologia» sia «la divisione o meno delle competenze tra filologia e critica letteraria in senso lato» rimarrà, con altra prospettiva, costante elemento di riflessione per Gentili: cfr. Gentili. L’ammirazione di Perrotta per Nietzsche filologo è messa in rilievo da Gi-gante 1996, 150-151, il quale anche suggerisce che mediatore per il filologo ita-liano della conoscenza di Nietzsche possa essere stato Croce; un’emendazione del giovane Nietzsche («oltre a giudicare il carme nel suo insieme con la finezza e la profondità ch’erano proprie del suo genio») è lodata e accolta in Perrotta. Un certo paradossale irrigidimento di Perrotta «negli ultimi tempi in cui poté ancora esercitare un sensibile influsso negli ambienti culturali», onde «egli affermò sempre più polemicamente e rigidamente la sua fedeltà al verbo crociano […] com-memorò entusiasticamente il Romagnoli, proclamò ripetutamente la indipendenza dei supremi valori poetici da ogni condizionamento ambientale e culturale» noterà Paratore 1963b, 6 (appunto a intendere «quella sopravvalutazione della critica let-teraria che è sembrata così singolare in un uomo di così severa formazione filolo-gica» è dedicata la commemorazione lincea di Paratore 1963a, in gran parte rifusa nel profilo  Gennaro Perrotta  in Grana 1969, IV, 2591-2601). 29  È utile citare il passo: «Federico Ritschl soleva dire che Federico Nietzsche giovinetto concepiva una dissertazione filologica come un romanzo. Il grande filologo non intendeva certo, con queste parole, spregiare l’attività filologica di Nietzsche giovane, del quale egli presagì il genio. Ma un intuito profondo gli face-va scoprire in Nietzsche qualche cosa di singolare, di acceso e di appassionato, che non faceva assomigliare le sue dissertazioni, pur dottissime e condotte con metodo impeccabile, a quelle degli altri. Poichè un uomo dotato di molta immaginazione(attraverso la testimonianza del fraccaroliano e romagnoliano F. Gugliel-mino), in particolare quando  leggeva con predilezione i lirici greci, e, traducendoli, comunicava agli uditori con la scelta felice delle parole e delle espressioni, che potessero rendere con maggiore adesione il pensiero e il sentimento dell’antico poeta, e anche con l’inflessione della voce, quello che egli stesso sentiva. Il commento era sobrio, scevro d’in-gombrante erudizione: accennava a questioni controverse dibattute dai filologi solo quando avevano importanza innegabile per la retta interpretazione di un passo dub-bio, e in tal caso riduceva la questione all’essenziale 30 . Il 1948 fu anche l’anno in cui, a cura di Gennaro Perrotta e del suo as-sistente Bruno Gentili, uscì   Polinnia , antologia della lirica greca ad uso dei licei destinata a grande fortuna nella scuola italiana della seconda metà del Novecento, sino alla recente e rinnovata terza edizione del 2007. Non fu la prima antologia dei lirici greci destinata alla scuola e impostata con rigore scientifico. Dopo che i programmi del 1923, con la riforma Gentile, più decisamente aprirono ai lirici le porte dei licei, si diffusero antologie sco-lastiche «nate in un periodo di estetica esasperata, di olimpico dispregio per tutto quello che si chiamava (e la parola era oltraggio) filologia», come vollero osservare prefando i loro   Lirici greci scelti e commentati  (1940) Giuseppe Ugolini e Alessandro Setti che a quell’andazzo con efficacia e serietà reagirono, avendo per modello essenzialmente   Aglaia , la  nuova an-tologia della lirica greca da Callino a Bacchilide  pubblicata nel 1937 da Bruno Lavagnini (1898-1992) 31 . In sede di valutazione storica è giusto rilevare che «ad   Aglaia  si sono ispirate tutte le antologie successive che si  finirà sempre per mettere, anche senza averne affatto il proposito, perfino in una dissertazione filologica, un po’ della sua immaginazione. Questo avveniva spesso a Romagnoli giovane» (Perrotta 1948, 93). Le pagine di Perrotta sono in parte ripro-dotte nella sezione su Romagnoli in Grana 1969, II, 1448-1459. 30  Nel   Profilo di Bruno Gentili  premesso da Carlo Bo al I volume dei ricchissimi  Scritti in onore di Bruno Gentili , Romagnoli ricorre accanto a Perrotta come pre-senza utile a comprendere in Gentili l’«uomo dotato di spirito creativo, quale ge-neralmente posseggono soltanto gli scrittori e in modo più specifico i poeti. La sua straordinaria perizia filologica è strettamente collegata al suo gusto e alle sue doti di creatore. Tutte cose che si possono riscontrare nella storia della sua formazione, perché accanto a uno dei suoi primi maestri, Ettore Romagnoli, a un certo punto si è accostato uno studioso come Gennaro Perrotta» (in Pretagostini 1993b, I,  XXVIII ). 31  Nella   Prefazione  a Ugolini – Setti 1940 due sono «tra i lavori scolastici» quelli citati dai curatori perché risultati utili «per il loro carattere più spiccatamente scientifico»: oltre all’antologia di Lavagnini si fa cenno a un’opera di A. Taccone, in cui è da ravvisarsi l’  Antologia della melica greca  pubblicata nel 1904 con pre-fazione del maestro G. Fraccaroli, attenta e informatissima ma ormai invecchiata a fronte delle scoperte papiracee accumulatesi nei decenni successivi. Del libro di Ugolini e Setti oltre trent’anni dopo uscirà un’edizione ampliata e rinnovata, in seguito ristampata: Ugolini – Setti 1972possono definire serie, a cominciare da   Polinnia » 32 , senza dimenticare che in pieni anni Trenta la volontà di chiarire agli alunni di liceo l’«enigma psicologico» di Saffo e della sua passione dettò all’antologia di Lavagnini toni ben più diretti 33  di quanto dieci anni dopo accadrà a Perrotta (cui si deve la sezione su Saffo in   Polinnia ), e più in linea con le posizioni cui Gentili espressamente approderà negli anni Sessanta. I cenni di Perrotta alle «gioie leggere del tiaso di Saffo» insieme a un certo riemergere delle preoccupazioni per la difesa della poetessa dalle accuse di immoralità   tor-nano a riflettere ambagi e premure proprie peraltro dei più noti studiosi di Saffo tra metà del XIX e metà del XX secolo, da Welcker a Valgimigli 34 : impostazione da Perrotta stesso a suo tempo esplicitamente confutata in  Saffo e Pindaro 35 . 32  Così Degani 1995, 30. 33  Nell’introduzione alla sezione su Saffo in Lavagnini 1937, 116, si dice che «Saffo visse facendo della sua casa un centro di culto ad Afrodite, alle Muse, e alle Cariti. Le più nobili e le più belle fanciulle di Lesbo e dell’Asia vicina venivano a lei per essere ammaestrate nella poesia e nel canto, ed essa vive tutta in questa compagnia di fanciulle. Anzi l’affetto per le scolare assume un trasporto così im-petuoso e sa trovare accenti così caldi da prendere i colori della passione di sesso, sicché la Lesbia resta ancora, almeno in parte, un enigma psicologico per noi, che siamo così lontani da quel suo mondo». Ivi è inoltre il rimando alla trattazione che del tema Lavagnini aveva dato nella sua precedente   Nuova antologia dei frammenti della lirica greca  (Lavagnini 1932, 171), dall’ incipit  e dalle tesi assai esplicite, e con esplicito rifarsi a Freud nell’individuare in Saffo «una  invertita : essa trasferì sopra creature del medesimo sesso il potenziale affettivo ( libido  secondo la termi-nologia di Freud) che avrebbe dovuto normalmente rivolgere su persone del sesso opposto». Al di là dell’interpretazione di Saffo, le pagine di Lavagnini meritano di essere particolarmente segnalate in relazione alla prima (s)fortuna italiana della psicanalisi, quando si pensi che la «Rivista italiana di psicoanalisi», diretta da E. Weiss, fu fondata in quello stesso 1932 e soppressa due anni dopo: ricco di infor-mazioni in proposito, benché talora disorganico e confuso, Zapperi 2013. 34  Per più ampi riferimenti su molti dei temi qui e di seguito trattati rimando a Benedetto 2012. 35  Cfr. Perrotta 1935, 28-31, in pagine non prive di sarcasmo e oggi dimenticate: «Infine, non giovano a nulla le discussioni, interminate e interminabili, sull’amo-re e sulla purezza di Saffo. I Welcker e i Wilamowitz hanno difeso la poetessa nobilmente, ma non si sono accorti che nel loro zelo appassionato essi stessi non erano troppo lontani dai grammatici dell’età romana, da quel Didimo che disser-tava dottamente  an Sappho publica fuerit   […] In realtà, Saffo non ha bisogno di essere giustificata: essa che, se potesse udire i suoi accusatori e i suoi difensori, non intenderebbe neppure i termini della questione. La soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz non risolve nulla […] Quando per spiegare il tiaso amoroso di Saffo, si parla di un convento, di un pensionato di fanciulle, di un conservatorio di musica e di declamazione, e perfino d’un salotto letterario, e perfino d’un  club  estetico di donne, non si spiega nulla; e per giunta non si mostra né senso storico, né gusto irre-prensibile […]. E, ancora peggio, si è costretti a ridurre ad elemento secondario, ad ammettere a mala pena, facendo di tutto per togliergli ogni importanza, l’amore di Saffo per le amiche; ma per Saffo l’amore era tutto». Significativo il pieno consen   Sent from the all new AOL app for iOSLa parte curata da Gentili comprende tra gli altri Alceo, Anacreonte e Bacchilide, i tre autori di cui più egli si occupò tra la fine degli anni ’40 e la fine degli anni ’50. Nella difesa che Gentili fa (come già Coppola e Perrotta negli anni ’30) dell’allegoricità del famoso frammento alcaico ora 208a V. citato da Eraclito stoico («nella nave è rappresentato lo Stato, cioè la città di Mitilene, minacciata dalla rovina») 36 , tra affinità e differenze piace scorgere lo spunto delle future pagine sulla ‘pragmatica dell’allegoria della nave’ 37 . Superando i vincoli ancora operanti in   Polinnia  connessi al tradi-zionale confronto ‘estetico’ con Orazio, tramite l’approccio pragmatico-espressivo Gentili giungerà lì a riconoscere nell’allegoria lo strumento co-municativo strategicamente più idoneo e perciò scelto in varie occasioni da Alceo poeta e politico al fine di «trasmettere il messaggio in un linguaggio velato e allusivo  comprensibile solo  dall’uditorio dei compagni» 38 . Crocia- namente priva di introduzione sia generale, sia ai singoli poeti 39 ,   Polinnia  riserva particolare attenzione alle presentazioni dei singoli carmi. Spiccano lo spazio e il ruolo assegnati all’esposizione della metrica, «quelle sequenze di lunghe e di brevi, che avevano pari dignità grafica rispetto ai caratteri del testo, e apparivano ben in evidenza, non erano nascoste a fondo pagina, magari in una nota», sì da divenire per un liceale «il primo impatto reale con la metrica greca» 40 . Ciò appunto dovettero prefiggersi i curatori, con quella passione per gli studi metrici che la scarna premessa   Ai lettori  rivela: Riteniamo che l’accurata interpretazione metrica sarà accolta con favore. Essa ha per suo fine principale la lettura metrica, senza la quale non è possibile sentire e gustare un poeta greco. La metrica greca non è, come purtroppo credono ancora molti, né una scienza inesistente, né una scienza che permetta ad ognuno d’inter-pretare i versi come vuole, ma una scienza che è facile imparare, purché sia studiata sul serio. Per agevolare la lettura metrica, ci siamo presa la libertà di segnare gli  ictus  dei piedi, benché agli  ictus  non crediamo: certo i Greci non avevano l’accento dinamico, ma l’accento musicale. Poiché la lettura metrica è indispensabile: coloro che traggono, dalla giusta constatazione che la nostra lettura con gli  ictus  non corri-so riservato in nota alle posizioni esegetiche di Lavagnini: «Una pagina coraggiosa scrive, invece, nel senso contrario, il Lavagnini, col quale consento in tutto, benché abbia meno fiducia di lui nella psicanalisi».  36  Perrotta – Gentili 1948, 198-199. Sulle   Allegorie omeriche  del non altrimenti noto Eraclito nell’àmbito dell’esegesi antica di Alceo, e in particolare sul tema delle immagini marittime e il loro uso con significato politico da parte del poeta di Mitilene, rimando alla messa a punto di Porro 1994, 22-23, 55 sgg. e 105 sgg. 37  È il capitolo XI in Gentili Gentili Si ricordi per confronto la collana laterziana degli  Scrittori d’Italia , priva d’introduzione e di qualsiasi apparato interpretativo. Senza introduzione generale e ai singoli poeti sarà anche la successiva edizione del 1965: Perrotta – Gentili 1965. 40  Sono parole dalle pagine molto belle, di tono e sapore memorialistico, che alla metrica di   Polinnia  dedica Di Benedetto 2001, 141 sggsponde alla lettura degli antichi, la pessima conclusione dell’inutilità di ogni lettura metrica, fanno un’imperdonabile rinunzia, che generalmente tende a nascondere la pigrizia o l’ignoranza. Non diverse considerazioni, e non diversa passione didattica, animano la prefazione a   La metrica dei Greci  (1952), il libro che rappresentò «lo sdoganamento» di tale disciplina «nella scuola e, più in generale, negli studi classici italiani» 41 . Val la pena rileggere l’inizio di quella prefazione: È sentita in Italia la mancanza di un manuale di metrica ad uso dei non iniziati. Tale mancanza ha nociuto sino ad oggi all’insegnamento di questa disciplina soprattutto nelle scuole medie, poiché spesso i docenti, mossi da uno strano scetticismo considerano di scarso interesse la conoscenza della metrica greca, talora ritenen-dola del tutto estrinseca alla poesia, pura invenzione di alcuni studiosi moderni 42 anche perché già vi si rinvengono temi e motivi che ispireranno per decen-ni l’indefessa indagine metrica di Gentili: In realtà la metrica non è né estrinseca alla poesia, né invenzione dei moderni. Come ho già dimostrato nella mia   Metrica greca arcaica , alcune teorie metriche dei moderni, quelle più attendibili, sono già contenute nella migliore tradizione dei metricologi antichi. La metrica è necessaria, non solo ai fini della critica testuale, ma anche ad una più compiuta intelligenza del testo poetico. Poiché metrica e poe-sia furono nell’antica Grecia intimamente connesse, in funzione reciproca. È un errore avvicinarsi allo studio delle forme metriche con pregiudizi scolastici. Soltanto dimenticando gli schemi e seguendo i metri nel loro sviluppo storico, si può davvero intendere il valore e la necessità dello studio di questa disciplina. Notevoli sono il precoce apprezzamento per il valore dei metricisti antichi 43  e la visione non ancillare degli studi metrici, da intendersi non  41  Catenacci 2014, 448. 42  Gentili Circa venticinque anni dopo, tra le cause dell’isolamento in Italia dello studio della metrica greca «nel ghetto degli specialisti e guardato al pari di una disciplina esoterica con sospetto e diffidenza», Gentili tornerà a cita-re l’idea largamente diffusa «della impossibilità di costruire per la versificazione greca una teoria coerente ed univoca», inoltre aggiungendo l’influsso avuto dalla nostra cultura degli anni Trenta «che aveva reciso alla radice ogni altro impulso all’indagine critica che non procedesse nel solco della teoria estetica dell’arte»: cfr. Gentili 1979a, 681. 43  Sensibilità critica in cui Cerri 2014, 232 ravvisa l’indizio di una attitudine ‘an-tropologica’ già allora in qualche modo operante nella filologia di Gentili: «Contro l’orientamento che era invalso tra i metricisti di allora, non solo rivaluta le teorie e le analisi dei metricisti antichi, ma basa costantemente su di esse la propria trat-tazione […] è del tutto evidente che ciò avviene non solo e non tanto perché le ritenga ipotesi scientifiche acute e azzeccate, ma soprattutto perché le assume come testimonianza diretta di una sensibilità ritmico-musicale diversa dalla nostra, di un linguaggio fonico-gestuale specifico di quella civiltà e di quell’orizzonte mentalecome meramente funzionali o subordinati alla critica del testo, ma in-dispensabili innanzitutto per una piena comprensione dell’antica poesia, nella convinzione «che la metrica non sia un fatto esteriore, ma in funzio- ne della poesia stessa», come è poi ribadito all’inizio dell’  Introduzione . Lì è anche subito affermata l’unità ritmica del verso antico, la sua strutturale unione con la musica, onde «posta l’unità del verso greco, non sarà più legittimo parlare di piedi, ma soltanto di  cola » 44 . Rievo-cando di recente le lezioni di metrica tenute da Gentili alla Sapienza nell’immediato dopoguerra, G. A. Privitera ha colto nella «prospetti-va storica» l’aspetto che in quelle esercitazioni più colpiva, quando «a differenza dei trattatisti, che nei manuali si limitano ad esporre le loro interpretazioni, Gentili citava anche le opinioni dei metricisti antichi e dei metricisti moderni» 45 : come con ampiezza appunto avviene in   Me-trica greca arcaica , il volume del 1950 dedicato a Gennaro Perrotta, anch’esso aperto dalla rivendicazione della metrica come «una scienza al pari delle altre discipline classiche», tutta «nella migliore tradizione della filologia ellenistica» 46 . Conoscenze ampie sugli studi metrici degli ultimi centocinquant’anni attestano i primi due capitoli del libro, dove dapprima ( Studi metrici: brevi cenni ) Gentili delinea con ricchezza di esempi e osservazioni lo svolgersi delle principali analisi e teorie me- triche da Hermann (con cui «la scienza metrica nacque nel secolo scor-so» sulle orme di Bentley e di Porson) a Westphal 47 , a Usener 48 , a Wila- 44  Gentili 1952, 1-2. 45  G. A. Privitera, commemorazione lincea, cit.  supra , n. 17. 46  Gentili 1950. Ho consultato la copia conservata presso la biblioteca del Cen-tro di papirologia ‘Achille Vogliano’ (Dipartimento di studi letterari, filologici e linguistici dell’Università degli Studi di Milano), con  ex libris  dello stesso Voglia-no (segn. Vgl.II.B.61), in quegli ultimi anni di vita alle prese con lo studio rimasto incompiuto   La lirica eolica e Pindaro nella critica di Gottfried Hermann .  47  La cui «Entdeckung eines indogermanischen Urverses» già è lodata in Usener 1907, 15. 48  Di Usener è rammentato con interesse il trattato   Altgriechischer Versbau: ein Versuch vergleichender Metrik   (Usener 1887), con la sua «analisi comparativa del-la metrica greca con la metrica germanica». I capitoli IV e V dell’opera di Usener consistono di una rassegna, desultoria ma affascinante, volta a dimostrare la predi-lezione dei popoli indoeuropei per una struttura metrica base in otto sillabe ancor ravvisabile nei testi sanscriti, avestici, nelle più antiche ricostruibili forme metriche greche e latine, nei canti popolari germanici, slavi settentrionali e meridionali, li-tuani: nota è l’icastica reazione negativa di Wilamowitz alla lettura del libro («In metrischen Dingen vermag ich nicht in kurzem meine Differenz auszudrücken, weil sie zu tief geht […]. Ich kann überhaupt das einheitliche griechische Volk nirgends finden, also auch keine urgriechische Sprache und keinen urgriechischen Vers und keine urgriechische Religion», lett. del 13 ottobre 1887 in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder III 1994 2 , 46). Dal punto di vista della linguistica storica e della metrica comparativa indoeuropea severo giudizio sul lavoro di Use-ner dà Campanile 1982, cfr. anche Morelli 1996, 50 sgg. e 83-87   Sent from the all new AOL app for iOSmowitz, a Schroeder, a Maas 49 . Il successivo capitolo (  Metrica e musica ), prendendo spunto dai lavori di R. Westphal volti a «applicare le leggi dell’isocronia musicale ai metri greci», tentativo fallito ma assai noto in Italia per l’applicazione che ne diede Romagnoli nei suoi   Poeti lirici 50 , si segnala per la riflessione sulla centralità del rapporto metrica-musi-ca, cioè poesia e musica, e sulla necessità di considerarlo storicamen-te, alla luce delle svolte nella storia della cultura greca dall’arcaismo sino a Timoteo e poi all’età ellenistica, quando «il distacco della musica dalla poesia è definitivo; questa sarà destinata quasi sempre alla lettu-ra» 51 . Noti sono i meriti di Perrotta nella rinascita degli studi italiani di metrica antica 52 , nei quali «egli raggiunse una competenza che lo pose in una condizione di assoluto predominio in Italia». Così Ettore Para-tore all’indomani della morte del collega grecista nell’ateneo romano, rimarcandone la visione della metrica quale «premessa indispensabile per l’intelligenza di un altissimo testo poetico» e osservando la pro-fonda coerenza della «esemplare e severa scienza metrica del Perrotta» con l’intera sua concezione degli studi classici («nella metrologia del Perrotta veramente filologia e critica si dànno la mano in una sintesi tra le più feconde») 53 : nel timbro certo ‘romano’ ma già storiografica- 49  Cui già allora Gentili imputa gravi limiti metodologici, per la sopravvaluta-zione ‘empirica’ dell’ observatio metrorum  e il connesso «profondo scetticismo per tutti i problemi metrici di  Urgeschichte »: Gentili 1950, 20 sgg. 50  Particolarmente il secondo volume (  I Poeti Lirici. Terpandro, Alceo, Saffo , Bologna 1932) è costellato di «traduzioni in segnatura moderna della realizzazione sonora», cioè vere e proprie trascrizioni per musica dei frammenti dei tre antichi autori; almeno da un punto di vista storico non a torto Stella 1972, 171 indica come merito di Romagnoli «quello di avere richiamato l’attenzione fin dai primi anni del Novecento sul binomio   poesia-musica , in stretta interdipendenza di nota e parola, nei poeti greci fino all’età ellenistica», e di aver così dato «avvio ad una compren-sione profonda e meno letteraria di Saffo e di Pindaro, di Eschilo e Aristofane: indicava nuove strade per future ricerche». Le indagini sulla musica greca anche in età ellenistica cono-scono oggi nuovo impulso: vd. Martinelli 2009. 52  Messi in rilievo da Albini 1963, 111, il quale anche ricorda che «quando la morte lo sorprese, Perrotta stava ultimando un libro sul saturnio», sul contenuto del quale vd. la ricostruzione di Morelli 1996, 70 sgg. Resta il paradosso, segnalato da Morelli sin dall’inizio del suo studio, che «nella produzione di Gennaro Per-rotta, anche tenendo conto delle notazioni occasionali e delle scansioni fornite in   Polinnia , i contributi di carattere metrico risultano nel complesso piuttosto scarsi ed esigui, specie se rapportati all’importanza che egli annetteva notoriamente alla materia e agli anni spesi nelle relative ricerche fin dall’adolescenza». 53  Paratore 1963b, 7-8. È visione che si ritrova bene espressa anche nell’esordio del I capitolo di   Metrica greca arcaica : «Critica testuale, metrica, interpretazione estetica sono problemi che devono essere affrontati contemporaneamente dal fi-lologo classico; essi rappresentano una unità indissolubile, inscindibile. È merito grandissimo dei grammatici alessandrini se essi, unitamente all’esame critico delmente atteggiato della valutazione di Paratore, «la più grande scuola di metrologia classica fiorente in Italia», derivata da Perrotta, si ricapitola e si identifica nel nome di Bruno Gentili. L’esperienza di Perrotta me- tricista non può disgiungersi dal magistero pasqualiano 54 . Con il ricordo di conversazioni avute con Pasquali «su problemi importanti di metrica greca» Gentili scelse di aprire il suo contributo su Pasquali e la metrica nell’àmbito del convegno del 1985  Giorgio Pasquali e la filologia clas-sica del Novecento : Ricordo con perfetta lucidità l’esame metrico cui fui sottoposto al nostro primo incontro: mi chiese se ero in grado di scandire un carme di Bacchilide o di Pindaro; risposi affermativamente. Non ne fu del tutto convinto; mi porse il testo di Bacchi-lide e mi invitò a leggere metricamente il quinto epinicio, chiedendomi prima in quale metro fosse composto. Risposi: «Dattilo-epitriti» e lessi tutta intera la prima triade strofica. Ne fu sorpreso, forse perché dubitava che un giovane non formatosi alla sua scuola fosse in grado di superare questa difficile prova 55 . I colloqui con Pasquali, avvenuti a Firenze nell’immediato dopoguerra, si incentrarono (continua Gentili) quasi esclusivamente su un problema che particolarmente angustiava il grande filologo, quello cioè «delle re-sponsioni impure nei lirici corali e nei  cantica  della tragedia e della com-media del quinto secolo», in relazione soprattutto alla soluzione data da P. Maas in due articoli dove «egli crede di poter negare le responsioni impure in Bacchilide e in Pindaro, correggendo ar-bitrariamente il testo nei luoghi dove esse appaiono» 56 . Ciò che qui conta mettere in rilievo è la persuasione che Gentili trasse da quegli incontri dell’esigenza, in Pasquali riconoscibile, «di affrontare il tanto discusso problema delle libere responsioni fra strofe e antistrofe non più nella pro-spettiva astratta e schematica indicata da Paul Maas ma in una prospettiva più attenta alla fenomenologia del rapporto metro-ritmo melodico» 57 : che cioè, più in generale, Pasquali già avesse  testo, curarono nelle loro edizioni critiche la divisione in strofe, in στίχοι e in κῶλα  dei cori lirici, tragici e comici […]. Se oggi il filologo moderno dissentirà da essi nell’interpretazione, non potrà certo dissentire nel metodo. Conoscere, dunque, la metrica di un poeta significa poter intendere più profondamente la sua stessa poe-sia, significa poter penetrare nell’intima armonia e musicalità del verso».  54  «Tratto ereditato da Pasquali» lo dice Gamberale 1994, 77. 55  Gentili 1988, 79. Per la centralità nella ricerca metrica di Gentili dell’inter-pretazione dei dattilo-epitriti, «così denominati nel secolo scorso da R. Westphal», nella dialettica tra individuazione di  cola  unitari e sistematizzazione metrica otto-centesca di origine boeckhiana vd.  e. g.  Gentili – Giannini Così Gentili 1950, 21, in un passo e in un contesto che sembrano conservare qualche traccia delle conversazioni con Pasquali di quegli anni (la prefazione reca la data del 30 settembre 1949, ma Gentili informa il lettore che la prima parte del libro era già in bozze). Si ricordino le polemiche degli anni seguenti con Maas circa luoghi bacchi   Sent from the all new AOL app for iOSnetta e chiara l’idea che la poesia lirica sia essa monodica o corale e la musica erano i mezzi di comunicazione di una cultura che, attraverso il linguaggio poetico, i ritmi e le melodie, trasmetteva oralmente i suoi messaggi in pubbliche audizioni 58 . In parte riguardante l’àmbito delle responsioni, e in polemica con Maas, fu l’intervento di Gentili compreso nella raccolta di contributi in memoria del maestro («Maia» 15, 1963) 59 : «alcuni problemi qui discussi», è detto in apertura, «furono non di rado il tema preferito da Gennaro Perrotta nelle  conversazioni con i suoi allievi, i μετρικώτατοι», particolarmente negli  anni 1947-1951. L’articolo è interessante anche per l’attenzione che di-mostra, pur con vari dubbi, verso la colometria antica quale attestata dai pa-piri di Anacreonte e di Bacchilide, già in qualche modo preludendo a quel- lo che diverrà, soprattutto dagli anni Ottanta, uno degli àmbiti di studio più cari a Gentili e alla sua scuola 60 .3. Come per l’Italia e il mondo, così per Bruno Gentili gli anni Sessanta videro prepararsi e poi compiersi svolte decisive. Poco dopo la precoce scomparsa di Perrotta (settembre 1962), Gentili divenne all’Università di Urbino ordinario di Letteratura greca, insegnamento tenuto per incarico da alcuni anni, sin dall’istituzione della locale Facoltà di Lettere di cui fu subito «figura cardine» 61 . La prolusione urbinate del 18 giugno 1964, pub- blicata l’anno successivo con il titolo   Aspetti del rapporto poeta, commit- lidei in cui «la presunta corruttela del metro, per la responsione non perfetta» aveva condotto il filologo tedesco a ritenere corrotto il testo, difeso ammettendo la re-sponsione impura in Gentili Gentili Il racconto di Gentili va naturalmente letto tenendo pre-sente la frattura tra Pasquali e Perrotta su cui vd. Morelli; dal no-vembre 1948, su sollecitazione di Pasquali, erano ripresi i rapporti epistolari con il filologo tedesco: cfr. Bossina Gentili 1963 (poi nei monumentali  Studi in onore di Gennaro Perrotta ). Nella stessa  Gedenkschrift   non manca un breve contributo di P. Maas, una nota metrica di argomento ‘moderno’ datata Oxford, 31 ottobre 1962: Maas 1963. Anche per Maas metricologo molto si potrà trarre dall’esame delle carte segnalate in Lehnus 2010a e Lehnus 2010b. 60  Una quindicina d’anni dopo Gentili osserverà: «Si ritiene che la dottrina me-trica degli antichi sia di scarso valore e di nessuna utilità per noi […]. Ma, ch’io sappia, nessuno sino ad oggi ha realmente dimostrato la validità di questa asser-zione. Il disprezzo e il totale rifiuto delle teorie antiche è una moda invalsa negli studi metrici del Novecento» (Gentili 1979a, 688). Dello sviluppo degli studi sulla colometria antica guidati da Gentili negli anni successivi sono testimonianza molti contributi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»: come sguardo d’assieme vd. Pretagostini, Gentili – Perusino 1997 e più di recente la  Tavola rotonda; breve consuntivo del dibattito in corso in García Novo Sugli studi classici a Urbino dapprima nella Facoltà di Magistero poi in quella di Lettere e Filosofia vd. il profilo di Colantonio – Bravi 2006tente, uditorio nella lirica corale greca , presenta un chiaro carattere pro-grammatico 62  e introduce quell’insieme di temi che «nel tempo si rivelerà più produttivo e tipicamente ‘gentiliano’» 63 . Fin dalle prime righe del sag-gio è messo in evidenza il valore di «strumento di conoscenza del reale» proprio della produzione poetica nella cultura greca del tardo arcaismo, il suo farsi «guida orientativa nell’evoluzione della società greca, nelle forme del linguaggio e dell’arte del poetare» per motivi non estrinseci ma stret-tamente connessi alla centralità del rapporto diretto tra il committente e il poeta che particolarmente connota la poesia corale. La funzione del mito, e dunque il tessuto dei contenuti stessi del carme, si svela quando ci si rifaccia al professionismo del poeta e alla funzione celebrativa costitutiva-mente propria della sua attività, volta a «scegliere una leggenda appropriata all’occasione», a trovare cioè e rendere intelligibile all’uditorio la relazio- ne tra racconto e celebrando, cosicché «il mito avesse un reale significato e un valore esemplare». Solo in tale contesto, a un tempo storicamente determinato e aperto alla necessità dell’interpretazione, possono corretta-mente configurarsi il rapporto mito-attualità e il rapporto mito-gnome, e può considerarsi superato «il problema dell’unità dell’epinicio e in genere del carme corale sul quale per più di un secolo dal Boeckh in poi la critica si è tormentata nella disperata ricerca di un’unità logica o estetica». Era, quello dell’unità dell’epinicio, il problema centrale della critica pindarica quale intuíto e sviscerato dalla grande filologia tedesca del XIX secolo, e che Perrotta aveva posto tematicamente al centro della sezione pindarica in  Saffo e Pindaro, dedicandovi una rilettura di oltre cento pagine attraverso l’intera produzione del poeta di Tebe, frammenti compresi, infi-ne giungendo alla constatazione dell’assenza di unità sia estetica sia logica nelle odi pindariche. Sostanzialmente riprendendo la visione romagnolia-na di Pindaro come «poeta del mito» 64 , l’interpretazione di quel «poeta puro, più che poeta-moralista o poeta-filosofo» 65  è infine da Perrotta per intero riportata all’interno della dicotomia crociana poesia/non poesia, senza arretrare dinanzi alle necessarie conseguenze di quella scelta critica: Non poeta dei giuochi, nè della gnome; non poeta dell’etica e della politica dorica; non poeta della saggezza di Apollo delfico. Ma poeta grandissimo del mito sentito religiosamente come miracoloso eroismo e miracoloso prodigio. Questa defini-zione dell’arte pindarica costringe a ripudiare come non poesia buona parte dei versi del poeta. Questo forse dispiacerà; e si dirà che Pindaro è ridotto ad essere, a questo modo, un poeta frammentario, e si deplorerà ch’egli è stato rimpicciolito e diminuito. Ma una più serena considerazione convincerà, che, anzi, il poeta è  62  «Una specie di manifesto per la Scuola urbinate» lo definisce Angeli Bernar-dini 2013, 16. 63  Catenacci 2014, 449. 64  La cui derivazione da Burckhardt sottolinea Paratore  Perrotta stato accresciuto, perchè l’unico modo di onorare un poeta è quello di esaltare la sua poesia. Isolare le parti impoetiche, non che fargli torto, è un servigio reso al poeta stesso 66 . Non a caso subito Perrotta richiama per confronto il caso della poesia dantesca («naturalmente continueranno ad esistere gli ammiratori dell’architettura, dell’unità, dell’armonia dell’epinicio pindarico, proprio come non mancano gli ammiratori dell’architettura, della struttura, della concezione del mondo dantesco») 67 , a proposito della quale con maggior valenza paradigmatica Croce aveva teorizzato e applicato la necessaria dis-tinzione – valida per ogni autore e opera letteraria – tra la dimensione pro-priamente ‘poetica’ e quella ‘allotria’, attinente «una varia interpretazio- ne filosofica e pratica» 68 .Trent’anni dopo, nel 1965, disegnando il percorso per un profondo rinnovamento degli studi italiani su Pindaro e i lirici che definitivamente li sottraesse alle ipoteche critiche della prima metà del secolo, Gentili in certo modo proietterà all’esterno il tema dell’unità dell’epinicio, rinvenen-dolo «nel mondo dei valori che il poeta in rapporto al suo pubblico e alla funzione sociale della poesia era portato a interpretare» 69 . Discernere nella orazione urbinate i fili di una nascosta dialettica con Perrotta è operazio-ne non priva di giustificazioni, quando si pensi che il saggio   Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca , nato da quella prolusione e poi pubblicato in più sedi, per la prima volta comparve nel volume di «Studi Urbinati» contenente gli  Scritti in onore di Genna-ro Perrotta 70  aperti da una pagina di presentazione di Gentili stesso, alla quale segue un inedito perrottiano, una nota critico-testuale a un passo di Lucano, in duello con una atetesi di Housman nel pasqualiano baluginare di «due varianti antiche» 71 . Significative le parole introduttive di Gentili, che indicano nel maestro un modello di «vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi», mentre pur non si può tacere l’esigenza di porre nuove domande alla grecità arcaica e classica: 66  Perrotta E così prosegue: «gli uni e gli altri si riterranno i soli capaci d’intendere i poeti, pur essendo incapacissimi d’intendere qualunque poesia, perchè per poesia intendono l’allegoria, oppure la così detta ‘poesia d’idee’, oppure perfino una rac-colta di massime belle e utili». 68  Mi limito a rimandare in proposito, come testo esemplare, all’  Introduzione  di Croce 1921, che cito da una ristampa laterziana sostanzialmente immutata del 1943. 69  Saranno poi i temi fondamentali di molte, famose pagine di   Poesia e pubblico nella Grecia antica , soprattutto nel cap. VIII   Poeta-committente-pubblico, ovvero la norma del polipo . 70  Gentili 1965a. 71  Perrotta 1Chi gli fu vicino e poté, anche fuori della scuola, ascoltarlo nella conversazione abi-tuale, sempre viva e piena d’intelligenza umana, apprese, oltre che il rigore scien-tifico della ricerca, il vivo impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi, oggi, nelle prospettive del nostro tempo, diremo l’impegno a comprendere nell’inesauri-bile mondo della grecità arcaica e classica la problematicità dei rapporti di valore culturali e civili, quali uomo-scienza, uomo-natura, uomo-società, che sono alla base della nostra inquietudine e per i quali sentiamo l’urgenza di una soluzione se dobbiamo, tra i rottami inutilizzabili del vecchio umanesimo e tra gli automi della odierna civiltà industriale, riproporre una nuova dimensione dell’uomo, dell’uomo non come strumento ma come fine 72 . La seconda parte del saggio discute un buon numero di passi, perlopiù di Pindaro, anticipando traduzioni destinate all’antologia   Lirica corale greca. Pindaro Bacchilide Simonide , che uscì per Guanda nel 1965 73 ; il saggio originato dalla prolusione urbinate sarà lì riproposto in versione sostanzialmente immutata, a mo’ di introduzione dal titolo   Poeta e com-mittente . Nuovo è però l’avvio (ripreso nel retrocopertina), che intercetta le curiosità ‘d’avanguardia’ di quegli anni di profondi mutamenti, un po’ provocatoriamente invitandoli a una nuova lettura dei poeti della lirica co-rale greca: In un momento di crisi, oggi, della poesia, tra sperimentalismi d’avanguardia, giu-stificati, entro certi limiti, dalla buona intenzione di trovare linguaggi più idonei ad interpretare la realtà presente, ha forse un senso riproporre una nuova lettura dei poe- ti della lirica corale greca, Pindaro, Simonide, Bacchilide. La scelta non è casuale, ma ha un suo significato che sarebbe stato eluso se ci si fosse limitati a ripresentare i poeti della lirica monodica, troppo consunti dalla tradizione ermetica. Premeva invece offrire, nei limiti consentiti dall’indole della collana, un panorama delle op-poste tendenze ideologiche e artistiche che animarono la poesia del tardo arcaismo greco, cioè di un’epoca culturale caratterizzata da una profonda crisi evolutiva nella quale la poesia, come solo rare volte nella storia della cultura occidentale, divenne strumento di conoscenza del reale […] 74 . Si tratta dunque di una affermazione di ‘contemporaneità’ della lirica greca ancorata a solide e rinnovate basi filologiche e storiche, proposta in un’epoca di crisi e trasformazione tra le più incisive e impetuose del se-colo, come oggi sappiamo. Se può forse anche rimandare qualche eco dei  72  Parole che in parte torneranno trent’anni dopo nell’introduzione premessa da Gentili alle  Giornate di studio su Gennaro Perrotta . Si può aggiungere che nella premessa agli Scritti urbinati in onore del maestro, Gentili segnalava che alcuni di essi costituivano i primi contributi di collaboratori del neocostituito «Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica greca e latina» presso l’Università di Urbino. 73  Gentili 1965c. Ho consultato presso la Biblioteca centrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano una copia appartenuta a Luigi Alfonsi, con dedica manoscritta di Gentili datata «Urbino 18.11.1965». 74  Con l’ultimo periodo si apre il saggio in «Studi Urbinati» clamori suscitati dalla  beat generation  di A. Ginsberg, il cenno iniziale agli «sperimentalismi d’avanguardia» nell’àmbito della poesia contempora-nea, ai loro eccessi e alle loro ragioni, essenzialmente rinvia alla neoavan-guardia italiana di quegli anni, la cui fase preparatoria si suole riconoscere nel dibattito culturale sviluppato sulla rivista milanese «Il Verri», fondata nel 1956: sin dall’inizio diretta da Anceschi, se n’era avviata nel 1962 una seconda serie presso l’editore Feltrinelli, sedendo nel comitato di redazione letterati poeti e studiosi destinati a fama e fortu-na nei successivi decenni (Nanni Balestrini, Renato Barilli, Eco, Giuliani, Guglielmi, Porta, Sanguineti). I nomi appunto intorno a cui nel 1961 si era aggregata l’antologia poetica   I  Novissimi: poesie per gli anni Sessanta  (con testi di N. Balestrini, A. Giu- liani, E. Pagliarani, A. Porta, E. Sanguineti), con il successivo passaggio al Gruppo 63, più eterogenea e conflittuale formazione: intorno alla metà degli anni Sessanta poli entrambi di definizione e diffusione della neoa-vanguardia italiana,   poetae novi  avversi contemporaneamente a ermetismo e neorealismo 75 , volti (i più) alla destrutturazione sperimentale di lingua e forma come unica modalità di espressione di/in una realtà svuotata di sen-so e accettata come tale 76 . Presentando il primo numero della nuova serie de «Il Verri» (febbraio 1962), L. Anceschi salutava il determinarsi di un evidente mutamento nel panorama della poesia italiana contemporanea. A una maniera «che fu giustamente detta  anacoretica , o  ermetica , o  chiusa , non senza certe tentazioni di involuzione neoclassica» e che intendeva la poesia «come fuga o rifugio; come estrema voce del soggetto nascosto e introverso […] come sintesi illuminante, pregnante, e veloce nel rigore calcolato, coltivatissimo, e raro della parola», si sostituiva ora il diverso atteggiamento e sentimento «di una poesia dissacrata, estroversa, che si ritrova in un mondo di oggetti reali, affidata talora alla casualità del sin-tagma, talora ad un ritaglio significante dell’effimero, di modi analitici, a struttura complessa e multipolare, tale che […] può farsi capace di una critica di vita, di un’azione per la trasformazione dell’uomo»: egli avver-tiva insomma il farsi avanti di una poesia, e di una stagione di poesia, «come  accrescimento della vitalità , e nuove tecniche, e volontà di for-me aperte, e speranze di una maggior portata di comunicazione…» 77 . Il saggio già apparso in «Studi Urbinati» fu da Gentili subito ripubblicato  75  Nonché «uniti e avvinti (per impulso d’Anceschi) nel programma di approfit-tare della prima congiuntura economica favorevole dopo secoli – il famoso  boom »: così Alberto Arbasino in Anceschi – Campagna – Colombo, 338. 76  «Sganciato il linguaggio da intenti determinati e da precise responsabilità semantiche, lo scrittore appare attirato non tanto dalla mancanza di senso quanto piuttosto da ciò che sembra lecito chiamare il possibile verbale, ossia l’estrema libertà di invenzione linguistica. La parola comunica non dei significati, ma le pro-prie avventure e peripezie, percorre lo spazio senza fine del desiderio, del gioco e del godimento», come efficacemente sintetizza Curi 2014, 100.   Sent from the all new AOL app for iOS appunto su «Il Verri» 78 , all’interno di un numero monografico  Classicità e contemporaneità  contenente contributi anche di altri studiosi del mon-do antico 79 . Il fascicolo era introdotto da un intervento di Anceschi, da sempre attento a «scoprire in modi non fortuiti una zona antica e nuova della classicità» 80 , qui volto a riflessioni di singolare lucidità e preveggen-za, oggi certo più inoppugnabilmente attuali di cinquant’anni fa: Le infinite maniere con cui nel secolo son stati sentiti i classici testimoniano già esse di un continuo vivere dei classici al di fuori della astrazione, ormai incredibile, di eterne, immobili esemplarità. Che senso avrà la lettura dei classici in un mondo in cui l’Europa non sia più il “cervello del mondo” ma solo, se sarà possibile,  una  delle sue fibre,  una  delle voci di una cultura che si è aperta, aperta al riconoscimen-to delle ragioni di tutti i popoli, di tutte le tradizioni? La cultura europea in certi suoi esponenti della metà del secolo scorso sembra aver intuito la possibilità del determinarsi di una situazione di questo genere […]. Questa è la situazione in cui siamo, qui dobbiamo vivere, e in questo ordine recuperare i nostri antichi 81 . Particolarmente appropriati, nel contesto del numero de «Il Verri», ri-sultano dunque sin dall’inizio del saggio di Gentili i rilievi sulla ‘lontanan-za’ dal gusto moderno specialmente della lirica corale, tra le varie forme della poesia greca arcaica, e sull’almeno apparente maggiore accessibilità dei grandi poeti della lirica monodica (Saffo, Alceo, Anacreonte) anche se il loro volto è apparso spesso da noi alterato da un certo estetismo deca-dentistico che ha ancor più accentuato, a suo modo, quell’idea astratta e astorica della lirica greca che abbiamo ereditato dalla nostra cultura classicistica. Il culto della “poesia pura” idoleggiò in essi quella che fu ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento” conden-sata in un’immagine di pochi versi superstiti. Il riferimento è qui alla importante, benché spesso indiretta presenza dei maggiori lirici monodici nella letteratura italiana dalla seconda metà  77  Anceschi 1962, in partic. 14 sgg.  78  Gentili 1965, 80-97. 79  C. Del Grande ( Grecità ); C. Diano (  Ritorno a Plutarco ); E. Pasoli (  Per una lettura dell’epistola di Orazio a Giulio Floro ); G. C. Giardina (  Note per l’esegesi di Orazio lirico ); A. Mele ( Orazio e il significato culturale del classicismo latino ). 80  Cit. in Nisticò 1997. 81  Anceschi 1965, 4-5. Quanto una ben diversa visione della Grecia come «anti-ca madre comune» fosse in àmbito filosofico italiano ancora viva pochi anni prima testimonia ad esempio il volume di Barié – Sini 1959, dove a fronte del «senso della crisi dei valori oggi tanto diffuso nella coscienza dei contemporanei, che nessuna generazione del passato potrebbe probabilmente reggerne il paragone», si propugna un ritorno alla Grecia, che «vagheggiata dall’Umanesimo al Romanticismo come il felice e radioso mattino della nostra storia, sembra non avere mai deluso chi ricerchi in essa i germi del modo occidentale di considerare e vivere la vita» (17dell’Ottocento, non solo e non primariamente nelle traduzioni 82 . A Car-ducci in particolare, e per vari aspetti già al Foscolo 83 , si deve «la riscoper-ta, nelle immagini e nei metri, dei lirici greci, di Alceo e Saffo, già di leo-pardiana memoria, e poi di Alcmane […] come modelli di poesia pura» 84 , all’origine di un ricco e complesso processo di ricezione, ancora non ade-guatamente studiato, che attraverso Pascoli 85  e D’Annunzio conduce sino ai   Lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo , usciti a Milano in prima edizione nella tragica primavera del 1940, introdotti da un saggio critico del ventinovenne Luciano Anceschi. A Milano Anceschi si era formato con Antonio Banfi, subito segnalandosi con il volume   Autonomia ed ete-ronomia dell’arte  (1936) 86 , radicale presa di distanza dall’intuizionismo estetico crociano e dalla sua incapacità di comprendere le poetiche del Novecento 87 . Come il coetaneo Carlo Bo (1911-2001) per la corrente ‘fio-  82  Tra le quali per più ragioni merita ricordare quella che Felice Cavallotti (1842-1898), allora già famoso deputato dell’  Estrema , dedicò a  Canti e frammenti di Tirteo. Versione letterale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a Gio-suè Carducci , Milano 1878, con prefazione, interessante per il rifiuto della ‘metrica barbara’ («il tentativo – che non data da oggi – di ricondurre la poesia italiana alla esteriorità dei metri greci e latini, mal saprebbe giudicarsi alla stregua di alcune splendide ispirazioni di Enotrio»), e per l’attenzione alla fortuna di Tirteo anche fuori d’Italia, in particolare nel mondo tedesco (lingua che Cavallotti aveva appreso nell’ancor asburgico liceo milanese di Porta Nuova), finanche citando «la versione olandese in versi di Bilderdijk»: ma nella costituzione del testo adottando «per base la volgata di Enrico Stefano – del 1566 – che ancora oggi fra tutti i distillamenti di cervello della critica germanica rimane la guida del testo più fida e più sicura». 83  Del Foscolo si ricordi almeno la visione dei versi della  Coma  catulliano-calli-machea come   poesia lirica  sin dalla dedica a G. B. Niccolini («non credo che l’an-tichità ci abbia mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che li pareggi») della traduzione e commento de   La Chioma di Berenice poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo  (1803): ivi il   Discorso quarto. Della ragione  poetica di Callimaco  si chiude nel nome di Pindaro dopo aver esaltato Alceo e Saf-fo nei superstiti  rari vestigi  a fronte di Orazio e di Catullo. Sul ‘pindarismo’ fosco-liano dal commento alla  Chioma di Berenice  attraverso i  Sepolcri  sino alle  Grazie  come riflessione sul nesso che lega lirica antica e moderna vd. Benedetto 2006. 84  Nava 2007, 90; qualche utile elemento si trae da Tomasin 1997. 85  Fondamentali soprattutto i   Poemi Conviviali  (del 1904 la prima edizione in volume) sin dal liminare  Solon  (1895), su cui vd. le considerazioni introduttive e il dettagliato commento in Treves  Un àmbito di particolare interesse è quello della sperimentazione pascoliana ispirata ai metri della lirica greca, cfr. Giannini 2009 e ora Capone – Giannini 2015. 86  Lo stesso anno de   La poetica del decadentismo  di W. Binni, per il cui influs-so sugli studi pindarici degli anni Quaranta di M. Untersteiner vd. Lehnus 1989. 87  Sui fondamenti filosofici e critici del precocissimo anticrocianesimo di An-ceschi vd. Lisa 2007, cap. I (  La nuova fenomenologia e la nozione di poetica ); su Anceschi, la critica di ispirazione fenomenologica e la sua connessione con la neoavanguardia (come già con l’ermetismo critico) utile profilo in Orvieto 2003, 1090-1095 e 1104-1110rentina’ dell’ermetismo, sul versante ‘milanese’ Anceschi fu figura di spicco tra i giovani critici che si fecero interpreti e banditori della singolare intensità della parola nella poesia di Quasimodo: ‘poetica della parola’ sul-la cui centralità Anceschi torna nell’introduzione ai   Lirici greci  del 1940, dicendola erede dell’«esperienza complessa della poesia dopo Hölderlin, Poe, Baudelaire, e, per noi in special modo, Leopardi» e, soprattutto, scor-gendone l’antecedente nella «pura e libera voce dei lirici greci». Anceschi si mostra consapevole del fecondo lavoro filologico svoltosi per secoli intorno a quegli antichi poeti, ma del pari afferma che nella cultura euro-pea «non ci fu mai la felice e piena stagione dei lirici greci». Quella stagio- ne ora è giunta, cosicché «nella ricerca di una poesia veramente  nuova  e  contemporanea » e soprattutto «nella aspirazione al raggiungimento di una rigorosa   purezza lirica » l’‘ermetico’ Quasimodo può pienamente espri-mere se stesso traducendo Saffo Alceo Archiloco e Alcmane, ritrovando cioè «la purezza di quell’antica sensibilità in una condizione di linguaggio attuale della poesia». Senza sentimentalismi – va detto – ma nutrito di una chiara percezione della terribile crisi della civiltà europea 88 , risuona l’appello alla lirica greca come depositaria dell’assolutezza della parola, paradossalmente assicurata dalla condizione frammentaria di quella tra-dizione testuale: Questa aspirazione di purezza in un riconoscimento della relativa «brevità» di ogni composizione poetica, che, per raggiungere il suo scopo, deve presentarsi alla no-stra coscienza come  un tutto  è, appunto, la lirica – per la prima volta nata all’u-manità nella Grecia. Di essa solo la   parola  (qualche parola altissima, e interrotta) ci resta, là dove era anche danza e musica: parola, danza, musica in un’invisibile armonia unitaria di ritmi. E solo l’immaginazione più libera può darci un’approssi-mazione felice a quel segreto. Se pregevole appare la sottolineatura del concorrere di parola, danza e musica nel definire la particolare natura della lirica greca, è indubbio che il suggerire compatibilità o addirittura sovrapponibilità tra ‘poetica della parola’   cara agli ermetici novecenteschi e scarni testi dei lirici greci conservati   per fragmina  («qualche parola altissima, e interrotta») si risolve in una forzatura critica a danno del concetto e della realtà di ‘frammento’ propri della filologia classica: all’indomani della guerra pubblicamente lo segnalò Manara Valgimigli (1876-1965) 89 , peraltro con Quasimodo e  88  Consapevolezza che ad esempio si esprime nel richiamo a un’illuminante frase di P. Valéry: «… une civilisation a la même fragilité qu’une vie. Les cir-constances qui enverraient les oeuvres de Keats et celles de Baudelaire rejoindre les oeuvres de Ménandre ne sont plus du tout inconcevables: elles sont dans les  journaux» (22-23). 89  Valgimigli 1946 (1957). Dopo aver ricordato che dei lirici greci «per tra-dizione medioevale diretta, oltre la silloge teognidea e quella pseudofocilidea, e oltre i quattro libri degli Epinici di Pindaro […] tutto il resto lo abbiamo o per ciAnceschi in rapporti epistolari già in quel 1940, e da subito ben disposto verso l’impresa traduttoria del poeta ermetico e i suoi risultati 90 . Quan-do Gentili, nel saggio pubblicato nel 1965 su «Studi Urbinati» e su «Il Verri», polemicamente alludeva a quell’impresa nei termini su citati («il culto della “poesia pura” idoleggiò in essi [ scil . i grandi poeti della lirica monodica] quella che fu ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poe- tica per eccellenza, o addirittura la “poesia del frammento” condensata in un’immagine di pochi versi superstiti»), i   Lirici greci  di Quasimodo erano nel pieno della loro fortuna: mentre proprio nel 1965 era definita la for-ma  ne varietur  delle versioni dai lirici nell’edizione mondadoriana degli  Opera omnia  del poeta, tra vivaci polemiche di recente laureato dal Pre-mio Nobel (1959), quelli erano gli anni in cui se ne radicava e diffondeva la presenza nelle scuole italiane, particolarmente dopo l’istituzione della Scuola media unica. Soprattutto dai primi anni Sessanta e nel successivo decennio si può dire che in Italia nella percezione comune, anche gene-ricamente colta, la lirica greca coincise con i   Lirici greci  di Quasimodo, opera anzi che già all’indomani della morte del poeta (1968) si prese a riconoscere come la sua migliore 91 . La stessa scelta da parte di Gentili di  tazioni indirette, oppure, dove siamo stati più fortunati, per ritrovamenti papiracei; a ogni modo, per frammenti» e che in realtà anche la lirica era «tutta intessuta e ragionata nel mito», Valgimigli pienamente riconosce le ragioni storico-culturali di quell’equivoco, il ‘fascino singolare’ esercitato sui ‘lirici nuovi’ dagli antichi poeti in frammenti: «ora, se io penso a quelle che furono ai principi del Novecento le teoriche dell’intuizionismo, del futurismo, del frammentismo, non credo peccare di temerità né di irriverenza se tra le cause di questo incontro di poesia greca e poeti nuovi oso porre anche questa umile e strana combinazione, cioè del casuale stato frammentario e quindi, in certo senso, alogico, anticontenutista, antisintattico, e, vorrei aggiungere, anticantato di certa poesia lirica greca». 90  Quanto sopravvive dei carteggi Quasimodo-Valgimigli e Anceschi-Valgimi-gli è ora raccolto nel volume Benedetto – Greggi – Nuti 2012. Val la pena qui trascrivere almeno la breve missiva (da Padova, 6 giugno 1940, su carta intestata «R. Università di Padova/Seminario di Filologia Classica») con cui Valgimigli rin-graziava il poeta per l’invio di una copia degli appena pubblicati   Lirici greci : «Caro Quasimodo / Ho avuto il libro. Grazie. Certi versi mi hanno ridato la consolazione di un nuovo cantare. Sopra tutto, come già Le scrissi, c’è quel pudore schietto, quel pudore senza inganni, quella limpidezza liquida, che erano e sono qualità insolite e ignote. Di alcuni punti e modi, di alcuni suoni di parole, assai mi piacerebbe par-lare con Lei. Anche mi piacerebbe scrivere di questo suo libro. Ma dove, in questi giorni feroci? Addio, caro Quasimodo. E auguriamoci bene. E auguriamo bene al nostro paese e alla nostra civiltà. / M. Valgimigli» (in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 100-101). 91  Così per primo E. Sanguineti, uno dei protagonisti della neoavanguardia, che in chiusura dell’  Introduzione  alla sua importante antologia einaudiana   Poesia italiana del Novecento  (1969) accomuna in iconoclastico dileggio antiermetico le versioni quasimodee al famoso saggio di Carlo Bo   Letteratura come vita  (1938); appunto perché gli antichi lirici risultano «volgarizzati, mediante il Quasimo-   Sent from the all new AOL app for iOSantologizzare e tradurre per Guanda i poeti della lirica corale (Pindaro, Bacchilide, Simonide) fu con ogni evidenza determinata dal fatto che si tratta appunto degli autori non presenti tra i   Lirici  di Quasimodo perché non compatibili con l’idea di lirica sottesavi, come peraltro Anceschi ave-va a suo tempo esplicitamente affermato: Entro i limiti di una pura (attuale e antica)  idea   della poesia  perciò fu osservata la scelta dei testi […]. Naturalmente è ben definito il senso anche delle esclusioni di poeti disposti a mettere a servizio della «celebrazione» la magnificenza di uno stile espertissimo, come Pindaro; o, come Bacchilide, abile e colto in una dolcezza di analisi descrittive. E sempre, poi, un rigore senza concessioni ha voluto la esclu-sione, o, almeno, la limitazione nella presenza di poeti «semi-lirici» (giambici o elegiaci, gnomici o politici) troppo disposti alla  sentenza , all’ esortazione  o alla  narrazione : a indubbie condizioni di prosa 92 . Venticinque anni dopo la comparsa dei   Lirici greci  prefati da Anceschi, Gentili propugnava e realizzava il rovesciamento di quella prospettiva cri-tica 93 ; ci si può quindi chiedere perché il grecista urbinate abbia scelto pro-prio la rivista diretta da Anceschi per ripubblicare e più ampiamente divul-gare il saggio   Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Quanto si è prima accennato circa i convincimenti maturati da Anceschi nel corso degli anni Cinquanta, e poi sempre più all’inizio dei Sessanta, rende chiara la risposta: «nemico di ogni posizione cristallizza-ta» 94 , Anceschi soprattutto con «Il Verri» individuò come primario compi-to del critico «quello di risolvere la situazione in cui si trova, e di cui sente l’ansia e l’instabilità» 95 . Non solo sin dai primi anni del dopoguerra egli si  do, con i tratti deformanti della poetica ermetica», su quindici poesie antologizzate da Sanguineti tredici sono tratte dai   Lirici greci , definiti «il suo più vero contribu-to originale alla poesia del nostro secolo» e «uno dei documenti più significativi dell’intiera stagione ermetica». 92  L. Anceschi,   Introduzione  in Quasimodo 1940, 22. 93  Con espressioni che sembrano anche direttamente rispondere a quelle di An-ceschi del 1940: «per questa via era difficile accostarsi ai lirici corali del tardo ar-caismo greco, particolarmente a Simonide, Pindaro e Bacchilide, più elaborati, più consapevoli delle loro possibilità espressive, più ricchi nei contenuti etici, politici e artistici, indissolubilmente legati a un particolare ambiente e ad una determinata occasione che stimolarono e condizionarono il loro canto» (Gentili 1965c, 15). 94  Anceschi – Campagna – Colombo 1998, 331: «Anceschi – si sa – era nemico di ogni posizione cristallizzata […]. Non sconfessava l’ermetismo, in cui si era riconosciuto e che lo aveva visto nascere come critico militante, ma non intendeva lasciarsi rinchiudere in esso. E magistrale […] era la sua capacità di muoversi in territori ambigui, d’incerta definizione, non ancora riconosciuti, e di porsi come punto di riferimento per chi cercava la sua strada». 95  Anceschi 1956, saggio con cui si apre il primo numero de «Il Verri» nell’au-tunno di quell’anno, riproposto nella nuova serie de «il verri» nel 1996; sulla con-dizione della letteratura italiana dopo la metà degli anni ’50, chiusa tra le ultimeera convinto (come Quasimodo del resto) dell’esaurimento della stagione ermetica, ma tornò ad affrontare i   Lirici greci  e la sua stessa introduzione dieci anni dopo, riscrivendola nel 1951 per una nuova edizione mondado-riana. Molte qui sono le novità, sin dall’avvio. Anceschi lascia intendere di essere all’origine dell’incontro di Quasimodo con la lirica greca (come peraltro già le pagine del 1940 lasciavano sospettare) 96 , prende atto del de-finitivo isterilirsi dell’ermetismo, contestualizza la traduzione quasimodea nel suo valore e nei suoi limiti storicamente determinati: Ma che cosa si son fatti i lirici greci nella lettura di Quasimodo? Essi furon letti, è evidente, nel gusto particolare di una certa tendenza alla poesia del tempo […]. Era un momento in cui la verità della poesia ci sembrava tutta compresa nella veloce intensità della lirica in una estrema lucidità di contatti tra oggetti lontanissimi e lon-tanissimi tempi della memoria; e gli antichi   frammenti  (la giustificazione della vali-dità del frammento è sempre la prova di resistenza delle estetiche) ci confermavano con la loro forza che la poesia  non  sta nella struttura,  non  sta nella «musica esterio-re»,  non  sta nel «contenuto morale» o nella «narrazione» e nel «discorso»…: tutto ciò può andar perduto, eppure una bellezza intensa e veloce resta, e ci commuove. 4. Importante novità rispetto all’introduzione del 1940 è il richiamo al saggio «incompiuto e bellissimo» di Renato Serra (1884-1915)   Intorno al modo di leggere i Greci , pubblicato postumo da Valgimigli nel 1924 su «La Critica». Ispirate dalle contradditorie reazioni che il primo volu-me della traduzione commentata dei   Lirici greci  del Fraccaroli (1910) gli avevano suscitato 97 , le pagine di Serra sono soprattutto una riflessione sulla fine del vecchio classicismo («il calco in gesso dell’Ellade serena, dell’Ellade perfetta, che aveva fatto le delizie di tante generazioni, dagli umanisti fino al Carducci, è andato in frantumi»), sul nuovo «desiderio di realtà» suscitato dall’incessante lavoro di filologi e archeologi, sulla inquie-  manifestazioni dell’ermetismo e il dogmatismo neo-realista, e sulla risposta libera-toria che la rivista trovò in una ‘fenomenologica’ concezione della letteratura «che rinnova continuamente la propria consapevolezza in rapporto al concreto mutare delle situazioni» torna ad esempio Anceschi 1967. 96  «Non dimenticherò certo facilmente il giorno – davvero molto lontano, or-mai – in cui, parlando con Quasimodo, mi venne fatto di associare, secondo certe ragioni, due idee familiari e carissime, che, in quel momento, sollecitavano in modo singolare la mia mente; voglio dire: l’idea della prima lirica greca, e quella della poesia italiana contemporanea. Fu, credo, un giorno dell’autunno 1938»: l’introdu-zione anceschiana del 1951 è ristampata in Quasimodo 2004, 321-333. 97  «Ho davanti a me i Lirici del Fraccaroli. Che cosa è dunque l’interesse di que-sto libro? L’intendimento nuovo di mettere sotto gli occhi dei lettori comuni questi avanzi venerabili della lirica greca, sì che ognuno possa vedere e giudicare senza scrupoli quel che sono sostanzialmente e quel che valgono. Con questo animo l’au-tore ha dato e il pubblico ha ricevuto, molto lietamente, come sapete, il libro. Per-ché dunque invece di partecipare a questa lietezza io resto malinconico e dubitoso  ad ascoltare l’eco beffardo di una ironia lontanissima. ὁρᾶς τὸν πόδα τοῦτον;»   Sent from the all new AOL app for iOSta grecità da loro rivelata, consentanea al gusto   fin de siècle  («coi prefidi-aci, con la civiltà micenea e con la cretese, con le fasce delle mummie e con gli ostraka dei monticoli egiziani, e insomma con l’insistenza su tutto ciò che la Grecia può dare di più crudo, barbaro, romantico, positivo, con-trastante col vecchio ideale gelato»), e soprattutto sulle opportunità svelate da questo diverso, modernissimo ‘bisogno di antico’: Realtà, come dicevo, di cose, e non di parole. Questa è la differenza profonda fra la nostra generazione e quelle che l’han preceduta. Le statue, le fotografie, le imma-gini, i processi, i costumi, in somma la vita nella sua indifferente nudità ha preso il posto degli aoristi del maestro di seminario e delle figure di Longino […]. Una cosa è chiara, direi quasi  a priori ; che con tanta voglia di appropriarsi solo il grosso e l’essenziale della grecità, i pensieri e i motivi e le immaginazioni piuttosto che le frasi e le formalità, quest’ora dev’essere propizia per i traduttori. I passi ora citati del saggio di Serra provengono dal fascicolo de «Il Verri» dedicato a  Classicità e contemporaneità , che si apre con estratti da   Intorno al modo di leggere i Greci 98 . Sugli appunti di Serra si sofferma il liminare   Intervento  di Anceschi. Nel giovane critico cesenate caduto sul Podgora, Anceschi indica colui che «intuì una crisi del modo di sentire e vivere i classici, in cui noi ancora siamo», la crisi di chi ha compreso «che non ha più alcuna utilità per noi una lettura  assoluta  dei classici», ma che esistono ancora molti modi, altri modi, con cui i classici ci possono rispon-dere, molti e diversi piani su cui essi vivono ancora per noi, e che molti e diversi possono essere i gesti del nostro rapporto con loro. E su questa fenomenologia va forse ormai posato l’accento. Sono evidenti le consonanze tra un così attento bisogno di fondare una diversa presenza dei classici in un futuro avvertito come totalmente ‘altro’, e l’attività di Gentili in quegli anni come filologo e come docente. Ne è conferma la scelta di continuare a pubblicare su «Il Verri» gli articoli di maggior impegno teorico e programmatico già apparsi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica»: in particolare i due saggi   L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo  e   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici . Il primo (Gentili 1970) 99  pienamente si presenta al lettore ‘nella dimensione del nostro tempo’, subito prospettando l’ineludibile «grosso problema di fon-do che è il problema stesso della sopravvivenza del mondo classico nella nostra cultura», letto all’interno del più radicale tema della ‘morte della storia’ nelle società a tecnologia avanzata e pervasiva degli ultimi decenni  98  Serra 1965. 99  Già in «QUCC», con il sottotitolo  Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale : Gentili 1969del XX secolo. Quaranta e più anni dopo, sono riflessioni che colpiscono per lungimiranza, e per estraneità agli ideologismi allora correnti come a qualsivoglia ‘umanistica’ retorica consolatoria o deprecatoria: In concreto, quale senso può avere la grecità arcaica nell’odierna civiltà tecnolo-gica che rifiuta la storia e s’impone come civiltà nuova, integrata e alienata come è definita dai sociologi, perché ha tolto al mondo, irrevocabilmente, le sue proprie dimensioni storiche? Il risultato di questa situazione irreversibile è a tutti noto: la grande crisi dei valori etici, politici, espressivi. Se volgiamo per un attimo lo sguardo alla cultura contemporanea e agli ultimi movimenti delle neoavanguardie europee, lo stato di crisi dell’espressione ha forse toccato i suoi limiti. L’articolo enuclea e propone con chiarezza i principali elementi caratte-rizzanti il rinnovamento a livello internazionale degli studi sulla lirica gre-ca arcaica, sulla spinta soprattutto dei lavori di E. A. Havelock, muovendo dal riconoscere che «dato comune alla lirica greca, e in generale alla poesia greca sino alla fine del V sec. fu il tipo di comunicazione cui fu affidata, comunicazione non scritta ma orale», e che una poesia orale «comporta modi di espressione e atteggiamenti mentali diversi dalla poesia di comu-nicazione scritta». Si è di fronte a una ‘tecnologia di scrittura’   rinvenibile «in contesti poetici di altre culture orali», solita affidarsi a periodi brevi e figurazioni paratattiche, estranea all’«uso dell’io idiosincratico», cioè appunto all’‘io lirico’ della poesia latina e poi moderna, connessa invece a una «psicologia della   performance  poetica che mira a pubblicizzare il personale e il soggettivo per renderlo immediatamente percepibile e coin-volgere emozionalmente l’uditorio» attraverso la ricca serie di immagini e metafore proprie del linguaggio della lirica arcaica. La presenza del mito ne riflette la funzione, «tessuto connettivo della cultura orale e strumento sociale di interazione tra passato e presente, fra tradizione e attualità, tra poeta e uditorio», sì da delineare un tipo di poesia prammatica per la sua funzione e i suoi scopi parenetici, didattici e celebrativi, sollecitata nella scelta dei temi dalle vicende della vita militare e politica, dalle reali situazioni della vita sociale, dei simposi, delle feste religiose e degli agoni atletici, vincolata alle richieste di un committente o a un uditorio di “amiche” e di “amici” di un thiaso di ragazze o di una consorteria politica di identico rango sociale. Si trovano qui compendiate e illustrate con efficace consapevolezza critica le linee guida che per mezzo secolo ispireranno l’amplissimo la-voro di Gentili e della sua scuola sulla lirica greca arcaica 100 . È opportu-no sottolineare la volontà di Gentili di legare l’interpretazione dei lirici greci, così rinnovata, a una prospettiva particolarmente ampia e ambizio- sa, protesa sul futuro e infatti più volte ribadita nei decenni successivi,  100  Esemplare l’esposizione in Gentili 1990   Sent from the all new AOL app for iOSl’idea cioè «cui aspira l’antropologia contemporanea, dell’interpretazione come comunicabilità fra culture diverse e distanti nel tempo». Il rifiuto, all’inizio dell’articolo, sia della «interpretazione umanistica tradizionale della poesia greca come eterna storia naturale del gusto e dell’arte» sia del ‘neoumanesimo etico’, e in definitiva la presa d’atto della «crisi profon-da dell’umanesimo tradizionale» in un contesto culturale dominato dalle nuove scienze dell’uomo, mira all’affermazione di un diverso paradigma (identificabile nei nomi diversi ma variamente concordanti di Dodds e di Finley, di Vernant e di Havelock) con «lo sforzo di capire in concreto la mentalità dell’uomo greco arcaico», secondo una linea critica attenta all’oggi e al domani: nella quale cioè «convergono le domande, le cate-gorie e gli strumenti delle moderne scienze dell’uomo: dalla lessicologia semantica alla psicologia sociale e alla psicologia della storia, dalla socio-logia all’antropologia», e il vero tema risulta infine «il problema concreto dell’uomo nella sua vita individuale e sociale» 101 .Allo scopo evidentemente di segnalare nell’attività critica ed esegetica la necessità di una costante riflessione concernente passato (dell’oggetto) e presente (dell’interprete), «contro il pericolo di arbitrari travestimenti» 102 , il saggio si chiude con una breve citazione da T. S. Eliot 103 , cara a Gentili, che la ripeterà in futuro. Si tratta di un passo proveniente da un saggio del 1920 (  Euripides and Professor Murray ), violento attacco dello scrittore contro le traduzioni euripidee approntate per la scena dal famoso grecista, accusato di adottare per le proprie versioni un obsoleto stile tardo-otto-centesco incapace di trasmettere la sostanza del testo greco e di renderlo comprensibile nel presente (opinione ben espressa dalla devastante frase finale: «è per il fatto che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto»): è giusto aggiungere che, quali siano stati moventi e intenti della stroncatura di Eliot, le traduzioni di Murray proposte  on the stage  furono grandemente popolari per decenni, e anzi «it was largely due to Murray that Greek tragedy established itself as a permanent feature of the theatrical landscape» 104 . L’intervento fu incluso  101  Sul significato di fondo dell’opera di Gentili da individuarsi nella «applica-zione alla filologia testuale dell’antropologia culturale», al fine di porre «la spiega-zione dei testi, della loro struttura e dei singoli passi, nel quadro illuminante della cultura complessiva cui furono funzionali» vd. soprattutto le osservazioni di Cerri 2014. 102  Con riferimento a quanto sembra alle interpretazioni idealistiche e estetiz-zanti della lirica greca contro cui più polemizza Gentili. 103  «Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente e tuttavia in modo così vivo che esso sia tanto presente a noi come il presente». 104  Cfr. Garland 2004, in partic. 161-163. Su   Euripides and Professor Murray  vd. ora i rilievi di Morwood 2007, 139 sgg.; sui ben noti, profondi interessi di Eliot per le letterature classiche e soprattutto per Virgilio, e sull’importanza nella costru-zione e nell’autorappresentazione del poema  The Waste Land   (1922) del concetto   Sent from the all new AOL app for iOSda Eliot nella raccolta   Il bosco sacro  ( The Sacred Wood  ), rivelata nel 1946 alla cultura italiana dalla traduzione di Luciano Anceschi, che premise una lunga introduzione (datata marzo 1945!) 105  dove non manca di essere menzionato   Euripides and Professor Murray , da Anceschi accostato al saggio «incompiuto e bellissimo di Serra   Intorno al modo di leggere i Greci » per la comune avversione verso «quel tipo ambiguo di traduttore-poeta-filologo-professore che fu di moda nei primi anni del secolo e che […] non soddisfò né le ragioni pure della filologia, né tanto meno quelle, certo più rigorose, dell’arte» 106 . Bersaglio di Anceschi, subito dichiarato, è «il prof. Romagnoli», esempio più noto della «filologia poetica di fine secolo», appunto quella «  filologia poetica , che è riuscita a ridurre i liri-ci greci ad una farsa domenicale» a suo tempo già attaccata dallo stesso Anceschi (direttamente coinvolgendo Romagnoli, da poco scomparso) nell’introduzione ai   Lirici greci  del 1940 107 , priva invece di riferimenti al certo in Italia ancora ignoto intervento di Eliot contro Murray traduttore: lo si troverà poi citato, in chiusura, nella rielaborata, quasi palinodica pre-fazione anceschiana del 1951 108 . Il terzo ampio e importante contributo che Gentili in quegli anni ripropose sulla rivista di Anceschi (  Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici : Gentili 1972) è per intero dedicato a discutere i radicali mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda metà del Novecento nel definire «l’orizzonte della critica sui lirici greci». Il saggio prima di tutto registra con soddisfazione il venir meno «dei miti e dei luoghi comuni della vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange estetizzanti», particolarmente forti in Italia «per oltre un trentennio» proprio nell’àmbito degli studi sui lirici, e nelle tradu-zioni. Come traccia dell’estremo persistere della «critica del gusto» e in  di   fragment   («these fragments have I shored against my ruins») vd. il profilo di Martindale 1999. 105  Anceschi 1946. 106  Anceschi 1946, 32. 107  L. Anceschi,   Introduzione  in Quasimodo 1940, 24-25. Questo il passo: «Quasimodo sembra perciò essere veramente il più adatto – oggi – per una impresa così ardua – necessariamente – difficile […] in reazione a certa   filologia poetica , che è riuscita a ridurre i lirici greci ad una farsa domenicale (e si veda Romagnoli da un frammento bellissimo:  Tramontata è già Selene / e le Pleiadi: il ciel tiene /  Mezzanotte: l’ora vola; / io son qui sopita e sola )», dove il riferimento è natural-mente al famoso frammento saffico 94 D. =   168b V. 108  In Quasimodo 2004, 333, dove Eliot «nel saggio su Euripide» è menzionato accanto a pensieri sul tradurre di Leopardi e di Pound. Pochi mesi prima della comparsa in italiano de   Il bosco sacro , il richiamo al Murray di Eliot a proposito delle traduzioni dai lirici greci prodotte in Italia tra Ottocento e Novecento da «certi filologhi non so come invasati dal dio» era già in L. Anceschi,   Presentazione  in Anceschi – Porzio 1945, 15-16 (dove come traduttore di poeti antichi oltre a C. Sbarbaro, da Sofocle, compare in realtà il solo S. Quasimodo, con testi da Omero, Saffo, Alceo, Erinna, Eschilo, Virgilio, Ovidio, Catullo).generale di «quel gusto del lirismo novecentesco che ha dominato la cul-tura italiana tra il 1920 e il 1940» è indicata l’ancora presente «tendenza a ricondurre il testo originale al gusto del lettore e non viceversa a guidare il lettore verso il testo originale», così procedendo a un’operazione «che an-nulla le categorie del tempo e dello spazio in vista di una contemporaneità falsa ed artificiale». A rinforzo dell’osservazione e come monito «contro il pericolo di arbitrari travestimenti» in cui possano cadere le traduzioni, Gentili torna a menzionare il passo di Eliot  contra Murray  già citato al termine dell’articolo di due anni prima (  L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo ). È interessante notarlo, inte-ressante e paradossale. Originario intento del brano, e in genere di   Euri- pides and Professor Murray , era l’accusa dello scrittore Eliot al grecista Murray di essere privo dell’‘occhio creativo’ 109  capace di render vivo Euri-pide con una traduzione inglese adeguata ai tempi e alla perduta centralità dell’educazione classica 110 . Anceschi nel presentare la traduzione italiana ravvisò in Murray l’equivalente inglese di Romagnoli, cioè dell’esponente più illustre di quella ‘filologia poetica fine di secolo’   a lungo di voga in Italia, colpevole di aver travestito gli antichi poeti nelle  forme di un linguaggio che non sappiamo collocare né storicizzare: un inafferrabile linguaggio di Utopia che ci ha sempre meravigliato con certi moti di umore, e oggi ancor più ci meraviglia e diverte; solo in qualche caso si potrà parlare di uno sfatto e maldestro residuo di discepolato carducciano 111 . 109  È opportuno citare per intero nel contesto originario il brano, con cui il sag-gio di Eliot si conclude: «Abbiamo bisogno di una digestione che assimili insieme Omero e Flaubert; abbiamo bisogno (come ha incominciato Pound) di uno studio accurato degli umanisti e dei traduttori del Rinascimento. Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente, e, tuttavia in modo così vivo, che esso sia tanto presente a noi come il presente. Questo è l’occhio creativo; ed è per il fatto che il professor Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto». 110  Eliot 1920 (1946), 142-143: «Negli ultimi anni del diciannovesimo secolo e fino ad oggi, i classici han perduto il loro posto di pilastri del sistema politico-socia-le […]. Se i classici devono sopravvivere e giustificare se stessi, come letteratura, come elementi del pensiero europeo, come fondamento per la letteratura che spe-riamo di creare, sono proprio sfortunati per il bisogno che hanno di persone capaci di chiarirli. Se di Aristotele si può dire che è stato un pilota morale dell’Europa, noi abbiamo bisogno di qualcuno […] che ci spieghi come sia materia vitale per noi il rinunciare o no a tale pilota. E abbiamo bisogno di un gruppo di poeti colti che abbiano, almeno, opinioni sul dramma greco, e se esso sia o no di qualche utilità per noi. Si deve dire che il professor Gilbert Murray non è l’uomo adatto per ciò. I poeti greci non avranno il più insignificante effetto di sollecitazione per la poesia inglese, se appariranno solamente travestiti in un volgare avvilimento dell’idioma troppo risentitamente personale di Swinburne». 111  Anceschi 1946, 32 n. 1: discorso che, Anceschi tiene a precisare, «non si rife-risce ad un letterato di bella educazione e di civilissimo spirito, come il Valgimigli»Per l’Anceschi del 1945, come per quello del 1940 e parimenti del 1951 (e poi sempre), la risposta alle illeggibili e a tratti grottesche traduzioni di Fraccaroli e di Romagnoli 112  venne dai   Lirici greci  di Quasimodo, frutto di «acuto, inatteso, e ormai da molti anni pressoché desueto contatto tra l’antico e il contemporaneo» 113 , fonte di poesia nuova e antica a un tempo: proprio l’opera cioè implicito (e di lì a poco esplicito) obiettivo polemi-co di Gentili, in quanto espressione più nota e fortunata di quel ‘lirismo novecentesco’ che indebitamente assimilò alle proprie categorie critiche ed estetiche la realtà incommensurabilmente altra della lirica greca, pie-gandola alle attese e ai gusti del moderno lettore. Riscoperto da Anceschi a sostegno di una resa dei classici antichi affine a quella operata da Quasi-modo con i lirici greci,   Euripides and Professor Murray  è invece evocato da Gentili come alleato contro gli «arbitrari travestimenti» realizzati da traduzioni quale quella di Quasimodo. Lo si nota non per ossessione ‘fon-tistica’ 114  o gusto della minuzia paradossale, ma come indizio – insieme a tanti altri più rilevanti – del ruolo che nei decenni centrali del Novecento la versione quasimodea dei   Lirici  ebbe, come presenza immanente e come termine di confronto positivo o negativo, non solo nel mondo letterario italiano, ma anche in quello filologico e accademico 115 . Nel caso di Gentili una tale presenza e un tale confronto dovettero sin da giovane caricarsi di più intense risonanze, quando si pensi che la prima (e pressoché unica) re-censione dei   Lirici greci  di Quasimodo ad opera di un grecista accademico fu di Gennaro Perrotta, nell’ottobre 1940. Dimenticata dopo la guerra in  112  Ottime in proposito le osservazioni di U. Albini,   Prefazione , in Perrotta – Al-bini 1972,  V : «Le due traduzioni dei lirici greci che hanno contrassegnato la prima parte del Novecento sono opera di G. Fraccaroli ed E. Romagnoli, due studiosi di seria dottrina, impegnati nello sforzo di rievocare la bellezza e la grandezza dei classici antichi […]. Si voleva spalancare una grande finestra sul mondo antico, offrire le chiavi di un mondo paradigmatico, richiamare al passato come premessa e garanzia per l’avvenire. Se le riprendiamo in mano oggi, tali versioni si rivelano sconfortantemente indecifrabili. Lessico, movenze, stilemi ci sono estranei, ignoti, quasi…». 113  Dall’introduzione di Anceschi del 1951 ora in Quasimodo 2004, 324. 114  Pare certo che Gentili sia giunto al saggio di Eliot attraverso Anceschi, che lo propose al pubblico italiano, e di cui nel saggio poche righe più avanti è del resto citata l’introduzione all’edizione 1951 dei   Lirici greci . Ancora nella postuma   Premessa  di L. Anceschi,   Brevi parole, su un modo del tradurre  a Mariotti 2001, le versioni di Mariotti sono lodate come «ben lontane dalle effusioni floreali del prof. Murray, non meno che da quelle di certi nostri professori-poeti», e si ha un interessante ricordo personale delle «traduzioni dai   Frammenti dei tragici greci  [1925] che lessi ai tempi del liceo, lontane ormai, ma non dimenticate, di Mario Untersteiner, un traduttore che rimase esente dalle rumorose, eccitate, e un poco illusionistiche euforie degli esuberanti traduttori  liberty  del suo tempo». 115  Anche in questo senso non è fuori luogo osservare, come più volte fece Marcello Gigante, che «la traduzione dei   Lirici greci  ha conquistato un posto ben definito nella storia degli studi classici ragione della sede in cui fu pubblicata 116 , la recensione di Perrotta non si limitò a rilevare errori e spropositi della traduzione («Bella cosa, se Quasi-modo sapesse un po’ meglio il greco!»), ma soprattutto seppe cogliere nell’impresa di Quasimodo quella di «un poeta, un modernissimo poeta che vuol tradurre i lirici greci modernamente, e riesce così a conservare ad essi la semplicità antica»: da contemporaneo Perrotta comprese cioè il ‘novecentismo’ dei   Lirici greci , la loro pertinenza (come Anceschi dirà del «classicismo post-simbolista» di Eliot) a «una zona di dignità anticamente moderna, di classiche aspirazioni, che è movimento proprio a gran parte dell’Europa civile tra gli anni 1919-1939» 117 .Sono osservazioni utili, credo, a contestualizzare e meglio valutare l’attenzione, pur critica, che Gentili spesso manifestò verso i   Lirici greci  quasimodei nonché verso significato e influsso nella cultura italiana del Novecento di quella modalità di accesso alla poesia greca. Nel saggio di Gentili compreso nell’annata 1972 de «Il Verri» alle versioni di Quasimo-do dai lirici è accostato il   Pindaro  di Leone Traverso, cioè la traduzione delle odi e di una scelta di frammenti che il grecista e germanista L. Tra-verso (1910-1968) aveva pubblicato nel 1961 per Sansoni 118 . Va ricordato che sede originaria di   Prospettive critiche nell’interpretazione della cul-tura greca dell’età dei lirici  fu l’imponente numero in due tomi di «Studi Urbinati» (1971) per intero dedicato a ospitare  Studi in onore di Leone Traverso 119 , con   Dedica  di Carlo Bo, di cui è altresì presente il saggio   La cultura europea in Firenze negli anni ’30 . Vi si rievoca il clima degli anni di formazione fiorentina di Traverso, poi professore di Lingua e letteratura tedesca nell’Ateneo urbinate, tra i giovani poeti e scrittori (Bo, Bigongia-ri, Luzi, Macrí) che raccolti intorno a «Il Frontespizio» e a «Letteratura» diedero vita all’esperienza dell’ermetismo, prima di tutto come esigenza di apertura a una cultura di carattere europeo e organicamente volta perciò alla traduzione 120 : «anni lontanissimi dove la poesia era una sorta di religio-  116  Si tratta de «Il Bargello. Foglio d’ordini della Federazione fiorentina dei Fasci di combattimento», periodico cui collaborarono molti giovani intellettuali anche vicini all’ermetismo. La recensione ai   Lirici greci  è comunque segnalata nelle bibliografie di Perrotta in  Studi Perrotta  1964, 663 e in Perrotta 1978, 397; sul tema vd. Benedetto 2012,   40 sgg. e   passim . 117  Anceschi 1946, 21; ricordo in proposito il recente, ricco catalogo Mazzocca 2013.  118  Traverso – Grassi 1961. 119  Gentili 1971. 120  Cfr. Bo 1971 (in origine conferenza pronunciata a Firenze nel 1967); nel I tomo è l’ampio saggio di Macrí 1971, dove particolare attenzione è riservata alla rigorosa formazione filologica classica di Traverso («addetto, nella distribuzione dei nostri compiti generazionali, alla specula ellenico-germanica»), alla sua ammi-razione per Perrotta e alla intrinsichezza con Pasquali, alla lunga consuetudine con Pindaro, letto e tradotto «non con un rifacimento o rimpasto contemporaneizzante di tipo idealistico pseudostoricistico (poesia e non poesia, ciò che è vivo e ciò chene e la critica sposava le stesse passioni e le stesse ricerche dei poeti» 121 . Già coinvolto in una polemichetta con Quasimodo ( duce  Lavagnini) ancor prima dell’uscita dei   Lirici greci , intorno all’interpretazione di ὤρα come  giovinezza  nel famoso fr. 94 Diehl di Saffo ( Tramontata è la luna ) 122 , Tra-verso fu uno dei primi recensori dell’opera, su «Primato» dell’1 luglio 1940. Pur notando qualche «arbitrio» e «difetto» nella resa del greco, sin dall’ incipit  egli aderisce alla scelta effettuata sui lirici («perfettamente adeguata al gusto del nostro tempo»), alla sua modalità e ispirazione: Tralasciati i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al giro d’una polemica occasionale (Callino, Tirteo, Focilide,Teognide, Solone, Senofane, ecc.) e insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’ estranee al nostro spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione, come ufficiali quali Pindaro e Bacchilide  – egli isola di quella poesia una zona che più evidente offre il carattere di una «pu-rezza» rarissima in tutte le civiltà letterarie. (E l’ha aiutato efficacemente in questa selezione anzitutto lo stato in cui più di frequente furono tramandate quelle reliquie  – naturalmente per ragioni diversissime dalle sue: frammentario) 123 . Forse memore di quei lontani trascorsi, e certamente del retroterra erme-tico di Traverso, Gentili assimila   Lirici greci  di Salvatore Quasimodo e   Pin-daro  di Leone Traverso come «prove più rappresentative di un’esperienza letteraria intesa come problema d’immagini, d’invenzione linguistica, di ricerca di stile». Mentre in Quasimodo la «vera “fedeltà” di traduttore è nella libertà del movimento linguistico e ritmico» con il conseguente scarso valore attribuito al reale rapporto originale-traduzione 124 , l’assai più ricca  è morto, ecc.) ma di colpo, al centro e al cuore dell’assoluto e del sublime pindari-co, che fu operazione tipica della critica ermetica nel contatto con l’opera d’arte»: notandosi inoltre che «non diverso (pur computata la diversità della preparazione filologica) fu il possesso della lirica greca da parte di Quasimodo». In una vivace intervista del novembre 1981 O. Macrí ebbe a ricordare Traverso all’inizio degli anni Trenta come parte «del primissimo gruppo pre-ermetico al caffè San Marco […] infusi del demone delle letterature straniere», insieme naturalmente a Carlo Bo, che «venne alla Facoltà di Lettere fiorentina per seguire gli studi classici, poi ci ripensò e divertì sulla letteratura francese, maestro Luigi Foscolo Benedetto, anche di Luzi» (Tabanelli 1986, 65). 121  Sono parole a proposito di Quasimodo e degli anni Trenta da un articolo di Carlo Bo,   Ma dove va la poesia? , apparso sul «Corriere della Sera» dell’11 marzo 1987, ora in Bo 1994, 1610. 122  I testi della disputa, avvenuta su «Corrente di vita giovanile» del 29 febbraio 1940, sono ora disponibili in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 138-140. 123  Traverso 1940; la recensione è ora ripubblicata in Benedetto – Greggi – Nuti 2012, 143-144. Di fronte alle versioni di Quasimodo anche a Traverso, come a tutti i primi recensori, «preme anzitutto riconoscere la validità di poesia italiana, indipendente, che ne risulta». 124  E quindi, come da molti è stato osservato, «il tradurre diviene un momento essenziale del poetare   Sent from the all new AOL app for iOStrama letteraria e filologica sottesa, nonché l’influsso di Hölderlin traduttore di Pindaro e di Sofocle, ha come effetto in Traverso un maggiore rispetto «per gli usi della lingua greca che per lo spirito della propria lingua», con il paradossale scivolare «in una sorta di ermetismo di scrittura che rende inintelligibile il senso e in un preziosismo linguistico che tradisce l’impegno della trasparenza anche se il calco raggiunga in qualche caso la fedeltà auspicata» 125 . Pur tra loro sotto molti aspetti differenti, le versioni di Quasimodo e di Traverso sono agli occhi di Gentili accomunate dall’inadeguatezza a riproporre «la totalità umana e artistica dei lirici greci», vittime della loro stessa ricerca di una «fedeltà emotiva» incapace di rendere l’attuale lettore consapevole della distanza che lo separa da quegli antichi e frammenta-ri testi. Allora e per i successivi decenni della sua intensissima attività scientifica, di filologo e di traduttore, la risposta scelta da Gentili fu ri-nunciare a soffermarsi sul «problema teorico, e in un certo senso ozioso, della traducibilità o intraducibilità in assoluto», e invece, per così dire ‘fenomenologicamente’, «investire sul piano prammatico il problema del-la traducibilità» 126 . Si tratta di pagine di grande rilievo, dove sono indi-viduate priorità e finalità concernenti «il discorso della traducibilità dei lirici, dei modi e delle tecniche del tradurre», nel rifiuto dell’assunzione a modelli di specifiche poetiche del tradurre, affermando l’impossibilità di «prescindere dalle reali situazioni di cultura del mondo contemporaneo e dalle richieste che al traduttore pone il lettore moderno», e definendo esigenze di vasto e pur rigoroso valore comunicativo, destinate (come già si è visto) a essere ribadite e di continuo inverate nel lavoro di Gentili dei decenni a venire: Una poetica non astratta e irreale, non prefigurata su schemi di modelli già espe-riti, ma una poetica aperta del tradurre che si costruisca gli strumenti adeguati a una maggiore portata di comunicazione e riproponga il problema del tradurre dai  125  Gentili 1972, 23-24. Le considerazioni a proposito di Traverso, e delle tra-duzioni di Hölderlin come «esempi mostruosi» di fedeltà all’originale, torneranno in B. Gentili,   Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2 ,  LXVIII . 126  Gentili richiama in nota «il pregevolissimo saggio» di Mattioli 1965, com-preso nel numero speciale  Classicità e contemporaneità , dove anche si aveva la fondamentale prolusione urbinate   Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Il saggio di Mattioli si conclude con alcune considera-zioni di tipo teorico, a partire dalla convinzione che «la soluzione univoca (tra-ducibilità assoluta o intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto», e che perciò risposta sul piano teorico non si può dare ma «il problema si risolve soltanto in un contesto prammatico», cioè sul piano delle molteplici risposte della storia. Alla tradizionale domanda ‘si può tradurre?’ Mattioli propone di sostituire domande quali ‘come si traduce?’ e ‘che senso ha il tradurre?’, cioè «sostituire alla domanda di tipo metafisico la domanda di tipo fenomenologico» greci non nei limiti dei vecchi modelli privilegiati della traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella prospettiva più ampia di quella idea cui aspira l’et-nografia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche, sistemi grammaticali diversi e distanti nel tempo […]. Poiché fedeltà alla poesia o fedeltà alla qualità letteraria è un problema che investe la comprensione totale del testo, non soltanto di tutte le sue connotazioni, dei suoi registri linguistici e metrici […] ma anche di tutta la realtà extralinguistica e situazionale dell’enunciato poetico 127 . Senza passare dettagliatamente in rassegna l’intero saggio, bastino al-cuni richiami a temi che in futuro variamente continueranno ad occupa-re Gentili. Così l’interrogarsi su una versificazione italiana adeguata alla complessa struttura metrica delle strofe di Pindaro e di Bacchilide conduce Gentili a sostenere la preferibilità del verso libero delle grandi odi dannun-ziane 128 , finanche segnalando le possibilità aperte dal «verso “dinamico” e “atonale” della poesia dei Novissimi», e in effetti nell’antologia   Lirica corale greca  del 1965 lo stesso Gentili aveva tentato «di risolvere il movi-mento dei metri simonidei con le tecniche metriche della poesia contem-poranea dei Novissimi» 129 : va detto che un profondo interesse per le strut-ture metriche della poesia italiana soprattutto ottocentesca e novecentesca sin dall’inizio caratterizzò i «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» 130 . La  127  Gentili 1972, 25. Sono affermazioni che ritorneranno, insieme a parte dell’intero saggio, nell’  Appendice II. La traduzione dai lirici. Alcune osservazioni sul problema del tradurre  in Gentili1984 (2006 4 ), 313-320 (e cfr. anche  supra  n. 2). 128  Si ricordi la scelta del verso libero per la traduzione delle   Pitiche , con l’os-servazione che «le grandi odi delle   Laudi  del D’Annunzio, particolarmente il verso libero della   Laus vitae , scandito da strofe di 21 versi, offrono sotto il profilo tecnico un modello esemplare di versificazione per l’esuberante dovizia delle forme ritmi-che, tali da riecheggiare […] i molteplici schemi della metrica pindarica» (Gentili,   Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2 ,  LXIX - LXX ); e si ricordi altresì la lunga citazione da   Maia , con l’apparizione del «monarca de-gli Inni», al principio dell’  Introduzione  alla postrema fatica Gentili – Catenacci  – Giannini – Lomiento 2013. 129  Lo rileva Bernardini 1966, 144. In àmbito diverso ma non estraneo si tenga presente, dello stesso Gentili, l’importante e innovativo lavoro  Cultura dell’im- provviso. Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e classica  (Gentili 1980), poi riproposto in altre sedi: nella conclusione si esprime vivo interesse per esperienze contemporanee quali «l’affermarsi, in America, di un’avanguardia poetica, che si definisce “postmoderna” e trae il suo alimento dai contributi sulla poesia orale forniti, in questi ultimi decenni, non solo dall’antropo-logia culturale, ma anche e soprattutto dalla più autorevole filologia classica ameri-cana, rappresentata dagli studi del Parry, del Lord e dell’Havelock» (poi in Gentili 1984 [2006 4 ], 29-30). 130  Già nel primo numero si ha l’articolo di Pinchera 1966, 92-127, che si apre lamentando l’effetto negativo sulle «indagini critiche relative alla storia delle forme metriche» prodotto dalla «dittatura culturale esercitata per vari decenni in Italia da Benedetto Croce».riflessione sull’eclissarsi nel secondo dopoguerra del neoumanesimo di W. Jaeger è occasione per evocare il contemporaneo «crollo dell’esperienza critica crociana», la cui presenza più autorevole nel settore della classicità e più coerente con l’orientamento crociano è riconosciuta in G. Perrotta, particolarmente per  Saffo e Pindaro  (1935) 131 . Circa la più generale posi-zione critica del maestro, Gentili tiene a mettere in rilievo che «pur ade-rendo senza riserve al canone dell’interpretazione estetica dei lirici, aveva tuttavia saldissime basi filologiche e storiche, non era in altri termini una critica del gusto», giacché il crocianesimo operava in lui come una sorta di sovrastruttura, sul tronco più vi-tale di quella viva metodologia critica introdotta in Italia da Giorgio Pasquali, che portava in sé già latenti i fermenti di un approccio linguistico, psicologico e antro-pologico alla cultura classica: la ricerca filologica costituiva soltanto il momento preliminare e necessario di un’indagine il cui fine era l’intelligenza del mondo an-tico nella viva concretezza della sua cultura 132 . Nel prosieguo del contributo, Gentili brevemente si sofferma sull’innova- tivo apporto soprattutto degli indirizzi di Dodds e di Vernant allo studio della cultura greca arcaica, infine indicando il problema cardine della ricerca sulla cultura e la poesia di quell’età «nel corretto rapporto tra livello sincronico e livello diacronico della ricerca», il che è stimolo per accennare alle note riserve verso gli studi pindarici di E. L. Bundy, e poi di D. C. Young. Ad essi Gentili rimprovera un’analisi limitata ai soli aspetti sincronici delle strutture linguistiche e formali, tale da precludere «la possibilità di comprendere gli aspetti situazionali ed extralinguistici della   performance  della lirica pindarica». Alcuni anni dopo, più ampia- mente e duramente Gentili assocerà a questa nuova critica «il fastidio che suscita inevitabilmente un’analisi soltanto formale, intesa a repe-rire le costanti intertestuali, senza riguardo all’articolazione dei singoli contesti ed alla impostazione ideologica dei diversi autori» 133 : è per noi interessante il confronto lì istituito con «quella critica estetica che ebbe in Italia come suo massimo esponente G. Perrotta», a tutto vantaggio  131  In nota è menzionato il contemporaneo saggio su Saffo di M. Valgimigli (1933), «da noi la prova più rilevante di una critica del gusto permeata di evoca-zioni e suggestioni letterarie della cultura italiana fra i due secoli». Significativo è, nella stessa nota, il richiamo invece favorevole all’intonazione anticlassicistica dei frammenti dal saggio di Serra   Intorno al modo di leggere i Greci  pubblicati da E. Raimondi nel numero de «Il Verri» 1965 su  Classicità e contemporaneità ; si consi-deri anche che del 1965, in occasione del cinquantenario della morte, è il saggio di Carlo Bo   La religione di Serra , poi accolto nel volume   La religione di Serra e altre note di lettura , Firenze 1967. 132  Gentili 1972, 30. Su crocianesimo e Pasquali in Perrotta, analoghe espressio-ni vent’anni dopo in Gentili 1996, 12. 133  Su questi temi vd. poi almeno Gentili 1984 (2006 4 ), 156-157dell’approccio del maestro, «una critica estetica che non è puro estetismo impressionistico ed intuizionistico, ma una critica del gusto corroborata da un’acuta sensibilità storica» 134 . L’articolo del 1972 si chiude confer-mandosi come «proposta di una diversa lettura dei lirici, che recuperi nella storicità delle relazioni fra poeta e uditorio il significato originario del loro messaggio». Una proposta di cui si tiene a sottolineare il caratte-re antidogmatico, inteso a rispondere alle esigenze critiche del presente: «Ma, di là da una falsa pretesa di un equivoco oggettivismo metasto-rico, essa non presume di essere definitiva. Al contrario, consapevole del divenire storico della critica, si affianca alle precedenti proposte, già esperite, in una modalità di lettura più coerente con l’orizzonte culturale del nostro tempo» 135 .Assai più dei due precedenti interventi accolti su «Il Verri», nel 1965 e nel 1970,   Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici  è attento al tema della traduzione, e alle ricadute delle varie correnti critiche del Novecento su teoria e prassi delle traduzioni dai lirici greci. Al ‘piano prammatico’ e all’impostazione ‘aperta’ della traduzione, di taglio antropologico, Gentili rimarrà fedele, ulteriormente approfondendo la riflessione negli anni, sì da scorgere nel traduttore «uno “sciamano” che non conosce confini sino al punto da divenire un altro da sé e di cogliere il momento puntuale in cui significante e significato si compenetrano» 136 , nella fedeltà alla «norma dannunziana di avvicinare il lettore all’opera e non viceversa» 137 . La presenza di contributi di Gentili  134  Gentili 1979b; sul conflitto tra gli indirizzi di E. L. Bundy e della scuola ur-binate di B. Gentili, le considerazioni di Lehnus 1988. Ampia analisi delle posizioni di Bundy e di Young, con frequenti richiami a Perrotta e in nome (come noto) della riproposizione di una ‘lettura estetica’ degli epinici, è nel lavoro di Bonelli 1987, con ricca bibliografia. 135  Gentili 1972, 38. Analogamente, e fenomenologicamente, si concludeva il già citato Mattioli 1965, 128: «Altre risposte (traduzioni e idee del tradurre) segui-ranno in futuro per le quali sarebbe arbitrario stabilir regole o far previsioni come lo sarebbe per l’arte del futuro», e perciò «a questo punto si può fermare il discorso, non solo perché si presenta come abbozzo di una futura ricerca, ma anche perché i  discorsi conclusi  in questo àmbito di studi sono palesemente insensati». Si veda già Mattioli 1963 per la proposta di «una impostazione fenomenologica della ricer-ca», considerata particolarmente necessaria e opportuna nel campo dell’antichità classica proprio in ragione dello «scacco che ha ricevuto il tentativo, compiuto in Italia, di trasportare sic et simpliciter l’estetica crociana nella interpretazione delle letterature classiche». 136  Gentili,   Introduzione , a Gentili – Angeli Bernardini – Cingano – Giannini 1998 2  ,  LXIV . 137  Così in Gentili 2002, dove anche è ricordato il giudizio di Perrotta 1935, 97, per il quale D’Annunzio fu «non solo il traduttore ideale di Pindaro, ma il poeta italiano che meglio di tutti ha saputo riecheggiarne l’arte, intendendola pienamen-te». Più positivo si fa nel citato articolo il giudizio sulla traduzione pindarica di L. Traversosu «Il Verri» non andrà oltre i primi anni ’70 138 , ma sino alla vigilia del-la morte di Anceschi (maggio 1995) durarono i rapporti epistolari, come oggi sappiamo grazie alla pubblicazione dei diari riferiti agli ultimi anni del professore bolognese 139 , che molte volte sino agli estremi suoi giorni continuò a tornare con il pensiero alla traduzione di Quasimodo dei   Lirici greci  e al suo significato storico e culturale 140 .A quella stessa seconda metà degli anni ‘60 fecondissima di idee e di propositi appartiene il numero d’avvio dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» (1966), come espressione del  Centro di studi sulla lirica gre-ca e sulla metrica greca e latina  diretto da Bruno Gentili   e connesso al CNR. Un effettivo riesame dell’attività scientifica di Gentili comportereb-be una sistematica rilettura non solo dei contributi e degli interventi del direttore dei  Quaderni  ma più in generale delle principali linee di ricerca espresse dalla rivista, del loro permanere, mutare ed evolvere nel corso di cinquant’anni. Mi limiterò a richiamare due contributi di Gentili su Saffo ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a distanza di oltre quarant’anni l’uno dall’altro, per così dire ai due poli cronologici dei  Qua-derni  di Bruno Gentili. Il primo è   La veneranda Saffo , del 1966 141 , che  138  Sino a Gentili – Cerri 1973: sull’importanza dell’articolo per successivi lavo-ri di Gentili sulla storiografia antica vd. Angeli Bernardini 2013, 16. 139  Oltre a un cenno in un’annotazione del 3-5 settembre 1989 («Eccellente scritto di Bruno Gentili sulla “Repubblica”. Lo riporto integralmente. Ancora una volta acu-te considerazioni sulla oralità – e sulla situazione degli studi umanistici», cfr.   Diari  Anceschi  2006, 109), si veda soprattutto quella del 2 gennaio 1993 («Lettera molto lusinghiera di Bruno Gentili. Conosco l’ironia, ed è tale da non accettare ambiguità. Ecco un uomo che dice quello che pensa», cfr.   Diari Anceschi/2  2006, 9). Nell’Ar-chivio Anceschi presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna sono conservate 26 lettere di Bruno Gentili: cfr. Campagna 1998, 513; si tratta della presenza più am-pia per un filologo classico, insieme a M. Barchiesi (parimenti 26 lettere), del quale sulla rivista anceschiana vd.   Plauto e il “metateatro” antico  (Barchiesi 1969), con la premessa: «sulla tentazione erudita […] prevalse l’idea di tenere aperto, in perfetta modestia, il discorso su quello che è più che mai il nostro tema cruciale, e che può designarsi con la formula stessa del “Verri”, “classicità e contemporaneità”». 140  Così l’11 marzo 1995, a meno di due mesi dalla morte: «Con Quasimodo ho avuto una frequentazione amichevole molto prolungata e, mi pare, serena aperta ai problemi con vivi impulsi di collaborazione e di conoscenza. Certo sono passati tanti anni; per altro, l’affetto del ricordo non diminuisce. Quale che sia la forza della mia vita letteraria, per me si è trattato di un risvolto capitale […]. La traduzione dei   Lirici Greci  fu una esperienza radicale alle origini, che ci portò a rivivere il proble-ma del tradurre come un problema fondamentale della poesia. Da quel momento la discussione è aperta, e mi pare con qualche frutto, mi pare anche che in questo senso l’impulso continui. Penso che questa esperienza nel mettere in rilievo tanti motivi della relazione complessa tra traduzione e poesia – sia, o almeno sia per quel che mi riguarda, costitutiva di un modo di vedere che continua ad operare» (  Diari  Anceschi/2  2006, 92). 141  Gentili 1966 (confluito in forma abbreviata nel cap. XII di Gentili 1984 [2006 4prende spunto dal famoso fr. 384 V. (verosimilmente) di Alceo ἰόπλοκ’ ἄγνα μελλιχόμειδε Σάπφοι, forse (si è supposto) «l’ incipit   di un car-me dedicato all’illustre concittadina» 142 . Era il frammento cui s’era volto Perrotta dopo aver espresso il proprio rifiuto verso «la soluzione dei Wel- cker e dei Wilamowitz» a difesa della ‘purezza’ di Saffo: Molto meglio, per chi voglia davvero intendere e onorare Saffo, ricordare il fram-mento di Alceo che dice (63 D.): «Saffo pura, dal dolce sorriso, dal crine di viola». L’omaggio devoto dell’insolente cavaliere di Lesbo basta a farci sicuri che né bia-simi né malignità aduggiarono mai la vita mortale di Saffo. Altro non è da ricercare: non si può pretendere di giudicare con le nostre idee moderne, né giudicare una donna di Lesbo con i pregiudizi di un Ateniese […]. Ognuno vede quanto sarebbe ingiusto rimproverare alla poetessa i suoi amori per le amiche, mentre nessuno rimprovererà al suo compatriota e contemporaneo Alceo gli amori per Lico. Ma più importa questo: Saffo è soprattutto una poetessa, anzi è soltanto una poetessa per noi; soltanto la sua poesia noi dobbiamo giudicare, e soltanto in essa noi possiamo trovare la sua immagine. Ora, alla sua poesia possiamo accostarci con animo puro: essa è pura, perché poesia, e altissima poesia 143 . Al passo, per molti aspetti paradigmatico dell’interpretazione perrottia-na di Saffo, Gentili non fa diretto riferimento, rifacendosi invece all’ultimo articolo di Walter Ferrari, l’allievo prediletto di Pasquali «inviato come as-sistente di Perrotta a Roma ma morto assai giovane nel 1940» 144 . Se merito dell’intervento di Ferrari era stato sottrarre l’interpretazione dell’epiteto  ἄγνα all’àmbito della «castità profana» 145 , caro a «tutte le mitiche specula-zioni sulla purezza degli amori di Saffo» e a tutte le «moderne idealizzazioni della sua poesia» 146 , dimostrandone invece il senso arcaico «limitato esclu-sivamente alla sfera del sacro», d’altra parte – rileva Gentili – l’indagine di Ferrari sfociava in una idealizzazione di Saffo sostanzialmente coerente «con l’orientamento critico di stretta osservanza crociana prevalente in quei tempi», rappresentato al meglio dal  Saffo e Pindaro  di Perrotta, «scritto appena cinque anni prima» 147 . Nel varare la fortunata avventura dei «Qua-derni Urbinati di Cultura Classica», dalla ‘purezza’ di Saffo Gentili decide  142  Degani – Burzacchini 2005, 241. 143  Perrotta 1935, 31. 144  Canfora 2005, 216. 145  L’articolo di Ferrari era ricordato a proposito del «significato di ἀγνός»  anche nella I edizione di   Polinnia , 202  ad loc . 146  «Questo verso famoso, che sarà da attribuire ad Alceo, è innocentemente responsabile di tutte le mitiche speculazioni (soprattutto da noi) sulla personalità di Saffo che poeti, critici e filologi ci hanno somministrato a partire dalla Saffo “dal riso morbido, dall’ondeggiante | crin di viola” del Carducci sino alla casta Saffo del Valgimigli»: così Gentili l’anno prima, in occasione del rifacimento della sezione su Alceo per l’edizione di   Polinnia  del 1965, 224 (anche in Gentili – Catenacci 2007a, 196). 147  Gentili 1966, 37-38di prendere le mosse: da quello stesso frammento, si può aggiungere, scelto ad introdurre la sezione su Saffo nei   Lirici greci  di Quasimodo («o coro-nata di viole, divina / dolce ridente Saffo»). In conformità ai principî deli-neati nel saggio dell’anno precedente   Aspetti del rapporto poeta, commit-tente, uditorio nella lirica corale greca , dove si poneva in primo piano la necessità per il moderno lettore di comprendere la funzione e il fine proprio del carme lirico, il senso dell’apostrofe è rintracciato attenendosi «al senso reale del contesto alcaico», così leggendo nel saluto di Alceo «un reverente omaggio alla dignità sacrale della poetessa quale ministra d’Afrodite», con precisa allusione «alla funzione religioso-sociale nell’ambito del tiaso» 148 . L’inveterato tema degli amori di Saffo è radicalmente riesaminato alla luce di carattere, aspetti, scopi del tiaso saffico «nelle sue giuste proporzioni storiche e sociali anche mediante l’apporto di analoghe esperienze di altre culture». Il riconoscimento dell’esistenza nella dinamica del tiaso di «pre-cise “unioni” per così dire ufficiali fra le ragazze» tali da non escludere «probabilmente un rapporto di tipo matrimoniale» è posto da Gentili in relazione a una testimonianza di Simone de Beauvoir circa la presenza a Singapore e a Canton ancora in anni recenti «di molte comunità femminili che nelle convenzioni e nelle pratiche di culto sembrano ripetere antichi modelli culturali molto simili a quelli delle comunità della Lesbo arcaica», e cioè «des lesbiennes reconnues […] se marient entre elles et adoptent des enfants». Gentili offre qui un geniale esempio di «interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo», come suonerà il ti-tolo dell’intervento al congresso di Bonn del settembre 1969: al di là di eventuali dubbi circa la sostenibilità del confronto, comunque verosimile, conta mettere in luce l’efficacissima reazione ermeneutica che lega antico e contemporaneo illuminando entrambi. Né manca l’apertura sul futuro, quando si pensi in che misura a distanza di pochi decenni in molti Paesi oc-cidentali quegli antichi modelli culturali si siano concretizzati nella rifles-sione giuridica, nella legislazione e nella prassi sociale. Esempio forse tra i più chiari di quanto i classici, e il rinnovamento della loro interpretazio- ne, abbiano contribuito a porre lontane, e meno lontane, basi della (post)moderna  sexual revolution 149 , con tutte le forzature e gli arbitrî propri di tali ardui e complessi intrecci di tempi e di culture. Dell’attenzione di Gen- 148  Gentili 1966, 46 sgg. Importanti in quest’àmbito anche i numerosi contributi ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a proposito di significato e contesto del partenio di Alcmane, a partire soprattutto da Gentili 1976 (poi rifuso nel cap. VI   Le vie di Eros nella poesia dei tiasi femminili e dei simposi  in Gentili 1984 [2006 4 ]); sul più ampio tema delle iniziazioni femminili l’assai più recente volume Gentili – Perusino 2002. 149  In luogo di rifarmi alla sovrabbondante bibliografia anglosassone in proposi-to, spesso ideologicamente determinata, ricordo il capitolo   Klassieken en seksuele vrijheid   nel bel libro di Veenman 2009, 273-291: con particolare riferimento a una cultura, quale quella dei Paesi Bassi, cui in differenti epoche, sino alle più recentitili a questi temi e alle loro ricadute e implicazioni, è infine testimonianza  Saffo ‘politicamente corretta’  , l’articolo del 2007 (in collaborazione con C. Catenacci) dove la ribadita posizione critica che ammette la presenza nei carmi saffici di elementi avvaloranti la pratica dell’omoerotismo in àmbito iniziatico e paideutico 150  è volta a contrastare «una nutrita serie di lavori ispirati ai  gender studies » di recente diffusisi soprattutto negli (e dagli) Stati Uniti, e intesi a sostenere che «Saffo non si rivolgeva a giovinette, ma a sue coetanee in una forma di libera attrazione omosessuale, e non svolgeva nessun ruolo né paideutico né religioso all’interno del gruppo». Un corag-gioso intervento, di grande valore metodologico e rilevanza storiografica, per il quale una tale Saffo   politically correct   va respinta, al pari della Saffo otto-novecentesca votata alla purezza, giacché «rappresentazione astorica e forgiata su istanze manifestamente attualizzanti» 151 .Nel quadro del crescente interesse nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» dell’ultimo ventennio per questioni di storia e metodologia degli studi classici, alcuni anni fa apparve un articolo di C. Miralles, dal titolo  The use of classics today , aperto dall’indubbia constatazione «the huma-nities are losing ground and classical studies are in retreat» 152 . Al di là dei suggerimenti proposti, e dell’enorme differenza di tempi e condizioni, torna in mente «il vigile e costante impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi» caro a Perrotta, da Gentili più volte ricordato nelle com-memorazioni del maestro. Nel salutare la recente rinnovata edizione di   Polinnia  è stato giustamente e autorevolmente rilevato che «in tanto rin-novamento, Gentili e la sua scuola non hanno dimenticato né che la poesia greca si può avvicinare solo attraverso la storia e la filologia, né che essa ha comunque uno straordinario valore estetico. Gentili non ha rinnegato le sue radici, semplicemente da esse è nato un albero capace di produrre fiori non prevedibili all’inizio – se Perrotta sarebbe contento di lui? Difficile dirlo» 153 . Forse, e per molti motivi, si può azzardare una risposta positiva. Giovanni Benedetto si devono determinanti apporti nell’elaborazione di teoria e prassi della moderna sessualità ‘liberata’, Veenman mostra quanto soprattutto negli ultimi due secoli «i classici hanno aiutato a capire e denominare l’omosessualità» («de klassieken hielpen homoseksualiteit te begrijpen en te benoemen»). 150  Gentili – Catenacci 2007b; circa la storia della fortuna e della ricezione di Saffo mi limito a rinviare alle incisive osservazioni di Most 1996. 151  Va detto che in generale la critica più recente sembra avvertire una quantità crescente di aporie circa il significato del contesto comunitario, il gruppo ristretto e omogeneo tradizionalmente attribuito a Saffo, il ‘tiaso’, e torna ad osservare che «mentre nel caso di Alceo la dimensione di gruppo ristretto è evidente e spiega ade-guatamente gran parte – se non la totalità – della sua poesia, nel caso di Saffo è più difficile da delineare senza rischiare attualizzazioni indebite» (Michelazzo 2007).  152  Miralles 2009, in partic. 23-24. 153  Bettini 2010, 336Albini 1963 = U. 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So he found that everything Roman had to be Hellenistic, -- see his notes on the Saturnio – this of course irrirtates and rightly so Latinists – there are Roman ways which are not Hellenistic ways. Geymonat has analysed this in social-class terms in his history: Athens remained the finishing school for the ‘figli’ of the ‘migliore famiglie romane’ – and the circle of Scipione Emiliano was pro-hellenic, but Cato won: Latin remained the lingo!” Grice: “It also shows the unfairness of academia for the poor – only the poor learn at Oxford, and I was fortunate enough to have Hardie – but imagine you are born near Urbino and decide to study classics at Urbino and you have Bruno Gentili as your teacher in “Latin literature” and all he teaches you is how Hellenistic it all is! I hope you are not poor and that you don’t have to LEARN at Urbino!” -- Bruno Gentili. Gentili. Keywords: implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentili” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gerratana – il contratto sociale – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Scicli). Filosofo italiano. Grice: “I like Gerratana; for one, he translated Rousseau, and I have been called a contractualist, if not like Grice [G. R. Grice].” Grice: “Gerratana carefully edited Pintor’s oeuvre.” – Grice: “I like Gerratana; they – Italian philosophers, generally -- philosophise on the working people – operaio --; at Oxford we usually do not!” Partecipa alla resistenza a Roma, nelle file dei GAP, legandosi a Salinari e Pintor, conosciuto al corso allievi ufficiali di Salerno, e ricordato in “Sangue d'Europa.” Prende parte alla ricostruzione del PCI romano e si laurea a Roma. Insegna a Salerno e Siena. Studioso sobrio e rigoroso del marxismo, cura Labriola e Gramsci. La sua edizione, con un'accurata ricostruzione cronologica, archiviò definitivamente l'edizione tematica. Gerratana mette in luce lo stile "frammentario" e "antidogmatico" di Gramsci. Altre opera: “L'eresia di Rousseau, Roma, Editori Riuniti), Il marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Labriola di fronte al socialismo giuridico, Milano, Giuffrè editore); “Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti); “Quaderni dal carcere. Treccani L'Enciclopedia italiana". Biografia di Gerratana nel sito dell'ANPI Associazione Nazionale Partigiani d'Italia.  Si è svolto a Roma il 18 e 19 novembre nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Roma Tre, un convegno di studi in memoria di un importante esponente del pensiero politico italiano, Valentino Gerratana, a dieci anni dalla sua morte. Essenzialmente noto per aver curato nel 1975 l'edizione critica dei Quaderni del carcere di Gramsci, Gerratana fu in realtà uno studioso politicamente appassionato e uomo politico di estrema cultura. Merito di questo convegno è stato l'aver messo in luce tanto l'impegno politico e morale di un uomo quanto l'eclettismo, la vivacità intellettuale e la serietà di un pensatore troppo poco conosciuto in fin dei conti, la molteplicità variopinta dei suoi contributi scientifici e la continuità e coerenza del suo impegno, politico ed intellettuale.  Il convegno è stato organizzato dalla International Gramsci Society-Italia – di cui Gerratana fu co-fondatore nel 1996, assieme ad Aldo Tortorella, Giorgio Baratta e Guido Liguori. Le giornate, divise per sessioni tematiche, hanno ricordato la figura di Gerratana nella sua complessità: partigiano antifascista a Roma negli anni della Resistenza, giornalista negli anni giovanili, curatore e studioso di molti classici della storia della letteratura, della filosofia e del marxismo (dalla cura dell'edizione critica degli Scritti politici di Labriola a quella degli scritti estetici di Marx ed Engels, ai contributi su Rousseau, Machiavelli, Lukács, Lenin), ma noto in tutto il mondo anzitutto come curatore e studioso del pensiero di Gramsci (dall'edizione critica dei Quaderni, all'approfondimento dell'indagine sulle categorie sociali e politiche della riflessione gramsciana e la cura – assieme al suo più stretto collaboratore, Santucci – del volume sugli scritti gramsciani dell'Ordine nuovo). Non è facile informare esaurientemente sul convegno, credo proprio per la personalità e la grande vivacità intellettuale di Gerratana, emersa nella sua complessità lungo la due giorni di lavori.  L’evento ha messo alla prova intellettuali e ricercatori, ha dialettizzato l'ascolto reciproco di relatori e pubblico, fra i quali si è avuto un confronto sereno ma anche serrato, indubbiamente appassionato. Ne è risultato – e ne va il merito agli organizzatori – un evento generoso per ricchezza e poliedricità delle tematiche affrontate, per l'eterogeneità degli accenti che si sono avvicendati (secondo l'esperienza politico-culturale di relatori e pubblico), quanto infine per la vastità dei territori culturali esplorati (dalla storia – italiana e internazionale, alla filosofia, alla politica). Su tutta l'iniziativa s'è aggirato lo spettro benevolo di Antonio Gramsci, della sua vicenda umana come anche di quel lascito inesauribile che è la sua produzione culturale. E di Gramsci Gerratana non è stato solo il curatore e il promulgatore, ma anche un indimenticabile interprete. Gli anni e la formazione giovanile: partigiano antifascista ed intellettuale engagé Questa introduzione credo consenta di comprendere forse più chiaramente il contesto e lo spirito in cui il convegno di questi giorni ha trovato spazio.   Anche la presenza e il saluto delle istituzioni che con la IgsItalia hanno permesso il convegno – contrariamente al solito – sono stati sentiti ed interni al tema in oggetto dell’incontro. La figura di Gerratana è stata difatti ricordata con stima sincera e rispetto da Cecilia D'Elia (Assessora alla cultura della Provincia di Roma) e Gaetano Domenici (Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Roma Tre). Cecilia D'Elia ha sottolineato la rilevanza di questo convegno su Gerratana – figura complessa, in cui ricerca politica e ricerca della libertà si intrecciano –, studioso che sempre volle tener connesso l'impegno pratico e l'impegno teorico, combattente antifascista negli anni della Resistenza, uomo che diede un contributo decisivo alla costruzione della democrazia in Italia. Sulla stessa linea d'onda Gaetano Domenici ha salutato con piacere l'evento in ricordo di Gerratana, anzitutto perché questa facoltà contribuisce a "formare i formatori": ed è stato forse fra i più grandi meriti di Gerratana l'aver decisamente contribuito a divulgare la genesi del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci, a partire dalla cura dell'edizione critica dei Quaderni di Gramsci. Non pochi interventi hanno messo in luce i meriti di Gerratana riguardo la divulgazione del pensiero pedagogico-educativo di Gramsci. In particolare ricordiamo qui l'intervento di Donatello Santarone, Coordinatore del CESME di Roma Tre, che ha messo in luce il valore generale degli studi di pedagogia della tradizione marxista che delineano quella fondamentale concezione della formazione umana come "sviluppo onnilaterale dell'uomo". Un tale impegno risulta ancora più fondamentale in epoca di globalizzazione capitalista, sottolinea Santarone, in cui il lavoro dell'uomo e la sua formazione paiono ormai finalizzati unicamente ai processi di valorizzazione di capitale, i centri di formazione ed istruzione di massa vengono de-finanziati mentre nel contempo si sostengono economicamente scuole e "poli di eccellenza" privati, volti a creare le future élite e classi dirigenti. L'impegno di Gerratana come intellettuale engagé è stato sottolineato in molti interventi nel corso del convegno, fra cui quello di Guido Liguori che – in apertura dei lavori – si è soffermato sulle ragioni della scelta dell'espressione gramsciana filosofo democratico come carattere fondamentale dell'animo e dell'impegno di Gerratana. Tale formulazione sta ad indicare un pensatore che non si chiude nella propria torre d'avorio, ma contribuisce attivamente alla creazione di un senso comune di massa, un uomo «convinto che la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale» (Q). É questa essenzialmente l'immagine che Liguori ci ha voluto restituire di Gerratana: un pensatore che non si accontentò del «pensiero proprio, "soggettivamente" libero, cioè astrattamente libero», ma che operò per l’unità di scienza e vita come «una unità attiva, in cui solo si realizza la libertà di pensiero», secondo un «rapporto maestro-scolaro, filosofo-ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari da impostare e risolvere», un uomo che concepì la propria attività intellettuale come rapporto di «filosofia-storia» (ibidem), un uomo il cui impegno politico e la cui elaborazione teorica sono stati la testimonianza della migliore tradizione del comunismo e del marxismo italiani.   Ha fatto seguito l'intervento di Paola Demurtas, che ha illustrato i criteri e i temi sulla base dei quali si è svolto l'intervento di riordino dell'archivio di Gerratana assieme alla collega Lorenza Salvatori (di cui è stato letto un contributo), e che ha sottolineato come grazie al riordino delle carte e dei documenti sia ora possibile svolgere ricerche e approfondimenti sull’attività di Gerratana. I documenti archiviati, difatti, coprono un arco di 61 anni, sono circa 300 fascicoli, che si è deciso di suddividere in 8 partizioni tematiche fra studi e attività, e fra queste risultano particolarmente rilevanti le quantità di fascicoli dedicati a Gramsci e a Labriola e da cui si evince una grande meticolosità nell'elaborazione. Ha concluso la prima parte di introduzione ai lavori del convegno la lettura della lettera di saluto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in cui è stato espresso «il più vivo apprezzamento per la scelta di ricordare un insigne studioso, cui va il merito di aver contribuito, con l'edizione critica dei Quaderni del Carcere di A. Gramsci. È stata poi la volta del primo relatore, Alfonso Musci (giovane studioso dell'Istituto Gramsci per gli studi storici) che ha ricostruito gli anni giovanili di Gerratana, in particolare quelli degli studi universitari e della polemica con Benedetto Croce, sottolineando una tendenza di Gerratana a considerare gli eventi storici attenendosi ai fatti, alle formule logiche e alla loro riproducibilità, ma senza prescindere del tutto dalla "situazione psicologica" in cui questi si svolgono e che spesso si maschera in concetti. Ma Gerratana non fu solo un intellettuale impegnato. Fu un partigiano. Questo hanno ricordato le successive relazioni della mattina proseguite con i due contributi "di memoria storica" di Alfredo Reichlin e Giuseppe Prestipino–, significativi per la nota autobiografica in essi contenuta, che ha permesso una comprensione più articolata del senso dell'impegno politico di Gerratana negli anni della lotta di liberazione nazionale dal regime fascista. Medaglia d'Argento per l'impegno negli anni della lotta di Liberazione dell'Italia dal regime fascista, la narrazione di quei mesi è stata emozionante nell'intervento di Alfredo Reichlin. Che ha ricordato gli anni giovanili della "passione politica" (tema che è stato ripreso anche da Tortorella in chiusura dei lavori del convegno) e le vicende dell'inverno '44 in cui, nella Roma occupata dai tedeschi, Reichlin incontrò Gerratana; con Pintor formarono una cellula, e Gerratana divenne loro dirigente, nome di battaglia "Santo". Furono quelli gli anni in cui nacque un sentimento nuovo, l'antifascismo, ed una nuova cultura, quella dell'impegno. Come allora – ha concluso Reichlin – il popolo italiano, nonostante appaia fiacco e corrotto, tuttavia continua ad esprimere degli intellettuali, e questi dovrebbero anch'essi prendere il proprio posto di combattimento. Gerratana fu dunque un partigiano antifascista con un deciso interesse per la storia e la filosofia politica. Ma anche un giornalista. La tendenza all'impegno culturale trovò uno sbocco concreto in questa attività – su cui si è soffermata la relazione di Giuseppe Prestipino –, quando cominciò a scrivere su "La voce della Sicilia" fra il '45-'48. Prestipino ha raccontato di un "comunista", un uomo di «innata modestia», che non firmava i suoi articoli, direttore di giornale cordiale ma austero, «un intellettuale pensoso». Gerratana: uomo di cultura, filosofo democratico, marxista Non solo di politica, ma anche di letteratura e di filosofia si occupò Valentino Gerratana.   La sua natura di intellettuale a trecentosessanta gradi è stata ben messa in luce da tre relazioni in particolare, quelle di Voza, Savorelli e Burgio. Pasquale Voza ha ricordato come a metà degli anni '50 si svolse in Italia un ricco dibattito sul tema della "lotta per il realismo", che nel dopoguerra espresse una "tendenza" la quale si affermò in molta parte dell'intellettualità. Nacquero le poetiche neorealistiche della "cronaca" e del "documento" come ricerca di un massimo di "oggettività" di contro all'influenza di suggestioni lirico-decadentistiche. Nel passaggio dalla crisi del neorealismo al realismo si colloca il contributo di Gerratana, che riteneva quest'ultimo un fondamentale strumento teorico-culturale. In risposta all'intervento polemico di Croce De Sanctis-Gramsci? (“Lo Spettatore Italiano”, 1952, n. 5), Gerratana stende per "Società" (1952, n. 3) De Sanctis-Croce o De Sanctis-Gramsci? Appunti per una polemica e sviluppa il ragionamento nell'Introduzione all'estetica desanctisiana desanctisiana (“Società”). Egli ha come riferimento la positiva valutazione di Gramsci del realismo desanctisiano, fondato sull’analisi del contenuto artistico in connessione alla lotta culturale. Difatti Gramsci coglie nel De Sanctis un modello di critica letteraria che lo rende emblema della concezione di un'estetica realista e anticipatore di una concezione marxista dell'estetica. Alla base della sua concezione vi sarebbe la ricerca di unitarietà fra La Scienza e la Vita (titolo di un famoso saggio desanctisiano del 1872, più volte citato da Gramsci nei Quaderni), cosicché De Sanctis si discosta dalla concezione speculativa dell'estetica di Hegel. In tal senso la tendenza estetica di De Sanctis, secondo Gramsci, era "istintivamente materialista", ciò perché la sua attività critica non era «frigidamente estetica» (Q). Per tali ragioni De Sanctis resta, per Gramsci, un modello di come nella stessa coscienza critica, pur rimanendo distinti, possano confluire convenientemente giudizio estetico e valutazione di una tendenza artistico-culturale, cosicché Gerratana condivide l'appello gramsciano del «ritorno al De Sanctis» (Q), intendendo con ciò la necessità di assumere verso il rapporto arte-vita un atteggiamento di stretta connessione, così come lo intendeva De Sanctis ai suoi tempi. Nella seconda parte del suo intervento Voza ha ricordato come sempre nel '53 Gerratana abbia steso il saggio Lukács e i problemi del realismo (“Società). Si ricordi che con la pubblicazione di Il marxismo e la critica letteraria di Lukács nel '50 giungeva anche in Italia quella poetica dell'estetica marxista che si poneva come obiettivo la costituzione di una nuova letteratura in una società socialista – dunque la necessità di definirne la natura e il ruolo che in essa avrebbero dovuto ricoprire gli intellettuali. Gerratana mise in luce due diverse idee di realismo: come metodo (di impronta lukácsiana) e come tendenza (di memoria gramsciana), specificamente come tendenza culturale che esprime un atteggiamento programmaticamente orientato verso la realtà piuttosto che verso la sua evasione. La lotta di Gerratana per il realismo, conclude Voza, alla luce del carattere complesso che intendeva conferirgli, alludeva in certo modo alla "lotta per l'egemonia" così come delineata da Gramsci e alle nozioni di "progresso intellettuale di massa" e "riforma intellettuale e morale".  Se l'intervento di Voza ha posto in luce la capacità di Gerratana di dar conto anche di questioni legate alla scienza estetica, l'intervento di Alberto Burgio ha affrontato la lettura critica da parte di Gerratana del pensiero di Rousseau, ripercorrendo le tappe di sviluppo ed il senso della sua produzione del ginevrino. Burgio ha illustrato come Gerratana e Rousseau siano stati legati da un "lungo rapporto di fedeltà", particolarmente significativo per il fatto che Gerratana scelse di leggere una parte degli scritti rousseauiani – quelli politici – e perché non mancò mai d'interrogarsi sull'attualità di questi testi, pur leggendoli entro una prospettiva storica. Questa è la ragione per cui si tratta di un Rousseau sempre "diverso" a seconda delle diverse fasi della ricerca di Gerratana, che possono delinearsi anzitutto secondo un ordine cronologico: gli anni '40, '60 e '90. È degli anni '40 la Prefazione di Gerratana al Contratto sociale, in cui egli denota il maggior valore di questo testo rispetto ai Discorsi – «reazione sentimentale al compromesso della cultura illuministica con la realtà sociale iniqua e corrotta del tempo». Il moralismo di Rousseau appare tuttavia a Gerratana storicamente attuale in forza dei valori sui quali si impernia – un valore sopra ogni altro, la libertà. D’altra parte, sottolinea Gerratana, «non la libertà estenuata dal completo esautoramento da cui sembrerebbe condannata da una lunga e ormai logora tradizione liberale, bensì una libertà resa concreta dalla stretta connessione con l'uguaglianza»; piuttosto una libertà la cui essenza costitutiva è precisata dal riferimento all'idea di eguaglianza e di legge, ciò che consente a Gerratana di riformulare il tema della libertà in chiave collettiva, sociale, vincolandolo al criterio della giustizia e della autonomia politica della società. Negli anni '60 – caratterizzati sul piano teorico dalla polemica fra il PCI e Bobbio – Gerratana prende parte alla discussione sul tema della transizione dalla democrazia al socialismo (rispetto al quale Rousseau veniva chiamato in causa da Della Volpe come ispiratore dello stato democratico e socialista). Egli interviene con una prosa misurata e sobria: Rousseau è il tramite teorico-pratico dell'evoluzione della democrazia borghese in senso socialista; quello di Rousseau è dunque un programma di «massimizzazione della democrazia», non di "anticipazione" del socialismo. Il discorso di Gerratana muta decisamente nella seconda parte degli anni '60, quando stende l'Introduzione alla traduzione del Discorso sull'ineguaglianza (Editori Riuniti, 1968), sullo sfondo della quale pare di intravedere le lotte sociali che sfoceranno nel '68 studentesco ed operaio. Non si tratta più del tema della transizione, nota Burgio, ma della trasformazione sociale nel suo complesso e non è più il Contratto al centro della riflessione di Gerratana, ma il secondo Discorso. Infine, nel '90 Gerratana stende un saggio con al centro nuovamente l'interesse per il Contrat (Sul nesso Rousseau-Hobbes, in “Studi politici in onore di Luigi Firpo”, Angeli 1990): Rousseau è ancora il padre della democrazia moderna (costituzionalismo) e viene contrapposto a Hobbes, teorico dell'oppressione assolutista. Burgio indica infine un possibile mutamento di prospettiva nella lettura di Rousseau da parte di Gerratana, facendo perno sul testo rousseauiano: se gli scritti degli anni '40, '62 e '90 privilegiano il Contrat (classico del costituzionalismo e del governo della legge, letto – nota Burgio – in chiave fondamentalmente montesquieuiana), il contributo del '68 trova il suo oggetto nel secondo Discorso e qui emerge la consapevolezza di Gerratana del versante distruttivo del progresso, della civilizzazione e della cieca tendenza degli uomini a far valere le proprie istanze particolaristiche.   Infine ricordiamo il contributo di Savorelli sul “Labriola di Gerratana”, che si è soffermato sull’intento di Gerratana di sottrarre il pensiero di Labriola dalla lettura che ne faceva la tradizione crociana e liberale. Negli anni '60 Gerratana riconsidera Labriola alla luce della polemica con lo spontaneismo dei movimenti e con la contestazione del marxismo ‘storicista’, mentre negli anni dell'arretramento del movimento operaio, mentre si profilava la crisi del PCI – Gerratana si preoccupa per le degenerazioni della politica («sistema di aggregazioni corporative di interessi locali», per l’emergere in Italia della «disinvoltura pragmatica» di spregiudicati «mestieranti», «avventurieri» e «giocolieri»), destinate a spingere le masse verso il riflusso e l’apatia. Savorelli sottolinea come le attualizzazioni cui Gerratana volse il pensiero di Labriola non furono una forzatura; al contrario il richiamo a Labriola, al critico sferzante della società italiana e delle sue classi dirigenti, era sinistramente profetico dell’accelerazione impressa in quel decennio ai fenomeni degenerativi di lungo periodo. Infine nell’ultimo Labriola Gerratana scorse l’intuizione di problemi (imperialismo, globalizzazione, regresso della democrazia, «crisi della cultura popolare», ritorno del misticismo), che sarebbero ancora i nostri (V. Gerratana, Labriola e la politica, “Studi storici”). Vittorio Diniha concluso la serie di testimonianze sulla vita e l'impegno culturale di Gerratana raccontando della comune esperienza negli anni dell'insegnamento universitario a Salerno nel 1971. Dini ha letto una pagina dedicata da Racinaro a Gerratana nella quale quest’ultimo è descritto come uomo poco diplomatico, amante di una verità da pronunciare senza mediazioni, uomo poco tenero anche con i cari, amante della filosofia illuminista, in particolare del Kant di Cassirer; e la sua stessa vita accademica si caratterizzava per la puntualità "kantiana", il forte senso del dovere e il rigorismo morale, quasi draconiano, che fu messo in luce anche durante gli anni del ’68 all’Università di Salerno. D’altra parte il rigorismo morale di Gerratana, secondo Dini, sarebbe stato trasferito in modo eccessivamente rigido contro quella società che si stava rivoltando in quegli anni di sommovimenti sociali e popolari, dacché ne risultava un rigorismo spesso astratto. Dini ha inoltre ricordato che Gerratana riprese l’attività universitaria a Salerno sotto sollecitazione di Lucio Colletti, che ne promosse l’ingresso, ritenendo questo rapporto GerratanaColletti un esempio del minimo “rigorismo ideologico” di Gerratana, della sua concezione “aperta” del marxismo – evidente anche nella ricostruzione non sistematica dei Quaderni.   Il quadro non sarebbe completo se non si accennasse a un altro tema (assieme all'indagine su Gramsci) che ha attraversato l'evento: l'impegno di Gerratana come intellettuale marxista. Questo aspetto è stato messo in luce essenzialmente da due relazioni, quella di Fabio Frosini e quella di Michele Filippini. Quest'ultimo ha discusso due aspetti peculiari della cultura filosofica di Gerratana, l'esser insieme democratico e marxista, e si è soffermato soprattutto su due esempi emblematici di ciò, un dialogo fra Gerratana e Colletti del 1958-59 ed un lungo articolo di Gerratana del 1971 sul saggio di Althusser sugli Apparati ideologici di Stato.   Ma è stato soprattutto Fabio Frosini a ricostruire le linee del marxismo di Gerratana, a partire dal volume del 1972, Ricerche di storia del marxismo. Il testo, che è in realtà una raccolta di saggi già pubblicati altrove, ha una sua sistematicità. Nella Prefazione al volume Gerratana sottolinea che il principale denominatore comune degli otto saggi è il rapporto fra marxismo e movimento operaio, fino ad affermare che «marxismo e storia del marxismo fanno tutt’uno» (Ricerche, p. VII). La loro unitarietà sarebbe dunque nell'idea stessa di storia del marxismo. Il marxismo di Gerratana pare a Frosini ben sintetizzato da un passo della Prefazione: «Nei confronti della pratica sociale l’analisi scientifica si distingue dalla raffigurazione ideologica perché non è solo, come questa, funzionale alla prassi, ma al tempo stesso è funzionale alla comprensione di questa prassi» (p. X), che mostra l'imprescindibile reciprocità di prassi e teoria scientifica atta comprendere la prassi. In conclusione, secondo Frosini il marxismo di Gerratana che emerge dalle Ricerche è confinato nel piano di una generalizzazione sempre provvisoria e da riprendere ogni volta in condizioni solo parzialmente ripetibili; e questa sarebbe l’unica condizione per rispettare l’apertura costitutiva di una verità che si definisce nella pratica, a contatto con la politica di massa.   Gerratana, politico (e) gramsciano   La terza sessione del convegno si è incentrata essenzialmente sul rapporto fra Gerratana e l'impegno politico per un verso, la cura delle opere e lo studio del pensiero di Antonio Gramsci dall'altro. Presieduta da Giuseppe Vacca, la mattinata si è aperta con l'intervento di Albertina Vittoria sull'esperienza di Gerratana alla Fondazione Gramsci – con cui il filosofo ha collaborato sin dagli anni della sua fondazione e che abbandonò negli anni '90 –, esperienza complessa e non esente da dissidi teorico-culturali. Vittoria ha messo in luce di Gerratana l'impegno di studioso e insieme quello di "organizzatore della cultura", come anche l'attività di uomo politico di partito. Non si può dunque isolare l'attività di Gerratana all'Istituto Gramsci dal resto dell'impegno: quello editoriale come anche quello nella Commissione culturale del PCI. Già dal '44 egli era considerato un militante anche sul piano culturale e subito dopo la Liberazione, Gerratana collaborò a "L'Unità", a "Rinascita", fece parte del Comitato Stampa e Propaganda del PCI. Nel '47 fu, con Platone e Trombadori, collaboratore di Onofri, allora responsabile della Commissione Propaganda del PCI; nel '49 fu responsabile delle “Edizioni Rinascita” e dopo la fusione fra queste e gli “Editori Riuniti” cominciò la sua collaborazione con la "Fondazione Gramsci" (fondata a Roma nel 1950) come studioso di filosofia. Sono questi anche gli anni del rapporto con Colletti e Cerroni. Nel '54 l'Istituto Gramsci diviene “Fondazione”, nel '56 – anno della "svolta" del XX Congresso del PCUS, degli eventi di Ungheria e del «Manifesto dei 101» – Gerratana resta in accordo con le posizioni di Alicata e Togliatti. Nel '58 si organizza il primo convegno di studi gramsciani, evento che dà il via all'opera di divulgazione del pensiero di Gramsci, alla cui base era la necessità di riarticolare teoricamente il legame fra movimento operaio e democrazia. Gli anni '60 sono per Gerratana gli anni dell'impegno per l'Edizione critica dei Quaderni del carcere (di cui cominciò ad occuparsi sin dal '58), impegno che aveva a monte l'intento di offrire un contributo alla garanzia dell'indagine critico-filologica. Gerratana divenne poi direttore del "Centro studi gramsciani" dell’Istituto Gramsci, avente come obiettivo la cura degli scritti di Gramsci nel loro insieme e dal '77 l'attività "gramsciana" ebbe soprattutto come fine un riordino in quindici volumi dell’opera del comunista sardo. Sono degli anni '80-'90 i dissapori con la nuova direzione dell'Istituto, quella di Vacca (la diatriba che si incentrò soprattutto su una diversa datazione dei Quaderni sul piano metodologico, ma Vittoria rileva anche come il dissenso fosse in generale culturale e politico). Nel '93 la crisi giunge all'apice: Gerratana vuole dimettersi, dimissioni successivamente ritirate, sebbene da allora in poi continui a lamentare il fatto che vi fosse un tacito dissenso sul suo lavoro. Furono questi gli eventi che infine condussero Gerratana all’abbandono dell'Istituto Gramsci.   É pur vero che Gerratana sarà essenzialmente ricordato per esser stato curatore, interprete e divulgatore del pensiero di Gramsci, con l'edizione critica dei Quaderni del 1975, ciò che l’ha reso noto in tutto il mondo. Da questo evento, difatti, si è avviato a livello internazionale un approfondimento dei testi e della riflessione di Gramsci, con l'edizione fra il 1992 e il 2007 negli Stati Uniti dei Prison Notebooks (curati da Joseph A. Buttigieg, intervenuto su questo tema) e l'avvio in America Latina degli studi su Gramsci come scienziato politico, tema su cui è intervenuto Carlos N. Coutinho. I due contributi hanno mostrato ciò che in apertura di questa relazione si è tentato di individuare come spirito del convegno: poliedricità degli accenti pur su tematiche affini, partecipazione rispetto al tema affrontato (giacché il pensiero di Gramsci è indagato come cosa viva), esigenza di dialettizzare la riflessione di Gerratana con gli eventi politico-culturali che vedono oggi coinvolti i paesi di provenienza dei relatori. Cosicché se per Buttigiegl'edizione critica si è rivelata uno stimolo per dar vita ad una ricerca che appagasse l'esigenza di riscoprire il pensiero di Gramsci come cultura "aperta" e dei riferimenti validi per il pensiero democraticoprogressista; per Coutinho, grazie all'edizione del '75, il pensiero di Gramsci si è mostrato come nuova fonte per indagini di scienza politica alla luce della contemporaneità – dal marxismo alla "filosofia della prassi", al rapporto di questi con i processi di trasformazione sociale. In particolare Coutinho – docente di teoria politica all’Università Federale di Rio de Janeiro –, ha messo in luce come il valore dell'edizione del '75 dei Quaderni stia essenzialmente nella capacità di porre in luce come Gramsci nel suo operare filosofico adotti, come marxista, il punto di vista della totalità. Negli scritti di Gerratana che Coutinho prende in esame emerge la trattazione prevalente, non casuale, di due tematiche gramsciane, rivoluzione ed egemonia. Le due nozioni sono a tal punto interconnesse che quella di egemonia consente a Gramsci di «arricchire e sviluppare il concetto marxiano di rivoluzione» (V. Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”). A questi due concetti gramsciani principali se ne dialettizza un terzo (che in certo modo li tiene insieme entrambi), quello di stato allargato, che – secondo Gerratana – viene adoperato da Gramsci per «allargare il ruolo politico delle masse», per «concepire un processo di estensione delle democrazie, in connessione con il concetto di egemonia» (V. Gerratana, Stato, partito). Come nel pensiero di Marx e di Lenin, anche in quello di Gramsci vi è un nesso filosofico-politico che tiene assieme egemonia e Stato da un lato, la rivoluzione dall'altro. Secondo Gerratana Gramsci modificò la propria concezione della rivoluzione nel corso dell'evoluzione del suo pensiero: se negli anni giovanili questa venne intesa come volontarismo soggettivista, già negli anni de L’Ordine Nuovo Gramsci avrebbe dato vita a una vera e propria «teoria organica della rivoluzione» (Gerratana, Sul concetto di “rivoluzione”), in particolare a seguito dell’influenza del pensiero di Lenin. In questo secondo momento Gramsci avrebbe tenuto conto anche del peso delle condizioni oggettive in cui opera la volontà. In generale secondo Gerratana sia Gramsci che Lenin concepirono l'egemonia come superamento della dimensione corporativa in cui opera la classe; ma quel che Gramsci riconosce a Lenin è anzitutto l’aver integrato questo concetto (la teoria dello Stato-forza) con la dottrina dell’egemonia. Secondo Coutinho Gramsci dà vita in tal modo ad una generale teoria dell'egemonia, ed è qui che Gerratana offrirebbe il suo più importante contributo: «per Gramsci le forme storiche dell’egemonia non sono sempre le stesse e debbono variare a seconda della natura delle forze sociali che esercitano l’egemonia. Egemonia del proletariato e egemonia borghese non possono avere le stesse forme né possono utilizzare gli stessi strumenti» (ivi, 123). Sviluppando l'elemento del "consenso" proprio dell'egemonia gramsciana, Gerratana distingue l’egemonia borghese, che si basa su un consenso passivo (o manipolato), e l’egemonia proletaria, che necessita un consenso attivo. Accenniamo infine ad altre due relazioni che hanno chiuso il convegno, quella di Aldo Tortorella e quella di Chiara Meta. Tortorella si è concentrato essenzialmente su due aspetti portanti della personalità dello studioso gramsciano, la passione politica e il rigore morale. Ha indicato in Gerratana non uno studioso come altri, ma un uomo che la cui vicenda intellettuale è da porre dentro una storia specifica e collettiva: quella della Resistenza e della nascita del PCI. È proprio attraverso la storia di queste vittorie e tragedie collettive che si è sviluppata la trama della vita personale e intellettuale di Gerratana. Tortorella ha messo in luce la profonda inquietudine che s'aggirava nell'animo di Gerratana, al di là dell'apparente serenità scientifica ed il suo “rigorismo”. Se una distinzione per lui esisteva fra politica (come etica pubblica) e morale (come etica privata), tuttavia il rapporto fra queste era per lui molto stretto (non a caso si era espresso sempre in modo contrario rispetto a guerre di aggressione presuntivamente “etiche” o a qualsiasi violazione dei diritti umani per ragioni politiche). La concezione etica cui Gerratana fa riferimento non è quella di Cartesio, tantomeno quella di Spinoza, ma in diretta connessione con la sua passione politica, dove la politica era intesa come un'impresa razionale. La passione politica, difatti, poteva avere due diversi contenuti: volgersi a favore o contro le dittature, e Gerratana scelse questa seconda strada. In questi anni è nato dunque un modo nuovo di intendere la libertà come effettualità, anzitutto come libertà dai rapporti di dominio sul piano materiale. L’intervento di Meta ha infine affrontato la ridefinizione del concetto di persona nella riflessione di Gerratana. Nel corso della relazione, Meta ha mostrato come Gerratana abbia risposto positivamente all'interrogativo sull'esistenza o meno di una teoria della personalità nel pensiero di Gramsci a partire dallo scritto Unità della persona e dissoluzione del soggetto ("Critica Marxista"). Indagando gli scritti gramsciani alla luce dell'elaborazione marxiana delle Tesi su Feuerbach e di Miseria della filosofia, Gerratana ricorda che Gramsci – in Q 10 dal titolo emblematico «Che cosa è l’uomo?» – argomenta che l’uomo è essenzialmente un processo, precisamente «il processo dei suoi atti» (Q). D'altra parte l’individuo entra in rapporti con gli altri uomini «organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi». Così lo sviluppo e costituzione della "personalità" di ciascuno è da intendersi come acquisizione di coscienza di tali rapporti e insieme modificazione di sé in relazione al modificarsi di tali rapporti: difatti «ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui è il centro di annodamento» (Ibidem).   Ed è proprio Gerratana, secondo Chiara Meta, uno dei pensatori che più avrebbe colto questa natura dialogico-relazionale della filosofia gramsciana, che intesse tutta la trama dei Quaderni. Sottolineiamo infine un ultimo aspetto che ha qualificato questi due giorni di confronto intellettuale: la ricchezza del dibattito. Il convegno ha messo in luce come sia possibile recuperare una trasversalità reciproca nel modo di concepire il rapporto fra relatori e pubblico, fra ricerca e scienza, fra passato e presente.   Quest'ultimo aspetto è stato la cifra indiscutibile del convegno: non si è trattato di esposizioni accademiche di "memoria", ma di un confronto vivo con l'eredità intellettuale di Gerratana, che ha riportato all'ordine del giorno l'attualità della ricerca e della riflessione sulla scienza storico-politica del passato al fine di comprendere la politica e la cultura del nostro tempo, finanche alla luce d'uno sguardo internazionale. Su molte questioni poste dai relatori il pubblico è difatti intervenuto: dal rapporto fra Gerratana e Calvino (Durante), Gerratana e Rousseau (Ausilio), Gerratana e Colletti (Guido Liguori), al rapporto fra il pensiero di Gramsci e Lukács (Renato Caputo), alla dialettica fra organicità e frammentarietà nei Quaderni del carcere (Eleonora Forenza). Lea Durante ha ricordato come la stretta amicizia fra Gerratana e Calvino risalisse ai primi anni '50. Nonostante fossero intellettuali provenienti da una diversa impostazione culturale, tuttavia avevano l'uno verso l'altro reciproco rispetto ed in comune l'esperienza partigiana. Durante si è soffermata sul carteggio GerratanaCalvino in merito al suicidio di Pavese, in cui Calvino rifiutava la lettura di questo evento come d'un gesto irrazionale, ma riteneva andasse letto piuttosto all'interno di una storia collettiva, emblematico di una "faglia" di questa storia: la volontà di risolvere l'attività politica degli intellettuali entro l'orizzonte collettivo, ciò che è impraticabile. La sottoscritta è intervenuta cercando di porre in luce come la “fedeltà” di Gerratana a Rousseau nel corso di mezzo secolo possa spiegarsi anche relativamente all'unitarietà dell'opera rousseauiana, a un rapporto complementare fra i Discorsi e il Contrat, da cui emerge un pensatore che per un verso è interno alla modernità borghese, per l'altro ne comincia a cogliere, prima di altri, i rischi ed i limiti. Renato Caputo si è dialettizzato con la relazione di Voza confrontandosi sul merito della concezione lukácsiana del realismo e rilevando da un lato che l'autore fa ancora parlare di sé e dunque è tutt'altro che un "cane morto", dall'altro la necessità di riconsiderare la battaglia di Gerratana per il recupero di De Sanctis non tanto in contrapposizione a Hegel quanto in funzione dell'esigenza di liberarsi della lettura crociana dell'autore. Liguori è intervenuto sul rapporto fra Gerratana e Colletti, affermando che fra i due intellettuali – sebbene legati dall’amicizia – non vi era solo una distanza, ma una radicale contrapposizione teorica. Infine Eleonora Forenza ha interloquito in particolare con la relazione di Buttigieg, sottolineando il valore dell’edizione critica dei Quaderni di Gerratana nella sua capacità di porre in luce il carattere frammentario della riflessione gramsciana dei Quaderni, l’attualità dialogica di un processo conoscitivo inteso come “ritmo” e “sviluppo”, la centralità della tensione nell’organicità dell’opera carceraria e il valore del “frammento” come elemento del processo. Ma uno dei contributi che più ha emozionato è stato quello di Mario Alighiero Manacorda, intervenuto per ricordare che in quello "Zibaldone" che pure sono i Quaderni vi è un'unità assoluta, che ritorna nelle pagine pedagogiche, e ha riguardato l’indagine gramsciana sulla formazione dell’uomo nuovo, fondata sul principio dell’unità di «braccia e cervello» (Q). Questa ricerca coinvolge la questione (che l'umanità si porta dietro da millenni) di cosa sia la “natura umana”. Da sempre alla base vi è una sua declinazione come duplice, cosicché quella duplicità dell'attività umana trova spazio in una duplicità sociale (gli eroi da una parte come intellettuali, la plebe dall'altro). Quell'unità fra i due elementi che si ricerca nella filosofia antica viene rotta dal cristianesimo, che ha separato drasticamente anima e corpo (così come nella struttura sociale ha diviso cleres e milites), e da allora ci trasciniamo questa duplicità, che pure oggi biologia e fisica negano esistere del tutto. Storia passata e futura: la lezione di Gerratana serve ancora In questa due giorni di convegno si sono succeduti ricercatori, storici, docenti di filosofia, intellettuali di orientamento politico affine ma niente affatto identico, esponenti di rilievo dell'odierna intellettualità italiana che sono (o sono stati) spesso insieme politici e uomini di cultura, che hanno partecipato alla costruzione della storia democratica del nostro paese; e che si sono interrogati sul contributo culturale di Gerratana come lezione viva, esempio per la storia politico-culturale dell'Italia futura. Un evento da e per Gerratana, dunque: antifascista, organizzatore di cultura, interprete di politica e filosofia, pensatore infaticabile ed aperto, sebbene saldo quando necessario nelle sue convinzioni, pronto alla lotta, all'ascolto come anche alla rottura. Gli interventi dei relatori hanno riportato alla luce (alcuni affettuosamente alla memoria) la riflessione di Gerratana come frutto della contraddittorietà della modernità: di quella terra dissestata e martoriata che è stata l'Italia negli anni della lotta partigiana, di quella storia che si è radicata nella consapevolezza dell'inaggirabile dialettica fra libertà ed eguaglianza sociale. Ecco: discutere e ricordare in questi giorni Valentino Gerratana ha significato parlare insieme della nostra storia passata e delle prospettive future per questo paese, che ha trovato in una figura come Valentino un indimenticabile esempio di caratura morale, coerenza politica, onestà e intellettuale, amore per la vita, per il progresso, per l'eguaglianza sociale, per la dignità umana e per la libertà – e questa storia, in fondo, non è di uno. Ma di tutti noi. Valentino Gerratana. Gerratana. Keywords. Rousseu, Grice on social justice, Gramsci, Labriola, Grice’s ontological Marxism, eresia di rousseau, labriola a fronte del socialismo, il metodo di gramsci – gappismo – G. A. P. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gerratana” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Geymonat – il temperamento romano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Geymonat – he calls himself a neo-rationalist, like Canova – whereas I go for the real thing! Plato!” – Grice: “Geymonat has explored the origin of infinity in the triangle of Tartaglia.” – Grice: “Geymonat has explored what he calls ‘the images of man’ – Grice: “Geymonat has a curious essay on darkness (‘tenebre’) – and a longer essay on ‘reason.’ – Grice: “Like me, Geymonat has explored the philosophy of probability – from Latin ‘probare’ – and he was an anti-fascista1” –Figlio di Giovanni Battista, un geometra liberale di origini valdesi, e da Teresa Scarfiotti. Frequenta la scuola privata del Divin Cuore e poi l'Istituto Sociale, un liceo classico torinese gestito dai gesuiti, dal quale fu espulso l'ultimo anno di corso a causa di un tema su Giovanna d'Arco non in linea con l'ortodossia e così conseguì la maturità nel Liceo classico Cavour.  Si laurea a Torino con “Il problema della conoscenza nel positivism” sotto Pastore e sotto Fubini lcon “Sul teorema di Picard per le funzioni trascendenti intere”. La sua scelta di unire, nella sua ricerca, filosofia e logica, tenute separate in Italia dall'imperante cultura idealistica del tempo, quella gentiliana che, con la sua riforma della scuola, privilegia la cultura umanistica, e quella crociana, con la sua concezione svalutativa della scienza, creatrice, ad avviso del filosofo abruzzese, di un “pseudo-concetto”, mostra l'apertura europea delle prospettive di ricerca intravista allora da Geymonat e la sua estraneità al provincialismo culturale italiano. Un rifiuto che egli estese anche alla politica del regime allora dominante. Assistente di Analisi algebrica nell'Torino ma avversario del fascismo, rifiutò l'iscrizione al partito fascistacio è di prendere la cosiddetta tessera del pane vedendosi così preclusa la possibilità di una carrier statale. Si avvicinò altresì a  Martinetti, non tanto per comunanza di prospettive filosofiche quanto per averlo riconosciuto un esempio di impegno civile e morale, essendo stato tra i pochissimi filosofi a rifiutare il giuramento di fedeltà al Fascismo. Come Ayer. Anda in Vienna per approfondire la dottrina del Circolo di Schlick, e  pubblica “La filosofia della natura”  e “Nuovi indirizzi della filosofia.”  e iscritto clandestinamente al Partito comunista, si guadagna da vivere insegnando matematica nella scuola privata «Giacomo Leopardi» di Torino, dove Pavese insegna italiano. Con il nome di battaglia Luca fu partigiano in Piemonte nella 105ª Brigata Carlo Pisacane e, dopo la Liberazione, assessore comunista al Comune di Torino, quando, vinto il concorso a cattedra, e nominato professore a Cagliari. Insegna a Pavia e Milano. Fonda il Centro di studi metodologici a Torino. Ebbe uno stile di pensiero razionalista ateo. La sua filosofia può essere inquadrata nel filone del neopositivismo (ebbe diversi contatti con il Circolo di Vienna), da lui ri-elaborato nell'ottica del marxismo! Nell'evoluzione della sua filosofia, si possono tracciare due fasi. Nella prima fase, approfondisce temi tipici del positivismo. Nella seconda fase, si sforza di analizzare la realtà oggettiva ed a questo scopo utilizza concetti caratteristici del materialismo dialettico.  Interpreta la concezione della matematica di Galilei come un strumento d'interpretazione della realtà. Approfondisce alcuni temi teorici come quello della causalità, il fondamento della probabilità, il continuo, l’intuizione, centrali nell'epistemologia. Politicamente fu vicino inizialmente al Partito Comunista Italiano, da cui si allontanò poi per aderire a Democrazia Proletaria e successivamente ai movimenti che diedero vita al Partito della Rifondazione Comunista. Nel corso di questo viaggio politico ha partecipato alla Fondazione, a Roma, dell'Associazione Culturale Marxista e collabora nella rivista Marxismo Oggi (editore Teti). Ha compiuto alcune ricerche sul teorema di Picard e sul teorema di Carathéodory per le funzioni armoniche. In “Neo-razionalismo”, spiega che un'indagine efficace della realtà, e svolta solamente tramite lo strumento della ragione.  Per fare questo, propose di scarnificare la razionalità di ogni verità e da ogni sistema di riferimento assoluti. Il neoilluminismo, capeggiato da Abbagnano e coinvolgente numerosi altri filosofi italiani, rappresentò per Geymonat il suo corso del neo-razionalismo, che avrebbe dovuto accogliere i metodi e i risultati della scienza, perseguendo un duplice obiettivo: ummanizare la scienza e concretizzare la filosofia – e l'utilizare un'impostazione storicistica al posto di quella metafisica. Per storicismo, intese l'analisi storica della struttura di un modello scientifico. Pur condividendo inizialmente l'anti-idealismo di Popper, sostenne che vi era la più manifesta e totale incompatibilità tra il marxismo e l'epistemologia popperiana. Alle sue accuse di essere il filosofo ufficiale dell'anti-comunismo, reo di difendere i regimi liberali, Popper gli rispose: “I nostri intellettuali dicono che vivono in un inferno, mentre di fatto questo mondo non è stato, fin da Babilonia, mai così vicino al paradiso come lo è ora il mondo occidentale. Per contrasto, in Unione Sovietica, si dice alla gente che vivono in paradiso, e tanti lo credono e sono moderatamente contenti; è questo, credo, l'unico aspetto per il quale la società sovietica è migliore della non-sovietica. Si deve a Geymonat l'introduzione in Italia di Kuhn.  Altre opera: “Il problema della conoscenza nel positivismo” (Torino, Bocca); La nuova filosofia della natura in Germania, Torino, Bocca, “Per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore, Neo-razionalismo. Torino, Einaudi, Galileo Galilei, Collana Piccola Biblioteca Scientifica, Torino, Einaudi, La filosofia della scienza, Feltrinelli, Milano); Filosofia nella storia della civiltà, con Renato Tisato, Garzanti, Milano, Storia della filosofia, Garzanti, Milano, Il materialismo dialettico, Editori Riuniti, Roma, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano); “Paradossi e rivoluzioni. scienza e politica, Giulio Giorello e Marco Mondadori, Il Saggiatore, Milano, La probabilita, con Feltrinelli, Milano, Kuhn e Popper, Dedalo, Bari. Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori, Milan); “Le ragioni della scienza” (Laterza, Roma-Bari, La libertà, Rusconi, Milano, La società come milizia, Minazzi, I sentimenti, Rusconi, Milano, Filosofia, scienza e verità, Rusconi, Milano, La Vienna dei paradossi. Controversie filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis, Mario Quaranta, Il poligrafo, Padova, Dialoghi sulla pace e la libertà, cCuen, Napoli, La ragione, con Minazzi e Sini, Piemme, Casale Monferrato, Attualità del Marxismo. Quaderni di Città Futura, Ancona); “Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale, Bollati Boringhieri, Torino. Emanuele Vinassa de Regny, «Corrado Mangione: breve storia di una lunga amicizia», «AppendiceL'Associazone Culturale Marxista», in Attualità del Marxismo. Filosofia e dintorni, Intellettuali non fate ideologia. L'Occidente non è quest'inferno, Dario Antiseri, articolo su «Il Mattino di Padova», lincei. Geymonat Mario Quaranta, Geymonat filosofo della contraddizione, Sapere, Padova, Mangione, Scienza e filosofia. Saggi in onore di Geymonat, Garzanti, Milano, Pasini, Rolando, Il neo-illuminismo italiano. Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Minazzi, Scienza e filosofia in Italia negli anni Trenta: il contributo di Persico, Abbagnano e Geymonat. Norberto Bobbio, Ricordo, "Rivista di Filosofia" Silvio Paolini Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, Pantograf (Cnr), Genova,  Minazzi, “La passione della ragione” Thélema Edizioni Milano-Mendrisio, Mario Quaranta, Una ragione inquieta, Seam, Formello, Minazzi, Filosofia, scienza e vita civile inGeymonat, La Città del Sole, Napoli, Fabio Minazzi, Contestare e creare. La lezione epistemologico-civile di Geymonat, La Città del Sole, Napoli, Silvio Paolini Merlo, Nuove prospettive sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Bruno Maiorca,Scritti sardi. Saggi, Cagliari, Minazzi, Ludovico Geymonat, un Maestro del Novecento. Il filosofo, Edizioni Unicopli, Milano, Pietro Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del Novecento, il Mulino, Bologna, Minazzi, Geymonat epistemologo, Mimesis Edizioni, Milano   Positivismo logico Circolo di Vienna Scuola di Milano. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Geymonat, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Massimo Mugnai, Scienza e filosofia: Geymonat e Preti, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.Articoli della stampa italiana su L. Geymonat, dal Sito Web Italiano per la Filosofia L'eredità intellettuale di Ludovico Geymonat (C. Preve). La setta di Crotone rappresenta un movimento filosofico di livello scientifico molto superiore a quello delli precedenti.  Per la verità non tutti lo storici della filosofia italiana sono d'accordosu ciò. Taluni sostengono infatti che Pitagora (il quale non lascia nulla di scritto) sia stato il fondatore di una setta analoga all'orfismo, che non di un vero e proprio  movimento  di  pensiero  scientifico-filosofico come il di J. L. Austin. Essi affermano che soltanto mezzo secolo dopo la morte del fondatore la setta comincia ad interssarsi di filosofia. Oggi però si ritiene dai più che l'interpretazione ora accennata sia eccessivamente  critica, e si preferisce ritornare all'interpretazione tradizionale, che attribuiva proprio a Pitagora la  maggior parte delle concezioni. La ricchezza del suo sapere ci è del resto attestata d’Eraclito, che polemicamente lo define  polymathés,  erudito. Anche noi dunque ci atterremo alla tradizione, pur riservandoci di trattare la reazione dei Crotonesi ai Veliani rappresentata  da  Filolao.  Pitagora si trasfere nella “Magna Grecia”, e precisamente a Crotona in Calabria, dove e fiorita  un’ importante scuola di filosofi medici medic. A Crotona fonda una setta che  ha un notevole peso, essendo  legata  al  partito  aristocratico.  La setta e  organizzata sulla base di regole rigorosi che esigeno dagli scolari un lungo periodo di tirocinio prima di essere ammessi ai segreti. Su questa base si crea la divisione fra acusmatici od ascoltatori e matematici, partecipi degl’insegnamenti che in seguito si accusarono a vicenda di non essere i veri depositari delle dottrine del maestro. L'insegnamento di Pitagora e circondato da grande rispetto, e si ripone in lui una fiducia illimitata, tanto che a lui si rifere l’”ipse dixit” (autòs  efa). Una sommossa provocata dal partito della plebe caccia i filosofi da Crotona. Pitagora fugge a Metaponto e muore.  Sul  grande filosofo sorsero numerose leggende,  alcune delle quali note ad Aristotele. Queste accentuano il carattere religioso della sua figura, facendone poco meno che un semi-dio,  e  sono particolarmente care a quella filosofia misticheggiante, attraverso Numenio e Giamblico. La realtà accertata dagli storici è che, dopo l'espulsione da Crotona, si organizzarono varie sette. Esse  hanno lunga  vita  e  danno notevoli sviluppi. Le più celebri sono la  scuola  di  Filolao e quella d’Archita, che  fiore a  Taranto,  dominando anche la città.  Di Filolao ci sono pervenuti frammenti,  che dopo lunghe discussioni vengono oggi ritenuti autentici,  e che costituiscono la base per  ricostruire  la  dottrina  di  Pitagora. Archita,  uomo  di  straordinaria  va- stità di  interessi, fu legato da amicizia con Platone. Platone ricorda Archita affettuosamente nella VII Epistola, ed esercita per suo tramite gran influenza sull'Accademia.  Né l'influsso della setta di Crotona si limita alla filosofia ed alla scienza, ma si risente fortemente in tutte le manifestazioni della filosofia.  All'acustica si possono far risalire molte delle teorie musicali tramandateci dagli Elementi armonici d’Aristosseno ed al pitagorismo  esplicitamente  si  richiama Policleto,  amico  di  Fidia,  che  nel  Canon  sviluppa una teoria artistica basata sulla  concezione del del corpo bello come giusta proporzione delle parti.  Legato  a Crotona e pure  Ione  di  Chio. Questa dottrina si impernia su di un pensiero  fondamentale. El numero e il principio di tutto. Tutte le cose che si conoscono hanno numero. Senza numero nulla e possibile pensare, né conoscere. Dovremo ora cercare, innanzi tutto, di comprendere il significato filosofico di questo pensiero. Poi di svilupparne le conseguenze matematiche e fisiche.  Alla  fine  del  capitolo  accenneremo  al  valore  intrinseco  della  teoria,  e  al  significato  della  crisi  scientifica  formatasi  nella  scuola  prima  ancora  della  cacciata di Pitagora da Crotona. Pitagora  prende forse le  mosse  dalle  ricerche  ioniche  sul  principio  e  in  particolare  dalla  teoria  dell'àpeiron  d’Anassimandro.  Una più acuta  sensibilità  ai  problemi  etico-religiosi  (quali  l'opposizione  del  bene  e  del  male  nel  mondo,  la  vicenda  della  colpa  e  del  riscatto),  stimolata  probabilmente  dall'incontro in Italia con  i culti  misterici,  e  d'altro  canto  una  maggiore  attenzione  per  le  leggi  formali  e  modali  della  realtà,  cui  diedero  impulso  le  sue  prime  ri- cerche  acustiche,  dovettero  però  fargli  apparire  inadeguato  il  principio  unico  dei  naturalisti  ionici.  Per  rendere  conto  di  questi  più  complessi  problerill,  Pitagora  sdoppia  il principio in due  opposti. Da una parte il principio del limitato, del finito, dell'unitario, che rappresenta l'ordine, il  cosmo,  il  bene;  dall'altra  il  principio  dell'il- limitato,  dell'infinito, che raffigura  il disordine, il caos, il male.  La sua grande intuizione consiste nel vedere nel numerola  chiave  e la struttura ultima di un assetto della  realtà.  Col termine  “numero”  i  crotonesi intendeno  soltanto  il numero  intero.  Non  fanno  particolari indagini  sulla  natura  di queste unità,  limitandosi  a  rappresentarle  con  un punto,  circondato da  uno  spazio  vuoto.  Proprio  questa  rappresentazione  spaziale  facilita  il  passaggio,  caratteristicamente  arcaico,  dalla  concezione  del  numero  come  chiave  e  rapporto  alla  sua  concezione  come  costituente  fisico  elementare  delle  cose.  Il  problema  essenziale  diventa  allora,  per  i  crotonesi,  quello  di  cogliere  il  modo  con  cui  dalla  collezione  di  più  unità  si  generano  tutti  gl’esseri.  Le  leggi  della  formazione  dei  numeri  venne  considerate  come  leggi  della  formazione  delle  cose,  e.  si  ritene  di  poter  trovare  in  esse  la  vera  ragione  esplicativa  del  mondo  fisico  e  morale.  La  più  importante  di  tali  leggi  e costituita  - secondo  i  crotonesi - dal- l'opposta  struttura  dei  numeri  dispari  e  di  quelli  pari.  L'antitesi  dispari-pari  venne cosi  assunta  a  principio  di  una  serie  di  altre  opposizioni,  che  spezzano  il  mondo  in  due:  limitato-illimitato  (opposizione  che  e  stata il  problema  iniziale,  ma  puo  ora  venir  spiegata  sulla  base  dell 'antitesi  precedente);  uno-molti;  destra-sinistra;  luce-tenebre;  buono-cattivo;  immobile-mobile;  retto-curvo;  quadrato-rettangolo.  Alcune  di  queste  opposizioni  hanno palesemente  un  carattere  fisico  (quella  per  esempio  di  luce  e tenebre;  da  essa  scaturiva  la  raffigurazione  del  cosmo  come  costituito  da  un  fuoco  centrale,  immerso  in  un'estensione  illimitata  di  nebbia);  altre  invece  un  preciso  carattere  morale.  Questa  presenza  di  significati  multipli  finiva  con  l'infondere  ai  numeri  in  generale,  e  a  certuni  di  essi  in  particolare,  un  vero  e  proprio  valore  magico-simbolico.  Così  “V” veniva  assunto  a rappresentare  il matrimonio,  essendo  la somma del primo numero dispari,  il III,  con  il  primo  numero  pari,  il  II  (l'I  veniva  considerato  come  «  parìmpari  »servendo  a  generare  sia  i  numeri  pari  che  i  dispari);  il  IV  e  il  IX  venivano  presi  come  simboli  della  giustizia;  il  VII  dell'opportunità;  e  così  via.  Di  derivazione  crotonesi  è  un  trattato  di  medicina  intitolato  “Sul  numero  sette,” “Peri  hebdomadon,” che  cerca  appunto  nei  rapporti  settenari  la  spiegazione  della  struttura  dell'organismo  e delle  sue  affezioni.  Qualcuna  di  queste  concezioni  è  pervenuta  fino  a  noi,  onde  si  attribuisce  per  esempio  a VII  un  significato  speciale  etico  e  fisico  (VII sono  i  ·vizi  capitali,  sette  le  opere  di  misericordia,  in  varie  malattie  si  ha  la  «settima»,  ecc.).  La  purificazione  religiosa,  che  forma - almeno  in  un  primo  tempo  il  fine  principale  dell'insegnamento  pitagorico,  era  cercata  essa  pure  attraverso  la  contemplazione  dei  numeri.  Questa  venne  pertanto  a  possedere  un  doppio  aspetto:  filosofico  e  mistico.  La  peculiare  nobiltà  dell'ascesi  pitagorica  consisteva  appunto  nel  fatto  che  a  ogni  sua  tappa  doveva  corrispondere  la  conquista  di  un  più  alto  gradino  del  sapere.  Il  carattere  mistico  delle  ricerche  matematiche  costituì  per  molto  tempo  un  notevole  impulso  al  loro  sviluppo,  e  insieme  un  im- pedimento  al  loro  caratterizzarsi  come  ricerche  puramente  scientifiche.  In  particolare,  la  concezione  ora  spiegata  spinse  i  pitagorici  a  studiare  la  geometria  per  via  aritmetica.  Ne  sorse  una  disciplina  che,  per  il  suo  doppio  ca- rattere,  e  chiamata  «  aritmo-geometria  ».  Essa  e  fondata  sulla  convinzione  che  da  un  lato.  fosse  possibile  ricavare  le  principali  caratteristiche  delle  figure  a  partire  dal  numero  dei  punti  (supposto,  in  ogni  caso,  finito)  che  le  compongono,  e dall'altro  fosse  possibile- viceversa- ricorrere  alla  forma  delle  figure  per  illustrare  le  più  recondite  proprietà  dei  nu- meri.  Di  qui  la  distinzione  dei  numeri  in  vari  tipi. Per  esempio:  triangolari  polig6nali  quadrati  c~  bici. Al  numero  triangolare  X venne  attribuita  un'importanza  speciale,  come  somma  dei  primi  quattro  numeri  naturali.  I dispari  venneno  chiamati  «  gnomoni»,  per  la  possibilità  di  rappresentarli  informa  di  gnomone  (cioè  squadra).  Questa  rappresentazione  permise  di  scoprire  che  ogni  numero  dispari  è  la  differenza  di  due  quadrati;  per  esempio:  • • • • • • • • • • • • • • • • 7 = 42-32 Varie testimonianze  ·- tra  cui  quella  di  Proclo  ·- ci  dicono  che  Pitagora  e  il  primo  a  comprendere  la  validità  generale  del  teorema  che  ancor  oggi  porta  il  suo  nome,  e  che,  per  taluni  casi  particolari  (per  esempio  quando  i  cateti  valgono  III e IV, e  l'ipotenusa  V),  era  noto  già  prima  di  lui.  Non  sappiamo  però  quale  ragionamento  servisse  a  Pitagora  per  provare  l'importante  teorema.  Certamente  la  dimostrazione  riferita  negl’ “Elementi” d’Euclide  non  fu  ideata dal  filosofo  di  Crotone.  IV La  dottrina  che  i  numeri  sono  il  principio  di  tutte  le  cose  »  trovò  pure  conferma  negli  studi  di  acustica.  Stando  alla  più  antica  tradizione  dobbiamo  infatti  ammettere  che  Pitagora  riuscì  a  scoprire  i  principali  intervalli  musicali.  Sarebbe  giunto  a  questa  notevolissima  scoperta  dallo  studio  sperimentale  delle  corde  sonore,  e  dalla  constatazione  che  nei  principali  accordi  il  rapporto  fra  le  loro  lunghezze  è  espresso  da  numeri  interi  molto  semplici. L'acustica  venne  in  tal  modo  a costituire  una  specie  di«  aritmetica  applicata»,  come  l'astronomia  costituiva  una  «geometria  applicata».  Il  quadro  delle  ricerche  scientifiche  risultò  pertanto  suddiviso  in  quattro  rami  fondamentali:  aritmetica,  musica,  geometria,  astronomia. 1 L'astronomia  pitagorica  - - parte dall'ammissione  di  un  fuoco  centrale  immerso  in  una  sconfinata  nebbia  di  tenebre.  Intorno  a  tale  fuoco  si  pensava  ruotassero  dieci  corpi  (notiamo  l'intervento  del  numero  10):  la  Terra,  l'Antiterra  (invisibile),  la  Luna,  il  Sole,  i  cinque  pianeti  allora  conosciuti,  e  il  cielo  delle  stelle  fisse.  I  movimenti  ciclici  di  questi  corpi  produrrebbero  - secondo  Pitagora  - una  meravigliosa  armonia,  che  noi  però  non  riusciamo  a  percepire  a  causa  della  sua  continuità.  La  loro  ciclicità  sarebbe  la  causa  del  ritorno  periodico  di  tutte  le  cose.  Questa  ripartizione  costituisce  il  lontano  antecedente  del  celebre «  quadrivio  », che  starà  alla  base  dell'istruzione  nelle  scuole  del  medioevo. successivi  l'astronomia  pitagorica  portò  a  concezioni  di  grande  interesse  scien- tifico;  degna  di  particolare  menzione  l 'ipotesi  eliocentrica,  ideata  per  la  prima  volta  da  Aristarco  di  Samo. Ricordiamo  infine  la  teoria  secondo  cui  tutto  il  cosmo  sarebbe  sorto  dal  fuoco  centrale  e  ritornato  in  esso  per  poi  nascere  un'altra  volta.  Con  riferimento  ad  essa,  i pitagorici chiamavano  «anno  cosmico»  l'intervallo  di  tempo  impiegato  dal  cosmo  per  nascere  e  ritornare  nel  fuoco.  La  teoria  pitagorica  dell'anima,  malgrado  la  sua  ambiguità,  ebbe  notevoli  riflessi  sui  filosofi  posteriori.  Da  un  lato  alcune  testimonianze  ci  dicono  che  l'anima  veniva  concepita  dai  pitagorici  come  «armonia»  del  corpo,  nel  preciso  senso  in  cui  si  parla  di  ar- monia  dei  suoni  emessi  da  uno  strumento  musicale.  Secondo  questa  interpreta- zione,  l'anima  doveva  venire  necessariamente  pensata  come  mortale,  poiché  - spezzato  lo  strumento  - anche  l'armonia  viene  a  cessare.  D'altro  lato  sappiamo  però  che  uno  dei  cardini  della  filosofia  pitagorica  era  costituito  dalla  trasmigrazione  delle  anime  (metempsicosi),  e  questa  suppone  ovviamente  che  l'anima  non  muoia  con  il  corpo  che  la  ospita.  Un  frammento  del  medico  Alcmeone  (che  visse  a  Crotone  e  fu  legato  ai  circoli  pitagorici)  afferma  che  l'«  anima  è  immortale  per  la  sua  somiglianza  con  le  cose  immortali  ...  la  luna,  il  sole,  gli  astri  ». 1  Come  risolvere  l'apparente  contraddizione?  Probabilmente  bisogna  ritenere  che  i  pitagorici  ammettessero  due  specie  di  anime:  una  costituita  dal  tempera- mento  psichi  co,  legato  indissolubilmente  al  corpo  e  destinato  a  morire  con  esso;  l'altra da un principio  immortale  o  «  anima-dèmone  ».  In  ogni  vita  si  avrebbe  una  stretta  rispondenza  tra  le  due  anime;  questa  rispondenza  verrebbe  però  a  cessare  coll'uscita  dell'anima-dèmone  dal  corpo.  Tale  uscita  sarebbe  da  lei  de- siderata  per  raggiungere  la  purezza  di  una  vita  interamente  spirituale.  A  tali  dottrine  si  ispirava  il  «  modo  di  vita  pitagorico  »,  altamente  lodato  da  Platone  per  la  sua  unione  di  teoresi  e  di  ascesi;  la  metempsicosi  in  particolare  determi- nava  il  più  famoso  dei  divieti  rituali  pitagorici,  quello  di  mangiare  la  carne  di  certi  animali,  nei  quali  potrebbe  essersi  incarnata  un'anima.  Anche  dio  veniva  concepito  dai  pitagorici  come  anima;  e  precisamente  come  «  anima  del  mondo  »  che  circola  continuamente  in  esso  e  perciò  è  presente  in  ogni  luogo.  Il  rapporto  dio-mondo  restò  tuttavia  molto  incerto  nella  filosofia  pitagorica,  sicché  non  possiamo  cercare  in  essa  un  vero  e  proprio  sistema  teolo- gico.  Ad  Alcmeone  si deve  la  notevolissima  sco- perta  che  il  centro  della  vita  organica  e  mentale  va  localizzato  nel  cervello.  Quanto  abbiamo  finora  riferito  basta  per  farci  comprendere  la  complessità  dell'insegnamento  pitagorico.  Se  in  taluni  punti  esso  può  apparirci  ingenuo,  in  altri  casi  contraddittorio,  ciò  non  deve  farci  sottovalutare  l'importanza  dei  temi  ivi  abbozzati,  che  ricompariranno  ampliati  e  sviluppati  nei  più  diversi  indirizzi  filosofici  e  scientifici.  Notiamo,  per  esempio, che  l'idea  di  cercare  nei  numeri,  cioè  nella  matematica,  la  spiegazione  di  tutti  i  fenomeni,  ricomparirà  potenziata  nell'epoca  moderna  e  formerà  per  molto  tempo  la  «  spina  dorsale  »  di  tutta  la  ricerca  scientifica.  Vi  è  chi  sostiene,  esagerando  forse  le  cose,  che  le  più  celebri  teorie  della  fisica-ma- tematica  moderna  (per  esempio  la  teoria  della  relatività  generale)  non  costituirebbero  altro  che  il  proseguimento  del  programma  pitagorico.  Ma,  a  parte  ciò,  noi  troviamo  nella  matematica  di  Pitagora  un  carattere  speciale  che  la  differenzia  notevolmente  da  molte  altre  concezioni  posteriori,  pur  esse  accentratesi  sulla  ricerca  matematica.  Il  carattere  cui  voglio  riferirmi,  suol  venire  indicato  col  termine  «discontinuità».  Si  dice  che  la  scienza  di  Pi- tagora  è  una  matematica  del  discontinuo,  perché  essa  si  fonda  esclusivamente  sui  numeri  interi  e  su  ciò  che  può  venire  espresso  con  i  numeri  interi  (per  esem- pio  sulle  frazioni  ordinarie,  e  non,  invece,  sui  numeri  irrazionali).  Secondo  essa,  l'accrescimento  di  una  grandezza  procede  per  «salti  discontinui»,  essendo  im- possibile  aggiungere  qualcosa  che  sia  minore  dell'unità.  Taluno  giunge  a  riconoscere  nelle  teorie  quantistiche  moderne  una  soprav- vivenza  dell'antica  eredità  pitagorica  sotto  forma  dì  concezione  discontinua  dell'energia.  Lasciando  da  parte  le  reminiscenze  pitagoriche  presenti  nella  fisica  moderna,  va  detto  però  ben  chiaramente  che  l'aritmo-geometria  di  Pitagora  non  ebbe  vita  lunga  nella  scienza  greca.  La  sua  fine  fu  provocata,  per  l'appunto,  dalla  crisi  di  quell'idea  di  discontinuità  che  costituiva  - come  s'è  detto  - uno  dei  suoi  cardini  fondamentali.  La  grande  crisi  fu  causata  dalla  scoperta  che  le  figure  geometriche  sono  co- stituite  non  da  un  numero  finito,  ma  da  una  infinità  di  punti.  (Le  teorie  moderne,  che  tornano  ad  un'idea  rinnovata  di  discontinuità,  sosterranno  implicitamente  che  la  geometria  classica  - proprio  perché  parla  di  una  infinità  di  punti  - non  trova  esatta  applicazione  nella  realtà.)  Il  primo  «  fatto  geometrico  »  che  costrinse  i  pitagorici  a  riconoscere  che  le  figure  sono  costituite  da  infiniti  punti,  è  proprio  connesso  a  quel  medesimoteorema  che  porta  il  nome  di  Pitagora.  Ed  infatti,  applicando  detto  teorema  ad  uno  dei  due  triangoli  isosceli  in  cui  è  diviso  un  quadrato,  si  dimostra  facil- mente  che  il  lato  e  la  diagonale  di  tale  quadrato  non  possono  avere  alcun  sot- tomultiplo  comune,  cioè  sono  incommensurabili.  Orbene  proviamo  a  supporre  che  un  segmento  sia  generato  dall'accostamento  di  una  serie  finita  di  punti  (pic- coli  ma  non  nulli,  e  tutti  eguali  fra  loro,  come  allora  si  immaginava):  ne  se- guirebbe  che  uno  qualunque  di  questi  punti  risulterebbe  contenuto  un  numero  intero,  e  finito,  di  volte  (per  esempio  m  volte)  nel  lato  e  un  altro  numero  in- tero,  e finito,  di  volte  (per  esempio  n  volte)  nella  diagonale.  Lato  e  diagonale  avreb- bero  dunque  un  sottomultiplo  comune,  e  non  sarebbero  - come  si  era  dimo- strato  - incommensurabili.  La  loro  incommensurabilità  esige  pertanto  che  es- si  siano  costituiti  da  una  infinità  di  punti.  La  leggenda  racconta  che  il  fatto  scandaloso,  ora  riferito,  fu  gelosamente  custodito  per  vari  anni  tra  i  segreti  più  pericolosi  della  setta.  Esso  fu  rivelato  fuori  della  scuola  pitagorica  da  Ippaso  di  Metaponto,  una  delle  figure  più  notevoli  dell'antico  pitagorismo.  Pastosi  a  capo  degli  acusmatici  per  la  moderna  irre- quietezza  del  suo  ingegno  che  mal  tollerava  il  dogmatismo della  setta,  egli  sarebbe  stato  vicino  ad  Eraclito  per  l'idea  che  il  fuoco  è  il  principio  di  tutte  le  cose,  e  si  sarebbe  schierato  dalla  parte  dei  democratici  nei  moti  che  condussero  alla  cacciata  dei  pitagorici  da  Crotone.  Per  avere  rivelato  la  natura  delle  grandezze  incommen- surabili,  Ippaso  sarebbe  stato  cacciato  ignominiosamente  dalla  scuola,  ed  a  lui  anzi  i  pitagorici  avrebbero  eretto  una  tomba  come  ad  un  morto.  Secondo  la  tra- dizione  su  di  lui  sarebbe  caduta  anche  l'ira  di  Giove,  il  quale  lo  fece  perire  in  un  naufragio;  la  sua  triste  morte  non  impedì  tuttavia  che  lo  scandalo  si  diffondesse  rapidamente  tra  i  cultori  di  matematica  e  finisse  per  scuotere  dalle  fondamenta  l'intera  concezione  pitagorica. Questa crisi verrà  resa  ancor  più  acuta   dalla  scoperta  delle  antinomie  di  Zenone  sul  movimento  e  sulla  divisibilità.  Per  uscire  da  essa,  i  maggiori  scienziati  greci  non  troveranno  altra  via  se  non  quella  di  scindere  completamente  la  geometria  dall'aritmetica,  interpretando  la  prima  come  studio  del  continuo  e  la  seconda  come  studio  del  discontinuo.  Il  rapporto  tra  continuo  e  discontinuo  resterà,  per  tutta  la  storia  del  pensiero  umano,  un  problema  molto  difficile  e  molto  dibattuto;  verrà,  anzi,  considerato  come  uno  dei  più  astrusi  «labirinti»  della  ragione.  L'averne  intuito  l'esistenza  e  la  difficoltà  va  dunque  considerato  come  un  merito,  e  molto  notevole,  dello  spirito  greco.  Il  primo  passo  della  ragione  umana  si  compie,  in  ogni  ricerca,  col  porre  a  nudo  le  difficoltà  ivi  esistenti,  per  gravi  che  esse  siano,  non  col  nasconderle.  Solo  chi  le  conosce,  non  chi  le  ignora,  può  sentirsi  spinto  a  cercare  i  mezzi  indispensabili  per  risolverle  o,  comunque,  dominarle;  e  questa  ricerca  è  la  molla  più  decisiva  del  progresso  scientifico. Oggi  si  riconosce  quale  autentico  fondatore  della  scuola  eleatica  il  grande  Parmenide,  nato  ad  Elea. Parmenide scrive  un  poema  allegorico, “Sulla  natura,” “Perì  physeos,” di  cui  ci  sono  pervenuti alcuni  interessantissimi  frammenti  che,  integrati  da  varie  testimonianze,  ci  permettono  di  ricostruire  con  sufficiente  sicurezza  il  suo  pensiero.  Data  la  vicinanza  di  Elea  ai  maggiori  centri  del  pitagorismo,  è indubitato  che  Parmenide  subì,  in  forma  più  o  meno  diretta,  l'influenza  di  questo  indirizzo  di  pensiero.  Taluni  storici,  accentuando  questo  legame,  giunsero  a  presentarcelo  come  un  pitagorico,  distaccatosi  dalla scuola di provenienza per  divergenze  di  ordine  filosofico.  Tale  interpretazione  ci  costringerebbe  a vedere  in  gran  parte  degli  argomenti  eleatici,  come  ad  esempio  nelle  aporie  di  Zenone,  un  intento  polemico  soprattutto  antipitagorico.  La  gravità  di  questa  conseguenza  lascia  tuttavia  perplessi  molti  autorevoli  critici.  Si  ritiene  oggi  piuttosto  che  la  critica  di  Parmenide  fosse  rivolta  in  generale  contro  tutte  le  filosofie  ioniche  ed  italiche  del  molteplice  e del  divenire,  di  cui  egli  rilevava  acutamente  la contraddittorietà:  nel  tentativo  di spiegare  razionalmente  la  realtà,  e  di  modellare  la  ragione  sui  dati  dell'esperienza,  tali  filosofie  dovevano  ammettere  una  serie  di  opposizioni  e  di  alterità  di  cui  però  si  assumeva  la  coesi- stenza.  Ora  - osserva Parmenide  - se  di  una  qualsiasi  cosa  si  dice  o si  pensa  che  «  è  »,  di  ciò  che  è  diverso  od  opposto  ad  essa  si  dovrà  dire  o  pensare  che  «non  è»:  e  com'è  possibile  riconoscere  realtà  alcuna  a  ciò  che  non  è,  se  non  si  vogliono  violare  le  leggi  immutabili  del  discorso  e  del  pensiero?  La  grandezza  della  filosofia  di  Parmenide,  quella  grandezza  che  costituì  un  fecondo  punto  di  partenza  per  il  pensiero  successivo  e  anche  un  difficile  problema  la  cui  soluzione  era  tuttavia  indispensabile  per  poter  progredire,  sta  proprio  qui:  nell'aver  cioè  individuato  nella  sua  radice  filosofica  l'ambiguità  della  speculazione  ionica  edita- lica,  e nell'aver  posto  in  primo  piano  il problema  della  verità  del  linguaggio  e  del  pensiero,  il  problema  della  «  via  »,  cioè  del  metodo,  che  linguaggio  e  pensiero  dovevano  percorrere  per  giungere  alla  realtà.  Il  metodo  vero  costruisce  cono- scitivamente  la  realtà,  l'essere,  perché  elimina  gradualmente  dal  pensiero  tutti  i  contrassegni  di  irrealtà,  di  non-essere,  che  vi  si  erano  infiltrati:  la  molteplicità  nello  spazio,  intesa come  differenziazione  di  parti,  la  molteplicità  nel  tempo,  intesa  come  differenziazione  di  momenti,  il  vuoto  inteso  come  assenza  di  realtà,  la  generazione  e  la  distruzione  intese  come  limiti  dell'essere.  Partito  dal  riconosci- mento  logico  e  metodologico  delle  esigenze  del  pensiero  e  del  discorso,  Parme- nide  giunge  al  culmine  della via a  dichiarare  l'impensabilità,  l'inesprimibilità  e  l'inesistenza  del  non-essere,  e  la  parimenti  assoluta  esistenza  dell'essere,  che  condiziona  la  possibilità  di  pensare  e  di  dire  il  vero.  All'essere  non  potrà  venir  riferito  - sempre  per  l'opposizione  or  ora  ac- cennata  - alcun  attributo,  che  possa  in  qualche  modo  diminuirne  la  positività,  assimilandolo  al  non-essere.  Ci  si  dovrà  limitare  a  dire  che  esso  è  uno,  invaria- bile,  immobile,  eterno.  Qualche  critico  moderno  però  (come Untersteiner)  ha  ritenuto  che  Parmenide  avesse  concepito  l'essere  come  «totalità>>  e  non  come  «unità».  L'erronea  interpretazione  del  suo  pensiero  sarebbe  dovuta  alla  falsa testimonianza  di  Teofrasto  che  attribuisce  a Parmenide  il sillogismo:  «  Quello  che  è  oltre  l'essere  non  esiste;  quello  che  non  esiste  è  nulla;  dunque  l'essere  è  uno.»  L'attributo  dell'unità,  con  cui  polemizzò  Aristotele,  risalirebbe  solo  a  Melissa.  Come  possiamo  conciliare  la  concezione  parmenidea  dell'essere  col  fatto  incontrovertibile  che  l'esperienza  ci  presenta  ad  ogni  piè  sospinto  degli  esseri  molteplici,  variabili,  temporanei?  Di  fronte  a  questo  stato  di  cose  - risponde  Parmenide  - non  vi  è  altro  da  fare  che  respingere  la  nostra  spontanea  fiducia  nell'esperienza,  riconoscendo  che  essa  costituisce  per  l'uomo  una  via  di  conoscenza  fallace  e illusoria.  Al  mondo  dell'esperienza  è  appunto  dedicata  la  seconda  parte  del  poema  di  Parmenide.  Confutate  «  le  opinioni  dei  mortali  »,  quali  si  erano  espresse  nelle  precedenti  cosmologie  naturalistiche  basate  sul  divenire,  Parmenide  non  rinuncia  tuttavia  a  costruire  una  propria  spiegazione  di  questo  mondo,  di  cui  aveva  di- chiarato  la  radicale  inconsistenza  di  fronte  all'assoluto  essere.  Molto  si  è discusso  fra  gli  studiosi  sul  significato  da  attribuire  a  questo  sconcertante  aspetto  del  pen- siero  parmenideo:  fra  le  più  recenti,  le  due  posizioni  estreme  sono  quella  del  Raven,  secondo  cui  l'eleata,  impegnato  nella  polemica  contro  l'indebita  confu- sione  di  razionale  e di  empirico  tipica  dei  suoi  predecessori,  avrebbe  voluto  costrui- re  una  cosmologia  a  base  puramente  empirica,  da  affiancare  alla  dottrina  logico- razionale  dell'essere  in  modo  da  isolare  ancor  più  chiaramente  i  due  momenti;  e  quella  dell'Untersteiner,  che  ritiene  che  il  mondo  dell'essere  e  il  mondo  del- l'esperienza  siano  unificati  nel  pensiero  di  Parmenide  dal  medesimo  metodo  ra- zionale,  in  grado  di  individuare  il  fondamento  di  realtà  presente  anche  nel  se- condo:  una  realtà,  tuttavia,  che  si  differenzia  da  quella  assoluta  in  quanto  immersa  nel  tempo,  e  che  ne  costituisce  perciò  soltanto  una  immagine.  In  ogni  caso  se  ne  può  concludere  che  per  Parmenide  solo  la  ragione  è  un  mezzo  di  conoscenza  veramente  efficace;  solo  essa,  rompendo  la  crosta  delle  ap- parenze,  può  farci  cogliere  l'unità  profonda  del  reale.  L'opposizione  tra  razio- nalismo  ed  empirismo,  che  tanti  sviluppi  avrà  nella  storia  della  filosofia,  trova  proprio  qui  la  sua  prima  radice.  L'essere  di  Parmenide  è  stato  interpretato  da  taluni  in  senso  idealistico,  da  talaltri  in  senso  materialistico.  Enttrambe  queste  interpretazioni  svisano,  però,  il  pensiero  del  grande  eleata,  non  tenendo  conto  che  esso  antecede,  in  realtà,  ogni  consapevole  distinzione  tra  idealismo  e  materialismo.  L'affermazione  di  Parme- nide  che  più  si  presta  ad  una  interpretazione  materialistica  è  quella  che  ci  presenta  l'essere  come  sferico  (cioè  come  una  sfera  piena). Evidentemente  Parmenide  pensa alla  sfera,  perché  la  superficie  sferica  non  è  limitata  da  alcun  perimetro  né  inter- rotta  da  alcuno  spigolo.  Non  si  può  tuttavia  negare  che  la  sfericità  ora  accennata  vada  accolta  con  la  massima  cautela;  se  infatti  la  interpretassimo  alla  lettera,  ca- dremmo  in  contraddizione  con  tutto  l'insegnamento  di  Parmenide,  perché  sa- remmo  costretti  ad  ammettere  l'esistenza  di  un  non-essere  (o  vuoto),  che  è  al  di là  dell'essere  sferico,  e lo  limita.  Essa  va  intesa invece  come  identità  e assolutezza  dell'essere  lungo  tutte  le  direzioni;  come  è  stato  recentemente  osservato,  la  sfera  di  Parmenide  è  più  simile  allo  spazio  curvo  einsteiniano  che  al  solido  euclideo  che  siamo  portati  a  raffigurarci.  L'interpretazione  idealistica  è  d'altra  parte  esclusa  perché  se  il  pensiero  scopre  l'essere,  certamente  non  lo  crea;  anzi  è  piuttosto  l'esistenza  dell'essere  a  rappresentare  la  possibilità  e  la  condizione  del  pensiero,  che  in  esso  culmina  e  con  esso  deve  identificarsi.  Parmenide ha  due  grandi  discepoli:  Zenone  e Melisso.  Il contributo  da  essi  arrecato  all'affinamento  del  pensiero  del  maestro  assicura  loro  un  posto  assai  ragguardevole  nella  storia  della  filosofia.  Entrambi  si  adoperarono  a  difenderne  le  tesi  sia  pure  svolgendo  in  direzioni  opposte  la  tensione  che  vi  era  implicita:  Zenone  cioè  approfondendo  la  problematica  dellogos  nella  sua  crescente  autono- mia, Melisso  invece  sviluppando  il  tema  dell'essere  nella  sua  assolutezza  sostanziale.  Zenone  di  Elea e un  ingegno  acuto,  sottile,  e vigorosamente  polemico.  Per  gl’argomenti  ideati  a  difesa  dell'unità  (intesa  come  omogeneità  e  con- tinuità  non  divisibile  in  parti)  ed  immobilità  dell'essere,  e  per  il  suo  metodo  di  discussione,  Aristotele,  che  li  discusse  a  lungo  nella  “Fisica”,  lo  considera il  fondatore  della  dialettica. L'originalità  del suo metodo consiste nell'assumere  a  punto  di  partenza  la  tesi  da  confutare  e  nel  dedurne  rigorosamente  tutte  le  logiche  conseguenze,  per  mostrarne  la  contraddittorietà  e  di  conseguenza  l'assurdità  della  tesi. Si  occupa  di  politica  e  contribue  notevolmente  al  buon  governo  di  Elea.  Muore  con  grande  fierezza per  aver  cospirato  contro  il  tiranno  della  città  (Nearco  o  Diomedonte).  Sullà  sua  fine  si  tramandano  vari  particolari  che  ne  confermano  l'eccezionale  coraggio. I  celebri  argomenti  di  Zenone  a  difesa  della  filosofia  di  Parmenide  mirano  a  provarci  che,  se  la negazione  del  movimento  e della  molteplicità  può  a prima  vista  apparire  assurda,  l'ammissione  di  essi  conduce  tuttavia  ad  assurdità  ancor  più  gravi,  nascoste,  ma  non  risolte,  dal  linguaggio  ordinario.  Il perno  di  tali  argomenti  consiste  nella  dimostrazione  che,  sia  nella  nozione  di  movimento,  sia  in  quella  di  pluralità,  si  annida  il  delicato  concetto  .di  infinito.  Immaginiamo  che  un  mobile  debba  spostarsi  da  un  estremo  all'altro  di  un  I  Ecco,  per  esempio,  una  versione  dei  suoi  ultimi  istanti:  «  Antistene,  nelle  Successioni,  rac- conta  che  Zenone,  dopo  aver  denunziato come  cospiratori gl’amici  del  tiranno,  fu  da  questi  in- terrogato  se c'era qualche altro complice. Egli rispose:  "  Tu,  la  rovina  della  città.  "  E  poi,  rivolto  ai  presenti,  esclamò:  "Mi  meraviglio  della  vostra  viltà,  se  siete  servi  della  tirannide  per  timore  di  questo  che  ora  io  sopporto."  Da  ultimo,  mozza- tasi  coi  denti  la  lingua,  gliela  sputò  addosso.  I  cittadini  allora,  incitati  da  questo  esempio  abbatte- rono  il  tiranno.  »dato  segmento:  prima  di  aver  percorso.  tutto  il  segmento,  dovrà  averne  percorso  la  metà;  prima  di  questa,  la  metà  della  metà,  e  cosl  via  all'infinito.  In  modo  ana- logo,  se  il  «piè  veloce»  Achille  vuole  raggiungere  la  lentissima  tartaruga,  che  lo  precede  di  un  tratto  s,  egli  dovrà  percorrere:  innanzi  tutto  quella  distanza  s,  poi  il  tratto  s'  percorso  dalla  tartaruga  mentre  Achille  percorreva  s,  poi  il  tratto  s"  percorso  dalla  tartaruga  mentre  Achille  percorreva  s',  e  così  via  all'infinito.  Nel- l'un  esempio  come  nell'altro,  il  fatto- in  apparenza  semplicissimo  - del  mo- vimento,  si  frantuma  dunque  in  infiniti  moti,  sia  pure  sempre  più  piccoli  ma  non  mai  nulli.  Proprio  questa  loro  infinità  è  causa  di  profonde  difficoltà  concettuali,  che  non  possono  non  rendere  perplesso  qualsiasi  uomo  disposto  al  ragionamento.  Quanto  all'argomentazione  di  Zenone  contro  la  molteplicità,  essa  si  svolgeva  così:  supponiamo  che  esistano  due  entità  A  e  B  distinte;  per  il  fatto  di  essere  distinte,  queste  due  entità  devono  risultare  separate  da  uno  spazio  intermedio  C.  Ma  C è  distinto  tanto  da  A  quanto  da  B,  e quindi  esisteranno  altri  d).le  elementi D  ed  E  che  separano  rispettivamente  C  da  A  e  da  B,  ecc.  Poiché  ciò  può  venir  ri- petuto  all'infinito,  se  ne  conclude  che l'ammissione  di  due  entità  distinte  conduce  di  necessità  all'ammissione  di  infinite  entità.  Al  fine  di  porre  luce  sulle  difficoltà  logiche  di  quest'ammissione,  Zenone  passava  poi  a dimostrare  come,  partendo  da  essa,  si  debba  giungere  a negare  l'esi- stenza  di  qualsiasi  lunghezza  finita.  Ed  infatti- così  ragionava- se  gli  elementi  che  costituiscono  un  segmento  AB  sono  infiniti,  o  essi  sono  nulli,  o  non  sono  nulli;  nel  primo  caso  la lunghezza  del  segmento  non  può  essere  che  nulla  (perché  la  somma  di  infiniti  zeri  è  zero);  nel  secondo  non  può  che  essere  infinita  (per- ché  a  suo  parere  la  somma  di  infinite  quantità  diverse  da  zero  sarebbe  infinita).  É  ingiusto  considerare  questi  ragionamenti  zenoniani  (e gli altri che, per brevità, siamo costretti a tralasciare)  quali  semplici  sofismi  o  pseudoragionamenti.  In  realtà,  essi  attirano  efficacemente  la  nostra  attenzione  su  talune  gravissime  difficoltà  dei  due  concetti  di  movimento  e  di  lunghezza,  dovute  all'inevitabile  in- troduzione  dell'infinito,  sia  allorché  si  scompone  un  intervallo  di  tempo  (o  il  moto  attuantesi  in  qtJ.esto  tempo),  sia  allorché  si  scompone  un  segmento.  Questi  argomenti  - che  venivano  ad  aggiungersi  alle  difficoltà  già  ricordate  nell'ultimo  paragrafo  del  capitolo  III,  connesse  alla  scoperta  delle  grandezze  incommensurabili  - suscitarono  presso  i  greci  una  tale  diffidenza  nei  confronti  dell'infinito,  da  persuaderli  a  compiere  qualunque  sforzo  pur  di  escludere  tale  concetto- per  lo  meno  nella  forma  di  «  infinito  attuale  »  1 - da ogni seria  costru-I Si dice che una  grandezza  variabile  costi- tuisce  un infinito  potenziale quando,  pur  as- s~mendo  sempre  valori  finiti,  essa  può  crescere  al  di  là  ~i  ?gni  limite;  se  per  esempio  immaginiamo  di  suddividere  un  dato  segmento  con  successivi  di- mezzamenti,  il  risultato  ottenuto  sarà  un  infinito  pot~nziale  perché  il  numero  delle  parti  a  cui  per- ventamo,  pur  essendo  in  ogni  caso  finito,  può  crescere  ad  arbitrio.  Si  parla  invece  di  infinito  attuale quando  ci  si  riferisce  ad  un  ben  determi- nato  insieme,  effettivamente  costituito  di  un  nume- ro  illimitato  di  elementi;  se  per  esempio  immagi- niamo  di  avere  scomposto  un  segmento  in  tutti  i  suoi  punti,  ci  troveremo  di  fronte  a  un  infinito  attuale  perché  non  esiste  alcun  numero  finito  che  riesca  a  misurare  la  totalità  di  questi  punti. zione  scientifica.  Oggi  noi  abbiamo  imparato,  con  l'analisi  infinitesimale  e  con  la  teoria  degli  insiemi,  a  trattare  con  disinvoltura  l'infinito  matematico  (sia  l'infi- nito  potenziale  sia  quello  attuale);  proprio  perciò  tuttavia  ci  rendiamo  conto  che  le  difficoltà  incontrate  dai  greci  erano  effettive,  non  artificiose,  e  possiamo  affer- mare  con  piena  consapevolezza  che  non  erano  certo  dovute  a  volgari  errori  di  logica,  non  erano  dei  «  sofismi  »  nel  senso  usuale  del  termine.  Dal  punto  di  vista  dell'eleatismo,  il  metodo  scelto  da  Zenone  per  difendere  le  posizioni  di  Parmenide  poneva  tuttavia  la  premessa  di  una  loro  crisi  e  di  un  loro  superamento.  Lo  spregiudicato  uso  logico-matematico  che  egli  faceva  del  logos  non  si  muoveva  più  sulla  via  di  una  identificazione  del  logos  stesso  all'essere,  del  riconoscimento  di  una  realtà  scoperta  dal  pensiero  ma  in  cui  il  pensiero  doveva  confondersi;  Zenone  poneva  piuttosto  le  premesse  per  uno  svincolamento  del  discorso  logico-matematico  dalla  realtà,  e  lavorava  quindi  oggettivamente  alla  rottura  di  quella  unità  discorso-pensiero-essere  che  caratterizzava  la  «vera  via»  proposta  dal  grande  maestro  di  Elea.  La  figura  di  Melisso  è  assai  diversa  da  quella  di  Zenone.  Nato  a  Samo  quasi  contemporaneamente  a  Zenone,  egli  trascorse  tutta  la  vita  nella  propria  isola,  ove  ricoprì  importanti  cariche  politico-militari.  Basti  ricordare  che  fu  capo  della  flotta  con  cui  Samo  sconfisse  gli  ateniesi.  La  sua  permanenza  a  Samo  co- stituì,  in  certo  modo,  il  ponte  ideale  attraverso  cui  l'insegnamento  eleatico  per- venne  dalla  Magna  Grecia  nell'Asia  Minore.  La  lunga  lotta  fra  Mileto  e  Samo  può  del  resto  contribuire  a  spiegare  l'abban- dono  melisseo  della  tradizione  ionica;  una  tradizione,  tuttavia,  che  continuò  ad  operare  indirettamente  nel  suo  pensiero  condizionando  in  senso  realistico  la  sua  riforma  dell'eleatismo,  in  contrapposizione  all'indirizzo  prevalentemente  logico  che  quest'ultimo  aveva  assunto  in  Zenone.  Più  che  alla  difesa  delle  teorie  del  maestro,  Melissa  si  dedicò  infatti  al  loro  sviluppo  e  alla  loro  integrazione.  Abbandonatane  l'iniziale  carica  logico-verbale  e  metodica,  Melissa  si  propose  una  più  coerente  deduzione  dei  caratteri  sostanziali  e  antologici  dell'essere.  Egli  fu  il  primo  ad  insistere  sul  suo  carattere  di  unità,  che  rappresentava  più  adeguata- mente  in  senso  spaziale  e  temporale  la  «totalità»  dell'essere  parmenideo,  e  so- prattutto  sulla  sua  infinità.  Melissa  afferma  in  proposito  che  non  è  possibile  interpretarlo  come  sferico  (per  le  difficoltà  accennate  alla  fine  del  paragrafo  n)  bensì  lo  si  deve  concepire  come  infinito  o  illimitato  sia  nello  spazio  sia  nel  tempo.  Per  analoghe  ragioni  egli  negò  che  si  potesse  ammettere,.  nell'uno,  una  qualsiasi  sofferenza  o  dolore  o  altra  passione,  perché  ciò  provocherebbe  in  lui  una  specie  di  perturbazione  e  quindi  ne  diminuirebbe  l'unità  e  immobilità.  Quest'ultimo  argomento  sembra  mostrare  come  Melissa,  sulla  traccia  della  teologia  di  Senofane  e  della  tradizione  ionica,  dovette  interpretare  l  'unico  essere  come  dotato  di  vita:  una  vita,  probabilmente,  identica  al  pensiero,  secondo  l'equa- zione  parmenidea  che  abbiamo  già  esposto.  Secondo  la  tradizione,  Melissa  avrebbeanche  definito  l'essere  come  incorporeo,  il che  contrasta  con  la  sua  infinita  esten- sione  spaziale  e  con  la  negazione  eleatica  del  vuoto  :  ciò  mette  a  nudo  in  realtà  una  profonda  contraddizione  dell'eleatismo,  che  non  poteva  concepire  la  realtà  come  puramente  intelligibile  ed  incorporea,  ma  tuttavia  tentava  di  attribuirle  tutte  le  caratteristiche  di  pura  intelligibilità  richieste  da  un  pensiero  filosofico  ormai  maturo.  L'incorporeità  dell'uno  melisseo  significava  dunque  soltanto  che  esso  era  invisibile  e  illimitato  da  qualsiasi  forma  o  corpo  tangibile;  e  significava  al  tempo  stesso  il  portare  al  limite  una  contraddizione  già  implicita  in  Parmenide  del  cui  superamento  avrebbe  grandemente  beneficiato  il pensiero  posteriore.  L'avere  reso  l'essere  infinito  nello  spazio  e  nel  tempo  impediva  a  Melissa  di  accettare  la  bipartizione  parmenidea  tra  realtà  atemporale  e  mondo  sensibile  temporale:  a  quest'ultimo  doveva  venir  negata  qualunque  sia  pur  secondaria  sussistenza,  ed  è infatti  alla  negazione  dell'esistenza  e della  concepibilità  delle  cose  sensibili  che  Melissa  dedica  alcune  delle  sue  argomentazioni  più  suggestive.  Perché  una  cosa  qualsiasi,  egli  dice,  possa  essere  conosciuta,  pensata  ed  esistere,  essa  dovrebbe  essere  sempre  identica  a  se  stessa,  assolutamet?-te  immobile  ed  immuta- bile  nello  spazio  e  nel  tempo,  giacché  una  minima  modificazione  ne  farebbe  una  cosa  diversa  e  così  via  all'infinito;  dovrebbe  dunque  avere  le  stesse  caratteristiche  dell'uno.  Proprio  questo  argomento,  che egli  intendeva  come  una  sfida  contro  il  pluralismo,  sarebbe  stato  rovesciato  e  raccolto  dalla  corrente  estrema  del  plura- lismo,  quella  atomistica:  si  può  dire  infatti  che  l'atomismo  attribuì  alle  sue  in- finite  unità  fisiche  proprio  tutte  le  caratteristiche  dell'uno  melisseo,  ad  eccezione  dell'immobilità  che  non  era  più  necessaria  dato  il riconoscimento  del  vuoto.  Con  Zenone  e  con  Melissa,  l'arco  dell'eleatismo  si  conclu<i.e  così,  sia  sotto  la  spinta  di  contrapposte  esigenze  logiche  e  naturalistiche  che  esso  aveva  cercato  di  stringere  in  una  compatta  unità,  sia  per  l'insorgere  di  problemi  che esso  stesso  aveva  per  la  prima  volta  portato  in  luce  e  chiarito,  ma  che  non  potevano  essere  risolti  nel  suo  ambito.  L'eleatismo  era  comunque  destinato  a  restare  una  pietra  miliare  nel  pensiero  greco,  un  imperativo  richiamo  alla  soluzione  di  alcuni  fra  i  più  profondi  problemi  filosofici.  La  sua  importanza  fu  enorme  anche  nella  storia  del  pensiero  scientifico,  soprattutto  - come  abbiamo  più  sopra  spiegato  - per  quanto  riguarda  l'affi- namento  delle  esigenze  logiche.  Vale  la  pena  ricordare  le  parole  con  cui  questo  contributo  degli  eleati  è  sottolineato  in  una  recente,  autorevolissima,  storia  della  matematica,  Eléments  d'  histoire  des  mathématiques del gruppo Bourbaki: Il tenore degli scritti filosofici subisce un  brusco  cambiamento  : i  filosofi  affermano  o  preconizzano  (o  tutt'al  più  abbozzano  vaghi  ragionamenti,  fondati  su  altrettanto  vaghe  analogie),  a  partire  da  Parmenide  e  so- prattutto  da  Zenone  essi  "  argomentano  "  e  cercano  di  ricavare  dei  principi  generali  che  possano  servire  di  base  alla  loro  dialettica:  appunto  in  Parmenide  si  trova  la  prima  affermazione  del  principio  del  "  terzo  escluso  ";  e le  dimostrazioni  "  per  assurdo  "  di  Zenone  di  Elea  sono  rimaste  celebri.  »  Anzi,  il  richiamo  so- pra  ricordato  di  Aristotele  a  Zenone  come  fondatore  della  dialettica,  sembra  appunto  riferirsi  all'attribuzione  all'eleate  della  scoperta  e  dell'impiego  della  reductio  ad  impossibile  in  metafisica  (suggerito  peraltro  a  Zenone,  probabil- mente,  dall'impiego  che  di  tale  forma  di  ragionamento  veniva  fatto  dai  mate- matici  pitagorici. Nato  ad  Agrigento  intorno  al49o  e  morto  verso  H 430,  Empedocle  riassunse  nella  propria  vita  tanto  la  ricchezza  di  umori  della  sua  terra  natale,  quanto  la  grandezza  e  l'ambiguità  del  suo  pensiero.  L'entusiasmo  per  la  natura  e  la  varietà  dei  suoi  fenomeni,  il  profondo  senso  religioso  che  connetteva  uomini,  dei  e  fysis  in  intimi  legami;  la  violenza  delle  passioni  politiche,  l'ansia  della  salvezza  e  il  senso  del  tragico:  di  questi  caratteri  della  Sicilia  greca  Empedocle  fu,  prima  che  interprete,  pienamente  partecipe.  Capeggiò  la  fazione  democratica  della  sua  città;  esiliato  nel  Peloponneso,  si  recò  in  seguito  ad  assistere  alla  fondazione  di  Turi,  dove  poté  probabilmente  incontrare  Protagora,  Erodoto  ed  Ippodamo;  non  è  da  escludere  un  suo  contatto  diretto  con  gli  eleati.  Seguendo  l'uso  ar- caico,  scrisse  in  versi;  uno  dei  suoi  poemi,  Sulla  natura  (Perì  Jjseos),  trattava  argo- menti  cosmologici  e  naturalistici,  l'altro,  le  Puriftcazioni  (Katharmoi),  aveva  ca- ratteristiche  spiccatamente  mistico-religiose.  Il  rapporto  cronologico  fra  queste  opere  e  quelle  di  Melissa  e  di  Anassagora  è  incerto;  sembra  tuttavia  che  egli  le  abbia  composte  prima  di  quest'ultimo.  La  tensione  fra  i  due  aspetti  della  perso- nalità  di  Empedocle  - tuttavia,  come  vedremo,  profondamente  interrelati  - ap- pare  già  dall'argomento  dei  suoi  due  poemi;  e  si  riflette  in  quanto  ci  è  noto  della  sua  vita,  pur  attraverso  le  molte  leggende  di  cui  fu  ben  presto  ammantata.  Stu- dioso  di  fysis,  amava  presentarsi  come  profeta  e  capo  religioso,  e  vagava  per  le  città  di  Sicilia  seguito  da  turbe  di  seguaci  entusiasti;  teorico  di  biologia  e  di  micina  - anzi  fondatore  di  una  scuola  di  medicina  scientifica  - si  considerava  però  guaritore  e  iatromante  alla  stregua  di  Apollo,  e  vantava  la  capacità  di  ope- rare  miracoli;  conoscitore  attento  ed  esperto  delle  technai,  si  atteggiava  tuttavia  a  mago.  Interessante  è  il  caso  del  suo  intervento  a  Selinunte:  la  città  soffriva  di  un'epidemia,  dovuta  alle  acque  infette  del  suo  fiume, che  veniva  attribuita  agli  dei;  accorsovi,  Empedocle  risanò  la  città  con  incantagioni  e  magia  (di  fatto  rea- lizzando  la  confluenza  di  altri  due  fiumi  a  monte  di  Selinunte  per  purificare  le  acque  del  primo).  «Sciocchi!  giacché  non  hanno  pensieri  di  larga  veduta;  essi  credono  che  possa  nascere  ciò  che  prima  non  era  o  che  qualcosa  possa  perire  e andar  del  tutto  distrutta  ...  E  un'altra  cosa  ti dirò:  non  c'è  nascita  alcuna  di  tutte  le  cose  mortali,  né  alcuna  fine  di  morte  funesta;  ma  solo  mescolanza  e  cangiamento  di  cose  commiste,  e  nascita  si  chiama  fra  gli  uomini.  »  In  queste  parole  Empedocle  esprime  limpidamente  la  misura  della  sua  accettazione  dell'eleatismo  e  insieme  le  prospettive  della  sua  soluzione.  L'impossibilità  che  ciò  che  è  derivi  da  ciò  che  non  è  o  vi  si  dissolva  si  impone  al  filosofo  di  Girgenti come  il  requisito  fondamentale  della  realtà  e  della  pensabilità  del  mondo;  e  perciò  egli  non  può  considerare  se  non  come  follia  il  pensiero  pre-eleatico.  Tuttavia,  proprio  in  Melisso egli  trovava  la  chiave  del  riconoscimento  della  molteplicità  del  mondo;  giacché  bastava  riconoscere  i caratteri  dell'  «uno»  melisseo  -l'identità  nello  spazio  e  la  permanenza  temporale  - a  un  certo  numero  di  realtà  distinte,  perché  da  esse  si  potesse  dedurre  l'intera  varietà  del  molteplice.  Certo,  tale  soluzione  cozzava  pur  sempre  contro  gli  imperativi  logico-metodici  di  Parmenide;  ma,  come  si  è  visto,  Melisso aveva  già  avviato  la  loro  ontologizzazione,  cioè  la  loro  trasformazione  in  realtà  spazio-temporale:  aveva  insomma  avviato,  nel  linguaggio  dell'epoca,  la  trasformazione  dell'essere  in  «pieno».  Da  questa  prospettiva  melissea  prendeva  propriamente  le  mosse  Empedocle  - come  ha  messo  in  luce  il  Calogero  - giacché  essa  corrispondeva  alla  sua  esigenza  di  dar  conto  del  mondo,  nella  sua  varietà  quale  si  offre  ai  sensi,  nella  sua  segreta  unità  quale  è  colto  dall'anima,  nella  sua  realtà  cui  il  pensiero  non  può  rifiutarsi.  Nel  suo  presentarsi  alla  nostra  osservazione,  la  realtà  appare  indefinitamente  diversa  eppure  connessa  da  ritmi,  da  cicli,  da  permanenze  che  ne  formano  la  struttura  unitaria;  così  come  accade  per  l'organismo  vivente,  mutevole  eppure  uno,  la  realtà  appare  un  tessuto  variegato  di  poche  sostanze  semplici,  un  divenire  scandito  dal  ciclo  delle  stagioni,  della  generazione,  degli  astri.  Fedele  per  istinto  alla  verità  dell'osservazione,  Empedocle  concepiva  dunque  il  mondo  come  un  organismo  unitario  vivente  e  senziente,  del  quale  nessuna  parte  poteva  venire  arbitrariamente  amputata  e  tutte  dovevano  avere  una  loro  profonda  giustifica- zione.  Se  questo  punto  di  vista  ilozoico  doveva  trovare  una  spiegazione  non  mitica,  una  più  universale  razionalizzazione,  occorreva  infondervi  i  requisiti  melissei del  vero;  occorreva,  una  volta  reso  molteplice  l'«  uno»,  trovare  un'armonia  tra  questo  vero  molteplice  e  la  molteplicità  dell'esperito.  Da  questa  esigenza  nasce  il  sistema  cosmico  di  Empedocle,  una  delle  più  potenti  sintesi  teoriche  del  pensiero  greco.  Alla  base  del  sistema  stanno  i  quattro  elementi,  o  piuttosto  «  radici  »  come  li  chiama  Empedocle  stesso  con  un  termine  che  meglio  corrisponde  alla  sua  vi- sione  vitalistica  del  mondo:  la  terra,  l'acqua,  il  fuoco,  l'aria  (o  meglio  l'etere).  Tali  elementi  non  sono  nuovi  nella  filosofia  presocratica:  si  pensi  all'acqua  di  Talete,  al  fuoco  di  Eraclito  e  così  via.  In  tutti  questi pensatori il  processo  era  consistito  nell'assumere  una  zona  dell'osservazione  empirica  alla  funzione  pri- vilegiata  di principio  o  arché  di  .fJ'Sis;  nel  rendere  quindi  assoluti  alcuni  dati  dell'esperienza  per  usarli  come  chiave  di  comprensione  e  di  spiegazione  dell'e- sperienza  nella  sua  totalità.  Identico  è  l'approccio  fondamentale  di  Empedocle:  un'analisi  dell'osservazione  lo  porta  a  scoprire  in  ciò  che  è  osservato  alcune  costanti  fondamentali,  che  una  volta  generalizzate  e  rese assolute,  valgono  a  spiegare  l'osservato  - di  cui  sono  costituenti  essenziali  - e  l'osservazione  stessa  - di  cui  sono  canoni  imprescindibili.  Merito  specifico  di  Empedocle  è  tuttavia  quello  di  aver  isolato,  sia  dall'osservazione  diretta  sia  dalla  precedente  riflessione  naturalistica,  tutte  e  solo  quelle  costanti  che  potessero  valere  da  ra- dici,  senza  che  si  fosse  costretti,  contro  l'imperativo  eleatico,  a  postulare  il  mu- tamento  di  una  radice  in  qualcosa  diverso  da  sé  (come  avevano  dovuto  fare  i  monisti  ionici),  né  ad  immaginarne  un  numero  eccessivo,  che  avrebbe  ostacolato  la  semplificazione  e  quindi  la  possibilità  di  comprensione  dell'esperienza.  Ad  ognuna  delle  quattro  radici  Empedocle  attribuiva  dunque  lo  status  del- l'«  uno»  melisseo:  l'infinità  e  l'immutabilità  nello  spazio  e  nel  tempo,  l'essere  ingenerati  e  imperituri,  e  di  conseguenza  l'assoluta  realtà  e  intelligibilità.  Ciò  non  significava  tuttavia  negare  la  realtà  degli  infiniti  altri  oggetti  dell'esperienza:  ogni  singolo  ente  è  il  risultato  di  una  mescolanza  delle  radici,  la  sua  nascita  è  la  formazione  della  mescolanza  e  la  sua  morte  ne  è  lo  scioglimento;  benché  in  tali  mescolanze  le  radici  entrino  sotto  forma  di  porzioni  frazionali,  neppure  nella  minima  di  esse  perdono  alcuna  delle  loro  proprietà.  L'individualità  specifica  di  ogni  composto  gli  deriva  dalla  diversa  proporzione  dei  componenti  (così  ad  esempio  le  ossa  sono  formate  da  due  parti  di  acqua,  due  di  terra,  quattro  di  fuo- co;  il  sangue  dal  miscuglio  perfetto  I  :I :I  :I).  Si  è  visto  in  questa  dottrina  di  Em- pedocle  un'anticipazione  della  chimica,  il  che  può  anche  essere  accettato  qualora  non  si  dimentichi,  però,  che  le  radici  empedoclee  non  solo  erano  concepite  come  viventi  ma  anche  come  divinità  creatrici,  in  stretto  rapporto  con  la  cosmogonia  orfica.  Se  le  quattro  radici  potevano  spiegare,  nel  loro  vario  comporsi,  la  molte- plicità  del  mondo,  esse  non  davano  tuttavia  conto  del  suo  infinito  divenire,  del  formarsi  e  dello  sciogliersi  dei  composti;  unificavano  cioè  il  reale  in  senso  sin- cronico  ma  non  diacronico.  Empedocle  introdusse  quindi  altri  due  principi,  questpiù  spiccatamente  dinamici:  «  amicizia»  e  «  discordia».  Come  le  quattro  radici  rappresentavano  una  generalizzazione  dell'osservazione  naturale,  così  queste  due  «forze»  rappresentano  una  generalizzazione  dell'esperienza  psichica,  e  perciò  allargano  a  tale  settore  la  capacità  di  comprensione  e  di  spiegazione  del  sistema.  Nel  mondo  di  Empedocle  non  era  tuttavia  pensabile  una  distinzione  radicale  delle  due  sfere,  come  abbiamo  osservato  in  sede  introduttiva,  ma  piuttosto  una  diversa  funzionalità  della  medesima  realtà:  come  le  radici  sono  a  loro  volta  viventi,  così  «  amicizia  »  e  «  discordia  »  sono  coestese  e  coeterne  ad  esse,  e  dunque  non  meno  di  esse  «reali».  «Amicizia·»  simbolizza  nel  sistema  l'attrazione  del  dissimile,  cioè  l'impulso  che  spinge  le  diverse  radici  a  fondersi  reciprocamente  dando  luogo  a  composti  sempre  più  stabili;  «discordia»  rappresenta  invece  l'attrazione  del  si- mile,  cioè  la  forza  che  spinge  ogni  radice  a  restare  coesa  a  se  stessa,  sciogliendo  qualsi.asi  composto.  Questi  due  principi  sono  stati  interpretati  come  cause  in  senso  aristotelico  e  anche,  modernamente,  come  le  forze  elettromagnetiche  di  attrazione  e  repulsione.  Benché  anche  questi  siano  possibili  sviluppi  del  pensiero  empedocleo,  va  ribadito  che  nel  suo  quadro  «amicizia»  e  «  discordia»  rappre- sentavano  soprattutto  le  funzioni  essenziali  di  una  realtà  vivente,  in  cui  causa  e  causato,  forza  e  materia  non  potevano  essere  distinte  se  non  in  modo  simbolico,  non  erano  che  aspetti  profondamente  connessi  di  un  unico  mondo;  mentre  poi  esse  rappresentavano  l'aggancio  più  immediato,  come  vedremo,  alle  vedute  religiose  e  morali,  che  a  quel  mondo  non  potevano  certo  essere  eterogenee.  Funzione  primaria  delle  forze  nel  sistema  era  comunque  quella  di  promuovere  il  divenire.  Poiché  tale  divenire  non  poteva  dar  luogo  ad  alcun  mutamento  dei  suoi  contenuti  fondamentali,  secondo  il  divieto  eleatico,  esso  non  poteva  pre- sentarsi  che  come  ciclo:  solo  nel  ciclo  si  dà  infatti  ripetizione  perpetua  dei  me- desimi  eventi  e  delle  medesime  strutture,  solo  il  ciclo  concilia  le  sembianze  del  divenire  (l'esperienza  umana  non  può  carpirne  che  una  piccola  frazione  e  ha  dunque  l'impressione  del  mutamento)  con  la  verità  del  permanere,  rivelata  a  chi  penetri  nell'intimo  della  natura.  Nel  periodo  cosmico  di  assoluta  prevalenza  di  «amicizia»,  ognuna  delle  radici  è così  strettamente  congiunta  alle  altre  che  nessun  singolo  ente  sussiste  di  per  sé:  «Non  v'è  discordia  né  infausta  contesa  nelle  sue  membra  ...  Non  più  si  distinguono  in  esso  le  agili  membra  del  sole,  né  la  forza  villosa  della  terra,  né  il  mare,  tanto  fortemente  sta  legato  nei  fitti  segreti  del- l'armonia,  d'ogni  parte  uguale  e  per  tutto  infinito,"  sfero  "rotondo  che  gode  della  sua  solitudine  circolare.  »  Nello  «  sfero  »  è  facile  individuare  l'«  uno»  eleatico,  non  tuttavia  visto  come  unico  possibile  assetto  della  realtà,  ma  conquistato  dalla  vittoria  di  un'armonia  di  schietta  derivazione  pitagorica;  qui  emerge  anche  il  valore  religioso  e  morale  di  «amicizia»,  che  significa  concordia  e  pace  nel  cosmo  e fra  gli  uomini. Agli antipodi sta il trionfo  di  « discordia»,  che  vede  ognuna  delle  radici  ritratta  in  se  stessa  e  ostile  alle  altre,  il  che  parimenti  significa  la  fine  del  mondo  quale  noi  lo  esperiamo  e  comporta  la  negazione  dei  valori  etico-religiosiFra  i  due  opposti  regni,  stanno  le vaste  regioni  in  cui  «discordia»  viene  prevalendo  su  «amicizia»,  e  quindi  scioglie  le radici  dal  loro  complesso  senza  tuttavia  contrap- porle  del  tutto;  qui  si  situa  una  prima  generazione  del  molteplice;  e  l'altra  dove  «amicizia»  si  a.dopera  a  ricomporre  l'unità  senza  poter  ancora  scacciare  del  tutto  «discordia»,  sicché  il  processo  di  unificazione  è ancora  frammentato  in  una  mol- teplicità  di  enti:  ed  è  questa  la  seconda  generazione  del  mondo  che  noi  osser- viamo.  Va  detto  che  mentre  il  ciclo  nel  suo  insieme  è  determinato  dalla  neces- sità  (ananke),  la  formazione  dei  singoli  composti  è  affidata  al  caso  (ryche)  e  che  quindi  la  natura  che  noi  esperiamo  consta  della  sintesi  di  necessità  e  di  caso.  Questa  veduta  è  importante  per  la  comprensione  di  molte  posizioni  della  scienza  naturale  greca.  Come  si  articoli  concretamente  il  ciclo  nelle  due  fasi  intermedie  è  mostrato  più  chiaramente  da  Empedocle  a  proposito  degli  organismi  viventi,  cui  andava  il  suo  prevalente  interesse  (non  a  caso  è  possibile  paragonare  l'intera  vita  cosmica  alle  sistole  e diastole  del  cuore,  e  lo  «  sfero  »  appare  assai  vicino  all'«  uovo  »  origi- nario  presente  nel  culto  orfico  ).  All'inizio  del  ciclo  di  «amicizia»,  in  un  mondo  ancora  dominato  da  «  discordia»,  si  venivano  formando  membra  ed  arti  separati:  « Sulla  terra  spuntarono  teste  senza  colli,  ed  erravano  braccia  nude  prive  di  spal- le,  vagavano  occhi  soli  sprovvisti  di  fronti»;  poi  queste  membra  si  congiungono  a  caso  dando  luogo  a  mostri  d'ogni  specie:  «e  molti  esseri  nascere  con  doppie  facce  e  petti,  e  buoi  con  facce  d'uomini,  o  invece  sorgere  busti  umani  con  teste  bovine,  e  forme  miste  di  maschi  e  di  femmine,  provviste  di  membra  villose.  »  Ma  la  gran  parte  di  queste  forme  viventi  perivano,  sopravvivendo  solo  quelle  più  adatte  alle  condizioni  di  vita  perché  meglio  organizzate  nella  propria  strut- tura.  È  interessante  notare  che  in  questo  processo  è  assente  qualsiasi  idea  di  finalismo  preordinato;  i  viventi  si  aggregano  a  caso,  ed  è  la  selezione  naturale  che  decide  della  sopravvivenza  di  alcuni  di  essi.  Nell'opposto  processo  di  «di- scordia»,  che  viene  disgregando  l'unità  cui  «amicizia»  era  finalmente  giunta,  si  formano  dapprima  creature  complete,  omogenee;  ma  una  separazione  successiva  dà  luogo  alle  creature  del  mondo  in  cui  viviamo,  differenziate  per  sessi  e  per  la  prevalenza  in  esse  di  una  delle  radici  (così  nella  costituzione  dei  pesci  prevale  l'acqua,  ecc.).  Abbiamo  già  visto  come  la  struttura  del  nostro  organismo  fosse  interpretata  da  Empedocle  mediante  la  composizione  delle  radici  in  diverse  proporzioni.  A  spiegare  la  compenetrazione  reciproca  delle  radici,  e  i  maggiori  fenomeni  vitali,  quali  la  respirazione  1  e  il  movimento  del  sangue, Empedocle  concepiva I  Il  resoconto  della  respirazione  va  ripor- tato  per  la  sua  originalità  e  tipicità.  Il  sangue  si  muove  entro  pori  i  cui  fori  terminali  sono  abba- stanza  piccoli  da  non  permettergli  di  fuoriuscire,  sufficienti  però  per  lasciar  entrare  l  'aria  nel  corpo.  !utta  la  spiegazione  è  costruita  per  analogia  con  ti  funzionamento  della  clessidra  o  pipetta  per  il  travaso  dei  liquidi  da  un  recipiente  all'altro.  Al- lorché  il  sangue  si  ritrae  dai  pori,  esso  attira  l'aria  che  irrompe  nel  vuoto  così  formatosi:  si  ha  così  l'inspirazione.  Quando  il  sangue  torna  ad  af- fluire,  esso  espelle  l'aria  dando  luogo  all'espira- zione l'organismo  come  percorso  da  una  fitta  rete  di  pori  o  canaletti  (una  teoria  in  parte  derivata  da  Alcmeone),  la  cui struttura  e le  cui  dimensioni  giocavano  altresì  una  parte  importante  nel  meccanismo  della  sensazione.  Esso  è  spiegato  dal  filosofo  di  Agrigento  mediante  gli  efflussi  materiali  che  ogni  corpo  emette  e  che,  giungendo  a  contatto  del  senziente,  possono  o  meno  penetrare  attraverso  i  pori  nel  suo  organismo  a  seconda  delle  reciproche  dimen- sioni;  g~i  efflussi  sono  determinati  dall'attrazione  del  simile,  che  spinge  le  radici  a  ricongiungersi  attraverso  la  varietà  dei  singoli  enti.  La  spiegazione  è da  un  lato  meccanicistica,  dall'altro  vitalistica  perché  appunto  fondata  sull'intrinseca  «ani- mazione  »  del  corporeo;  di  conseguenza  Empedocle  attribuiva  la  sensazione,  sia  pure  in  gradi  diversi,  a  qualsiasi  ente,  perché  ognuno,  anche  quelli  ai  nostri  occhi  inanimati,  era  in  qualche  misura  partecipe  della  grande  vita  del  cosmo.  Il  pensiero  non  è  per  Empedocle  qualitativamente  diverso  dalla  sensazione. Contro  le  scoperte  alcmeoniche,  ed  introducendo  una  veduta  destinata  ad  eserci- tare  profonda  influenza,  egli  pose  la  sede  del  pensiero  e  dell'attività  razionale  nel  sangue,  esattamente  in  quello più  puro,  prossimo  al cuore  che  ne  è la  fonte.  Poiché  il  sangue,  come  si  è  visto,  consta  di  una  mescolanza  perfetta  delle  radici,  esso  è  il  più  atto  a  riflettere  la  struttura  del  mondo,  essendole  più  omogeneo.  Non  v'è  ovviamente  per  Empedocle  opposizione  tra  pensiero  e  sensi,  giacché  entrambi  convogliano,  con  meccanismi  fondamentalmente  analoghi,  il messaggio  profondo  di  una  natura  che  non  può  essere  fallace  in  alcuna  delle  sue  manifestazioni.  Poiché  l'uomo  è  omogeneo  al  mondo,  la  verità  della  sua  conoscenza  del  mondo  non  di- pende  né  dai  metodi  né  dai  linguaggi  che  egli  impiega;  in  tal  senso,  sparisce  il  problema  della  «via»  parmenidea  e  del  suo  sempre  difficile  rapporto  con  il reale.  L'uomo  è generato  dalle  stesse  radici  e animato  dalle  stesse  forze  che  generano  e  animano  il  mondo  nella  sua  totalità;  egli  riflette  il  mondo  in  se  stesso,  lo  «  com- prende»  proprio  perché  ne  ritrova  dentro  di  sé  l'immagine  rimpicciolita.  Il  san- gue  è pensiero  perché  il  sangue  è principio  vitale  e secondo  Empedocle  conoscere  è propriamente  vivere  fino  in  fondo  la  vita  dell'universo,  sperimentarne  la  molte- plicità  e l'unità,  l'eternità  ciclica,  gli  intimi  legami  che  tutto  quanto  lo  connettono.  Sparita  così  la tensione  tra  vero  e reale,  tra  uomo  e  mondo,  tra  mondo  e divi- nità,  sparisce  anche  la  presunta  contraddizione  tra  i  due  aspetti  della  personalità  di  Empedocle,  quello  «  fisico  »  e quello  «  magico  ».  Ragione  e mito  non  sono  che  due  forme  di  un  identico  conoscere,  due  funzioni  di  un'unica  realtà.  La  conoscenza  razionale  è esposizione  discorsiva  ed  analitica  della  molteplidtà  del  mondo  quale  essa  risulta  dall'azione  di«  discordia?>  e ci  è rivelata  dai  sensi;  ma  il  suo  scopo  è  quello  di  rivelarci  la  verità  di  questa  molteplicità  dando  conto  dell'unità  che  la  informa  e  della  necessità  che  la  domina.  D'altra  parte,  la  conoscenza  mitica  è  penetrazione  intensiva  di  questa  unità  e necessità,  è  il  porsi  per  così  dire  dal  punto  di  vista  dello  «  sfero  »  che  simbolizza  l'unità  da  un  punto  di  vista  sia  fisico,  sia  religioso,  sia  morale;  è drammatica  consapevolezza,  tuttavia,  della  necessità  del  ci-do  e  dd  molteplice,  nel  loro  decadere  dall'età  aurea  e nel  loro  fatale  tornarvi. 1  Di  qui  le  «  purificazioni  »,  di  qui  la  dottrina  pitagorizzante  della  metempsicosi  che  adegua  la  sorte  dell'anima  al  ciclo  cosmico.  E  la  via  alla  purificazione  etico-reli- giosa  è ancora  una  volta,  per  Empedocle,  quella  di  vivere  fino  in  fondo  la vicenda  -per  il singolo  uomo,  il  dramma- dell'uno  e dei  molti,  del  tempo  e dell'eterno,  della  necessità  e del  caso;  la  via  della  purificazione  è quella  che  conduce  nel  cuore  profondo  della  natura  che  sola  giustifica  l'uomo  e  il  suo  destino,  che  sola  gli.  concede  conoscenza  e  potenza  nel  tempo,  salvazione  nell'eternità.  Sicché  la  leg- genda  della  morte  del  filosofo  sparito  nella  voragine  dell'Etna  bene  esprime,  sotto  questo  aspetto,  la  vocazione  del  pensiero  empedocleo.  Si  intende  così  anche  il senso  dell'ambiguo  atteggiamento  di  Empedocle  verso  le  technai,  e del  suo  interesse  profondo  per  quelle  che  consentissero  un  immediato  controllo  della  natura  (la.  medicina,  le  tecniche  manifatturiere,  la  fisica;  mentre  la  matematica  gli  doveva  sembrare  irrimediabilmente  lontana  dal  mondo  della  vita  e  quindi  sterile).  Non  v'è  nulla  di  più  ingiusto  dell'immagine  trasmessaci  dalla tradizione  di  un  Empedocle  abile  medico  e  tecnologo  che  ciarlatanescamente  am- mantava  di  magia  i  suoi  successi  per  guadagnarne  in  prestigio.  In  realtà,  l'oppo- sizione  fra  technai  e magia  sarebbe  sembrata  assurda  ai  suoi  occhi.  Al  culmine  della  sua  capacità  di  penetrazione  e  di  controllo,  la  techne  aderisce  così  compiutamente  all'intima  vita  del  mondo  da  diventarne,  dall'interno,  una  forza  agente:  il  «mi- racolo»  è  una  possibilità  di  fysis  che  techne  porta  alla  luce  (non  troppo  diverse  dovevano  essere  le  vedute  degli  alchimisti  rinascimentali).  Techne  si  situa  dunque  al  crocevia  di  conoscenza  razionale-discorsiva  e  conoscenza  mitico-intensiva;  come  il  problema  del  rapporto  tra  uomo  e  mondo,  tra  conoscenza  e  realtà  s'era  tendenzialmente annullato nell'unità della vita del cosmo,  così a  techne,  allorché  muova  dalla  consapevolezza  della  struttura del reale, basta foggiarsi via via ad immagine e simiglianza della  natura  per  poter  penetrare  sempre  più  profonda- mente  in  essa,  per  paterne  acquisire  un  sempre  maggiore  controllo.  Disvelandosi  all'osservazione  dell'uomo,  la  natura  gli  aveva  donato  la  conoscenza;  offrendosi  ad  una  techne  che  ne  sappia  comprendere  i  segreti,  essa  gli  concede  l'accesso  alla  potenza:  sicché  alla  fine,  nel  volgere  del  ciclo,  l  'uomo  diviene  «  profeta,  bardo,  medico  e  principe  »,  pari  agli  dei  immortali,  come  Empedocle  proclamava  di  se  stesso.  Data  la  natura  della  conoscenza  e delle  technai,  è chiaro  come  per  il filosofo  di  1  «V'è  un  oracolo  del  fato,  antico  decreto  degli  dei,  suggellato  da  larghi  giuramenti:  se  mai  alcuno  dei  demoni  (anime)  che  ebbero  in  sorte  lunga  vita,  macchi  le  sue  membra  di  sangue  col- pevole,  o seguendo  la  "discordia"  empio  spergiuri,  vada  errando  tre  volte  diecimila  anni  !ungi  dai  beati,  nascendo  nel  corso  del  tempo  sotto  tutte  le  forme  mortali,  permutando  i  penosi  sentieri  della  vita  ...  Uno  di  essi  sono  anch'io,  fuggiasco  dagli  dei  ed  errante,  perché  fidai  nella  folle  "di- scordia"  ...  Da  quale  onore  e  da  quale  ampiezza  di  felicità,  così  bandito  mi  aggiro  fra  i mortali!  »  (La  traduzione  di  questi  frammenti,  come  di  quasi  tutti  quelli  empedoclei  citati,  è  del  Mondolfo.)  Ma  v'è  la  via  del  ritorno:  «  Ma  alla  fine  essi  vengono  sulla  terra  fra  gli  uomini  come  profeti,  bardi,  me- dici  e  principi,  e  poi  assurgono  al  rango  di  dei  degni  d'onore  ...  Io  vengo  nelle  vostre  città  quale  un  dio  eterno,  non  certo  mortale,  coperto  d'ogni  onore. Agrigento  non  si  ponesse  il  problema  della  logica  e del  metodo.  Il  metodo  che  egli  in  effetti  usa  va  era  essenzialmente  analogico:  acute  inferenze  dall'osservazione  quotidiana,  sia  biologica  (il  palpito  del  cuore,  lo  sviluppo  dell'uovo,  il  meccani- smo  della  respirazione),  sia  fisica  1  (la  riflessione,  l'evaporazione,  il ciclo  stagiona- le),  sia  tecnica  (il  travaso  dei  liquidi,  la  manifattura  dei  vasi,  la  miscelazione  dei  colori),  gli  offrivano  lo  spunto  per  audaci  generalizzazioni  cosmiche.  Tuttavia  ai  suoi  occhi  queste  estensioni  non  avevano  nulla  di  arbitrario,  basate  com'erano  sulla  certezza  di  una  fondamentale  unità  e  significatività  di  tutte  le  manifestazioni  della  natura  (una  certezza,  come  abbiamo  visto  all'inizio,  a  sua  volta  ricavata  dall'esperienza  immediata,  sia  sensoriale  sia  psichica).  Allo  stesso  modo,  l'espres- sione  linguistica  di  Empedocle  non  poteva  che  tentare  di  riprodurre,  grazie  ad  una  poesia  potentemente  sintetica  e visualizzante,  la vita  del  mondo  nella  sua  ricchezza;  anche  qui,  l'immagine  poetica  (la  trasvalutazione  delle  radici  in  divinità  o  in  «membra»  del  mondo,  l'affiorare  ovunque  dello  psichico,  del  vivente,  dell'orga- nico)  riposava  sulla  profonda  verità  che  per  questa  via  si  tentava  di  rivelare.  Tale  dunque  la  risposta  empedoclea  al  nodo  di  problemi  che  si  sono  esposti  in  sede  introduttiva:  una  delle  più  grandiose  sintesi  mai  elaborate  dal  pensiero  greco  ed  anche  una  delle  più  affascinanti  ipotesi  scientifiche.  Il  rischio  che  Empe- docle  si  assumeva  era  d'altro  canto  totale  quanto  il  suo  sistema:  o  quest'ultimo  si  rivelava  davvero  capace  di  spiegare  l'intero  universo,  o  sarebbe  crollato  tutto  quanto,  perché  l'agrigentino  non  offriva  - né,  date  le  sue  premesse,  avrebbe  potuto  farlo  - alcuna  regola  di  pensiero  e  di  metodo  esterna  al  sistema  ed  atta  a  modificarlo,  a  criticarlo,  a  renderlo  più  comprensivo.  La  potenza  del  genio  di  Empedocle,  in  tutta  la  sua  ambiguità,  si  esercitò  sul  pensiero  greco  ed  oltre;  e  «  dinanzi  a  lui,  »  ha  osservato  il  Bignone,  «  le  prospettive  del  mondo  greco  si  scompongono  stranamente:  è  già  un  antico  rispetto  a  Tucidide,  che  è  di  pochi  lu- stri  più  giovane  di  lui;  e  sarà,  dopo  più  secoli,  quasi  un  contemporaneo  rispetto  a  Platino  e  Porfirio  ».  Subito  rifiutato  dal  miglior  pensiero  filosofico-scientifico  del  v  secolo,  da  Anassagora  ad  Ippocrate,  che  vedeva  nel  dogmatismo  dell'esperienza,  nel  vitali- smo  mistico,  nel  rifiuto  di  ogni  strumento  razionale  di  tipo  logico-metodologico  il  più  mortale  pericolo  per  un  libero  progresso  della  ricerca,  il sistema  di  Empedo- cle  apparve  tuttavia  a  lungo  come  l'unico  che  potesse  garantire  una  sicura  base  speculativa  alle  scienze  nascenti,  dalla  biologia  alla  fisica,  l'unico  che  ne  assicurasse  l'universalità.  Così  all'inizio  del  rv secolo  la  dottrina  dei  quattro  elementi,  la  con- cezione  organicistica  dell'universo  (che  presto  significò  anche  visione  finalistica),  il  prevalere  della  qualità  sulla  quantità,  finirono  per  trionfare  della  scienza  ionica  e  passarono  in  gran  parte  al  platonismo  del  Timeo,  all'aristotelismo,  alla  medicina  I  Il  sole  è  il  luogo  dove  l'emisfero  terrestre,  che  agisce  come  una  lente,  riflette  e  concentra  il  fuoco  emesso  dall'emisfero  etereo;  il  mare  è  il  «sudore»  della  terra:  sotto  l'azione  del  calore;  la  terra  stessa  è  stata  disseccata  dal  calore  al  pari  di  un  vaso  d'argilla;  e  così  via. siciliana  di  Filistione.  Tramite  questi  canali,  e sia  pure  con  aggiustamenti  progres- sivi,  tali  vedute  percorsero  un  lunghissimo  cammino,  fino  ad  affacciarsi  al  rinasci- mento  e alle  soglie  dell'età  moderna.  Qui  tornarono  a  scontrarsi  con  il meccanici- smo  di  tipo  democriteo,  e  risultarono  questa  volta  soccombenti  senza  però  lasciar  del  tutto  il passo.  Poco  sappiamo  della  vita  di  Filolao:  nato  a  Crotone  attorno  alla  metà  del  v  secolo,  e ivi  formatosi  in  ambiente  pitagorico,  egli  si  trasferì  a  Te  be  dove  sul  finire  del  secolo  lo  troviamo  a  capo  di  una  fiorente  scuola  pitagorica,  in  rapporto  con  il  gruppo  socratico-platonico  ad  Atene.  Questa  presenza  di  Filolao  a  Tebe,  congiun- tamente  all'esilio  peloponnesiaco  di  Empedocle,  ci  rivela  un  rifluire  della  filosofia  italica  nella  madrepatria  greca,  localizzato  non  a caso  nelle  poleis  che  combattevano  Atene  nella  guerra  del  Peloponneso:  il  pensiero  ionico-attico  si  trovava  così  in  qualche  modo  circondato  non  meno  di  quanto  lo  fosse,  in  senso  politico-militare,  la  sua  metropoli.  Come  abbiamo  già  avvertito,  i  frammenti  di  Filolao  sono  stati  a  lungo  con- testati  per  vari  motivi  filologici,  alla  cui  base  stava  tuttavia  la  constatazione  che essi  anticipavano  un  importante  aspetto  del  platonismo,  e  dunque  la  preoccu- pazione  che  questo  potesse  risultarne  sminuito  nella  sua  originalità.  L'autenticità  dei  frammenti  è  stata  per  fortuna  rivendicata  dal  Mondolfo  e  dalla  Timpanaro- Cardini;  ed  è  chiaro,  secondo  una  più  corretta  visione  storiografica,  che  il  genio  di  Platone  risulta  tutt'altro  che  diminuito  dalla  consapevolezza  che  egli  seppe  fondere  in  una  sintesi  critica  gran  parte  dei  risultati  del  pensiero  filosofico-scienti- fico  del  v  secolo,  pur  conferendo  ad  essi  la  propria  originalissima  impronta.  D'al- tra  parte,  già  questa  considerazione  impone  di dare  alla  figura  di  Filolao  il  posto  che  gli  compete  fra  i  protagonisti  della filosofia  preplatonica.  Il  problema  centrale  di  Filolao  è  analogo  a  quello  di  Empedocle,  ma  i  suoi  punti  di  riferimento  speculativi  sono  meglio  definiti,  e il  suo  approccio  alla  realtà  è  più  chiaramente  delimitato  dall'eredità  pitagorica  di  cui egli  si faceva  portatore.  Certo,  il  pitagorismo  originario  era  stato  travolto,  in  campo  matematico,  dalla  crisi  degli  irrazionali,  in  campo  fisico-filosofico,  dalla  critica  parmenidea  al  molte- plice  e dalla  sua  incapacità  a soddisfare  i  nuovi  requisiti  logico-metodici.  Vedremo  all'inizio  del  capitolo  xn  come  si  svolse,  attraverso  il  v  secolo  e  fino  ad  Archita,  il  processo  ricostruttivo  delle  matematiche  pitagoriche,  al  quale  Filolao  stesso  diede  un  importante  contributo.  Qui  ci  interessa  piuttosto  il  suo  sforzo  di  ricostruzione  del  pitagorismo  come  sistema  globale  del  mondo,  compiuto  innestando  sul  tronco  di  quella  tradizione  la  più  matura  consapevolezza  posteleatica.  Si  trattava  innanzitutto  di  salvare  entrambi  i  termini  della  diade  costitutiva  di  uno  e  molteplice,  di  limite  e  illimitato,  dove  il  primo  termine  assicurava  la verità  e  l'intelligibilità  del  secondo  ma  dove  il  secondo  garantiva  l'estensibilità  del  primo  al  mondo  del  reale,  la  sua  presa  sull'esperienza,  conferendogli  quindi  una  concretezza  e  una  funzionalità  sepza  le  quali  esso  sarebbe  stato  confinato  alla  sfera  delle  aspirazioni  etico-religiose.  Ma  non  bastava  più,  dopo  Parmenide,  con- trapporre  la  serie  dell'uno  e  del  limite  alla  serie  dei  molti  e  dell'illimitato;  giac- ché  su  quest'ultima  sarebbe  poi  gravata  la  dichiarazione  di  assurdità  e di  irrealtà,  che  avrebbe  vanificato  la  tensione  insita  nella  diade.  Il  problema  di  Filolao  era  dunque  quello  di  calare  il  principio  di  unificazione  e di  verità  profondamente  all'interno  della  struttura  molteplice  dell'esperienza,  in  modo  da  garantirne  con  ciò  stesso  la  realtà;  era  di  trasformare  i  termini  della  diade  in  modalità  e  struttura  intima  di  un  unico  mondo,  di  cui  essi  potessero  dar  conto  nella  sua  to- talità.  La  chiave  più  ovvia  per  la  soluzione  del  problema  era,  agli  occhi  di  Filolao,  quella  offerta  dal  numero.  Generato  dall'  «uno»,  e governato  da  leggi  che  sempre  all'  «uno»  potevano  riportarsi  senza  contraddizione,  il  numero  era  tuttavia  atto  a  fungere  da  limite  al  molteplice  perché  ne  rifletteva  in  sé  la  struttura;  ma  la  riflet- teva  in  modo  tale  da  renderla  omogenea  all'«  uno»  e alla  sua  legge.  Si  consideri  ad  esempio  la  decade  (il  numero  dieci):  secondo  l'analisi  di  Filolao,  essa  comprende  in  sé  tutti  i possibili  rapporti  aritmo-geometriciche  si originano  a partire  dall'unità  ed  è  perciò  stesso  atta  a comprendere  e  ad  organizzare  il  molteplice.!  Ma  Filolao  non  poteva  più  arrestarsi  alla  generica  veduta  pitagorica  del  nu- mero  come  natura  delle  cose.  Occorreva  che  fosse  davvero  possibile,  leggendo  il  libro  della  natura,  scoprirne  i  caratteri  aritmo-geometrici;  da  un  punto  di  vista  complementare,  occorreva  dare  una  più  precisa  dimensione  spaziale  al  numero  e  concretarla  di  una  sussistenza  corporea.  Perciò,  partendo  dall'assioma  aritmo-geo- metrico  secondo  cui  l 'unità  rappresenta  il  punto,  il due  la linea,  il tre  la  superficie,  il  quattro  il  solido,  Filolao  diede  un  impulso  originale  e deciso  alla  geometria  so- lida,  giungendo  a costruire  un  certo  numero  di  figure  semplici  che  si potevano  age- volmente  riportare  alle  modalità fondamentali  dei  numeri.  Queste  figure  si  assicu- ravano  una  prima  realizzazione  grazie  alla  loro  applicabilità  ai movimenti  e alla  con- figurazione  degli  astri,  e, tramite  l'astrologia  pitagorica,  allo  stesso  assetto  del  divino.  x  Più  efficaci  di  ogni  spiegazione  critica  sono  le  parole  di  Filolao  sulla  decade:  «L'essenza  e  le  opere  del  numero  devono  essere  giudicate  in  rap- porto  alla  potenza  insita  nella  decade;  grande  è  in- fatti  la  potenza  (del  numero)  e  tutto  opera  e  com- pie,  principio  e  guida  della  vita  divina  e  celeste  e  di  quella  umana,  in  quanto  partecipa  della  po- tenza  della  decade;  senza  questa,  tutto  sarebbe  in- terminato,  incerto  ed  oscuro.  Conoscitiva  è  la  na- tura  del  numero,  e direttrice  e maestra  per  ognuno,  in  ogni  cosa  che  gli  sia  dubbia  o  sconosciuta.  Per- ciò  nessuna  delle  cose  sarebbe  chiara  ad  alcuno,  né  per  se  stessa,  né  in  rapporto  alle  altre,  se  non  ci  fosse  il  numero  e  la  sua  essenza.  Ora  questo,  74  armonizzando  tutte  le  cose  con  la  sensazione  nel- l'interno  dell'anima,  le  rende  conoscibili  e  tra  loro  commensurabili  secondo  la  natura  dello  gnomone,  in  quanto  compone  o  scompone  i  singoli  termini  delle  cose,  così  delle  interminate  come  delle  ter- minanti.  Né  solo  nei  fatti  demonici  e  divini  tu  puoi  vedere  la  natura  del  numero  e la  sua  potenza  dominatrice,  ma  anche  in  tutte,  e sempre,  le  opere  e  parole  umane,  sia  che  riguardino  le  attività  tecniche  in  generale,  sia  propriamente  la  musica»  (trad.  Timpanaro-Cardini).  Da  varie  testimo- nianze  risultano  le  ingegnose  deduzioni  di  natura  sia  aritmetica  e  geometrica,  sia  fisica,  dalle  quali  Filolao  traeva  conferma  al  dominio  della  decade. A  questo  punto  tuttavia  Filolao  avvertiva  l'esigenza  di  una  semplificazione  del  mondo  fisico  che  era  assente  nella  tradizione  pitagorica,  e  riconosceva  nel  si- stema  empedocleo  il  più  potente  strumento  in  questo  senso.  È  propriamente  nel- l'assunzione  che  ne  fece  Filolao  che  le  radici  di  Empedocle  si  trasformarono  in  «elementi»,  avulsi  ormai  dalla  vita  del  cosmo  ed  inseriti  su  di  una  più  fredda  strut- tura  numerico-geometrica.  Nei  quattro  elementi,  infatti,  e  nello  «  sfero  »  che  li  riassumeva,  Filolao  vide  il  veicolo  ideale  per  la  conquista  del  mondo  fisico  da  parte  dei  suoi  solidi  geometrici.  Per  via  analogica, il  cubo  trovò  il  suo  equivalente  nella  terra;  il  tetraedro  nel  fuoco;  l'ottaedro  nell'aria;  l'icosaedro  nell'acqua;  il  dodecaedro,  infine,  nello  «  sfero  ».  Da  un  altro  punto  di  vista,  ciò  equivale  a  dire  che  gli  elementi  trovarono  il  proprio  limite,  la  propria  forma,  la  propria  armonia,  infine  la  propria  razionalità  nelle  rispettive  figure.  I  molteplici  oggetti  dell'espe- rienza  e  le  loro  mutazioni  si  presentavano  ormai  come  aggregati  degli  elementi  e  dunque  come  composizione  di  forme  geometriche  semplici;  ma,  imbrigliati  dal  limite,  armonizzati  dalla  figura,  il  loro  variare  nulla  più  aveva  di  misterioso  o  di  irrazionale,  sempre  riconducibile  com'era,  sia  pure  per  vie  complesse  e  non  tutte  esplorate,  alla  legge  del  numero.  Filolao  giungeva  dunque  a  modificare  così  l 'assioma  pitagorico  che  i  numeri  sono  le  cose:  «  Tutte  le cose  hanno  un  numero;  senza  questo,  nulla  sarebbe  possibile  pensare,  né  conoscere.  »  Le  cose  hanno  un  numero  perché,  come  in  un  universo  cristallografico,  hanno  una  figura-forma  che  le  delimita  e  che  è  riconducibile  a  rapporti  numerici;  1  e  perché  sono  inserite  in  un'armonia  cosmica  che  ne  ritma  il  divenire  e  che  è  anch'essa  riconducibile  al  rapporto  (logos)  numerico.  Nel  frammento  che  abbiamo  ora  citato  Filolao  compie  un'altra  fondamentale  deduzione:  poiché  la  nostra  conoscenza,  se  vuol  essere  ve- ra,  non  può  che  muoversi  dall'«  uno»  e seguirne  la legge,  poiché  il  nostro  pensiero  non  può  che  essere  -e  di  fatto,  nella  tradizione  pitagorica,  è  -logos  mathematikòs,  ecco  che  il  numero  instaura  la  sua  suprema  armonia  fra  pensiero  e realtà,  fra  uomo  e  mondo;  ecco  che  il  linguaggio  dell'uomo  è  identico  al  linguaggio  di  fysis,  e basterà  affinarlo  nel  medesimo  senso  per  decifrare  fysis  tutta  intiera.  Così  egli  ristrutturava  il  pitagorismo  in  modo  da  adeguarlo  alle  esigenze  posteleatiche  e  insieme  ne  allargava  l'orizzonte  fino  a  includervi  le  necessità  di  spiegazione  naturalistica.  Più  rigoroso,  sebbene  meno  ricco  di  quello  empedo- cleo,  il  suo  sistema  si  prestava  a  brillanti  deduzioni  cosmologiche,  ma,  posto  a  confronto  con  i  problemi  del  significato  e  della  vita,  era  spesso  costretto  a  sce- I  È  interessante  a  questo  proposito  la  fi- gura  di  Eurito,  un  pitagorico  del  v  secolo  spesso  associato  a  Filolao.  Eurito  era  famoso  fra  i  suoi  contemporanei  perché,  assegnato  a  qualsiasi  og- getto  reale  un  determinato  numero  (non  sappiamo  come  lo  ottenesse),  egli  dimostrava  in  un  modo  caratteristico  la  necessità  naturale  del  rapporto  fra  l'uno  e  l'altro:  si  provvedeva  di  un  pari  numero  di  sassolini,  tracciava  la figura  dell'oggetto  in  que- stione  e  incastr11va  lungo  il  suo  perimetro  tali  75  sassolini  (il  numero  atto  a  definire  la  figura  del- l'uomo  era  per  esempio  250).  Variando  le  dimen- sioni  dell'oggetto,  il  numero  di  sassolini,  che  ne  esprimevano  i  rapporti  essenziali,  non  cambiava.  In  tal  modo  Eurito  voleva  stabilire  visivamente  la  relazione,  tipica  anche  del  pensiero  di  Filolao,  tra  numero  e  forma  limitante  gli  enti  reali:  il  nu- mero,  tradotto  in  forma,  era  quindi  il principio  di  individuazione  e  anche  di  intelligibilità  della  na·  tura. gliere  la  via  del  superamento  mistico  alla  maniera  del  primo  pitagorismo;  oscil- lazione  riconoscibile  lungo  tutto  l'arco  della  riflessione  naturalistica  di  Filolao.  L'«  uno»,  ipostatizzato  fisicamente  nel  «fuoco»,  sta  al  centro  del  cosmo;  dal  suo  rapporto  con  l 'infinito  circostante- un  rapporto  paragona  bile  al processo  del- la inspirazione  ed  espirazione  - si è  generato  tutto  quanto  il cosmo,  che,  come  ab- biamo  visto,  consta  di  una  sintesi  inscindibile  di  «  uno  »  e  molti,  di  limitante  e illi- mitato.  Rinnovando  la  meccanica  celeste  della  tradizione  pitagorica,  spinto  a  un  tempo  dall'esigenza  astronomica  di  spiegare  le  eclissi  e  da  quella  mistica  di  asse- gnare  all'«  uno-fuoco»  il  posto  centrale  dell'universo,  Filolao  fece  audacemente  della  Terra  un  pianeta  eccentrico  e  mobile  come  gli  altri,  anticipando  così  di  se- coli  la  veduta  di  Aristarco.  La  medesima  ambiguità  si  riscontra  nell'ipotesi  di  un  decimo  pianeta,  l'  Antiterra,  in  aggiunta  ai  nove  conosciuti:  si  trattava,  da  un  lato,  di  costruire  un  modello  di  meccanica  celeste  atto  a  spiegare  fenomeni  quali  la  maggior  frequenza,  in  uno  stesso  luogo,  delle  eclissi  di  luna  rispetto  a  quelle  di  sole;  e,  dall'altro,  di  trovare  un  'ulteriore  conferma  al  valore  universale  della  decade.  Analogamente  ad  Empedocle,  Filolao  riteneva  poi  il  sole  percepito  dai  nostri  sensi  un  semplice  riflesso  focalizzato  del  «fuoco  »  centrale.  Filolao  fu  anche  attento  cultore  di  biologia  e di  medicina:  operando  nel  solco  della  tradizione  alcmeonica,  egli  accoglieva  da  un  lato  alcune  posizioni  del  sistema  vitalistico  di  Empedocle,  dall'altro,  grazie  proprio  a  quella  tradizione,  appariva  più  vicino  all'empirismo  esprimentesi  nella  medicina  cnidia;  né  poteva  riuscirgli  agevole  la  trasposizione  dei  punti  di  vista  aritmo-geometrici  al  campo  della  vita.  Proprio  per  questa  complessità  di  approccio,  appaiono  nel  filosofo  di  Crotone  germi  interessanti  di  teoria  medica;  essi  passeranno  in  Platone  e  in  alcune  opere  del  Corpus  hippocraticum,  e  per  un  altro  verso  nella  scuola  siciliana  di  medicina,  ma  non  troveranno  una  diretta  continuazione  per  il  progressivo  abbandono,  da  parte  del  successivo  pitagorismo,  delle  ricerche  più  propriamente  naturalistiche.  Un  primo  movimento  analogico  permette  a Filolao  di  ravvisare  nel  ritmo  della  vita  organica  una  stretta  affinità  cosmogonica.  Principio  costitutivo  della  vita  è  lo  sperma,  il  calore  originario;  principio  del  corpo  è  dunque  il calore,  così  come  il  «fuoco»  lo  era  del  cosmo.  D'altra  parte  la  respirazione  introduce  nel  corpo  l'ele- mento  freddo  necessario  ad  equilibrare  tale  calore,  proprio  come  l'inalazione  del- l'illimitato  circostante  da  parte  dell'«  uno»  originava  l'universo.  Gli  stessi  organi  principali  del  corpo  sono  racchiusi  in  uno  schema  quaternario  analogo  a  quello  degli  elementi,  ed  essi  sono  visti  come  rispettivamente  egemonici  nelle  varie  classi  di  viventi.  Il  cervello,  cui  corrisponde  il  pensiero,  è  così  egemonico  nel- l'uomo  (qui  è  chiara  l'eredità  alcmeonica);  il  cuore,  cui  corrisponde  il  principio  della  vita  sensibile,  è  egemonico  negli  animali  (prevalendo  qui  l'ispirazione  empe- doclea);  l'ombelico,  che  presiede  alla  crescita  dell'embrione  e alla  vita  vegetati  va,  contrassegna  la  classe  delle  piante;  i  genitali,  infine,  da  cui  proviene  il seme  fecon- dante,  individuano  tutti  i  viventi  in  quanto  tali.  In  senso  più  propriamente  medicFilolao  costruì  un'eziologia  in  cui  i  maggiori  agenti  patogeni,  di  derivazione  cni- dia,  erano  la  bile  (vista  come  siero  delle  carni),  il  sangue  e il  flegma  o  catarro  che  si  originava  dalle  urine  ed  era  comunque  il  prodotto  di  una  infiammazione.  I  fattori  scatenanti  i processi  morbosi  erano  poi  ravvisati,  alla  stregua  della  dottrina  alcmeonica,  nell'eccesso  o  nella  scarsità  di  alimenti,  di  esercizio  fisico,  dei  fattori  ambientali  necessari  alla  vita  dell'uomo.  La  teoria  dell'anima  era  in  Filolao  strettamente  connessa  alla  concezione  del- l'organismo:  l'anima  rappresentava  infatti  da  un  lato  il  respiro  vitale,  il  principio  di  refrigerazione  che  temperava  il  calore  corporeo  e  dava  luogo  alla  vita;  dall'al- tro  essa  era  l'armonia  che  scaturiva  dalla  tensione  degli  opposti  elementi  fisici  - come  dalle  corde  di  uno  strumento  musicale -    e  li  teneva  connessi  nel  miracoloso  equilibrio  della  vita.  L'anima  era  dunque  la  presenza  dell'armonia  universale  nel  corpo  vivente,  e  d'altro  canto  l'espressione  intrinseca  dei  diversi  fattori  che  si  componevano  armonicamente  a  dar  luogo  alla  vita  stessa.  Così  strettamente  legata  all'equilibrio  transeunte  della  vita  organica,  l'anima  individuale  non  poteva  sopravvivere  al  dissolversi  nella  morte  degli  elementi  corporei  che  essa  armo- nizzava;  ancora  una  volta,  per  giustificarne  l'immortalità  secondo  il  dettame  pitagorico,  Filolao  era  costretto  ad  un  trascendimento  religioso  della  propria  dottrina.  Al  contrario  di  Empedocle,  Filolao  veniva  così  offrendo  al  pensiero  sia  filo- sofico  sia  tecnico-scientifico  uno  strumento  d'indagine  dotato  di  una  enorme  po- tenzialità:  quello  cioè  dell'analisi  formale  e  modale  della  realtà,  e  della  sua  tradu- zione  nei  termini  della  logica  aritmo-geometrica.  In  questo  senso,  era  fondamentale  il  suo  apporto  allo  sviluppo  della  matema- tica,  che  poteva  ormai  procedere  sulla  via  della  specializzazione  arricchita  della  certezza  che  qualsiasi  sua  scoperta  avrebbe  comportato  oggettivamente  una  più  vasta  e  profonda  comprensione  della  realtà,  avrebbe  comunque  rivestito  un  signi- ficato  universale.  E  parimenti  fondamentale  - anche  se  destinato  ad  un  meno  im- mediato  successo  - era  il suo  contributo  alla  fisica,  che  per  la  via  della  matematiz- zazione  era  avviata  ad  una  intelligibilità,  ad  un  rigore  nuovi;  un  rigore  persino  superiore  a  quello  della  fisica  atomistica,  che,  come  ha  osservato  il  Rey,  avrebbe  dovuto  basarsi  sulla  meccanica,  una  disciplina  molto  meno  progredita  nel  pensie- ro  greco  di  quanto  non  lo  fosse  l'aritmo-geometria  pitagorica.  Se  in  epoca  moderna  matematizzazione  e concezione  atomica  della  fisica  erano  destinate  a riunirsi,  dando  luogo  al  «  sistema  del  mondo  »  proprio  della  scienza  a  partire  dal  Seicento,  nel  mondo  greco  pitagorismo  ed  atomismo  restarono  però  a  lungo  contrapposti.  Ciò  è  dovuto  anche  all'ambiguità  che  abbiamo  visto  sottendersi  a  tutta  la  speculazione  di  Filolao.  Il  logos  mathematikòs  non  era  soltanto,  e  non  tanto,  un  metodo  del  pensiero  quanto  la  struttura  essenziale,  garantita,  dell'universo;  il  numero  non  era  tanto  uno  strumento  euristico  dell'uomo  quanto  una  realtà  originaria,  primale,  che garantiva  la  validità  della  scienza,  ma  soprattutto  la  condizionava  al  riconoscimento  di  sé,  principio  dogmatico  del  conoscibile  prima  che  del  conoscere.  Già  per  la  matematica,  questa  natura  del  numero  creava  una  situa- zione  di  privilegio  necessariamente  ambigua:  giacché  essa  veniva  trasvalutata  in  una  sorta  di  teologia  razionale,  secondo  un  processo  che  sarà  comune  a  Platone  vecchio  e  a  tutto  il  successivo  pitagorismo,  sempre  più  alieno  dalla  ricerca  empi- rica,  sempre  più  portato  a  rifiutare  il  contatto  così  fecondo  tra  la  matematica  stessa  e  le  discipline  tecniche  e  naturalistiche.  Nel  senso  di  Filolao,  assolutizza- zione  delle  matematiche  voleva  dire  dunque  anche  loro  isterilimento  sul  piano  scientifico-tecnico,  e  contemporaneamente  condanna  ad  uno  status  non  scientifi- co  delle  technai  di  controllo  della  natura,  dalla  meccanica  alla  biologia.  L'accen- tuarsi  della  natura  mistica  del  numero  - che  all'origine  aveva anche  significato  l~  preoccupazione  di  una  saldatura  tra  uomo  e  mondo,  tra  conoscenza  e  realtà  - avrebbe  scavato  un  solco  sempre  più  profondo  tra  il pitagorismo  e le  tendenze  più  vive  del  pensiero,  conducendo  da  ultimo  alla  fusione  tra  un  pitagorismo  teologiz- zante  ed  un  parimenti  infiacchito  platonismo.  Filolao,  con  tutta  la  sua  ricchezza  di  interessi  metodici  .e  scientifici,  era  certamente  lontanissimo  da  tali  esiti.  Ma  la  sua  impossibilità  di  liberarsi  da  talune  ambiguità  di  fondo  lo  poneva  già,  nono- stante  tutto,  su  questa  via. Gorgia nacque a Lentini. La  tradizione  ci  raccontà  che  e discepolo  vuoi  dei  pi- tagorici  vuoi  di  Empedocle.  Senza  dubbio  riuscì  a  conquistarsi  la  stima  dei  suoi  concittadini,  tanto  è  vero  che  fu  da  essi  inviato  come  ambasciatore  ad  Atene  per  chiedere  aiuto  contro  Siracusa.  Viaggiò  per  tutta  la  Grecia,  facendo  ovunque  sfoggio  della  sua  sottilissima  arte  dialettica  che  era  basata  su  una  tecnica  analoga  a quella  di  Zenone.  Scrisse  varie  opere,  fra  le  quali  ci limitiamo  a ricordare l'Elena  e  il trattatello  Intorno  al  non  ente  o intorno  alla  natura  (Perì  tou  me  ontos  é perì  Jjseos).  Nella  prima  viene  svolta,  con  molta  abilità,  la  paradossale  difesa  della  celebre  eroina,  scagionata  da  ogni  colpa  per  l'abbandono  della  casa  del  marito,  e  viene  intessuto  l'elogio  dell'onnipotenza  della  parola,  specie  quando  essa  è  guidata  dalla  retorica:  «  La  parola  è  un  gran  dominatore,  che  con  piccolissimo  corpo  e  invisi- bilissimo,  divinissime  cose  sa  compiere;  riesce  infatti  a  calmar  la  paura,  e  a  eli- minare  il  dolore,  e  a  suscitare  la  gioia,  e  ad  aumentare  la  pietà.»  Nell'altra  opera  Gorgia  espone,  una  triplice  tesi:  a)  nulla  è;  b)  se  anche  qualcosa  fosse,  non  sa- rebbe  conoscibile;  c)  se  poi  fosse  conoscibile,  non  sarebbe  esprimibile,  «poiché  il  mezzo  con  cui  ci  esprimiamo,  è  la  parola;  e  la  parola  non  è  l'oggetto,  ciò  che  è  realmente;  non  dunque  realtà  esistente  noi  esprimiamo  al  nostro  vicino,  ma  solo  parola  che  è  altro  dall'oggetto».  La  critica  della  vecchia  filosofi di  Parmenide  è  qui  evidente;  essa  si  fonda  sull'equivocità  del  termine  «  essere»  usato  ora  nel  senso  di  « esistere»  ora  invece  nel  senso  puramente  copulativo.  Ma  più  ancora  di  questa  critica  è  impor- tante  la  chiarezza  con  cui  si  pongono  i  problemi  della  conoscibilità  e  dell'espri- mibilità  (cioè  i  problemi  se  tutto  ciò  che  esiste  possa,  per  il  solo  fatto  di  esistere,  venire  conosciuto  e  venire  espresso).  Abbiamo  parlato,  a  proposito  sia  di  Protagora  sia  di  Gorgia,  di  critica  al- l'eleatismo.  Tale  critica  investì  certamente  il  tentativo  dell'eleatismo  di  stringere  in  una  rigida  unità  l'ordine  del  pensiero  e  del  linguaggio  con  quello  della  realtà  percepita  e  vissuta,  e  vi  contrappose  la  relativa  autonomia  di  questi  due  momenti.  Ciò  premesso,  la  critica  moderna  tende  tuttavia  a  non  sottovalutarei  legami  che  connessero  i  maggiori  sofisti  all'eleatismo,  e  non  solo  nel  senso  che  la  situazione  di  crisi  creata  da  quest'ultimo  rappresentò  il  loro  punto  di  partenza.  Nell'ordine  logico,  i  sofisti  accettarono  infatti  i  requisiti  di  verità  imposti  dall'eleatismo,  quali  l'identità  tautologica  (di  cui  la  orthoépeia  protagorea  sarebbe  una  versione  raffinata)  e  la  pregnanza  di  significati  esistenziali  e  copulativi  del  verbo  «essere».  La  rivendicata  autonomia  dell'esperienza  vissuta  si  tradurrebbe  pertanto  in  una  sizioni  professionali  variano  da  individuo  ad  in- dividuo,  sicché  ognuno,  possedendone  alcune,  è  privo  delle  altre,  la  capacità  di  contribuire  a  con- 93  servare  e  perfezionare  l'organismo  sociale  deve  essere  considerata  presente  in  tutti  gli  individui  normali. rinuncia  a  controllarla  con  strumenti  logici,  e  in  un  suo  abbandono  alla  psico- logia  dell'individuo  a  sua  volta  stratificato  nella  convenzione  sociale.  Questo  atteggiamento  si  tradusse,  da  un  lato,  in  una  certa  incapacità  della  sofistica  di  comprendere  l'originale  rapporto  di  logica  ed  esperienza  che  si  veniva  realiz- zando  nella  scienza  contemporanea  (di  qui  la  polemica  di  Protagora  e  di  Gorgia  contro  la  geometria,  la  fisica  e,  indirettamente,  contro  la  medicina);  dall'altro,  nella  tendenza  a  considerare  il  momento  irrazionale  del  profitto  e della  forza  come  primario  nell'ordine  sociale,  trascurandone  le esigenze  etico-storiche.  Questo  non  toglie  nulla  alla  fecondità  dell'atteggiamento  critico  della  sofistica,  ma  certamente  sottolinea  la  vastità  del  compito  di  ricostruzione  scientifica,  filosofica  e  storico- sociale  che  spetterà  al  pensiero  greco  dopo  il  fallimento  eleatico,  l'esaurimento  della  filosofia  della  natura  e  la  critica  sofistica.  Non  sappiamo  se  a  Crotone,  quando  vi  approdò  Callifonte,  l'asclepiade  di  Cnido,  cui  abbiamo  fatto  cenno  nel  secondo  paragrafo,  già  esistesse  una  scuola  di  medicina  o  se  la  sua  fondazione  si  debba  a questo  scienziato  venuto  dall'Orien- te.  È  certo,  tuttavia,  che  la  scuola  conobbe  una  rapidissima  fioritura.  Già  il  figlio  di  Callifonte,  Democede,  si  guadagnò  la fama  di  miglior  chirurgo  del  mondo  greco,  e,  fatto  ritorno  alla  nativa  costa  ionica,  impose  alla  corte  del  re  di  Persia  la  supremazia  della  nuova  scuola  ellenica  su  quella  tradizionale  d  'Egitto.  Toccò  al  crotoniate  Alcmeone,  nato  verso  il  540,  di  portare  la  scuola  al  suo  massimo  livello  scientifico.  E  soprattutto  toccò  ad  Alcmeqne  -che  il  Wellmann  ha  definito  a  buon  diritto  pater  medicinae  grecae  - di  rinnovare  profondamente  il  pensiero  scientifico  ellenico,  condizionandone  lo  svolgimento  lungo  tutto  il  v  secolo.  A  contatto  attraverso  la  sua  scuola  con  le  esperienze  maturate  dalla  historle  ionica  nel  VI  secolo,  egli  entrò  d'altro  canto  in  relazione  con  le  filosofie  i tali  che  che  sullo  scorcio  di  quel  secolo  si  sviluppavano  rapidamente:  il  pensiero  di  Senofane  da  un  lato,  il  pitagorismo  dall'altro.  Dalla  critica  senofanea  al  sapere  umano,  Alcmeone  derivò  la  consapevolezza,  via via  affinatasi,  che  l'osservazione  empirica  non  può  immediatamente  offrire  la  chiave  della  conoscenza,  che  la  verità  non  si  rivela  tutt'intera  a  chi  si  limiti  a  descrivere  la  natura.  Con  il  pitagorismo,  Alcmeone  mantenne  rapporti  su  di  una  base  di  autonomia,  da  scuola  a  scuola;  insofferente  del  carattere  settario,  dogmatico,  della  dottrina  e  della  prassi  pitago- rica,  egli  rivolse  contro  di  esse  la  sua  critica  teorica  e  la  sua  azione politica  demo- cratica.  Fu  tuttavia  profondamente  interessato  non  solo  dai  progressi  che  i  pi- tagorici facevano  compiere  alle.  scienze  naturali,  ma  soprattutto  dal  loro  tentativo  di  scoprire  leggi  dell'esperienza  che  fungessero  da  principio  di  organizzazione  e  di  interpretazione  dei  fenomeni  osservati.  Ecco  dunque  che  sul  tronco  dell'empirismo  ionico,  cui  per  altro  restava  solidamente  ancorato,  Alcmeone  veniva  innestando  una  problematica  e  una  consapevolezza  nuove,  la  cui  carenza  aveva  sempre  frenato,  come  s'è  visto,  i  progressi  di  quell'empirismo.  Proprio  con  la  dichiarazione  di  questa  acquisita  consapevolezza  si  apre  l'opera  di  Alcmeone:  «Delle  cose  invisibili,  delle  cose  mortali  gli  dei  hanno  immediata  certezza,  ma  agli  uomini  tocca  procedere  per  indizi  (tekmdiresthai).  »  Bastava  un  tale  punto  di  vista  gnoseologico  ad  infrangere  l'illusione  dell'immediata  trasparenza  dell'esperienza,  ad  aprire  la  via  ad  una  osservazione  critica  dei  fenomeni  e  ad  un  più  attivo  intervento  dello  scienziato  nella  loro  interpretazione.  Alcmeone  si  valeva  del  principio  così  scoperto  nel  vivo  della  propria  ricerca  scientifica,  e  d'altra  parte  era  la  ricerca  stessa,  divenuta  criticamente  più  vigile,  a  confermargliene  la  validità.  Nel  campo  dei  fenomeni  naturali  egli  non  vedeva  più  alcun  «  elemento  »alcuna  coppia  di  contrari,  alcuna  arché  che  di  per  sé  valessero  a  spiegare  la  natura  e  la  vita.  Da  biologo,  egli  riconosceva  piuttosto  nell'empirico  una  indefinita  molteplicità  di  principi  attivi  o  «  qualità  »,  vale  a  dire  di  stimoli  capaci  di  de- terminare  nell'organismo  una  certa  reazione  fisiologica  (l'amaro,  il  freddo  e  così  via);  di  conseguenza,  non  v'era  continuità  fra  organismo  senziente  e  il  suo  ambiente,  ma  il  rapporto  fra  l'uno  e  l'altro  era  quello  di  stimolo  e  reazione  (questo  è  il  significato  della  «  sensazione  per  contrari  »  attribuita  ad  Alcmeone,  in  contrasto  con  la  «sensazione per simili»  che,  come  s'è  visto,  fu  tipica  di  Empedocle).  Parallelamente,  Alcmeone  scopriva,  grazie  alla  pratica  coraggiosa- mente  scientifica  della  dissezione,  che  la  funzione  del  percepire  è  nell'uomo  bensì  diffusa  nei  vari  organi  di  senso,  ma  che  essa  viene  poi  coordinata  da  un  organo  centrale,  e  precisamente  dal  cervello.  Con  questa  scoperta  Alcmeone  non  solo  compiva  un  progresso  di  fondamentale  importanza  per  tutta  la  biologia  greca,  ma  trovava  altresì  una  decisiva  conferma  al  proprio  punto  di  vista  gno- seologico:  la  funzione  del  cervello  spezzava  di  fatto  il  legame  immediato  fra  uo- mo  e  mondo,  fra  conoscenza  e  realtà.  Ed  Alcmeone  rendeva  esplicita  questa  con- seguenza  dichiarando  che,  se  la  «sensibilità»  è  una  proprietà  di  tutti  gli  organi- smi  viventi,  la funzione  del  «  comprendere  »,  cioè  del  ridurre  a  sintesi  significa- tiva  l'esperienza,  e  del  «prender  coscienza»  della  sensibilità  stessa  è  propria  esclusivamente  dell'uomo.  Il  valore  di  queste  asserzioni  si  po.trà  intendere  appie- no  ove  si  ricordi  che  ancora  una  generazione  più  tardi la  dottrina  della  centralità  del  cuore  conduceva  Empedocle  a  conclusioni  estremamente  antitetiche.  In  ogni  modo,  profondo  era  il  solco  così  apertosi  fra  l'uomo  e  la  realtà  che  egli  vuol  comprendere  e  trasformare.  Il  mondo  dell'esperienza  riacquistava  la  sua  concretezza,  e  l'esperienza  stessa  veniva  riconosciuta  incapace  di  dare  spontaneamente  conto  di  sé.  Così,  lo  scienziato  riconquistava  un'autonomia  e una  possibilità  di  comprensione  e  di  controllo  sul  mondo,  scoprendo  un  punto  di  vista  ad  esso  eterogeneo.  Ma  Alcmeone  si  avvide  di  una  conseguenza  decisiva  di  questa  situazione:  la  realtà  si  faceva  a  un  tratto  opaca  agli  occhi  dello  scienziato;  la  sapienza,  intesa  come  perfetta  trasparenza  di  tutto  il  mondo  all'uomo,  restava  ormai  solo  una  proprietà  degli  dei.  In  termini  di  metodo  scientifico,  la  sapienza  doveva  allora  venir  sostituita  dall'indagine,  la  rivelazione  dalla  congettura,  l'os- servazione  e  le  analogie  che  essa  sembrava  offrire  dovevano  essere  integrate  dal  metodo  dell'indizio  e  della  prova.  Quando  Alcmeone  poneva  il  tekmdiresthai,  il  proceder  appunto  per  indizi,  congetture  e  prove,  come  metodo  tipico  della  conoscenza  umana,  egli  conferiva  una  consapevolezza  teorica  alla  prassi  della  me- dicina,  che  doveva  interpretare  l'esperienza  per  ritrovare  in  essa  un  significato,  un  valore  di  sintomo,  e  risalire  così  all'unità  della  malattia  e  delle  sue  cause:  una  consapevolezza  che,  come  s'è  visto,  fece  sempre  difetto  ai  cnidi.  Sulla  base  di  queste  prospettive  teoriche,  Alcmeone  poté  anche  offrire  alla  medicina  una  dottrina  fisio-patologica  e  un'eziologia  unitaria  cui  i  cnidi  non avevano  potuto  pervenire.  Le  infinite  «qualità»  (4Jnàmeis)  agenti  nell'organismo,  formano  nel  loro  stato  normale  un  composto  (krasis)  omogeneo  ed  armonico  (isonomia).  La  malattia  nasce  dalla  rottura  di  tale  equilibrio  e  dal  prevalere  patolo- gico  (monarchia)  di  uno  solo  di  questi  principi,  oltre  che  per  l'azione  di  una  mol- teplicità  di  fattori  ambientali.  È  importante  notare,  per  l'influenza  che  questa  veduta  ebbe  su  Ippocrate,  che  Alcmeone  lasciò  indefinito  il  numero  delle  4Jndmeis,  senza  irrigidirle  né  nello  schema  quaternario  degli  elementi  proprio  della  scuola  empedoclea,  né  in  quello  degli  «  umori  »  sviluppatosi  nella  tarda  scuola  di  Cos.  Queste  determinazioni  negative,  le  uniche  che  ci  restano  delle  4Jndmeis  alcmeoniche,  sono  tuttavia  importanti,  perché  gettano  il  seme  di  una  embrionale  chimica  fisiologica,  consapevole  della  molteplicità  degli  elementi  e  dei  composti  (come  ribadirà  anche  Anassagora)  e  attenta  soprattutto  alla  loro  sempre  variabile  funzionalità  nelle  sintesi  organiche.  D'altra  parte,  rompendo  anche  qui  con  tutta  la  tradizione  della_bsiologia,  Alcmeone  affermava  l'irreversi- bilità  dei  processi  biologici  e  dunque  l 'impossibilità  del  ciclo:  «  Gli  uomini  per  ciò  periscono,  che  non  possono  congiungere  il  principio  con  la  fine.  »  Troppo  innovatrici  erano  tuttavia  le  sue  intuizioni,  perché  Alcmeone  ne  potesse  trarre  tutte  le  conseguenze.  La  via  del  metodo  scientifico  era  stata  indicata,  ma  un  lungo  cammino  doveva  essere  ancora  percorso  perché  quel  metodo  potesse  essere  sviluppato  e  consolidato.  Il  problema  del  rapporto  fra  pensiero  e  realtà,  fra  teoria  ed  esperienza  era  stato  posto  senza  che  le  strutture  di  quel  rapporto  potessero  essere  compiutamente  analizzate  e  rese  esplicite.  Questa  mancanza  di  una  chiara  elaborazione  teorica  spiega  come  l'eredità  alcmeonica  si  sia  suddivisa  in  due  filoni  diversi  e  contrastanti.  Da  un  lato,  infatti,  essa  fu  riassorbita  dalla  fysiologia  italica  e  siciliana,  che  utilizzò  alcune  delle  sue  conquiste  scientifiche  contestandone  altre  e  soprattutto  annullandone  via  via  la  carica  innovatrice  dal  punto  di  vista  del  metodo.  Attraverso  Empedocle,  questo  filone  dell'eredità  alcmeonica  passò,  sul  finire  del  v  secolo,  alla  scuola  italica  di  medicina,  di  cui  diremo  più  ampiamente  al  capitolo  xr.  L'altro  filone  ci  interessa  qui  più  da  vicino:  tramite  l'autonoma  ricerca  medico-biologica,  esso  rifluì  nell'ambiente  scientifico  ionico-attico,  e  dunque  nel  suo  crogiuolo  ateniese,  destandovi  immediatamente  l'interesse  delle  più  vive  correnti  di  pensiero.  Ad  Anassagora  la  lezione  alcmeonica  apportava  la  veduta  dell'alterità  del  conoscere  rispetto  al  conosciuto,  dell'inesauribile  concretezza  del  mondo  empirico,  del  tekmdiresthai  come  metodo  della  conoscenza;  agli  scienziati  che  si  raccoglievano  intorno  al  filosofo,  ai  medici  come  lppocrate,  Alcmeone  insegnava  l'importanza  metodica  del  sintomo,  la  centralità  del  cervello,  le  basi  fisiologiche  della  patologia;  agli  uomini  di  cultura,  agli  storici  come  Tucidide,  egli  trasmetteva  analoghi  spunti  metodici,  e  ancora  il suo  rifiuto  della  ciclicità,  la  sua  concezio"ne  - così  suggestivamente  trasferibile  alle  vicende  umane- dell'armonia  come  salute,  della  monarchia  come  sua  rottura  patologica Seguendo  questo  secondo  filone  dell'eredità  alcmeonica,  occorrerà  quindi  tornare  nell'Atene  della  metà  del  v  secolo,  dove  si  venivano  intrecciando  i  nodi  di  tutto  il  pensiero  scientifico  greco  e  grazie  a  ciò  si  ponevano  le  premesse  per  le  sue  conquiste  più  alte.Nel  seguire  al  capitolo  vn  il  filone  alcmeonico  che  si  svolgeva  attraverso  Anassagora  e  culminava  in  Ippocrate,  accennammo  anche  al  permanere  di  una  scuola  medica  in  Magna  Grecia  e  in  Sicilia,  nella  quale  l'eredità  di  Alcmeone  doveva  però  esser  ben  presto  sopraffatta  dal  prepotente  influsso  della  fysiologia  di  Empedocle.  Quest'ultima  era  in  effetti  tale  da  condizionare  sia  nelle  premesse  sia  nei  metodi  la  ricerca  medico-biologica,  promuovendone  a  un  tempo  lo  svi- luppo  e  indirizzandolo  verso  esiti  estremamente  insidiosi.  La  concezione  del  inondo  come  un  organismo  vivente  pareva  infatti  assicurare  la  fondazione  più  universale  e  più  valida  alle  scienze  biologiche;  e  la  riduzione  del  mondo  stesso  a  quattro  elementi  primari,  o  archai,  sembrava  a  sua  volta  offrire  uno  strumento  decisivo  per  la  comprensione  della  struttura  del  corpo  e  delle  sue  affezioni.  La  metodica  da  porre  in  opera  era  pure  esemplificata  da  Empedocle:  si  trattava  di  battere  la  via  dell'analogia  tra  microcosmo  e  macrocosmo,  di  riportare  cioè  co- stantemente  i  fenomeni  organici  alla  struttura  di  fondo  del  corpo  e  la  struttura  del  corpo  a  quella  dell'universo,  ritrovando  in  quest'ultima  una  garanzia  di  ve- rità  e  una  premessa  per  ulteriori  spiegazioni.  Entro  tale  orizzonte  la  scuola  italica  si  sviluppò  lungo  la  seconda  metà  del  v  secolo,  finché  sullo  scorcio  di  quello  stesso  secolo  e  nei  primi  decenni  del  IV,  Filistione  di  Locri  la  condusse  al  suo  definitivo  assetto  dottrinale  e  metodico.  Importante  in  senso  dottrinale  l'elaborazione della  teoria  del  pneuma  o  «respiro»,  principio  vitale  che  animava  la  struttura  elementare  sia  del  corpo  sia  del  cosmo,  e  che  valeva  a  spiegare  molti  fenomeni  patologici  quando  la  sua  circolazione  or- ganica  risultasse  anomala.  Ma  soprattutto  importante,  dal  punto  di  vista  metodico,  era  la  traduzione  in  senso  biologico  degli  elementi  empedoclei,  che  certamente  Filistione  derivava  dalla  scuola  ma  cui  egli  conferì  una  forma  destinata  a  domi- nare  per  lunghi  secoli  il  pensiero  naturalistico.  Non  immemore  della  lettera  al- meno  dell'insegnamento  alcmeonico,  e  impegnato  più  direttamente  di  Empedo- cle  nell'osservazione  dei  fenomeni  organici,  Filistione  trasformò  gli  elementi  in  «  qualità  »  o  principi  organici  attivi  (c!Jndmeis):  così  la  terra  veniva  espressa  dalla  djnamis  «secco»,  l'acqua  dall'«  umido»,  il fuoco  dal«  caldo»,  l'aria  dal«  fred- do  »:  queste  c!Jndmeis  erano  secondo  Filistione  la  forma  specifica  con  la  quale  la  struttura  elementare  dell'universo  si  manifesta  nell'organismo  umano;  grazie  tuttavia  alloro  legame  univoco  con  gli  elementi,  esse  non  potevano  diventare,  come  in  Anassagora  ed  in  Ippocrate,  stati  relativi  e  mutevoli  degli  oggetti  em- pirici,  bensì  restavano  principi  stabili  e necessari  dell'empirico  stesso.  Il  processo  analogico  con  il  quale  Filistione  giungeva  alle  quattro  qualità  era  strettamente  affine  alla  deduzione  empedoclea  degli  elementi,  e  non  occorrerà  tornare  a  descri- verlo;  e la  sua  critica  più  pertinente,  dal  punto  di  vista  del  metodo  della  medicina  empirica,  fu  del  resto  anticipata  dallo  stesso  Ippocrate  in  Antica  medicina,  come  si  è  visto  al  capitolo  vn.  L'importanza  storica  della  rielaborazione  di  Filistione  e la ragione  del  suo  duraturo  successo  stanno  da  un  lato  nell'aver  offerto  alla  biolo- gia  uno  strumento  di  spiegazione  e  di  semplificazione  dei  fenomeni  pur  sempre  dogmatico  ma  tuttavia  assai  più  riconoscibile  nella  concretezza  dei  processi  or- ganici  di  quanto  lo  fossero  gli  elementi  empedoclei  (ad  esempio  il  «calore  vitale»  e  il  suo  eccesso  patologico  rappresentato  dalle  febbri  si  spiegano  meglio  con  le  vicende  della  qualità«  caldo»  che  con  la  materia  «fuoco»);  d'altro  lato,  toglien- do  dalla  fysiologia  empedoclea  quanto  vi  era  di  materialistico  e  in  fondo  di  mec- canicistico,  Filistione  ne  troncava  i  pur  possibili  legami  con  l'atomismo  e la  ren- deva  assai  meglio  accetta  al  prevalente  indirizzo  qualitativo  del  pensiero  platonico  e  soprattutto  aristotelico.  Un'altra  importante  evoluzione  egli  faceva  poi  subire  all'organicismo  del  filosofo  di  Agrigento.  Mentre  quest'ultimo  non  aveva  mai  compiuto  esplicita- mente  il  passo  che  portava  dalla  concezione  vitalistica  del  mondo  al  ricono.sci- mento  di  un  finalismo  in  esso  operante,  Filistione  trovava,  ad  esito  delle  sue  ri- cerche  anatomiche  sull'organismo,  proprio  questo  grande  principio  esplicativo:  che  la  natura,  e  soprattutto  la  natura  vivente,  è  organizzata  in  funzione  di  un  si- stema  di  fini,  che  questa  organizzazione  si  ritrova  allivello  di  .tutti  gli  organi,  e  che  dunque  l'indagine  biologica  non  deve  vertere  tanto  sul  «  che  cosa  »  e  sul  «come»,  quanto  sul  «perché»  finale  dell'assetto  dei  fenomeni  studiati.  Nel  trattato  sul  Cuore  (Perì  kardies)  - dove  tra  l'altro,  nonostante  la  sua  grande dottrina  anatomica,  egli  rifiuta  Alcmeone  per  Empedocle  e  pone  l'intelli- genza  nel  cuore  stesso  - Filistione  concepisce  quest'organo  come  la  costru- zione  mirabile  di  un  «  buon  artefice  »,  che  tutto  ha  predisposto  affinché  la  vita  potesse  aver  luogo  nel  migliore  dei  modi.  L'incontro  di  queste  dottrine  con  il  platonismo,  concretatosi  in  quello  fra  Filistione  e  Platone  avvenuto  in  Sicilia  ver- so  il  36o  e  dunque  all'inizio  del  periodo  di  elaborazione  del  Timeo,  doveva  ave- re  conseguenze  incalcolabili  per  la  scienza  della  natura  greca.  Attraverso  Platone,  passarono  infatti  ad  Aristotele,  che  le  adottò  ancor  più  risolutamente  del  maestro,  e  grazie  a  lui  conquistarono  una  egemonia  per  lungo  tempo  quasi  incontrastata.  Ma  prima  che  tutto  questo  avesse  luogo,  le  posizioni  della  scuola  italica  fa- cevano  sentire  la  loro  pressione  sulla  stessa  scuola  di  Cos  postippocratica,  e  oc- correrà  ora  seguire  gli  estremi  tentativi  di  quest'ultima  di  salvare  la  techne,  «l'an- tica  medicina  »,  da  così  agguerriti  avversari. Già  si  parlò  nel  capitolo  v  dell'opera  di  Filolao,;  qui  vogliamo  ancora  accen- nare  ai  progressi  compiuti,  nell'ambito  della  matematica,  dal  filosofo  e  scienziato  Archita,  vissuto  a  Taranto  tra  la  fine  del  v  secolo  e  la  prima  metà  del  IV,  ultima  figura  di  statista  pitagorico.  Egli  resse  per  lungo  tempo  la  sua  città  incrementan- done  la  prosperità  e  la  potenza  militare,  facendone  la  prima  della  Magna  Grecia.  Si  ritiene  che  Archita  abbia  applicato  la  propria  dottrina  matematica  alla  mecca- nica  militare,  e,  poiché  sappiamo  pure  che  fece  uso  di  strumenti  meccanici  per  ri- solvere  problemi  geometrici,  si  può  dire  che  per  primo  (e  sfortunatamente  con  pochi  imitatori  per  molto  tempo)  egli  intuì  la  fecondità  teorica  e  pratica  di  una  rela- zione  fra  matematica  e  meccanica.  Profonda  fu  l'impressione  che  la  personalità  di  Archita  suscitò  in  Platone  in  occasione  del  suo  soggiorno  a  Taranto  nel  3  89.  In  campo  matematico,  Archita  riprese  il  problema  di  Delo  secondo  le  linee  tracciate  da  Ippocrate  di  Chio,  e  lo  portò  a  soluzione  mediante  la  rappresenta- zione  strumentale  di  figure  geometriche  in  movimento.  La  soluzione  di  Archita  è  troppo  complessa  per  essere  qui  riportata:  da  essa  risulta  comunque  che  egli  era  familiare  con  i  processi  mediante  cui  si  generano  cilindri,  coni  e  altri  solidi  di  rivoluzione,  e  che  fu  il  primo  ad  usare  consapevolmente  il  concetto  di  luogo  geometrico.  In  questo  modo,  Archita  offriva  il  primo  esempio  di  applicazione  della  geometria  dello  spazio  alla  soluzione  dei  problemi  di  geometria  piana,  e  insieme  dava  inizio  alle  ricerche  che  concluderanno  alla  teoria  delle  coniche.  Ma  quello  che  va  messo  in  maggiore  rilievo,  è  lo  spregiudicato  coraggio  con  il  quale  Archita  faceva  ricorso  - nonostante  la  polemica·platonica  - a  tutti  i  metodi  e  gli  strumenti  che  permettessero  di  far  progredire  la  ricerca.  Parimenti  ardite  le  sue  impostazioni  in  aritmetica  e  in  acustica:  quanto  alla  prima,  egli  contribuì  a  sviluppare  il  concetto  che  il  numero  è  essenzialmente  un  rapporto,  perciò  in- dipendente  dalle  condizioni  di  commensurabilità  e  razionalità,  e  poté  quindi  tor- nare  a rivendicare  la  supremazia  dell'aritmetica  fra  le  scienze  matematiche;  quanto  alla  seconda,  egli  scoprì  che  il  suono  è  dovuto  al  movimento  e  all'urto  dei  corpi,  e  che  l'aria  è  un  corpo  atto  a  ricevere  la  vibrazione  e  a  propagarla La  tradizione,  che fa  di  Archita  uno  dei  maestri  di  Eudosso,  anche se  dubbia,  vale  certamente  a  simboleggiare  la  funzione  del  tarantino  nel  passaggio  dalla  ma- tematica  del  v  secolo  alla  grande  fioritura  che  ebbe  luogo  nel  IV. I filosofi romani, prevalentemente agricoltori e guerrieri, non si occupsno affatto né  di  problemi speculative. Il  loro  interesse si concentra tutto sul problema giuridico,  per l'evidente importanza del diritto nella costruzione di uno stato efficiente. La conquista romana della Macedonia li porta a contatto immediato  colla filosofia. Questo t tutt'altro che armónico. La penetrazione in Roma della filosofia infatti costituie un pericolo per lo stato romano,  minacciando di alterarne quei caratteri  che costituie la base stessa del suo successo come civilizazione.. Gl’elementi conservatori, come Catone, se ne avvidero immediatamente e cercano di opporre una seria resistenza. Un senatoconsulto ordina che i filosofi emmigrati a Roma come esuli della Macedonia,  fossero cacciati da Roma. Atene invia a Roma una missione diplomatica, formata da tre filosofi (Critolao, rappresentando il  Liceo,  Diogene  di  Babilonia,  il Portico,  e  Carneade, l’Accademia). Essi approfittarono di questo soggiorno per esporre nel Campidoglio le proprie dottrine sullo giusto. Ottennero un enorme successo, soprattutto Carneade, la cui oratoria, ricca di sottili argomentazioni dialettiche, riusce a conquistare la parte più  intelligente dell’elite romana.  Famoso è rimasto il discorso di Carneade sul contrasto fra il giusto e il vero, dimostrato proprio con l'esempio di Roma, che fonda la propria potenza sul territorio strappato con la violenza ad altri. Questa non e l'ultima ragione per cui I filosofi ateniesi, conclusa la loro missione, furono ordinati a lasciare Roma. È noto che questi due ostacoli non riuscirono a fermare il processo iniziato. Nel corso di pochi decenni, la situazione muta radicalmente. I membri delle migliori famiglie romane accorrono sempre più numerosi a studiare filosofia dagli schiavi che frequentano I circoli d’influenti  personalità  politiche.  A  Roma  e per  oltre  un  decennio Panezio, rappresentanti del Portico. Panezio  si lega  particolarmente  al  circolo di Scipione Emiliano, detto L’Affricano minore. Questo circolo – il primo circolo filosofico romano -- comprende  oltre  allo  storico  Polibio,  i  maggiori  rappresentanti  della.  cultura  romana  del  tempo:  Terenzio,  Lucilio,  Caio  Lelio,  Quinto  Elio  Tuberone,  ecc.  Roma  comincia  a  diventare  un  centro  culturale  di  notevole importanza. E erroneo tuttavia ritenere che  la  filosofia,  con  i  successi  ora  ricordati,  sia  effettivamente  riuscita  a imporre  a  Roma  la  propria stampa.  Che non sia stato così ce lo dimostra il fatto semplicissimo. Mentre il greco  si  e  rapidamente  diffusa  in  tutto  il  mondo  mediterraneo  orientale  (per  esempio  in  Egitto),  tanto  da  diventarvi  l'unico  mezzo  di  comunicazione  della  cultura,  nulla  di  simile  accadde  a Roma.  Nel  campo  linguistico, la  resistenza  del gran Catone  riporta  piena  vittoria. I romani ‘filosofano’ in  latino, arricchizzendo  il vocabolario. La  civiltà  mediterranea  finì  a  poco  a  poco  per  diventare  latina.  Nel  campo  della  filosofia  le  qualità  più  caratteristiche  del  temperamento indigeno romano  - buone  o  cattive  che  fossero  - non  andarono  sommerse.  La ripugnanza  per  la speculazione  astratta (‘scolastica’),  l'interesse  volto  più  alla conclusion pratica che  alla premessa,  la  spiccata  attitudine  del filosofo  romano  all’azione,  fanno sentire  il peso  della  loro  influenza. I notevoli  riflessi  di  questo  temperamento  caratteristico  dei  romani hanno conseguenze nell'ambito della ‘filosofia romana.’ Ora  può  essere  opportuno  - per  dimostrare  l'immediata  efficacia  che  tale  spirito  ha sugli  stessi  studiosi premettere qualche cenno intorno a filosofi partico- larmente  significativi:  Polibio  e  Strabone.  Polibio fu  invia,to  a  Roma  come  ostaggio  dalla  lega  achea  e  vi  rimase  per  oltre  sedici  anni,  nei  quali  ebbe  modo  di  assimilare  profon- damente  lo  spirito  di  quel  popolo.  Scrisse  in  greco  le  Storie  (in  quaranta  libri)  sulle  imprese  di  Roma;  opera  solitamente  considerata  come  un  grande  trattato,  oltreché  di  storia,  anche  di  geografia  descrittiva,  per  l'enorme  ricchezza  di  notizie  riferite  sugli  usi e  costumi  dei  vari  popoli  presi  in  esame.  Orbene  il  modo  con  cui  è  concepita  quest'opera  è  una  prova  evidente  che  Polibio  intende  la  ricerca  scien- tifica  in  maniera  .completamente  diversa  dai  suoi  connazionali.  Proprio  nulla,  infatti,  lo  interessano  le  teorie  generali  e  tanto  meno  le  ipotesi  sulle  zone  lontane  e  mal  note  del  mondo;  esse  non  meritano  la  sua  attenzione,  perché  prive  di  im- mediata  utilità.  Secondo  lui,  ogni  indagine  seria  deve  essere  giustificata  da  un  ben  preciso  scopo  pratico.  Il  compito,  per  esempio,  che  egli  si  propone  è  quello  di  istruire  i  romani  intorno  al  mondo  mediterraneo  in  cui  hanno  svolto  e  svolge- ranno  le  loro  conquiste:  tutto  ciò,  dunque,  che  fuoriesce  da  questo  programma  non  può  che  apparirgli  privo  di  senso  e  dannoso  allo  sviluppo  della  ricerca.  Da  un  punto  di  vista  metodologico  merita  di  venire  notato  che  la  storiogra- fia  di  Poli  bio  presenta  alcune  affinità  con  quella  di  Tucidide:  la  ricerca  tenace  della  certezza,  l'analogia- da  lui  resa  esplicita- con  il  metodo  della  medicina,  la  rinuncia  ad  ogni  abbellimento  retorico.  Ancora  più  profonde  sono  tuttavia  le  differenze  che  lo  separano  dal  grande  ateniese.  Polibio  credeva  nella  diretta  fruibilità  della  storiografia  come  magistra  vitae,  nella  autonoma  significatività  delle  informazioni  riferite  quanto  più  possibilfedelmente,  e  si  ricollegava  in  tal  modo  alle  teorie  sia  di  Isocrate  sia  di  Teofrasto.  Gli  era  ignoto  lo  sforzo  di  com- penetrazione  tra  ragione  e fatti  che  Tucidide  aveva  cercato  di  attuate  nel  suo  me- todo  storiografico,  convinto  com'era  che  solo  da  esso  potesse  scaturire  quella  essenziale  verità  della  storia  la  cui  «utilità»  era  certamente  meno  immediata  ma  più  fondata  e  più  generalmente  feconda.  In  tal  senso  la  storiografia  di  Polibio  sta  a  quella  tucididea  esattamente  come  la  filosofia  ellenistica  sta  a  quella  del  v  e  del  rv  secolo.  Strabone  visse  un  secolo  e  mezzo  dopo  (63  a.C.-25  d.C.).  Nato  ad  Amasea  nel  Ponto  da  una  famiglia  di  sangue  misto  greco-asiatico,  fu  anch'egli  fortemente  influenzato  dallo  spirito  romano  (come  ce  lo  dimostra  la  decisione  con  cui  so- stenne  il  dominio  politico  di  Roma).  Compì  lunghi  viaggi  e  scrisse  una  Geografia  (Geograftkd),  ampio  trattato  in  diciassette  libri.  Ebbene,  questo  trattato  dimostra,  non  meno  della  storia  di  Polibio,  il  nuovo  tipo  di  interessi  che  anima  il  suo  autore:  brevissima  è  la  parte  dedicata  all'aspetto  matematico  della  geografia;  ricchissimeLa  filosofia  postaristotelica  e  diffuse  sono  invece  le  notizie  sugli  usi,  le  istituzioni,  la  storia  dei  paesi  via via  presi  in  esame.  La  differenza  fra  l'indagine  di  Strabone  e quella  compiuta  dai  geo- grafi  alessandrini  di  qualche  secolo  prima  non  potrebbe  essere  maggiore.  L'og- getto  di  studio  ha  conservato  lo  stesso  nome,  ma  il  modo  con  cui  è  condotta  la  ricerca  dimostra  che  il  significato  stesso  della  scienza  è  completamente  mutato.  L'espressione  più  caratteristica  dell'interesse  prevalentemente  pratico  del filosofo romano  nell'ambito  delle  ricerche, è  l'eclettismo.  Non  che  esso  sia  nato  per  opera  del filosofo romano,  né  che  tutti  i  filosofi  romani sono  direttamente  o  indirettamente  legati  ad  esso. Ma  nell'ambiente  culturale di Roma, l’ecclettismo trova le  ragioni  del  suo  successo. Il  suo più illustre sostenitore e Cicerone.  Per  trovare  un  esempio  di  filosofo  romano  che  non  ha  compiuto  alcuna  concessione  all'eclettismo,  bisogna  riferirsi  a Lucrezio. La particolare posizione di Lucrezio non è che  la  conseguenza  logica  della  sua  adesione a un sistema o  dottrina. Già sappiamo, infatti,  che una dottrinapuo essere un unico  indirizzo  dmantenutosi  costantemente  fedele  alla  propria  concezione  teoretica,  e. g. del giardino, senza  evoluzioni  interne,  e  questa  sua  stessa  staticità  esclude  che  abbiano  potuto  sorgere  seri  tentativi  di  conciliazione  fra  esso e gli indirizzi avversari.  A parte Lucrezio, però, è difficile scoprire  filosofi romani che  non  mostrino  qualche  venatura  di eclettismo (forse Catone il minore, il perfetto stoico). Espli- citamente  eclettico è l'amico del avvocato Cicerone, ma anche del genio militare Marco Terenzio Varrone; atteggia- menti eclettici  caratterizzeranno  i  grandi  filosofi romani rappresentanti del Portico e del Cinargo, e del Liceo e l’Accademia. del  periodo del principato. Un  po'  di  eclettismo,  mescolato  con  molto  della “Scesi”,  puo venire  ritrovato quasi dovunque tra gli uomini più rappresentativi e gli spiriti più raffinati della filosofia romana,  come per esempio in Orazio, che riusce ad esten- dere la propria concezione eclettica fino ad includervi anche molte dottrine filosofiche  caratteristiche  degli  epicurei.  L’eclettismo  ebbe  le  sue  prime  affermazioni  nella cosidetta Accademia  e  nel Portico. Esso rappresenta un tentativo di soluzione della crisi che la filosofia stav  attraversando a Roma,  e rispecchiò  una  diminuita  fiducia da parte  di  ciascuna  delle sette  - nei  propri  principi..  Da questo punto di vista possiamo giustamente  sostenere che l’ecceltismo esprime un rilassamento del rigore e la gravitas dello spirito  filosofico,  una  profonda  stanchezza  e  una  mancanza  di  originalità.  Esprime  anche,  però,  la raffinata  consapevolezza  dei pericoli cui va incontro qualsiasisistema filosofico coerente, e la convinzione  di  poter  trovare, su di un piano meno rigido che quello dei principi  generali, la via per una comprensione e per una soluzione a un problema più  interessanti per il filosofo romano concreto. Da student, Cicerone ascolta con molto interesse le lezioni di filosofi che,come  Filone  nell'Accademia e Posidonio nel Portico,  sostenneno  la  necessità  di  un'evoluzione  filosofica  in  senso  eclettico,  e  si  lascia  da  essi  facilmente  convincere  che  qualcosa  di  buono  si  trova  di  fatto  in  varie  dottrine,  specialmente  nei  loro  precetti  d'ordine  pratico,  che  il più delle volte coincidono,  pur venendo fatti derivare da  pri11cipi  molto diversi  e in  apparenza quasi  antitetici.  La  adesione del avvocato Cicerone all'eclettismo fu dunque immediata e totale, sembrandogli che esso dovesse costituire il frutto più maturo dell'ormai plurisecolare travaglio filosofico. Proprio questo atteggiamento largamente comprensivo gli consente di  studiare  con  sincero  interesse  tutta  la  storia  della filosofia romana,  sforzandosi con impegno e intelligenza di renderla accessibile ai romani. Il suo perfetto possesso della eloquenza latina permitte a Cicerone in  particolare,  di  trovare  espressioni  eleganti  e  so-brie  per  le più difficili formulazioni tecniche. La filosofia, dice nelle  Tusculanae  disputationes, è rimasta fino ad oggi negletta,  e  su  di  essa  le lettere nostre, non ha portato nessuna luce.Ma io debbo illuminarla ed esaltarla, così che, se io sono stato di qualche utilità ai miei concittadini romani nelle faccende attive della vita, puo esserlo  anche,  se  mi  riuscirà,  standomene  ozioso. Se Cicerone ha il torto di dimenticare, in queste parole, il contributo dato alla filosofia romana da  Lucrezio,egli riesce tut- tavia  ad esprimerci molto bene l'animo con cui si  accinge a scrivere questo o quello saggio o dialogo di filosofia.  È un dovere che Cicerone compie per colmare un gravissimo  vuoto nelle letttere romane.   Cicerone sente che,  se anche non introduce Nessun concetto originale,  il semplice riuscire a mettere in  circolazione,  tra I suoi amici, un  patrimonio  così  serio  come  lo e la  filosofia  costituie  un  merito  di  cui  i  concittadini  dovranno  essergli grati. E di fatto gliene saranno grati non solo i concitta- dini,  ma  tutta la cosidetta civiliazione occidentale (senza gallilei) anche  i  posteri,  poiché  i  suoi  scritti  rappresenteranno  per  molti  secoli  una  delle  principali  fonti  per  la  conoscenza  del  pensiero  filosofico.Tra  le principali saggi e dialogi di  Cicerone ricordiamo, oltre le Tusculanae (Le Tusculane),  il  “Delle  leggi”, “Le deffinizioni del bene e del male, “La  natura  degli  dei,” “Sui  uffizi),  il  Sogno  di  Scipione e la sua fonte, La repubblica, Ortensio, (un'esortazione alla filosofia che influenza profondamente  Agostino,  e che era un'imi- tazione  del  Protrettico di Aristotele),  ecc.  E callunniante asseverare che Cicerone si limita a presentare le filosofie altrui senza apportarvi nulla di suo. Cicerone le ri-pensa dal suo punto di vista,  le espone in modo tale da poterle utilizzare  a  favore  della  concezione  eclettica. Ora utilizza Platone, ora Aristotele,  ora  invece  la Scessi o ilPortico e conclude.Qui si accenna al fatto che Cicerone si accinse a scrivere opere filosofiche solo quando venne escluso dalla vita politica per l'affermarsi del primo triumvirato e, in seguito, per il trionfo di Cesare. Proprio Cicerone aveva pubblicato, postumo,  il  poema  di  Lucrezio,  e  tale  dimenticanza  è dovuta probabilmente alla posizione  dichiaratamente  anti-giardino da  lui  assunta  in  sede  filosofica. con un generico probabilismo, che ammette proprio come unico criterio di verità il consenso dei filosofi (prova evidente -secondo Cicerone  - che esistono delle idee innate, a tutti comuni). In queste molteplici  discussioni, non  prive talvolta di incoerenze l'una rispetto all'altra, nel difficile ecomplesso lavorio di selezione e coordinamento delle tesi, una preoccupazione appare costantemente presente  in  Cicerone:  quella di rendere ogni romano consapevole  dell'immenso  valore  della  filosofia.  Solo la filosofia,  infatti,  può farci cogliere il  valore esatto di essere umano,  delle  nostre  conoscenze;  solo  la filosofia ci  insegna a  guardare con effettiva serenità  la vita,  mostrandoci con chiarezza ove risiede la  vera  felicità . Non  v'è  dubbio  che,  per il senso pratico dei romani,  questa  capacità della  filosofia dialettica costituie la  sua  più  seria  giustificazione:  unica  giustificazione – il pro e il contra -- veramente sicura e  da  tutti  accettabile Marc’Aurelio Antonino nacque  a  Roma . Salì  al  trono  imperiale alla  morte  di  Antonino  Pio  di  cui  era  figlio  adottivo;  E convertito  al portico dalla  lettura  di  Epitteto.  Scrisse il “ad seipsum,” una  delle  più  interessan i  opere  filosofiche  della  sua  epoca:  Colloqui  con  se  stesso  (Ta  eis  heaut6n),  ordinariamente  nota  col  titolo  di  Ricordi  (in  dodici  libri).  Le note dominanti della sua filosofia- nella quale emergono sempre più chiari  i  caratteri dell'ultima  Stoa  - sono un  disprezzo  ascetico  di  tutti i beni  esteriori  e  una  profonda  religiosità.  L'essere  divino  non  è  semplice  fato,  ma  è  soprattutto  provvidenza  universale.  Il  rapporto  dell'uomo  con  dio  è  un  rapporto  di  effettiva  parentela,  che  di  conseguenza  viene  a  legare  fra  loro  tutti  gli  uomini.  Oltre  ai  caratteri  ora  accennati,  è  tuttavia  presente  in  Marco  Aurelio  un  carattere  nuovo,  evidentemente  connesso  proprio  al  tipo  di vita attiva, gravida di responsabilità, che gli tocca in sorte come capo dello stato. Non a caso - egli pensa l'uomo occupa la propria carica, ma perché espressamente postovi dalla provvidenza dl divino. L'uomo ha quindi il dovere di agire con tutta la necessaria energia, di non sottrarsi ai compiti -- per quanto difficili e ingrati affidatigli da tale provvidenza. È la forma mentis del cittadino romano che si inserisce in quella del filosofo del portico. Né fra le due sorge alcun contrasto. Anzi, esse riescono a fondersi in una mirabile armonia, permeate entrambe da un senso di vivissima religiosità. Neanche il filosofo romano, malgrado il loro indiscusso spirito pratico, sa sviluppare a fondo la preziosa eredità degl’ingegneri. Essi rivelarono senza dubbio grandi capacità nella costruzione di strade, di acquedotti, di fastosi edifici, ma non riuscea  a comprendere l'interesse della vera e propria ingegneria meccanica, né avvertirono l'importanza pratica di ricerche direttamente o indirettamente rivolte alla scoperta di nuove fonti di energia. Il fatto appare tanto più singular quando si pensi che proprio risale la massima invenzione tecnologica dell'antichità: il mulino idraulico.È un fatto che non sembra spiegabile se non facendo appello alla difficoltà di comprendere i vantaggi che avrebbero potuto provenire dallo sfruttamento sistematico delle varie forme di energia naturale, mentre esse apparivano. Assai più costose dell'energia umana (schiavi) e animale. Per quanto riguarda lo scarso interesse dimostrato dal filosofo romano verso gl’ artificiosi congegni esposti negli Pneumatikd di Erone, va inoltre osservato che la via da percorrere, onde giungere ad una lorutilizzazione su vasta scala, non puo non apparire troppo lunga e difficile al filosofo romano - come appunto gl’ingegneri romani -- direttamente impegnati nelle realizzazioni pratiche immediate. L'abbandono di tale atteggiamento richiederà una profonda trasformazione sociale e culturale, che ha inizio solo parecchi secoli più tardi. Fra gli filosofi romani che scriveno saggi di  ingegneria di qualche pregio, il più importante è Vitruvio, ingegnere militare di Giulio Cesare e Ottaviano. Il suo saggio principale, “De architectura", reca  evidenti gl’ultimi sviluppi della matematica e dell'astronomia e le tracce dell'influenza degl’ingegneri. Vitruvio  ricorda  infatti  esplicitamente  Ctesibio,  riferendoci parecchie sue invenzioni  (la pompa, una balestra ad aria  compressa, l'argano  idraulico,  ecc.).  Il  voluminoso trattato di Vitruvio s’articola in libri che esaminano una gamma assai vasta di argomenti: dalla preparazione filosofica richiesta  all'architetto ai problemi specifici concernenti la costruzione di edifici pubblici e privati, all'idraulica, alle macchine da guerra. È inoltre ricco di richiami storici, di indicazioni giuridiche, di massime morali, e costituisce una preziosa fonte per studiare la cultura  tecnologica, e in generale i costumi  dell'epoca. In essa sono tuttavia riscontrabili alcuni non lievi difetti. Pur sforzandosi di risultare tecnicamente chiaro e cercando ove necessario d’introdurre nuove espressioni adatti al linguaggio tecnico,Vitruvio non può nascondere talune pretese stilistiche, che spesso rendono oscura la dizione, ove accanto a volgarismi e plebeismi si trovano espressioni ampollose e ricercate. Inoltre Vitruvio non è padrone sicuro della materia di cui tratta, onde non solo non riesce a portare contributi nuovi, ma spesso suscita anzi l'impressie di non comprendere bene, egli stesso, le ricerche che si sforza di esporre. Gli è che la vera tecnica non si identifica con la pura e semplice pratica; essa è scienza applicata, e, come tale, richiede dai suoi cultori una profonda preparazione scientifica. Ma questa non poteva essere presente in chi aveva manifestamente  studiato  troppo  poca  matematica.  Più  che  di  ingegneria  la  cultura romana si era occupata di agricoltura, su cui ci sono giunti i trattati di Catone, di Varrone e di Columella. Fu proprio una disciplina tecnicoscientifica parallela  all'agricoltura ad avere in Roma gli sviluppi  più  originali:  l  'agrimensura,  detta  gromatica  dalla  groma,  lo  strumento  che  gli  agrimensori  romani  usavano  nellamisurazione dei terreni. Il codice Arceriano ci ha conservato una  parte delle opere degl’agrimensori da cui si possono ricavare i vari interessi dei agrornatici ed i loro importanti compiti. Ad essi e ffidato il compito di costruire gl’accampamenti, fondare le città e le colonie, misurare l’altezze dei monti e le larghezze dei fiumi nelle campagne militari, far applicare le leggi agrarie e stabilire le confische ed i tributi. Apposite scuole erano istituite nel principato romano per istruire questi funzionari  imperiali nella geometria, intesa nel suo aspetto pratico, nel diritto, nell'arte militare e nei rituali  religiosi  che  accompagnavano le  loro  opere. Fra i maggiori  autori agromatici possiamo ricordare Balbo, famoso per aver condotto a termine l'opera di misurazione di tutta l’Italia che era stata iniziata con Cesare, Igino, e infine Sesto Giulio Frontino, una volta console sotto Vespasiano e Traiano, autore anche di un'opera di arte militare  sugli Stratagemmi e di un'opera  sugl’acquedotti  di  Roma, “De  aquis  urbis  Romae”. Grice: “Geymonat, for some reason, is obsessed with science as we at Oxford are not. Indeed, he wrote a LOOONG history of “THOUGHT”, which is a word we don’t use at Oxford. The French and Latin types in general use it – pensée – the idea is something like science, mathematics, philosophy, you name it. So, his remarks about how the ignorant Romans started philosophy is interesting. According to Geymonat it was a generational thing. Catone did not want to do anything with it – for reasons of ‘state’, Geymonat says, i. e. philosophy would be subversive, as it indeed is. The odd thing is that it attracted the knock knock it’s the youngest generation knock knock knocking at the door. The Senate forbade philosophers in 161 and five years later Carneade and two more arrived and that changed things. Geymonat makes two comments. For one, the best youth – I figli delle migliore famiglie romane – would have something like the Americans call a Rhosdes – they would go to Athens as a ‘finishing school’. But what was interesting is that Scipione Emiliano started a club in his palazzo – more like a villa – where Polibio Terenzio, Cirilio, Tiburone, Elio, Celio attended --. The third terribly interesting comment Geymonat makes is twofold. For one, those Greek slaves who called themselves philosophers (Strabone and Polibio, are the only two he quotes) did write, respectively, history and geography, but ‘tuned to the Roman ear’. Geymonat speaks of ‘il temperament romano’ which he characterizes in a fourtfold way: concretto, interested in the conclusions – conclusive, rather than the premises – prattico --. So the history by Polibio is only one that may interest a Roman, a far cry from Thucydides philosophical prose! And the geography of Strabone has no information on calculus and measures – only bits about institutions of people the Romans might conquer – nothing about foreign distant lands! The second most notable remark is then that Scipione Emiliano paid lip service to the Hellens – Catone’s ‘resistenza’ won in the end – as is seen by the mere fact that Latin was retained as the lingua romana – in romano – unlike the Empire of the East where Greek was adopted – So with the fall of the Eastern Empire, the West became bilingual. The rough tongue of the Latins survived this fashion for things Hellenic! – Geymonat spends enough time on what Cuoco calls ‘filosofia italica antica’ – it starts with Crotone and Metoponto – where Pythagoras settled. With his theorem he underwent a crisis, and philospophy traveled to VELIA with Parmenide and his lover, Zenone, and Melisso – reductio ad absurdum, and tertium exclusum. Then there was Girgenti, and that crazy one, Empedocle, who however wrote some witty things about the four elements (in verse! Like Parmenide). Then there’s Filolao, educated at Crotone under Pyhathogras but himself from Taranto, and himself teacher of Archita of Taranto. Then there is the sophistical movement started with Gorgia of Lentini – and Siracusa – So, ‘philosophy’, as we know it, had an Italic origin, and is molded in the language of the conquering Romans! Ludovico Geymonat. Geymonat. Keywords: ragione -- temperamento romano – concretto – pratico – Catone – il trionfo di Catone con la lingua latina – la gioventu romana entusiasta con Carneade – I Scipioni ellenisante – la gioventu delle megliore familie – grand tour a Grecia! -- il teorema di Picard, il teorema di Caratheodory per le funzione armoniche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Geymonat” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Ghersi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Celle Ligure). philosopher -- curator of The Swimming-Pool Library at Villa Grice, Liguria, Italia. Ghersi has an interest in Grice’s philosophybut finds Strawson pretty enjoyable, too!Theere’s something about the Oxonian nonsensical philosophical humour that Ghersi appreciates like none other. Ghersi often makes candid fun of some of Grice’s inventions, such as that of the conversational “common-ground status”!Ghersi enjoys the full-time paradoxes of the bald king of France. Ghersi’s favourite humorist is J. K. Jerome, but also enjoys Wodehouse.And finds Dodgson just fascinatingThe Swimming-Pool Library is mainly organised along Ghersis’s personal tastes, as a personal library should!Ghersi is not particularly appreciative of poetry, but will enjoy the ballad set to piano! Ghersi’s favourite genre is drama, since “it is so clear in implicature.” Grice is a frequent contributor to cultural circles and societies and a host like none otherVilla SperanzaSperanza appreciates Ghersi’s talent to infuse enthusiasm in all type of endeavours --. Keywords: love, soul, life, inghilterra. Refs.: Ghersi e GriceGrice e Watson --. Refs. BANC MSS 90/135c. Vide Speranza.Vide SperanzaVide SperanzaVide Speranza. – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Ghezzi – i tordi ubriachi – filosofia italiana – dirtto artificiale -- Luigi Speranza – (Milano). Filosofo. Grice: “I love Ghezzi: he has explored ‘turdus,’ as in ‘sturdy,’ ‘drunk as a thrush’ – but also a count who was condemned by the church; he has explored the history of masonry – in Italy it started in Calabria – from a semiotic point of view, ‘il segno del compassso,’ – and he has explored on Ayax’s ‘nichilismo razioale’ – among many other topics – also an ‘epistemology of willing’ – epissttemologia della volonta --.” Grice: “Typically of Italian philosophers, he has explored Italian  history, ‘ceneri del diritto,’ and a confrontation between people and ‘stato’. Si laurea a Milano sotto Bobbio con “La Filosofia del Diritto.” Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d'Italia.  Marginalità e Società,  ell'Università degli Studi dell'Insubria (sede di Como). Sociologia della Devianza. Studia il positivism giuridico dal punto di vista del concetto di diritto. Affrontato il tema del pluralismo dei valori e degli ordinamenti giuridici, del federalismo, criminalità, devianza, marginalità e pluralismo nell'ambito della Sociologia del Diritto Penale, sulla giustizia e sulla legittimità degli ordinamenti giuridici, con particolare riferimento alla figura del "deviante giuridico", introducendo i concetti che porteranno alle teorie della "divergenza” sociale, marginalità, Si rileva essersi principalmente dedicato al tema del nichilismo giuridico, proponendo una visione nichilista, definite come “l’assenza del valore” -- del tutto neutra circa la potenzialità “regolatrice” e la potenzialita ordinatrice di una norma. L’approfondimento del nihilismo assiologico o valuativo risulta essersi svolto attraverso il confronto con filosofi contemporanei di questo ambito, tra cui Ferrari, Severino, e Giorello. Scetticismo. La Rivoluzione del Diritto come Estetica, in estensione del suo libro Il Diritto come Estetica. Nel volume è stata inclusa, come Appendice, una Raccolta di diversi saggi di filosofi contenenti riflessioni ed approfondimenti interamente riferiti a Ghezzi. Altre opera: “Socialismo e sociologia giuridica: "Centro lombardo studi socialisti, Milano, “Devianza tra fatto e valore nella sociologia del diritto” (Giuffrè, Milano); “Federalismo,  I e II, Patera Palermo Editore,  Diversità e pluralismo. La sociologia del diritto penale nello studio di devianza e criminalità, Raffaello Cortina, Milano, “Il segno del compasso. La massoneria e i suoi persecutori attraverso simboli, idee, fatti e processi, Mimesis, Milano. “Le Ceneri del Diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano. Le lacrime di Hiram. Autobiografia incompleta di un Libero Muratore, Edizioni della Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia, Milano “La Scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto, Mimesis, Milano  Federalismo laico e democratico, Mimesis, Milano; “I tordi ubriachi” Un viaggio iniziatico, Mimesis, Milano,  Sociologia giuridica del lavoro, Mimesis, Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Mimesis, Milano Della vita e della morte. Vulnerant omnes ultima necat, Mimesis, Milano; “Nichilismo razionale e mistico. Indicazioni per il nuovo mondo, Mimesis, Milano); “Stranieri, ospiti, alieni, alienati e pluralismo culturale” (Mimesis, Milano); “Nichilismo come valore senza valori, Mimesis, Milano); “Abusi di stato: Risarcimento del danno al cittadino, Mimesis, Milano); In ricordo di Riccardo Bauer, di Ghezzi e Arduino, C.R.E.A., Milano; “Educare alla democrazia e alla pace. Bauer. Scritti scelti, L.I.D.U., edizioni Raccolto,  Alle origini dell'Umanitaria, Ghezzi e Canavero Raccolta Edizioni-Umanitaria, L'immagine pubblica della Magistratura italiana, di Ghezzi Giuffrè, Milano Curatele. “Etica contro politica”; Morris L. Ghezzi, edizione Iesi, Ferrari, Ghezzi,‘’Diritto, cultura e libertà. Atti del convegno in memoria di Renato Treves’’ (Milan), Giuffrè, Milano, Studi preliminari di sociologia del dirittoTheodor Geiger, Morris L. Ghezzi, Nicoletta Bersier Ladavac e Michele Marzulli, traduzioni di Leonie Schröder, Mimesis, Milano); “Criminologia” (Mimesis, Milan). Pubblica amministrazione. Diritto penale. Criminalità organizzata, Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata, Carola Parano, Giuffrè Editore, Stefano Carluccio, In ricordo di Morris Ghezzi, anima della Società Umanitaria, su CriticaSociale.net. 1 Dei delitti e delle pene. Rivista dell'Agenzia del territorio, L'Agenzia, rif. Archivio Università degli Studi dell’Insubria. Cura “Studi preliminari di sociologia del diritto” (Mimesis, Milano); “Socialismo e sociologia giuridica: introduzione Arduino, Centro lombardo studi socialisti); La scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto, Legge di Hume e tesi giusnaturalistica: un’antitesi teorica nel pensiero di Norberto Bobbio, su dialettica e filosofia.  Etica contro politica, di Elias Diaz, Ghezzi, edizione Iesi,  L' immigrato extracomunitario non marginale. Una ricerca empirica sul territorio Milanese, in ‘’Marginalità e Società’ Berzano, Renzo Gallini, Giovani E “Violenza: Comportamenti Collettivi in Area Metropolitana, Ananke, con richiamo ad art. Di Ghezzi in “Marginalità e Società, II”.  Le ceneri del diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano, al Ghezzi fa riferimento Rosario Minna in Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè Editore, Morris L. Ghezzi, Federalismo Laico e Democratico, Mimesis, Milano Arturo Colombo, Franco Della Peruta “et al.”, in Carlo Cattaneo: i temi e le sfide, Ed. Casagrande, Milano, Con riferimento al Federalismo del Ghezzi: “mentre ci sarà chicome Ghezzi pur con tagli molto diversi, collegherà la prospettiva degli Stati Uniti d'Europa con l’altra formula cattaneana degli Stati Uniti d’Italia.»  Edmondo Bruti Liberati in "PostfazionePotere e Giustizia", richiama Morris L. Ghezzi 3 in: Governo dei giudici. La Magistratura tra diritto e politica, E. Bruti Liberati et al., Ed. Feltrinelli, Berzano, Gallini, cita di Ghezzi “Alle origini della labelling theory e del concetto di devianza”, da Marginalità e società, Ghezzi e Simonetta Balboni, Mimesis, Milano, Cirus Rinaldi fa suo il concetto di Devianza di Ghezzi. “come sostiene Ghezzi essa svolge un ruolo euristico [empirico] non solo nella spiegazione di fenomeni di stigmatizzazione di intere categorie, ma anche penetrando nella marginalizzazione, che agisce all’interno delle categorie” in Devianze e crimine. Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, Cirus Rinaldi e Pietro Saitta, PM edizioni, Scrive M. Marzulli, BRÜCKE als sein Ordinamento sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come estetica, in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca, Silvio Bolognini, Mimesis, Ferrari, in Ciò che resta. Le ultime parole diGhezzi, in Sociologia del Diritto, Fascicolo gennaio, ed. F. Angeli,   Emanuele Severino, nel capitolo 4 di Dispute sulla verità e la morte (Rizzoli) prende a riferimento un libro di Ghezzi (Il Diritto come Estetica) e s’intrattiene lungamente sul pensiero dell’autore.  Giulio Giorello si intrattiene sul testo del Ghezzi (“Il Diritto come Estetica”), lo commenta, ne riporta il pensiero, secondo cui « "la morale non è altro che una forma dell’estetica"» e ricorda la figura "nihilista" dell'autore. Da "Introduzione" di Giorello, Piacere, Diritto e Burocrazia. In ricordo di Morris Ghezzi, inGhezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica, Furio S. Ghezzi e Simonetta Balboni, Mimesis, Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Ghezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica (Domenico Mazzullo, ‘’Prefazione’’, “Appendice“: saggi di: Isabella Merzagora, Riflessioni di una criminologa prestata alla filosofia del diritto, Claudia Roxana Dorado, El devenir del derecho: reflexiones acerca de las concepciones jurídicas de Ghezzi,  Il futuro del diritto: riflessioni sulle concezioni giuridiche di Ghezzi,  Metodo di ricerca sul rischio sociale,  Marco A. Quiroz Vitale,  Esistenzialismo e Nihilismo come confini aperti del Giurispositivismo; Enrico Damiani di Vergata Franzetti, Il Diritto come Estetica,  Emanuele Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Ghezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica, Simonetta Balboni e Furio S. Ghezzi, Mimesis, Milano, “Prefazione” di Domenico Mazzullo, “Introduzione” di Giulio Giorello, In “Appendice” saggi di: Isabella Merzagora, Claudia Roxana Dorado, Marco A. Quiroz Vitale, Damiani di Vergata Franzetti. Michele Marzulli, "BRÜCKE als sein” Ordinamento sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come estetica." in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca, Silvio Bolognini, Mimesis,  Vincenzo Ferrari, Ciò che resta. Le ultime parole diGhezzi, in Sociologia del Diritto, Fascicolo, ed. F. Angeli, Cirus Rinaldi e Pietro Saitta (a cura) in Devianze e crimine, Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, a cura di, PM edizioni,,Rosario Minna, Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè Editore,  Sociologia del diritto Filosofia del diritto Criminologia.  zi Le doverosità statutarie ritualirischianoc, on il passaredel tempo, di perderela loro dimensione rilevanza originaria, per trasformarsi in meri adempi mentrio utinari, prividi quella dimensione creativa, costruttiva, propositiva che ne aveva motivato l a nascita. Dunque, anche per quanto riguarda la nostra relazione morale si rischia di far scivolar e lentamente nell’oblio le istanze storiche, che nei accomandarono I'introduzione, per affronter la comeuna incombenza, neppure moltopiacevolee, comunque retoricamente orientata riempire semplicsi paziscenograficei non ad essere strumento di autoriflession inedividuale di riflessione collettiva per la fratellanza tutta sul passato, nonché potente strumentodi stimolo creativo per affrontare con consapevolezzale realtà future. Pur troppopiù che un rischio tale situazione si e negliuliimi tempi manifesta t ac o m e avvenimento. Conseguentement pea r e necessario, prima di entrare direttamente nella sostanza delle questionsiulle quali riflettere, ricordare brevemente il significatto tradizional e profondo della relazione morale propria della libera moratoria del Grande Oriente d'ltalia. Per comprendere tale significato è necessario conoscere funzioni e competenze di chi e preposto alla sua stesura; ossia del Grande Oratore Rituali, Costituzione Regolament di el Grande Oriente d'ltalia come ognuno di noi, al calice divinoe assoggettar ma il volere del destino. JohannWolfgang Goethe   assegnano al Grande Oratore competenze in campo iniziatico, culturale e giuridico (ex art. 119 Reg.). In oltre il Grande Oratore, in quanto Oratore e, competente as volgere queste stesse funzion ainche ex art. 36 Reg., funzione i competenze che, per altro, salvo le elencazionei semplificativ reiportateda quest'ultim aorticolo, nella sostanza della materia disciplinatta endonoa coincidere. Pertanto la relazion e morale da discutere in Gran Loggia ex art. 28, letter ad, Cost., in quanto assegnata nella sua stesura al Grande Oratore e previament esaminata (ex art. 38, lettera f, Cost.) in riunione di Giunta del Grande Oriented'ltalia, non può che consistere in un sistematico espletamenta onalitico e propositivdo elle funzionei delle competenze del Grande Oratore. Risalendo, poi, alla tradizione storica all'interno della quale nacque l’Istituto delle relazioni morali, e facile comprender ceome esso fosse, al contempou, nasorta di biiancio criticodelle attivita svoltee, soprattutto, della loro incisivita sia all'interno, sia all'esterno dell'lstituzione, nonché un programma ed un impegno di attività per il futuro. Dunque, da un lato, il Grande Oratoree tenuto nella propriarelazionemoralea richiamare l'attenzione della Comunione sui temi, che repute maggiormente rilevantpi er la stessa, privilegiando nael meno uno,e, dall'altra parte, ad analizzare la moralità interna, dei suoi componenti, dei fratelli tutti nelloro insieme, per evidenziarne a correttezza caomportamentale, che non può essere intesa come mera correttezza giuridica. Conseguentemente la presente relazione morale verrà idealmente divisa in due parti, l’una riguardante la situazione morale e giuridica della nostra comunione, e de credo, a tutti evidente quanto sia necessario un generale richiamo in questa direzionem, entre l'altra rivolta aite mitrattatei da trattare in ambito iniziatico, FILOSOFICO, culturale, sociale. Per meglio svolgere soprattutto questa seconda parte della relazione morale ho reputato opportuno non far scaturire i contenutti e matic di a u n mero lavoro solitario dell'ufficio del Grande Oratore, confortato al più dalle riflessioni della Giunta, ma mi e parso opportune, oltre che maggiormente proficuoai fini dell'individuazion dei un corretto quadro di attivitae di aspettative in materia, rivolgermi direttamenta ei fratelli della Comunione impegnatsiul territorio nazionale nel campo dell'elaborazione de,lla proposizione dell'organizzaziod nelle iniziative iniziatico, culturali, che sono proprie della nostra tradizione. A tale fine, organizzo un incontro aperto a tutti i Fratelli che avessero desiderio di partecipar vai, Massa Marittima presso la R. L. Vetuloniae colgo questa occasione per ringraziare i Fratelli della R. L. Vetulonia per la loro calorosa accoglienza, nonché tutti i partecipanti all'incontro per i preziosi contribut fiorn i t i alla discussione. L'incontro ha visto la partecipazione numerosa di molti Fratelli come singolic, ome rappresentandti associazion ciol legate alla nostra lstituzione e come operatori culturali. I lavori sono stati pienamente soddisfacent pier tuttii partecipantei d,in particolare per me, in quanto mi hanno fornito numerose ed utili indicazionpi er la presente relazione morale. Nel ringraziara encora, dunque, tutti i Fratelli, che hanno contribuita olla buona riuscita dell'iniziativa, posso sin da ora comunicare che intendo continuare su questa strada anche in future ed auspico una partecipazion sempre piue stesaa questo modello di incontro. L'immagine sterna della Libera Muratoria L'immagine profana della Libera Muratoria per lunghi anni, soprattutto in Italia, e stata offuscata dai pregiudizi, dalle calunniee, talvolta, anche dalla congiura del silenzio perpetrate contro di noi dai nostri nemici storici, ossia dai seguaci di integralis meidi totalitarism piolitici, religiose, i FILOSOFICHE dii ogni colore. Tutta via, pur troppo, però, troppo spesso per insipienz ai gnoranza o d’invidia la calunnia e dil disprezzo sono nati anche dal nostro stesso seno e si sono diffuse nel mondo profane grazie ad un masochistico cupio dissolvoi adun diffuso atteggiament poassivo ed autocommiserativo, peggio ancora, ad una profanità penetrate tra le nostre colonne ad opera di fratelli, che erano e sono rimasti p i e tragrezza. Fortunatamente questi fenomeni, sebbene ancora presenti, soprattutto ad opera di fratelli inveterat di a lunghi anno negli antichi vizii, come giustamente ha piu volte ricordato il nostroVenerabilissimo Gran Maestro, tendon a non avere più presa sull'opinione pubblica profana grazie soprattutto alla decennale politica di chiarezza, di trasparenze a di impegno civile intra pres daall'attual Gran Maestranza. Se cosi si puo dire, la battaglia per I'affermazione della nostra legittima presenza nella società democratica italianae per la costruzione di una nostra imagine pubblica positive è stata vinta. Oggi i mass-media distinguono quasi sempre con rigor etra Grande Oriente d'Italiae massoneri e irregolaroi deviate, riportano fedelmente, anche se ancora con non sufficiente frequenza, le nostre opinioni e le nostre iniziative ci riconoscono uno spazio nell'informazione, che, sebbene da estendere, ha tuttavia gia il carattere della correttezza. Anche le istituzion piubbliche hanno mutato atteggiamentnoei nostril confronti, riconoscendo cin taluni ambiti, che storicamente ci appartengono, come interlocutori qualificati (partecipaziona ecommissioni, comitati pubblici, etc.); i messagg di elle massime Autorità dello Stato alle nostre manifestazion si ono ormai diventa te una felice consuetudine, sempre piu frequentemente politici ed amministrator piubblici partecipano alle nostre iniziative culturali e le Comunioni massoniche estere guardano alla nostra realtà con rispetto ed ammirazione. In sintesi, la società civile ci ha restituito il ruolo che   storicamenti en ltalia e sempre stato nostro. Poiché, però, nessuna Conquista nella storia umana e definitiva e quandoci si ferma a contemplare compiaciuti risultatir aggiuntisi rischiadi perdere quanto si è faticosamente conquistato, non solo è necessario perseverare nell'impegno sino ad ora profuse nella costruzione della nostra imagine pubblica, ma e altre sì indispensabili entensifica ruelteriormente in modo operare attraverso un radicamento sempre piu profondo sempr epiù rigoroso tale impegno e, soprattutto, della nostra imagine nell'azione sociale effettiva, nella nostra reale presenza storica, nelle azioniche quotidiana menctei ascuno di noi deve compiere per essere degno della maestranza cui appartiene. Nelle attuali societa postmodern e l'immagine è molto, talvolta quasi tutto, ma non è tutto. Oltre all'immagin serve anche la sostanza da cui tale imagine dovrebbe derivare. In particolare, proprio nella via iniziatica liberormuratori all’immagine non dovrebbe essere il vuoto simulacro di irrealistiche aspiraziono i diabiliingannim, a la Fedele icona della realtà, di cio che vogliamo esseree siamo come Liberi Muratori e come appartenenatil Grande Oriente d'ltalia. Pertantole azioni di markefrng sono senza dubbio necessarie in una societa come la nostra, per corsa da apparenze sempre più invasive m, a eproprio la nostra natura iniziatica e tradizionala e imporcdi i essere cio che desideriama opparire P. erraggiunger qeuesto obiettivoe indispensabil perogettared, a bravi architetti, una fattiva presenza nella società in cui viviamo; una presenza che sia significativa, ttraverso le nostre opere.dei valori che da sempre rappresentiamo T.arepresenza avrà la prevalente componente individuale, ciascun Libero Muratore e chiamatoa fare come singolo la propria parte di lavoro, a dare con il proprio comportamento il buon esempio, ma dovrà essere accompagnat ea sor r e t t a anche dalla presenza dell'lstituzione liberomuratoria nel suo insieme per risultare maggiormente incisivae persistente nel tempo: il mondo modernoe sempre più istituzionalizzato ed anche noi dobbiamo adeguarci a questa tendenza sociologica d, el resto, la tradizione altro non è che una istituzion liazzazion deeisingoil comportamenti. La situazione interna della nostra Comunione si presentaa, d una analisai pprofonditas, ostanzialmente positive e ricca di prospettive per il futuro, anchese le fastidiose turbolenze profane di taluni fratelli, più animat di a spirito di riva l s ache di collaborazion pe o, tre b b ef a r pensare il contrario. Fortunatamen ti erisultati concret ci onsegui tpiarlano più e meglio di qual sia s pi e t t e golezzo o d i quals i a s si composto dissenso. La Comunion es i present ai n costante quantitativa, crescita sia sia qualitativea segna I'affermarsdii un deciso ringiovanimendto eisuoiaderenti Quest'ultimdo atonon deve essere trascurato non soloe non tanto perch eil futuroe dei giovani ma soprattutto perche sono le vecchie generazioni che manifestanmo aggiori difficoltà ad abbandonaruen modello di Libera Muratoria non consononé alla nostra tradizione iniziatica ne alla realtà storica attualment esistente. Nel generale panorama, non solo nazionale, di diffusa disaffezion veersoI'impegno associazionistico (Rotary Club, Lions, partiti politici, chiese, etc.) ed, in particolare, verso quello liberomuratorio conforta constatare come il Grande Oriente d'ltalia si ponga in contro tendenzae riescaa catalizzare I'interesse l'adesione di notevolei qualificate forze giovanili. O. vivamente tali adesionsi ollecitanuon rinnovatoi mpegno per garantire al nostro interno un ambiente semprepiù favorevole ad una crescita iniziatica comune. Le adesioni scatur i sconod a aspettative e l e aspettative piu diffuse sono proprio quelle che hanno caratterizzato la nostra storia: una elevate qualità iniziatico-esoterica qrande unita ad una capacita di presenza sociale. Simbolicament pearlandop, urtroppole note iniziatich deel Flauto Magico di Wolfgang Amadeus Mozart sono troppo frequentement pero fanate dall'irromperneella Comunione di comportamen atinimati dalla tipica profanità deitre Compagndi 'Artecheuccisero Hiram. La Libera Muratorianon puo essere né la camera di compensazione delle frustrazion pi rofanee neppure un campo di futili contese di natura condominiale l;a Libera Muratoria è una scuola di perfezionament ion dividua l e finalizza t oa l b e n e dell'Umanita d; i questa nostra caratteristica non possiamo mai smarr i r nel a memoria a pena d i negare la nostra stessa natura. Per questo motive e necessario stigmatizzare negativamente quei comportamentci he, nascendo da uno smisurato narcisismo personale p, ongono il proprio io in posizione assolutae tentano di imporre il proprio modo di vedere come I'unico corretto.Tali comportamentni on solo contrastano con il nostro basilare principio di tolleranza, manche con quella visione relativam, olteplice, checi e propriada sempre. Non meno deprecabil si ono quei profani comportamenti che mercanteggiancoarriere, grembiulie riconoscimenti, prescindend do a capacità, convinzioni i d, e e e progettoi perativi. Deve risultar eb e n chiaro a tutti che le funzion iniziatich ed organizzative, chesi ricoprono in Loggia e nell'lstituzionien, genere, sono servizi prestati alla comunitàe non orpelli, gerarchieo privilege di a esibire, se non ancheda ostentare. esibizionei d ostentazionsi i configurano come veri e propriabusi delie funzioni ricoperte. Se vissute correttamente tali funzioni debbono essere intese comeonerie, per tanto, non dovrebbero da readito ad alcun litigio in sedeelettoraleo di nomina alle medesimen; onvi dovrebbei,n fattie, ssere Nessun interesse personale a ricoprire qualsiasi una funzione l;'unicointeresse lecito e quellodi servire la comunità. stratificatea cumulativadella verità, Ulteriorniegativitcài giungonop,oi, dallaormainval sabitudindeiesternarien sedeprofanai conflitti interni alla nostra Comunione. Questo comportament o c , ertamente favorito dai moderni mezzi di comunicazion dei massa (lnternet, e-mails, ms, etc.) , induce prendere posizione, il proprio pensier so enz a inte r porr pe rima una giusta pausa di riflessiones o: no veramente convinto di quello ch-escrivo? Rispondaelveroquantoaffermo? E'opportunaoffermarloF? Accioilbene della nostra Comunità affermandolo? Etc. L'azione dello scrivere costaormai così pocafatica ed è così immediatcaheprecede il pensiero stessos: i agiscesenzauna sufficien t reiflessioneI . danni d'immagin peernoi tutti, pot,a causa dell'impulsi virtà razional deeipochis, i diffondono profani, trai che leggono iunquele nostresternazioni, spesso anche senza riuscirea capirle, ma sempre comprendend cohe siamoco involt in scontri completamenp terofania,nche peggiori dlquellpi roprdi ella normale profanità. Particolarmenr tieprovevolaeppare, poi, I'uso ormai diffusodi giuridicizzarie contenziosi . -giuridica, interni, abbandonand lao noslra tradizionme orale i,niziatice a ritual p, iùche e di in asprirei tonidegli scontrbi e noltrequanto dovrebbesserelecito tr aFratelli nell'lniziazion Sé. Emprepiù spessoI, nottret, ali conflitti non si fermano all'interno della nostra giustizia massonica, ma fuoriescono, per'approoare direttamenatei Tribunadliella Repubbliclataliana D. ella illegittimiatà nche giuridicadi tali comportamenst ii diràinseguitop, erorabasti sottolineari le degrade moralede-lltaradizionme-uratoria, l comportamen dtei scritti sono decisament reiprovevoli come esempio Luminoso I.nfattic, on estrema algradodi Apprendist Laibero Muratorre icordal recipiendario: ll. secondo dovere è di praticarela virtù, di soccorrere i vostri Fratelli d, i prevenirele loro necessità, d i a lleviar e le l o r o disgrazie e d i assiste r l ci o n i vostri consigli e co l v ostro affetto . e u e s t e virtù, che nel mondo profane sono considerate qualità rare, sonotra ioi soltanto il compimento di un dovere gradito. ll terzo dovere è quello di conformarvai lte leggi dell'Ordinedei Liberi Muratorie ai Regolamentdii questa Loggia, La nostra Comunione non dovrebbe rappresentarueno spaccato della nostrasocietà, ma raccogere solo ilmeglio c,he inessagiàvive, pe riniziareun percorsodisempre crescent peerfezionamento. ll Libero Muratore non può rappresentare il cittadino medio,ma deve aspirare ad essere l'élite della società. Fortunatamenltae maggioranz daella nostra comunioneè composta da fratelli meravigliosi, che si distinguono per profondità iniziatica e generosità civile. Poche piete gîezzenon possono rovinare quantoi più hanno levigato. La giornata di Massa Marittimhaa evidenziat Io'esigenzdai rifletterien torno ad unanumerosaseriedi temi, chepaionocrucial pierla nostra Comunionien quésto particolare momentostorico C. ertamentie temi individua eticheo raverrannoes postni onsononuo viallanostra Tradizione, ppure sembranonon ancora completamenpteadro neggiati da tutti. In convergenz caonleistanzechedapiirparti della Comunion leibero muratorisailevanol, apresente Gran Loggia è dedicate all'Etica della libertà ed all'etica della responsabilità. Non può sfuggire soprattutti onunambito come ilnostroc, henon dovrebbe riprodurrie vizi della società profanam, a proporsi chiaîezzi al rituale di iniziazione I'ispirazion weeberiana, che animaquestotema. MaxWeber fu,forse, il più illustre sociologioedesco della prima metà del secolopassato efucertamente -postindustriale un acuto osservatore critic dellasocietà e burocraticac'hein quegli annisi stave formando all'ombra della minaccia dellegrandi dittatur europee, allora nascentlil. Messaggido ell'illustrse ociologeo videnziava, primo poterec'hetendevanao spersonalizzare le decision piolitichien dividuali e lerelatrvseceltem, asubitodopo richiamav Ia'attenziona enchesullasolitudinde ell'esserue mano di fronte alcrescent peoliieismdoei valori del mondo modernop;oliteismo, chetuttorain esorabilmente organizzazionsiociali.Tuttaviaa fronte di un politeismo dilagantenell'estremo soggettivismo, Weber concentrl a apropr i a analis si u l comportam e n r t ao zional e e sul momento etico, per m a t é i i a lizzar e dei valoriun comportamento orientato ad un relativismo operativoi ,spirato a à u n a org a nizzazione tutta umana e democraticda ellèsocietà W. eberaf frontail tema fondante delle societàmoder Àec:omepossano funziona rele società industriali di massanel rispetto delleindividualit pàersonaluimane? E',dunque,in questo quadroche I'etica dellalibertàr, i volta allatuteladel singolo essereumano, deve coordinarsei conciliars cion I'etica della responsabilità, fìnalizzata gli interessci ollettiveid istituzionalNi. ulladi più attuales, oprattuttoa, llalucedei present pi roblemdi i sviluppo economico sostenibile di benessereo, t tutela dellelibertà individuaeli di sicurezzad, i partecipazione democraticea di esigenze di governo p,er citare solo pochi esempi. Aldilà,. comunqued,eg Lsipecificciontenut ciulturalieberianiiil sempiice richiamao questo Autores primeunelementfoondanie dellaTradizion leiberomuratoria: a a parlare da trasmettere cheessi rivetano. in luogo,i mèccanismi burocratic diel incalzae rischiadi sprofon darnel nichilismlo e dalnulla   I'impegno civile e sociale sostenuto da un'etica radicata nella nostra cultura iniziatica, ossia individuale, personale, propriadi ciascun LiberoMuratore. La nostraTradizione iniziatica ci assiste ed accompagna nelle impegnative prove, che I'attuale realta storicaci presenta e, noi, peressere all'altezzadita leTradizioned, obbiamo essere capacidi re interpretarla a l presente, non d i ripeterla al passato. La Tradizione e t a l e perc h e s i pon e fuor i dalla storia in un a perenn e attualitan, onin un richiamo cristallizzato ad un singolo attimo del tempo passato. La centralitaeticadel nostrolevigarela pietra grezza di noi stessisi impianta sulle due colonne DI UNA PROFONDA CONOSCENZA FILOSOFICA e di una altrettanto profonda consapevolezza morale. lgrandi insegnamenti che ci giungo nodai simboli, dai riti, dalla sapienzae dai lavori dei nostri Fratelli passatae dalla nostra lstituzione HANNO NATURA EMINENTEMENTE FILOSOFICA e morale. Dunque, ciascunodi noi devecostruirsciome un attento conoscitoredei nostri insegnamentim, a anche come un ferreo e rigoro soportatoredi comportamentisi pirati alla nostrapiu rigida moralità.Troppo spessosi sentono talun i Fratelli vantarsidi conoscenz esoteriche, poi, il loro comportamenteo paragonabilae quello dei peggior pi rofani.Troppo spesosi assiste alleiamente ledi talunifratellpi erl'assenzad insegnamenti poi, massonci, e loro persistenta essenza non solo a dibattitei convegnim, aanchee soprattutto agli stessi lavori di Loggia. Troppo spesso sia scoltano taluni fratellli amentarsdii quelloche non ottengono dalla Libera Muratoriae non domanda rsciosaessidanno allaLiberaMuratoriaT. Uttiquesti comportamenti rivelanounaassenzadi vera e profond amorale libero muratori a D. e l l ' assen z da i conoscenza non e n e p pure il caso di parlare. Fortunatamen ta ef r o n t ed i queste degenerazio nl ai gran parte dei Fratellsi i distingu epe r i mpegn oe serietà nel percorrere la via iniziatict a radizional deella Libera Muratoria. Per favorire la crescita della nostra lstituzione necessario in, una societa dimassa, giuocare suigrandi numerie, quindi, selezionare dai grandi numerii migliori uomini, per inserirlai l nostro interno. Se si raffrontano quantitativamenite Massoni dell'ottocentiotalianoa quelli attualied entrambi alla rispettiva dimensione numerica dellasocietà, nellaqualeviviamoe vivevanoc, i si accorgeche oggi noi siamo molto sotto dimensiona Nt i o. n c r e d o che si poss a pensa r ec h egl i i tali a n di i oggi siano peggior di i quelli d i ieri, forse , come sembra no testimoni artealunenostre realtainterne al Grande Oriente è, vero il contrario E.dallorae nostra carenza non dare la possibilitai migliori di entrare nella nostril stituzione. questa Su comunicazion è ecentral e e molto s i e fatto in tale direzione s , i a attraverso incontr pi ubblici, sia grazie ad un a ricca pubblicistica, sia, in fine , attraverso la presenza s u i mass media. Non si deve r a l lenta r s l ' impegni on queste direzioni, ma tale impegnopotrebbetrovarefattoridi moltiplicazionaettraversoun sistematico coordinament noazionaledegliinterventiI. noltreil moltiplicarscio ordinatodi una rete associazionistica sul territorio nazionalepotrebbedivenireun utile strumentoa, l contempod, i diffusione dei nostril principei di informazion ientornoallenostre iniziative, ma anchedi selezione di coloro cheintendono avvicinarsai noi. A questa selezion esternadeibussantdi eveanche corrisponderuena selezioneinterna dei Fratelli. Non casualmentegli insegnament liberomuratorvi engonoim partitsi u tre gradi (Apprendista, Compagno d'Arte, Maestro) p, ertantonon puo essere il mero trascorrere del tempo a determinarei passaggdi i grado. Solola conoscenzadelgradonelqualesi lavorapuodaredirittoad aumentdi i salarioc, omebene esprime la nostra Tradizione e, la conoscenza s ca t u r i s c e dalla somma del lavoro individuale con quello di Loggia. Pertantola selezione non puoche avvenirea seguito di una costantepresenza in Loggiae di un sistematico lavoro personale di ricerca. Le Logge dovrebbero lavorarein tuttii gradi, nonsoloin quello di Apprendista e ,d, in particolare, i lavori in terzo grado dovrebberoessere valorizzati, affinchesi possaconstata reche il Grande Orientee composto da Maestri c, he lavoranonel loro gradoe non in gradodi Apprendistal.l grado di Maestro e il vertice della nostril stituzione, pertantod , eve informarela maggioranza dei lavori ritualidi Loggia per evitare che le ritualitadi altri gradi prendano il sopravvento, snaturando nlea forza iniziaticail: avorida Apprendistra estano per Apprendi satinchese fattida Maestri. ln questi ultimi anni il Grande Oriented' ltaliaha promosso una crescent organizzazion deella Comunio neal fine di potenziar nela presenza socialee la capacita internadi creicita qualitativae quantitative In.fattis, emprepiùnumerosei culturalmente rilevantsionostatii convegnil, etavolerotondee gli i n cont r si i a pubblic si i apri v a t i ; l a nostra p resenz a sul territorio e s t a t a r a î forzata da consistent i impegni per fornire a i fratell s i e di dign i t o s e m; a necessi t a ancor a s i a una maggiore partecipazi o n i e n t erna a i lavor i della Comuniones,iaunapiu adeguata organizzazione storiche. Rispettoal tema della partecipazione ai lavoridi Loggianon mi sembrasi debba insisteremoltoper costituzionalech, e megliorappresentlei attuali esigenze evidenziarnela doverositaolt realla necessità T. uttaviapare opportune ribadire come la radiceprofonda della Libera Muratori ari s i e d a n e i tre gradi dell'Ordine e non negl i ulterior gir a di dei Riti , i qu a l i , a l massimo , possono essereconsiderati delle articolazionsi pecificheD. unque, nessuna camera rituale puo sostituire sopperi realla carenzadi lavori nei primitre gradi. Questa riflessione dovrebbe convincere tutti i Maestri Venerabi la i promuovere un consistente incrementodi lavoriin cameradi Maestro,al fine di espandere pienamentele potenzialita iniziatichdei dettacamera. Riguardo , poi , alla nostra organizzazione costituziona l ei nterna , pa r e necessario constatare com egli episod i cei d occasio n a li in terven tdi i riforma normative, sovrappos tai d un tessuto già di disposizioni spes Ào si constatala stradala   contraddittorio carente, abbianoormairesa evidente la necessitàdi una organicae completari scrittura della nostra Costituzionee deinostrRi egolamenti. Infattir, isultasubitochiaroa chiunque studila nostril stituzionceome alla struttura iniziatic (aLogge, Gran Loggiae, tc.) della nostra Comunion sei sovrappongaper dalla nostra appartenenza precisa ad una realtà storicau, nasovra struttuar associazionistica di inevitabile sapore profanoP. oichenone possibil peorsfiuori dalle esigenz seloriche dalla societàc, uisiappartienae pieno titolo,la struttura iniziatica deveper necessità coordinarsci on l'oîganizzazion perofanal associazioni, società commerciaolib, blighfiscalei . di pubblica sicurezzaq, uoteas sociativelo, cazionimi moòiliari, etc.) dalmo delloconfederale originarivo ersoun modello federale piùo meno centralizzaìo. neirecentpi rowedimendti adegua menatolle normative fiscali mposte allealsociazioni civiles, i a d ella Liber a Muratoria , siadelrapportocheintercorre pertanto traquestedue realtàstoriche. Dobbiamo stupircci heancheil nostroapparatonormativo, quello conseguentemennteo, nscambinoi gradi percarriere, grembiuli i peronorifìcenzee le norme per strumenti di prevaricazion Lea. Libera Muratorisaialimentadiidealie di spirito diserviziofraterno. In ultimo, ma nonultimo. A chiusuradi questa relazionme oralemi sembra opportuno ricordardeuespecifichtematiche, sono dovuteaffrontarein questoprimoannodellanuova Gran Maestranza. prima intorno allatroppoeslesacontenziosigtàrudiziaria ed al degradocomportamentale, derivato e, me r s i i n occasion ed e l r i n n o v odelle cariche di é i u n t a e continua tpi e r v i c a c e mente anchenel Corso delcorrenteanno. La seconda investe irapporttira Ordine Corpi Ritualei dhaportato allastesuradi nuovi Protocoldli' lntesa. Procediamco on ordine. ll primotemaaffronta I'ormadi iffuso mal costum dei ricorrerealla giustizia ordinaria perpresuntedisarmonie in materia libero muratoria, prima anche di esperire il foro domesticeo di cercare concordiafraterna,come dovrebbe essere nostro dovere fare. Inolt;e, tali scontrigiudiziarisi connote naoncheper la violenza, la ripetitivite à la caparbiareiteraziondei atti,citazionei,sposti, richiest de i accertamentin via preventivaed in via risarcitoria, querele,richiestedi prowedimentiourgenzae quant'altro consenta I'articolato ordinamentgoiudiziario si sommaancheun corrispondente di massa (giornalil,eúere,siti internet, esigenze socialei giuridichdeipendenti etc.)ai e giuridic armonicae,ntrola qualesvolgereinostri architettonici finedi costituireunaunitàistituzionale lavori D' el resto tale problemaha naturaTradizional peo, ichenon nasceoggrm, aciaccompagna storicdi el compagno naggeio della Massoneri OaDerativa. La Tradizione costituzionale della Muratoria Universale, Infattil, e Loggesovranesiunisconoc, onservandlaopropriasovranitàp,erformareuna Gran Loggiam, ail sistemaè lentamentsecivolato, lnoltre,ha naturaevidentemente federale. comeperaltroè awenuio anchenellecostituziosntiatal (iSvizzera, U.S.A., In sintesis, i è materialealla Costituzion feormaleorigtnariaC.iòha sovrappost uana, cosìdetta dai giuristi C, osîituzione prodottoincertezzeinterpretativea,d esempiointorno all'autonomidaelle Logge, comebenesi e evidenziato dallo Stato ltaliano. Maanchea presclnderdealleantinomied, allelacunee dalle oscuritàdeinostritestinormativil,tempo, comeè notoai giuristiè, nemicodelleleggie: ssocorrementrele leggirestanofermec, ristallizzate nellaloro immobilitàIn. Questi ultimai nniabbiamo assistit aollerapidetrasfor, Àazioanni,coraínfieri,siade a società n o n adeguarsai lle nuove esigenze. Owlamente I'adeguamento deve esserefatto in modo organtcoe sistematictoe, nendo anche conto delle dimension ci rescendtiella nostral stituzioned, elle regolamentazioni, che si sonodate le altre Massonerie stranieree, delle normative degli ordinamengtiii ridici statalie sovranazionali. .. Una ultima riflessjonmei portaaricordaraetuttiiFratelliche,comunquela,LiberaMuratorinaonpuò divenireuna organizzazion perofana. Essa è e deve restareuna lstituzioneTradizionaleIniziaticaper il perfezionamento dell'essere umano. CiÒ, erò,presuppone non iniziatico, simbolico e rituale, debb a ancheche i Fratelli avivanoinquestospiritoe, italianoP. eraltroall'iperattivismgioudiziariJprofano fenomenodi comunicazione e-mails, ms, etc.), perlo più anonimo, tendentea screditare la nostra lstituzionaédín, particolaie, alcunsi uoi esponendtii verticeN. onparenecessarisooffermarsui llaprofaniteà, spessoa, ncheilliceitàgiuridicdaitali comportamenstie,mbra,inveceo, pportuno sotlolineare comeessirendanodi dominio pubúicole nostre c o n t e s ei n terne, violando non certo il segreto massonico p, o i c h én o n viè nu l l ad i segre i oi n simili miserie umane,ma umiliandoil buongusto,il dirittodei fratellai d una immaginepubblica internodistesoed alla riservatezzadelle proprieproblematiche f,ositiva, di fàmiglia. La litigiosità ed ancor più I'accanimenntoel la litigiosità -una sono pessimbi igliettdi a visitae forniscono immagine Oriente d'ltalia. finedi evidenziar qeualidebbanoessere i comportamenti correùiinialematerianella nostra Comunioneln. Nostra lstituzioneT.utti possono percepire idanniche questsi considerati Poiché il Grande Oratore traipropricompitiistituzionali quello haanche di interpretare e di custodirle leggiho reputatomio precisidoverecompiereun lavorodi esegesigiuridicasullenostrefontinormativea, l chesi La riguardala riflessione chène è connessoe deteiioratdaella comportamenairirecanaol Grande daitempi ad un clima   breve, risultaevidenteche la nostraTradizione non consente un facile ricorso alle giustizie or6inariein materia liberomuratorie, comunquen, on tollera una eccessiv animosita neldifenderàl" proprie presunte ragioni. Se non e possible parlare dell'esistenzna el nostro ordinamento giuridicodi una vera e propria clausolacorx promissorai assimilabil ae quelletipichedell'associazionism proófanoe, tuttavia evidente come il ricorso alla grustizia ordinaria venga costantementv eistoe vissuto comeun comportament poatologicoe talvolta anchecomeuna vera e propria colpa massonica L.asituazionesi aggravaper I'attoiequalorail giudizt o massonico o anche solo quello profano di a a lui torto; poiche in tàle caso si evidenzia senza equivocei d incertezzeun comportamentnoonfraternoneiconfrcntdi elconvenuto. Al fine dichiarirei l più possible tali tematiche ho provveduto ad una analisi delle nostre fonti di diritto, analisiche gia evidenzia quantosopraesposto, ma che raccomandapiù puntualmi odifiche normativenei nostril regola menta il fine di rendere esplicita a, nche sul piano associazionistico, nostroordinamentgoiuridicodi unaclausola compromissoria. ll pareresulle fonti del diritto libero muratorio del Grande Oriente d'ltaliae sul vincolodei Fratellai limitarsni eicontenziosaillagiustiziadomesticavieneriportatonell'allegato n.1. ll secondorilevantetemaaffrontatoin questoanno massonicori guardai Protocoldl i'lntesatra il Grande O r i e n t ed’Italiae di Corpi Ritual ai desso aderenti Pur troppo anche i comportamenti che hanno costretto ad affrontaretaletematicanon sono certo commendevolei rivelanoilmaisopitotentativo  delle arganizzazioni ritual di i costituirsciomeuna MassonerianellaMassoneria, come un livello superiore di controllò dell'Ordine Libero Muratorio dei primi ed unici tre gradi, contravvenendo in tale modo alle regole massoniche internazional mentrei conosciute. Pertantoi nuovi Protocollid'lntesasi sono rigorotamenteispirati all'applicazion delle normative internazionali in materia ed hanno inteso pericolosa, correggerela anchese tra Ordinee CorpiRituali nuoviProtocolldi'lntesasifondanosuquattro forseinconsapevoltee,ndenzaegemonicadei Corpi Ritualsi ull'Ordine. Al finedi ristabilirIe'equilibrio principbi enprecisi: L'Ordineo, ssia il Grande Oriented'ltalia, svolgeuna indiscutibiled originaria'funzionieniziaticamente fondantee giuridicamente legittimante regolarizzantreispettoai Corpi Rituali. | Corpi Ritualihannotuttiparidignitadi fronteal Grande Oriented'ltaliae, pertantoi, Protocolli, specifiche peculiarit daovutead oggettive differenze storiches, onougualipertuttii Corpi Rituali. Ordinee Corpi Ritual gi odono della più assolutae reciproc autonomiaE. ', quindi, fattoobbligoai Corpi Ritualdi i astenersdi a qualsiastiipodi interferenzaedingerenzadirettaod indirettanellavita dell'Ordine ed in modo particolare nei momenti istituzionadlii sceltae di rinnovodegliorganiinternidi governo dell'Ordinestesso.A tale fine è parso necessarioritenere incompatibili dell'Ordine de I Corpi Rituali. l-e normative interne dei Corpi Rituali devono essere conformi alle normative massoniche internazionalmenrtie conosciute particolare, ed, in a quelle proprie del Grande Oriente d'ltalia,nonche, ovviamentea,nchealledisposizioni di leggedellaRepubblicaltaliana. La bozzadei Protocoll di 'lntesatra Grande Oriente d'ltaliae Corpi Rituali viene riportata per esteso nell'alleganto. A conclusion dei questa relazione morale sia lecito ricordare con profondo doloree fraterno rimpianto il Fratello Bent Parodi di Belsito gia Grande Oratore Aggiunto che nelle imminenze del Solstizio d'inverno e passato all'Oriente Eterno. La sua immensaculturasi univaad una profondadedizioneagli idealilibero muratori,ma soprattuttocoloroche hanno avutoil privilegiodi conoscerloda vicinohannopotutoapprezzare quanta nobilta generosita e d amore fraterno albergasserno el suo animo. Nel rimpianto di un fratello ed amicoscomparsovoglio dedicareal suo ricordoquestemie brevi riflessiondiiuntempogiovanileormaiperduto: RINTOCHI Se le campanesuonanos, egnando il miofato; seilgiornoe lanottecircolarmente si avvicendano; Conil triplice fraterno saluto. se il mare arrotolacadenzatriicciolbi ianchi; se i montiforzanolavoltadelcielo, lo ridoe piangoe bevoe negoildomani. L'orizzonte guida alla madre, ma tu sei un rigido segmento. IL GRANDE ORATORE. Prima di formulare alcune precisazioni intorno alle principali critiche rivolte, soprattutto in sede di postfazione, al mio scritto, voglio ribadire che sono infinitamente grato ad Emanuele Severino, ad Agostino Carrino ed a don Paolo Renner per l’attenzione, che generosamente hanno voluto de- dicare al mio lavoro. Le obiezioni, infatti, che mi sono state rivolte hanno arricchito la ricerca con contributi seri e proficui per la conoscenza umana; conoscenza che non può che scaturire da serrate critiche, severe obiezioni, profondi dissensi, diversità metodologiche ed euristiche, divergenti punti di vista e ripensamenti vari. Ma senza indugiare oltre è tempo di commen- tare queste critiche. Ogni affermazione presuppone anche la propria negazione: luce e tene- bre, dritto e curvo, finito e infinito, piace non piace, etc.. La dialettica degli opposti appare una fenomenologia, per così dire ontologica, ossia propria della struttura mentale dell’essere umano. Ciò non significa che il dualismo sia dotato di un fondamento maggiore o minore del monismo, ma sem- plicemente, che né l’uno, né l’altro sono dotati di alcun fondamento non dogmatico, non assiomatico. Conseguentemente fidare in un paganesimo monista di dei, semidei, eroi ed uomini divinizzati, come propone Carrino, o in un dualismo giudaico-cristiano, che separa il divino dall’umano, è scelta meramente arbitraria e priva di un solido sostegno logico od em- pirico, nonché, meno che mai, metafisico o religioso. Probabilmente nel pensiero o, meglio, nella rivelazione cristiana la sintesi teologica, il ponte  tra fisico e metafisico avviene attraverso la figura del Cristo, che viene considerato vero uomo, ma, al contempo, espressione della trinità divina. Afferma, infatti, Massimo Cacciari, commentando Emo: Lo sforzo teologico di Emo consiste, dunque, nell’intuire nella Croce stessa (non oltre la Croce o dopo la Croce) la Resurrezione1. Si tratta, tuttavia di una Resurrezione/rivelazione di natura puramente spirituale e, conseguentemente soggettiva, poiché tale rivelazione di pas- sione e di morte nulla ha mutato nella realtà empirica del mondo, se non il modo di pensare e di credere dei fedeli e solo dei fedeli: si continua a nascere, soffrire, morire, fare violenza e guerra, elargire misericordia ed amore esattamente come nell’era precristiana. Del resto neppure la diviniz- zazione dell’’essere umano (pagana o meno), con buona pace dell’amico Carrino, nulla ha mutato nel panorama delle sciagure e delle piacevolezze empiriche, se non la superbia dell’approccio, basti pensare alla tragedia greca. Inoltre anch’essa si presenta come una conoscenza di fede (leggasi scelta arbitraria) Le affermazioni del presente saggio, per essere correttamente comprese, devono essere considerate solo come ipotesi scettiche di riflessione, tut- te possibili, ma nessuna fondabile su solide basi conoscitive, e non come asserzioni sostenibili alla luce di baluardi inconfutabili; ciò sarebbe in evidente contraddizione con il presupposto fondante tutte le ipotesi che hanno natura nihilista/nichilista. Ė ovvio che alla luce di tali presupposti teorici qualsiasi critica si voglia muovere al saggio non può che avere na- tura esterna; infatti una critica interna affonderebbe inesorabilmente nelle sabbie mobili di posizioni incerte, si velerebbe nella nebbia di affermazioni tutte possibili e nessuna certa. L’empiria vorrebbe imporre come certezze le affermazioni della perce- zione umana, ma tali percezioni derivano dalla struttura organica dell’es- sere umano, propria del mondo, che noi crediamo di conoscere e, comun- que, nel quale viviamo; ma di tale mondo nulla si conosce, salvo il nostro percepito ed il nostro percepito è presupposto di se stesso, pertanto non testabile a sua volta empiricamente. Il reale, ammesso che esista un qual- che referente empirico da attribuire a tale termine, potrebbe essere anche molto diverso e maggiormente composito, come dimostrano altre forme di percezione animale ed ulteriori possibili modalità ipotetiche percettive, da 1 M. Cacciari, “Prefazione” ad A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., p. VIII.  M. L. Ghezzi - P.S. Trappola senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute 139 come viene immaginato dall’essere umano. In altre parole, il saggio, pro- blematizzando il fondamento euristico del metodo empirico, problematizza proprio anche l’a priori kantiano e dubita delle sue categorie. Ciò tende a porre la ricerca empirica sul medesimo piano di quella metafisica in quanto entrambe fondate su un a priori indimostrabile. Infatti, giustamente Ema- nuele Severino parla di una struttura originaria, che implica per necessità l’eternità, ed è proprio e soltanto a questa struttura, che si può chiedere il fondamento dell’esistenza del soggetto e dell’empiria. In termini religiosi il problema non muta: il divino intende permeare l’umano in modo empi- ricamente comprensibile, trasformandolo? Pare che ciò sino ad ora non sia mai avvenuto. In termini filosofici si ripete il medesimo quesito: il meta- fisico riesce ad entrare nel fisico, trasformandolo dialetticamente? Anche in questo caso la risposta sembra sino ad ora essere negativa. Dunque il dualismo non può tramontare, almeno come ipotesi. Ovviamente a questi dubbi mostra il fianco anche l’indiscutibile visione morale di Kant: non fondabile teoreticamente a priori e per necessità re- lativa nella sua comportamentalità pratica umana; infatti l’illustre filosofo cerca di fondarla, pur fugacemente ed in modo quasi silente, nell’antropo- logia umana del mi piace, nell’estetica, che appare essere la dimensione più originaria (strutturale? ontologica?) dell’essere umano. Ma un macigno an- cora più grande e pesante ostruisce la strada dell’etica, della morale (kan- tiana e non kantiana) e del diritto: il tema del libero arbitrio. L’eventuale assenza di libero arbitrio nell’essere umano cancella d’un solo colpo ogni dover essere ed ogni prospettiva teleologica. Certo non si può asserire l’as- senza del libero arbitrio, ma purtroppo non è neppure possibile affermare la sua presenza. Nel dubbio, e scommettendo, fideisticamente, sulla possibile esistenza del libero arbitrio, ciascuno può scegliere la propria convinzione e, quindi, la propria strada da percorrere, ma dovrebbe anche avere ben chiaro che la sua scelta non ha alcun fondamento euristico, ma solo esteti- co, ossia soggettivo e, pertanto, è esclusivamente riferibile e vincolante per il solo soggetto, che ha compiuto tale scelta. Il tema diviene centrale nel mondo del diritto, se si attribuisce a quest’ultimo, come nella prospettiva di Carrino, una dimensione teleologica; ma il telos (τέλος) è un fine, ossia un valore, una scelta ed è proprio dell’assenza di fondamento etico o di qual- siasi altro tipo dei valori, delle scelte, che si sta discutendo in questa sede. Di fronte al tema teleologico del diritto pendono almeno due interrogativi, una di natura prevalentemente politica e l’altra di natura eminentemente teoretica: Cui prodest; a chi giova, a vantaggio di chi va la scelta compiuta? E, con affermazione ancora più radicale: per quale motivo si dovrebbe re- putare superiore, più auspicabile in assoluto il Cosmos, l’ordine rispetto al Caos, il disordine, quando, come dimostra il pur discusso, in sede di scien- za fisica, principio di entropia, è quest’ultimo quello verso cui si muove il nostro universo? Sono mere preferenze soggettive, estetiche, appunto. Il diritto è ideologia e l’ideologia è arbitrio personale o collettivo. Riguardo, in fine, all’interpretazione data da Renner delle affermazioni di Emo, penso che vi sia stato un fraintendimento, cosa, per altro, non stu- pefacente data la generale oscurità e frammentarietà dell’opera di questo Autore. Emo si muove nello spirito del Deus absconditus di Nicolò Cu- sano e, soprattutto, nel solco dell’attualismo gentiliano, pertanto compie una sorta di rovesciamento lessicale nel significato delle parole: ciò che afferma come negativo viene ad esprimere una positività, ciò che è invi- sibile assume il ruolo di realtà visibile, al contrario, il visibile si annienta, ciò che è nulla è il vero essere e ciò che appare essere è nulla, etc.. Per- tanto tra fede e scienza prevale euristicamente la fede, in quanto, negando l’apparente realtà dell’essere può accedere alla realtà reale del nulla, che si presenta come il vero essere, perché privo di presenza in quanto assoluto. A conferma di questa pur complessa interpretazione testimoniano alcune affermazioni di Emo: “L’incoscienza dei vegetali, delle specie viventi, è la loro unità panica col tutto, che è appunto il paradiso terrestre, il giardino dell’Eden. Il dramma della coscienza, che è il dramma della Presenza, è la cacciata dal paradiso dell’unità panica, è il dramma della separazione, della negazione; ma appunto perché la separazione è negazione, noi, mediante la negazione, possiamo ritornare all’unità. La fede è fede nella potenza, nella sacralità della negazione. La nostra colpa è la trasgressione e la sepa- razione; separazione cioè negazione.”2. Ed ancora: “Il Dio nascosto, il Dio negativo, è già implicito nel cristianesimo, religione antichissima che ha origine insieme all’uomo; religione del Dio sacrificato che, per la logica stessa della sua situazione, diviene religione del Dio che si sacrifica, cioè si nega. Il Dio la cui attualità ed atto e realtà è il negarsi. Ed a sua immagine e somiglianza sono gli uomini e il mondo.”3. Per quanto poi riguarda l’interpretazione che Renner attribuisce al mio concetto di estetica (mi piace/non mi piace) debbo dire che riflette esatta- mente quanto desideravo esporre. Infatti, con estetica non intendo né un fugace capriccio, né una ludica superficialità e neppure una occasionale propensione, bensì un profondo appagamento, un convinto compiacimento dell’animo, un radicato benessere spirituale, una persistente pace con se stessi. In sintesi, è un concetto che si avvicina molto al kalos kai agathòs 2 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., p. 30. 3 A. Emo, op. cit., p.39. M. L. Ghezzi - P.S. Trappola senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute 141 (καλòς καì αγαθός) degli antichi greci, nel quale ciò che era bello aveva buone probabilità di essere anche buono. A mero titolo esemplificativo penso possa essere utile all’interpretazio- ne fornire da parte mia uno scenario concettuale per meglio comprendere i dubbi, che permeano le affermazioni empiriche, ma anche quelle metafi- siche, che agitano questo lavoro. Naturalmente tale scenario è ispirato ad alcune convinzioni proprie di chi scrive, che, ovviamente, si presentano ar- bitrarie, soggettive, relative, come quelle avanzate da qualsiasi altra perso- na. Procedendo con ordine, pare doveroso iniziare il discorso da ciò che si crede di percepire vivendo: un continuo movimento, oscuro nel significato, ma soprattutto, senza fondamenti di certezza non solo sulla sua origine e direzione, ma addirittura anche sulla sua stessa esistenza. Il treno della vita non consente discese ai passeggeri: non possiede porte d’uscita e le finestre sono sigillate; non compie fermate; non avvertì del- la partenza, ma neppure prevede stazioni d’arrivo. I passeggeri ignorano come sia loro capitato di salirvi; non conoscono il luogo nel quale si tro- vano e non sanno neppure nulla di se stessi: come funzionino, siano solo il percepito o si sdoppino in soggetto ed oggetto; siano Tutto, un terminale del Tutto o parte tra parti. Sentono, ma non hanno accesso alle fonti del sentire. La fonte si localizza, oscillando tra spazi successivi, ed immagina le successioni, il tempo. Eppure non vi è ancora forma, ma puro sentire senza immagine: chi sente? Chi o cosa fornisce l’immagine, quando si presenta? Tuttavia una qualche forma di immagine deve pur esistere come riferimento sia del sog- getto, sia dell’oggetto, affinché anch’essi possano assumere una propria immagine. La forza, l’energia oscilla senza sosta tra se stessa ed una qualche forma, modulando la propria vibrazione, ma la forma è instabile e si liquefa con- tinuamente nella forza, come ghiaccio nell’acqua. Se la forza osserva vede la forma, che non esiste in se stessa, se non è osservata. Il mondo sembra un osservatorio permanete, che osserva se stesso in un circolo tautologico, che esiste nell’osservarsi e l’osservarsi è il solo esiste- re. Forza e forma, due volti del medesimo fenomeno. La forma si dissolve nelle metamorfosi e la forza persiste, ma non esiste come massa senza alienarsi nella forma. Tra i due enti si instaura un vizioso legame mutualistico indissolubile, nel quale il soggetto crea l’oggetto, ma l’oggetto modifica a sua volta il soggetto. L’incontro dei due enti produce il fenomeno della consapevolezza, che è solo consapevolezza di se stessi, ossia del soggetto/oggetto. Un se stesso, oscillante tra tutto e parte, tra onda e particella, tra forza e forma, tra energia e massa, che non ha identità fissa. Un soggetto indeterminato come l’oggetto privo di osservatore, che è sog- getto di se stesso. Soggetto ed oggetto sono due indeterminazioni, che si determinano reciprocamente, dando vita al percepire da parte sia dell’uno che dell’altro. Il senso è la selezione dei fenomeni, che costruisce oggetti e soggetti. Il tavolo si occulta sotto la tovaglia, ma la tovaglia è materiale coprente men- tre significa pasto per l’essere umano, ma l’essere umano è entità bipede senza piume, se avesse le piume sarebbe un capo indiano o un uccello, ma un capo indiano o un uccello esistono, il primo sia in India sia in America il secondo nel cielo, ma India, America e cielo sono solo terra ed aria e terra ed aria sono composti di elementi chimici, ma gli elementi chimici sono energia e massa, ma energia e massa sono vibrazioni. Le forme si dissolvono. La trappola è l’apparire di un ente, che fugge oltre le quinte (forse ver- gognandosi della propria oscenità – fuori dalla scena) di un essere, il quale esiste nell’oscillare del nulla, al di là dell’essere e del nulla (“[...] è nel determinato essente che il Nulla è Essere”4). L’indeterminato si determina, sentendo se stesso, ma torna indeterminato appena cessa di sentire; ecco perché non ha senso, perché è e resta indeterminato, salvo che per se stesso per un breve lampo di sensazione, non di senso.L’arco del cielo è sorretto da due colonne. Dal lato destro, la metafisica fornisce abissale profondità a stelle, galassie e mondi; dal lato sinistro, l’empiria avvicina l’abisso, presupponendone il fondo anche senza poterlo raggiungere. L’empiria ci accompagna quotidianamente, nella vita di tutti i giorni, fornendoci informazioni intorno all’ambiente, nel quale viviamo, ed a noi stessi, alla nostra nascita, vita e morte. Informazioni che, quasi sem- pre, non soddisfano per la loro oscurità ed incompletezza. L’essere umano possiede un corpo, di cui manca il libretto d’istruzioni per l’uso. I problemi del dolore e del senso dell’esistenza non trovano risposta certa e, forse, non possono neppure trovarla in quanto argomenti sottratti alla ricerca em- pirica. Non è possibile verificare/falsificare il valore di un biologico, che si decompone progressivamente e diviene nutrimento di altro biologico. Il proprio e l’altrui si fronteggiano fieramente come anelli di una catena, che li tiene separati, ma strettamente legati; come componenti, appunto, di una catena, di cui non si conosce né l’origine, né il fine e neppure il senso del suo esistere. Di fronte al mistero l’empiria si arrende e si asserraglia nelle sue deboli certezze pratiche, tecniche e strumentali, ma l’essere umano non demorde e cerca risposte con o senza verificabilità/falsificabilità empirica. Si apre a questo punto il mundus imaginalis1, ma anche l’Universo dell’i- deazione, della creatività, della fantasia umana, la cui immaterialità è un suo elemento costitutivo, proprio per sfuggire ai dubbi dell’empiria, non 1 L’espressione è usata da Henry Corbin per indicare una realtà intermedia tra fisica e metafisica, tra materia e spirito, una sorta di sintesi tra i due termini, che non relega il trascendente nell’ambito dell’inesistenza. 16 Il diritto come estetica un inconveniente. Purtroppo anche questa via si trova ostruita per l’essere umano, in quanto diretta o verso una conoscenza superiore ed incompati- bile con quella umana o verso una conoscenza individuale, soggettiva e, quindi, incerta, relativa e prospettica. In sintesi, sia l’empiria, sia la metafi- sica svelano l’unica conoscenza umana possibile, quella propria di Socrate e narrata da Platone nell’Apologia: so di non sapere2. Può la psicologia umana accettare un verdetto tanto duro sul senso della propria vita? Evidentemente no ed, infatti, le elaborazioni metafisiche si sono moltiplicate, articolate e complicate nel tempo, mentre gli studi em- pirici hanno continuato il loro corso senza aspirazione di completezza e di assolutezza. Il fondamento di qualsiasi discorso continua a sfuggire e le affermazioni fisiche e metafisiche restano come appese nel vuoto e da nulla sorrette. Forse è proprio questa loro collocazione priva di alto e di basso, che ne impedisce la definitiva caduta o, forse addirittura, che rende priva di senso la domanda stessa sul fondamento. Un dato empirico tuttavia è certo: la psicologia umana tende verso la certezza anche a costo di rinunziare al mondo dei cinque sensi. Dunque, il metafisico è, in qualche misura, conna- turato con l’essere umano come il fisico; è una componente, per così dire, strutturale dell’antropologia. Nel mondo dell’etica, cui il diritto sino ad ora è appartenuto, queste medesime problematiche hanno dato corpo all’ideologia ed all’utopia, alla norma morale ed a quella giuridica, al diritto naturale ed al diritto positivo, alla giustizia ed alla legalità, alla validità ed all’efficacia del diritto, al do- ver essere ed al mi piace/non mi piace. Tutte queste alternative esprimono la tensione tra il vissuto reale e le aspirazioni, i desideri del soggetto. In particolare, l’ultima alternativa ricordata apre la strada, che conduce dal diritto come obbligo al diritto come estetica. Lo smascheramento del dover essere avviene con la constatazione empirica, che le scelte umane sono 2 “Infatti, operando con una logica (quella apofatica) che nega ogni proposizione assertiva (ed esaustiva) in merito alla verità di qualsiasi ente – ma invece proponendovi l’inclusione di ogni possibilità – si giunge a questo risultato che auspicava Nicolò Cusano con il suo De docta ignorantia. Si giunge a un non-sapere che include ogni sapere e viceversa: allo stesso modo in cui l’Essere-Uno – che non è un essere specifico – include in sé tutti gli esseri a cui conferisce l’esistenza. Ma questo sapere non è, gerarchicamente, estraneo e al di sopra dell’uomo – che ne verrebbe in qualche modo dominato e esautorato – ma assolutamente intrinseco all’uomo stesso che ne è, pienamente, partecipe, pur essendone abissalmente lontano. Così come il molteplice è l’espressione ontologica dell’Uno di cui è la manifestazione teofanica”. C. Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Henry Corbin, in H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 14-15.Premessa 17 guidate dal piacere e non dal dovere, anche se talvolta i due termini coinci- dono. Dover essere e piacere divengono i due poli reali del disagio esisten- ziale umano e, contemporaneamente, anche il tentativo di risolverlo. Solo di un tentativo purtroppo si tratta. Il diritto come estetica non esclude, e non può escludere, la dimensione metafisica, ma rafforza la descrittività empirica del comportamento umano, consiglia maggiore consapevolezza psicologica dei limiti conoscitivi uma- ni ed apre nuove prospettive di regolamentazione sociale. Ogni demistificazione è un atto di liberazione della conoscenza, ma non è possibile illudersi di poter superare gli ostacoli ultimi, che oscurano una visione sia assoluta, sia relativa del mondo, cui apparteniamo. La dea Ananke (Aνάγκη), la dea Tyche (Τύχη), le Parche, il Fato, il Destino, la Divina Provvidenza intanto sorridono, interrogandosi intorno al determini- smo ed all’indeterminismo. Ringraziamenti Al termine di questo mio lavoro voglio rivolgere un particolare ringra- ziamento ad Emanuele Severino per la sua grande cortesia e disponibilità ad ascoltare le mie riflessioni; ad Agostino Carrino per il fraterno impegno con il quale ha setacciato i concetti del mio scritto, evidenziando proble- matiche a me sfuggite, ed a Don Paolo Renner, che, tra i moltissimi suoi impegni di misericordia, ha voluto aggiungere, con antica amicizia, anche quello verso il mio scritto. Capo di Ponte, 11 novembre 2015La frase, come risulta dalla lettera, riguarda esclusivamente l’Albero della scienza, della conoscenza del bene e del male, non anche l’Albero della vita, che pure era presente nel Giardino dell’Eden2. Di quest’ultimo, dunque, Adamo ed Eva erano legittimati a mangiarne i frutti. Per ora la no- tazione può apparire irrilevante, ma in seguito risulterà determinante, poi- ché evidenzia che nel Paradiso terreste i nostri progenitori erano immortali ed, infatti, compartecipavano della conoscenza divina. La prima evidenza che colpisce il giurista nella narrazione biblica della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, dall’Eden è il concetto di colpa, la quale, per necessità logica, presuppone ed è indissolubilmente legata ai concetti di conoscenza e di responsabilità. Se l’albero, del quale mangiano il frutto, è l’albero della conoscenza del bene e del male, ossia della consapevolezza morale del proprio comportamento, non si compren- de come sia possibile emettere da parte di una divinità come da parte di un essere umano un verdetto, una sentenza di condanna per azioni commesse 1 Genesi, 2, 15-17. 2 “Ora il Signore Dio sin da principio aveva piantato un paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da lui formato. Produsse il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi; inoltre, l’albero della vita nel mezzo del paradiso, e l’albero della scienza del bene e del male”. Genesi, 2, 8-9. da esseri inconsapevoli, per così dire, innocenti dal punto di vista sia del- la volontà, sia della conoscenza, in quanto, appunto, ignari dell’esistenza stessa del contenuto dei concetti di bene e di male: disobbedire poteva essere sia bene, sia male. Se la ragione, da cui la teoria giusnaturalistica ritiene di dedurre le norme giuste, è la ragione divina nell’uomo e non la ragione empirica, questa dottrina non può essere definita come razionalistica. [...]. Se è la ragione conoscitiva a statuire norme, su cui si fonda il valore del bene e quindi il disvalore del male, allora la distinzione fra bene e male è una funzione della conoscenza che statuisce norme, cioè della ragion pratica. [...]. In questa versione, il concetto risale fino al mito dell’albero della conoscenza: è infatti la conoscenza del bene e del male data a chi gusta i frutti di quell’albero. [...]. L’essenza di Dio è nel fatto di sapere ciò che è bene e ciò che è male; sapendolo, egli vuole anche che si faccia il bene e di ometta il male. Il suo sapere coincide con il suo volere e la sua ragione è una ragion pratica: è questa la ragione divina di cui l’uomo si appropria col peccato originale3. Ma è proprio questa la ragione di cui si appropria, mangiando la mela, l’essere umano o, piuttosto, esistono due diverse ragioni, quella divina, universale, e quella umana, particolare, ed è della conquista di quest’ul- tima, che il mito dell’Albero della conoscenza del bene e del male parla? Probabilmente l’interpretazione della simbologia biblica deve spingersi oltre, più in profondità, del concetto di acquisizione della responsabilità (conoscenza del bene e del male) attraverso la colpa: un colpa che non pre- suppone apparentemente l’esistenza di alcuna responsabilità e scaturisce da una disobbedienza ad un comando. Forse, è proprio la nostra cultura, ormai atavicamente assuefatta ad una eteronomia incentrata su divieti e sanzioni, a condurci sulla strada di una interpretazione colpevolizzante del mito della mela. Forse, il peccato originale altro non è che il nostro stesso esistere come esseri umani e non divini e la metafora della mela, intesa come nutrimento, atto tipico e specifico dell’essere vivente, sembra richia- mare simbolicamente questa interpretazione. Probabilmente il senso esoterico del brano biblico nasconde significati, che non sono meramente giuridici, ma sconfinano nella riflessione filosofi- ca e nella materia teologica. Ogni condanna prevede una responsabilità, che scaturisce direttamente dalla consapevolezza e dalla conoscenza sia dell’azione che si compie, sia della norma, che la vieta: so ciò che faccio e conosco ciò che si può fare e 3 H. Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Torino 1975, pp. 90-91. ciò che non si può fare; ciò che si può fare è bene, ciò che non si può fare è male. Ma bene e male possiedono almeno due diverse dimensioni: quella assoluta del bene e del male universale e quella relativa del bene e del male propria di colui che agisce, del suo modo di sentire, di vedere, di giudicare gli eventi ed i comportamenti. Dio disse di non mangiare: sembra un comando eteronomo e, quindi, in quanto tale, pare contrapporre un divieto divino ad un giudizio e compor- tamento umano. Questa interpretazione, per altro condivisa anche da Alf Ross (1899-1979)4, viene rafforzata dalla presunta sanzione comminata: se ne mangerai morirai. Ma si tratta effettivamente di una norma giuridica o morale dotata di sanzione oppure si tratta di un mero avvertimento, della descrizione di una sorta di legge naturale, come quelle che derivano da teorie scientifiche e che prevedono, ad esempio, il moto degli astri? In altre parole si tratta di un comando o di una descrizione? Per rispondere alla domanda è necessario risalire alla situazione di Adamo ed Eva rispetto a Dio nell’Eden. Non era una situazione di separazione, ma di unione; non vi era individualità, ma comunione; conseguentemente, l’unica conoscen- za esistente era quella divina, che permeava, proveniente da Dio, anche Adamo ed Eva. Conoscere e volere, dunque, erano la stessa cosa non solo per Dio, ma anche per Adamo ed Eva ed in una tale situazione un comando eteronomo è del tutto privo di senso; in primo luogo, perché non può essere eteronomo, in quanto vi è comunione, ed, in secondo luogo, perché un co- mando comporta volontà diverse, mentre, in questo caso, come vi era una sola conoscenza così vi era anche una sola volontà. Desiderando il frutto dell’albero, torniamo alla realtà del sospetto, cioè allo svincolare la conoscenza dall’amore e ad impiegarla ai fini dell’autoafferma- zione dell’individualità. Una conoscenza contemplativa è una conoscenza del buono, del bello e del vero. La conoscenza contemplativa è una conoscenza della pace, perché è la conoscenza del riconoscimento dell’altro, dunque non può essere a fin di male. La conoscenza contemplativa che Dio propone all’uo- mo, sua immagine, è una conoscenza sapienziale, che ha in sé una dimensione assiologia, cioè di valutazione del bene e del male. Ma l’uomo ha questa co- noscenza già in quanto amico di Dio, sua immagine, e può sempre contem- 4 “Il peccato nacque quando l’uomo violò il divieto, assolutamente arbitrario e irragionevole, di Dio di mangiare il frutto di un certo albero che gli avrebbe dato una conoscenza che era di Dio stesso. Peccato significa dunque disobbedienza, pura e semplice volontà propria, autodecisione e per questo peccato Adamo ed Eva e la loro discendenza venivano puniti in eterno nel modo più crudele. Tutti dovevano subire l’ira di Dio ed essere affetti dal peccato originale”. A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè, Milano 1972, p. 19.  plarla nell’albero della conoscenza del bene e del male. Il bene e il male sono conosciuti dall’uomo insieme a Dio, suo Creatore, e in lui. Anzi, l’unica giusta conoscenza del bene e del male è quella che l’uomo contempla in Dio. È con gli occhi di Dio che l’uomo vede il bene ed il male. Ma guardare con gli occhi di un altro e gioire di questa intimità è proprio delle persone che si amano. Nell’a- more è la tendenza a conoscere attraverso l’amore dell’altro e con il suo amore. Proprio nel fatto che l’uomo può guardare l’albero della conoscenza del bene e del male, perché proprio lì in qualche maniera si incrociano gli sguar- di tra Dio e l’uomo, c’è la possibilità dell’idolatria, quindi di una tentazione. Guardare può diventare desiderare, e desiderare prendere5. Il rapporto tra Dio e l’essere umano in quella dimensione di equilibrio creazionistico, tutto racchiuso nello spazio/tempo divino dell’Eden, era di completa compartecipazione, e non proprio di identità (a sua immagine e somiglianza). L’identità dell’immagine non appartiene ad un semplice fenomeno visivo, ma si estende anche alla dimensione cognitiva, sebbene non in modo completo (somiglianza). Il derivato non partecipa a pieno titolo di tutti i caratteri del derivante, ma certo ne incarna una rilevante porzione. Conseguentemente Adamo ed Eva non erano privi di conoscenza e, quindi, anche di responsabilità, ma partecipavano della medesima cono- scenza divina, della conoscenza propria dell’Uno e del Tutto. L’uomo abbandonerà Dio e la proposta della tentazione acquisterà sempre più un aspetto di verità [...]. Poiché l’uomo non è più nella contemplazione dell’albero della conoscenza, ma è ormai scivolato nella logica della posses- sione, gli rimane solo il male, ossia la necessità di possedere. Sganciandosi dall’amore, da quella intimità con Dio nella quale ha potuto conoscere che cosa è bene e che cosa è male per lui, finisce essenzialmente posseduto dalla necessità di possedere per salvarsi6. La conoscenza divina, della quale erano compartecipi nell’Eden Adamo ed Eva, era universale, assoluta, non prospettica, ma posseduta a tutto ton- do nella dimensione della totalità degli eventi di un Essere, che racchiude in sé ogni evento7. Il comando, dunque, di non mangiare la mela, la proibi- zione non si presenta come un atto di volontà eteronoma rispetto ad Adamo 5 M.I. Rupnik, Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua, Lipa, Roma 2011, vol. I, pp. 227-228. 6 M.I. Rupnik , op cit., p. 230. 7 “Il Dio degli Dei, lo Spirito assoluto, permane in eterno, al di là della conoscenza che può averne la religione in questo mondo. La storia non è il luogo del divenire della coscienza divina suprema”. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 74.  ed Eva, ma come una informazione, un avvertimento, una descrizione di ciò che avviene quando dall’unità si passa alla molteplicità, quando l’asso- luto cede il passo al relativo. Né vi è sanzione nel monito di Dio; ciò che appare come condanna altro non è se non descrizione di ciò che accade nel relativo, di ciò che produce, di ciò che è il relativo, ossia l’umano. La mela è un frutto commestibile, che allieta e nutre il palato umano, quindi potrebbe simboleggiare quella conoscenza tutta umana e relativa, richiamata anche dalla leggendaria mela di Isaac Newton (1642-1727), in contrapposizione ad una conoscenza divina ed assoluta. Adamo ed Eva, mangiando la mela, decidono di abbandonare l’unione con il divino, per vivere una propria vita separata, individuale ed autonoma, dotata, quindi, di una propria conoscenza soggettiva e prospettica, non più oggettiva e completa. Nel racconto del peccato originale, la tentazione spinge l’uomo a spostare l’attenzione da Dio all’albero – cioè dalla persona all’oggetto – e a fissarsi sull’oggetto. Prima l’uomo parlava con Dio e a Dio, poi comincia a contrat- tare con la tentazione, per finire col ritrovarsi a desiderare l’oggetto – l’albero – come se fosse la sua salvezza. L’interlocutore ontologico dell’uomo non è più un principio agapico assoluto, ma una realtà oggettuale. L’uomo diventa ciò che contempla. Come è il suo interlocutore fondamentale, così è l’uomo. Poiché l’uomo è una realtà dialogica, non può fare a meno del dialogo, ma tutto dipende da chi è l’interlocutore di questo dialogo. Se è un oggetto, l’uomo diventerà sempre più un oggetto. Percepirà se stesso come un oggetto e si rela- zionerà agli altri come ad oggetti. Anzi, li considererà come suoi oggetti. Ogni peccato commesso dopo il peccato originale sarà un passo ulteriore in questa reificazione spersonalizzante dell’uomo8. La ribellione al comando divino (meglio, l’avere ignorato la descrizio- ne divina) non consiste nell’infrangere un divieto, ma nel desiderare una propria personalità individuale, separata dal Tutto, soggettiva, ma questa soggettività si trasforma in oggetto del Tutto; abbandonata la soggettività del Tutto ciò che resta, come parte, è una soggettività relativa, ossia una reificazione rispetto al Tutto: il peccato originale, infatti, si presenta come separazione, rottura del Tutto nelle sue molteplici parti, come oggetti della soggettività universale. Una prima rottura nel creato (diversa la rottura dell’Uno prodotta dalla creazione, poiché essa fu anche rottura, salto qualitativo, di sostanze: so- miglianza con Dio, non identità) era già avvenuta con la comparsa di Eva: 8 M.I. Rupnik, Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua, cit., pp. 233-234. Mandò dunque il Signore Dio ad Adamo un sonno profondo; ed essendosi egli addormentato, gli tolse una delle coste, e ne riempì il luogo con della carne. E con la costa che aveva tolta ad Adamo, formò il Signore Dio una donna, e gliela presentò. E disse Adamo: “Ecco, questo è un osso delle mie ossa, e carne della mia carne; questa sarà chiamata virago, perché è stata tratta dall’uomo. Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e si stringerà alla sua moglie, e saranno due in un corpo solo”9. Tale rottura, tuttavia, non si manifesta come irrimediabile, poiché frutto di una medesima sostanza, la costola di Adamo appunto, che riconduce ad unità ciò che appare altro, diverso, separato (saranno due in un corpo solo; rebis di alchemica ispirazione). Ed, infatti, è proprio questo diverso, separato in apparenza, ma pur sempre composto della medesima sostanza, a patrocinare ed ad attivare la rottura: è il due che rompe l’unità e la rompe per attrattiva verso l’individualità, una individualità nuova, il due, appun- to. Il serpente sembra rappresentare questa attrazione verso il particolare, verso la separazione (diavolo da diabolos, διάβαλος, colui che divide). La massa della materia (il serpente) si separa nelle sue parti, forme e qualità dall’energia omogenea e priva di forme (la Divinità) o, se si preferisce, i corpi si separano dallo spirito universale. Pare di vivere nel mito l’equa- zione di Albert Einstein (1879-1955) della conversione, dell’oscillazione, della compresenza (tra?) di energia e massa in un sistema fisico, che ha su- perato la visione propria di un materialismo legato solo al visibile, all’og- gettivato: E=mc2. Henry Corbin (1903-1978) ben sintetizza il tema dell’individualizzazio- ne, dell’oggettivizzazione nel paradosso (ossimoro?) dell’unità molteplice:  9 È la visione della molteplicità nell’unità. [...]. È la visione dell’unità nella molteplicità. Le due interpretazioni si completano l’un l’altra necessariamen- te: l’ontologia integrale presuppone nel perfetto Saggio la visione simultanea dell’unità nella pluralità e della pluralità nell’unità. È attraverso questa simul- taneità che si effettua la differenziazione seconda, quella stessa in forza della Genesi, 2, 21-24. quale il pluralismo metafisico si trova fondato a partire dall’Uno – senza di esso non vi sarebbero i molti, ma caos e indifferenziazione10. I nostri simbolici progenitori, Adamo ed Eva, nell’abbandonare la cono- scenza divina, assumono, come loro conoscenza specifica, quella umana e, dunque, divengono prigionieri di tale conoscenza limitata, che comporta anche la comparsa di fatiche, dolori e morte. La separazione è un divenire altro dal Tutto, conseguentemente, all’immutabilità dell’Essere subentra il divenire con le sue opposizioni, polarizzazioni: essere e non essere, fatica e riposo, dolore e piacere, morte e vita, etc.. Il divenire non può esistere senza l’alternarsi di manifestazioni diverse, ossia, soprattutto, non può esi- stere senza la morte, intesa come termine di una manifestazione ed inizio di una nuova manifestazione. La morte, dunque, come nell’ammonimento di Dio, è indissolubilmente legata alla conoscenza umana, simbolicamente rappresentata dal cibarsi della mela. A questo punto risulta ormai eviden- te che Adamo ed Eva non potranno più cibarsi dei frutti dell’altro albero presente nell’Eden, dell’Albero della vita, dei quali sino a quel momento potevano godere. I frutti dell’Albero della vita donano la vita eterna, ma la conoscenza ed il divenire umani impediscono l’eternità, ciò che è eterno non conosce solo la parte, ma conosce direttamente il Tutto, e non diviene, ma permane sempre immutato uguale a se stesso. La parte, in quanto limi- tata non può sfuggire alla morte. Particolarmente penetrante si presenta la puntualizzazione di Friedrich W. Nietzsche (1844-1900): L’albero della conoscenza. – Verosimiglianza, ma non verità: parvenza di libertà – è per questi due frutti che l’albero della conoscenza non può venir scambiato per l’albero della vita11. Alle considerazioni mitologico-religiose sino a questo punto svolte pos- sono ora essere aggiunte altre ed ulteriori considerazioni di natura più stret- tamente filosofica. Se il divenire condanna, prima, la parte a distinguersi da un’altra parte e, successivamente, la stessa parte ad essere se stessa e, poi, a trasformarsi in altro, allora il divenire appare come un alternarsi di essere e di non essere. Il tema è antico e vide già contrapposti il pensiero di Eraclito (535 a.C.-476 a.C.), con il suo tutto scorre, panta rei (πάντα ρει), a quello di Parmenide (544 a.C.-459 a.C.), sostenitore di un Essere che non può non essere. Effettivamente anche nella realtà empiricamente rilevabile il non 10 H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 39. 11 F. Nietzsche, Umano, troppo umano II, in Opere 1870/1881, Newton, Roma 1993, p. 797.   essere è di problematica individuazione. Rilevabile, invece, con estrema facilità è l’essere e l’essere altro come espressione del divenire. Ma a livel- lo logico, secondo il principio di identità, l’essere è solo se stesso e l’essere altro non è continuità dell’essere iniziale, ma un diverso essere a sua volta uguale solo a se stesso. La logica parmenidea, ampiamente sviluppata ai nostri giorni da Emanuele Severino12, nega nella sostanza il divenire e co- struisce una logica di identità degli eterni, che si separa e distingue dalla logica dialettica del divenire. La logica degli eterni si addice ad un mondo metafisico, proprio del divino; mentre la logica dialettica, empiricamente verificabile/falsificabile, pare tipica degli esseri umani. Commentando Corbin, Claudio Bonvecchio in proposito ricorda: [...] oltre che teologica – la modalità catafatica [affermativa n.d.r.] di rap- portarsi al divino ha costruito una vera e propria logica (di ascendenza aristote- lico-scientifica). Anzi, si può affermare che si è affermata come la base stessa della logica occidentale in quanto sostiene (apoditticamente oltre che dogmati- camente) – nella costruzione del discorso – la possibilità di affermare in manie- ra indiscutibile le caratteristiche di un ente. Caratteristiche che ne esprimono la verità che si ritiene assoluta, se si ottemperano determinate condizioni logico- razionali (principio di non contraddizione, principio del terzo escluso, etc.). Tuttavia, questa verità [...] non consente mai un rapporto partecipativo con l’Essere. Infatti, esclude dal discorso [...] la dimensione dell’Essere che è l’u- nica che fa di un ente un ente esistente13. Ciò che conta tuttavia, ai fini delle presenti riflessioni non è tanto l’af- fermarsi nella storia umana dell’una o dell’altra logica, quanto piuttosto la constatazione che anche a livello filosofico emerge la possibilità di un dualismo logico non dissimile da quello evidenziato nell’episodio biblico del Giardino dell’Eden. Sul piano filosofico il legame tra l’Albero della conoscenza del bene e del male e quello della vita appare ancora più indissolubile che nel testo bi- blico. Infatti, è la stessa logica conoscitiva umana del divenire, che trascina con sé, come compagna inseparabile, la morte. Ciò che diviene possiede un inizio ed una fine, prima non esiste, poi esiste, quindi torna nel nulla. Non è questa la logica conoscitiva del divino, nella quale ciò che è, lo è per sempre, dall’eternità e nell’eternità. Scrive Massimo Donà: 12 Cfr. E. Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, Milano 2006. Ed anche del medesimo Autore: L’identità del destino, Rizzoli, Milano 2009. 13 C. Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Henry Corbin, in H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 12.   [...], nel testo biblico l’Albero della Vita o delle vite, al plurale, come dice in verità l’Antico Testamento – a indicare, molto probabilmente, l’infinito distin- guersi del principio – allude ad una verità che solo l’Albero della Conoscenza avrebbe potuto spingerci a ridire. Facendoci innanzitutto tradire quel senso di infinita apertura verso un futuro sempre ancora possibile che caratterizza ap- punto l’Albero della Vita. Ossia, la speranza in una rigenerazione in grado di negare la definitività connessa ad ogni supposto improbabile compimento; in primis quello costituito dalla morte. Ecco perché l’Albero della Conoscenza avrebbe reso mortale il soggetto che avesse voluto cibarsi dei suoi frutti. Perché il logos umano, troppo umano, da quest’ultimo (dall’Albero della Conoscenza) rappresentato, è costitutivamente portato a credere nell’intrascendibilità delle distinzioni e dunque a fare dello stesso distinguersi in quanto tale il principio incontrovertibile dell’esistere. Per questo, proprio dicendo tale intrascendibilità, il logos avrebbe dovuto comunque riconoscere il limite costitutivamente caratterizzante il suo stesso orizzonte, concependo anche quest’ultimo come essenzialmente limitato – os- sia, distinto. Finendo così per negare finanche la sua stessa intrascendibilità. Ed instituendo l’impossibile per eccellenza: ossia un nulla posto di là dalla po- sitività di tutto quel che è – un nulla concepito, esso medesimo, dunque come positivo. E perciò valevole come perfetta metafora del male assoluto14. Dunque, non solo la riflessione religiosa, si potrebbe dire teologica, ri- leva la presenza, almeno potenziale, nell’essere umano di ben due diverse logiche, ma anche l’analisi filosofica giunge alla medesima conclusione. Alla logica dell’Essere Assoluto si giustappone la logica del divenire, dell’essere altro. La prima si presenta meramente razionale, priva di possi- bilità empiriche di verifica/falsificazione, tutta dispiegata intorno a principi considerati indiscutibilmente veri ed evidenti senza ulteriori necessità di- mostrative; principi che nella terminologia kantiana possono essere definiti a priori. La seconda, invece, completamente costruita a posteriori, grazie alla percezione empirica del divenire, alla rilevazione, si potrebbe dire, sempre in terminologia kantiana, categoriale degli eventi. Quest’ultima lo- gica si limita a descrivere una realtà fenomenologica umana e, come tale, relativa, quindi, senza pretese di accesso conoscitivo ad ipotetiche realtà assolute e metafisiche. L’indissolubile legame, sostenuto dalla logica dell’Assoluto, tra l’Albe- ro della Conoscenza e la realtà di separazione sembra ribadito dalla Bibbia anche nell’episodio simbolico della costruzione e del crollo della Torre di Babele. L’unione tra terra e cielo, già simboleggiata dall’albero, qualsiasi albero (Yggdrasil, l’albero di Natale, etc.), viene ricercata, in questo caso, 14 M. Donà (a cura di), Parmenide. Dell’essere e del nulla, Albo Versorio, Milano 2012, pp. 94-95.attraverso un’opera di architettura, che sfida altezza e forza di gravità, ma nel crollo di questo asse umano-divino si dissolve l’universalità della pa- rola, intesa anche nella sua accezione più estesa di logos, la sua capacità creatrice e comunicatrice universale. La terra era tutta d’una sola lingua e d’una sola parlata. [...]. Ma il Signore discese per vedere la città e la torre che i figli di Adamo stavano edificando, e disse: “Ecco, è un popolo solo, ed ha una lingua sola per tutti; hanno cominciato a far questo lavoro, né desisteranno dal loro pensiero sinché non l’abbiano condotto a termine. Andiamo dunque, discendiamo, e confondiamo ivi le loro lingue, così che nessuno più comprenda la parola del prossimo suo”15. Il Tutto diviso in parti si differenzia e perde di unitarietà. Ciascuno divie- ne consapevole di sé, ma solo di se stesso; gli altri mutano in esseri ignoti, estranei. La metafora della confusione delle lingue, ancora una volta, non suona come condanna divina, ma come descrizione delle conseguenze de- rivate dalla separazione delle parti dal Tutto16. L’essere umano, in quanto parte del Tutto, non ha né colpe, né meriti, ma solo caratteri suoi propri, che si separano e divergono da quelli divini: 15 Genesi, 11, 1 e 5-7. 16 “Diventare un solo popolo, sotto una istituzione – la lingua sola – è qui, chiaramente, l’espressione della hýbris degli uomini, del loro istinto auto- idolatrico: così chiaramente che non viene nemmeno detto, ma sottinteso. Ma la questione più interessante, sulla quale ha richiamato l’attenzione Stefano Levi della Torre nel suo splendido e illuminante Zone di turbolenza, è se la misura presa da Dio – la dispersione su tutta la terra e la confusione delle lingue – sia la punizione per un grande male (come nel caso di Caino reso ramingo e fuggiasco) o la garanzia di un grande bene. L’interpretazione di Stefano Levi, in breve, è che la distruzione della città dell’onnipotenza, la moltiplicazione delle lingue, rese incomprensibili l’una all’altra, e la dispersione dei popoli in lungo e in largo sulla terra, tutto ciò è una moltiplicazione delle culture e delle istituzioni, un antidoto all’idolatria del pensiero e del potere unico, una garanzia di pluralità delle visioni del mondo e del modo di vivere nel mondo. Secondo questa profonda interpretazione, la civitas maxima non è altro che idolatria”. G. Zagrebelschy, La virtù del dubbio, Editori Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 134-135.  è relativo e non assoluto; è finito e non infinito; possiede una conoscenza limitata e non universale. In conseguenza di queste considerazioni risulta chiaro che gli avvenimenti drammatici, che videro come scenario il Para- diso terreste, non possono essere incasellati nella concatenazione di eventi, che accomuna il diritto e la morale: alla colpa consegue la responsabilità del soggetto agente, al quale, proprio in quanto responsabile, viene appli- cata la pena. Questi concetti vengono chiaramente espressi a livello sia morale che giuridico da Alf Ross (1899-1979): L’idea che esista una responsabilità morale, è identica all’idea della respon- sabilità giuridica, è l’espressione di una prescrizione normativa per cui la colpa viene collegata con le conseguenze della colpa, cioè con la pena che qui si chiama riprovazione17. Ed ancora in modo più esplicito: Quando si fa valere una responsabilità, ciò avviene sempre con la motiva- zione che qualcosa fu commessa che, secondo un determinato ordinamento normativo, non sarebbe dovuta accadere, qualcosa di riprovevole o proibito che, di conseguenza, dà motivo a quella reazione che consiste nel far valere la responsabilità18. Nel caso dell’Eden, come si è detto, non pare che ci si trovi in questa situazione, non solo perché viene meno l’uso tecnico della terminologia giuridica (colpa, responsabilità), ma anche, e soprattutto, perché manca la norma vincolante, il divieto. Infatti, l’interdetto pronunziato da Dio, proprio per il suo carattere che unisce conoscenza e volontà, non può essere considerato un comando, ossia una norma, ma più semplicemente una informazione, un avvertimento, al massimo, un consiglio. Si tratta cioè di una frase ipotetica (se mangi la mela divieni mortale) tesa a de- scrivere gli avvenimenti conseguenti all’azione segnalata come perico- losa. Del resto, come avrebbe potuto Dio formulare un comando a dei soggetti che, prima dello strappo, della rottura, partecipavano della sua stessa conoscenza e volontà? Dunque, se non vi fu comando, norma, non vi fu neppure colpa, in quanto mancò la violazione, la disobbedienza. Vi fu, invece, responsabilità per l’azione compiuta, ma la natura umana di Adamo ed Eva avrebbe potuto consentire loro di compiere una scelta diversa? La risposta deve essere rinviata, in quanto strettamente dipen- 17 A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, cit., p. 49. 18 A. Ross, op. cit., p. 29.   dente dalle convinzioni intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio. Ovviamente, se non vi fu colpa non è neppure possibile reputare la tri- ste condizione umana come una pena inflitta dal Creatore alle proprie creature. Piuttosto si tratta di considerare la stessa natura umana come caratterizzata, nei propri intrinseci limiti, in quanto parte di un Tutto mol- teplice e differenziato, appunto, anche in qualità diverse. Per fornire un paragone pur imperfetto: rispetto alla media statistica degli esseri umani il fenomeno dell’albinismo è minoritario ed, in quanto tale, appare come uno svantaggio genetico, ma può veramente essere considerato sempli- cemente uno svantaggio esistenziale o potrebbe anche essere visto come una articolazione qualitativa del genere umano, dotata a propria volta di taluni vantaggi soggettivi, sui quali tendiamo a non soffermarci per pigrizia culturale? L’interpretazione di comando (norma), di colpa e di, conseguente, punizione (pena) divina pare prodotta da una cultura umana troppo governata da una autoflagellazione di natura, prima, etica e, poi, giuridica; del resto, questa interpretazione prevalente punitiva della cac- ciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre ed anche della distruzione della Torre di Babele e relativa confusione delle lingue non può stupire in un mondo sempre più giuridicizzato, quale è il mondo attuale. Che la parte ed il tutto siano distinguibili sia teoreticamente, sia empi- ricamente è nozione inconfutabile anche, ad esempio, a livello geometri- co; così come è inconfutabile che la parte, almeno quella umana, possieda una consapevolezza, più o meno veritiera, del proprio esistere (cogito ergo sum) e non certo solo per l’autorità di René Descartes (1596-1650); altra e ben diversa questione è comprendere se esista e che caratteri manifesti la consapevolezza di se stesso propria del Tutto. Certo la parte partecipa del Tutto e, quindi, pare arduo pensare che ad una limitata consapevolezza della parte non corrisponda una illimitata consapevolezza del Tutto, pur tuttavia nulla può essere escluso senza l’evidenza di prove comprensibili alla mente umana ed, inoltre, resta comunque impregiudicato il tema della qualità, delle caratteristiche di questa eventuale consapevolezza. Lo Spirito, Dio, l’Energia sicuramente non possiedono un carattere di autocoscienza, di consapevolezza uguale a quello proprio dell’essere uma- no, ma neppure la massa (materia individualizzata) possiede livelli omo- genei di autocoscienza, di consapevolezza, almeno per quanto si conosce attualmente, nelle sue molteplici articolazioni, nelle sue diverse parti. I minerali, i vegetali, gli animali e l’animale umano percepiscono se stessi ed il mondo a loro presupposto esterno in modi molto diversi ed in modi altrettanto diversi reagiscono, interagiscono con l’ambiente circostante. Il Tutto, come somma di tutte le singole parti o come entità ulteriore, può, e secondo quali modalità, percepire se stesso? Una possibile risposta passa attraverso il concetto di Spirito o di Energia che, permeando ogni cosa, ogni fenomeno, pur in quantità e, forse, anche in qualità diversa, consente questa generale, universale consapevolezza eterna di sé; una sorta di anima individuale, ma universale (sembra un ossimoro, ma è solo prospettiva di- versa), di anima mundi. Bene e male rappresentano una dualità, che acquista significato solo in un mondo scisso, a sua volta, in un bipolarismo oscillante tra un polo, espressione di assoluto, ed un secondo polo, espressione di relativo, il qua- le subisce il giudizio del primo: buono o cattivo, appunto, rispettivamente nelle sue singole e molteplici manifestazioni comportamentali. Quest’ulti- mo bipolarismo non riguarda solo la distinzione tra dover essere ed essere, ma si articola ulteriormente in quel dualismo del dover essere perennemen- te in tensione tra valori assoluti e valori relativi: i primi frutto della dimen- sione assoluta del Tutto ed i secondi propri della dimensione relativa delle parti del Tutto. La dimensione relativa della bipolarità etica consente solo l’espressione di formule valoriali a contenuto soggettivo, cioè proprie del soggetto, della parte che le esprime; del resto anche la dimensione assoluta non riesce a fornire un contenuto etico certo, ma si limita a proporre for- mule o dogmatiche oppure vuote di contenuto, prive di precise indicazioni comportamentali, come, ad esempio, il noto broccardo del diritto romano intorno alla giustizia: unicuique suum tribuere. Il problema irrisolto riguar- da il significato, cosa si intenda per suum, oltre, ovviamente alla discutibi- lità del principio generale, che potrebbe anche consistere nell’attribuire a ciascuno l’altrui e non il proprio o, addirittura non riconoscere l’esistenza di un proprio. Il problema può essere superato solo distinguendo la cono- scenza umana, cui si riferiscono queste aporie, dalla conoscenza divina, che, in quanto assoluta, non può incorrere in esse. Certo tale conoscenza non può competere all’essere umano se non per fede o per rivelazione, ma qui il tema si complica, poiché nella storia della cultura umana spesso l’e- sistenza stessa dell’Assoluto, del metafisico, in quanto non empiricamente percepibile e, quindi, problematico per la conoscenza umana, è stata messa in discussione. Pertanto questo argomento si è sviluppato secondo due di- versi percorsi culturali, l’uno monista e l’altro dualista; il primo sostenitore di una realtà unitaria, nella quale fisica e metafisica si sintetizzano o si escludono a vicenda, ed il secondo portatore di una visione separata dei due piani del reale, anche se in qualche modo comunicanti tra loro; ma di ciò si tratterà tra poco. Oltre alla possibilità alternativa dell’esistenza di una logica divina e di una umana si presenta anche l’ipotesi di una vera e propria assenza di logica, come risultato dell’inconoscibilità dell’Assoluto; un Assoluto che è solo silenzio, oscuramento della conoscenza umana, come suggerisce Ni- colò Cusano (1401-1464) con l’ipotesi del Dio nascosto (absconditus): Né ha nome, né non ha nome, né ha nome e non nome. Ma quanto può dirsi disgiuntamente e copulativamente, per accordo o disaccordo, non gli conviene, per incommensurabilità di sua infinità, perché è principio uno, anteriore ad ogni concetto su esso formulabile19. Abbandonato il Paradiso terrestre da parte di Adamo ed Eva, non solo subentra la logica umana, il divenire e la morte al posto dell’unione con il divino, l’eternità statica e la vita eterna, ma la rottura porta con se stessa anche l’estraneazione dall’Assoluto, che assume una dimensione impe- netrabile, misteriosa. L’Assoluto creatore si pone prima di ogni creato e di ogni creatura e, quindi, anche prima di qualsiasi logica e razionalità. L’Increato non appartiene al mondo empirico, ma neppure al metafisico pensato od al metafisico alienato nella creazione. Esso appartiene solo a se stesso ed all’insondabile abisso, che separa l’Assoluto dal relativo, il Tutto dalle sue parti.  19 N. Cusano, Il Dio nascosto, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 37. Carcharias Taurus è il nome scientifico del meglio conosciuto squalo toro, il quale possiede una caratteristica, che può farlo assurgere ad icona, ad emblema della natura biologica. Lo squalo toro, infatti, è noto per prati- care il cannibalismo intrauterino; ossia l’embrione dominante si nutre delle uova e degli altri embrioni presenti nell’utero materno. Tale pratica non può stupire nel mondo biologico, giacché il biologico si nutre solo di altro biologico (salvo la fotosintesi clorofilliana). La vita è, dunque, indissolu- bilmente legata alla morte in un perenne solve et coagula, nel quale vige la locuzione latina mors tua vita mea. La fine di un essere vivente costituisce la possibilità di sopravvivenza per un altro essere vivente. Talvolta, poi, il ciclo vitale si esaurisce direttamente con la procreazione, evidenziando in tale modo l’irrilevanza della vita del singolo individuo e la sua funziona- lità esclusivamente orientata alla continuazione della specie. Lo scenario di morte, nel quale viene ambientata la vita biologica, si completa anche con la lotta per la vita, che pervade, permea ogni entità vivente. La lotta si dispiega all’esterno dei corpi per l’approvvigionamento di cibo, che si concretizza in una forma di dominio del più forte sul più debole, ma anche al loro interno, poiché miliardi di microorganismi (batteri, virus, funghi e parassiti vari) combattono continuamente, senza sosta contro le difese immunitarie dei corpi, che li contengono, per la propria sopravvivenza. Talvolta, pur nelle loro ridottissime dimensioni, riescono ad avere il so- pravvento, dimostrandosi più forti del loro ospite, ma, più frequentemente, soccombono, eppure non si estinguono, se non raramente, grazie alla loro facilità riproduttiva e sovrabbondanza numerica. Cannibalismo e lotta si presentano, dunque, come la struttura (si po- trebbe usare anche il termine ontologia se non fosse troppo compromesso con visioni metafisiche) profonda della natura del biologico. Non si creda, poi, di sfuggire a questa struttura con facili moralismi legati a forme, più o meno radicali, di alimentazione vegetariana o vegana, poiché anche il mondo vegetale, come quello animale è vivente e, come non si comprende la discriminazione etica tra animali sacrificabili e non sacrificabili, così non si comprende la sacrificabilità a fini eduli della vita vegetale, ma non di quella animale. Potrebbe esservi una spiegazione solo in una ipotetica gerarchia delle esistenze biologiche, che ponga l’essere umano al vertice e il vegetale alla base, ma allora non si giustifica perché tale gerarchia debba saltare un gradino, quello animale, appunto, nella scala delle sacrificabilità gerarchiche. Lo stato permanente di guerra, che caratterizza il mondo biologico, è aggravato dalla precarietà programmata della sua esistenza, la quale si deteriora e consuma progressivamente lungo tutto il corso dello sviluppo della vita. L’adagio latino, che indica l’inesorabile trascorrere delle ore, vulnerant omnes, ultima necat, ben descrive l’itinerario tra la nascita e la morte, funestato non solo dalla ricerca cannibalesca del cibo e dalle insidie date da malattie ed infortuni vari, ma, soprattutto, dal decorso del tempo e dal disgregarsi dei corpi, che accompagnano l’essere biologico verso la sua estinzione, la sua fine. Per sintetizzare l’orizzonte esistenziale del bio- logico basti ricordare la locuzione latina attribuita ad Agostino d’Ippona (354-430), ma molto più probabilmente di Bernardo da Chiaravalle (1090- 1153), con la quale si descrive la nascita dell’essere umano: inter faeces et urinam nascimur. La nascita, dalla cellula all’essere umano, è una cruenta rottura dell’individualità, una separazione di materiale organico, una fuo- riuscita di un ente da un altro ente, il numero uno che produce un altro uno, dando il via con il numero due alla catena dei molti. Quanto, poi, alla morte basta visitare ospedali, case di riposo per anziani e cimiteri per chiarirsi le idee intorno al dolore, al decadimento psico-fisico ed... all’approvvigiona- mento alimentare di microorganismi, vermi ed insetti vari, messi in fuga solo dal fuoco liberatore della cremazione. Il tragico disvelamento della triste condizione del biologico, in genera- le, ed umana, in particolare, è presente in quasi tutte le religioni, le quali, infatti, tendono a costruire speranze in un mondo non più biologico ed a porre al centro dei vari culti il concetto di sacrificio: sacrificio, in epoche arcaiche, non solo animale e vegetale, ma anche umano, a favore del divi- no. Il Cristianesimo, con ulteriore lucidità intorno alla condizione umana, poi, ha addirittura capovolto i termini del mistero sacrificale, rovesciando ed integrando il sacrificio umano nei confronto della divinità con il sacrifi- cio divino in favore dell’essere umano. Nell’Eucarestia rivive svelata l’on- tologia del biologico umano e la sua speranza di redenzione, liberazione attraverso il sacrificio del Cristo1. Il fedele cristiano, infatti, beve il sangue 1 “Ma se Cristo ha ripristinato il sacrificio umano e il cibarsi della vittima, questo è accaduto a lui e non a un fratello, perché Cristo ha instaurato la suprema legge e mangia il corpo del Redentore; si nutre del divino per sfuggire all’orrore del biologico, per aspirare ad una vita priva di dolore ed eterna in Dio2. Il Cristo dovrebbe risanare la frattura tra divino ed umano, ricostruire il ponte crollato, riportare la riconciliazione e l’unione tra le parti ed il Tutto. La struttura del nostro mondo è stata descritta con estremo realismo da Baruch Spinoza (1632-1677): Per diritto e istituto naturale, non intendo altro che le regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo che ciascuno è naturalmente determinato a esistere e a operare in un certo modo. Così, per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e i grandi mangiano i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i pesci sono padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. È infatti certo che la natura, assolutamente considerata, ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, e cioè che il diritto della natura si estende fin là dove si estende la sua potenza, essendo la potenza della natura la potenza di Dio, il quale ha pieno diritto ad ogni cosa: ma, poiché la potenza universale dell’intera natura non è se non la potenza complessiva di tutti gli individui, ne segue che ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la sua determinata potenza. E, poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa si sforzi di persistere per quanto può nel proprio stato, e ciò non in ragione di altra cosa, ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha a pieno diritto, e cioè, come ho detto, ad esistere e a operare così come è naturalmente determinato. E qui noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli uomini e tutti gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi e i sani. Tutto ciò, infatti, che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua natura, questo fa di pieno diritto, dell’amore, per cui nessuno dei fratelli ne ha riportato danno, ma tutti hanno potuto gioire di questa restituzione. Succedevano le stesse cose dei tempi antichi, ma sotto la legge dell’amore. Per cui, se non hai un profondo rispetto di ciò che è stato compiuto, distruggerai la legge dell’amore. Che cosa quindi accadrà di te? Sarai costretto a ripristinare ciò che c’era prima, ossia atti di violenza, assassini, azioni illecite e disprezzo per il fratello”. C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 225. 2 Il sangue, la carne, il vino, il pane, l’acqua, il cielo sono simboli magici sino dai tempi più antichi: “Se avviene che io sia sopraffatto, quando bevi acqua o mangi pane, l’acqua assumerà il colore del sangue davanti a te, e il pane prenderà davanti a te il colore della carne, e il cielo prenderà davanti a te il colore del sangue. Horo figlio dell’Etiope stabilì dunque questi segni tra sé e la madre; poi si recò in Egitto, essendo pieno di magie”. E. Bresciani (a cura di), Testi religiosi dell’antico Egitto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, p. 397. Il testo è ambientato ai tempi del faraone Ramesse II, XIX dinastia, 1293-1190 a. C.. Cfr. anche. J.G. Frazer, La crocifissione del Cristo, Quodlibet, Macerata 2007; S. Peverada, Il sacrificio del Dio Bambino. Edipo e l’essenza del tragico, Mimesis, Milano 2004. in quanto agisce nel modo a cui è determinata dalla natura, né può comportarsi altrimenti3. Non sempre la potenza coincide con la grandezza, come dimostrano i microorganismi, tuttavia il senso di Spinoza è chiaro: ciascuno è per natura se stesso e si comporta secondo la propria natura; la gazzella è gazzella ed il leone è leone (preda e predatore), ma anche l’essere umano è tale ed il pazzo od il criminale altro non sono che una particolare espressione di essere umano. La struttura della natura assegna a ciascuno caratteri ben precisi, tutti equivalenti nell’articolazione molteplice della natura, ma ta- luni dotati di una potenza maggiore di altri ed i più potenti prevalgono sui meno nel breve periodo della conquista del nutrimento, per, poi, comunque soccombere anch’essi sotto i colpi dell’invecchiamento, dell’indebolimen- to, delle malattie e della morte. Ovviamente dietro questa visione si agita un fiero determinismo, di cui ci occuperemo in seguito, per ora interessa notare che la natura non si presenta benigna ai nostri occhi, ma la sua strut- tura ci appare profondamente malevola, matrigna. Questa però è la mera visione propria della prospettiva umana, alla quale manca, come si è detto in precedenza, la prospettiva globale, quella divina, e, soprattutto, è viziata da un ragionare antropocentrico di fronte al Tutto, all’universale. Sarebbe facile ironia sbeffeggiare, dal punto di vista etico, il diritto naturale alla luce dell’empiria del nostro mondo biologico, ma, forse, è proprio la vi- sione etica, che dovrà essere messa in discussione nel rapporto tra visione monista e dualista del reale. In questo senso appaiono particolarmente il- luminanti le parole di Giacomo Leopardi (1798-1837) nel Dialogo della natura e di un islandese: Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di ma- niera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimen- ti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera di patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è di- strutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi pia- ce o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che lo compongono?4. 3 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino 1980, pp. 377-378. 4 G. Leopardi, Operette morali, Rizzoli, Milano 2008, p. 288.  La visione del mondo di Spinoza e le domande di Leopardi hanno il grande pregio di rappresentare un limpido, inequivocabile e coerente esem- pio di monismo immanentista del reale (Deus sive Natura). Nel pensiero monista non si tratta, per lo più, di eliminare uno dei due termini dell’al- ternativa, ma di ridurli entrambe ad unità, di sintetizzarli entro un unico termine. Tale unico termine può relegare il mondo empirico all’ambito del- la pura illusione (Velo di Maya, espressione con la quale Arthur Schopen- hauer – 1788-1860 – si richiama alla religione induista), all’ambito di un sogno che potrebbe appartenere anche solo al soggetto che lo percepisce; il mondo esterno potrebbe esistere solo nell’esperienza di chi lo vive (sogget- tivismo filosofico: esse est percipi). Spinoza esprime l’indiscutibile merito di unificare il mondo senza sacrificare la sua dimensione empirica, ma am- pliandolo ad un Tutto, che tutto comprende, seppure nell’incertezza di non riuscirne a descrivere ogni specificità, ogni particolarità, ogni individualità. Infatti, poiché la virtù e la potenza di Dio, e le leggi e regole della natura sono i decreti stessi di Dio, si deve senz’altro credere che la potenza della na- tura è infinita e che le sue leggi sono tanto ampie da estendersi a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto divino5. L’intelletto umano, ma soprattutto il suo sentimento, di fronte ad uno scenario tanto deludente e tragico della vita si è posto la domanda del senso, del significato di tanto dolore. Poiché nel mondo del percepibile attraverso i sensi non fu, e non lo è tuttora, possibile trovare risposte sod- disfacenti, la ricerca si è avviata verso l’immateriale, verso un reale imma- ginato solo nella mente, ma non soggetto a verifica/falsificazione empirica. L’operazione si è fondata su un modello dualista di negazione del sensibile e di contemporanea affermazione del suo esatto contrario: soffro la morte ed allora affermo l’esistenza della vita eterna, a mero titolo d’esempio. Una approfondita descrizione ed analisi di tale operazione, applicata alla religione ed, in particolare, al Cristianesimo, la si può trovare nell’opera di Ludwig Feuerbach (1804-1872)6. Ragione e fede7 si sono contese questo mondo astratto dell’immagina- rio, che ha duplicato l’universo, spiegando il senso del percepibile senso- rialmente attraverso il non percepibile sensorialmente. 5 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., p. 153. 6 Cfr. L. Feuerbach, L’essenza della religione, Einaudi, Torino 1972; del medesimo Autore, L’essenza del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1971. 7 Cfr. J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006. Sul piano razionale sono stati elaborati assiomi, principi primi imme- diatamente evidenti, ma non dimostrabili, concetti a priori, ossia ancora non dimostrabili, ed operazioni logiche, teorie e teoremi, ossia descrizioni di una qualche realtà esistente, validi solo se vengono accolti i presup- posti non empirici, dai quali prendono le mosse. Del resto, è ormai noto dai teoremi di incompletezza di Kurt Gödel (1906-1978), che è possibile definire formule logiche, che negano la propria dimostrabilità, cioè siano autoreferenziate. Si tratta di teoremi di logica, che hanno prodotto notevoli conseguenza in ambito matematico e geometrico, ma che possono essere estesi a qualsiasi sistema formale. Particolarmente significativo ai fini delle riflessioni qui svolte sembra essere il secondo teorema di Gödel, quello relativo alla indimostrabilità di un sistema coerente attraverso la sua stessa coerenza, ossia la coerenza si presenta come una sorta di petitio pricipii (le premesse già contengono ciò che si deve dimostrare) e/o di tautologia (af- fermazione vera per definizione) indimostrabile, appunto. Sull’argomento sono interessanti anche le parole di Bertrand Russell (1872-1970): I grandi scandali della filosofia della scienza sono sempre stati, dopo Hume, la causalità e l’induzione. Ad ambedue tutti ci crediamo, ma Hume mostrò che la nostra credenza è una fede cieca che non poggia su alcuna prova raziona- le. [...]. Se noi sottolineiamo il fatto che la nostra credenza nella causalità e nell’induzione è irrazionale, dobbiamo inferire che non sappiamo se la scienza sia vera, e che da un momento all’altro essa potrebbe anche cessare di darci quel controllo sul nostro ambiente per amor del quale essa ci piace8. La ragione, dunque, duplica il mondo secondo il modello proprio di René Descartes tra res extensa e res cogitans: la prima riferibile ai cor- pi fisici e la seconda al pensiero dell’essere umano. La distinzione pare speculare a quella tra materia e spirito, ma ne diverge perché, mentre la distinzione cartesiana potrebbe sussistere anche all’interno di un sistema immanentista monistico, tutto incentrato sull’essere umano come modello di unificazione, nel quale i due termini tendano rispettivamente ad identifi- carsi con l’alternativa concreto/astratto, la separazione tra materia e spirito, invece, è per necessità dualista, in quanto le due realtà si escludono vicen- devolmente come espressione di mondi diversi: fisico e metafisico. Martin Heidegger (1899-1976) va oltre nella critica e sottolinea come Descartes dualizzi il mondo, presupponendo, ma non dimostrando, il trascendente: 8 B. Russell, Saggi scettici, Longanesi &C, Milano 1975, pp. 37-38. Cartesio non si fa offrire il modo d’essere dell’ente intramondano da questo ente, bensì, in base a un’idea di essere non disoccultata nella sua origine e non dimostrata nel suo diritto (essere = esser-stabilmente-sottomano), prescrive per così dire al mondo il suo essere autentico. Non è dunque primariamente il ricor- so a una scienza, guarda caso particolarmente apprezzata, come la matematica, a determinare l’ontologia del mondo, bensì l’orientazione fondamentalmente ontologica verso l’essere inteso come esser-stabilmente-sottomano, alla quale la conoscenza matematica soddisfa in modo eccezionale. Cartesio opera così filosoficamente in modo esplicito la commutazione degli esiti dell’ontologia tradizionale sulla fisica matematica moderna e sui suoi fondamenti trascen- dentali9. Del resto anche Werner Heisenberg (1901-1976) rileva la problematici- tà euristica della divisione cartesiana soprattutto alla luce del principio di indeterminazione. In realtà non erano in gioco soltanto degli esperimenti fisici, ma autentiche posizioni filosofiche. Qui la vecchia concezione, radicata fin da Cartesio, del- la divisione tra un mondo oggettivo, svolgentesi nello spazio e nel tempo, e un’anima da esso separata, in cui esso si rispecchia, entrava in conflitto con le nuove vedute, alla cui luce non era più possibile compiere quella divisione nel rudimentale modo precedente10. Oltre la ragione, meglio, prescindendo dalla ragione, però, si è presenta- ta all’essere umano, come via d’uscita dalla sua malasorte e dalle incertez- ze del quotidiano vivere anche un altro strumento mentale: la fede, spesso interpretata più come un dono divino che come una conquista personale11. Nell’ambito della fede il campo sembra apparentemente occupato in modo completo dalle religioni, ma non è possibile tacere che anche talune con- vinzioni filosofiche (paradosso di Zenone, negazione del divenire di Ema- nuele Severino) od anche scientifiche (teoria delle stringhe, delle brane, 9 M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2011, p. 143. 10 W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, Sellerio Editore, Palermo 1999, p. 95. 11 “La fede essenzialmente una negazione implicita o violenta di una realtà o della realtà. La realtà è per tutti una prigione: ma, fortunatamente, una prigione male custodita. Ora, la fede insegna a negare queste muraglie, insegna il modo di fuggirle, ecc. La scienza è invece una affermazione di questa realtà; il modo che essa ci insegna di liberarci della realtà è appunto quello di affermare la realtà. La fede invece vuole insegnarci a fuggire la realtà, insegnando a negarla. La scienza appare come superiore alla fede, appunto perché essa è una liberazione dalla negazione”. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teorici 1925 -1981, Marsilio, Venezia 1989, p. 5.  degli universi paralleli e multidimensionali) sono sorrette più da dogmi, da assiomi logici, da teorie indimostrabili e da convinzioni personali che da prove empiriche. Esempio tipico di dualismo è rappresentato dal sistema filosofico di Pla- tone (428 a.C.-348 a.C.). Il mondo empirico si presenta come l’ombra di una realtà metafisica ideale, nella quale la perfezione dei modelli informa di sé le copie degradate della realtà in cui vive l’essere umano. Gli arche- tipi, le idee delle qualità e degli Enti emanano perfezione, immutabilità ed eternità e sono questi a presentarsi come la vera ontologia del mondo, che nelle forme terrene manifesta tutta la propria imperfezione e provvisorie- tà. Il mondo fisico, come brutta copia del mondo iperuranico, metafisico, spirituale, privo di spazio e di tempo, posto oltre la volta celeste e sede delle idee, produce una duplicazione consolatoria, sottraendo il concetto di verità alla percezione dei sensi ed attribuendolo all’elaborazione razionale. Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il co- raggio di dire la verità soprattutto quando il discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contem- plabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigi- ne della vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e con- templando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell’essere che veramente è12. Il mito della caverna e delle sue ombre, proiettate sulla roccia, descrive una conoscenza limitata, tutta ed esclusivamente umana, che può presen- tarsi completa solo nel momento in cui riesce ad uscire all’aperto e con- quistare la luce delle idee pure: una conoscenza, dunque, non empirica è quella sostenuta da Platone, poiché quest’ultima altro non sarebbe che una falsa conoscenza. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce [...], pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciul- li, incatenati gambe e collo, [...]. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d‘un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa 12 Platone, Fedro, in Tutto Platone, Laterza, Bari 1967, vol. I, p. 755.   pensa di vedere costruito un murricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. [...]. Immagina di vedere uomini che portano lungo il murricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, [...]. Strana immagine è la tua, disse, e strani sono questi prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuo- co sulla parete della caverna che sta loro di fronte?13. Come si è già fatto cenno, il pensiero religioso presuppone già di per se stesso un dualismo del reale: la realtà divina crea la realtà umana ed esse vivono separate nella costante tensione di quest’ultima verso la prima: il ritorno alla casa del Padre. Esempio particolarmente significativo in questo senso è il pensiero gnostico. Sono molteplici le correnti gnostiche, alcune risalgono al mondo antico ed altre fioriscono nell’alveo del Cristianesimo, ma comunque tutte hanno in comune alcuni caratteri identificativi. In pri- mo luogo, il mondo umano rappresenta un degrado rispetto a quello divino. In secondo luogo, lo spirito, la scintilla divina che alberga in ciascun essere umano è racchiusa, come in una prigione, dal corpo fisico, ossia nella ma- teria. In terzo luogo, è aspirazione comune di tutte le scintille racchiuse nei corpi umani di risalire al cielo per ricongiungersi con la perfezione eterna del divino. La dottrina di Simon Mago (I secolo d.C.), descritta con spirito critico cristiano da Ireneo (130 d.C.-202 d.C.) sembra particolarmente utile per rilevare gli elementi gnostici più caratterizzanti di questo pensiero: Se infatti alcuni caratteri presentano chiara impronta gnostica (ostilità degli angeli [= arconti] verso Dio e verso l’uomo, imprigionamento dell’elemento divino nel corpo umano), altri sembrano estranei a questa esperienza: diviniz- zazione di Simone, cioè del capostipite della setta, e di Elena, e la loro pretesa immortalità; mancanza di una specifica colpa che spieghi l’imprigionamento dell’elemento divino nel corpo; redenzione del credente solo grazie alla cono- scenza della natura divina di Simone, mentre nell’esperienza gnostica è fon- damentale il riconoscimento dell’elemento divino che ogni gnostico reca in sé; assenza del Demiurgo, creatore del mondo, e della componente giudaica in genere: il personaggio femminile non è Sophia ma ha nomi greci, Ennoia ed Elena. Anche tenuto conto che la notizia di Ireneo presenta una dottrina che appare influenzata da tratti tipicamente cristiani e perciò non è di facile apprezzamento, si ha l’impressione che con Simone siamo sulla via che porta allo gnosticismo vero e proprio, senza esserci ancora giunti14. 13 Platone, Repubblica, in Tutto Platone, cit., vol. II, p. 339. 14 M. Simonetti (a cura di), Testi Gnostici in lingua greca e latina, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, pp. 6-7. Ovviamente anche il Cristianesimo dualizza il mondo nell’attesa di una sua riunificazione alla fine dei tempi. Il non senso del mondo empirico cer- ca, dunque, spiegazione in un dualismo astratto, ma non per questo meno probabile del monismo empirico o soggettivistico. Comunque se i dualismi concreto/astratto e fisico/metafisico rappresentano probabilmente l’origine del concetto stesso di dualismo del reale, molti altri dualismi percorrono sia le visioni dualiste che moniste del mondo. Si pensi alle coppie luce/tenebre, finito/infinito, eternità/tempo, perfetto/ imperfetto, che per il loro stesso carattere simbolico aprono le porte alla via metafisica, poiché in esse è già insito, sottointeso un mondo migliore che si contrappone ad uno peggiore, ma anche la coppia vita/morte prepara a problematiche di rottura o di continuità dell’essere umano, ossia ancora a problematiche filosofiche e religiose. Del resto, è la stessa razionalità nu- merica, che indica il nascere del dualismo con la presenza del numero due dopo il numero uno; tale presenza consente l’emergere di tutti gli altri nu- meri ed, in effetti, rotta l’unicità dell’Essere, il dualismo muta rapidamente in pluralismo e nel mondo empirico prende il via il divenire e lo scorrere del tempo; lo si è già visto in precedenza nella vicenda gnoseologica del Giardino dell’Eden. Tra i molti dualismi esistenti, alcuni appena ricordati, ne emerge uno particolarmente significativo, poiché favorisce la dualizzazione del reale, sebbene venga generalmente considerato di natura metodologica e non on- tologica, quello tra giudizi di fatto e giudizi di valore15. Si tratta della nota Grande Divisione di David Hume (1771-1776), nella quale si distingue ciò che può essere predicato di falsità o di verità attraverso la verifica empirica, sono i soli giudizi di fatto, e ciò che può essere predicato di buono o di cat- tivo, di giusto o di ingiusto, di bello o di brutto, in quanto non sottoponibile a verifica empirica, sono i giudizi di valore. Il dualismo immediatamente evidente tra oggettività empirica e soggettività umana, nasconde un altro dualismo ben più rilevante per la visione dualistica del reale, quello tra valori relativi e valori assoluti; infatti questi ultimi non possono che pre- supporre per avere senso nella loro indiscutibile veridicità una dimensione a sua volta assoluta, alla quale essi appartengono. Tale dimensione può essere anche meramente razionale, ma più frequentemente ha natura tra- scendente e religiosa. Immanuel Kant (1724-1804), infatti, accanto ad una ragion pura e pratica pone anche una dimensione noumenica. 15 M.L. Ghezzi, La distinción entre hechos y valores en el pensamiento de Norberto Bobbio, Universidad Externado de Colombia, Bogotá 2007.  Nell’antinomia della ragion pura speculativa si trova un contrasto simile [impossibilità del sommo bene secondo regole pratiche e, quindi fantasiosità ed inutilità della legge morale, n.d.r.] fra necessità naturale, e libertà nella cau- salità degli eventi del mondo. Esso fu tolto col dimostrare che non c’è un vero contrasto se gli eventi, ed anche il mondo in cui essi avvengono, si considerano (come appunto si deve fare) soltanto quali fenomeni; perché un solo e medesimo essere, agente come fenomeno (anche davanti al proprio senso interno), ha una causalità nel mondo sensibile, che è sempre conforme al meccanismo naturale; ma rispetto allo stesso evento, in quanto la persona agente si consideri nello stesso tempo come noumeno (come intelligenza pura, nella sua esistenza non determinabile secondo il tempo), può contenere un motivo determinante di quella causalità secondo leggi naturali, libero esso stesso da ogni legge na- turale16. I valori assoluti conducono direttamente nel mondo divino dell’igno- to, del noumenico, appunto17, mentre quelli relativi si situano nel giudizio morale dell’individuo umano, che tuttavia, può essere a sua volta conside- rato come una entità noumenica. Questi ultimi, dunque, rivelano immedia- tamente la propria natura soggettiva, ossia legata al pensiero del singolo essere umano, che solo una ottimistica visione illuminista può reputare espressione di una razionalità universale e, quindi, omogenea. Il sogget- tivismo valoriale apre la strada al nichilismo, ma di ciò si dirà più oltre, per ora bisogna meglio comprendere la distinzione posta alla base della separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Per quanto riguarda i giudizi di fatto il problema si presenta di sempli- ce soluzione, giacché possono definirsi tali solo quei giudizi sostenuti da percezione empirica. Ovviamente esistono delle difficoltà anche sulla stra- da dell’empiria, poiché sempre di giudizi trattasi, ossia di percezioni sog- gettive filtrate attraverso la struttura categoriale propria della conoscenza umana, che possiede almeno due caratteri limitanti la presunta oggettività esterna al soggetto: quello biologico, anatomico, e quello culturale. Potreb- be sussistere anche un terzo limite, quello psicologico, se si attribuisce una propria autonomia individuale o collettiva alla mente come entità separata dal cervello. Si pensi alla distinzione tra conscio, inconscio ed inconscio 16 I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari1972, pp. 139-140. 17 “[...] la realtà oggettiva della legge morale non può esser dimostrata mediante nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragion teoretica, speculativa o sostenuta empiricamente; e quindi, se anche si volesse rinunziare alla conoscenza apodittica, quella realtà non potrebbe venire confermata mediante l’esperienza e così dimostrata a posteriori; e tuttavia essa è stabile per se stessa”. I. Kant, op. cit., p. 59.  collettivo18. Una ulteriore difficoltà è data dai limiti assoluti, non categoria- li, della percezione umana: le unità di misura di Max Planck (1858-1947) ed, in particolare, il tempo (tp), la lunghezza (lp) e la massa (mp) di Planck costituiscono l’attuale, e, forse, definitivo limite di rilevazione empirica, al di sotto del quale è impossibile o, ancora forse, anche privo di significato procedere19. Riguardo ai giudizi di valore si presenta qualche ulteriore difficoltà. Tra- lasciando i valori assoluti, in quanto appartenenti ad un mondo separato da quello umano, ad un mondo umano assolutizzato o all’individuo sempre assolutizzato, pare opportuno soffermarsi sulla natura dei giudizi di valore relativi, soggettivi. Questi ultimi generalmente vengono identificati come un dover essere, ma cosa significa dover essere a livello del singolo sogget- to? Parrebbe un impegno inderogabile, morale, non motivato da particolari interessi personali. Eppure la scelta di un qualche sistema etico e dei suoi 18 “[...] l’incosciente razionalmente comprensibile [...] consiste per così dire di materiali artificialmente incoscienti, è solo uno strato superficiale, e [...] sotto di questo vi è ancora un incosciente assoluto, che non ha nulla a che fare colla nostra personale esperienza, che dunque sarebbe un’attività psichica autonoma, opposta all’anima cosciente e perfino agli strati superiori dell’incosciente, non tocca – e forse non toccabile – dall’esperienza personale, una specie di attività psichica superindividuale, un incosciente collettivo, come io l’ho chiamato, in contrapposto con un incosciente superficiale, relativo o personale”. Cfr. C.G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino 1971, p. 111. 19 “[...] la gravità quantistica è proprio la scoperta che non esistono punti infinitamente piccoli. Esiste un limite inferiore alla divisibilità dello spazio. L’Universo non può essere più piccolo della scala di Planck, perché non esiste nulla che sia più piccolo della scala di Planck”. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare della cosa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p. 201. “Analogamente a come, secondo la teoria della relatività, non si può parlare in modo sensato di velocità il cui valore superi quello della velocità della luce, così non si può nemmeno parlare sensatamente di una indicazione di posizione la cui imprecisione sia inferiore al valore di 0,5. 1013 cm”. W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 103. Ed ancora: “Se partiamo dall’idea che le leggi della natura contengono realmente una terza costante universale nella dimensione della lunghezza, e dell’ordine di 1013 cm, allora dovremmo aspettarci di poter applicare i nostri concetti usuali soltanto a regioni dello spazio e del tempo che siano grandi rispetto alla costante universale. E dovremmo attenderci fenomeni di un carattere qualitativamente diverso quando nei nostri esperimenti ci avviciniamo a regioni nello spazio e nel tempo più piccole dei raggi nucleari. Il fenomeno dell’inversione temporale, di cui si è discusso e che, fin qui, è risultato soltanto da considerazioni teoriche come una possibilità matematica, potrebbe perciò appartenere a queste minimissime regioni”. W. Heisenberg, Fisica e filosofia, il Saggiatore, Milano 2015, p. 165. valori scaturisce da preferenze personali, legate all’ambiente in cui il sog- getto è stato educato e/o vive (consuetudinarietà del comportamento, etc.) e dalle proprie individuali attitudini (propensioni caratteriali, gusti, etc.), non certo da timore di ricevere punizioni o dal desiderio di ottenere utilità di qualche tipo per se stesso o per qualcun altro, poiché, in tale caso, non si sarebbe in presenza di un dover essere morale. Dunque, in concreto il dover essere consiste in una scelta comportamentale, che appaga il sog- getto agente almeno da un punto di vista morale. Potrebbe, infatti, in esso sussistere un conflitto tra un appagamento contrario al dover essere morale e l’appagamento dell’ottemperanza al medesimo. Ovviamente il conflitto interiore si risolverà in favore dell’appagamento più forte, della tensione emotiva più potente. Ma se di appagamento si tratta, il concetto di dover essere non presenta alcuna propria autonomia di significato, poiché si iden- tifica semplicemente con il concetto più immediatamente verificabile in via empirica di mi piace. Del resto, è lo stesso Kant a fornire indicazioni in questa direzione: Invero, ogni inclinazione e ogni impulso sensibile sono fondati sul senti- mento, e l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che avviene alle inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a priori che la legge morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può esser chiamato dolore; e qui ora abbiamo il primo, e forse anche l’ultimo caso nel quale, con i concetti a priori, possiamo determinare la relazione di una conoscenza (qui è conoscenza di una ragion pura pratica) col sentimento del piacere o del di- spiacere20. Il dover essere altro, dunque, non è che un mi piace, nobilitato dall’es- sere riferito ad una forza od ad una entità esterna al soggetto. Si riferisce la propria scelta ad un obbligo inderogabile esterno, radicato nella trascen- denza della ragione, del metafisico o del divino. Si sdoppia il mondo per dare oggettività anche alle scelte soggettive ed, in tale modo, tranquilliz- zare se stessi della bontà della propria opzione e presentare agli altri tale opzione non come un arbitrio, un capriccio personale, ma come una ogget- tiva necessità etica, come un comando eteronomo irresistibile, in quanto doveroso, a pena di riprovazione, disonore, colpa, peccato, rimorso, etc.. Esempio tipico di questo processo è il concetto di obiezione di coscien- za, proprio di taluni ordinamenti giuridici, che con tale motivazione esen- tano alcune persone dal tenere, in una data situazione, il comportamento 20 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 90.  prescritto per legge, ma contrario ai convincimenti etici delle medesime. Ciò spiega anche il tentativo di taluni autori21, che comunemente dai divi- sionisti viene definito con l’espressione fallacia naturalistica, di superare la Grande Divisione di Hume, unificando i due termini, fatti e valori, in un’unica entità di natura oggettiva. In questo modo tutti i valori divengono assoluti, gli uni perché trascendenti e gli altri perché immanenti ed empi- ricamente verificabili; l’essere soppianta il dover essere, ma quest’ultimo, sotto le sembianze dell’essere, mantiene la propria funzione di guida delle azioni umane e di giudizio morale. Un tale passaggio diviene impossibile se si prende atto che il concetto di devo coincide, semplicemente si identifi- ca, con quello di mi piace. Del resto, è Hume steso ad indicare questa come la vera e profonda natura del dover essere: Ora, niente accomuna il bello naturale e morale (entrambi causa di orgo- glio), se non questo potere di produrre piacere22. Il piacere, quindi, è all’origine del dover essere, ma, se questa è l’ori- gine, pare opportuno riportare un po’ di ordine nel vocabolario e chiama- re i concetti col proprio nome senza tentativi di mistificazione. L’etica, la morale, ma anche il diritto altro non sono che articolazioni specialistiche dell’estetica; talune diversità le distinguono, ma, in ultima analisi, sono semplicemente espressioni estetiche del soggetto agente. Inoltre questa de- mistificazione non solo opera favorevolmente sul piano pratico, in quanto, svelando la natura estetica, ossia soggettiva e relativa delle scelte umane, ne mina anche l’arroganza integralista ed intollerante, ma consente anche una migliore utilizzazione metodologica della Grande Divisione. Infatti, sostituire ai dualismi buono/cattivo, giusto/ingiusto il dualismo bello/brut- to significa conservare l’elemento soggettivo del giudizio, anzi rafforzar- lo, ed inoltre radicarlo anche in una realtà umana individuale o sociale empiricamente analizzabile. Si apre in questo modo la strada allo studio delle strutture motivazionali dei soggetti, alle psicologie individuali, all’e- ducazione, alla cultura ed alle tradizioni. Tolti i valori dall’empireo della razionalità astratta, della religione, della metafisica e ricollocati, come en- tità estetiche, all’interno del soggetto agente e della società cui appartiene, divengono fondamentali gli studi psicologici, antropologici e sociologici per spiegare le scelte comportamentali. Il dualismo della Grande Divisione permane, ma non necessità più di giustificazioni non empiriche (almeno in 21 Cfr. G. Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall’essere, Giuffrè, Milano 1969. 22 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano 2001, p. 599.  uno dei suoi due termini) e non produce più neppure quello sdoppiamento del mondo, che faceva sospettare una sua natura ontologica, e non mera- mente metodologica, proprio per l’ambiguità oggettiva/soggettiva del do- ver essere, dei giudizi di valore. La Grande Divisione, nella versione essere – mi piace/non mi piace l’essere, giudizi di fatto e giudizi di estetica, riesce a separare, a distinguere con chiarezza il primo temine come oggettivo ed il secondo come soggettivo; ossia, il primo, come empiricamente sussi- stente all’esterno del soggetto giudicante ed, il secondo, empiricamente sussistente all’interno del medesimo soggetto; ovviamente la prova empi- rica dell’esistenza e della qualità di quest’ultimo giudizio consisterà, sarà data proprio dalla espressione, dalla manifestazione di piacere o di dolore esternata del soggetto. Alla luce di quanto detto sino a questo punto pare chiaro che non esi- stano dimostrazioni affidabili per propendere decisamente a favore della tesi di una realtà monista o di una realtà dualista; d’altronde non è logico pretendere una dimostrazione empirica dell’esistenza di un mondo che, per definizione, non è empirico, né l’affermazione che il mondo empirico sia l’unica realtà esistente, in quanto verificabile empiricamente, può essere considerata qualche cosa di diverso da una tautologia. Forse, l’ontologia del mondo è e non è monista; è e non è dualista, ma oscillano e coesistono contemporaneamente entrambe le realtà, come sembra suggerire la fisica subatomica con la coppia particella/onda ed ancor più con l’equazione, già ricordata, di Albert Einstein E=mc2, nella quale energia e massa sembrano essere due aspetti della medesima realtà, come potrebbero essere anche spirito e materia. Anche in questo contesto appare significativo il fatto che, secondo la mec- canica quantistica, la conservazione dell’energia da un lato, che esprime la sua esistenza atemporale, e il manifestarsi dell’energia nello spazio e nel tempo dall’altro sono due aspetti opposti (complementari) della realtà. In verità, essi sono sempre compresenti, ma in concreto ora l’uno ora l’altro esplicano la loro azione in modo predominante23. La riflessione di Wolfgang Pauli (1900-1958), sopra riportata, apre la strada ad una visione non più oggettivizzata in modo statico del reale, ma, bensì, oscillante in modo instabile, con frequenze diverse, sia in se stessa, sia tra soggetto ed oggetto24. Se il mondo non fosse un fatto, ma una mera 23 W. Pauli, Psiche e natura, Adelphi, Milano 2006, pp. 36-37. 24 “Laddove il vecchio tipo di spiegazione della natura, partendo dal presupposto di un osservatore indipendente, assumeva un decorso totalmente determinato dei possibilità oscillante continuamente a pendolo tra dualismi indissolubili tra loro, quali soggetto/oggetto, determinato/indeterminato, assoluto/relativo, visibile/invisibile, finito/infinito, etc., allora neppure una logica dialettica potrebbe rendere ragione degli eventi, poiché mancherebbe comunque il momento di sintesi. Si aprirebbe, invece, una finestra su una visione del mondo instabile, in pendolare mutazione perenne. Una sorta di metamor- fosi continua, come nell’opera poetica di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 18 d.C.): Vi sono creature, o grandissimo eroe, il cui aspetto fu trasformato una sola volta e per sempre rimase in questa trasformazione; ve ne sono altre, a cui è data facoltà di mutarsi in più aspetti, come a te, o Proteo, abitatore del mare che circonda la terra. Ti videro, infatti, ora quale giovane, ora quale leone; ades- so eri irruente cinghiale, adesso un serpente, al cui contatto si provava paura; alcune volte le corna ti fecero toro, spesso riuscivi ad apparire pietra e spesso anche albero; talvolta, assumendo l’aspetto di acque fluenti, eri fiume; talvolta, l’opposto delle acque, fuoco25. Ovviamente ad una tale visione si accompagnerebbero inevitabilmente le domande intorno alla illimitata variazione delle metamorfosi o alla loro natura evolutiva o non evolutiva oppure, ancora, alla loro ripetitività cicli- ca secondo il principio dell’eterno ritorno di nietzschiana memoria. Forse, il futuro ci riserva la necessità di una profonda revisione dei no- stri processi logici, ad iniziare dal principio stesso di identità. Per ora basti prendere atto almeno di quanto la conoscenza scientifica ha ormai empiri- camente appurato: Con l’aiuto di queste particelle [particelle α] Rutherford riuscì nel 1919, a trasmutare nuclei di elementi leggeri; poté, per esempio, trasformare un nucleo di azoto in un nucleo di ossigeno aggiungendo la particella α al nucleo d’azoto ed espellendone nello stesso tempo un protone. Fu questo il primo esempio di processi su scala nucleare che ricordassero quelli dei processi chimici ma con- dussero alla trasmutazione artificiale degli elementi. Il successivo sostanziale fenomeni naturali, la fisica odierna è giunta a un nuovo tipo di spiegazione della natura: è il caso cieco, privo di finalità, la probabilità primaria che non può essere ricondotta a leggi deterministiche. Secondo questa concezione la probabilità primaria appare legata in modo essenziale al fatto che l’osservatore influenza i fenomeni attraverso la scelta del dispositivo sperimentale, dal momento che la misurazione comporta per legge di natura interazioni incontrollabili con l’oggetto da misurare. Questa concezione sottolinea quindi con forza l’elemento della libertà nei processi naturali”. W. Pauli, op. cit., p. 163. 25 Ovidio, Le metamorfosi, Bompiani, Milano 1992, vol. I, p. 453.  Monismo e dualismo del mondo 51 progresso fu, come è ben noto, l’accelerazione artificiale dei protoni per mezzo di congegni ad alta tensione ad energie sufficienti a produrre la trasmutazione nucleare. Erano necessari a questo scopo voltaggi di circa un milione di volt, e Cockcroft e Walton riuscirono nel loro esperimento decisivo a trasmutare nuclei dell’elemento litio in quelli dell’elemento elio26. Il sogno antico degli alchimisti diviene sempre più reale, contempora- neamente, le forme si presentano oscillanti non solo a livello di particella e di onda, appaiono sempre meno stabili e l’energia sembra giuocare contro il principio d’identità.Il tema del libero arbitrio e del suo corrispondente opposto, il servo ar- bitrio, tormenta da sempre, con un dubbio sino ad ora irrisolto, i pensieri dell’essere umano e percorre tutta la storia della filosofia1. Senza presun- zione di poter risolvere tale dubbio, conviene tuttavia, per affrontare l’ar- gomento con sufficiente chiarezza, tentare qualche definizione e qualche precisazione intorno ai concetti in discussione. In via preliminare, dunque, pare opportuno prendere le mosse dal noto confronto storico tra Erasmo da Rotterdam (1466-1536) e Martin Lutero (1483-1546), rispettivamente sostenitori, il primo, dell’esistenza del libero arbitrio ed, il secondo, della sua negazione. Erasmo formula una precisa definizione di libero arbitrio: [...] noi qui definiremo il libero arbitrio come un potere della volontà umana in virtù del quale l’uomo può sia applicarsi a tutto ciò che lo conduce all’eterna salvezza, sia, al contrario, allontanarsene2. La contestazione di Lutero non si fa attendere ed è completamente in- centrata sulla salvezza operata esclusivamente dalla Grazia di Dio e non conquistata attraverso le opere umane:  1 2 Innanzitutto Dio è onnipotente non solo per il suo potere ma anche per la sua azione, altrimenti sarebbe un Dio ridicolo. In secondo luogo sa tutto e prevede tutto, perciò non può né errare né fallire. Se il nostro cuore e la nostra intelli- genza approvano pienamente questi due punti, siamo obbligati ad ammettere, per una conseguenza ineluttabile, che non siamo stati creati per nostra volontà, ma per necessità; e perciò non facciamo ciò che ci piace in virtù del nostro Cfr. M. De Caro, M. Mori, E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci Editore, Roma 2014. E. da Rotterdam, Saggio o discussione sul libero arbitrio, in F. De Michelis Pintacuda (a cura di), Libero arbitrio. Servo arbitrio, cit., p. 57.  libero arbitrio, ma ciò che Dio ha previsto da ogni eternità e che fa accadere secondo il suo proponimento e il suo potere infallibili ed immutabili3. Sia Erasmo che Lutero incentrano la questione intorno alla salvezza spi- rituale ed alla Grazia di Dio, ossia si muovono in ambito religioso, teolo- gico, tuttavia, mutando i nomi e sostituendo al nome Dio quello di Natura, di scienza, di necessità causale, di assenza del divenire o di inesistenza del tempo, i termini del problema non variano e continuano a contrapporsi, anche se mascherate in Erasmo da formule religiose di stile, proprie dell’e- poca, per evitare conseguenze repressive, le due medesime posizioni: il monismo umano ed il dualismo divino. Mentre per Erasmo l’essere umano può conoscere e decidere il proprio agire, per Lutero, invece, la conoscenza non implica anche la volontà, la scelta. Una definizione estesa di libero arbitrio potrebbe essere la seguente: es- sere soggetto autoreferenziato, cioè giustificato nella propria esistenza da se stesso; autonomo, ossia legislatore in proprio delle proprie regole di vita, e detentore di una possibilità di volere e di agire incondizionata da fattori esterni al soggetto medesimo. L’autoreferenzialità risponde all’esigenza di fornire un’origine ed un senso in proprio della vita del soggetto. L’autono- mia esprime il rifiuto di regole non condivise, provenienti da altri soggetti (eteronomia). La libertà di volere e di agire intende descrive l’inesistenza di condizionamenti sia psichici, mentali, sia fisici. La definizione deve per necessità presentarsi radicale ed estrema, poiché nell’alternativa libero o sevo arbitrio sembra impossibile prendere in considerazione posizioni in- termedie, per così dire, moderate, in quanto o la libertà c’è o non c’è, una libertà limitata corrisponde ad una non libertà, sicuramente almeno rispetto ai limiti posti, ma anche in generale, poiché lede un principio, la libertà, che, per la salvaguardia della dignità umana, non può che essere assoluto, come è assoluto il soggetto individuale, unico ed irripetibile. Del resto, l’assolutezza empirica del soggetto individuale è chiaramente palesata dal fatto che è solo su di esso che si fonda ogni conoscenza del mondo ed è da esso che si manifesta qualsiasi forma di azione, ogni agire. Naturalmente per soggetto individuale non si intende esclusivamente l’essere umano, ma qualsiasi entità esistente, capace in qualche modo di conoscere ed agire (minerali, piante, animali, entità non visibili,...?). La definizione sopra illustrata parrebbe far propendere, alla luce della percezione empirica del nostro esistere, per l’inesistenza del libero arbi- 3 M. Lutero, Commento di Martin Lutero al saggio di Erasmo, in F. De Michelis Pintacuda (a cura di),   trio. Infatti, l’essere umano è condizionato dal suo stesso vivere entro una forma, una realtà corporea da lui non scelta, ad esempio non possiede ali per volare, può non apprezzare il proprio aspetto fisico, rendersi conto di non possedere talune abilità intellettive (difficoltà di apprendimento, scar- sa fantasia, etc.) o funzionali (carenza di arti, difficoltà respiratorie, aller- gie, etc.), etc., e l’elenco, è bene ricordarlo, si presenta come meramente esemplificativo. Ma un colpo ancora maggiore alla libertà umana è dato dall’impossibilità di scelta di quando, dove, da chi e se nascere, con il conseguente condizionamento dato dall’ereditarietà del patrimonio gene- tico e dalla casualità della condizione sociale dei genitori, inoltre neppure il momento della propria morte è frutto di libera scelta (salvo il suicidio, forse). Naturalmente tutto ciò alla sola luce della conoscenza umana, che non può escludere qualsiasi cosa si possa immaginare nella duplicazione metafisica del mondo, anche la libera scelta di nascere, si pensi alla dottrina della reincarnazione e della metempsicosi, operanti nel pitagorismo, nel mito platonico di Er, in talune sette gnostiche, nell’Induismo, nel Buddi- smo, etc.4. Comunque, empiricamente parlando, le uniche certezze che si presentano riguardano la nostra forma, il nostro inizio e la nostra fine5. Sia 4 “Secondo costoro, che appartengono alla setta cui la ragione è più amica [aristotelici], le anime beate, liberate da ogni contaminazione materiale possiedono il cielo. Ma quelle che, sotto l’effetto di un segreto desiderio, da quella dimora vertiginosa e da quella luce perpetua hanno gettato uno sguardo in basso verso i corpi e verso ciò che chiamano quaggiù la vita si sono a poco a poco trascinate verso le regioni inferiori, per il solo peso di questo pensiero terreno. Quando abbandona lo stato di perfetta immaterialità, questa vestizione del corpo fangoso non è tuttavia, per l’anima, improvvisa, ma graduale, ed essa si impoverisce impercettibilmente e con lento degrado dalla sua purezza uniforme e assoluta, mentre s’ingrossa con certi accrescimenti di sostanza siderale. Infatti, in ciascuna delle sfere situate al di sotto del cielo, l’anima si riveste di un involucro etereo, di modo che attraverso tali involucri si adatta, progressivamente, ad unirsi a questo nostro rivestimento di sostanza terrena e pertanto, per un numero di morti pari a quello delle sfere che attraversa, l’anima perviene a quello stato che quaggiù in terra è chiamato vita”. A.T. Macrobio, Commento al sogno di Scipione, Bompiani,, Milano “I mortali sono gli uomini. Essi si chiamano i mortali perché possono morire. Morire significa essere capaci di morte in quanto morte. Soltanto l’uomo muore. L’animale cessa di vivere (verendet). Esso non ha la morte in quanto morte né davanti a sé né dietro di sé. La morte è lo scrigno del nulla, vale a dire di ciò che sotto tutti gli aspetti non è mai qualcosa di meramente essente, ma che, nondimeno, è essenzialmente in quanto l’essere stesso. In quanto scrigno del nulla, la morte è il riparo nascosto (Gebirg) dell’essere. Chiamiamo ora i mortali i mortali, non perché la loro vita terrena cessi, bensì perché sono capaci di morte, essendo essenzialmente nel riparo nascosto dell’essere. Essi sono il rapporto lecito il paragone, siamo come una entità di forma predeterminata, che, nel percorso della sua caduta dall’ultimo piano di un grattacielo al marciapie- de sottostante, pensa di essere libera di poter fare ciò che vuole. Ma esiste veramente questa libertà lungo il tragitto della caduta (vita)? Per poter ri- spondere a questa domanda converrà ora approfondire anche il concetto di servo arbitrio. Il determinismo comportamentale o della volontà può presentarsi sotto diverse sembianze. Quando si afferma di poter fare una certa cosa, di poter compiere una data azione si possono intendere referenti empirici diversi, come bene illustra Ross, individuando tre condizioni necessarie per la sus- sistenza dell’agire: L’agire attuale richiede quindi il verificarsi di tre gruppi di condizioni: quel- le costituzionali, quelle occasionali, e quelle motivazionali. Possiamo anche dire che esso presuppone che l’agente abbia sia la capacità, sia l’occasione, sia la volontà o il motivo per compiere l’atto6. Ad esempio, per poter nuotare è necessario saper nuotare (capacità), disporre di uno specchio d’acqua (occasione) e, finalmente anche, volere, decidere di nuotare (volontà, motivo). A rigore solo quest’ultimo requisito riguarda direttamente il tema del libero arbitrio; il tema deterministico, in- vece, coinvolge tutti e tre i gruppi di condizioni. Infatti, il determinismo non riguarda solo la volontà, ma anche le condizioni soggettive (capacità) ed oggettive (occasioni) dell’individuo. Comunque, per semplificare un tema sin troppo arduo, conviene tralasciare queste ulteriori condizioni e soffermarsi solo sulla volontà. La volontà può presentare almeno tre forme di ipotesi di condizionamento: 1) la scelta non è riconducibile al soggetto agente (volontà divina); 2) la scelta è condizionata da fattori immateriali (cultura, educazione, morale, inconscio individuale o collettivo, psicologia, etc.); 3) la scelta dipende dalla struttura biologica, biochimica dell’essere umano (si pensi all’uomo macchina di Julien Offray de La Mettrie (1709- 1751) ed agli studi medici intorno alla causalità chimica nella struttura organica umana). È possibile ipotizzare anche altri fattori di condizion- amento, ma, data la loro particolarità concettuale, sarà più opportuno trat- tarli in seguito; ora è bene tornare al fattore di condizionamento metafisico. L’esistenza di una volontà divina prevalente su quella umana presup- pone l’accettazione di una visione dualista del mondo (fisica e metafisica), essenzialmente essente con l’essere in quanto essere”. M. Heidegger, La cosa, in A. Pinotti (a cura di), La questione della brocca, Mimesis, Milano 2007, p. 63. 6 A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, cit., p. 264.  senza la quale l’esistenza del divino non è pensabile. Se Dio tutto ha creato, quindi, tutto conosce e tutto vuole, allora la volontà umana in altro non può consistere che nella volontà stessa di Dio. Tale posizione fu compiu- tamente espressa dall’occasionalismo di Arnold Geulincx (1624-1669) e di Nicolas Malebranche (1638-1715). L’occasionalismo, negando un qual- siasi collegamento tra la res estensa e la res cogitans cartesiane, sosteneva che le azioni umane altro non erano che occasioni della manifestazione della volontà divina, l’unica ad essere libera. In questa visione le azioni umane e la dimensione psichica si presentano come due orologi perfetta- mente sincronizzati dalla volontà divina, ma indipendenti l’uno dall’altro. A rigore, data l’evidente derivazione platonica di questo pensiero, il mondo umano potrebbe essere anche inesistente oppure, seguendo la convinzione nella onnipotenza creatrice di Dio, apparso solo in questo preciso istante in cui, tu lettore, stai leggendo questo testo, con tutti i tuoi ricordi e le tue sensazioni. L’unica certezza dell’esistenza di questo mondo deriva dalla certezza della fede in Dio7. Ovviamente il determinismo appena descritto è strettamente legato ad un pensiero religioso. Prendendo ora in considerazione il pensiero immanentista, si presenta un determinismo tutto incentrato sulla concatenazione degli eventi attra- verso il nesso di causa/effetto. La prima considerazione da manifestare ri- guarda la natura di tale nesso e la sua stessa esistenza. Già Auguste Comte (1798-1857) ne metteva in evidenza la natura metafisica e lo sostituiva con delle leggi generali di comportamento degli eventi: Se, più tardi cambia [l’essere umano, n.d.r.] le sue concezioni in proposito, è unicamente perché, allontanato, attraverso l’esperienza e la riflessione, dalle illusioni primitive, rinunzia assolutamente a penetrare il mistero del modo di prodursi dei fenomeni, di cui la sua natura gli impedisce per sempre ogni cono- scenza, per ridursi ad osservare le leggi effettive. Ed invero, se anche oggi, con tutte le nozioni positive acquisite, volessimo, per il più semplice fenomeno, 7 In termini moderni questo problema è stato affrontato sotto l’aspetto dell’autoreferenzialità causale: “I fenomeni più elementari dal punto di vista biologico, incluse le esperienze percettive, le intenzioni di fare qualcosa e i ricordi, presentano nelle loro condizioni di soddisfazione una struttura logica particolare. [...]. Le condizioni di soddisfazione del ricordo non si limitano, se le esamino nei dettagli, all’occorrere effettivo dell’evento, ma richiedono che il ricordo stesso, delle cui condizioni di soddisfazione è parte l’occorenza dell’evento, sia stato causato da tale occorenza. Possiamo esprimere la peculiarità di tale struttura dicendo che sia i ricordi sia le intenzioni sia le esperienze percettive sono causalmente autoreferenziali. Ciò significa che il contenuto dello stato stesso si riferisce allo stato ponendo un requisito causale”. J.R. Searle, La mente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 154. tentare di concepire per quale potere il fatto che chiamiamo causa generi quello che chiamiamo effetto, saremmo inevitabilmente portati a realizzare immagini analoghe a quelle che sono servite di base alle prime teorie umane8. Il nesso causale non viene negato dalle leggi generali, ma semplicemente contenuto entro il limite del suo significato di costanza, di ripetitività negli accoppiamenti temporali dei fenomeni, senza indagare e pregiudicare il motivo, si potrebbe dire la causa, di questo legame; ossia possiede natura meramente descrittiva e non anche esplicativa: rileva il fenomeno, ma non ne spiega il senso. In altre parole, il principio causale si presenta come il risultato del principio induttivo, sul quale si fonda tutta la ricerca empirica, ma che, non essendo a sua volta verificabile/falsificabile in via empirica, deve essere accolto a priori. Un ulteriore affinamento del principio caus- ativo passa attraverso la dimensione probabilistica delle rilevazioni em- piriche9. Conseguentemente le leggi generali causali si sono trasformate negli studi scientifici in probabilità statistiche di accoppiamento dei feno- meni, trasformando il nesso causa/effetto in un mero nesso probabilistico a frequenza variabile. La potenza di questo strumento metodologico (leggi generali causali) ha creato in un primo tempo negli studiosi una baldanzosa presunzione di poter conoscere in anticipo tutti gli eventi futuri e tale pre- sunzione ha indotto a pensare che un generale determinismo governasse gli eventi10. Tuttavia ben presto il principio probabilistico, in generale, ed, ancor più, in particolare, quello fisico-quantistico di indeterminatezza di Heisenberg11 hanno, almeno in parte, ridimensionato questa presunzione e riaperto il dibattito intorno al libero arbitrio. 8 A. Comte, Opuscoli di filosofia sociale, Sansoni, Firenze 1969, pp. 182-183. 9 “Dobbiamo dire che generalmente i dati rendono il risultato probabile. La causalità regge, diremo, in ogni esempio che abbiamo potuto provare: perciò regge probabilmente anche in esempi non confermati. Ci sono gravi difficoltà nel concetto della probabilità, ma per ora possiamo trascurarle. Almeno finché è senza eccezione disponiamo così di un principio logico”. B. Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi & C. Milano 1975, p. 38. 10 “Vi sono relazioni così invariabili tra eventi diversi avvenuti nello stesso tempo o in tempi diversi che, dato lo stato di tutto l’universo in un tempo finito, per quanto breve, ogni evento precedente o seguente può essere determinato teoricamente in funzione degli eventi dati durante quel tempo”. B. Russell, op. cit., p. 210. 11 “Al posto della precisione della posizione subentra dunque in questa interpretazione l’immagine di una nuvola di materia, il cui diametro sta nell’ordine di grandezza di 1013 cm e la cui densità decresce dal centro verso l’esterno suppergiù al modo di una curva di Gauss”. W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 101.  Il nesso causa/effetto degli eventi è stato per lungo tempo centrale nell’alternativa determinismo/indeterminismo, sino al punto da relegare il tema della libertà del volere ed il relativo indeterminismo nell’ambito delle questioni metafisiche e degli errori di logica. In proposito Nietzsche si esprime in modo estremamente chiaro: La credenza originaria di ogni essere organico è forse addirittura questa, che tutto il resto del mondo sia uno e immobile. Da quel grado originario del pensiero logico è lontanissimo il pensiero della causalità: anzi, ancora oggi, noi pensiamo in fondo che tutti i sentimenti e le azioni siano atti della libera volontà: se un individuo senziente si osserva, considera ogni sensazione, ogni mutamento come qualcosa di isolato, ossia non condizionato, privo di senso, che affiora in noi senza legami col prima e col dopo. [...]. Dunque, la fede nella libertà del volere è un errore originario di ogni essere organico, che esiste sin da quando esistono in esso gli stimoli del pensiero logico; e allo stesso modo è un errore originario e ugualmente antico di ogni essere organico la fede in sostanze non condizionate e in cose uguali. Ma, in quanto ogni metafisica si è occupata prevalentemente di sostanza e di libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali dell’uomo – come se fos- sero però verità fondamentali12. Estremamente interessanti in merito si presentano i più recenti studi biochimici e neurologici. In particolare, poiché i neuroni per scambiarsi scariche elettriche attraverso le connessioni sinaptiche necessitano di ener- gia, che è loro fornita dal glucosio e dall’ossigeno trasportato dal sangue, è possibile misurare l’attività cerebrale attraverso l’incremento distrettuale di tale flusso. Ciò si ottiene grazie a metodologie di esplorazione funziona- le del cervello quali la tomografia a emissione di protoni per il consumo di glucosio (PET – positron emission tomography) e la risonanza magnetica funzionale, per il flusso ematico (fMRI – functional magnetic resonance imaging). Un esperimento specifico, condotto da Benjamin Libet (1916-2007) e finalizzato a misurare il, così detto, potenziale di prontezza (ossia il cam- biamento elettrico cerebrale del soggetto, ormai da tempo dimostrato, in presenza di movimenti volontari) sembra giuocare a favore di un determi- nismo inconscio. Infatti, il distretto cerebrale corrispondente al movimento volontario in esame si attiva 550 msec prima dell’atto presupposto volon- tario. Dunque, sembrerebbe che un impulso inconsapevole anticipi l’azio- ne, ma la volontà di agire diviene consapevole 100-150 msec prima della effettiva manifestazione nel mondo esterno dell’azione stessa. 12 F. Nietzsche, Umano, troppo umano I, in Opere 1870/1881, cit., p. 529.  Si può ritenere che le azioni volontarie comincino con iniziative inconsce, che vengono borbottate dal cervello. La volontà cosciente quindi selezione- rebbe quali di queste iniziative possono proseguire per diventare un’azione, o quali devono essere vietate e fatte abortire in modo che non compaia nessun atto motorio13. Ciò comporta che l’esperimento consente anche di ipotizzare, in que- sti istanti consapevoli, una attività di veto del soggetto nei confronti del processo messo in atto per giungere all’azione ed il vietare è pur sempre espressione di libero arbitrio, come il fare. Tuttavia è possibile obiettare, non solo e non tanto, che il concetto di causa non coincide con quello di correlazione, ma, soprattutto, che il concetto di conscio non si identifica con quello di arbitrio. Infatti, è possibile essere consapevoli che la casa, nella quale ci si trova, stia per crollare, ma ciò non comporta né che si pos- sa agire sul crollo, né che si possa compiere liberamente la scelta di restare o di fuggire. Il punto da dimostrare, in relazione al libero arbitrio, riguar- da la scelta, ossia l’origine dell’eventuale veto, non la consapevolezza o meno dell’azione. Del resto, tale dimostrazione scientifica pare logicamen- te impossibile, poiché la verifica/falsificazione empirica può rilevare solo i nessi, gli accoppiamenti causali, ma tali nessi possono essere considerati pressoché infiniti, quindi non sottoponibili tutti ad una sistematica speri- mentazione. Soprattutto non possono essere presi in considerazione, per ovvia impossibilità, i nessi ignoti e non immaginati come possibili dallo scienziato. Conseguentemente si può solo empiricamente affermare che l’eventuale veto all’azione nei precedenti 100/150 msec all’azione stessa può essere libero, ma può anche essere determinato da un nesso causale ignoto (l’assenza di nesso causale è solo assenza di nesso noto o ipotizza- to come possibile); ciò prescindendo da tutti i molteplici condizionamenti noti14. 13 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 143. 14 “Nessuna libertà assoluta dunque, bensì uno spazio di manovra limitato dalla nostra eredità biologica, dal luogo e dal tempo in cui ci siamo trovati a nascere, dalle esperienze familiari, dalla banda criminale a cui abbiamo voluto aggregarci, o dall’associazione differenziale a cui siamo stati esposti, insomma: uno spazio di manovra limitato dalla nostra storia, nostra in quanto in gran parte costruita da noi”. I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, p. 101. Cfr. anche E. Soresi, Il cervello anarchico, UTET, Torino 2013. L’Autore affida lo studio delle relazioni intercorrenti tra mente e corpo ad una nuova scienza, la psico-neuro- endocrino-immunologia (PNEI). Intorno a detta scienza vedere anche P. Lissoni, Teologia della scienza, Editore Natur, Milano 2003.   Vi è poi un ulteriore impedimento logico alla dimostrazione empirica dell’esistenza del libero arbitrio: quest’ultimo è caratterizzato da assenza di nessi causativi estranei alla volontà stessa del soggetto agente, ma ciò si- gnifica che la volontà dovrebbe essere indagata prima della sua manifesta- zione empirica e ciò non è possibile per definizione. L’assenza di fenomeni empirici non può essere studiata con metodologia empirica; il nulla fisico non può essere né falsificato, né verificato, ma solo rinviato o non rinviato a realtà trascendenti, immateriali, metafisiche. Cercare la causa di una vo- lontà significa già presupporre il determinismo, poiché la volontà è libera solo se priva di cause, salvo la volontà stessa del soggetto agente (autore- ferenzialità ed autonomia), ma nulla è privo di cause nel mondo fisico ed una volontà del tipo indicato non può appartenere al mondo fisico; anche la scelta soggettiva, presupposta libera, è ancorata all’essere soggettivo, alla sua psiche ed al suo corpo, ossia ai condizionamenti culturali e materiali sia ambientali, sia personali. L’indagine sul libero arbitrio è, dunque, una indagine sul nulla o sul metafisico; non è possibile ipotizzare l’esistenza di un libero arbitrio senza duplicare il reale in entità trascendenti la fisicità, si- ano esse divine o meramente mentali astratte, non risiedenti comunque nel corpo dell’individuo agente. La consolatoria conclusione di Libet in argo- mento pare indirettamente confermare le considerazioni appena formulate: La mia conclusione sul libero arbitrio – libero davvero, in senso non deter- ministico – è che la sua esistenza è un’opinione scientifica altrettanto buona, se non migliore, della sua negazione in base alla teoria deterministica delle leggi naturali. Data la natura speculativa di entrambe le teorie, quella deterministica e quella non deterministica, perché non adottare il punto di vista che abbiamo il libero arbitrio, almeno finché non compaia – ammesso che compaia – qualche evidenza che realmente lo contraddica? Questo ci permette, almeno, di proce- dere in un modo che accetta e accoglie i nostri più profondi convincimenti e il comune sentire, che ci dicono che il libero arbitrio lo possediamo15. Resta il problema che solo il determinismo può essere assoggettato ad indagine empirica e non anche l‘indeterminismo! Conseguentemente, con- scia o inconscia che sia l’origine di un’azione, il tema da affrontare resta la presenza o l’assenza di libertà nella dimensione sia conscia, sia incon- scia e questo tema rinvia, per il libero arbitrio, ad un livello immateriale privo di quell’origine deterministica propria del mondo fisico: il mondo si duplica necessariamente per rispondere alla domanda, ma la necessità, in questo caso, ha natura logica, non certo empirica. Il punto focale di questa 15 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza, cit., p. 160. discussione non sembra, dunque, essere il nesso di causa ed effetto od an- che le leggi costanti e generali di comportamento e neppure le probabilità statistiche di accoppiamento dei fenomeni, ma, piuttosto, il fattore con- dizionante l’esistenza stessa del concetto di scelta, ossia il fattore tempo: se scegliere significa generare azioni successive in alternativa tra loro, le azioni di questo tipo si possono produrre solo in un sistema in movimento, ossia condizionato dal tempo. I sistemi acronici sono privi di movimento e, quindi, anche di scelte, ma di ciò si parlerà più oltre. Al determinismo neuro-biologico, appena considerato, può aggiungersi una ulteriore forma di determinismo, nel quale determinante non appare il nesso causa/effetto, ma la totalità dell’essere con i propri caratteri e le proprie qualità, già e per sempre dispiegate nelle sue parti specifiche ed individuali. Questo determinismo si presenta espresso con rigore da Spi- noza, come in parte si è già visto, nella sua sintetica espressione Deus sive Natura. La totalità della Natura, governata dalle proprie naturali leggi, determinazioni, assurge al ruolo di divinità impersonale. Il problema non riguarda più tanto la catene causativa degli eventi, ma i caratteri peculiari, con linguaggio moderno si potrebbe dire genetici, delle sue parti, i quali, per necessità, non possono che estrinsecarsi nell’attività di queste sue parti, nelle azioni, se si tratta di animali e di animali umani. Ognuno esiste per sommo diritto di natura, e conseguentemente per sommo diritto di natura ognuno fa quelle cose che seguono dalla necessità della sua natura; e perciò, per sommo diritto di natura, ognuno giudica cosa sia bene e cosa sia male, e provvede alla sua utilità secondo il suo giudizio, e si vendica, e si sforza di conservare ciò che ama e di distruggere ciò che ha in odio16. Esponente di questa tendenza deterministica di pensiero pare essere an- che Nietzsche, come risulta con evidenza dal seguente brano: Che gli agnelli non amino i grandi uccelli predatori non sorprende nessuno: ma non autorizza certo a rimproverare i grandi predatori per il fatto di cacciare gli agnelli. E se gli agnelli dicono tra loro: “Questi predatori sono malvagi; e chi è rapace il meno possibile, anzi chi è addirittura l’opposto, un agnello cioè, non dovrebbe essere buono?”, non possiamo certo biasimare questo criterio di edificazione ideale, anche se i predatori stessi considereranno la cosa con un 16 B. Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, Editori Riuniti, Roma “Infatti, alla natura di una cosa non appartiene nulla se non ciò che segue dalla necessità della natura della causa efficiente, e tutto ciò che segue dalla necessità della natura della causa efficiente accade necessariamente”. certo scherno e si diranno probabilmente: “Noi non li odiamo affatto, questi buoni agnelli, anzi li amiamo, niente è più squisito di un tenero agnello”. – Pretendere dalla forza che essa non si manifesti come forza, che essa non sia volontà di sopraffazione, volontà di oppressione, di potere, che essa non sia sete di nemici e di resistenze e di trionfi, è tanto assurdo come il pretendere dalla debolezza che essa si manifesti come forza17. I rapaci e gli agnelli di Nietzsche si sovrappongono idealmente ai pesci grandi ed a quelli piccoli di Spinoza, nell’evidente tentativo di evitare, at- traverso il determinismo della forza, della potenza insita in ciascuna entità vivente, il giudizio morale. Il vivente si trasforma in un indifferenziato Tutto, nel quale minerali, vegetali, animali ed umani rivestono ciascuno il proprio ruolo predeterminato ed esplicano le diverse potenzialità volitive ed operative, che sono state loro assegnate dalla loro stessa natura, senza poter sfuggire ai limiti imposti da quest’ultima. La forza necessitante è consustanziale all’individualità: la pietra non possiede organi riproduttivi e, quindi, non può riprodursi, ma si moltiplica per frantumazione; la pianta non ha gambe per camminare e, dunque, vive sempre nel medesimo luogo; la maggioranza degli animali non possono opporre il dito pollice alle altre dita della medesima mano, conseguentemente non possiedono manualità ed hanno sviluppato inevitabilmente attività artigianali limitatissime; l’es- sere umano vive respirando ossigeno e muore se respira anidride carboni- ca. A causa di questa particolarità può abitare esclusivamente su pianeti simili, per caratteri atmosferici, alla Terra. Questo determinismo sembra paragonabile all’opera di un tiranno, che imprigiona i propri sudditi entro carceri diversi in qualità per ciascuna categoria di essi, ma anche per cia- scun individuo di ciascuna categoria (ad esempio esseri umani nati senza braccia o diabetici). L’unica differenza consiste nella fonte del vincolo: mentre nel caso della Natura il determinismo si presenta autonomo, cioè proprio della natura stessa, nel caso del tiranno esso è eteronomo, ossia proveniente dall’esterno del soggetto agente. Per descrivere la diversità dei due modelli attraverso la tripartizione sopra ricordata del significato di poter fare qualcosa, proposta da Ross, si deve dire che il modello determi- nista spinoziano non lascia spazio né all’occasione, né alla capacità, né alla volontà, mentre il modello del tiranno inibisce solo l’occasione. Oltre a questa ipotesi determinista è possibile formulare almeno altre due ipotesi. La prima strettamente legata alla visione di un mondo governa- to da rigide leggi causali in sviluppo cronologico progressivo, in sintesi, un 17 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma mondo programmato in via di sviluppo; la seconda, invece, frutto della vi- sione di un mondo acronico, privo di tempo. Non pare il caso di soffermarsi ulteriormente sulla prima ipotesi, già trattata in precedenza, se non per dire che tale ipotesi può essere presa in considerazione sia dal punto di vista della Totalità di un Essere (realtà, mondo) in sviluppo determinato e pro- gressivo, ed è di questo che qui si discute, sia dal punto di vista dei singoli gruppi, delle singole catene di nessi causali, come l’ipotesi è stata discussa in precedenza e come è usata in ambito strettamente scientifico. Il mondo in sviluppo causale conserva la variabile tempo, mentre l’ulteriore ipotesi determinista, che si tratterà ora, non prevede l’esistenza di tale variabile. Il tempo non esiste. L’affermazione sembra forte, controintuitiva, ma anche falsificata dall’evidenza empirica del divenire, eppure da Parmenide a Severino, molti filosofi hanno percorso questa strada. La qualità non me- ramente logica delle affermazioni di Heidegger, consiglia di orientarsi, per esemplificare il tema, verso questo filosofo: Il tempo ha sempre funzionato come criterio ontologico o, meglio, ontico nella distinzione ingenua delle diverse regioni dell’ente. Si delimita qualcosa che è temporalmente (i processi della natura e gli accadimenti della storia) rispetto a ciò che è non temporalmente (le relazioni spaziali e numeriche). Si è soliti distinguere un senso a-temporale delle proposizioni rispetto al decorso temporale delle enunciazioni. Infine si trova un abisso tra l’ente temporale e l’eterno sovratemporale e ci si ingegna nel gettare fra essi un ponte. Temporale equivale qui in entrambi i casi ad essente nel tempo, una determinazione che, tra l’altro, è abbastanza oscura18. Il panorama del tempo heideggeriano si presenta come una estensione spaziale, nella quale si manifestano gli essenti, si illuminano, per poi scom- parire nuovamente dietro il sipario del tempo. L’ente che reca il titolo di esser-ci è rischiarato. È solo in base al ra- dicamento dell’esser-ci nella temporalità che diventa intelligibile la possibilità esistenziale di quel fenomeno, che all’inizio dell’analitica dell’esserci abbiamo contraddistinto come costituzione fondamentale: l’essere-nel-tempo19. Il tempo sfuma e con esso si affievoliscono anche le sue articolazioni in passato, presente e futuro. In fondo è solo la memoria che consente una simile distinzione. Dunque, la principale prova dell’esistenza del tempo ha natura psicologica: ricordo, quindi, ho vissuto il passato, ma, a parte 18 M. Heidegger, Essere e tempo, Heidegger, op. cit., p. 492. De libero o de servo arbitrio? 65 l’ipotesi di Malebranche di un mondo creato da Dio attimo dopo attimo, l’organizzazione cronologica degli eventi potrebbe essere determinata dal- la forma categoriale, di kantiana memoria, della nostra conoscenza: cono- sciamo attraverso la categoria del tempo, che in questo caso risiederebbe in noi e non fuori di noi; avrebbe una esistenza solamente gnoseologica, non anche ontologica. Russell avanza proprio questo sospetto: La differenza che sentiamo [...] tra cause ed effetti è una semplice con- fusione, dovuta al fatto che ricordiamo gli eventi passati ma non ci capita di ricordare i futuri. L’indeterminatezza apparente del futuro su cui fanno assegnamento alcuni sostenitori del libero arbitrio, è soltanto il risultato della nostra ignoranza rela- tiva ad esso. Il libero arbitrio in ogni significato importante deve essere compatibile con la conoscenza più completa. La nostra conoscenza del passato non è basata interamente sulle deduzioni causali, ma deriva in parte dalla memoria. È un puro caso se noi non abbiamo memoria del futuro. Si deve ricordare che la previsione supposta non creerebbe il futuro più di quanto la memoria non crei il passato20. Risulta evidente che Russell costruisce il proprio ragionamento sulla indifferente reversibilità dei fenomeni di causa e di effetto, proprietà che è tipica delle operazioni di fisica teorica; inoltre, nell’accogliere questa ope- razione riduce necessariamente la funzione tempo ad un indifferenziato presente. Probabilmente la posizione privilegiata di un filosofo, che è stato al contempo anche un insigne matematico, ha consentito a questo Autore di vivere pienamente le suggestioni di fisica teorica, che i tempi agitavano. Se il mondo è privo di divenire e di movimento, che rappresenta una delle possibili forme del divenire, è anche privo di tempo, poiché non è pensabile divenire e movimento senza tempo. Riappaiono i fantasmi del- la scuola eleatica e della formulazione del principio di identità assoluta, ontologica: l’essere è e non può non essere. Se l’identità non può essere nientificata nell’essere altro, ossia non essere più se stessi allora il divenire è pura illusione psicologica. Queste riflessioni di natura filosofica, nel se- colo passato hanno trovato sostegni e conforto anche in campo scientifico: L’equazione di Wheeler-De Witt, secondo l’interpretazione più diretta, ci dice che l’universo nella sua interezza è simile a una enorme molecola in uno stato stazionario e che le diverse configurazioni possibili di questa molecola mostruosa sono gli istanti di tempo. La cosmologia quantistica diventa l’estre- Russell, La conoscenza del mondo esterno, cit., pp. 224-225.  ma estensione della teoria della struttura atomica e, simultaneamente, com- prende il tempo. Domandiamoci di nuovo quali conclusioni possiamo trarne in relazione al tempo. Le implicazioni sono quanto mai profonde. Il tempo non esiste. Esiste soltanto la mobilia del mondo che noi chiamiamo istanti di tempo21. L’equazione sopra richiamata, detta anche di Einstein – Schrödinger, cerca di conciliare la meccanica quantistica, che necessita di un tempo definito, con la relatività generale, che lo nega, per descrivere la gravitazione quantistica. Johon Wheeler (1911-2008) e Bryce De Witt (1923-2004) nel tentare questa difficile operazione, non ancora completa- mente risolta, evidenziarono, forse anche in parte inconsapevolmente, che la funzione tempo si presentava come problematica e lo stesso concetto di tempo poteva essere messo in discussione. Del resto, già la teoria einstei- niana della relatività, proponendo la relatività, rispetto all’osservatore, del tempo, non poteva che presupporre non solo l’assenza di un tempo asso- luto, ma anche l’irrilevanza conoscitiva di un prima e di un dopo (rispetto a cosa?), di cui l’indifferenza di Russell per il passato ed il futuro ne sono una coerente espressione. Ma se passato e futuro si propongono come in- differentemente intercambiabili, la realtà nel suo insieme, il Tutto, non può che possedere un’unica dimensione temporale: il presente. Dunque, è nel solo presente che si può discutere del libero arbitrio in questa ipotesi deter- minista. Il solo presente trasforma il tempo in una sorta di spazio (spazio/ tempo, appunto), nel quale gli eventi non trascorrono, ma sono collocati, dispiegati, come tanti libri in una libreria. Ciascuno può narrare la propria storia, ma sempre quella, il cui finale è ben noto sin dall’inizio e, comun- que, immodificabile. In questa ipotesi i fenomeni possono essere solo de- scritti, non anche voluti, ed il libero arbitrio non viene meno né per catene causali predeterminate di eventi biologici, biochimici, neurologici etc., né per la natura necessitante dei caratteri e delle potenze dei singoli enti, ma semplicemente perché non esiste il tempo ed il divenire, quindi non ha sen- so parlare di scelte libere o condizionate, che siano. Il mondo si presenta come una pellicola cinematografica, il cui movimento illusorio è dato dallo scorrere della successione dei singoli fotogrammi, in se immobili, statici, o, se si preferisce un paragone più naturalistico, come una prateria unifor- me, della quale è possibile descrivere sassi, piante, animali ed umani, che vi alloggiano, ma completamente priva di ogni arbitrio umano o divino 21 J. Barbour, La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura, Einaudi, Torino. Cfr. anche P. Yourgrau, Un modo senza tempo. L’eredità dimenticata di Gödel e Einstein, il Saggiatore, Milano 2006. De libero o de servo arbitrio? (salvo che divina non venga considerata la prateria stessa). Questa totale assenza di arbitrio e ben descritta da Ross: Ognuno deve agire esattamente a quel modo che è determinato ad agire. Il nocciolo del problema può chiarirsi con la storiella del ladro, il quale si difendeva dicendo che, essendo egli determinato ad agire così come aveva agito, e non avendo egli alcuna possibilità di sfuggire alla necessità ineluttabile della legge della causalità, sarebbe stato assurdo e ingiusto punirlo. E il giudice gli rispondeva: sì, Lei ha ragione. Il Suo comportamento era determinato e Lei non ha potuto sfuggire alla necessità che governa tutto l’universo. Lo stesso vale però per la società e per me in quanto suo rappresentante. La società è determi- nata a difendersi da aggressioni come la Sua e perciò io Le infliggo una pena. Il contesto della storiella si colloca all’interno di un condizionamento governato dalla catena causale, ma si adatta ancora meglio ad un mondo privo di tempo, nel quale non ha neppure senso parlare di scelte e tutti si manifestano per quelli che sono, collocati in quel luogo da sempre e per sempre, in una eternità non data da un tempo infinito, ma da una completa acronicità. Riguardo al libero o servo arbitrio ogni proposta di soluzione del proble- ma non può che essere considerata una semplice ipotesi di lavoro, poiché le eventuali soluzioni non si prestano ad una verifica empirica; pertanto l’affermazione o la negazione del libero arbitrio deve essere considerata una mera proposizione a priori. La verifica/falsificazione empirica del determinismo o dell’indetermini- smo risulta metodologicamente impossibile a causa, oltre a quanto prece- dentemente già sostenuto, anche per l’irripetibilità dell’atto presunto voli- tivo. Infatti, se nel tempo to si presenta l’alternativa tra il compiere l’azione A o l’azione B e si compie l’azione A, nel tempo t1 si potrà forse anche compiere l’azione B, ma ciò non dimostra che la si poteva compiere anche nel tempo to. Per poter raggiungere questa dimostrazione si dovrebbe poter ripetere la scelta dell’azione, questa volta B, nel tempo to, poiché la ripetiti- vità dell’esperimento in questo caso non riguarda una serie di eventi simili (solo simili: ogni evento varia rispetto ad un altro almeno per il tempo nel quale si realizza, oltre che per la sua configurazione interattiva), ma la scel- ta stessa dell’evento da mettere in essere. Poiché è la scelta, non l’oggetto della scelta, da sottoporre a verifica/falsificazione empirica, dovrà essere possibile ripetere l’atto dello scegliere, non ciò che si è scelto o non scelto, ma ciò risulta impossibile per l’unidirezionalità presunta del tempo: dal 22 A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, cit., pp. 184-185. presente pare possibile accedere solo al futuro ed impossibile tornare nel passato, almeno per una concezione assoluta del tempo23. Il tempo in mo- vimento unidirezionale, dunque, impedisce di trasformare il libero arbitrio da concetto a priori in concetto a posteriori, condannandolo in tale modo alla dimensione metafisica. Oltre all’impossibilità empirica di raggiungere certezze in questo cam- po, si presenta anche un ulteriore impedimento, questa volta di natura lo- gica: se il determinismo descrivesse, corrispondesse effettivamente alla realtà, alla struttura del nostro mondo, allora essere monista o dualista ed, addirittura, essere determinista o indeterminista sarebbe una condizione imposta deterministicamente. Pertanto prima di affrontare il tema del com- portamento e delle convinzioni individuali si dovrebbe descrivere e spie- gare il modello di sistema, nel quale comportamenti e convinzioni sono collocati. Se il sistema è deterministico saranno condizionate, non libere, anche le azioni e le convinzioni, che in esso si agitano, ma, viceversa, se il sistema è indeterministico le azioni e le convinzioni ad esso afferenti po- trebbero essere anch’esse libere oppure vincolate da un determinismo cau- sativo interno al sistema stesso (è il caso del principio di indeterminazione, che opera solo a livello subatomico). Tuttavia, per sapere se un sistema è o non è deterministico si devono analizzare empiricamente le azioni e le con- vinzioni che lo compongono. Risulta evidente il corto circuito che si crea: per conoscere del sistema si deve conoscere delle azioni e delle convinzio- ni che lo compongono, ma per conoscere delle azioni e delle convinzioni che lo compongono si deve conoscere il sistema. Si è in presenza di una evidente petitio principi, che impedisce ulteriori conoscenze. 23 Questo esperimento mentale risulta valido solo nella realtà a dimensione umana, ove il tempo è assoluto (tempo assoluto newtoniano), a livello di fisica teorica, invece, perde di validità o perché il tempo diviene relativo e consente viaggi almeno nel futuro (teoria della relatività einsteiniana), o perché addirittura il tempo è proprio considerato inesistente (teoria quantistica a loop). “A livello fondamentale, il tempo non c’è. L’impressione del tempo che scorre è solo un’approssimazione che ha valore solo per le nostre scale macroscopiche: deriva dal fatto che osserviamo il mondo solo in modo grossolano”. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina, Milano. “Il tempo non è che un effetto del nostro trascurare i microstati fisici delle cose. Il tempo è l’informazione che non abbiamo. Il tempo è la nostra ignoranza”. DIRITTO ARTIFICIALE L’ambito culturale del diritto presenta un ulteriore dualismo rispetto a quelli precedentemente affrontati: il dualismo diritto naturale, diritto po- sitivo, meglio, artificiale. Tale dualismo non si discosta dal modello di duplicazione del mondo, ispirato ad una visione speculare, ma perfetta, della realtà empirica: al concreto corrisponde l’astratto; al particolare il generale; al visibile l’invisibile; al finito l’infinito; al relativo l’assoluto; al fisico il metafisico; all’umano il divino. Questa specularità opera anche nel campo del diritto e genera, a fronte del diritto positivo, imposto dalla forza degli esseri umani dominanti, un diritto assolutamente giusto, detto natu- rale. Ovviamente, il processo potrebbe essere interpretato anche in senso contrario: il diritto naturale, per specularità, ispira la produzione del diritto positivo, che, tuttavia, si presenta relativo ed imperfetto, ossia non necessa- riamente giusto, ma solo valido ed efficace, rispetto al modello imitato. La differenza tra i due diritti è tutta giuocata intorno ai concetti contrapposti di assoluto/relativo e di giusto/ingiusto. Si tratta, dunque, di evidenziare l’origine, la fonte di questi concetti, rispettivamente nei due tipi di diritto. Il diritto naturale propone come propria fonte la dimensione assoluta dell’Essere, sia esso Dio, la Ragione o la Natura. Non cambiano molto i caratteri di queste tre denominazioni, che, sostanzialmente, esprimono il medesimo referente; ciò che muta è solo il necessario dualismo del rea- le, implicito nel concetto di Dio, a fronte della duplice compatibilità dei concetti di Ragione e di Natura sia con la realtà dualista che con quella monista. Infatti, la Ragione può appartenere solo al mondo fisico, può dua- lizzarsi nella res cogitans e può anche risiedere nel mondo metafisico; la medesima riflessione può essere svolta intono alla Natura, che può essere vista come una realtà completamente immanente o come il corrispondente degradato di una realtà trascendente. Non conviene addentrasi nella discussione intorno ad una Natura me- tafisica, giacché non si avrebbe alcun strumento di riscontro delle affer- mazioni, se non il proprio o l’altrui personale convincimento. Conviene quindi appoggiarsi ad un concetto di Natura immanente e procedere con lo strumento della constatazione empirica. In questo limitato ambito si incontrano due diversi significati dell’espressione diritto naturale. Da un lato, si intende descrivere la costanza di comportamento degli eventi na- turali: la legge di gravità, le condizioni che fanno franare una montagna, scoppiare un temporale, sollevare le maree, morire un essere vivente, etc.. In questo significato l’espressione è semplicemente descrittiva di ciò che avviene. Dall’altro lato, invece, la stessa espressione acquista una valenza prescrittiva di comportamenti, che possono essere seguiti o violati a livello umano (se si accoglie l’ipotesi dell’esistenza del libero arbitrio), ossia sono relativi, ma che a livello dell’Assoluto si impongono come inderogabili, necessitanti, poiché a tale livello conoscenza e volontà coincidono. Detta inderogabilità si traduce nel mondo umano in valorialità assoluta sul piano morale e, tuttavia, non necessitante su quello fisico come le leggi naturali, descrittive di fenomeni. Ancora una volta la scriminante passa attraverso il libero arbitrio: se esiste, la legge naturale non è necessitante, se non esiste, lo è ed, in quest’ultimo caso, scompare la differenza tra i due significati dell’espressione, che resta solo descrittiva. A livello empirico è facilmente constatabile che i comportamenti umani non sono omogenei, uniformi, ma divergono, anche profondamente, gli uni dagli altri (ciò che è bene per gli uni è male per gli altri e viceversa) e tale constatazione è stata portata da taluni autori come prova evidente dell’ine- sistenza del diritto naturale in quanto prescrizione giuridica assoluta. Come una sgualdrina, la legge naturale è a disposizione di tutti. Non esiste ideologia che non si possa difendere con un appello alla legge naturale. E a ben vedere come potrebbe essere altrimenti, dal momento che il fondamento ulti- mo di ogni diritto naturale risiede in una immediata percezione privata, in una contemplazione evidente, in una intuizione? Non può la mia intuizione essere buona quanto la vostra? L’evidenza, assunta a criterio di verità, spiega il ca- rattere assolutamente arbitrario delle affermazioni metafisiche. Essa le innalza sottraendole alla forza del controllo intersoggettivo, aprendo completamente la porta alla libera fantasia e al dogmatismo1. La prova empirica permane in tutta la sua validità, ma mostra il proprio limite, ossia resta solo empirica, e come tale, non può escludere che il diritto naturale non sia monolitico, ma, bensì, pluralista od, addirittura, ni- chilista. In queste due ultime ipotesi la contraddittorietà dei diritti naturali non dimostrerebbe la loro inesistenza, ma semplicemente il loro carattere variabile in dipendenza da fattori a noi ignoti: tempo, luogo, individui inte- 1 A. Ross, Diritto e giustizia, Einaudi, Torino 1965, p. 246. ressati (perché mai il diritto naturale dovrebbe essere egualitario ed uguale per tutti?), etc.. L’empiria, tuttavia ci riconduce ad osservare la realtà naturale, nella quale vive l’essere umano. Come si è già detto, il panorama è desolante e fortemente immorale agli occhi della nostra attuale cultura umana: il più forte vince sul debole, il cannibalismo governa tutto il biologico, il com- portamento etico risulta indifferente alla buona o cattiva sorte umana, al premio o alla pena e la morte trionfa su tutto e su tutti. Sembra che nella natura e nella vita non vi sia alcun senso. Infatti già Giobbe, il personaggio biblico, si interrogava: Perché mai fu data all’infelice la luce, e la vita agli amareggiati d’animo? I quali anelano la morte – che pur non viene – come si cerca un tesoro [nascosto]; i quali si rallegrano oltre ogni dire, allorché hanno trovato un sepolcro? [Perché fu data la luce] all’uomo, la cui via è nascosta, avendolo Dio circondato di tenebre?2. Il senso lo si è dovuto trovare ancora una volta nello sdoppiamento del mondo, nella dimensione metafisica, religiosa. Comunque, stando alle rile- vazioni empiriche, non pare che vi sia molto da mutuare dal diritto naturale per la vita umana. Anzi, è proprio l’orrore della natura che ha indotto l’es- sere umano a cercare differenti modelli di comportamento, modelli artifi- ciali, non naturali. Il diritto positivo rientra nel novero di questi modelli. L’artificialità si è sostituita, per motivi forse deterministici, etici o forse anche utilitaristici, alla naturalità. Il dibattito intorno alla natura benigna o maligna di questo mondo appassionò in passato molti autori tra i qua- li è possibile ricordare Leibniz, quale sostenitore dell’affermazione che questo è il migliore dei mondi possibili in quanto creato da Dio, e François-Marie Arouet, detto Voltaire, che contesta tale posizione da un punto di vista filosofico. L’affermazione di Leibniz si presenta evidentemente metafisica e teologica, ossia a priori, mentre la critica di Voltaire si muove in ambito filosofico ed empirico, ossia a posteriori, tanto che quest’ultimo Autore la affida anche ad un rac- conto satirico, Candide, ou l’Optimisme. 2 Giobbe, 3, 20-23. Signori – disse Cocambo – voi dunque pensate di mangiare un gesuita oggi; molto bene, nulla è più gustoso del trattare così i propri nemici. In effetti il diritto naturale ci insegna a uccidere il nostro prossimo, ed è così che si agisce in tutto il mondo. Se non esercitiamo il diritto di mangiarlo, è perché abbiamo altro per fare un buon pranzo; ma voi non avete le nostre stesse risorse; certo è meglio mangiare i propri nemici anziché abbandonare il frutto della propria vittoria a corvi e cornacchie. Ma signori, voi non vorreste mangiare i vostri amici 3. Si ripresenta il solito dualismo ontologico, umano/divino, e valoriale, bene/male, di cui il dualismo diritto naturale/positivo ne è una diretta de- rivazione. In ambito immanentista monistico il dualismo riesce ad essere risolto attraverso l’artificialità dell’agire umano, attraverso l’homo artifex che crea sempre e solo, pur sotto sembianze diverse, un diritto artificiale. Una delle principali caratteristiche dell’essere umano è quella di creare artefatti materiali ed immateriali, oggetti ed idee, ossia di essere un artefi- ce; è questa una sua particolarità congenita, che lo distingue da altre entità naturali, in particolare animali. Dunque, quando si tratta di esseri umani la naturalità coincide con l’artificialità. È naturale per l’essere umano essere artificiale. La mano impugnò prima il pugno, poi la spada e la pistola per difendere il proprio corpo. La mente ideò il diritto per rendere più certi i rapporti interpersonali. In questo modo nacque il diritto positivo, che è artificiale per definizione, ma anche il diritto naturale, se espressione della creazione umana di un modello ideale, è ugualmente artificiale e frutto di istanze etiche tutte umane. La coscienza è un livello di sistema, una proprietà biologica pressoché allo stesso modo in cui la digestione, o la crescita, o la secrezione della bile sono livelli di sistema, proprietà biologiche. In quanto tale la coscienza è una ca- ratteristica del cervello e perciò è parte del mondo fisico. La tradizione contro cui mi batto dice che, essendo gli stati mentali intrinsecamente mentali, non possono per ciò stesso essere fisici. Io sostengo invece che, in quanto intrinse- camente mentali, essi sono un certo tipo di stato biologico, e dunque a fortiori sono fisici4. La posizione di Johon R. Searle è evidentemente materialista rispetto alla mens cogitans, pertanto rispecchia un modello monista e immanentista del reale. Conseguentemente, in un tale modello tutto il diritto è solo arti- ficiale, ossia umano e, quindi, relativo alla cultura dei luoghi e dei tempi 3 Voltaire, Candido o l’ottimismo, Publidue, Bolzano Novarese Searle, La mente, cit., p. 104. in cui sorge. In tale visione il diritto naturale è frutto della mente umana esattamente come il diritto positivo e, pertanto, entrambe possono essere definiti diritti artificiali. Paradossalmente potrebbero essere anche definiti come naturali, poiché l’artificialità è una componente naturale, congeni- ta dell’essere umano5. È bene precisare che il carattere umano di artifex non coincide con l’espressione latina homo faber fortunae suae, poiché quest’ultima presuppone un libero arbitrio che la prima ignora: non è pre- cisabile sotto quale spinta l’essere umano crei manufatti ed idee. Ciò detto, si tratta di evidenziare in cosa si diversificano questi due tipi di diritto (naturale e positivo), che manifestano la medesima origine, quella umana. Il diritto naturale esprime la speranza, sempre viva nell’essere umano, di accedere ad un mondo perfetto ed immutabile di giustizia; aspirazione che, per altro, come si è visto, ha prodotto la duplicazione del mondo reale. In questo caso l’accento non viene posto né sul carattere della perfezione, né su quello dell’immutabilità, bensì sulla giustizia. Cosa è giusto? La ri- sposta risiede nell’origine stessa del diritto naturale artificiale. Il giudizio del singolo essere umano determina il contenuto concettuale del sostantivo giustizia. Esso, dunque, si manifesta come soggettivo e trascina con sé la relatività propria dei giudizi soggettivi. Non si tratta di un valore assolto, ma semplicemente dell’espressione di un’opinione, di una preferenza; ciò spiega ampiamente il suo, già ricordato, carattere variabile. Per approfon- dire ulteriormente il discorso, quindi, si dovrà abbandonare il giudizio in se stesso, il suo contenuto, per rivolgere l’attenzione verso il soggetto che lo ha espresso, verso i suoi interessi, i suoi gusti, la sua cultura. Infatti, è nel soggetto ed esclusivamente nel soggetto, che è possibile comprendere non solo la variabilità dei contenuti del giudizio di giustizia, ma anche la qualità di questi contenuti. Storicamente gli esseri umani hanno prodotto da sempre utopie sociali tranquillizzanti, che potessero fungere da faro verso il quale rivolgere, di- rigere la vita in comunità. Dalla Repubblica di Platone al De Civitate Dei di Sant’Agostino d’Ippona, all’Utopia di Thomas More, alla Città del Sole di Tommaso Campanella (1568-1639), alla Nuova Atlantide di Francis Bacon (1561-1626), alle Avventure di Telemaco di François de Salignac de La Mothe-Fénelon, al Comunismo di Karl Marx, al movimento New Age dell’Era dell’Acquario, e l’elenco è 5 Cfr. G. Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura. Saggio su Lamarck, Feltrinelli, Milano 1979. Vedere anche M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli Editore, Milano 1980. solo esemplificativo, l’interesse per una società giusta si è sviluppato attra- verso i secoli, chiedendo conforto ora all’assoluto metafisico ed ora al rela- tivo immanente. In quest’ultimo caso l’accento è stato generalmente posto sui valori della libertà e dell’eguaglianza, sia in alternativa, sia in equilibrio instabile tra loro6. Il desiderio di far prevalere il valore della libertà o quello dell’eguaglianza, come il cercare un equilibrio tra i due, è espressione di precise situazioni sociali e personali indagabili empiricamente. Basti pen- sare ai diversi interessi di potere ed economici, nonché agli altrettanto di- versi gusti ideologici, culturali e religiosi, presenti nelle menti dei singoli individui e nelle relative organizzazioni sociali. Ovviamente i singoli orga- nizzati in gruppo dominante, più forte, tenderanno a far prevalere le proprie visioni nell’ambito sociale e, per raggiungere più agevolmente tale scopo, possono avvalersi non solo del diritto positivo, ma anche, in funzione di sostegno, di quello naturale. Di contro, i singoli appartenenti al gruppo dominato, recessivo, più debole, tenteranno di opporsi alle visioni valoriali dominanti e, per fornire maggiore forza alle proprie idee, faranno appello ad un ipotetico diritto naturale, giusto per definizione. Il diritto naturale, dunque, può svolgere alternativamente una funzione sociale di rafforzamento metafisico del diritto positivo vigente o di contral- tare, sempre metafisico, al diritto positivo dominante. La contrapposizione tra gruppi sociali dominati e recessivi si manifesta, quindi, già nella dua- lizzazione tra diritto naturale e diritto positivo, ma si esprime in modo più evidente intorno ai concetti di ideologia e di utopia, così come vengono espressi da Mannheim: [...] le utopie trascendono la situazione sociale, in quanto orientano la con- dotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto. Ma esse non sono ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasfor- mare l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni. Ad un osservatore che abbia di esse un concetto relativamente estrinseco, questa distinzione teoretica e del tutto formale tra ideologie e utopie sembra offrire poche difficoltà. Determinare in concreto quale, in un certo caso, sia l’ideologia e quale l’utopia è invece estremamente difficile. Noi ci troviamo qui di fronte all’applicazione di un concetto che implica dei valori e dei modelli. Per riuscire a questo, uno deve di necessità partecipare ai sentimenti e alle finalità dei partiti in lotta per il potere su di una realtà storica7. In sintesi, le ideologie esprimono prevalentemente l’opinione consoli- data dei gruppi dominanti, mentre le utopie quella dei dominati; in questa 6 Cfr. C. Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino Mannheim, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna 1970, pp. 197-198.  dualizzazione si manifesta all’incirca il medesimo rapporto che intercorre tra diritto positivo e diritto naturale ed anche in questo caso, sia l’ideologia che l’utopia sono realtà meramente umane, relative, pur aspirando ad una dimensione assoluta. Ovviamente la distinzione è solo indicativa, poiché non è sempre agevole individuare chi veramente domini e chi sia vera- mente dominato ed in che misura. In ogni caso, il diritto naturale, al pari dell’utopia, si presenta come una speranza, come una istanza politica od etica; se si accoglie il dualismo fisica/metafisica, umano/divino, come la voce, l’ombra empirica del metafisico, del divino. In questo modo il diritto, in quanto organizzazione della forza fisica degli esseri umani nella storia, si trasforma in forza anche morale attraverso un dover essere eteronomo, la cui fonte è superiore a quella umana. Ma proprio quando viene meno, si prosciuga, con lo svilupparsi del soggettivismo individualista, questa fonte eteronoma ed il diritto aspira a divenire autonomo (democrazia o nichili- smo, poco rileva), si indebolisce anche la sua forza morale ed il dover es- sere perde di senso in favore del mi piace, come si dirà in seguito. A questa perdita di senso corrisponde un progressivo evaporare del diritto naturale ed una corrispondente identificazione del diritto positivo tout court con la forza. Il diritto positivo, ma anche quello naturale, finalmente gettano la maschera e si svelano come espressione della potenza dei gruppi sociali dominanti, che possono agire, nel perseguimento dei propri fini, attraverso la violenza, il convincimento od il condizionamento culturale. Sotto questo profilo le differenze tra dittatura, monarchia, oligarchia e democrazia risul- tano marginali, poiché anche quest’ultima, operando attraverso il principio maggioritario, si distingue solo quantitativamente e non qualitativamente dall’uso della sopraffazione sul singolo individuo dissenziente. Un ulteriore tentativo mistificatorio trova espressione attraverso la se- parazione del concetto di ordinamento giuridico da quello di Stato, come se un diritto potesse esistere come fonte originaria di doveri, di obblighi, senza il supporto coercitivo di uno Stato, e come se le regole imposte dallo Stato potessero vivere di vita propria senza lo Stato che le ha generate. Si è ancora in presenza di una duplicazione, che assegna al diritto una propria natura trascendente rispetto all’immanenza dello Stato. Immanen- za e trascendenza continuano ad essere i protagonisti di questo dilemma tra autonomia ed eteronomia, tra relativo ed assoluto, tra umano e divino. Ma il dilemma è destinato a restare tale, poiché la scelta non può avva- lersi di prove né empiriche, né logico-razionali. Le prove empiriche sono impercorribili, incompatibili con le realtà non empiriche e quelle logico- razionali non possono descrivere un mondo governato da una logica e da una ragione diverse da quelle umane. La scelta resta, dunque, arbitraria, affidata ad assiomi, a fede, la cui origine risale sempre e solo al soggetto, alla sua personale convinzione, illuminazione ed, in quanto tale, ad esso relativa. Più in generale, tutto il mondo empirico si manifesta sempre e solo come relativo al soggetto che lo percepisce. Lo stato di natura, come si è detto, consiste in una perenne lotta per l’esistenza e la sopravvivenza, che genera una generale incertezza nei sog- getti consapevoli intono alla propria sorte. Da ciò scaturisce l’esigenza e, contemporaneamente, il desiderio di costruire una propria sicurezza di rapporti, sicurezza in gradazione crescente dal mero impegno morale al diritto. L’artificialità non si limita, dunque, all’ideazione del diritto, ma lo organizza anche in istituzione, cioè in una entità astratta permanente, che persiste nel tempo con il mutare dei soggetti umani che la compongo- no. Esempi tipici di tale organizzazione sono l’ordinamento giuridico e lo Stato, che nelle società contemporanee tendono praticamente a coincidere, anche se, come si è visto sopra, originano da un tentativo mistificatorio di duplicazione. In altre parole, il diritto, inteso come tecnica di trattamento dei conflitti intersoggettivi umani, si organizza in un sistema burocratico istituzionalizzato. Il diritto, quindi, diviene tecnica e si produce e si applica attraverso pro- cedure burocratiche, a loro volta determinate dal diritto stesso. Il diritto ge- nera se stesso attraverso procedure ed artifici linguistici, quali i concetti di doverosità e di obbligo. In realtà, può dirsi diritto solo quel comportamento concretamente messo in essere nella convinzione del soggetto di adempie- re ad un dovere giuridico. Le procedure legislative sono solo canali per convogliare o mediare il consenso dei soggetti intorno alle proposizioni normative e queste ultime sono indicazioni, segnali per l’azione o la non azione, ma la norma resta il fatto concretamente materializzato dell’azione compiuta e non perseguita da sanzione. Si potrebbe dire che il diritto altro non è che l’opinione giuridica del soggetto intorno ai comportamenti da tenere. Il comportamento conseguente a tale opinione potrà anche essere sanzionato, ma ciò non potrà cancellare la natura giuridica di tale opinione e del conseguente comportamento. Ciò spiega anche come il diritto natu- rale possa considerarsi diritto al pari di quello positivo, non solo in quanto entrambe artificiali, ma anche perché entrambe soggettivi, esistenti solo nella convinzione di obbligatorietà del soggetto agente. Tornando ora al diritto come tecnica burocratica pare opportuno preci- sare che la burocrazia si forma come strumento di garanzia della certezza e della velocizzazione delle procedure, ossia come strumento il cui fine è il raggiungimento dei fini propri dell’organizzazione, cui viene applicata. Nel nostro caso il fine dovrebbe consistere nella realizzazione della giustizia, ma si è già detto che, purtroppo, il concetto di giustizia resta di conte- nuto vago e, comunque, relativo al pensiero dei singoli soggetti agenti. In queste condizioni la burocrazia ha buon giuoco a fare quello che Severino denunzia essere la tendenza di qualsiasi tecnica: il trasformarsi da mezzo in fine. Tanto il capitalismo, quanto il diritto sono forme di volontà destinate a di- ventare, da scopi, mezzi della tecnica. La tecnica è destinata a prevalere stori- camente, e questo prevalere è appunto il rovesciamento in cui la tecnica – da mezzo della volontà giuridica, o capitalistica, o democratica, o di ogni altra forma di volontà – diventa lo scopo di tali forme; si che, anche per quanto ri- guarda la volontà capitalistica e la volontà giuridica, non sarà più il capitalismo a servirsi della tecnica (e della volontà giuridica) per incrementare il profitto, e non sarà più (posto che lo sia stata) la volontà giuridica a servirsi della tecnica (e del capitalismo) per realizzare un certo ordinamento giuridico, ma sarà la tecnica a servirsi della volontà del profitto e della volontà giuridica per incre- mentare all’infinito la propria potenza8. La tecnica incrementa se stessa perseguendo obiettivi sempre più estesi ed ambiziosi, sino al punto di dimenticare gli obiettivi stessi e di espandersi per una propria logica di espansione. La burocrazia segue questo medesi- mo modello espansionista e diviene la referente di se stessa. Natalino Irti, pur sollevando vari dubbi intorno alla posizione di Severino, in particola- re riguardo alla capacità di tenuta dei giuristi e della scienza giuridica, in quanto detentori della decisione e della scelta (ritorna il libero arbitrio con il diritto), riconosce il pericolo del pantecnicismo: Insomma, se l’Apparato tecnico-scientifico è incremento indefinito della ca- pacità di raggiungere scopi, chi decide, nel silenzio della politica e del diritto, i concreti e determinati scopi, a cui quella capacità può dare soddisfazione? Non rischia forse, quell’Apparato, di risuscitare gli antichi dei, i quali, risolvendo in se stessi il tutto, non hanno bisogno degli effimeri scopi dell’uomo? Così il cammino, aperto dal giusnaturalismo, si chiuderebbe nel giustecnicismo9. La risposta alla prima domanda potrebbe essere: nessuno. Le decisioni potrebbero estinguersi nel dominio di procedure, che, una volta decise, per- mangono per sempre immutate, perpetuando se stesse. La seconda doman- da si limita a proporre un inconveniente della tecnocrazia, la sua tendenza 8 E. Severino, Atto secondo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Edizioni Laterza, Roma-Bari 2001, p. 80. 9 N. Irti, Atto primo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, cit., pp. 20-21.  al metafisico, ma la risposta giunge dal noto broccardo latino: adducere inconveniens non est solvere argumentum. Lo sviluppo dei sistemi informatici, poi, moltiplica queste tendenze espansioniste autoreferenziate a scapito dei fini, cui erano stati preposti. Valga l’esempio dei sevizi bancari, che, svolti da persone fisiche, forni- scono informazioni e prestazioni variabili; parzialmente sostituiti dai ban- comat, ampliano il servizio sotto il profilo degli orari di apertura, ma lo complicano con operazioni a computer autogestite dalla clientela e da co- dici segreti; completamente sostituiti da sistemi informatici, obbligano la clientela entro rigidi schemi e variabili predeterminate, vincolanti per la prestazione del servizio, con limitato, se non inesistente, accesso ad un dia- logo, ad una trattativa personale intorno alle condizioni di erogazione dei sevizi medesimi. La tecnica ha cancellato il servizio in nome del suo stesso sviluppo tecnologico. Ciò che vale per la tecnica, vale anche per il diritto, in quanto tecnica: si estende senza sosta, occupando aree sociali sempre più ampie; la giuridicizzazione del mondo moltiplica le controversie civili ed i reati; si creano aspettative di certezza sempre nuove, ma sempre anche frustrate dall’inevitabile varietà del mondo, che non conosce limiti. Inutil- mente l’artificialità del diritto si affanna a prevedere futuri comportamen- ti possibili da governare, i comportamenti continuano a moltiplicarsi alla stessa velocità delle regole e l’unico risultato resta l’inflazione normativa, ossia l’estendersi della tecnica giuridica. Da un lato, la tecnica giuridica tende a soppiantare nella regolamentazione sociale tutte le altre tecniche. Dall’altro lato, accoppiata ai modelli informatici, si disumanizza e fornisce vita ad un nuovo diritto naturale, non più divino, ma pur sempre metafisico. L’essere umano, per natura, pone domande, nei sistemi informatici deve solo fornire risposte; le domande le pone il computer. I termini dei proble- mi li determina il computer e le soluzioni pure. Non si è ancora completato questo processo di disumanizzazione, ma con i ritmi di sviluppo attuali della tecnologia i tempi della sua realizzazione probabilmente non saranno lunghi. La tecnica, dunque, si assolutizza, prima, come alibi egualitarista di de- responsabilizzazione decisionale umana, poi, come vera e propria delega di decisione autonoma, in fine forse, come effettiva capacità decisionale autonoma. La regolamentazione, che indirettamente viene generata dalle decisioni informatiche, diviene diritto, un diritto completamente artificiale, che spodesta sia il diritto positivo che quello naturale. Ma questo nuovo diritto, che si appresta a nascere, ha i caratteri del suo genitore informati- co: immateriale, trascendente l’essere umano, onnipotente, onnipresente ed assoluto.Il metafisico sembra potersi materializzare su questa Terra attraverso l’informatica ed il diritto naturale riconquistare la propria autonomia tra- scendente attraverso una nuova dualizzazione: umano/informatico. Questa nuova legge naturale è meramente descrittiva, come quella divina, poiché anche in essa conoscenza e volontà coincidono: ci si deve attenere alla maschera dei comandi e delle domande o non si ottiene risposta e servizio; in metafora, devi nuotare se non vuoi affogare. Il dover essere del diritto naturale, per così dire, di derivazione etica cede il passo al dover essere dei fenomeni naturali, delle frane, delle inondazioni, della fisica e della chi- mica. Questo diritto naturale informatico non manifesta doverosità etiche o giuridiche, ma necessità empiriche. L’alienazione dell’umano avviene nella tecnica, ed in particolare in quella informatica, attraverso una etero- nomia imposta per necessità e non più per scelta. Il libero arbitrio viene negato nei fatti e nella loro ineluttabilità. Forse, nella ciclicità delle alterne vicende del futuro potrà rinascere un nuovo umanesimo, che dovrà portare con sé anche l’emergere di un nuo- vo diritto positivo o, forse, la rinascita competerà ad una nuova fede tra- scendente ed al relativo diritto naturale oppure, sempre forse, lo strumento giuridico potrà non essere più considerato idoneo a gestire le conflittualità umane, le incertezze prodotte dalla natura ed i suoi orrori. Probabilmente il mutare della prospettiva potrà dipendere da un nuovo salto culturale, da un nuovo paradigma, per usare una espressione di Thomas Kuhn (1922- 1996)10. Del resto anche Foucault, nelle sue ricerche archeologiche intorno al sapere, alla conoscenza umana ha individuato taluni di questi salti cul- turali. Essa [la natura] si rivela omicida in quello stesso movimento che la destina alla morte. Uccide perché vive. La natura non sa più essere buona. Che la vita non potesse più essere separata dall’omicidio, la natura dal male, e i desideri dalla contro-natura, era quanto Sade annunciava nel XVIII secolo, del quale egli esauriva il linguaggio, e nell’età moderna, la quale volle lungamente con- dannarlo al mutismo. Si perdoni l’insolenza (verso chi?): I 120 giorni sono il rovescio vellutato, meraviglioso, delle Lezioni d’anatomia comparata. Co- munque sul calendario della nostra archeologia hanno la stessa età11. 10 Cfr. Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, Einaudi, Torino 1978. 11 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, cit., pp. 300-301.Anche il concetto stesso di natura subisce le mutazioni culturali proprie del soggettivismo e del relativismo umano: la natura ora appare madre ed ora matrigna, ora si manifesta come benefica ed ora come malefica (indif- ferente nell’ipotesi leopardiana), ora generatrice ed ora omicida, probabil- mente perché possiede contemporaneamente tutti questi aspetti. Il giudizio dipende dal punto di vista dal quale la si osserva, ossia non è possibile per l’essere umano raggiungere una conoscenza complessiva, completa, universale, si potrebbe dire olistica. La stagione, la temperie culturale delle varie società umane consente, poi, il prevalere di una visione, di un con- vincimento, di una interpretazione rispetto ad altre, diverse ma altrettanto possibili, secondo un modello di trasformazione, di sviluppo non ancora ben identificato, secondo un modello di salto culturale molto simile ai salti quantici propri della fisica teorica. Le strade che conducono ad una posizione nichilista o nihilista (si vedrà in seguito la differenza tra questi concetti) sono almeno due. L’una provie- ne dal riconoscimento del pieno ed insindacabile soggettivismo delle scelte umane e conduce al pluralismo, al relativismo dei valori. L’altra origina nella convinzione del divenire della storia e della vita umana e porta a quel trionfo logico del nulla, del non essere, che attualmente sembra approdare ai lidi della tecnocrazia. Entrambe le strade, tuttavia, si aggirano nel mede- simo panorama ambientale: la fine dell’Assoluto, dell’ episteme (επιστήμη – ciò che si impone), del trascendente, dell’immutabile, dell’Essere che non può non essere1. Questo panorama è stato descritto con estrema lucidità da Nietzsche e sintetizzato nell’espressione: Dio è morto. Cerco Dio! Cerco Dio! [...]. Dov’è andato Dio? – gridò – Ve lo dico io. L’abbiamo ucciso noi, – voi ed io! Noi tutti siamo i suoi assassini. Ma come ab- biamo fatto? [...]. Che cosa abbiamo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? [...]. Non vaghiamo attraverso un nulla infinito? Non avver- tiamo l’alito dello spazio vuoto? [...]. Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo ancora l’odore della putrefazione divina – anche gli dei si putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo divenire dei noi stessi, per essere degni di lei?2. 1 “Non ci si ferma più soltanto al sentimento della mancanza di valore e di senso del divenire, né a quello dell’irrealtà del divenire. Il nichilismo diventa ora esplicita incredulità per qualcosa come un mondo eretto al di sopra del sensibile e del divenire (del fisico), cioè metafisico. Questa incredulità per la metafisica si vieta ogni sorta di via traversa per giungere a un mondo dietro il mondo o a un sopramondo”. M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2010, p. 75. 2 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere 1882-1895, Newton, Milano 1993, pp. 121-122. Già in passato, narra Plutarco (46 d.C.-127 d.C.), all’epoca dell’impe- ratore romano Tiberio (42 a.C.-37 d.C.) correva la leggenda che un certo Thamus, capitano di una nave sulla rotta dall’Egitto verso Roma, si fosse sentito chiamare da una voce tonante, che alla sua risposta gli ingiunse di riferire a Tiberio che il Grande Pan era morto. Fine di un’epoca? Simbo- logia astrale della precessione della presunta stella fissa Sirio? Avvento del Cristianesimo al posto delle antiche divinità? Altro? Poco importa la risposta; ciò che conta è il concetto di fine di un mondo e delle sue certezze al subentrare di un altro. La morte cancella il passato ed apre le porte al futuro: nuovi dogmi, nuovi concetti, nuovi metodi di ricerca, nuove cre- denze, nuovi valori, nuove leggi. Si rinnovano le basi della conoscenza umana e delle sue modalità esistenziali, individuali e collettive. Dio è mor- to simboleggia la fine del mondo trascendente, dell’assoluto, del divino e dell’eteronomia e prepara l’avvento di un nuovo mondo immanente, rela- tivo, umano, autonomo. Il punto centrale da affrontare riguardo alla fine del vecchio mondo ed alla nascita del nuovo, ossia all’origine ed alla forma del nichilismo, è rap- presentato dal soggettivismo, che Heidegger analizza nel suo sviluppo da Protagora (486 a.C.-411 a.C.) a Descartes, sino a Nietzsche. Il soggettivi- smo genera un nuovo assoluto, quello umano, sul quale fondare il senso e le scelte, ma tale assoluto si presenta privo di certezze, di verità, poiché relativo; si è costretti dentro un ossimoro tra metafisica del soggetto e fisica del soggetto oggettivato, identificate entrambe nell’essere umano. L’alter- nativa è stringente: o si accoglie una nuova metafisica o si rinunzia al senso ed alla verità tradizionale e consolidata, per percorrere la via nichilista, sulla quale trovare un nuovo senso privo di verità e di valori. Heidegger esprime con evidenza questa difficoltà: La metafisica moderna, in balia della quale sta o sembra inevitabilmente stare anche il nostro pensiero, in quanto metafisica della soggettività fa passare per ovvia l’opinione che l’essenza della verità e l’interpretazione dell’essere si determinino per l’opera dell’uomo in quanto è il soggetto vero e proprio. A pensare in modo più essenziale, tuttavia, si vede che la soggettività si de- termina partendo dall’essenza della verità come certezza e dall’essere come rappresentazione. E prosegue in modo ancora più esplicito: Ora, che l’uomo erri, dunque che non sia immediatamente e costantemen- te in pieno possesso del vero, significa certamente una limitazione alla sua essenza; di conseguenza, anche il soggetto – come tale l’uomo funge nel rappresentare – è limitato, finito, condizionato da altro. L’uomo non è in possesso della conoscenza assoluta, non è, pensando in termini cristiani, Dio3. Se il soggettivismo si trasforma in un nuovo assolutismo della verità, presupponendo a priori come veritiera ogni affermazione soggettiva, si è solo costruita una nuova metafisica immanentista, ossia priva di dupli- cazione trascendente. Ma una tale metafisica appare ancora più infondata di quella trascendente. Infatti, l’immanentismo fisico possiede il carattere della fattualità, ossia di poter essere sottoposto a verifica/falsificazione em- pirica. La verifica empirica del soggettivismo narra solo posizioni e scelte relative ai soggetti che le esprimono, pertanto un suo eventuale assoluti- smo verrebbe falsificato proprio in via empirica. Ci si deve rassegnare; la via soggettivista non può che avere come compagno di viaggio il dubbio e come meta l’incertezza. Si tratta di capire se la psicologia umana è in grado di sostenere un tale peso esistenziale e se è possibile organizzare una società priva di verità e di valori assoluti. Se questa è la dimensione umana sarebbe strano rispondere negativamente ai due precedenti quesiti. Tutta- via non appare strano che il genere umano abbia tentato di evitare un tale salto nel dubbio e nell’incertezza attraverso la duplicazione metafisica del mondo. Ma questa duplicazione può trovare una qualche giustificazione ed, ancor più, un fondamento, se non logico almeno antropologico. Ciò, in- vece, che è chiaro è che con l’avvento del soggettivismo, inevitabilmente, viene meno anche l’Assoluto. Infatti, l’Assoluto, creando il relativo, stacca una parte dal Tutto, genera un’altra unità, che, sommata alla prima, l’uno, risulta due, la pluralità. In tale modo, automaticamente, anche l’Assoluto diviene parte di quel Tutto composto da Creatore e Creato. Il Tutto si esten- de, si diversifica e l’Assoluto si relativizza; ossia muore. La scienza moderna esprime alle proprie origini un principio metodo- logico, che passa sotto la denominazione di Rasoio di Occam (novacula Occami) dal nome di William di Ockham. Questo principio ha trovato varie formulazioni tra le quali la seguente pare la più adatta al tema qui trattato: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. In sintesi, si tratta di scegliere tra due alternative, a parità di fattori, quella più semplice, più immediata. La domanda, dunque, da porre potrebbe essere: è necessario duplicare il mondo per spiegarlo? In una visione immanentista sembrerebbe inutile la duplicazione, giacché i nessi causali e le leggi co- stanti, universali, nonché probabilistiche, paiono poter rispondere ad ogni quesito, salvo quello dell’origine del mondo stesso, dell’Essere; ma un tale 3 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, cit., pp. 234 e 237.  interrogativo dalla duplicazione viene solo rinviato al metafisico e, quindi, privato di risposta per non senso della domanda o, più semplicemente, per misteriosità impenetrabile del metafisico. Le risposte causali e le regolarità comportamentali, però, si limitano a descrivere i fenomeni, e non giusti- ficano né la loro esistenza, né la loro finalità, ossia non riescono a fornire senso, significato alla realtà immanente. Non è questo un difetto dell’em- piria, ma la sua naturale caratteristica, che consiste nella mera descrittività dei fenomeni osservati, i quali sono rilevati come privi di finalità nella loro immediata dimensione dell’attimo presente. Dunque, in una visione imma- nentista del mondo, a maggior ragione se priva di libero arbitrio, ma anche se dotata del medesimo (l’empiria si limita a descrivere le scelte non a mo- tivarle valorialmente), manca completamente il senso della vita, il motivo dell’esistere: ciò che esiste, esiste perché esiste. Ovviamente una simile carenza di senso non può soddisfare la presunzione umana e, tanto meno, placare i timori dell’ignoto. L’essere umano aspira all’assoluto, all’infinito per se stesso e teme la morte in quanto nulla. Per esorcizzare aspirazioni frustrate e timori è necessario trovare un senso all’esistere e, possibilmen- te, anche una sopravvivenza post mortem di questo esistere. Conseguente- mente la duplicazione del mondo diviene necessaria per giustificare, per attribuire una qualche finalità alla vita e per calmare le angosce esistenziali; è antropologicamente e psicologicamente necessaria, non certo teoretica- mente, come si è già visto. Al contrario, teoreticamente dovrebbe valere il principio del Rasoio d’Occam e, quindi, reputare inutile, o almeno, poco probabile, la duplicazione, in quanto operazione meramente mentale al pari di qualsiasi altro sogno, credenza, ideologia o fantasia. Presa confidenza con il panorama, conviene ora porre attenzione alla strada da percorrere. Max Weber (1864-1920) indica la prima (pluralismo e relativismo dei valori). Si tratta di constatare l’emergere nel mondo occi- dentale moderno di un politeismo di valori, che pone fine all’unità ideolo- gica, che fu propria della Res publica christiana4. 4 “La Entzauberung der Welt sfocia nel politeismo dei valori, con cui Weber certifica la destinale pluralizzazione degli ordinamenti della vita, ossia la perdita di universalità della ragione occidentale. Quella di Weber è la assunzione radicale della sentenza di Nietzsche Dio è morto, ossia la consapevolezza di vivere in un mondo senza dei e senza profeti tipica di un’epoca che ha mangiato all’albero della conoscenza. I valori supremi di ordine religioso che avevano avviato il processo di razionalizzazione si svalutano irrimediabilmente nell’epoca del compiuto disincanto, ossia del nichilismo compiuto”. F. Fusillo, Nichilismo e sovranità, in R. Esposito, C. Galli, V. Vitiello (a cura di), Nichilismo e politica, Editori Laterza, Roma-Bari 2000, p. 188. Nichilismo e nihilismo 85 [...], respingendo come cosa estranea e ostile ogni santità e ogni bene, ogni legalità etica o estetica, ogni significatività della cultura o valutazione della personalità, pretenderebbe [questa concezione n.d.r.] tuttavia, ed anzi proprio perciò, la sua propria dignità immanente nel senso estremo della parola. Quale che possa essere la nostra presa di posizione nei confronti di tale pretesa, in ogni caso essa non può venire dimostrata o confutata con i mezzi di nessuna scienza. Ogni considerazione empirica di questi argomenti condurrebbe, come ha osservato il vecchio Stuart Mill, al riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisica ad essi corrispondente. [...]. Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra dio e il demonio. [...]. Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la comodità umana, non consiste in nient’altro che nel dover cono- scere quell’antitesi e nel dover quindi considerare che ogni importante azione singola, ed anzi la vita come un tutto – se essa non deve procedere da sé come un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente – rappresenta una concatenazione di ultime decisioni, mediante cui l’anima (come per Platone) sceglie il suo proprio destino – e cioè il senso del suo agire e del suo essere5. Il mondo sociologico weberiano è animato da una pluralità di soggetti individuali e collettivi, che perseguono propri interessi e proprie valuta- zioni, non richiamandosi necessariamente a legittimazioni trascendenti, Anzi cercando nell’azione razionale, ossia umana, rispetto al mezzo od al fine il senso, il significato dell’agire. Questo senso diviene in tale modo meramente immanente e, quindi, patrimonio esclusivo del soggetto agente. Il soggettivismo si impone come scelta politica e giuridica, ma anche come procedura burocratica. In Weber si possono già leggere le prime avvisaglie di quello che la burocrazia potrà generare come tecnica fine a se stessa; è possibile intravedere il fantasma della tecnocrazia disumanizzante6. Ma ai fini del nichilismo ciò che maggiormente interessa è il richiamo alla molte- plicità degli interessi, delle prospettive e delle ideologie sociali, poiché da tale molteplicità scaturisce anche il relativismo soggettivo delle stesse. Molti valori non significano certo nessun valore, ma comunque incrinano 5 M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, pp. 331-333. 6 “La burocrazia è di carattere razionale: la regola, lo scopo, il mezzo, l’impersonalità oggettiva dominano la sua condotta. Il suo sorgere e la sua espansione hanno perciò avuto ovunque un senso rivoluzionario – che rimane ancora da esaminare – come di solito avviene per la penetrazione del razionalismo in tutti i campi. Essa annientò le forme strutturali di potere che non avevano un carattere razionale in questo senso specifico”. M. Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità Milano 1995, p. 101. il monolitismo sociale e ne cancellano la legittimazione trascendente. Le società umane si presentano molteplici come molteplici sono gli esseri umani. Severino intraprende, invece, per giungere al nichilismo la strada del divenire che nientifica l’Essere. L’Essere è immutabile quindi non divie- ne, ciò per Severino non significa, come per Spinoza, che il movimento è illusione, ma che il nulla non esiste; ciò comporta l’assenza di tempo nel pensiero spinoziano di contro ad un emergere ed eclissarsi dell’Essere nel tempo, senza mai divenire nulla, in quello severiniano. Questa posizione di Severino incide anche sul suo concetto di libertà e di nichilismo. Il libero arbitrio dell’essere umano immutabile si fonda sulle infinite vite che po- trebbero apparire e che non sono apparse; ossia si fonda non sull’alternarsi del divenire tra essere e nulla, ma sulla possibilità di manifestasi dell’Esse- re. La libertà è in questo modo pura contingenza dell’apparire: La possibilità non è nell’essere, ma nell’apparire dell’essere [...]. Se vivo eternamente tutte le vite che avrei potuto vivere – se ho già da sempre deciso tutto ciò che avrei potuto decidere – nell’apparire entra peraltro solamente que- sta vita che vivo. Ma entra soltanto questa perché tutte le altre restano nascose, o perché non esiste alcun’altra vita? O anche: esistono altre mie vite, oltre questa che appare? E se esistono, sarebbero potute apparire invece di questa che appare? In tale possibilità risiede il fondamento della libertà dell’uomo; che dunque può essere libero, solo se è pensato come l’eterno vivere tutte le vite che potrebbe vivere7. La natura non empirica dell’Essere di Severino appare evidente, ma essa scaturisce non da una duplicazione del mondo, ma dalla negazione, operata con gli strumenti della logica, del divenire, del passare dall’essere al non essere nel tempo. La nozione di nichilismo esprime la medesima esigenza di non dare realtà al nulla. Un Essere tutto pieno ed eterno in se stesso non diviene, quindi può trovare disvalori solo nell’altro, ossia nel nulla di sé. Siamo prossimi all’autoreferenzialità chiusa delle monadi di Leibniz, ma in Severino l’accento non viene tanto posto sull’autoreferenzialità di una molteplicità di Esseri, tutti equivalenti, di pari dignità e, quindi, ingiudi- cabili nella loro autonomia, ma piuttosto sul divenire, che, consentendo il nulla, relativizza appunto nel nulla qualsiasi affermazione, qualsiasi scelta. 7 E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995, p. 165. Cfr., per una certa analogia di pensiero, C. Bruce, I conigli di Schrödinger. Fisica quantistica e universi paralleli, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006. Nichilismo e nihilismo 87 Il nulla consente la negazione dell’assoluto e rende tutto relativo, contin- gente, occasionale, in breve, nichilista. Nichilismo significa affermare che le cose sono niente, ossia che il non- niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha identificato le cose al niente: affermando che escono e tornano ad essere niente. Il mondo è la dimensione in cui il non-niente è niente, e ove Dio e l’Uomo hanno la capacità di operare l’identificazione del non-niente e del niente. Forza-cultura, religione-ateismo, cristianesimo-anticristianesimo, meta- fisica-antimetafisica, materialismo-spiritualimo, moralismo-immoralismo, assolutismo-democrazia, capitalismo-comunismo, servo-padrone, umanesimo- tecnicismo formano i grandi contrasti che si svolgono all’interno della comune alienazione nichilista dell’Occidente8. Severino è portatore di un monismo immanentista non empirico, nel quale libero arbitrio e nichilismo si identificano col problema del divenire e, quindi, giuocano la loro presenza o assenza intorno all’impossibilità di esistere del non essere e all’impossibilità di non esistere dell’essere; possi- bilità ed impossibilità tutte logiche ed, appunto, non empiriche. Oltre il bivio nichilista tra la strada di un pluralismo valoriale soggettivo e la negazione del divenire si presenta un ulteriore bivio, quello tra l’eguale fondamento e dignità di qualsiasi scelta, di qualsiasi valore e l’inesistenza stessa dei valori. L’equivalenza di tutti i valori conserverà il nome di ni- chilismo, mentre la vera e propria completa assenza concettuale di entità 8 E. Severino, op. cit., p. 137. In merito ai passi citati in testo, con una comunicazio- ne personale del 6 marzo 2016 via mail, Emanuele Severino precisa quanto segue: “Lei [Ghezzi] considera quanto si dice nel mio saggio Essenza del nichilismo intorno al libero arbitrio. Ma in Destino della necessità (1980) mostro che questa posizione è un residuo di nichilismo e va superata. Quando uso la parola essere (quasi sempre o sempre con l’iniziale minuscola) intendo gli essenti, qualsiasi essente, empirico o no. Mostrando che l’essere sè degli essenti (in quanto esso è ciò la cui negazione è autonegazione, ossia in quanto è la struttura originaria del destino della verità) implica l’eternità di ogni essente, si mostra anche l’essere della dimensione non empirica degli essenti. Ma il decisivo è che l’eternità non è un presupposto, ma è implicata con necessità dalla struttura originaria; ed è questa necessità che si tratta di discutere. Questa necessità esclude di essere relativizza- ta e messa accanto alle varie posizioni filosofico-culturali. Il suo saggio afferma l’esistenza del soggetto e del suo sentire. Ma la struttura originaria chiede in base a che cosa si afferma tale esistenza (e l’esistenza del ricco panorama culturale espresso dal suo saggio, e dunque l’esistenza del mondo) richieste analoghe, si intende, vanno rivolte a tutta la cultura filosofica e scientifica”. Ulteriori precisa- zioni in argomento sono presenti anche nella Presentazione di Emanuele Severino a questo saggio. definibili come valori verrà chiamata nihilismo. La distinzione potrà appa- rire più chiara se applicata al nichilismo giuridico. Nella visione dualista del mondo al diritto positivo, come si è visto, si contrappone una giustizia, la cui fonte si afferma superiore. L’Assoluto, come analizza senza timore Irti, tuttavia, si è ritirato nelle sue varie forme (Dio, la Natura, la Ragione) dalla conoscenza umana, conseguentemente, la volontà dell’essere umano è stata abbandonata ad una completa solitudine. Solitudine nelle scelte, soggettività delle medesime e relativismo dei valori perseguiti. Irti constata questo fenomeno nel diritto e, quindi, ne mette in discussione la capacità legittimante di comportamenti, che, privi di copertura giuridica, si identifi- cano con la violenza e con la volontà di potenza del più forte. Gli Dei si sono ritirati, e non offrono più al potere il fondamento di legitti- mità. Il potere rimane affidato a se stesso, alla capacità di sostenersi e di rea- lizzarsi. Il successo della volontà è, appunto, un succedere, un semplice e nudo accadere, che trae fondamento dalla propria fatticità9. Il diritto abbandona la dimensione di conoscenza, per divenire volontà, volontà di potenza e quest’ultima risulta indistinguibile dalla forza, dalla violenza10. La volontà di potenza non conosce altro imperativo che la pro- pria affermazione ed espansione. Il dover essere morale e giuridico cede il passo al confronto/scontro, alla lotta tra le diverse potenze, per determinare quale sia la maggiore11. [...] il nichilista della volontà di potenza non può auspicare alcun esito, avendo congedato la categoria del dover essere. Può solo aspettare l’esito dello scontro storico delle volontà, e non potrà condannare alcunché12. Una volta abbandonata la categoria del dover essere, il campo, da un punto di vista pratico, fattuale resta a completa disposizione della forza, ma dal punto di vista concettuale si deve affrontare il tema di come il dover 9 N. Irti, Nichilismo giuridico, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, p. 49. 10 “Il falso contrasto tra diritto e forza deriva da una concezione metafisica del diritto, dal diritto inteso come un potere sovrannaturale, come un potere vincolante che crea ed impone dei doveri. Questo potere vincolante superiore viene opposto alla forza, cioè al potere concreto”. K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano 1967, pp. 107-108. 11 “Sul rango decide il quantum di potenza che sei; il resto è viltà”. F. Nietzsche, La volontà di potenza, in Opere 1882-1895, Newton, Milano 1993, p. 939. 12 V. Possenti, Nichilismo Giuridico. L’ultima parola?, Rubettino, Savoria Mannelli 2012, p. 146.  Nichilismo e nihilismo 89 essere viene meno e con cosa viene sostituito. La risposta a quest’ultimo quesito verrà affrontata nel prossimo capitolo, per ora basti concentrarsi sul primo. Il dover essere può semplicemente perdere il proprio carattere assoluto o scomparire completamente, come concetto inesistente o falso. Si è già visto come il soggettivismo renda relativi i contenuti comportamentali del dover essere e, quindi, ne vanifichi la forza vincolante, imperativa. Il dover essere resta in vita, ma persiste come valore individuale, non generalizza- bile, non imponibile a terzi. Però è dato anche il caso che il dover essere si dissolva come entità concettuale. E può dissolversi come entità solo teorica od anche come entità pratica; come affermazione priva di senso o come affermazione falsa. Il dover essere comunque scompare, ma secondo mo- dalità differenti. Un esempio articolato ed eloquente di queste tematiche è dato dalla dia- triba sviluppatasi tra la Scuola di Uppsala, che annovera tra i propri mas- simi esponenti Alex Hägerström (1868-1939) ed Karl Olivecrona (1897- 1980), e Theodor Geiger (1891-1952). La prima osservazione che Geiger muove alla scuola di Uppsala riguar- da il carattere solo teorico del nihilismo proposto. In questo caso si tratta di nihilismo e non di nichilismo, poiché il presupposto risiede nell’inesisten- za dei valori, non nella loro generale equivalenza, indifferenza. Chi è criticamente illuminato è necessariamente un nihilista teorico dei va- lori. Egli ha compreso che le idee di valore non sono altro che orientamenti emotivi indebitamente oggettivati. Egli sa che i valori non appartengono alla realtà temporale-spaziale, che i giudizi di valore non possono pertanto essere altro che oggettivazioni errate di valutazioni primarie soggettive, traduzioni di situazioni emotive in enunciazioni conoscitive teoriche13. Gaiger propugna un nihilismo anche pratico, che cioè abbandoni l’uso dei giudizi di valore anche nelle discussioni politiche intorno alle decisioni da prendere; non si tratta, in breve, per questo Autore, solo di teorizzare la fine dei valori, ma anche di operare senza l’uso giustificativo dei medesi- mi. In questo modo si potrà dare vita a quello che da Geiger viene definito illuminismo critico e che, a sua volta, può generare una democrazia sobria, ossia fondata esclusivamente su discussioni e scelte intorno ai fatti e sulla base dei meri fatti. 13 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, U.T.E.T., Torino 1970, pp. 553. Vedere anche M.L. Ghezzi, Un precursore del nichilismo giuridico: Theodor Geiger e l’antimetafisica sociale, in Sociologia del Diritto, 2007/3, pp. 5-46. [...] la persona criticamente illuminata deve sapere su quali questioni non si può sapere niente, quali siano i problemi sui quali non può esprimersi con la pretesa di validità oggettiva, essa deve conoscere in breve i limiti naturali posti al processo conoscitivo. Essa ha da mantenersi scettica dinanzi alle as- serzioni altrui e rigettare tutte le asserzioni presentate con intenti pragmatici. È pragmatica ogni asserzione che pretenda di motivare teoricamente una finalità dell’agire (di dimostrarne l’esattezza), o suggerisca tacitamente tali finalità14. La seconda osservazione riguarda la predicabilità o meno di verità/falsi- tà dei giudizi di valore. Mentre Hägerström, ma soprattutto i suoi discepoli e primo fra tutti Olivecrona, sostengono l’inesistenza di una teoria che for- nisca significato alla domanda sulla veridicità/falsità dei valori e, pertanto, la domanda risulta priva di senso, neppure formulabile; Geiger, invece, afferma l’esistenza di senso della domanda, in quanto la teoria esiste, ma è falsa e, quindi, anche la risposta risulta falsa. Chi asserisce la veridicità di un valore non formula una proposizione priva di senso, ma intende soste- nere l’esistenza concreta di ciò che afferma, cioè della fattualità dei valori; pertanto, per Geiger, non si tratta di una proposizione priva di senso, ma di una proposizione falsa, poiché ciò che afferma non esiste, è fantasia, è desiderio soggettivo. Chi giudica non può esprimersi sulle qualità di valore dei fenomeni, quando è dimostrato che i fenomeni non posseggono alcuna qualità di valore. Valore e non-valore non sono inerenti all’oggetto stesso, ma gli sono attribuiti dal soggetto dell’esperienza. [...]. Il giudizio di valore non è che una esplosione emotiva rivestita della forma linguistica di una enunciazione oggettiva15. È evidente che mentre Hägerström si muove su un piano meramente logico, nel quale dovrebbero operare solo teorie verificabili e la veridicità dei giudizi di valore non è verificabile, ossia su un piano sul quale le teorie non falsificabili o falsificate sono già state scartate; Geiger, invece, opera nel mondo empirico dove il primo passo da compiere è proprio la verifica/ falsificazione delle ipotesi e delle relative teorie16. Empiricamente la do- manda intorno alla veridicità dei giudizi di valore è stata posta e continua 14 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, Geiger, op. cit., p. 554. 16 “Ora una ideologia è per definizione qualcosa di unilaterale perché è determinato dalla prospettiva particolare di colui che pensa. Secondo questo si dovrebbe dire che tutte le ideologie sono false . [...]. L’ideologia è determinata dalla prospettiva corrispondente alla posizione sociale di colui che la pensa quindi è pensiero unilaterale. Essa non soddisfa i requisiti dell’oggettività posti dalle scienze naturali e quindi è teoricamente falsa”. Th. Geiger, op. cit., p. 142. Nichilismo e nihilismo 91 ad essere posta, pertanto si tratta di falsificare la teoria che la regge ed è proprio questa la conclusione a cui giunge Geiger. La differenza appare minima, ma non irrilevante e tutta impostata sul piano del discorso svolto e sui tempi cui si riferisce l’affermazione (prima o dopo la verifica empiri- ca). Del resto, il tema fu affrontato in senso generale anche da Heisenberg, riguardo alla costruzione di teorie attraverso l’accoppiamento di simboli a fenomeni: Il procedimento della scienza naturale è raffigurato come l’applicazione di simboli a fenomeni. I simboli possono, come in matematica, essere combinati secondo certe regole, in tal modo le affermazioni sui fenomeni possono essere rappresentate da combinazioni di simboli. Perciò una combinazione di simboli in disaccordo con le regole non è falsa ma priva di significato. L’ovvia difficoltà di questo ragionamento è la mancanza di un criterio ge- nerale che indichi quando una proposizione debba essere considerata priva di significato. Una chiara decisione è possibile soltanto quando la proposizione appartiene ad un sistema chiuso di concetti e di assiomi, il che nello sviluppo delle scienze naturali costituisce piuttosto l’eccezione che la regola17. L’equivoco, dipendente sia dalla difficoltà di definizione dei concetti, in quanto legati alle teorie di cui sono figli, sia dall’impossibilità di verifi- ca empirica degli assiomi su cui si fondano le teorie (concetti ed assiomi non chiusi), non può stupire. Infatti, come afferma Michel Foucault (1926- 1984), le parole (simboli) e le cose (fenomeni) non coincidono dal crollo della Torre di Babele in poi: Nella sua forma originaria quando fu dato agli uomini da Dio stesso, il lin- guaggio era un segno delle cose assolutamente certo e trasparente poiché asso- migliava ad esse. I nomi erano deposti su ciò che indicavano, come la forza è scritta nel corpo del leone, la regalità nello sguardo dell’aquila, come l’influsso dei pianeti è stampato sulla fronte degli uomini: mediante la forma della simi- litudine. Tale trasparenza fu distrutta a Babele per castigo degli uomini. Le lin- gue furono separate le une dalle altre e rese incompatibili solo nella misura in cui venne anzitutto cancellata la somiglianza alle cose, la quale aveva costituito l’originaria ragione d’essere del linguaggio. Tutte le lingue che conosciamo non vengono da noi parlate che sullo sfondo di tale similitudine smarrita e nello spazio da essa lasciato vuoto18. Riemerge il solito dualismo tra divino ed umano, tra conoscenza asso- luta e conoscenza relativa, tra certezza e dubbio. Tuttavia, ritornando ora 17 W. Heisenberg, Fisica e filosofia, cit., p. 90. 18 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 50.  alla polemica tra la Scuola di Uppsala e Geiger, probabilmente essa ne sottointende un’altra ben più rilevante e di natura politica; non è possibile, infatti, dimenticare le simpatie della Scuola di Uppsala ed, in particolare, di Olivecrona per il nazismo di fronte alla posizione social-democratica di Geiger, sostenitore della Repubblica di Weimar19. In conclusione, il nichilismo come il nihilismo scaturiscono dalla fine della credenza in verità assolute, siano esse trascendenti od immanenti, ossia dalla fine della duplicazione del mondo. Questa fine può giungere attraverso una relativizzazione dei giudizi di valore od una loro completa soppressione, ma, in ogni caso, l’antica via eteronoma rispetto all’essere umano non può più essere percorsa. Si tratta, quindi di costruire una nuova strada autonoma, che tenga conto della fluidità, della varietà, dell’incer- tezza, ma anche dell’arbitrarietà dei giudizi di valore. Si tratta di capire se sono effettivamente necessari o, almeno, utili per la convivenza sociale e se non possono essere sostituiti da altre e diverse entità in grado di guidare l’agire umano, ammesso che esista la possibilità di guidarlo attraverso la volontà umana. Tralasciando ora i dubbi intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio, chi scrive è convinto della possibilità di compiere questa ricostruzione comportamentale anche senza i giudizi di valore in ambito sia morale, sia giuridico, ma questo è argomento del prossimo capitolo.  Cf.r. K. Olivecrona, I problemi del tempo visti da uno svedese. Inghilterra o Germania?, in Lo Stato, 3/2014, pp. 173-195. L’estetica è una disciplina che studia, dal punto di vista trascendente, il bello in sé, mentre, dal punto di vista immanente le sensazioni umane che si manifestano nell’alternativa bello/brutto. Il bello in sé, il Sublime conduce subito verso il metafisico, la perfezione delle idee, una realtà per- fetta non appartenente alla realtà umana. Il semplice bello e brutto sono, invece, giudizi tutti umani intorno a ciò che piace o non piace. Già Aristo- tele (384 a.C.-322 a.C.), nella Poetica (ποίησις, poiesis, il cui significato è fare, creare) evidenziava come il parametro attraverso il quale giudicare un’opera d’arte fosse la produzione o meno nel soggetto di una percezione gradevole, di piacere. Sembra poi in generale che la poesia l’abbia prodotta due cause, e tutte e due naturali. Infatti è proprio della natura umana, sin dall’infanzia, l’istinto dell’imitazione e che tutti godano innanzi ai suoi prodotti, e l’uomo differisce specialmente dagli altri animali come quel genere che più sa imitare, e questo è il mezzo con cui si procaccia le prime cognizioni. E che ciò sia vero è mostrato dai fatti, perché mentre certi oggetti, così come sono in natura, ci riescono sgradevoli, le loro riproduzioni invece, quanto più sono esatte, ci danno diletto, come le forme degli animali più ripugnanti e dei cadaveri1. Aristotele definisce l’arte come capacità di suscitare piacere attraver- so l’imitazione, ossia attraverso il primo strumento umano di conoscenza. Dunque, riporta al soggetto che conosce la decisione intorno al bello ed al brutto. In particolare, sottolinea che una imitazione perfetta dell’orrore naturale può risultare piacevole e questa sensazione pare essere il fonda- mento del diritto positivo come estetica. Il diritto positivo è decisamente disumanizzante in quanto generale ed astratto, mentre l’essere umano è particolare e concreto, pertanto non può essere giudicato con canoni stati- stici, medi, ma deve essere indagato in tutte le sue particolarità individuali, personali, ammesso che ciò sia possibile, se si intende comprenderne vera- 1 Aristotele, La poetica, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1940, p. 10. mente il comportamento. Tutto vero; ma la natura, con il suo diritto natu- rale, è ancora peggiore, poiché sembra colpire a caso, in modo arbitrario, senza una qualsiasi giustificazione; giustificazione che, seppur arbitraria, spesso anche ipocrita e sempre soggetta ad errore, il diritto positivo tenta di fornire. Dunque, Aristotele ha ragione a sostenere che il bello può scaturire anche dall’imitazione del brutto naturale; in questo senso si indirizza anche un autore più recente quale Thomas De Quincey (1785-1859): Ci asciughiamo le lacrime, e abbiamo forse la soddisfazione di scoprire che un’azione disgustosa e indifendibile sotto il profilo morale si rivela, se valutata secondo i criteri del gusto, un atto meritevole2. Non deve stupire il divario tra dover essere ed estetica, perché il primo è frutto di una duplicazione metafisica o razionale del tutto estranea (sal- vo che per il concetto di Sublime) al secondo. Pertanto, abbandonata ogni duplicazione del Mondo, il vero divario esistente, che tuttavia accomuna dover essere ed estetica, riguarda la diversità che intercorre tra il sentito individuale, personale ed il sentito indotto a qualche titolo (minaccia, edu- cazione, tradizione, etc.) dall’ambiente circostante il soggetto. Ma si tratta di un divario più apparente che sostanziale, poiché sussiste solo a livello individuale, infatti, a livello collettivo, viene colmato dal gusto prevalente dei gruppi sociali, che riescono ad assicurarsi il dominio sugli altri gruppi. [...] la situazione nell’estetica non è dissimile da quella nell’etica. In en- trambe le sfere di valori i criteri di valutazione del gruppo influenzano le nostre decisioni, in entrambe sono stati interiorizzati nella voce della coscienza o in quello che gli psicoanalisti chiamano il super-io. C’è una creatura ansiosa na- scosta in noi che domanda posso fare questo?, oppure può piacermi questo?3. Questa creatura è il nostro sdoppiamento, che non ci consente aperta- mente di porci come unici giudici delle nostre azioni. È lo sdoppiamen- to dell’eteronomia. Si cerca sicurezza in un parametro comportamentale esterno ed, in quanto tale, presupposto oggettivo. L’autonomia non con- cede giustificazioni esterne all’agire; si agisce palesemente per seguire il proprio gusto, sia che esso sia originario, sia che sia stato indotto dall’am- biente o dal determinismo. Tuttavia lo sdoppiamento appare più evidente 2 Thomas De Quincey, L’assassinio come una delle belle arti, TEA, Milano 1990, p. 25. 3 E.H. Gombrich, Ideali ed idoli. I valori nella storia e nell’arte, Einaudi, Torino 1986, p. 94.nella visione del bello metafisico, del Sublime, espresso da Platone attra- verso l’esempio di un letto inteso come mobile d’arredo, di un letto come quadro e dell’idea di letto: Questi nostri letti si presentano sotto tre specie. Uno è quello che è nella natura: potremmo dirlo, creato, creato dal dio. – Uno poi è quello costruito dal falegname. – Sì, disse. – E uno quello foggiato dal pittore. Non è vero? – Va bene. – Ora, pittore, costruttore di letti, dio sono tre e sovrintendono a tre specie di letti. – Si, tre. – Ebbene, il dio, sia che non l’abbia voluto sia che qualche necessità l’abbia costretto a non creare nella natura più di un solo e unico letto, si è limitato comunque a fare, in un unico esemplare, quel letto in sé, ossia ciò che è letto. Ma due o più letti di tal genere il dio non li ha prodotti, e non c’è pericolo che li produca mai4. L’idea del letto in sé o del bello in sé non si differenziano, sono entrambe metafisiche, assolute e perfette, quindi rappresentano il corretto parametro verso il quale rivolgere l’attenzione per sapere cosa è letto e, ciò che in questa sede più interessa, cosa è bello. In questa prospettiva la dualizza- zione del mondo si è compiuta completamente e l’eteronomia diviene un elemento strutturale del sistema interpretativo del mondo, in generale, e di quello umano, in particolare. L’ulteriore duplicazione, quella tra dover es- sere ed estetica, si è probabilmente prodotta sia per contenere l’arbitrarietà evidente del senso estetico, sia per quell’illusoria pausa che intercorre tra la constatazione che una cosa piace e l’azione che ne segue. In questa pausa potrebbe celarsi il libero arbitrio, che potrebbe far rinascere la distinzione secondo il principio: ho agito in un modo che non mi piace perché era mio dovere farlo! Purtroppo non abbiamo conoscenze idonee né per escludere che in quel momento nel soggetto il dovere coincidesse con il piacere, ma neppure che questa pausa concettuale tra sensazione ed azione esista e sia governata nella libertà. Tralasciando ora i problemi metafisici legati al Sublime, in quanto frutto della solita duplicazione del mondo già più volte discussa, pare interessan- te approfondire il termine estetica, il cui significato deriva dal sostantivo greco αίσθησις, che indica un sentire, una sensazione e dal verbo, sempre greco, αισθάνομαι, che significa percepire attraverso la mediazione dei sensi, ossia ricevere stimoli che producono sensazioni. L’essere umano percepisce in continuazione sensazioni provenienti dal mondo esterno attraverso i suoi cinque sensi fisici, ed è questa la base sulla quale si fonda il metodo empirico di ricerca; ma percepisce anche sensa- 4 Platone, La Repubblica, in Tutto Platone, Editori Laterza, Bari 1967, p. 427. zioni interiori, sentimenti provenienti da precedenti esperienze, da ricordi, da pregiudizi, da preconcetti, da convinzioni personali, da tutto ciò, in sin- tesi, che può essere considerato il suo vissuto mentale. Queste due fonti di sensazioni non sono e non possono essere rigorosamente separate, poiché insistono sull’unitarietà del soggetto che percepisce. La percezione fisica viene selezionata, filtrata e completata dalle propensioni della mente, sino al punto di rendere indistinguibile la percezione fisica in quanto tale dal percepito e vissuto mentale. La questione, poi, si complica ulteriormente, poiché la percezione occupa anche il campo del sogno e del ricordo, con i loro stati dubbi, incerti di realtà empirica. Le percezioni esterne presuppongono l’esistenza di un ambito circostan- te il soggetto, dal quale partono gli stimoli che colpiscono i sensi. Non si può, tuttavia, essere certi, che questo ambito esterno esista veramente fuori dal soggetto, poiché ciò che si percepisce altro non è che una immagine, una sensazione mentale. Del resto, non è neppure possibile asserire con certezza l’inesistenza del mondo esterno, sempre per il problema che a giu- dicare è una entità soggettiva non oggettiva. L’oggettività nella percezione umana è impossibile, per la stessa natura umana di soggetto. Si è già osservato che alla mente non si presentano che percezioni [...]. Ora, siccome le percezioni si distinguono in due generi, impressioni e idee, questa distinzione solleva una questione, con cui avvieremo la nostra indagine sulla morale: è dovuto alle idee oppure alle impressioni il fatto che noi distinguia- mo la virtù dal vizio, e dichiariamo un’azione biasimevole oppure pregevole? Questo escluderà tutti i discorsi e le dichiarazioni arbitrarie, riconducendoci a qualcosa di preciso e di esatto in merito al presente argomento5. La percezione, dunque, è legata ai sensi, l’acqua fredda produce una sensazione di freddo, mentre l’impressione esprime la predisposizione, il giudizio del soggetto verso il percepito: il freddo mi produce sollievo dall’afa estiva o mi disturba perché abbassa la temperatura dell’ambiente. Conseguentemente l’Autore non esita nella sua risposta, come del resto era prevedibile data la Grande Divisione di cui è artefice ed alla quale ha fornito anche il nome: [...] è impossibile che la distinzione tra bene e male morale possa essere compiuta dalla ragione; poiché quella distinzione ha sulle nostre azioni un’in- fluenza di cui la sola ragione non è capace. La ragione e il giudizio possono, infatti, essere la causa mediata di un’azione, destando o guidando una passione: 5 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano 2001, p. 903. ma non bisogna pretendere che un giudizio di questo genere, sia vero o sia fal- so, possa accompagnarsi alla virtù o al vizio6. Hume non si limita a negare la predicabilità di vero/falso all’ambito mo- rale, ma affronta anche la natura di questo ambito, di queste impressioni, ed appare con evidenza che la sua analisi conduce direttamente al principio del piacere come scriminante tra bene e male. La prossima domanda è: di quale natura sono queste impressioni, e in che modo agiscono su di noi? È qui impossibile non esitare, ma dobbiamo dichia- rare che l’impressione che sorge dalla virtù deve essere gradevole, e quella che deriva dal vizio sgradevole. In qualsiasi momento l’esperienza deve convin- cerci di questo. [...]. Una rappresentazione teatrale o un romanzo bastano a darci esempi di questo piacere, che la virtù ci procura; e del dolore, che nasce dal vizio7. Risulta chiaro che sia l’alternativa buono/cattivo, sia quella bello/brutto dipendono dalle impressioni umane, ossia sono legate alla percezione di piacere o di dolore. Nell’essere umano la percezione è unitaria, non esisto- no due diverse forme di percezione, come può dimostrare l’empiria, forse possono esistere due diverse forme di impressioni, se elaborate nella mente e quindi non sottoponibili, almeno per ora, a verifica/falsificazione empiri- ca. Dunque, se non si desidera procedere ad una ulteriore duplicazione, pri- va in questo caso di motivazione, che avrebbe un sapore formale incentrato sul mero linguaggio (dover essere o mi piace) e non su fatti, tra percezioni e conseguenti impressioni morali ed estetiche, si deve concludere che vi è un’unica percezione ed i due ipotetici tipi di impressioni coincidono tra loro e sono un solo ed unico tipo di impressione; ossia la morale altro non è che una forma dell’estetica in quanto fondata, come l’estetica, sul piacere. In questo caso la prova empirica è possibile poiché si tratta di impressioni prodotte da percezioni, sensazioni empiriche, salvo sempre, ovviamente, la duplicazione strutturale del mondo in fisico e metafisico. Se le percezioni esterne, produttrici di impressioni esterne, provengono dalla presupposta esistenza di un mondo esterno al soggetto percipiente, da dove provengono le sensazioni interne, ammesso che abbiano natura diversa da quelle esterne? La risposta potrebbe risiedere nella capacità del- la mente di apprendere, ricordare e rielaborare il percepito ed il sentito, in qualunque modo venga percepito e sentito: fisico o metafisico. Certa- 6 D. Hume, op. cit.., p. 915. 7 D. Hume, op. cit., p. 931.  mente la tradizione, l’educazione, le convinzioni religiose e scientifiche dovrebbero giuocare un ruolo centrale nella determinazione delle sensa- zioni interiori e nel giudizio su quelle esteriori. Commozione, attaccamen- to, repulsione, amore, odio, etc. possono essere conseguenze di precedenti esperienze: il fuoco mi ha scottato e provo una repulsione nell’avvicinarlo. Ma anche preconcetti, superstizioni, credenze si presentano come sensazio- ni interiori e possono avere un’origine culturale: provo paura alla vista di un gatto nero, perché sono convinto che porti sfortuna; provo gioia per aver trovato un quadrifoglio, perché penso che porti fortuna. Searle affronta il tema immediatamente nel suo significato empirico; le impressioni umane determinano il comportamento, in presenza del libero arbitrio, attraverso le sensazioni di piacere o di dispiacere. Dunque, le sensazioni di piacere o di dispiacere si collocano all’origine dell’intenzionalità, che per sua stessa natura è sempre e solo cosciente; pertanto la domanda da porre diviene la seguente: come funzionano nei particolari gli stati intenzionali? L’Autore, pur reputando che resti un mistero il funzionamento dell’intenzionalità, tuttavia fornisce alcune interessanti riflessioni ed indicazioni in merito. [...] ogni stato cosciente presenta un certo grado di piacere o dispiacere. Per meglio dire, occupa una certa posizione sulla scala che include le nozioni ordi- narie di piacere e dispiacere. Così, per ogni esperienza cosciente che qualcuno abbia, è sensato chiedergli: È stato piacevole? È stato bello? Sei stato bene, male, ti sei annoiato, ti sei divertito? È stato disgustoso, delizioso o deprimen- te? La dimensione piacere/dispiacere si estende pervasivamente a tutti gli stati di coscienza8. Si deve notare che la dimensione piacere/dispiacere ha natura empiri- ca, ossia può essere sottoposta ad un processo di verifica/falsificazione, pertanto passare da un giudizio di valore ad un giudizio estetico comporta anche la reintroduzione della metodologia empirista. Ovviamente non ri- guardo all’oggettività del giudizio, ma all’impressione prodotta dalla sen- sazione percepita. Infatti, un giudizio morale, se non si identifica con un giudizio estetico, se non è un giudizio estetico, non può scaturire da una sensazione produttrice di impressioni di piacere/dispiacere, non solo per Kant, ma per sua stessa definizione, in quanto il dover essere, per essere morale, deve essere anche privo di interesse personale. In modo diverso si presenta la doverosità giuridica, che può anche essere sostenuta da un interesse personale, e, proprio per questo motivo, sembra appartenere più 8 J.R. Searle, La mente, cit., p. 128. al mondo dell’estetica che a quello della morale. Ma è bene continuare con Searle, che precisa il concetto di percezione: Dovremmo concepire la percezione non come qualcosa che crea la coscien- za, ma come qualcosa che modifica un campo di coscienza preesistente9. Siamo vicini concettualmente alla res cogitans di Descartes, ma lontani dalla sua astrattezza; infatti in Searle tutto ruota intorno ad una sensazio- ne rapportata ad una percezione non necessariamente autoreferenziata al soggetto percipiente; in breve, soggetto ed oggetto vengono posti in cor- relazione, non rigidamente separati. Pare un timido tentativo di riduzione del dualismo soggetto/oggetto. Ma ciò che più conta riguarda direttamente lo stato mentale cosciente, che altro non è che l’espressione delle proprie condizioni di piacere/dispiacere. L’esser vera sta alla credenza come l’esser appagato sta al desiderio o l’esser realizzata sta all’intenzione. Propongo di descrivere tale fenomeno nel modo seguente: ogni stato intenzionale con direzione di adattamento non nulla pos- siede condizioni di soddisfazione. Possiamo considerare gli stati mentali come rappresentazioni delle proprie condizioni di soddisfazione10. Searle è esplicito; la separazione fatti/valori comporta, per i fatti, la pos- sibilità di rispondere a verificabilità empirica, mentre, per i valori morali o estetici, negata questa possibilità, produce la mera soddisfazione o insod- disfazione personale del soggetto agente. La Grande Divisione persiste, ma ridimensionata entro un vocabolario, che meglio la descrive. La sepa- razione tra giudizi di fatto e giudizi di valore non esaurisce la serie delle possibili divisioni. Infatti, subito subentra anche la sottodivisione giudizi di valore e giudizi di estetica, come si è già visto. Tuttavia, mentre la pri- ma divisione regge alla prova empirica come scriminante fra i due tipi di giudizio (solo i giudizi di fatto sono empiricamente verificabili/falsifica- bili), la seconda suddivisione (giudizi etici/giudizi estetici) non trova altra giustificazione che il tentativo di recuperare, attraverso il giudizio etico, di 9 J.R. Searle, op. cit., p. 141. 10 J.R. Searle, op. cit., p. 154. “Come è possibile che io abbia sete d’acqua?, vale a dire che abbia un desiderio il cui contenuto è bere acqua. [...] la risposta si fornisce mostrando la connessione essenziale tra intenzionalità e condizioni di soddisfazione. Ciò che fa del mio desiderio il desiderio di bere acqua è che sarà soddisfatto se e solo se berrò acqua. Non si tratta di un’osservazione psicologica che predice cosa mi farà sentire bene, ma della definizione del contenuto intenzionale pertinente”. Ibidem, p. 171.valore, un metafisico assoluto, trascendente od anche solo razionale. Del resto, risulta chiaro che, rispetto alla sua origine, il giudizio di valore non è altro che un giudizio estetico, poiché scaturisce da condizioni di soddisfa- zione o, se si preferisce, da sensazioni percepite e produttrici di impressioni (piacere/dispiacere). Le sensazioni, dunque, producono dei giudizi estetici (impressioni), ri- assumibili sinteticamente nell’alternativa mi piace/non mi piace. Si tratta ora di vedere se questi giudizi estetici, oltre all’origine, possiedono anche i medesimi caratteri dei giudizi di valore. Sia i giudizi estetici che i giudizi di valore esprimono una dimensione meramente mentale, ma mentre i primi dovrebbero essere finalizzati a manifestare un piacere personale, i secondi, invece, dovrebbero svolgere la funzione di governo del comportamento. Ma il giudizio di valore che cosa è? Vi è una sola alternativa possibile: o è un valore assoluto, in qualche modo trascendente, che è giunto all’essere umano dal di fuori per illuminazione, per rivelazione, per quant’altro di immaginabile; oppure è un valore relativo, nato nella mente del soggetto agente e caratterizzato dalla sue preferenze. Si tralasci ancora il primo caso, che resta indimostrabile empiricamente e che, comunque, deriva sempre dalla duplicazione del mondo, e si affronti il secondo caso. Esso non si distingue dal giudizio estetico: è soggettivo nel medesimo modo; porta giu- stificazioni solo apparentemente diverse alla propria adozione; infatti, al di là di giustificazioni autonome od eteronome, funzionali, utilitaristiche, pietistiche, anagrafiche, culturali, etc., la scelta finale altro non è che una preferenza personale, un equilibrio tra le convinzioni e le scelte possibili, che soddisfi il soggetto, lasciandolo emotivamente tranquillo. Il giudizio di valore è un giudizio estetico formulato in modo diverso, poiché pone l’accento sul comportamento da tenere e non sul piacere nel tenerlo, ma la forma non riesce a mascherare il piacere di fondo, che si colloca all’origine delle scelte etiche; dunque, poco conta la forma funzio- nale, ciò che importa è, invece, la matrice, la natura comune, unitaria, che li caratterizza. Inoltre la loro sovrapponibilità perfetta è anche confermata dal modo in cui se ne può venire a conoscenza: per sapere quali siano i giudizi estetici e di valore di un soggetto non è possibile fare altro che porre la domanda al soggetto medesimo od osservarne il comportamento, pre- supponendo (sperando) che il pensiero sia coerente con l’azione. Tuttavia i giudizi estetici presentano un vantaggio empirico su quelli di valore: il giu- dizio estetico produce un immediato senso di piacere nel soggetto, piacere che è empiricamente verificabile; al contrario, il giudizio di valore aspi- rerebbe ad essere disinteressato e, quindi, il piacere non dovrebbe essere percepibile nell’imperativo del dovere. Ciò ovviamente nasconde il piacere originario della scelta etica, ma, soprattutto, lascia intendere l’estraneità alla verifica/falsificazione empirica del giudizio di valore, in quanto asso- luto, a priori, arbitrario. Anche il giudizio estetico è e resta arbitrario, ma esso riconosce la propria origine empirica nel piacere e, quindi, può essere studiato anche senza duplicare il mondo. Demistificare il giudizio di valore significa svelarne l’egoismo e la volontà di potenza, che nasconde. Il pathos dell’aristocrazia e della distanza [...] il duraturo e dominante sen- timento totale e basilare di una specie superiore e dominante nei confronti di una specie inferiore, di un sotto, questa è l’origine dell’opposizione tra buono e cattivo. (Il diritto signorile di imporre nomi, risale così indietro nel tempo, che si sarebbe autorizzati a ritenere l’origine della lingua stessa come espressione di potenza di chi era al potere: essi dicono questo è questo e questo e con un suono impongono il loro sigillo a cose e avvenimenti e, così facendo, se ne impossessano)11. Il giudizio di valore ha una lunga storia dietro le spalle di violenza, di persecuzioni, di soprusi, di processi, di torture, di eresie, di condanne capi- tali proprio per questa sua tendenza a porsi fuori dall’immediato giudizio umano individuale, per questa sua costante aspirazione all’assoluto, anche quando si manifesta palesemente come relativo, come appunto avviene nell’ambito del diritto. Infatti, quando il giudizio di valore prende vera- mente atto della propria relatività, si apre il capitolo del nichilismo e del nichilismo giuridico. Il giudizio estetico, invece, non sembra manifestare questa tendenza: esso è relativo e tale resta, almeno nella attuale cultura occidentale, eppure i due giudizi sono un medesimo giudizio, che, più cor- rettamente dovrebbe essere definito solo giudizio estetico12. Per continuare ora la marcia verso il diritto estetico si devono svolgere alcune considerazioni intorno al diritto. Non si tratta certo di aspirare ad una compiuta definizione di diritto, che ha affaticato vanamente genera- zioni di giuristi, quanto piuttosto di estrarne alcuni caratteri, che possono evidenziarne la natura. Kelsen individua chiaramente due aspetti diversi, ma fondamentali, del diritto: la validità e l’efficacia. 11 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 49. 12 “[...] quello che vale per i giudizi di valore sensoriali e estetici vale anche per quelli morali, di cui fanno parte quelli politici e sociali”. Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit., pp. 452-453.La possibile indipendenza della validità della singola norma giuridica dalla sua efficacia indica nuovamente la necessità di distinguere con chiarezza fra i due concetti13. La validità attiene alla vincolatività giuridica della norma, l’efficacia, invece, alla sua capacità di manifestarsi nella realtà operativa umana. La validità appartiene al mondo delle convinzioni, mentre l’efficacia a quel- lo dell’empiria. Efficace è una norma che viene applicata da coloro cui è diretta, rivolta; valida è una norma che viene considerata appartenente all’ordinamento giuridico vigente, ossia in essere in un certo luogo e tempo (si tratta sempre di convinzioni personali). In entrambe i caratteri la realtà, tuttavia, non può essere tralasciata: è evidente per l’efficacia, ma è altret- tanto evidente anche per la validità dell’ordinamento giuridico, che o si impone o non si impone come efficace. Come è impossibile nella determinazione della validità di astrarre dalla re- altà, così è anche impossibile di identificare la validità con la realtà. [...]. Nel senso della teoria qui sviluppata il diritto è un determinato ordinamento (od organizzazione) della forza14. Il diritto, dunque, si presenta sia come valore (validità), sia come forza (efficacia), ma anche la validità a livello di ordinamento giuridico, ossia di cambio di regime politico o sociale, si riduce ad efficacia, in breve, a forza. Certo, la validità cerca di pilotare l’attenzione verso il giudizio di valore, verso il dover essere, verso la vincolatività, verso la doverosità, ma il depi- staggio non è sufficiente a far scomparire la forza, la violenza (sanzione), come principale carattere identificativo del diritto. È al vincitore che appartiene il vinto, con la sua donna e i suoi figli, i suoi beni e il suo sangue. La violenza è il primo fondamento del diritto, e non c’è diritto che nel suo fondamento, non sia tracotanza, usurpazione, prepotenza15. La forza del diritto è, dunque, mera forza bruta, mera violenza, alla qua- le è difficile resistere, senza subire gravi danni materiali. Il mito dell’ob- bligo giuridico, della doverosità, prima, morale e, poi, anche giuridica, non descrive fedelmente il fenomeno diritto, ma lo cela dietro un immateriale velo di spontanea subordinazione, di impegno interiore, che poco o nulla esprime del reale. Nel dover essere la fantasia imperversa libera da qualsia- 13 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 104. 14 H. Kelsen, op. cit., pp. 101-102. 15 F. Nietzsche, Verità e Menzogna, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 103 si vincolo empirico verso poli opposti di intensità, che vanno da una razio- nalità morale dubbiosa, moderata e tollerante ad un integralismo fanatico ed intollerante, e di qualità, di contenuto variegato e molteplice. Sia i giuristi che i filosofi sono perfettamente consapevoli del fatto che la forza vincolante del diritto non è un elemento del mondo spazio-temporale che li circonda, del mondo empirico. L’ovvia conclusione a cui dovrebbe portare tale constatazione è che la forza vincolante esiste soltanto nell’immaginazione degli uomini. Ma la convinzione della sua esistenza reale è talmente radicata che una simile idea non è stata quasi mai formulata. Al contrario la nozione di forza vincolante intesa nel senso tradizionale ha continuato, e continua tutto- ra, a costituire una della assunzioni fondamentali di tutte le teorie giuridiche correnti16. Il diritto è l’organizzazione della forza operata dal gruppo sociale domi- nante, sia esso politico, economico, etnico, religioso od anche solo mag- gioritario; neppure la democrazia, infatti, è estranea a questo contenuto del diritto. Pertanto, la burocrazia, come organizzatrice di questa forza, svolge un ruolo dominante nel diritto, anzi, il diritto come procedura, come applicazione procedurale e processuale è burocrazia, tecnica buro- cratica con tutti i problemi disumanizzanti, che sono già stati evidenziati nel rovesciamento della tecnica da mezzo a fine. Anche il diritto rischia e talvolta subisce tale rovesciamento. Basti pensare al detto latino: Fiat ius et pereat mundus. Il diritto, secondo questo broccardo, deve trionfare in quanto tale, costi quello che costi; si presenta come un imperativo cate- gorico di kantiana memoria, che ha perso la sua funzione di trattamento dei conflitti sociali17 e si è trasformato in un valore assoluto, metafisico, da mezzo è diventato fine. Non si tratta, dunque, di descrivere il diritto quale si vorrebbe che fosse, ma di attenersi rigorosamente al diritto quale esso effettivamente è nella realtà umana. In questa direzione il diritto si manifesta come l’espressione di una preferenza individuale, che, sommata ad altre preferenze individuali omogenee, riesce a raggiungere un punto critico di forza, a produrre una forza dominante, sulla base della quale si impone nel contesto sociale e si organizza secondo il modello burocratico. Questa scelta personale, spesso detta ideologica, altro non è che una prefe- renza estetica del soggetto, che risponde alla domanda: mi piace o non mi piace? L’organizzazione, che ne deriva, dunque, in nulla si discosta dagli stili e dai canoni estetici, che hanno accompagnato l’essere umano lungo 16 K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano 1967, pp. 9-10. 17 Cfr. V. Ferrari, Funzioni del diritto, Editori Laterza, Roma-Bari 1987. la storia nelle sue avventure culinarie, musicali, letterarie, architettoniche, pittoriche, scultoree, etc.. Non casualmente, infatti, non solo il nichilismo giuridico ha fatto la sua comparsa all’orizzonte delle nostre società con- temporanee, ma anche i modelli, le regole, i canoni, gli ordini estetici, con la modernità, sono precipitosamente tramontati. Il nichilismo si converte, a parte subjecti, in solipsismo giuridico. Il diritto è scelto da me; accettando l’inizio, anche accetto le procedure, con cui si svolge l’intero ordine di norme. Scegliendo l’inizio di un regime democratico accetto il criterio della maior pars, e procurerò di scendere nel conflitto e di inserirmi in una od altra delle forze in campo18. Il solipsismo è l’essenza stessa del nichilismo; la piena consapevolezza dell’autonomia individuale umana19; il riconoscimento dell’irriducibilità del soggettivismo ad oggettività; la constatazione che l’individuo è il referente ultimo ed indiscutibile di qualsiasi scelta. L’individuo osserva se stesso e, senza la duplicazione del mondo, resta solo con se stesso, con le proprie speranze, con le proprie opinioni, con il proprio senso estetico, ma anche con le proprie angosce e con un profondo senso di impotenza, che certo non riesce ad essere compensata dalla volontà di potenza insita nel nichilismo. Non deve stupire che il nichilismo ed ancor più il nihilismo dei valori terrorizzi i gruppi sociali dominanti. Sono, infatti, essi che governano più facilmente, velando la forza ed il potere con lo strumento del dover essere etico, morale e giuridico, che riescono a meglio celare i propri interessi e le proprie preferenze estetiche sotto una parvenza di universalità, di bene comune, di giustizia oggettiva. [...] la teoria del nihilismo dei valori è altrettanto pericolosa quanto alcuni secoli orsono lo è stata la nuova immagine astronomica del mondo, e cento anni fa la teoria genetica e a suo tempo ogni rivoluzionamento delle rappre- sentazioni abituali. A lungo andare tale pericolosa verità non potrà rimanere celata; gradualmente si imporrà, e sarà pericolosa soltanto nella misura in cui durante un periodo di transizione provocherà disorientamenti passeggeri. Con il graduale adattamento degli atteggiamenti pratici di vita alla nuova visione teorica il pericolo verrà superato. Per ciò che concerne in particolare l’incom- bente pericolo del nihilismo dei valori, di una disgregazione morale, io non riesco a vederlo. Nessun nihilismo dei valori potrà far sì che il nostro standard 18 N. Irti, Nichilismo giuridico, cit., p. 139. 19 Cfr. V. Frosini, L’ipotesi robinsoniana e l’individuo come ordinamento giuridico, in Sociologia del Diritto, 2001/3, pp. 5-15. morale sia più disgregato di quanto già non lo sia a causa dello scisma delle rappresentazioni morali20. La Grande Divisione di Hume si trasforma, come si è visto preceden- temente, facendo cadere il termine giudizi di valore e sostituendolo con il termine giudizi di estetica. Ciò produce un certo vantaggio nel campo della tolleranza, poiché è a tutti noto e da quasi tutti accettato che i gusti sono personali e non discutibili (de gustibus non est disputandum), per- tanto non ha senso affaticarsi a convincere gli altri della maggiore bontà dei propri gusti, della bontà dell’arrosto piuttosto che dello stufato o del bollito, della bellezza dello stile architettonico romanico piuttosto di quel- lo gotico o barocco. Il soggettivismo appare in tutta la sua sfrontatezza e taglia la strada a qualsiasi tentativo di oggettivizzazione. Ma ciò vale tanto per il prossimo, quanto per il soggetto medesimo e questo fatto (si tratta di un fatto l’origine personale dei giudizi) mina alla radice ogni presuntuosa pretesa di verità assoluta. Solo l’ottusità cerebrale potrà consentire con- vinzioni personali certe ed intolleranti delle, altrettanto possibili quanto le nostre, scelte e ragioni estetiche altrui. Il nichilismo ha in parte contribuito a costruire questa strada ed in altra parte ne è la conseguenza. Il nihilismo, poi, ne è lo sviluppo logico più radicale, ma anche più concreto e coerente. L’inesistenza fattuale, oggettiva dei valori non poteva più trovare pudica copertura nell’ipotetica equivalenza di qualsiasi valore. Il soggettivismo non produce tante oggettività diverse, non produce alcuna oggettività. Il soggettivismo, se rende il soggetto consapevole dei propri limiti, dovreb- be guidarlo anche verso una revisione critica delle proprie convinzioni, prima che verso la censura delle convinzioni altrui. Il nihilismo non è né caos, né arbitrio capriccioso, ma semplice consapevolezza dei propri limiti conoscitivi e questi limiti, nella loro varietà, forniscono il panorama del multicolore teatro umano. La pazzia è una forma particolare dello spirito e aderisce a tutte le dottrine e le filosofie, ma ancor più alla vita di ogni giorno, poiché la vita stessa è colma di follia ed è sostanzialmente irragionevole. L’uomo aspira alla ragione solo per potersi creare delle regole per lui stesso. La vita in sé non ha regole. Questo è il suo segreto, questa è la sua legge sconosciuta. Quello che tu chiami cono- scenza è un tentativo di imporre alla vita qualcosa che risulti comprensibile21. 20 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit., p. 559. 21 C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 227-228. Il diritto come estetica La partita intorno al nihilismo la si può giuocare solo se si considera fuorviante la duplicazione metafisica del mondo; è, infatti, solo nell’ipotesi metafisica che i valori non sono giudizi, ma fatti di una oggettività assoluta, tanto assoluta da essere trascendente. Il dualismo cartesiano, razionale (res cogitans/res extensa), potrebbe anche sussistere, giacché nulla impedisce in via teorica che le scelte estetiche siano frutto di autonoma elaborazione mentale. Intorno al tema del determinismo o dell’indeterminismo, poi, la caduta della categoria del dover essere e della sua sostituzione con il giu- dizio estetico, non muta la prospettiva, che resta come scelta necessaria nel primo caso e libera nel secondo. Evidentemente si avranno due diversi giudizi estetici: l’uno condizionato dal sistema e l’altro espressione della scelta, della preferenza del soggetto singolo. Resta sempre aperto il proble- ma se il soggetto può essere completamente libero da condizionamenti di qualsiasi tipo, a cominciare da quelli culturali, ma questi condizionamenti potrebbero anche essere intesi proprio come i limiti personali, individua- li della conoscenza. Deve risultare ben chiaro che né le ipotesi trascen- denti, né quelle immanenti e neppure il determinismo e l’indeterminismo possono essere sostenuti da verifica/falsificazione empirica; al massimo è possibile affermare che ciò che si verifica empiricamente è empiricamente verificabile: una tautologia, come è evidente. Il nichilismo, tuttavia, viene visto da Nietzsche, e non solo da lui, come un mostro incombente, come una sciagura del nostro mondo occidentale, ma una tale visione negativa appare eccessiva a chi scrive: Pensiamo questo pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza finire nel nulla: l’eterno ritorno. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (il non senso) eterno!22. È bene ripeterlo; il nichilista ed il nihilista dovrebbero mettere in discus- sione le proprie scelte, non le altrui, che rispondono ad un soggettivismo esterno ed estraneo al nostro e, quindi, si presentano insindacabili, in quan- to autonome. L’educazione in questo ambito è destinata a trasformarsi in autoeducazione, in autocontrollo, in autolimitazione, non certo in arbitrio verso il prossimo, sul quale non si potrebbe vantare alcun titolo, come il prossimo non può vantare alcun titolo verso il soggetto agente. Risulta evidente che etica, morale, diritto, sinteticamente, dover essere, in questa cornice risultano privi di senso, ma ciò non significa, che la vita 22 F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2006, pp. 13-14. Il diritto come estetica 107 umana sia priva di senso. Significa soltanto che il senso non è dato, non può essere dato, da valori né morali, né giuridici, ma solo dal soggetto stesso, ammesso che abbia senso interrogarsi intorno al senso di un essere, di un esistere che si presenta come dato ineluttabile, ineludibile, come un dato primo, come una singolarità, si potrebbe dire con espressione propria della fisica teorica. Un diritto estetico è solo espressione di una maggiore consapevolezza intorno alla realtà, non certo di un imbarbarimento dei costumi. Se, infatti, il diritto estetico è mero frutto di una descrizione, come pare che sia, e non di una scelta valoriale, allora già esiste nei fatti, come sostiene chi scrive, e nulla muta nell’averlo smascherato, se non una maggiore chiarezza sul- la natura e i limiti del diritto. Il diritto estetico è un diritto positivo, che non si nasconde dietro né la trascendenza universalistica dello Stato, né la doverosità metafisica della norma, ma prende atto della propria origine arbitraria umana. Del resto è interessante riflettere intorno al fatto che già in epoca romana si discuteva sull’identificazione di ius come ars. L’idea di associare alle artes la conoscenza del ius appare infatti, sia pure di fuggita e in modo concettualmente marginale, in due testi di Tacito e di Gellio, entrambi, curiosamente, riferiti a Labeone [...]. La connessione fra ius e ars era stata infatti, tempo prima, una bandiera [...] degli studi giuridici di Cicerone. Quando Celso scriveva non poteva pensare che a lui23. Naturalmente, all’epoca, il termine ars non corrispondeva all’attuale si- gnificato di opera artistica, tuttavia, nella interpretazione di Marco Tullio Cicerone (106 a. C.-43 a. C.) esso descriveva l’elaborazione di un metodo, di una teoria tecnico-logica universale, di una dottrina razionale. Tale dot- trina, frutto dell’interpretazione giuridica, spostava sulla ragione umana il contenuto normativo e, quindi, consapevolmente o inconsapevolmente il diritto, pur sembrando trasformarsi in una forma di conoscenza e non di volontà, in realtà diveniva una elaborazione dei giuristi, una scelta relativa, arbitraria, soggettiva, come tutte le scelte umane. Nota infatti senza esitazioni Guido Alpa: Un po’ di sano realismo consente di dissacrare i dogmi dell’interpretazione, o, meglio, di strappare il velo dell’omertà su dogmi interpretativi. Questi dog- 23 A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino 2005, p. 385.Il diritto come estetica mi tacitando le coscienze, restituiscono tranquillità al giudice, danno conforto al dottore. Tutti questi schemi o espedienti possono essere considerati per l’appunto schemi o espedienti da parte di altri interpreti, e quindi la linea del lecito e dell’arbitrio tende a spostarsi o a non riconoscersi. Nella più parte di casi essa coinciderà con la linea che la maggioranza degli interpreti dirà essere collocata nella posizione corretta24. Il soggettivismo, di cui l’interpretazione è un aspetto, esprime nel diritto estetico tutta la propria potenzialità delegittimante di Stati, ordinamenti giuridici e norme giuridiche non condivise, ma semplicemente subite. Poiché l’origine dell’autorità, la fondazione o il fondamento, la posizione della legge possono per definizione appoggiarsi alla fine solo su loro stessi, sono anch’essi una violenza senza fondamento. Il che non vuol dire che siano ingiusti in sé, nel senso di illegali o illegittimi. Non sono né legali né illegali nel loro momento fondatore. Eccedono l’opposizione del fondato e del non fondato, come di ogni fondazionalismo o di ogni antifondazionalismo. Anche se il successo di performativi fondatori di un diritto (ad esempio, ed è più di un esempio, di uno Stato come garante di diritto) suppongono delle condizioni e delle convenzioni preliminari (ad esempio, nello spazio nazionale o interna- zionale), lo stesso limite mistico risorgerà all’origine supposta delle suddette condizioni, regole o convenzioni – e della loro interpretazione dominante. [...] il diritto è essenzialmente decostruibile [...] perché il suo ultimo fondamento per definizione non è fondato25. Ancora una volta per discutere del fondamento si deve uscire sia dal soggettivismo, sia, conseguentemente, anche dall’empiria, per entrare in una qualche forma di duplicazione mistica del mondo. L’alternativa, sem- pre possibile resta il nichilismo/nihilismo, ma anche del nichilismo/nihi- lismo si può avere una versione metafisica ed una non metafisica legate alla sorte dell’Essere e dell’Ente: inesistente, il primo, (metafisica come affermazione infondata); in dissoluzione, il secondo, (come espressione empiricamente verificabile/falsificabile). Se l’Essere è inesistente la me- tafisica diviene priva di fondamento, mentre l’Ente, dissolvendosi nel non essere, appartiene al mondo dell’empiria. Tuttavia la dimensione metafisi- ca può anche sopravvivere, monoteisticamente, con un Essere molteplice, 24 G. Alpa, Interpretare il diritto: dal realismo alle regole deontologiche, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), Diritto, Giustizia e Interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 210. 25 J. Derrida, Diritto alla giustizia, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), op. cit., pp. 16-17 Il diritto come estetica 109 ad esempio, nel Cristianesimo, con una Divinità una e trina e, nella Gnosi, con il progressivo alienarsi, decadere del divino nella materia, (in alterna- tiva politeista: con una molteplicità di Esseri equivalenti) oppure con un Ente cristallizzato, che si manifesta immutabile. Ma anche la negazione, il Nulla, se dotato di esistenza, di presenza e non di assenza, vincola alla metafisica. Si sarà già capito che il nichilismo rimane impigliato nella metafisica fino a che, anche solo implicitamente, si pensa come la scoperta che là dove crede- vamo ci fosse essere, c’è, in realtà, il nulla. Così, dove credevamo ci fossero principi della legge c’è solo l’arbitrio del legislatore o dell’interprete, la de- cisione infondata, e per questo essenzialmente violenta, che deve essere resa accettabile dalla finzione delle affabulazioni, o da una accettazione motivata misticamente (nella versione kierkegaardiana del nichilismo). Una definizio- ne non metafisica del nichilismo si può invece formulare richiamandosi all’e- spressione con cui Heidegger caratterizza la storia del nichilismo nietzschiano: nichilismo è la vicenda nella quale dell’essere come tale non ne è (più) nulla. Nichilismo, se non deve (e non può) intendersi come la scoperta che al posto dell’essere c’è il nulla, non può che pensarsi come la storia (senza fine – senza conclusione in uno stato in cui al posto dell’essere c’è il nulla) in cui l’essere, asintoticamente, si consuma, si dissolve, si indebolisce26. Il Nulla è entità metafisica al pari dell’Essere, tuttavia, paradossalmente, tale negazione dell’Essere, del Principio può trasformarsi, capovolgendosi, in affermazione a livello di teologia negativa. Scrive, infatti, Andrea Emo (1901-1983): Il principio. Dobbiamo cominciare con un principio. Ma, nessun principio è definibile od oggettivabile. Dobbiamo dunque cominciare con la rinuncia ad un principio, il che equivale ad una negazione del principio. Ed è appunto questa negazione che è il principio. Il cogito. Come passare da questa negazione alla presenza. Dobbiamo contemplare l’origine della negazione. L’assolutezza della presenza consiste in questo: che essa non è presenza in quanto presenza di qualcosa, ma è presenza per sé, in quanto cioè nega ogni cosa. Nega ogni cosa che non sia la presenza stessa. Il suo essere pura presenza è un essere presenza di... che è un essere presenza di nulla, quindi è un negarsi, appunto perché è un ridurre a presenza27. 26 G. Vattimo, Fare giustizia del diritto, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), op. cit., p. 286. 27 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., pp. 18-19110 Il diritto come estetica La negazione diviene, metafisicamente, affermazione proprio per la sua alienazione da qualsiasi affermazione. Ma questa affermazione negativa della metafisica si distingue dall’affermazione positiva dell’empiria, poi- ché mentre quest’ultima è oggettivata, individualizzata, è parte di un tutto, la prima, invece, è puro soggetto, privo di specificazioni e qualità empiri- che, proprio perché le trascende come puro Essere. In questa logica nega- tiva conoscenza e volontà, pur coincidendo, si connotano come non cono- scenza e non volontà. Ovviamente, l’ipotesi si capovolge nella metafisica positiva, nella quale conoscenza e volontà si presentano come assolute, e scompare nell’empiria, ove la negazione è metamorfosi, ove il nulla è essere altro. Tuttavia anche nella metafisica negativa il nulla sembra sci- volare nell’altro, tanto altro da essere al di là della fisica e della metafisica, ossia del pensiero umano, ma questo altro è a sua volta nulla, almeno per la dimensione conoscitiva umana, che non riesce a comprendere un altro non umano e fatica ad immaginare una nullità, una assenza assoluta. Tornando ora in modo più stretto al tema del diritto, è possibile riassu- mere quanto detto nel seguente modo: se conoscere e volere coincidono a livello metafisico, nella realtà fisica possono sia coincidere (Spinoza), sia non coincidere (volontà di potenza) e lasciare spazio a scelte soggettive. Il diritto, inteso come estetica, consente di non rinunziare al diritto, pur rela- tivizzandolo, e di affidare al singolo soggetto l’adesione o meno al diritto dominante, che in questo modo non rappresenta più una obbligatorietà, ma l’alternativa tra una vita omologata, ma sicura (forse), ed una vita origina- le, deviante, ma pericolosa. La norma estetica può essere obbedita o disat- tesa. Il disattenderla, senza possedere una potenza, una forza sufficiente a piegarla alla propria volontà, significa soccombere alla forza dominante. Disattendere il diritto diviene una scelta come tante altre, della quale si possono subire le conseguenze, generalmente sgradevoli. Il determinismo o la volontà di potenza governano comunque il sistema umano, ma almeno non sopravvive l’inganno di un mitologico dover essere, frutto dell’ulterio- re sdoppiamento nel soggetto che agisce e nel soggetto che guida l’azione. Nichilismo/nihilismo, in sintesi, sono la demistificazione del mondo ed il diritto estetico è ciò che resta del diritto dopo questa demistificazione, che, tuttavia, è solo empirica e, quindi, non può fornire certezze assolute. Ma l’incertezza, il dubbio sembrano proprio essere il sigillo della condizione umana. Infatti, la duplicazione del mondo, dei piani della conoscenza e del- la volontà si presenta come una possibile via di fuga dall’incertezza, dalla solitudine angosciante dell’individuo; ma, al contempo, è anche la misura fisiologica del biologico, della stirpe animale ed umana. La duplicazione, dunque, si manifesta sia come una contromisura psicologica ed artificiale Il diritto come estetica 111 alla condizione umana di assenza di senso esistenziale, sia come naturale moltiplicarsi e perpetuarsi della vita. La singola cellula aliena parte di se stessa, scindendosi in due cellule. Dalla madre fuoriesce per espulsione viscerale la prole. Le scissioni, il sacrificio di parte del proprio corpo per generare il corpo dell’altro è un processo traumatico di riproduzione, che tendenzialmente volge verso l’infinito, salvo eventi esterni ed imprevi- sti, che ne interrompono lo sviluppo. Dall’uno scaturisce per rottura un secondo uno, il due, ed, una volta iniziata la pluralità, automaticamente, sopraggiungono gli altri numeri (3, 4, 5, 6, ..., infinito). Anche l’infinito, come idea, è richiamato da questo processo moltiplicativo, ma, come in matematica, è una duplicazione (finito/infinito) espressione di un processo al limite, che mai si compie, che, per sua stessa natura, non può compiersi, giungere al termine, altrimenti cadrebbe la duplicazione stessa e resterebbe solo il finito. La vita propone la tentazione dell’infinito, ma, subito, infligge la disil- lusione. Ogni duplicazione si presenta come speranza e si accomiata come sconforto. Resta solo un soggetto, della cui identità tutto o quasi si ignora (dell’oggetto, poi, non vi è neppure certezza della sua stessa esistenza), con il proprio sentire incomunicabile se non attraverso l’atto comportamentale. Un sentire percorso da limiti organici, stimoli, motivazioni, giustificazioni, condizionamenti, influssi misteriosi, comandi metafisici, etc., ma pur sem- pre riducibile ad una semplice alternativa: mi piace/non mi piace. Nella solitudine dell’essere è questa l’unica certezza; una certezza dal contenuto vario e variabile, come vari e variabili sembrano essere i singoli soggetti; una certezza che può essere definita estetica. Morris Lorenzo Ghezzi. Morris L. Ghezzi. Gezzi. Keywords: i tordi ubriachi, i tordi, tordo, “drunk as a thrush/newt” turdus ubriacus – sturdy – I tordi -- nihilism about values, Mackie, Inventing right and wrong, Hare, emotivism, Grice, The conception of value, valitum – valore – axiology, stato federale, federazione, fascismo, il fascismo e la autobiografia d’Italia – Gobetti – statocentrale – diritto – diritto naturale e diritto artificiale – assiologia, codice valoriale, fierezza, onore, massoni, bruno, Alighieri, conte Cagliostro, bobbio, nihilism, nichilismo, pena e castigo, Beccaria, delitto, delinquent, delinquenza, devianza, diritto come estetica. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghezzi: l’implicatura del tordo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Ghisleri – atlante filosofico – federalismo contrarivoluzione – lo stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cascina Sant’Alberto). Filosofo. Grice: “Whereas to many, Ghisleri’s best work is that on Ancient Rome and counter-revolution, I treasure the details: ‘the pen is like a sword’ – ‘the pen and the sword.’ “The pen is my sword.’ Note that the first is a mere simile – as used by Ghisleri, but his executor turns it into a metaphor just by eliding the ‘like’ (“come”). Grice: “I like Ghisleri – a typical Italian philosopher; wrote on geography, on ‘la penna d’oca,” and a fabulous history of Roman philosophy!” --  “He was into politics, too!” L'Italia non è studiata, non è conosciuta dagli italiani. Dobbiamo rifare la nostra educazione politica e civile sulla base di una nuova e più razionale conoscenza del nostro paese. Dobbiamo studiare l'Italia regione per regione nella natura del suolo, nella sua topografia, ne' suoi prodotti nelle sue industrie, ne' suoi dialetti, nelle sue tradizioni, nelle sue varie necessità politiche e sociali.” Fonda La Società dei Liberi Pensatori (L’'Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno") di chiare simpatie democratiche e repubblicane. Iniziato in Massoneria, l'anno seguente entrò nella Loggia "Pontida" di Bergamo e nel 1906 fu affiliato alla Loggia "Carlo Cattaneo" di Milano.  Ghisleri diede alle stampe una nuova rivista mensile, Cuore e critica, rivolta all'educazione civile e agli studi sociali ed espressione di un'avanguardia intellettuale impegnata nella costruzione di una coscienza repubblicana e progressista. Sorta a Savona, la redazione della rivista si trasferì a Bergamo, in coincidenza con il trasferimento del Ghislèri al Sarpi di quella città. Si dedica con assiduità agli studi di geografia e di cartografia, che aveva cominciato a coltivare quando insegnava a Matera. Allora si era sentito mortificato nel constatare che nelle scuole italiane venivano adottati atlanti stranieri, assai carenti nel trattare la geografia storica dell'Italia. Dopo aver pubblicato il “Piccolo manuale di geografia storica” (Bergamo) volle perciò cimentarsi in un'impresa che non era mai stata tentata: la realizzazione di un testo-atlante che desse il dovuto rilievo all'evoluzione storico-geografica dell'Italia. Al progetto fu interessato lo stabilimento "Fratelli Cattaneo di Bergamo" che, grazie al successo delle iniziative editoriali promosse da Ghisleri, si trasformò in Istituto italiano d'arti grafiche e s'impose nel settore della cartografia. Ghisleri concepì il suo atlante in modo da offrire per una stessa regione molteplici carte e cartine con le denominazioni e le divisioni topografiche proprie di ogni epoca. L'apparizione dell'atlante fu salutata dalle lodi di esperti e studiosi, ma suscitò anche riserve di parte del mondo accademico, che rimproverava al Ghisleri superficialità e la commistione tra la geografia fisica e la storia dei popoli, delle civiltà, delle esplorazioni, dei commerci. Commistione del resto ricercata dal Ghisleri che, in polemica con il tradizionale approccio alla geografia e senza sentirsi condizionato dai limiti angusti dei programmi scolastici di allora, perseguiva metodi nuovi nello studio e nell'insegnamento della materia. Tenne la cattedra di filosofia nel Liceo di Lugano. Giornalista, fu direttore di «La geografia per tutti» e «Le comunicazioni di un collega».Di idee mazziniane, recepite soprattutto nella versione che ne proponeva Saffi, in campo politico fu vicino ai movimenti rivoluzionari e collabora con Gaudenzi alla fondazione del Partito Repubblicano Italiano. Tuttavia Ghisleri non fu un ideologo sistematico: una sistematizzazione del suo pensiero è soprattutto opera di Conti.  Diresse la rivista Preludio di stampo filosofico positivista e progressista. Diresse L'Italia del popolo.  Al Congresso del Partito Repubblicano, tenuto a Forlì, intervenne con una relazione su La questione meridionale e la sua logica soluzione. Demofonti, La riforma nell'Italia del primo Novecento: gruppi e riviste di ispirazione evangelica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Vittorio Gnocchini, L’Italia dei Liberi Muratori, Milano-Roma, Mimesis-Erasmo. Altre opera: “La Scapigliatura democratica: carteggi” (Pier Carlo Masini,Milano), L'archivio di Ghisleri fu ritrovato da Pier Carlo Masini ed è depositato presso la Domus Mazziniana di Pisa. Democrazia come civiltà. Il carteggio Ghisleri-Conti, Antonluigi Aiazzi, Libreria Politica Moderna, Firenze, Tripolitania e Cirenaica dai più remoti tempi sino al presente, Emporium, novembre, Tripolitania e Cirenaica, dal Mediterraneo al Sahara, monografia storico-geografica, Società Editoriale Italiana, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Le meraviglie del globo esplorato e le zone non ancora conosciute Letture geografiche Società Editoriale Italiana, Milano, Bagdad e la Mesopotamia nel passato e nell'avvenire, Emporium, giugno, Lombroso nella vita intima, Emporium, luglio 1917 L'ultima colonia africana della Germania, Emporium, Atlante scolastico di Geografia moderna astronomica-fisica-antropologica,Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo (a cura dei professori Magg. G.Roggero, G.Ricchieri, A.Ghisleri) Saffi. La vita, gli studi, l'apostolato, Libreria politica moderna, Roma, La questione meridionale nella soluzione del problema italiano, Libreria politica moderna, Roma, “Testo-atlante di geografia storica generale e d'Italia in particolare, espressamente compilato per le scuole italiane conforme ai loro programmi- I Mondo Antico; II Storia Romana; Fratelli Cattaneo e poi Istituto di Arti Grafiche, Bergamo. Medio Evo, Evo Moderno e contemporaneo Atlante d'Africa, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Antipode, a Radical Journal of Geography, Berardi, Verso un nuovo Risorgimento. Il Carteggio tra Ghisleri e Belloni, Acireale-Roma, Bonanno, Dizionario biografico degli italiani,  L'Italia risorgimentale di Ghisleri, Milano, Angeli, Aroldo Benini, Vita e tempi di Ghisleri, con appendice bibliografica, Manduria, Lacaita, Tomasi, Scuola e liberta in Arcangelo Ghisleri: con una scelta di lettere inedite dell'archivio Ghisleri, Pisa, Nistri-Lischi, Ghisleri: mente e carattere: L'Italia e la rivoluzione italiana, Milano, Sandron Editore, Treccani. Arcangelo Ghisleri, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere di Arcangelo Ghisleri, su Liber Liber.  Opere di Arcangelo Ghisleri, su openMLOL, Horizons.   ANTROPOGEOGRAFIA.   21. Antiobb oe.sti b vicbndb storiodb DBLL'I-  TAbiA 6RTTKNTRI0NALB. — Avanzi di armi e di stru¬  menti di pietra primitivi, preistorioi (punte di  soioe» epeoie di asole oon.) e poi di bronzo e di  ferro» nonobè avanzi di palafitte, di abitazioni  umane, dei pasti, di oggetti diversi ritrovuti In  più luoghi nel sottosuolo, dimostrano ohe l'Italia  settentrionale fu abitata nelle età più remote,  anohe prima^ del xieriodo storioo, quand'ossa era io    gran parte oooupata da foreste e da paludi. Ma  di oodesci primissimi aoitanti ben pooo» quasi nulla   Allorché si oominotano ad avere documenti sto-  rfoi sulle popolazioni dell* Malia settentrionale  questa si trova abitata in qualche tratto delle  Alpi centrati dai Reti, di stirpe etrusoa» ohe la¬  sciarono il loro nome alle Api Retiohe; ma per  massima parte del resto, sopratutto nel bassopiano  Padano (dove sono attualmente il Piemonto, la  L/)mbardÌa»l'Bmilial» dal OtltioÒollif da ouÌ venne  appunto il nome antico éìOallia ei$alpina. Nella  attuale Liguria, invece» erano i Liguri, ohe si ore-  dono afnni alla stirpo Iberica» e nella parte orien¬  tale 1 Kensff» di stirpe Illirloa, il ouÌ nome sioon-  Borva appunto anohe attualmente.   l Romani più tardi si sovrapiiosoro agli abitanti  e li assimilarono; non oosl però ohe non si distin¬  guano anoora» soprattutto nei dialetti» le tracce  delle antiche genti nel vari oompartimenti. Pinal-  roente nel medio evo avvennero lo Invasioni bar¬  bariche. Ma i Oérmanici invaoori, rolatlvamento  I>oohl di numero» invece di far soomparire ia po¬  polazione vinta, si ooufusoro oon essa» adottan¬  done la piviltà e la lingua o lasoiando di sO ap¬  pena { ricordi in certi nomi (ad es. Lombardia dai  Longobardi).   Nell’800 d. U. Carlo Magno» re del Fronohl, vinti  i Longobardi, fu dal PonteHoe di Roma incoronato  Imperatore Augusto, considerato cioè quale erede  dell'autorità e dei diritti dell'impero Romano  d’Oecidontei il quale, almeno di nome, durò fino  al jprinoipio del 13ii0, vale a diro por diooi seooli.  H}' in baso a tali diritti ohe Carlo .Magno e i suoi  Huooessori pretesero al dominio dell'Italia e spo-  oiulmente deiritalia sottoritrioiialo e della cen¬  trale» mentre 'l' Italia meridionale oontfnuò per  oiroa due seooli a oonslderarsiinolusaneirimpero  d'Oriente» greoo-bisantino. ~ Passata» Uopo raen  di un sooolo, la oorona imperiale dai diretti di-  Noendenti dì Carlo Magno ai ro Germanioi anche  l'Italia settentrionale e oentralo fooe parte del  oosiddetio Sacro Romano Impero della nazione  Germanica e fu divisa in feudi, assegnati ai vas¬  salli dei sovrani tedoaohi. Questi però si trovarono  in lotte continue tanto oói Pontefloi di Roma,  quanto oolle popolazioni» soprattutto delle città;  le quali, cresciute in potenza e rionhezza oon le  industrie e ool oommorol. vollero ornanoiparsi e  governarsi sotto forma di liberi Comuni. Alcuni  di ouosti, oome Milano e le città marittime di Ve-  nesia e di Genova acquistarono, colla libertà» una  importanza e potenza, una gloria e prosperità  sempre maggiore. — Disgraziatamonto. però» le  lotte fra oittà o oitt.à o quello intorno tra lo olassl  scoiali, prepararono la trasformazione dei oomuni  in signorie» e mantonnero l'Italia divisa e mili¬  tarmente debole» proprio nel moatroaldi là delle  Alpi, in luogo del frazionamento dei feudi e del  oomuni, si costituivano doi forti regni unitari e  nazionali» ohe volgevano gU occhi cupidi all’UaHa»  giunta allora al colmo della floridezza eoonomioa  e oivile.   Cosi fu ohe dalla fine del 1400 Tltalia fu Invasa  Uni Franoesi. d.'igli Spagnoli» dai Todesohl. Bonza  ohe gli Stati Italiani opponessero valida resistenza  D'allora In poi soltanto*11 Piemonte sotto la Gasa  di Savoja e la repubblica di Venezia poterono  oonsorvaro la loro indipendenza» mentre 11 diioato  di Milano fu occupato dagli stranieri e anohe gli  nitri stati minori (Ducato di Parma, di Modena,  Murobesato di Mantova eoo.) orano ad essi indiret-  laiuonte soggetti.   Dulia metà del 1500 fin al prlnoipio del 1700 do¬  minò 008 ) nell'Italia settentrionalu la Spagna» a  oiG suooedette l'Austria, mentre una parte d*d-  l'RmiUa (la cosiddetta Romagna» oon Bologna, Ra¬  venna» Ferrara) apparteneva alto stat^/dolla  Chiosa. — Alla flne del 1700 1« rivoluziono Fran¬  cese e quindi l'epoca Napoloonioa portarono anohe  nell'Italia settentrionale grandi mutamenti. Pur  troppo però» il Congresso di Vienna del 1815 as¬  segnò la tradita reptibblloa di Venezia oon la Lom¬  bardia airAustria, mentre la Casa di Savoia ag- U Liguria al Piemoote ed alia Sardegna,  le derivava il titolo del itegno. tla l’e-  rimento per la liberaiione nazionale trovò  nel Piemonte e nell* Italia settentrionale  mtri e focolari maggiori e s’iniziarono le  ria unità e l’indipendenza, l’ultima delle .  tra coronata dalle gloriose vittorie del  li Vittorio Veneto. (Ved. Atl. tav. VI).   22. Sdpbbfioib b popolazionb. — Sopra  una superfloio ohe si può oaloolare, entro  ai oonfiiii fisioi, di circa 132 000 kmq., ha  ora una popolazione che ei calcola di circa  18 700000 di ab.   pi codesta superfloie i oonBni del Regno inelu'  devano finora soltanto lOiUOO km> oiroa, mentre  ora ne inoludono IZ7 000 ; e includevano otre» 16  milioni 0 >/z di ab., mentre ora la popolazione,  per i nuovi acquisti (oiroa 1 milione e i/il o per il  oaturale aumento annuo, si oaloola di oiroa 18 mi¬  lioni.   Tale popolazione tende continuamente  a crescere, nonostante la forte emigrazione  di alcuni compartimenti, soprattutto del  Veneto, del Piemonte e della Lombardia.   La densità dunque dell’Italia Bettentrio-  nale entro ai nuovi oonBni del Regno ri¬  sulta in media 141 ab. per kmc^., mentre  entro ai vecchi confini sarebbe di IBO. L’I¬  talia settentrionale ha perciò una densità  superiore alla media di tutta Italia, che  nei 1921 risultò di I2fj ab. per kmq. ed è  fra le regioni d’Europa più popolose.   La densità tuttavia è inuguale, perohò in certe  province supera 200 e In quella di àlllano arriva  fino a 002 ab, per kmq. mentre in altre e speoial-  mente nelle regioni montuose può soendero a  mono di 60 por kmq. — Oltre a oio 6 da osservare  ohe, aehbeue la popolazione per le indusirie tenda  ad aumentare nello città, anche la popolazione  eparea deU'ltalia settentrionale 6 assai numerosa  e vive in case sparse e in pioooli villaggi, ohe  dànno alle sue campagne un aspetto molto dille-  rento da quello dell’Italia meridionale e della  Bioilia.   Delle città deli’ Italia settentrionale consi¬  derate nella cerchia del comune, una supera  ormai i 700 000 ab-, Milano — una e^cra  già '/; milione, Torino — una supera 300000  ab., Genova — due superano 200 000, —  Trieste e Bologna — una vi s’avvicina,  Venezia — due superano 100000, Padova e  Ferrara, mentre altre due vi si avvicinano,  Brescia e Verona. La popolazione di quasi  tutte le città dell’Italia settentrionale  tende a crescere.   83 Gruppi ni liroua  kazioràlitX btraviera  — Abbiamo già detto ohe nelle valli Alpine Pie¬  montesi (speoialmonte in Val d’Aosta e nelle valli  dpi Valdesi) si parla tuttora franoeee da oiroa SS  mila individui : i quali sono però di eentimenti  nazionali perfettamente italiani. — Ugualmente  legati alla nazionalità italiana sono quelli ohe par¬  lano tetteeoo nelle valli intorno al m. Rosa (Qros-  soney. Alagna, Maougiiaga) oiroa 4mila; — nell'alto-  piano dui Sette Comuni in provinola di Yioenza,  oiroa 3 mila; — e nella Gamia, circa 8 miU. mentre  inve-ie li popolazione tedeso.a dell’Alto Adig^  oompatta nelle valli superiori, oaloolata circa ZOO  mila Individtii.ò stata finora delle piò ostili contro  l'Italia. — Finalmente nel Friuli orientale si tro¬  vavano finora entro i confini del regno oiroa -tO mila    Sloeeni ispnoialmente intorno a Cividale) anoh'essi  nazionalmente fedeli all’Italia : ma oltre ad essi  si trovano Inoluai entro 1 nuovi confini del regno  d’Italia, noi baoino dell’Isonzo, nella otttà e nel re¬  troterra di Trieste, nellTstriao nello Statodi Fiume  oiroa i/i milione di Ulaoi (Sloreni e Croofi) finora  molto ostili agli Italiani.   24. OoOUFàZlONI OBOLI ABITANTI  PBO-  DOTTi - IsTRCzioME. (V’cd. Atl. tav. IX). —  L’agricollura occupa il maggior numero di  abitanti ed ò in più luoghi agricoltura in¬  tensiva, con vigneti (specialmente in Pi^  monte) ed orti e veri giardini per la colti¬  vazione dei fiori (in Liguria), — con campi  ohe dànno un prodotto por ettaro pan a  quello dei paesi più progrediti dollaTerra,  — con risaie (speoialmonte in provinoia  di Novara), — con prati irrigui (mar-  oite) specialmente nella bassa Lombardia,  ohe permettono il girando allevamento del  bestiame e l’industria pel cas«i;?cto (nel Lo-  digiano, come pure nel Parmigiano); — fi¬  nalmente con cana;i«/t, soprattutto nell’E¬  milia, — con la coltura della barbabietola da  zucchero (nell’Emilia, nel basso Veneto e  altrove). Gli olivi dànno copioso prodotto  nella Liguria e i gelsi diffusi in tutto il  bassopiano permettono uno sviluppo della  bachicoltura, che rendo l'Italia unode^aesi  di maggior produzione dellaseta nella'Terra.   La Venezia Tridentina darà all’Italia grande  quantità di tranarneoou i nosoni, oue si trovano uu-  nbe in altri luoghi, ma non eooossivamonte al>-  londanti nulla zona alpina. — La pesca t> fonte  abbastanza importante di guadagni lungo le coste  dell’Adriatico e nelle lagune (ealli di Gomaoohio  eco.); ò pooo frutti fra invece nel mar Ligure.   Ma l’occupazione che subito dopo all’ a-  griooltura ha raggiunto nell’ Italia setten¬  trionale uno 8vilup(K) grandissimo ò Tindu-  sfria nelle sue svariatissime manifestazioni.  Sotto questo riguardo l'Italia settentrionale  supera senza confronto il resto d’Italia e può  gareggiare con le regioni più industriali dol-  Pestero, nonostante la mancanza di mate-  ' rie prime (metalli, carbone, cotone eoc.)o)io  è uno degli ostacoli maggiori alla prosperità  eoonomioa del nostro paese. Alla mancanza  di carbone mal si provvede con le ligniti o  con il poco petrolio dell’Emilia e molto più  efficacemente, invece, ma sempre in modo  inadeguato ai bisogni, con le energie elet¬  triche ottenute dai corsi d’acqua.   Iva le industrie piti importanti e sviluppate sono  quelle metallurgiche o mecoaniohe per fusione e  lavorazione di metalli e fabbrioazione di maooliine,  di automobili, di navi, specialmente a Milano, a  Torino, a Genova e dintorni (8. Pier d’Arena. Sa¬  vona eoo.), a Venezia, a Trieste ed anche in altre  località, come nel Bergamasco e nel Bresciano.   Non meno importanti sono le induatrie teeaili:  soprattutto della eeta, a àlilano. a Como e altrove,  in modo da gareggiare con I piu progrediti paesi  della Terra sotto questo riguardo ; del ootone, pure  nel Milanese e nelle province di Torino, di Novara,  di Como, di Bergamo, di Genova. Por la lana hanno  acquistato fama soprattutto i dintorni di Biella  (prov. di Novara) o di Schio (prov. di VIoenza).   Delle induetrie alimentari ha preso grande svi-    gliingova  dalla qua  foioo mo'  appatj»^  { •uoi 06  ^crre pe  quali fu 5  Piave e d luppo negli ultimi anni quella iJello xùcchero di  barbabietola specialmente nell’Elmilia, nel Veneto  o in Liguria. A (lenora sono anche numerose le  fabbrlohe di pa*r«. R nell'Sìmilia sono (famose le  t alum trix di Modena e di liologna.   Terzo grande ramo d’oootipazione degli  abitanti nell’ Italia settentrionale sono il  commercio e la navigazione ; il primo age¬  volato dalla posizione goograflna, e dalla  rete ormai assai svilupjjata ui strade, e spe¬  cialmente di ferrovie, ohe s’intrecoiano in  tutti i sensi e_ traversano, come abbiamo  veduto, le Alpi e gli Appennini. Ad esse  s’aggiungeranno Io vie d’acqua interne,  specialmente quella Padana.   La navigazione ò occupazione delle pili  antiche per gli abitanti dei litorali della  Liguria o del Veneto, dove sorsero nel medio  evo le più potenti città marinare di quei  tempi. Uenclib superati ormai sulla Terra e  nello stesso Mediterraneo da altri d’altre  regionij i porti di Genova, Venezia e Trieste  gareggiano con i maggiori od è a crederò  furmamente che avranno uno sviluppo  commerciale sempre più intenso.   Por tutte questo ragioni l’Italia setten¬  trionale supera le altre parti d’Italia in  ricchezza e in generale anche nelle varie  formo di vita civile. Wistruzione vi è no¬  tevolmente sviluppata, d’ogni ramo o grado:  gli analfabeti, sebbene pur troppo non  manchino, sono in generalo in numero mi¬  nore ohe altrove, soprattutto nel Piemonte  tu su 100 ab. d’oltre 6 anni), nella Lom¬  bardia (13 su 100) e nella Liguria (17 su    25. Rboio.vi stobiohb b divisioni aumini-  STRATivB. — Come già abbiamo detto, l’I-  tiilia settentrionale si divide in 8 compar¬  timenti 0 regioni storiche : Piemonte. Liqu-  ria ool Nizzardo, Lombardia, Canton Ticino,  che costituisce la parto maggiore della Sviz¬  zera italiana, Venezia propria, Venezia Tri-  dentina, Venezia Giulia con lo Stato di Fiume,  ed Emilia, con la piccola repubblica indipen¬  dente di S. Marino.   Di questi compartimenti o regioni sto¬  riche (delle quali il Canton Ticino o il Niz¬  zardo, oltre a S. Marino, non fanno parte  del Regno d’Italia) diamo qui sotto la su¬  perfìcie e la popolazione, secondo il cen¬  simento del 1921. Si noti, però, ohe tale  superfìcie e popolazione corrisponde alla  somma di quelle delle provinole (che sono  le maggiori oiroosorizioni amministrative  del Regno) ; ma i uonfìni di queste non  sempre corrispondono ni oonfìni fìsici, et¬  nici 0 storici dei compartimenti.   In fìne al volume diamo in una tabella  i dati statistici particolari per le varie pro¬  vinole.   Si noti poi ohe la popolazione che indi¬  chiamo fra parentesi per le varie città nella |    descrizione dei vari compartimenti corri¬  sponde a quella della cerchia del comune,  non del centro principale abitato, che h  la città vera. Tra l’una o l’altra di tali  cifre vi sono assai spesso differenze gran¬  dissime, ohe rileveremo a mano a mano  quando l’occasione se ne presenterà.    Dati statistici relativi alle ragioni  dell’ Italia settentrionale.    Entro 1 nuovi confini politioi e amministrativi.    Superficie   Popol. nel 1921    In km>   assol.   relat.   l’iemonto   29 8b6   3 88S 000   116   Liguria . . . .   S 280   1 S'IO flOO   248   Iximbardia   24 180   S uo ooo   211   Vanesia propria .   28 010   4 2IS OOO   150   Venezia 'Tridentina .   18 800   645 000   47   Venezia Giulia   8 iOO   OiO flOO   103   Emilia . . . .   21 848   3 012 000   138   RepubhItQt di 8. Marino 00   12 OOO   200   Nizzardo ool Principato     di Monaco .   600   200 OOO   290   Svizzera italiana   8 8J0   170 000   43   Dati piò speolfioati,   soprattutto per lo'province.   Si trovano in aopendioo at fasotoolo.     lo - IL PIEMONTE.   r   Confini e nosloni generali. — Il Piemonte (In S  latino ftdemontium, oioO paese > pie’ di monti) si T  può dire all'insrosso limitato a H, a WeaN dalla {  crosta dell’Appennino Ligure e dello Alpioocideu- 1  tuli 0 t'entrali fino alle sorgenti dolla Tooe e al 4  lago Maggioro. Verso R. il Ticino lo divide soloiJ  in parte amministrativamente dalla I.ombordia, <|  perohò a questa appartrngono la Lomellioa o il I  cosi detto Oltrepò Pavese, formante il curioso ou- 4  neo di Bobbio. '4   Pisioaraento ooraprondo: la sona alpina; la pla-iL  nura piemontese da Ounoo ai Ticino, Il paeso ool- J  linose del Monferrato e la pianura di Marengo. Y   Divisione in province. — II Piemonte, di oul /  sopra abbiamo indioato la suporfloie e la popole-'V  alone a>soluta o relativa, ò diviso in t province:  ili Torino (!• per superlicfe e per popolaaione) ohe 'I  abbraooia l'angolo NW del compartimento, cioè   gran parte delie Alpi Ponnlne, tutte le Graie ita- .  liane e parie dolio Cozie, un tratto piano luogo il  Poe le colline sulla destra del fiume; —di Cuneo  (Z» per Slip.. 4* per popolaz.) ohe oooupa l’angolo'  SW ; — di A.le%8andria (4* por sup. o 2» por pope- ’  laz.) por niussima parto formata dal Monferrato;!   — di Novara (»• por sup. e por popola:.) a NE, ,  par.e alpina e parte piana.   Occupazioiij degli abitanti e prodotti. — I vi-,  gneti ^ecialmentc del Monferrato e lo]  risaie aoì Vercellese, dànno i prodotti più  caratteristici del Piemonte. Il quale ha '  grande sviluppo anche industriale a To¬  rino e dintorni (industrie metallurgiche e >  meccaniche), nel Diellese per la tessitura di •  lana, in parecchi luoghi per filatura e les-J  silura di cotone, in Valsesia per cartiere^   Città principali. — Torino 6'20) capitale de l  Piemonte, è per alcuni anni (dal 1881 a j  1885) già capitale del regno d’Italia, o entro]  deU'tilt.i valle del Po e delle relazioni cora-J  meroiali terrestri dell’Italia con l’Buropa oc-1  cidentale à, dopo Milano, la più iniuatriale]  città d’Italia. Si distingua da tutte le^altrej grandi oitt& italiane per la re^olarith delle  vie o le sue costruzioni tuoderno.   Torino Tu oiilU 'Ini risor|;irapnio itahiiiio r pa¬  tri» t' 'lliiKtrl uomini, comi- U ih'ranso, Kali'O, liio-  (mrtl. IVAmifiio e, superiore a tutti. Camlilo (;.i-  yn,,r HiiI rioinn nnlle 41 Kurerir» /> la hasllina ohe  oontiene le tomtie dei re e prinoipi di Casa Barola  flno a Carlo Alberto.   Impila provincia di Torino sono da ricordare an-  oorii: /rrea(12) allo sbocco dolla valle d’Aosta, città  d'orisine romana di notevole importanza storica  _ e Aosta I Mianch'essa d'origine romana e capo-  luogo doila bellissima valle, a oui^dà il nome.   Cuneo (30), allo sboooo delle etrmle dei  passi di Tenda e dell' Argenterà. Sostenne  oon esito felice otto assedi dei Francesi.   Nella sua provincia è Saluteo (16), giàrapoluogo  di un Uarohesato, patria di Silvio Pellioo.   Novara (60), molto commerciante. Sotto le  sue mura avvennero importanti battaglie  nel 1613 e nel 1849. Grande centro di pro-  iluzione di riso.   Nella sua provincia: ttirl/a (13), soprannominata  la àlanohostor d'Italia, per le sue numerose e Ho-  renii industrie. — VtretUi (36), antiohisaitna città  sulla ferrovia Torino-àlilano, in territorio fertilis¬  simo: centro del mercato del riso.   Alessandria (78), fondata dalla Lega Lom¬  barda contro Federico Barbarossa alla con¬  fluenza della Bormida eoi Tànaro, nella  pianti rar di Marengo : ebbe in passato no¬  tevole importanza strategica.   Nella Rum provincia: Asfi (àO), città antichissima,  repubblica dei medio evo; centro vinifero del Pie¬  monte. patria di Vittorio Autori. — Aeaui (15), fa¬  mosa per le sue aocue termali, da cui ha li nome.  — Uanal* Monferrato (35), sulla destra dei Po, già  oapiiale del ducato di Monferrato. Importante centro vinloolo.   2o . LA LIGURIA.   Confini e nozioni generali — La Liguria fl-  slonmente oooupa il versante dell’ Appennino e  delle Alpi Idguri rivolto al mare, arrivando a W en¬  tro I oonfini politioi o amministrativi fino alla valle  della ifoja e ad K verso la Tosoana (Ino alla foce  della .Magra. Etnograficamente però ed anche am-  inliiistraciraraente la Liguriapassa in qualohepunto  al di là della cresta spartiacque. Oonlina perciò  con la Pranoia, oon il Piemonio, por breve tratto  oon la lx>mbardia, in causa del cuneo di Bobbio,  oon l'Emilia e oon la Tosoana.   Divisione In province. — Ni divide in duo pro-  rinoe : di Oenova a E (la maggioro per sup. e  par popol.) e Porto Maurizio a W.   Occupazioni degli abitanti e prodotti. — Suolo  ristretUL moatuoso e naturalmente poco  fertile. Gli abitanti però seppero trarne il  maggior profitto, ooltivandolo a giardini ed  orti, che dànno, per il clima, fiori e legumi  primatiooi, ohe si spediscono in altre re¬  gioni d'Italia od all’estero. Altri prodotti  abbondanti sono : olio, castagne, vino e a-   riimi. Le industrie prinoipali sono quelle   el ferro e dei cantieri navali a Genova, a  S. Pier (l’Arena, a Savona ed alla Spezia;  poi quelle ohiraiebe (zucoherifloi), del co¬  tone, eco.. Ma la riochozza di Genova b  il commercio marittimo, che supera quello  di tutto il resto d’Italia.    Città principali. — Genova (300), sorta nel  punto della costa ligure pili opportuno per  le oornunicazionì ool bassopiano Padano, è  il primo porto e insieme una delle pili belle  citth d' Italia. Edificata ad anfiteatro su per  il monte, ohe salo subito dal mare, manca  di spazio por allargursi ; e le costruzioni  anche per l'ingrandimento del porto furono  assai difficili e costose. Un tempo ora pure  piazp forte ; ora non pili. I molti e son¬  tuosi palazzi le meritarono il nome di Su¬  perba. Decaduta dalla sua prima potenza  e dal suo splendore dal 1600 in poi, riac¬  quistò tutta la sua importanza nel secolo  passato con l’unità d’Italia, oon l’apertura  del oanale di Suez e con i trafori del S. Got¬  tardo e del Sempione. Ora Genova è rivale  di Marsiglia e si sviluppa sempre più, anche  por le industrie Vi nacquero Cristoforo  Colombo e Giuseppe Mazzini.   Nell.a sua (Tovincla: 8. J-Her d’Arma (SOI, ò  quasi un sobborgo di Genova, oon rInoinaM fon¬  derie ed oltloiiio sidertirgioho. — àfaronaiTò), sooon-  deporto della Riviera, molto ingrandito; si può oon-  siderarooome ti porto del Piemonte — Npezia( 90),  pruno porto militaru d'Italia, si trova In fondo ad  un golfo ampio o ben riparato, cinto da ripide mon¬  tagne, o«ronato da forti,e chiuso danna diga a Ror  d'acqua ^sta diventando anche centro industriale.  — Molte altre cittadine minori, amenissime, Af-  bmga, Sestri Levante, lìapallo eoo., sono stazioni  olimatloho di fama internazionale.j   Porto Maurizio (9) è il (piooolo c^oluogo  della provincia a cui dà il nome. E’ diviso  da Oneglia{S) quasi somplioemonte dal tor¬  rente Impero, alla cui foce;fe il piooolo,porto  comune.Nella provinola ben piti imiràrtante oo'me' città  ò S»N RaunlSO), rinomata stazione olimatioa, oome  la Tlolna Bordighera (li), — yentimigiia ò a pojiii'  km. dal oonflna franoese; grande mordalo di (lori.  Arcangelo Ghisleri. Ghisleri. Keywords: atlante filosofico, tavola I, tavola II, tavola III, -storia romana, eta romana – classe V ginnasiale -- storia romana e filosofia, memoria di Cattaneo, rivoluzione con Rensi – Mazzini, mazziniano – lo stato italiano – stato federale – federazione -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghisleri: storia romana e filosofia”– The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giacchè – l’altra visione dell’altro – Barba, Bene, e Fellini antropologo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I like Giacché; for one, he philosophises on theatre, which any Sheldonian should appreciate!” Grice: “Giacché is what I would call a philosophical anthropologist.” Grice:”Giacché has an ability with language: “l’altre vision dell’altro,” for example – difficult to translate, but genial nonetheless, or perhaps genial because uneasily translatable!” – “He has philosophised on spectator and participant, which is conversational in tone – there’s no monologue, but dialogue --.” “He has criticised authoritarian types of performances like traditional teaching which he has compared to religion!” Insegna a Perugia. Si occupa di varie problematiche socio-culturali quali condizione giovanile, devianza, comunicazione di massa, solitudine abitativa, politica culturale. Saggi: Una nuova solitudine. Vivere soli fra integrazione e liberazione, Roma); “Lo spettatore partecipante. Contributi per un'antropologia del teatro, Guerini, Milano, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, L'altra visione dell'altro. Una equazione fra antropologia e teatro, Ancora del Mediterraneo, Napoli, Ci fu una volta la sinistra. Ovvero il silenzio dei post-comunisti, Asino, Roma.  CURRICULUM di Piergiorgio Giacchè (Perugia, 16.04.46), Professore a contratto (incarico gratuito), docente di “Etnologia europea: patrimonio culturale immateriale” presso la Scuola di Specializzazione in Beni demo-etno- antropologici, Università di Perugia, Firenze, Siena e Torino (sede di Castiglione del Lago, PG) - anni accademici TITOLI DI STUDIO E INCARICHI ACCADEMICI Laurea in lettere (indirizzo moderno), con tesi in Etnologia conseguita nell’anno acc. 1969-70 presso l’Università degli studi di Perugia, con voti 110/110 e lode. Abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie nelle scuole medie inferiori - titolo conseguito il 3.2.1973 con voti 100 su 100. Borsa di studio quadriennale (dal 1.11.77 al 31.08.76) per “ricerche nel campo sociale”, usufruita presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia culturale dell’Università di Perugia. Titolare di contratto quadriennale (dal 1.11.77 al 31.10.81) presso la Facoltà di lettere e filosofia della stessa università. Addetto alle esercitazioni presso la cattedra di Etnologia della stessa Facoltà, per gli anni accademici Ricercatore confermato dal 1° settembre 1981 al 28 dicembre 2004, presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia culturale dell’Università di Perugia; in tale ruolo ha condotto seminari, cicli di lezione, moduli didattici e progetti speciali (in prevalenza sui temi della devianza, della condizione giovanile, della società dei consumi e dello spettacolo, dell’antropologia e sociologia del teatro) fino all’anno acc. 1994-95, in cui è divenuto affidatario di un Corso di Antropologia teatrale (unico corso attivato in Italia), riconfermato per tutti i successivi anni accademici. E’ stato altresì docente affidatario del corso di Antropologia culturale presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Perugia, nell’anno accademico 1998-99. Professore associato presso il Dipartimento Uomo & Territorio – Sezione antropologica ; docente di Fondamenti di Antropologia e di Antropologia del teatro e dello spettacolo presso la  Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Perugia, dal 23.12.2004 al 31. 12. 2013. Professore a contratto, docente di Antropologia culturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione della L.U.M.S.A. di Roma – corso per Educatori professionali, sede di Gubbio – anni accademici  Professore invitato, nel quadro del progetto “Socrates”, presso l’Université Libre de Bruxelles - facoltà di Scienze Sociali e di Filosofia e lettere (9 - 27 febbraio 1998); (10 -15 marzo 2000). Visiting Professor presso l’Università di Malta, Facoltà di Scienze della Formazione (23 – 29 aprile 2001). Professore invitato, nel quadro del progetto “Socrates”, presso l’Université Paris VIII – Département d’Etudes théâtrales (7 - 15 dicembre 2000 ; 10 – 20 gennaio 2002; 7 – 9 aprile 2004; 12 – 14 gennaio 2005). Professore invitato dall’Université Paris VIII per un seminario da tenersi presso il laboratorio di Etnoscenologia della Maison de l’Homme – Paris Nord Membro della Commissione per la Procedura di valutazione comparativa per il reclutamento di un ricercatore presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Cagliari, M05X – Discipline demoetnoantropologiche (gennaio – luglio 2002). Docente del Dottorato Internazionale in Antropologia ed Etnologia (A.E.D.E.) – anni accademici 2CONSULENZE, COLLABORAZIONI E ALTRI INCARICHI ISTITUZIONALI Consulente socio-antropologico per alcuni programmi R.A.I. della Sede Regionale dell’Umbria: “Decentramento e sviluppo urbanistico” (15 - 25 ottobre 1979); “Anticamera” (novembre 1980 - aprile 1981); “Aperitivo” (aprile-luglio 1982). Consulente antropologico del Centro Regionale Umbro per le Ricerche Economiche e Sociali, nel 1978 (Ricerca sulla “popolazione reale”). Consulente del Comitato Regionale Umbro Radiotelevisivo e curatore di numerose indagini sul sistema dell’emitttenza locale e sull’ascolto radiotelevisivo ( dal 1978 al 1989). Consulente e collaboratore del Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo di Romagna (edizioni: 1981 e 1982). Consulente e collaboratore del Teatro Studio 3 di Perugia, dal 1981 al 1985. 2  Consulente e collaboratore della 1^ Rassegna Internazionale del Teatro di Strada (Montecelio di Guidonia, 24 - 31 luglio 1982). Consulente artistico e scientifico del festival di teatro, musica e cinema “Segni Barocchi” di Foligno (edizioni 1985, 1986, 1987). Consulente del Teatro San Geminiano di Modena, poi centro teatrale “Dramma Teatri”, dal 1982 al 1995. Consulente e assistente, in qualità di antropologo del teatro per il periodo 27 settembre- 30 ottobre 2013, della rappresentazione teatrale de “La escuela de la escena y la escena de la escuela jesuita en el siglo XVII” a cura di Bruna Filippi, nel quadro del congresso De los Colegios a las Universidades. Las ensenanzas jesuitas y sus relatos cotidianos, organizzato da la Universidad Iberoamaricana de Ciudad de Mexico (Città del Messico, 25-29 ottobre 2013). Membro del comitato scientifico dell’International School of Theatre Anthropology diretta da Eugenio Barba, con sede a Holstebro, Danimarca (dal 1981 al 1997). Membro del gruppo di lavoro internazionale di Sociologia del teatro, con sede presso l’Université Libre de Bruxelles, Belgio (dal 1992 fino al suo scioglimento nel 1995). Membro del gruppo di lavoro della Maison de Sciences de l’Homme (E.H.E.S.S.) “Spectacle vivant et sciences humaines” Membro del comitato scientifico della quinta sezione di ricerca “Créations, Pratiques, Publics” della Maison de Sciences de l’Homme – Paris Nord (dal 2002). Membro del Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare dell’Istituto di Psicosomatica Psicoanalitica “Aberastury” di Perugia (dal 2000). Membro del Comité de Rédaction de “L’Ethnographie. Noveaux objets, nouvelles méthodes. Revue de la Société d’Ethnographie de Paris” (dal 2002). Collaboratore della rivista “Lo straniero. Arte Cultura Società” diretta da Goffredo Fofi (dalla sua fondazione – 1997 – ad oggi); già redattore della rivista “Linea d’ombra” (1982- 1997) e co-direttore de “La terra vista dalla luna” (1995-1996). Collaboratore della rivista “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, diretta da Luigi Monti, dalla sua fondazione – 2010. Membro del Comitato scientifico della rivista trimestrale “Catarsi. Teatri della diversità”, dalla sua fondazione – 1996. Membro del Comité scientifique de la revue trimestrelle “Théâtre Public” (dal 2013) Presidente della Fondazione “L’Immemoriale di Carmelo Bene” (dal 2002 al 2005). Membro della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero per i Beni e le Attività Culturali (dal 2005 al 2007). Membro della Commissione di valutazione dei progetti di cofinanziamento per lo spettacolo – Ministero per i Beni e le Attività culturali. (giugno-luglio 2007). 3  Consulente della Regione dell’Umbria – Assessorato alla Cultura, con l’incarico di ricognizione ed esplorazione del settore teatro nel territorio regionale (luglio 2010 – settembre 2011). Membro della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero per i Beni e le Attività Culturali (dal 2011 al 2013) Membro del Comitato Scientifico della Fondazione Centro Studi “Aldo Capitini” di Perugia (dal 2012). Membro del Comitato scientifico PerugiAssisi, candidata a capitale europea per il 2019. CORSI E SEMINARI DIDATTICI SPECIALI Partecipazione, in qualità di docente, ai seguenti corsi o seminari: • Corso biennale per la formazione di tecnici della ricerca sulle tradizioni popolari nella regione umbra (Perugia, 1974-75). • Primo corso regionale di preparazione e aggiornamento per operatori socio-sanitari impegnati nell’attività di prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza (Bologna, 27 e 28 settembre 1977). • Corso regionale per operatori culturali nel settore del cinema (Orvieto, dicembre 1977 - giugno 1978). • Corso di riqualificazione professionale per operatori audiovisivi: il videotape (Foligno, febbraio-ottobre 1978). • Corso di formazione professionale per i 28 diplomati di scuola media superiore (schedatori) previsti dal progetto di “catalogo unico regionale dei beni bibliografici” (Perugia, maggio 1978). • Corso di formazione professionale per i 46 diplomati di scuola media superiore (ordinatori di biblioteca) previsti dal progetto “sistemi bibliotecari comprensoriali” (Perugia, luglio 1978). • Corso Animatori Q/1 - Seminario sulle comunicazioni di massa (Spoleto, 23 - 26 giugno 1984). • Seminario residenziale “L’Atelier: centro internazionale di ricerche artistiche” (Volterra, 1 novembre - 23 dicembre 1984). • “Soglie: esperienze di confine tra attore e spettatore”, seminario-laboratorio per studenti e insegnanti delle scuole medie superiori (Perugia e Todi, novembre 1990 - aprile 1991). 4  • Corso di Formation Doctorale Esthetique, Sciences et Technologies des arts della Université Paris VIII à Saint Denis (lezioni del 15 e 22 gennaio 1991). • Corso di Scenografia della Facoltà di Architettura e del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università “La Sapienza” di Roma (lezione del 29 gennaio 1991). • “Teatro, gioco, narrazione”, progetto teatrale per insegnanti delle scuole materne (Perugia e Città di Castello, febbraio e marzo 1991). • “L’attore consapevole. Seminario teorico-pratico sull’arte dell’attore” (Fara Sabina, Rieti, 25 - 31 gennaio 1993). • “La società italiana del dopoguerra”. Seminario di aggiornamento per gli italianisti polacchi, organizzato dall’Ambasciata d’Italia, dall’Università Jagellonica di Cracovia e dall’Istituto Italiano di cultura di Cracovia (Cracovia, 20 – 23 settembre 1993). • Corso di aggiornamento A/41 dell’I.R.R.S.A.E. dell’Umbria (Perugia, lezioni del 4 marzo 1994). • Seminario di Antropologia del teatro per gli allievi della Scuola Civica d’Arte drammatica “Paolo Grassi” (Milano, 24 e 25 marzo 1994). • V Corso Universitario Multidisciplinare di Educazione allo sviluppo, “La cultura del confronto”, organizzato dall’Unicef di Roma (lezione del 20 aprile 1995: “Uomini e teatro: culture del mondo a confronto”). • I Corso di aggiornamento sulla didattica del teatro nella scuola - Seminario internazionale su Scuola e Teatro (Marcellina, Roma, 19 - 21 ottobre 1995). • Corso di aggiornamento per insegnanti delle scuole medie superiori della regione Lazio (Roma, novembre 1995 - giugno 1996). • III Corso Universitario Multidisciplinare di Educazione allo sviluppo, organizzato dall’Unicef di Bari (lezione del 28 marzo 1996). • Università del Teatro Euroasiano, sessione dedicata alla “Storia sotterranea del teatro contemporaneo. Solitudine, tecnica, drammaturgia e rivolta” (Scilla, Reggio Calabria, 9 - 16 giugno 1996). • “Le età del teatro. Corso triennale di storia e cultura teatrale” - II anno: Dalla Commedia dell’arte alla Riforma goldoniana - organizzato da Emilia Romagna Teatro (Modena, Teatro Storchi, ottobre - novembre 1966). • Corso Uni-Tea 1997: “Figli della storia e maestri del teatro” (Parma, 5 febbraio - 19 aprile). • Corso d’aggiornamento per docenti e dirigenti di ogni ordine e grado, organizzato dal C.I.D.I. Versilia e dal Provveditorato agli studi di Lucca e intitolato “Letteratura teatrale e scuola” (Forte dei Marmi, 21 - 23 febbraio 1997). • Convegno-seminario “La musa fra i banchi di scuola. Esperienze e modelli di relazione / incontro fra teatro e scuola” (Cervia, 11 - 13 aprile 1997). 5  • Università del Teatro Euroasiano, sessione dedicata alla formazione dell’attore e intitolata “Apprendere ad apprendere” (Scilla, Reggio Calabria, 1 - 8 giugno 1997). • Corso Uni-Tea 1998, “Oplà noi viviamo! Tecniche originarie e tecniche nuove nel teatro d’attore” - seminario interno al Corso di Sociologia dell’Educazione dell’Università di Parma (Parma, 19 marzo 1998). • “Vedere Fare Pensare Teatro, per una formazione dell’educatore teatrale”, organizzato dall’E.T.I., dal Teatro delle Briciole, dal G.S.A Fontemaggiore, dal Teatro Kismet OperA e tenutosi in tre sessioni a Bari (25 - 29 marzo 1998), a Isola Polvese - Perugia (17 - 21 aprile 1998) e a Parma (8 - 12 maggio 1998). • Corso d’aggiornamento per insegnanti degli Istituti medi e superiori su “1968 - 1969. Gli anni della contestazione” (Parma, 24 marzo 1998). • « Sulla verticalità del verso », seminario di e con Carmelo Bene, organizzato dall’Ente Teatrale Italiano (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Criticando criticando. Laboratorio d’analisi dello spettacolo”, organizzata in collaborazione con l’Associazione Nazionale Critici di Teatro (sessione dedicata al Teatro Ragazzi - Bagnacavallo, 4 giugno 1998; sessione dedicata al Teatro di Ricerca - Reggio Emilia 29 giugno 1998. • “I mestieri e le lingue del teatro”, Seminario di autoapprendimento per operatori dell’area penale esterna, organizzato dal Teatro Kismet e dall’Università di Bari, con il patrocinio del Ministero di Grazia e Giustizia (Bari, 2 - 3 luglio 1998). • “Teatro e Carcere: l’esperienza della Compagnia della Fortezza” - conversazione con P. Giacchè e Armando Punzo, in collaborazione con l’E.T.I. (Volterra, 21 luglio 1998). • Ciclo di incontri organizzati dall’Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell’Autonomia (ottobre-dicembre 1998) “Rivelazioni e promesse del ‘68”; relazione su “Il ‘68 e il teatro” (Cagliari, 20 novembre 1998). • “La magia del leggere”, Corso di aggiornamento per insegnanti e genitori della Scuola Elementare “Ciro Menotti”, Villanova di Modena (26 marzo 1999). • Corso di aggiornamento per insegnanti delle scuole elementari del comprensorio Valle Umbria (Foligno, 23 aprile 1999). • “Teatro e Carcere: l’esperienza della Compagnia della Fortezza”, nel quadro di “Maggio cercando i teatri” organizzato dall’E.T.I. (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1999). • “Il verso dannunziano e il concerto d’autore”, seminario con A. Asor Rosa, C. Bene, P. Giacchè (Roma, Teatro dell’Angelo, 24 novembre 1999). • Ciclo di incontri “La parte dello spettatore” (relatore del 1° incontro – Faenza, 22 gennaio 2000). • Corso Uni Tea 2000, “Il teatro come disagio antropologico” (Parma, 27 gennaio 2000) 6  • “Divenire teatro”, incontri su Antonin Artaud organizzati dal Centro Teatro Universitario di Ferrara. Relatore del 3° incontro: “Artaud fatto Bene” (Ferrara, 17 aprile 2000). • “Politica e società nel 2000”, ciclo di incontri di formazione politica (Roma, aprile – giugno 2000). Relatore del 5° incontro: “Minoranze e movimenti nell’Italia del dopoguerra”, insieme a G. Fofi (Roma, 29 maggio 2000). • “Incontri in scena. Per un’indagine sull’antropologia dell’infanzia” (Vicenza, Teatro Astra, 20 ottobre – 24 novembre 2000), organizzati dalla compagnia “La Piccionaia – I Carrara” con la collaborazione dell’Università di Cà Foscari di Venezia. Relatore del 2° incontro: “Antropologia dell’infanzia” (3.11.00). • “L’utopia del teatro vivente. Living Theatre” (Siena, 7 marzo 2001), nel quadro di incontri organizzati dall’Università degli studi di Siena attorno ai “Cinque sensi del teatro. Cinque trasmissioni monografiche sulla filosofia del teatro” (Rai-Pontedera Teatro). • “Strumenti innovativi per favorire l’inclusione sociale”, lezione inaugurale (“Altro è narrare”) del corso organizzato dal Centro Solidarietà di Modena (CEIS) e da Emilia Romagna Teatro (Modena, 19 ottobre 2001). • Giornate di studio per l’inaugurazione della sezione di ricerca “Créations, Pratiques, Publics”, presso la Maison de Sciences de l’Homme – Paris Nord (St. Denis, 23 – 23 maggio 2002). • Conferenza sul Living Theatre, nel quadro del seminario “Maestri del ‘900. Gli uomini e le idee che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo” organizzato dal Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine, 28 gennaio 2003). • Conferenza su Carmelo Bene o delle provocazioni del genio, nel quadro del seminario “Maestri del ‘900. Gli uomini e le idee che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo” organizzato dal Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine, 13 febbraio, 2004). • “Le risorse della diversità”, seminario organizzato da Proteo Fare Sapere e dal Movimento Cooperazione Educativa (Firenze, Educandato SS. Annunziata). • Corso per attrici “Il corpo del testo”, organizzato da Emilia Romagna Teatro Fondazione; docente di Elementi di antropologia e cultura del teatro e spettacolo (30 ore di Antropologia del Teatro nel biennio 2004-2005). • Seminario sulle “Quattro lezioni sul teatro” di Carmelo Bene, organizzato dalla Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene” e dall’Università di Lecce (Lecce, 19 marzo 2004). 7  • Dimostrazione-conferenza “L’attore compositore: Mejerchol’d e la biomeccanica teatrale”, organizzata dal Centro Internazionale Studi Biomeccanica Teatrale (Perugia, 30 aprile 2004). • Quattro giornate di lavoro teatrale: incontri, dimostrazioni di lavoro, spettacoli Pontedera, Teatro di via Manzoni), nel quadro di “Generazioni Festival 2004”, organizzazione e cura della Fondazione Pontedera Teatro. • Seminario dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, “Carmelo Bene. Voir la voix, écouter le visible”, coordinato da B. Filippi e G. Careri (Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art, 8 novembre – 20 dicembre 2004); comunicazione Le Sud du Sud des Saints,, 15.11.04. • “Teatro in forma di libri”, incontri organizzati dal Teatro Due Mondi – Casa del Teatro (Faenza, novembre-dicembre 2004). • “Arte dello spettatore”.Corso di formazione per insegnanti, organizzato dal Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore (Perugia, Teatro Sant’Angelo, novembre 2004 – aprile 2005). • Seminario orientativo sul settore spettacolo, organizzato dalla Fondazione Emilia- Romagna Teatro nel quadro della Laurea specialistica “Progettazione e gestione di attività culturali” della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Modena (lezione del 17.3.2005). • Seminario di studio nel quadro della Mostra “Carmelo Bene. La voce e il fenomeno. Suoni e visioni dall’archivio”, organizzato dalla Fondazione L’Immemoriale e dal Comune di Roma (Casa del Teatri-Villino Corsini, 29 aprile – 26 giugno 2005); comunicazione L’ultimo Bene. La verticalità del verso, 7.5.05. • Incontro seminariale “Parole chiave per il teatro” (Lecce, 22 ottobre 2005), organizzato dai Cantieri teatrali Koreja. • “Un’antropologia della memoria” Conferenza dibattito sul libro di C. Severi Il percorso e la voce (Perugia, Palazzo dei Priori, 23 novembre 2005). • Corso “Salute mentale, Antropologia e Teatro: confronto su un’esperienza di pratica laboratoriale” (Perugia, Parco di S. Margherita, Padiglione Neri, 13.12.2005), organizzato dal Centro di Formazione della ASL 2 di Perugia. • “Pasolini antropologo” (Gubbio, Biblioteca Comunale Sperelliana, 17 dicembre 2005), nel quadro del ciclo di incontri “Pasolini e la nuova barbarie. Conversazioni su un testimone del nostro tempo” organizzato dal Comune di Gubbio (dicembre 2005 – aprile 2006). • “Atelier intensif S.P.O.T. (Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre)”, organizzato nel quadro del Master Europeen conjoint en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université Libre de Bruxelles e organizzato dalla Universitad de La Coruña - Spagna (6 – 18 febbraio 2006); docente di un corso di 15 ore di Antropologia teatrale. 8  • “Teatro come impegno civile”, seminario-incontro con Marco Paolini organizzato dai Cantieri Teatrali Koreja (Lecce, 10 giugno 2006) • Laboratorio di ricerca interdisciplinare – Quello che ci fa la vita che facciamo, nel quadro del “50° Seminario di Louis Chiozza”, organizzato dall’Istituto di Psicosomatica “Aberastury” e dalla Scuola di specializzazione in Psicoterapia psicoanalitica di Perugia (Città di Castello, Palazzo Vitelli, 22 febbraio 2007). • “Quadri concettuali per l’analisi del sistema cultura – Seminari di studio”, organizzati dalla Fondazione Mario Del Monte di Modena (febbraio – aprile 2007); comunicazione su L’antropologia e il “teatro” della cultura (Modena, Teatro delle Passioni, 29 marzo 2007). • “L’ultimo Bene”, conferenza-lezione nel quadro delle attività didattiche speciali della Fondazione Accademia di Belle Arti di Perugia (Perugia, 17 maggio 2007). • Seminario di studio “Economia della cultura, sviluppo umano e politiche culturali”, a cura del CAPP (Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche), Modena, ottobre 2007- gennaio2008; comunicazione su La domanda di teatro. Una prospettiva antropologica (Modena, Facoltà di Economia, 17 dicembre 2007). • S.P.O.T. II (Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre) “Espectàculos y dialogo entre culturas: La adaptacioòn y la escena”, organizzato nel quadro del Master Europeen conjoint en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université Libre de Bruxelles e organizzato dalla Universitad de Sevilla - Spagna (28 gennaio – 8 febbraio 2008); docente di un corso di 8 ore di Antropologia del teatro e dello spettacolo. • Laboratorio Interculturale di Pratiche Teatrali (III edizione in collaborazione con l’International School of Theatre Anthropology, organizzata dal Teatro Potlach, Fara Sabina (Rieti), 13 – 26 ottobre 2008); comunicazione su L’antropologia dello spettatore, 14.10.08. • Seminario – Convegno “Omaggio a Carmelo Bene” (Centro Teatro Ateneo – Dipartimento Arti e Scienze dello Spettacolo dell’Università “La Sapienza” di Roma, 12 – 14 novembre 2008); Prologo al seminario e comunicazione dal titolo A scuola da Bene, 12.11.08. • “Il potere di tutti. Conversazione su Aldo Capitini” (Perugia, Sala Miliocchi, 14 febbraio 2009), organizzata dall’Associazione “Vivi il borgo”, dalla Società Operaia di Mutuo Soccorso e dalla Fonoteca Regionale “O. Trotta”. • Giornata di studi “La religione dell’educazione. Don Milani e Aldo Capitini”, organizzata dalla L.U.M.S.A. di Roma, Facoltà di Scienze della Formazione (Roma, Aula “Edda Ducci”, Piazza delle Vaschette, 1° aprile 2009). • Seminario “Migrazioni. Prospettive etnografiche sullo Stato italiano”, organizzato dal Dipartimento Uomo & Territorio – sezione antropologica (Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Palazzo Manzoni, 16 aprile 2009). 9  • “Voler Bene al cinema. Omaggio a Carmelo Bene” (Bellaria, Cinema Astra, 4 giugno 2009), nel quadro di “Bellaria Film Festival 2009. • Seminario interdisciplinare su: “Grotowski e la ricerca invisibile” (Perugia, Istituto Aberastury, 20 giugno 2009. • “Bruciare la casa“, incontro-colloquio con Eugenio Barba (Isola Polvese (PG), 8 settembre 2009), nel quadro di “Terre di confine. Lo spazio del teatro”, progetto a cura di Linea Trasversale. • Séminaire doctoral collectif - Centre d'Etudes Féminines et d’Etudes de Genre/ CRESPPA-GTM : « Théâtre du genre : production, performance, spectacle » (Parigi, CNRS , 4 dicembre – comunicazione su “Travestissement à théâtre: masculin, féminile ou neutre? “). • Séminaire “SPACE-Supporting Performing Arts Circulation in Europe “- Session Paris (ONDA, Paris, 3 – 6 février 2010), Comunicazione “Europe Toolbox: quelle boîte pour quels outils?” • “Cinema e teatro non si incontrano mai, se non all’infinito” (Bergamo, 17 febbraio 2010) incontro seminariale nel quadro de “Il teatro vivo. Introduzione al teatro contemporaneo: Corso di Alti Studi Teatrali – XI edizione, 2009-2010”, organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo. • “La Festa nelle culture dei popoli: criteri di autenticità” (Gubbio, 19 marzo 2010), nel quadro del ciclo di incontri “La Festa nella Festa dei Ceri”, per la celebrazione del 850° anniversario della morte di S. Ubaldo. • Introduzione e partecipazione al XI Seminario Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury su “La vocazione minoritaria”, condotto da G. Fofi (Perugia, 14 maggio 2010). • Incontro seminariale su “Lo spettatore partecipante” nel quadro del progetto “Paesaggio con spettatore” a cura di R. Vannuccini e organizzato da ArteStudio per il Festival dei Due Mondi – Spoleto 53 (Spoleto, Palazzo Comunale, 25 giugno 2010). • Coordinatore del IX Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury “Dialogo con Sctutatori d’anime di Carlo e Rita Brutti” (Assisi, 23 febbraio 2011). • Incontro-conversazione “Radicalism: Piergiorgio Giacchè speakes about Carmelo Bene with Dora Garcia” (Venezia, Padiglione Spagnolo della Biennale Arte, 4 giugno 2011), nel quadro della performance THE INADEQUATE: ogni giorno un artista in scena (Padiglione spagnolo, 54th International Art Exibition – Venice Biennale, 1 giugno - 27 novembre 2011). • Relatore e conduttore del XIII Seminario Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury su “L’anima del mondo viene prima del mondo dell’anima? (Perugia, 11 giugno 2011). • Dialogo teatrale – incontro tra un antropologo e un avvocato su Teatro Trattamento Carcere, nel quadro di “Stanze di teatro in carcere 2011. Rassegna intinerante di Teatro Carcere in Emilia Romagna” (Modena, Teatro delle Passioni, 29 ottobre 2011). 10  • “La congiura della creatività”, seminario pubblico con P. Giacchè e R. Sacchettini, organizzato dal collettivo Nevrosi (Agliana, PT, Teatro Il Moderno, 28 gennaio 2012). • Incontro con Marc Augè in dialogo con Piergiorgio Giacchè, organizzato dal Circolo dei lettori di Perugia (Perugia, Sala dei Notari, 29 marzo 2012). • Incontro con Piergiorgio Giacchè e Giuseppe Di Leva (Piccolo Teatro Grassi di via Rovello, Milano, 12 luglio 2012), nel quadro di “Visioni di Bene. Voce, teatro, cinema, televisione secondo Carmelo”, Milano, 12 – 15 luglio 2012. • “Memorie del sottosuolo. Il teatro raccontato da spettatori speciali: Piergiorgio Giacchè su Carmelo Bene” (Giardino del MUSAS, Santarcangelo di Romagna, 13 giugno 2012), nel quadro di Santarcangelo 12 – Festival Internazionale del Teatro in Piazza – 13-22 luglio ’12. • “Raduno degli artisti della scena: Punctum e tempo, dalla fotografia alla scena”, incontro seminariale a cura di Claudio Morganti, organizzato dal Teatro Metastasio Stabile della Toscana, nel quadro del festival “Contemporanea 12: le arti della scena” (Prato, spazio Magnolfi, 6 ottobre 2012). • Incontro-Lezione – TITOLO - per il seminario residenziale Università Elementare de Gli asini nel quadro di “Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia aprile 2014) • Seminario su “La parabola dell’animazione teatrale” nel quadro della seconda edizione della Summer School di Arti performative e Community care (Carpignano Salentino, 20 – 29 agosto 2013). • Incontro con Piergiorgio Giacchè e Alessandro Leogrande condotto da Giovanna Casadio, intitolato Vizi privati e pubbliche virtù, nel quadro della decima edizione del “Festival Lector in fabula: Privato, Pubblico, Comune” Conversano, 11-14 settembre 2014 (Conversano, BA, Auditorium di San Giuseppe, 12 settembre 2014). • Conferenza Orizzonti e vertici del “viaggio del teatro” nel quadro della XVII edizione de “IL TEATRO VIVO. Progetto di promozione e diffusione del teatro contemporaneo”, organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo (Bergamo, 5 dicembre 2014). • Conferenza Dal Living Theatre all’Odin Teatret, nel quadro di “Effetti collaterali. Ciclo di incontri per la formazione degli operatori e del pubblico”, organizzato dal Teatro di Sacco di Perugia (Perugia, Sala Cutu, 18 dicembre 2014). • Incontro-Lezione “Essere giovani, essere attori” (Pistoia, Piccolo Teatro Mauro Bolognini, 11 aprile 2015) per il seminario residenziale Università Elementare de Gli asini “La cultura di massa dall’emancipazione all’alienazione”, nel quadro di “Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia 9-12 aprile 2015). • Corso residenziale “Si deve, si può. Ruolo delle minoranze etiche tra globale e locale” - primo modulo Dove va il nondo? Analisi del presente: il globale e il locale (Lamezia Terme, 3-4-5 luglio 2015); Progetto Spring organizzato dalla Comunità Progetto Sud in collaborazione con le riviste Gli asini e Lo straniero. Relazione: “La mutazione antropologica: dal locale al globale e ritorno”.  11  • Corso di formazione per docenti presso l’Istituto Omnicomprensivo “D. Alighieri” di Nocera Umbra (PG): intervento formativo di due ore sul tema “Giovani Oggi” (1° aprile 2016). • Corso d formazione per docenti “Teatro come cultura delle differenze”, organizzato dal 1° Circolo didattico di Marsciano (PG) e dal Teatro Laboratorio Isola di Confine; conferenza “A scuola da Pinocchio” (Marsciano, Sala E. De Filippo, 14 giugno 2016). Curatore e ideatore dei seguenti progetti o seminari speciali: • “La casa de l’Odin”, Ciclo di conferenze sulla cultura teatrale e sull’antropologia del teatro (Valencia, Barcellona, Castellon e Madrid, marzo - aprile 1983). • “Apriamo un salotto: appuntamenti di restaurazione culturale” - tre cicli di conferenze sulle attività e sulla politica culturale (Perugia, marzo - giugno 1984). • “Storia & Geografia. Corso effimero di educazione permanente” - cinque incontri dedicati a Gabon, Germania, Iran, Argentina e Umbria, per favorire l’integrazione degli studenti stranieri (Perugia, febbraio - maggio 1985). • “La parte dell’altro. Teatro ed esperienze antropologiche” - ciclo di conferenze e seminario conclusivo con E. Barba (Perugia, febbraio - aprile 1989). • “Altro e Teatro” - ciclo di conferenze e relazioni di ricerca sugli ambiti contigui al teatro (Perugia, febbraio - maggio 1990). • “L’età dell’oro. Per un teatro giovane” - incontri e discussioni fra giovani gruppi teatrali (Parma, 17 - 20 aprile 1994). • “Il primo giorno. Scuola di teatro a scuola” - convegno/laboratorio sul rapporto tra il teatro nella didattica scolastica e la pedagogia del teatro (Parma, 5 - 8 novembre 1997). • Coordinatore del seminario “L’infanzia ritrovata. Lo sguardo dell’artista nel presente che muta” (Parma, 14 gennaio - 25 marzo 1999), all’interno del Corso Uni-Tea 1999. • Coordinatore del seminario laboratorio “Curare gli affetti. Il teatro come legame sociale. Un percorso tra luoghi e non luoghi” (Parma, 27 gennaio – 6 aprile 2000), all’interno del Corso Uni-Tea 2000. • Curatore (assieme a G. Fofi) del ciclo di incontri “L’arte contro lo stato. Lo stato delle arti” (Santarcangelo di Romagna, 8 – 16 luglio 2000), nel quadro del XXX Festival “Santarcangelo del Teatri”. • Curatore (assieme a F.Orlandi) del Corso di aggiornamento per insegnanti della Scuola Media Superiore “Oralità, Narrazione, Teatro: In Principio era il verbo”, organizzato da Emilia Romagna Teatro – Fondazione (Modena, Teatro delle Passioni, 26 gennaio – 23 marzo 2006). • Curatore (assieme a S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontri video spettacoli con il Teatro delle Albe”. (Spello, Palazzo Comunale e Teatro Subasio, 16 – 17 maggio 2006), organizzato dal Teatro stabile di innovazione “Fontemaggiore” di Perugia. 12  • Coordinatore (assieme al prof. L. Mango) del Laboratorio di osservazione dello spettacolo contemporaneo, nel quadro del Festival Internazionale ESTERNI (Terni, 20 – 30 settembre 2006). • Curatore (assieme a S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontro con Santagata o Morganti” (Terni, Officine Ex-Siri, 22 – 25 settembre 2007), organizzato dal Teatro stabile di innovazione “Fontemaggiore” di Perugia nel quadro del festival Es-Terni 2007. • Ideatore e curatore di “Bene Detto. Oratorio e Laboratorio sull’arte di Carmelo Bene” (Oratorio: Mondaino (RN), 1° settembre 2009 – Laboratorio: Mondaino (RN) luglio 2010), organizzato da L’arboreto. Teatro Dimora, con la collaborazione dell’Ass. Liminalia di Perugia e di B. Filippi e S. Pasello. • “I tagli e le ferite. La poetica della politica e viceversa”, Incontro con gli artisti italiani nel quadro di “Vie. Scena contemporanea festival”, organizzato dall’E.R.T. (Modena, Biblioteca Delfini, 16 ottobre 2010). • Curatore e conduttore del meeting “Per Ora Labora” sulla condizione lavorativa dell’attore teatrale, nel quadro del Cantiere delle Arti (Modena, Biblioteca “Delfini”, 15 ottobre 2011). • Ideatore e curatore di “InizioAzione.Vacanze scolastiche per allievi attori delle scuole di teatro” (per una ricerca sulla motivazione teatrale), nel quadro del Festival VIE 2012 dell’E.R.T. (Rubiera, Corte Ospitale – Modena, Biblioteca “Delfini”, 25 – 28 maggio 2012). • Curatore e coordinatore dei sei incontri del seminario-laboratorio “Il grande attore e il piccolo spettatore” a cura del Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di Perugia e del Dipartimento Uomo e Territorio – sezione antropologica – dell’Università degli studi di Perugia (Perugia, Teatro Brecht, 7 marzo – 2 maggio 2013). • Curatore di “Autocritica”, quattro incontri fra critici e attori per il Cantiere delle Arti, nel contesto di Vie Scena Contemporanea Festival 2013 (Modena, Biblioteca “Delfini”, 23 maggio – 1 giugno 2013). • Curatore e coordinatore del laboratorio per spettatori “Piccolo pubblico”, organizzato dal Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di Perugia nell’occasione delle repliche degli spettacoli del Progetto Interregionale di promozione dello spettacolo dal vivo “Teatri del presente” (Teatro Brecht di Perugia e Teatro Clitunno di Trevi, novembre e dicembre 2013). • Curatore e direttore scientifico de “Il Centro della Visione. Per un’accademia dello spettatore”, progetto organizzato da Kilowat Festival a Sansepolcro (AR), dal dicembre 2013 a luglio 2014. • Ideatore e curatore del progetto “Verso Capitini, per un Colloquio corale”, prodotto dal Teatro Stabile d’Innovazione “Fontemaggiore” di Perugia (da aprile 2014 ancora in corso: prima sessione presso il Teatro Drama di Modena 17-18-19 ottobre 2104; seconda sessione presso il Teatro Brecht di Perugia 23 dicembre.2014). 13  • Ideatore e curatore del convegno “Il teatro della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015), organizzato dal Centro Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale Pistoiese. CONVEGNI • Convegno su “L’Italia e l’Umbria dal Fascismo alla Resistenza: problemi e contributi di ricerca” (Perugia, 5 - 7 dicembre 1975). • Convegno internazionale su “Droga. Dalle esperienze ad una proposta concreta. Aspetti terapeutici, sociali e legislativi” (Firenze, 14 - 17 aprile 1980). • Incontro seminariale “Musica, Possessione, Spettacolo” (Greve in Chianti, Firenze, 15 - 17 maggio 1981). • Seconda sessione dell’I.S.T.A. - International School of Theatre Anthropology (Volterra, 8 agosto - 6 ottobre 1981). • Convegno di studi su “Improvvisazione e spettacolo” (Firenze, 21 ottobre 1981). • Convegno di studi su “Vedere ed essere visti” (Volterra, 26 - 28 febbraio 1982). • Convegno di studi su “Come si potrebbe vivere. Corpo e linguaggio” (Vicenza, 22 maggio - 4 giugno 1982). • Giornate della cultura e della partecipazione (Barcellona, 17 - 18 giugno 1983). • Convegno di studi su “Elogio dei fiori: tecniche personali e creatività” (Volterra, 9 - 11 dicembre 1983). • Mostra-Convegno “Spoleto come titolo” (Spoleto, 7 - 9 marzo 1985). • Simposio “Le maître du regard”, nel quadro della terza sessione dell’I.S.T.A. (Paris, Malakoff, 20 - 21 aprile 1985). • “Incontri di lavoro con Richard Schechner” (Pontedera, 24 - 26 aprile 1985). • Convegno-seminario su “Cosa narrare e come narrare” (Bellaria-Igea Marina, 29 - 30 luglio 1985). • Convegno Nazionale di Psichiatria “Crisi e costruzione delle conoscenze” (Massa, 4 - 6 ottobre 1985). • Convegno “Le forze in campo. Per una nuova cartografia del teatro” (Modena, 24 e 25 maggio 1986). 14  • Quarta sessione dell’I.S.T.A. - “Il ruolo della donna nel teatro delle diverse culture” (Hostelbro, 17 - 22 settembre 1986). • Convegno Nazionale di Antropologia delle società complesse (Roma, 27 - 30 maggio 1987). • Quinta sessione dell’I.S.T.A. - “Tradizione dell’attore e identità dello spettatore. Dialoghi teatrali” (Otranto, 1 - 14 settembre 1987). • Convegno su “Teatro e Emergenza. Quattro incontri” (Bologna, 11 - 13 dicembre 1987). • “Natura e buongoverno del teatro. Convegno Nazionale per il rinnovamento della scena italiana” (Milano, 20 e 21 ottobre 1988). • 1° Encuentro de Artes Escenicas sobre perspectivas, necesidades, metodos, limitaciones y alternativas para la investigacion y esperimentacion (Mexico D. F., 23 - 26 gennaio 1989). • Convegno su “La presenza misconosciuta. Nuovi progetti di teatro” (Frascati, 17 - 19 marzo 1989). • Giornate di studio su “Grotowski, la presenza assente” (Modena, 6 e 7 ottobre 1989). • 2° Congresso Mondiale di Sociologia del Teatro (Bevagna, 27 - 29 ottobre 1989) • Seminario Internazionale “A la recerca d’un espai teatral contemporani” (Olot - Catalunya, 28 - 30 giugno 1990). • Sesta sessione dell’I.S.T.A. - “Università del teatro euroasiano. Tecniche della rappresentazione e storiografia” (Bologna, 28 giugno - 18 luglio 1990). • XIIth World Congress of Sociology (Madrid, 9 - 13 luglio 1990). • Convegno di fondazione di “Mantis. Centro per la ricerca sui linguaggi del comportamento funzionale” (Palermo, 15 e 16 dicembre 1990). • Convegno su “Culture immigrate e teatro in Europa. Analisi dei fenomeni interattivi fra culture immigrate e culture europee” (Bologna, 16 novembre 1991). • Seminario-convegno della Università del Teatro Euroasiano (Padova, 7 e 8 marzo 1992). • Convegno internazionale su “Teatro Europeo: quali percorsi formativi” (Torino, 14 - 17 maggio 1992). • 3° Congresso Internacional de Sociologia do Teatro (Fondazione Gubelkian, Lisbona, 30 ottobre - 2 novembre 1992). • Convegno su “La piazza nella storia. Eventi, liturgie, rappresentazioni” (Università di Salerno-Fisciano, 9 - 11 dicembre 1992). • Seminario-convegno della Università del Teatro Euroasiano - “Drammaturgie parallele” (Fara Sabina, 21 - 30 maggio 1993). • Giornate di incontri e di studi “Per Carmelo Bene” (Perugia, 13 - 16 gennaio 1994). • 1° Congresso Nazionale “L’antropologia e la società italiana” (Roma, 28 - 30 aprile 1994). 15  • Convegno “L’identità collettiva e la memoria storica: un confronto tra Italia e Polonia”, organizzato dall’Ambasciata d’Italia e dall’Università di Varsavia (Varsavia, 16 – 18 giugno 1994). • Convegno di studi su “L’altra via dell’intelligenza. Teatro e valore” (Terza Università di Roma, 11 e 12 ottobre 1994). • 1° Convegno Europeo Teatro e Carcere - “Immaginazione contro emerginazione” (Milano, 21 - 23 ottobre 1994). • Convegno su “I sommersi e i salvati. Come, perché, dove e per chi fare teatro?” (Terza Università di Roma, 4 e 5 marzo 1995). • Convegno internazionale per la fondazione del Centre International d’Ethnoscènologie (Paris, 3 - 4 maggio 1995). • Convegno su “Pacifismo, disobbedienza civile, obiezione di coscienza: il ruolo della Comunità di Capodarco” (Lido di Fermo, 13 - 14 maggio 1995). • Congresso Europeo della Biennale Théâtre Jeunes Publics - “Pourquoi aller au théâtre aujourd’hui?” (Lyon, 3 - 5 giugno 1995). • Convegno su “Teatro antropologico e Antropologia teatrale” (Scilla, 25 giugno 1995). • Convegno su “Tradizione e modernità al sud” (Gallipoli, 14 agosto 1995). • Convegno Internazionale su “Teatro e Scuola: Università ed Educazione al Teatro” (Roma, 18 - 19 ottobre 1995). • Convegno “Teatro e Scuola fra espressività e percezione” (Modena, 15 - 16 novembre 1996). • 5ème Congres International de Sociologie du Théâtre (Mons, 20 - 23 marzo 1997). • Convegno Nazionale su “Arte del narrare, arte del convivere. Incontro tra immigrati, educatori e artisti narratori” (Palermo, 3 - 5 aprile 1997). • Convegno di studio “Creativi si nasce? Teatro e creatività nei possibili percorsi della riforma scolastica” (Palazzolo sull’Oglio - BS, 16 - 17 ottobre 1997). • Convegno su “Le letterature popolari. Prospettive di ricerca e nuovi orizzonti teorico- metodologici” (Fisciano e Ravello - Università di Salerno, 21 - 23 novembre 1997). • Convegno su “Il gioco del teatro. L’animazione trent’anni dopo” (Torino, 21 - 22 aprile 1998). • Convegno “Processo federalistico delle istituzioni meridionali e mediterranee” (Messina, 24 aprile 1998). • Convegno-Seminario “Carmelo Bene e Gabriele D’Annunzio. Sulla verticalità del verso” (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Acting, Life, and Style”, convegno per un progetto internazionale di ricerca organizzato dall’Italienska Kulturinstitutet “C.M. Lerici” e dal Teatervetenskapliga Institutionen della Universitet Stockholms (Stoccolma, 9 - 13 settembre 1998). 16  • 3° Convegno Europeo di Teatro e Carcere: “Verso il Duemila, il cammino di un’utopia concreta” (Milano, 27 - 31 ottobre 1998), tavola rotonda su “Il costringimento e il suo doppio” (30.10.98). • Convegno “Io sono la prima attrice. Crocevia di esperienze tra teatro e handicap” (Milano). • Convegno “Un teatro per domani”, all’interno della X edizione di Galassia Gutemberg Mostra mercato del libro e della multimedialità (Napoli, Mostra d’Oltremare, Galleria Mediterranea, 21 febbraio 1999). • Convegno di studio per dirigenti e docenti della scuola “Il Corpo - la Macchina tra avventura, traduzione, mistero” (Calcinate, Bergamo, 21 - 22 maggio 1999). • Congresso “Le Corps du Théâtre. À partir de la Méditerranée: organicité, contemporanéité, interculturalité” (Bologna, 13 e 14 ottobre 1999), organizzato dalla Maison de Sciences de l’Homme, Ente Teatrale Italiano e D.A.M.S. dell’Università di Bologna. • Encontro Internacional de Novo Teatro para Crianças e Adolescentes – “Percursos” (Lisboa – Portugal, Centro cultural de Bélem). • “Per un teatro popolare di ricerca”, convegno organizzato da La Corte Ospitale (Rubiera, 23, 24 e 25 giugno 2000). • Primo Convegno Internazionale di Studi “I teatri delle diversità e l’integrazione” organizzato da Ass. Cult. Nuove Catarsi (Cartoceto –Ps, 14 – 15 ottobre 2000). • Convegno Internazionale “Intrecci tra Educazione Arte Natura nella prospettiva della conversione ecologica” (Amelia, 29 marzo – 1 aprile 2001), organizzato dalla Casa Laboratorio di Cenci. • Giornate di studio e di ricerca “I Sud e le loro Arti” (Arnesano, 6, 7 e 8 settembre 2001, organizzato dal Comune di Arnesano (Le) e dall’Università di Lecce. • Convegno “Il cinema al limite, al limite il cinema” (Perugia, 9 novembre 2001), organizzato da Batik-Perugia Film Festival. • “Ho sognato che vivevo. Teatri della trasformazione e dell’esclusione. Esperienze di teatro con protagonisti non comuni (pazienti psichiatrici, carcerati, portatori di deficit, immigrati) a confronto con studiosi e amministratori”, (Arena del Sole, Bologna) convegno organizzato dall’Azienda USL Bologna Nord e dalla Regione Emilia-Romagna. • Convegno di Studi “Antropologia e poesia” (Fisciano-Ravello, 2 – 4 maggio 2002), organizzato dall’Università degli studi di Salerno e dall’A.I.S.E.A.- Sezione di Antropologia e letteratura. • Convegno “Per un nuovo Teatro in Italia e in Europa” (Roma, Teatro Valle, 16 e 17 maggio 2002), organizzato dall’Ente Teatrale Italiano nel quadro di “Cercando i teatri 2001-2002”. 17  • Convegno “Residui illimitati” (Bergamo, Chiesa di S.Agostino, 21 giugno 2002), organizzato da Il Teatro Prova nel quadro del festival “Non voglio perdere la meraviglia. Teatri e arti tra diversità e alterità”. • Convegno Internazionale “Le arti del ‘900 e Carmelo Bene” (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 24 – 27 ottobre 2002), organizzato dalla Regione Piemonte e dall’Organizzazione per la Ricerca in Scienze e Arti di Torino. • Convegno Internazionale “Performing Through – Tradition as Research at the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards” (Vienna, Theater des Augenblicks, 28 – 29 giugno 2003. • Non solo per piacere. Pratiche teatrali. Adolescenti. Giustizia. Convegno nazionale sulle esperienze di teatro con minori in area penale interna ed esterna (Bologna, Maison Française, 28 febbraio 2003), organizzato dal Dipartimento Musica e Spettacolo dell’università di Bologna, dalla Regione Emilia-Romagna e dal Centro Giustizia Minorile per L’Emilia Romagna e Marche. • Colloque International d’Ethnoscénologie (Parigi, Université Paris 8, 12 – 14 settembre 2005) • Convegno “L’Attore”, organizzato da Primafila e InScena con il patrocinio delle Segreterie di stato per il Turismo e gli Istituti Culturali – Repubblica di san Marino (Sala SUMS, 23 e 24 settembre 2005). • Giornate di lavoro e di studio nel quadro dell’Assemblea Generale di IRIS - Associazione Sud Europea per la Creazione Contemporanea (Modena, Palazzo Comunale). Controscuola. Riflessioni ed esperienze pedagogiche”, convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero” (Roma, Museo di Roma in Trastevere, 4 – 5 febbraio 2006). • International symposium on tracing roads across “Living Traces – Performing as a Shared Reality” (in the occasion of the 20th Anniversary of the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards), Teatro Manzoni, Pontedera – PI, 11 – 13 aprile 2006. • Convegno “Réécritures de Médée”, organizzato dal Centre de Recherche en Etudes Féminines – Etudes de genre del’Université Paris 8 (Saint-Denis, Musée d’Art et d’Histoire, 24 e 25 novembre 2006. • “Il disagio e chi se ne occupa. Crisi dei sistemi educativi e di cura e prospettive dell’agire sociale”, convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero” (Roma, Sala Civita, Piazza Venezia, 1° Incontro su “Travestitismo e identità di genere nelle scienze della recitazione” (Napoli, Galleria Toledo, 16 novembre 2007), organizzato dal Dipartimento di Neuroscienze, Unità di Psicologia Cilinica e Applicata e dalle Università degli Studi di Napoli Federico II , L’Orientale, Suor Orsola Benicasa; comunicazione su Il teatro e l’alterità di genere. Il caso o l’esempio di Carmelo Bene. 18  • 2° Convegno Regionale A.I.Fi Umbria su “Le alterazioni posturali: dalla conoscenza alla coscienza riabilitativa” (Trevi, Hotel della Torre, 1 marzo 2008), organizzato con la collaborazione dell’Università di Perugia; comunicazione su Postura e cultura. Il corpo della tradizione e il corpo della rappresentazione. • Convegno “Venti anni di teatro della Compagnia della Fortezza – Per un teatro stabile in carcere” (Volterra, Cortile principale del carcere, 21 e 22 luglio 2008) – coordinatore e relatore. • Convegno internazionale “Il teatro che ho in testa. Per un festival di teatro da sogno” (Ulassai e Jerzu, 8 – 9 agosto 2008), organizzato da Cada Die Teatro, nel quadro di “Ogliastra Teatro, festival dei tacchi”. • Convegno “La frontiera del teatro. Grotowski 30 anni dopo” (Milano, Teatro dell’Arte, 23 – 24 gennaio 2009), organizzato dal CRT Centro di Ricerca per il Teatro di Milano. • Convegno “Teatro e Infanzia”, a cura di G. Fofi e M. Martinelli, organizzato dal Teatro Stabile di Napoli e da Punta corsara (Scampia-Napoli, Teatro Auditorium, 28 e 29 marzo 2009. • Journée d’étude “Modes et formes d’émergence dans le théâtre” (Liegi, Belgio, 15 maggio 2009), organizzato, nel quadro del progetto Prospero, dall’Université de Liège e dal Théâtre de la Place. • “Ricordando Lévi-Strauss. Convegno di studi” (Macerata, 6 maggio 2010), organizzato dal Centro Internazionale di Studi sul Mito e dall’Università di Macerata. • Convegno seminariale “Chi è il prossimo?”, organizzato dalla rivista “Lo straniero” nel quadro del 40° Festival Internazionale del Teatro in Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, XXXXX luglio 2010) • “Futuramente. 1° Convegno intorno alla Creatività per le future generazioni” (Pontedera, Museo Piaggio, 29, 30, 31 ottobre 2010), organizzato dall’ass. Libera Espressione e dal Comune di Pontedera (PI). • Journée d’étude “Vous ne trouvez pas ça tragique? – conversation publique sur l’art, l’esthétique et la politique” (Tolosa, Francia, 15 gennaio 2011), organizzata dal Théâtre Garonne, nel quadro di “In Extremis # 7”, 6 – 15 gennaio ’11. • “Una giornata con il Living Theatre” – conversazione pubblica (San Sisto – Perugia, Teatro Bertolt Brecht, 27 marzo 2011) organizzata dall’UILT nel quadro della Giornata Mandiale del Teatro. • Convegno Internazionale “Civiltà, culture, educazione. Le sfide della società tardo- moderna alla pedagogia” (Aula Magna della Lumsa, Roma, 5 aprile 2011), organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione della LUMSA di Roma. • Convegno seminariale “Un’idea di rivoluzione” , organizzato dalla rivista “Lo straniero” nel quadro del 41° Festival Internazionale del Teatro in Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, 16 luglio 2011). 19  • “Il n’y a pas de révolution politique possible, s’il n’y a pas d’une révolution poétique” – incontro internazionale e tavola rotonda sul rapporto tra pratiche artistiche e mutazioni politiche nelle aree interessate dalla “primavera araba” (Terni, Festival Internazionale della Creazione Contemporanea, Caos Area Lab,). • Journée d’études “Potlach notionnel sur la performance. National potlach on performance”, organizzata dall’E.H.E.S.S., dall’Université Paris Ouest-Nanterre, dal Centre Edgar Morin e dal H.A.R. (Amphithéâtre François Furet, 105 bld. Raspail, Paris – 29 maggio 2012). • Convegno internazionale della Facultatea de Teatru si Televiziune – Universitatea Babes-Boyai di Cluj-Napoca (Romania) “The Bad Spectator. Performing Arts between Construction and Destruction / Le mauvais spectateur. Les arts du spectacle entre construction et destruction”, organizzato dal gruppo di ricerca Istoria Teatrului, Iconografie si Antropologie Teatrali a Cluj-Napoca (7 – 9 giugno 2012). • Seminario “L’esperienza del principio. Jerzy Grotowski, l’infanzia e la rinuncia all’assenza” (Cenci-Amelia, 16 giugno 2012), nel quadro della manifestazione “Sorgenti e torrenti. Omaggio a Jerzy Grotowski e al Teatro delle sorgenti” organizzata dal Laboratorio di Cenci 15 – 17 giugno 2012. • Convegno “Le théâtre et ses publics: la création partagée” - 2° Colloque International du Projet Européen PROSPERO (Salle académique dell’Università di Liegi – Belgio), organizzato dal Théâtre de la Place di Liegi e dell’Université de Liège. • “Confusion de genres. Journées d’étude en l’honneur de Jean-Paul Manganaro”, organizzato dall’Université de Lille 3, dall’Université Paris Ouest-Nanterre-La Defense e dall’Università Italo Francese (Lille, 29 novembre – 1° dicembre; Paris, 12 dicembre 2012). • Colloque International “D’après Carmelo Bene” (Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art - Conservatoire National Supérieur d’Art Dramatique - Cinéma du Panthéon), organizzato da HAR, Université Paris Ouest-Nanterre, Labex Arts-H2H, Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis, CNSAD, Dipartimento Uomo e Territorio dell’Università di Perugia (in partenariato con Union des Théâtres de l’Europe e con Emilia Romagna Teatro Fondazione). • Incontro sul tema “Memoria e Identità” (Gubbio, Biblioteca Sperelliana, 23 febbraio 2013), organizzato dal Comune di Gubbio e dal Lyons Club Gubbio Host. • “Teatro e nuovo umanesimo”, convegno nel quadro della “Giornata per Claudio Meldolesi” (Bologna, Laboratorio delle Arti, 18 marzo 2013), organizzata dal Dipartimento delle Arti visive, performative, mediali dell’Università di Bologna, con il patrocinio dell’Accademia dei Lincei. 20  • Convegno Nazionale di Teatro educativo intitolato “Scrittura e riscrittura. Da testo alla messa in scena – Esperienze a confronto” (Avigliano Umbro, TR, 27 -28 aprile 2013). • 7° Colloque international d’ethnoscénologie, organizzato da Maison des Cultures du monde, Université Paris 8, Maison des Sciences de l’Homme Paris Nord (Paris, 21 -23 maggio 2013) • Incontro sul tema “Ai confini della democrazia” (Roma, La Pelanda, 11 settembre 2013) organizzato dalle Edizioni dell’Asino nel quadro della rassegna Short Theatre n. 8 intitolato “Democrazia della felicità” (Roma). • Convegno Seminario “Intellettuali e riviste tra passato, presente e futuro” (Perugia, Sala della Partecipazione del Consiglio regionale dell’Umbria, 17 settembre 2014). • Convegno sulla Rete Regionale dei Teatri (Modena, Teatro delle Passioni, 27 novembre 2013), organizzato dalla Fondazione Mario del Monte e da Emilia Romagna Teatro. • Convegno “La possibilità del teatro. Un incontro di riflessione e confronto”, organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro (Pontedera, PI, Teatro Era, 12, 13, 14 dicembre 2014). • Convegno “Il teatro della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015), organizzato dal Centro Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale Pistoiese. RICERCHE ricerche teoriche: • Il contesto sociale della criminalità e della devianza - “Le basi strutturali dei processi di criminalizzazione” La solitudine abitativa come fenomeno emergente (gennaio - ottobre 1980). • Riferimenti teorici ed esperienze empiriche nella fondazione di una antropologia del teatro (1984 - 1988). • Cultura dell’attore nelle tradizioni teatrali euroasiatiche  L’identità dello spettatore e i modelli di fruizione del teatro (1988 - 1990). • Sociabilità, Relazionalità, Spettacolarità (1990 - 1991). • Tecniche del corpo e azioni performative (1992 - 1993). • Studio per la realizzazione di uno spettacolo teatrale sul tema del cooperativismo (dicembre 1993 - febbraio 1994). • Elements anthropologiques dans le théâtre contemporain - nel quadro della partecipazione al Groupe international de recherche interdisciplinaire “Spectacle vivant et sciences de l’homme” - Maison de l’Homme, Paris (dal 1996 ancora in corso). • Il teatro e la scuola: le funzioni pedagogiche del teatro e i corsi di formazione degli operatori teatrali e degli insegnanti - nel quadro dell’attività dell’Uni-Tea, progetto coordinato dall’Ente Teatrale Italiano. ricerche empiriche: • Gli atteggiamenti nei confronti della devianza criminale e dell’istituzione carceraria (ricerca condotta nel quartiere di P.ta Eburnea di Perugia - giugno 1974). • Le opinioni e gli atteggiamenti degli studenti dell’Istituto Tecnico per Geometri di Perugia nei confronti della scuola e della condizione giovanile (aprile - maggio 1976). • Indagine su tipologia e censimento degli organismi di democrazia di base (ricerca per il Consiglio Regionale dell’Umbria, 1976 - 1977). • Ricerca sulla definizione e le caratteristiche della popolazione “reale” (ricerca del C.R.U.R.E.S., marzo - maggio 1978). • Indagine sull’ascolto radiotelevisivo in Umbria (ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, maggio 1978 - ottobre 1979). • Ricerca sul comportamento elettorale in Umbria attraverso l’analisi dei risultati delle elezioni politiche ed europee del giugno 1979 (giugno - dicembre 1979). • Indagine sull’esercizio e il mercato cinematografico in Umbria (ricerca dell’Associazione Umbra per il Decentramento delle Attività Culturali, ottobre 1982 - marzo 1983). • Inchiesta sul teatro dialettale in Umbria (ricerca del Centro Documentazione Spettacolo, settembre 1983 - aprile 1984). • Analisi dei risultati delle elezioni amministrative del 1985 nel comune di Perugia (ricerca del Comune di Perugia, giugno 1985 - aprile 1986). • Ricerca sulla memoria e sulla identità dello spettatore (ricerca condotta in Salento per l’International School of Theatre Anthropology, marzo- ottobre 1987). • L’informazione televisiva in Umbria: i notiziari regionali (ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre 1987 - giugno 1988). • Indagine sulle emittenti radiotelevisive operanti in Umbria (ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre 1988 - settembre 1989). • Aspetti devozionali e spettacolari nelle feste religiose patronali (ottobre 1996 – ottobre 2002). 22  • “In compagnia: ricerca e analisi sulle opportunità di lavoro e di impiego nel settore teatrale” (nel quadro dell’azione pilota “terzo settore e occupazione” promossa dalla Commissione Europea D.G.V); ricerca coordinata da Emilia Romagna Teatro con la collaborazione di “Amitié”, Taller de Investigaciòn de la Imagen Teatrale di Madrid, Teatro delle Briciole, Teatro Festival, Thomas Consulting Group (dal 15 dicembre 1997 al 15 dicembre 1998). • Ricerca empirica sulla definizione e sulla’informazione e formazione dello spettatore, all’interno del progetto “100 spettatori da adottare” organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro e dall’ETI Ente Teatrale Italiano (aprile 2000 – aprile 2001). • “Il nuovo attore nuovo” Osservatorio scientifico sulla pedagogia dell’attore di innovazione, applicato al Progetto interregionale “Teatro – Percorsi di Alta Formazione” organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro, dai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce e dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, in convenzione con le rispettive Regioni (gennaio – giugno 2008). • Analisi documentale del “Cantiere delle Arti” – un cantiere transnazionale per la creazione di percorsi integrati connessi alla realtà produttiva del settore spettacolo dal vivo – costituito da Emilia Romagna Teatro Fondazione, dalla Regia Accademia Filarmonica e Musica e Servizio Cooperativa Sociale Sull’opera e il pensiero degli antropologi Giulio Angioni. Tra antropologia e letteratura (recensione), “Lo straniero Arte Cultura Società”, Bourdieu: l’autoanalisi di un maestro, “Lo straniero Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 70, aprile 2006, pp. 90 – 92. Postfazione alla parte quinta “Dimensioni della festa” in: T. Seppilli, Scritti di antropologia culturale, (M. Minelli – C. Papa, curatori), 2 voll., Olschki Ed. , Firenze, 2008; vol. II – La festa, la protezione magica, il potere, pp. 519 – 529. Lo sguardo lontano di Lévi-Strauss, “Lo straniero Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 116, febbraio 2010, pp. 106 - 109. Lezione e monito dell’ultimo Baudrillard, “Lo straniero. Arte Cultura Scienza Società”, Sulla condizione e la subcultura giovanile: Dopo Licola, (in coll. con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n. 17, nov. 1976, pp. 50 - 67. Il corpo e il territorio, “Segno critico”, anno I, nn. 2 - 3, luglio - dicembre 1979, pp. 99 - 103. Una nuova solitudine. Vivere soli tra liberazione e integrazione, (in coll. con P. Bartoli e S. La Sorsa), Savelli ed., Roma, 1981, 255 pp. Protagonismo, narcisismo e consumismo, “Ombre Rosse”, n. 33, marzo 1981, pp. 13 - 21. Forza ragazzi, “Linea d’ombra”, anno IV, n. 13, febbraio 1986, pp. 8 -10. Disagi giovanili, disagi senili, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 8, autunno 1999, pp. 43 – 50. Il diavolo, sicuramente, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, Lo studente quotidiano, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno I, n. 3, novembre- dicembre 2010, pp. 10 – 19. La Giovane Italia, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 7, settembre- ottobre 2011, pp. 93 – 98. Un saggio Laffi sui giovani e i vecchi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 166, aprile 2014, pp. 30 – 34. Sulla devianza e la criminalità: La ricerca dei ricercati. Sociologia dell’ordine pubblico, (in coll. con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n. 21, luglio 1977, pp. 85 - 95. 24  La organizzazione del consenso nel regime fascista: la manipolazione ideologica della devianza criminale, (in coll. con G. Baronti), “Studi e materiali di antropologia culturale”, n. 5, Perugia, 1983, 33 pp. Sulla cultura meridionale: Mezzogiorno è già passato, in: G. Fofi – A. Leogrande (curatori), Nel sud, senza bussola. Venti voci per ritrovare l’orientamento, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2002, pp. 17 – 30 Sulla cultura politica e la politica culturale: Partiti e comportamento elettorale. Analisi dei risultati delle elezioni del giugno 1789 in Umbria (in coll. con A. Sorbini), Com.Reg.Umbro PSI, Perugia, 1980, 295 pp. Caro nome..., in: AA.VV., A proposito dei comunisti, Linea d’ombra ed., Milano, 1990, pp. 49 - 64. La festa dell’albero. Come ri-nasce un partito, “Linea d’ombra”, anno IX, n. 58, marzo 1991, pp. 16 - 20. Invenzione, diffusione e agonia dell’operatore culturale, “Linea d’ombra”, anno XI, n. 88, dicembre 1993, pp. 13 - 17. Ebrei e naziskin. I fatti e le notizie, in: A. Cavaglion (a cura di), Gli aratori del vulcano. Razzismo e antisemitismo, Linea d’ombra ed., Milano, 1994, pp. 59 - 64. Il punto e la linea. Maggioranze, minoranze e critica della politica, “Linea d’ombra”, anno XIII, gennaio 1995, n. 100, pp. 4 - 5. La cultura del maggioritario, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 1, febbraio 1995, pp. 4 - 7. Una merce come le altre? La fiera del libro a Torino, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 4, giugno 1995, pp. 65 - 66. Laici ed eretici, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 13, marzo 1996, pp. 15 - 16. A Perugia c’è cultura da vendere , “L’indice”, anno XV, n. 10, novembre 1998, p. 50. Sull’industria della coscienza: una questione di dettaglio , introduzione a: H.M. Enzensberger, Questioni di dettaglio. Poesia, politica e industria della coscienza , trad. di G. Piana, ediz. e/o, Roma, 1998, pp. 5 - 12. La parabola del buon rettore, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 5, inverno 1998-99, pp. 56 – 60. L’età dello stagno , “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 6, primavera 1999, pp. 150 - 159. Cosa ci tocca vedere, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 7, estate 1999, pp. 58 – 63. Il laico e il sacro, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, nn. 15-16, primavera 2001, pp. 165 – 176. 25  Qualcosa è accaduto, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, n. 17, settembre 2001, pp. 41 – 48. Il porto dell’università, fra la nebbia e il miraggio, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 21, marzo 2002, pp. 47 – 53. Toni, Bepi e san Francesco (per tacere di sant’Agostino), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 23, maggio 2002, pp. 24 – 27. (recensione) La sera del dì di festa, “Lo straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 28, ottobre 2002, pp. Questo Papa e quella guerra, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VII, n. 38-39, agosto- settembre 2003, pp. 15 – 20. La controriforma e il doposcuola, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 42-43, dicembre 2003 – gennaio 2004, pp. 120 – 124. Grande Papa, tanta gente, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 60, giugno 2005, pp. 20 –22. La questione comica, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 65, novembre 2005, pp. 10 –13. Il silenzio dei post-comunisti, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 73, luglio 2006, pp. 10-14. Il viaggio di Francesco Piccolo nei divertimenti di massa (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 81, marzo 2007, pp. 106 –108. La mamma ha un cuore verde. Un racconto di Rosa Matteucci (recensione),“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 88, ottobre 2007, pp. 33 – 37. La montagna elettorale, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società, anno XII, n. 94, aprile 2008, pp. 14 – 17. Il male minore, in: M. Bon Valsassina (curatore), In fondo al male. Contributi e Iconografie sul Male, Futura ed., Perugia, 2008, pp. 81 – 85. Universitas docet, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 105, marzo 2009, pp. 24 – 28. Un pomeriggio tra le minoranze, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 110-111, agosto-settembre 2009, pp. 161 – 165. Silvio, Umberto e i giovani d’oggi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 112, ottobre 2009, pp. 18 – 23. La parte dell’arte, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 118, aprile 2010, pp. 93 – 104. (riedito in: P. Giacchè – V. Giacopini – E. Morreale – N. Lagioia, Necessità e servitù della critica. Cosa cerca l’arte? A che serve la critica?, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011, pp. 5 – 18). Prefazione a: Carlo e Rita Brutti, Scrutatori d’anime. La psicoanalisi che viene, Edizioni dell’Asino, Roma, 2010, pp. 5 – 19. Lo sciopero e la grève, ovvero dalla Francia con stupore, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 15 – 18. Il teatro del prossimo, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 48 – 52. 26  Teatro e politica all’italiana: l’Attore e l’Assessore, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, nn. 5 – 6, marzo/aprile – maggio/giugno 2011, pp. 161 -168. Via col vento, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 133, luglio 2011, pp. 33 – 37. Specchiarsi nelle vite degli altri. Un romanzo di Emmanuel Carrère, (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 136, ottobre 2011, pp. 44 – 46. Il maggio è francese, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVI, n. 144, 2012, pp. 15 – 21. Ci fu una volta la sinistra, ovvero il silenzio dei post-comunisti, Edizioni dell’asino, Roma, 2013, 149 pp. La cultura e la politica, un atto unico in due tempi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 153, marzo 2013, pp. 94 – 98. Indovinala Grillo!, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 154, aprile 2013, pp. 15 – 18. Fazio ovvero l’ultima volta della tivvù, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 154, aprile 2013, pp. 71 – 76. L’università dei vavassini, “Gli asini. Rivista di educazione e intervento sociale” (numero monografico su Valutazione e meritocrazia nella scuola e nella società), anno IV, ottobre- novembre 2013, pp. 50 – 58. Il niente che avanza, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 164, febbraio 2014, pp. 18 - 25. Il Giovane Renzi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 167, maggio 2014, pp. 35 – 39. I volontari dell’ottimismo. Marino Sinibaldi riflette sulla cultura, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, nn. 170-171, agosto-settembre 2014, pp. 14 – 18. Sul pensiero e l’azione di Aldo Capitini Introduzione e cura del volume: A. Capitini, Opposizione e liberazione. Scritti autobiografici, Linea d’ombra ed., Milano, 1991 (riedizione con il titolo Opposizione e liberazione. Una vita nella nonviolenza, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003). Al servizio (civile) della coscienza, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, nn. 5 - 6, luglio-agosto 1995, pp. 18 - 19. Aldo Capitini e l’obiezione di coscienza, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 10, dicembre 1995, pp. 45 - 49. Introduzione e cura del volume: A. Capitini, Liberalsocialismo, ediz. e/o, Roma, 1996. L’obiezione è coscienza. L’insegnamento di Aldo Capitini, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, n. 18, ottobre-novembre 2001, pp. 123 – 133. Introduzione e cura del volume: La religione dell’educazione. Scritti pedagogici di Aldo Capitini, Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari), 2008, 226 pp. 27  Capitini e i Perugini, “Studi Umbri”, n. 0, anno I, 2009, (www.studiumbri.it) Cura –assieme a G. Fofi- del volume: A. Capitini, Agli amici. Lettere 1947-1968, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011. L’importanza di chiamarsi prete, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 9, aprile/maggio 2012, pp. 6 – 11. Sulla cultura teatrale e la società dello spettacolo: Il teatro delle esperienze, (in coll. con S. De Matteis), “Quaderni di Teatro”, anno V, n. 20, maggio 1983, pp. 145 - 155. Diario scolastico del sussidiario teatrale, “Scenascuola”, n. 1, giugno 1984, pp. 42 - 52. Un pugno di terra. Conversazione con Eugenio Barba, “Linea d’ombra”, anno II, n. 12, novembre 1985, pp. 36 - 46. Living memories. Ricordi del Living e memorie viventi, “Teatro Festival (nuova serie)”, n. 1, dicembre 1985, pp. 4 - 9. Antropologia culturale e cultura tetrale. Note per un aggiornamento dell’approccio socio- antropologico al teatro, “Teatro e Storia” 4, anno III, n. 1, aprile 1988, pp. 23 - 50. Una bùsqueda de “antropologia teatral” sobre la identidad del espectator, “Repertorio. Revista de teatro”, nos. 9,10,11, agosto 1989, pp. 93 - 97. Memoire sociologique. Extraits de carnets d’une recherche anthropologique sur “L’identité du spectateur”, “Buffonneries”, nn. 22 - 23, 1989, pp. 177 - 197. Teatro necesario y teatro suficiente, “Màscara. Cuadernos Latinoamericanos de Reflexion sobre la Escenologia”, anno I, n. 2, gennaio 1990, pp. 105 - 108. Come lavorare in discesa. Ragionamenti e aggiornamenti sul teatro “minore”, “Linea d’ombra”, anno VIII, n. 46, febbraio 1990, pp. 86 - 90. Lo spettatore partecipante. Contributi per una antropologia del teatro, Guerini e ass., Milano, 1991, 207 pp. Uno spettacolo prigioniero e un teatro libero, in: M.T. Giannoni (a cura di), La scena rinchiusa. Quattro anni di attività teatrale dentro il Carcere di Volterra, Tracce ed., Piombino, 1992, pp. 73 - 76. Introduzione all’identità dello spettatore. Una ricerca di antropologia del teatro, “R.I.S.T. Revue Internationale de Sociologie du Théâtre”, n. 0, 1992, pp. 12 - 19. Teatro e antropologia. Note su una “canoa di carta”, “Linea d’ombra”, anno XI, n. 86, ottobre 1993, pp. 75 - 78. Una equazione fra antropologia e teatro, “Teatro e Storia”17, anno X, 1995, pp. 37 - 64. L’esplorazione antropologica e i “fines” del teatro, “Etnoantropologia”, nn. 3 - 4, 1995, Argo ed. Lecce, pp. 60 - 67. Nostalgia del teatro e simulazione della piazza, in: D. Scafoglio - M. Vitale (a cura di), La piazza nella storia: eventi, liturgie, rappresentazioni , Ed. scientifiche italiane, Napoli, 1995, pp. 201 - 254.  28  Introduzione e cura del volume: AA. VV., Per Carmelo Bene (Atti del convegno, Perugia, 14 - 15 gennaio 1994), Linea d’ombra ed., Milano, 1995, 218 pp. De l’anthropologie du théâtre à l’ethnoscènologie, “Internationale de l’immaginaire (nuovelle serie)”, n. 5, 1996, Ed. Maison de Cultures du monde, Paris, pp. 249 - 254. Il teatro “privato “del pubblico. Cenni di storia e appunti sulla fenomenologia dello spettatore, in: Le età del teatro. Corso triennale di storia e cultura teatrale, Ert (Emilia Romagna Teatro) ed., Modena, 1997, pp. 3 - 15. Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani ed., Milano, 1997, 185 pp. (Premio del Presidente del Premio “G. Pitrè – S. Salomone Marino). De la consommation du théâtre au théâtre dans la société de consommation, in: AA.VV., Pourquoi aller au théâtre aujourd’hui? (Actes du quatrième colloque européen - Biennale Théâtre Jeunes Publics, Lyon), Les Cahiers du soleil debout, Lyon, 1997, pp. 27 - 35. “Giulio Cesare”, teatro dei corpi, (recensione),“Lo straniero. Arte Cultura Società”, anno I, n. 1, estate 1997, pp. 122 - 126. Teatro antropologico: atto secondo, “Catarsi. Teatri delle diversità”, anno II, nn. 4 - 5, dicembre 1997, pp. 12 – 14 (ripubblicato in: E. Pozzi – V. Minoia (a cura di), Di alcuni teatri della diversità, ANC ed., 1999, pp. 57 – 65). Consumare teatro , “Teatro e Storia” 19, anno XII, 1997, pp. 349 - 369. Shakespeare e Garibaldi, (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno I, n. 2, inverno 1997/98, pp. 73 - 77. Au théâtre comme à la guerre!, in: Centre Dramatique Hainuyer - Centre de Sociologie du Théâtre, La mediation théâtrale (Actes du 5è Congrès International de Sociologie du théâtre organisé a Mons (Belgique) mars 1997) , Lansman, Carnières-Morlanwelz (Belgique), 1998, pp. 75 - 80; (ripubblicato dalla rivista “Théâtre éducation”, nouvelle serie, n. 9, maggio 1998, pp. 22 - 26). Spettatori non si nasce, in: Provincia di Modena - Emilia Romagna Teatro,Teatro e scuola fra espressività e percezione. Atti del convegno (Modena, 15 - 16 novembre 1996), Centro Stampa Provincia di Modena, ottobre 1998, pp. 126 - 136. O la guerra o il teatro. Sul film di Mario Martone (recensione),“Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 4, autunno 1998, pp. 55 – 59. Politica culturale e cultura teatrale , “Primafila. Mensile di teatro e di spettacolo dal vivo”, n. 49, novembre 1998, pp. 13 - 17. Aux confins du théâtre. Sur la relation entre théâtre et anthropologie , “Diogène”, n. 186, Avril- Juin 1999, pp. 110 -123. (ripubblicato nell’edizione inglese: At the Margins of Theatre. On the Connection Between Theatre and Anthropology, “Diogenes”, n. 186, vol. 47, feb. 1999, pp. 83 – 92) Il Teatro come ‘attore’ del terzo sistema, in: “In Compagnia. Materiali per la costruzione di un quadro di riferimento per lo sviluppo dell’occupazione degli operatori artistici teatrali: il teatro quale strumento di crescita sociale”, (relazione di ricerca), Emilia Romagna Teatro, Stampa Tem, Modena, 1999, pp. 40 – 64. 29  Dell’ascolto distratto e dell’attenta lettura. I versi di Campana ripartoriti dalla voce di Carmelo Bene, (recensione), “L’indice”, anno XVI, n. 10, ottobre 1999, p. 22. Cinque domande sul presente di Danio Manfredini, (intervista), “La porta aperta”, n. 1, settembre-ottobre 1999, pp. 70 – 79. Le bugie della scuola e quelle del teatro, “Art’o”, n. 4, gennaio 2000, pp. 42 – 45 (ripubblicato in: Abbecedario della non-scuola del Teatro delle Albe, allegato a “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 45, marzo 2004, pp. 37 – 41). Il giullare fatto santo. Fo Dario fu Francesco, “L’indice”, anno XVII, n. 5, maggio 2000, pp. 24 – 25. (recensione) La settima volta di Riccardo terzo. Incontro con Claudio Morganti (intervista), “La porta aperta”, n. 5, maggio – giugno 2000, pp. 7 – 15. Tragedie nella terra, verso il mare, sotto il cielo. Incontro con Alfonso Santagata (intervista), in: S. Maggiorelli (a cura di), Tragicamente. Il teatro di Alfonso Santagata, Titivillus ed., Corazzano (PI), giugno 2000, pp. 63 – 75. (testo parzialmente ripubblicato con il titolo Teatro a cielo aperto. Incontro con Alfonso Santagata in “La porta aperta”, n. 6, luglio – agosto 2000, pp. 16 – 24) La fine dello spettatore, in: P. Giacchè (a cura di), Lo spettatore e le visioni del teatro futuro, “Prove di Drammaturgia”, anno VI, n. 1, settembre 2000, pp. 11 – 13. Entelechia del Bene. Incontro con Carmelo Bene, “La porta aperta”, n.8, novembre-dicembre 2000, pp. 48 – 59. Il teatro fuori dai teatri. Memorie di uno spettatore di provincia, in: F. Gentili (a cura di), Teatri dell’Umbria. La storia, il gioco, la memoria, Octavo, Firenze, 2000, pp. 259 – 287. L’arte dello spettatore, vedere i suoni e ascoltare le visioni, in: Città di Palermo – Assessorato alle Politiche Educative, Arte del narrare, arte del convivere (Atti del Convegno nazionale – Palermo, 3 – 5 aprile 1997), Eliocopisteria “Milone”, Palermo, 2000, pp. 123 – 138. L’identità dello spettatore. Un saggio di Antropologia Teatrale, “Etnostoria” nn. 1 – 2, 2000, pp. 57 – 86. L’art du spectateur: voir les sons et écouter les visions, “Diogène”, n. 193, Janvier – Mars 2001, pp. 100 – 113 (ripubblicato nell’edizione inglese: The Art of Spectator: Seeing Sounds and Haering Visions, “Diogenes”, n. 193, vol. 49, issue 1 2002, pp.77-87.) Carmelo Bene, attore della cultura, “Lo Straniero Arte Cultura Società”, anno VI, n. 22, aprile 2002, pp. 106 – 108. Lo spettatore del teatro e il pubblico del rito, in: A. Cappelli – F. Lorenzoni (a cura di), La nave di Penelope. Educazione, teatro, natura ed ecologia sociale. Testimonianze e proposte a partire dai 20 anni di esperienze della Casa-Laboratorio di Cenci, Giunti ed., Firenze, 2002, pp. 98 – 109. Teatro prigioniero, in: M. Buscarino, Il teatro segreto, Leonardo Arte, Milano, 2002, pp. 13 – 18. Il Sessantotto e il Teatro: un anno senza “stagione”, in: AA.VV., Rivelazioni e promesse del ’68, CUEC, Cagliari, 2002, pp. 141 – 164; (riedito con il titolo Un anno senza “stagione”: il ’68 e il teatro, “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VII, n. 36, giugno 2003, pp. 57 – 71). 30  L’avventura finale di Benigni (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, nn. 30-31, dicembre 2002-gennaio 2003, pp. 49 – 53. Questa non è una tragedia (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 44, febbraio 2004, pp. 59 – 63. L’altra visione dell’altro. Una equazione tra antropologia e teatro, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004. Perdere un amico, “Rivista di psicologia analitica”, nuova serie n. 17, 2004, pp. 87 – 97; (ripubblicato in “Lo straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 59, maggio 2005, pp. 68 – 75, con il titolo Perdere un amico. Ricordo di Carmelo Bene) (ripubblicato in: B. Massimilla (a cura di), La perdita. Lutti e trasformazioni, Vivarium ed.. Milano, 2011, pp. 137 – 150). Apparire alla Madonna, postfazione a: C. Bene, Sono apparso alla madonna. Vie d’(h)eros(es). Autobiografia, Bompiani, Milano, 2005, pp. 157-159. L’identitè du spectateur. Essai d’anthropologie théâtrale, “L’Ethnographie. Création, Pratiques, Publics”, n. 3, printemps 2006, pp. 14 – 44. “Arrevuoto”: il teatro in festa (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno X, n. 72, giugno 2006, pp. 74 –77. Un Amleto di più (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 76, ottobre 2006, pp. 110 – 113. Dar corpo alla poesia: l’esempio e il metodo di Carmelo Bene, in: D. Scafoglio (a cura di), La coscienza altra. Antropologia e poesia, Marlin ed., Cava de’ Tirreni (SA), 2006 (Atti del Convegno di Studio “Antropologia e poesia”, organizzato dall’Università di Salerno, Salerno-Ravello, 2 – 4 maggio 2002), pp. 202 – 212. Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale – nuova edizione aggiornata e ampliata, Bompiani ed., Milano, 2007, 224 pp. Arrevuoto, n’ata vota (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 83, maggio 2007, pp. 107 – 109. “Arrevuoto”: quando il teatro sospende la dittatura del mondo, in: Teatro delle Albe, M. Martinelli – E. Montanari (curatori), Suburbia. Molti Ubu in giro per il pianeta. 1998-2008. Ubulibri, Milano, 2008, pp. 99 – 109. La verticalità e la sacralità dell’atto, in: A. Attisani – M. Biagini (curatori), Opere e sentieri. Testimonianze e riflessioni sull’arte come veicolo, Bulzoni ed., Roma, 2008, pp. 119 –128. La dernière Médée. Le mithe dans le théâtre contemporain: un parcours à l’envers, in: AA.VV., Réécritures de Mèdée , (sous la direction de N. Setti – Centre de Recherche en Etudes Féminines et Etudes de genre, Université Paris 8), “Travaux et Documents”, n. 37, 2008, pp. 221 – 230. Saldi di fine stagione, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XII, nn. 98-99, agosto-settembre 2008, pp. 104 – 109. Teatro: Romeo all’Inferno (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XII, n. 100, ottobre 2008, pp. 108 – 110. 31  Un soffio di teatro, in AA.VV., In cammino con lo spettatore (Laggiù soffia – Era – In carne ed ossa), (a cura di S. Geraci), La casa Usher, Firenze, 2008, pp. 118 – 126. De la consommation du théâtre au théâtre dans la société de la consommation (nouvelle édition), “Degrés. Revue de synthèse à orientation sémiologique”,  L’effetLiving.Lavisiond’Artaudparles“Balinais”deNewYork,“Theatre/Public” (L’avant- garde américaine et l’Europe / II. Impact), n. 191, décembre 2008, pp. 9 -12. Le personnage public et l’acteur privé (entretien avec Piergiorgio Giacchè pas Ciryl Béghin), “Théâtre et Cinéma 2009. Marco Bellocchio, Carmelo Bene”, tome 20, publié à l’occasion du 20e Festival à Bobigny (18 mars – 5 avril 2009), sous la direction de Dominique Bax, pp. 141 -144. Voler Bene al cinema, in “Bellaria 27” (catalogo di Bellaria Film Festival, 27^ edizione, 2 – 6 giugno 2009), pp. 66 – 68; riedito in: “Lo straniero”, anno XIII, n. 109, luglio 2009, pp. 109 - 112. Fellini antropologo. Fra nostalgia e profezia, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, nn. 110-111, agosto-settembre 2009, pp. 94 – 101. La nostalgia, merce per tutti, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, Bene Detto. Dispensa per Oratorio e Laboratorio, (a cura di P. Giacchè, con interventi di C. Bene, B. Filippi, G. Fofi, P. Giacchè, J.P. Manganaro, S. Pasello), L’arboreto – Teatro Dimora, Mondaino, 2009-2010, 143 pp. Il corpo dimenticato: Carmelo Bene, in: U. Birmaumer-M. Hüttler-G. Di Palma (curatori), Corps du Théâtre – Il Corpo del Teatro, Hollitzer Wissenshaftsverlag/Verlag Lehner, Wien (Austria), 2010, pp. 3 – 16. Los verbos transitivos del teatro. Mirar teatro, in: C. Lisòn Tolosana (a cura di), Antropologìa: horizontes estéticos, Antrhropos Editorial, 2010, pp. 153 – 182. Émergence et submersion en Italie: le système théâtral et son double, “UBU Scènes d’Europe- European stages” (numero: Emergence(s) dans le théâtre européen – in European Theatre), revue bilingue français-englais / bilingual English-French review, Uomini e dei in un film francese (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, L’antropologia del teatro e il teatro della cultura, in: V. Borghi – A. Borsari – G. Leoni (curatori), Il campo della cultura a Modena. Storia, luoghi e sfera pubblica, Mimesis Edizioni, Milano- Udine, 2011, pp. 459 – 472. Homo Videns. Quella TV che si guarda da sola, “L’altrapagina”, Lo spettatore ospite, “Culture teatrali. Studi, interviste e scritture sullo spettacolo”, n.20, Annuario 2010 (Teatri di Voce, a cura di L. Amara e P. Di Matteo), La parabola dell’animazione teatrale, in: D. Pietrobono – R. Sacchettini (curatori), Il teatro salvato dai ragazzini. Esperienze di crescita attraverso l’arte, Edizioni dell’Asino, Roma, Non fare l’amore, in: T. Cots (a cura di), Loving effects, Quodlibet ed., Macerata, (trad.inglese: pp. 175-184). Buttare il bambino nell’acqua sporca, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, Les Menoventi et le Perithéâtre, in: C. Hurault – G. Banu (curatori), Frontières liquides – territoires de l’art. Emergences de la scène européenne, Editions Alternatives théâtrales / Union des Théâtres de l’Europe (n. 9 hors série de la revue “Alternatives théâtrales”), Liquidité et/ou verticalité, in: C. Hurault – G. Banu (curatori), Frontières liquides – territoires de l’art. Emergences de la scène européenne, Editions Alternatives théâtrales / Union des Théâtres de l’Europe (n. 9 hors série de la revue “Alternatives théâtrales”), Le public est mort. Vive le Public! Sur la poétique et la politique du mauvais spectateur, in: S. e J. Pop-Curseu – A. Maniutiu – L. Pavel-Teutisan – D. Enyedi (curatori), Regards sur le mauvais spectateur – Looking at the Bad Spectator, Presa Universitara Clujeana, Cluj-Napoca, Romania, Barba e Carmelo Bene. Vite parallele e viaggi perpendicolari, “Teatro e Storia”, a. XXVI, vol. IV nuova serie, Bulzoni ed., (riedito in francese, traduzione di Cristina De Simone in: Les Voyages ou l’ailleurs du théâtre. Hommage à Georges Banu (Essais et témoignages réunis par Catherine Naugrette), Éditions Alternatives théâtrales – Sorbonne Nouvelle-Paris, Il pubblico troppo emancipato, “Quaderni del Teatro di Roma”, Espectador-Hòspede, “Revista Brasileira de Estudos da Presença”, Porto Alegre, - http://www seer.ufrgs.br/presenca. Le public est mort. Vive le Public!, “Alternatives théâtrales” (Le mauvais spectateur), n. 116, 1er trimestre 2013, Bruxelles, Le “Public” trop émancipé: vers une poétique pauvre de la politique théâtrale, in: Le théâtre et ses publics. La création partagée (Actes du 2° Colloque International du Projet Européen PROSPERO - Liège, 26 -29 settembre 2012), Les Solitaires Intempestifs Editions, Besançon, Teatro e comunità, “Scena”, Sur Sieni, et surtout sur Virgilio... Trois exemples, in: V. Sieni, Trois Agoras Marseille. Art du geste dans la Méditerranée, Maschietto editore, Firenze, Risposte o riposte. Cinque lettere aperte su CB, “Prove di drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, Un Pinocchio letto per Bene, introduzione a: C. Bene, Pinocchio, Bompiani ed., Milano, 2014.  33  Vers la verticalité du vers, “Revue d’Histoire du Théâtre”, (D’Après Carmelo Bene. Actualité), pp. 345-354. Il combattimento tra la teoria e la poesia (dedicato a Claudio Meldolesi), “Prove di drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, anno XIX, nn. Il teatro piccolo, povero, nuovo, in: “L’Italia e le sue regioni. L’età repubblicana, vol. IV Società (a cura di M. Salvati – L. Sciolla)”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Abramo Printing, Catanzaro, 2015, pp. 485 – 503. Carmelo selon Jean-Paul in: Croisement d’écritures France-Italie. Hommage à Jean-Paul (sous a direction de Camille Dumoulié, Anne Robin et Luca Salza), éd. Mimésis, Vêtements liturgiques et corps dévôts, in: Jean-Marie Pradier (sous la direction de), La croyance et le corps. Esthétiques, corporeité des croyances et identités (Actes du 7° colloque international d’ethnoscénologie, Paris, 21-23 mai 2013), Presses Universitaires de Bordeaux, 2015, pp. 113 – 121. Il presente curriculum comprende i titoli, le attività e le pubblicazioni al 31 dicembre 2016 Il sottoscritto è a conoscenza che, ai sensi dell‚art. 26 della legge 15/68, le dichiarazioni mendaci, la falsità negli atti e l‚uso di atti falsi sono puniti ai sensi del codice penale e delle leggi speciali. Inoltre, il sottoscritto autorizza al trattamento dei dati personali, secondo quanto previsto dalla Legge 196/03. Quanto dichiarato nel presente curriculum vitae corrisponde al vero ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. Piergiorgio Giacchè. Giacchè. Keywords: l’altra visione dell’altro, Clifton, religion and education, ego et tu. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giacchè: A Cliftonian implicature” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giacomo – icona -- sensibile, imagine, presentazione, rappresentazione, formante e formato, contentente e contenudo -- l’inspiegabile – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Avola). Filosofo. Studia estetica. Il rapporto tra estetica e figura, immagine, rappresentazione. Si laurea sotto Garroni. Insegna a Parma e Roma. Fonda la Società Italiana d'Estetica. Nell'affrontare il concetto di ‘immagine’ è necessario rifiutare sia l'interpretazione che vede una'immagine come lo specchio di una cosa (“Fido”-Fido). E necessario rifiutare anche quella interpretazione del concetto di ‘imagine’ che la considera esclusivamente come un segno significante di se stesso. Il concetto di ‘rap-presentazione’ implica qualcosa che si mostra e nel manifestarsi resta ‘altro' dalla ‘percivibilita’ della rappresentazione stessa. Così, nel ‘presentare’ se stessa, una immagine manifesta l'altro del perceptible, del rappresentabil. Quell'altro che si rivela nel perceptibile, nascondendosi a esso. Ed è proprio così che una immagine si fa un ‘icono’ di quello che e altro il perceptibile. Afferma la tendenziale perdita di ‘figurativita’ di una immagine e del continuare a sussistere dell'immagine stessa. Una immagine, infatti, è una segno e insieme una non-segno. E il paradosso di una “irrealta reale”. Si riferisce al tentativo di scindere la natura ancipite dell'immagine negli elementi che la compongono. Da una parte in un “readymade” (come l’urinale di Duchamp), nel quale la dimensione rap-presentativa si dissolve in una dimensione puramente PRE-sentativa, e dall'altra in una pura immagine soggetiva, dotata di un debole supporto materiale. Una immagine e una meta-immgine: l’immagine di una immagine (homuncular regressus ad infinitum of Griceian theories of representation, according to Cummings, but not Grice!). Di questo modo, una immagine non e neppure propriamente immagini quanto piuttosto una ‘simul-azioni’, simile allo imperceptibile, un “simul-acro”.  Non a caso una immagine, in quanto ri-produzione (doppia) ha uno scarso valore di immagine, giacché quello a cui tende è l’assumere dell’ ‘aspetto’ di una cosa.  L’immagine perde così quella connessione di ‘trasparenza’ o ‘opacità’ che caratterizza una immagine autentica. Di qui, appunto, la questione di realizzare una immagine vera e propria. Troviamo il superamento della dimensione epifanica che è propria dell'icona, dove appunto il perceptibile è il luogo di mani-festazione di la cosa impercetibile – l’Assoluto di Bradley. Emerge una concezione dell'immagine che, nella consapevolezza dell'impossibilità di ogni pretesa di esaurire ‘il reale’ e insieme di ‘manifestare’ l'Assoluto, può essere interrogata come testimonianza di quanto non si lascia ‘tradurre’ (translation) in immagine: testimoniare, infatti, è raccontare ciò che è impossibile raccontare del tutto. In questo modo, la testimonianza fa tutt'uno *non* con la memoria in quanto conformità con l'accaduto, ma con l’immemoriale -- qualcosa che non possiamo né ricordare né dimenticare, che non è “dicibile” né “indicibile”. Insomma, il testimone “parla” (spiega, dispiega) soltanto a partire da l’impossibilità concettuale di spiegare o dispiegare. Che l'immagine valga allora come testimonianza significa che il tentativo di dire l'indicibile (spiegare l’inspiegabile) è un compito infinito. La questione dell'immagine è una questione di fidanza, di etica. In una immagine, non essendoci alcuna compiutezza, non si dà alcuna redenzione né alcuna pacificazione nel confronto col reale. Analissare l’immagine come testimonianza equivale a vedere l’immagine come il luogo di una tensione sempre irrisolta tra memoria e oblio, e quindi come l'espressione del dover essere (il possibile) del senso in un orizzonte, come l’attuale. quale sempre di più sia il mondo che l'arte sembrano essere abbando il NON-senso.  Altre opera: “Dalla logica all'estetica” (Parma, Pratiche); “Icona” “L’immagine tra presentazione e rappresentazione” (Palermo, Centro internazionale studi di estetica); Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza. Introduzione a Paul Klee, Roma-Bari, Laterza, "Ripensare le immagini", Mimesis, Milano,  "Volti della memoria", Mimesis, Milano,  Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Milano, Mimesis,  "Malevic. Pittura e filosofia dall'Astrattismo al Minimalismo", Carocci, Roma,  Fuori dagli schemi. Estetica e figura dal Novecento a oggi, Laterza, Roma-Bari,  "Arte e modernità. Una guida filosofica", Carocci, Roma,  "Una pittura filosofica: l'informale", Mimesis, Milano,  "F. Nietzsche. L'eterno ritorno", Alboversorio, Milano,  Media e divulgazione  Art and Perspicuous Perception in Wittgenstein’s Philosophical Reflection, L’immagine-tempo da Warburg a Benjamin e Adorno. Il saggio più importante per il rapporto tra estetica e letteratura è Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza, Cf. "Dalla logica all'estetica”, "Alle origini dell'opera d'arte contemporanea" “Astrazione e astrazioni”,  "La questione dell'aura tra Benjamin e Adorno", Rivista di Estetica, “Volti della memoria”.  Giuseppe Di Giacomo è stato Professore ordinario di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma fino al 2015 e, dopo il pensiona- mento, dal 2015 al 2017, è stato professore a contratto di Estetica presso stessa la Facol- tà. Sempre presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma, è stato membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in “Filosofia e Storia della filosofia” e Presidente del Corso di Laurea Magistrale in “Filosofia e Storia della filosofia”. È socio fondatore e membro del Consiglio di Garanzia della Società Italiana d’Estetica (SIE). È direttore della collana Figure dell’estetica presso l’editore Albover- sorio (Milano) e della collana Forme del possibile, presso l’editore Mimesis (Milano); fa parte del Comitato scientifico della rivista Paradigmi, della rivista Studi di estetica, della Rivista di estetica, della rivista Estetica. Studi e ricerche, della rivista Compren- dre. Revista catalana de filosofia, della rivista on line Memoria di Shakespeare. A Jour- nal of Shakespearean Studies e di Aesthetica Preprint, collana editoriale del Centro In- ternazionale Studi di Estetica. Fa parte inoltre del Comitato scientifico delle seguenti collane editoriali: Filosofie (Mimesis, Milano), Caffè dei filosofi (Mimesis, Milano), Eterotopie (Mimesis, Milano). È stato Coordinatore nazionale dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della Società Ita- liana di Estetica e coordinatore, dal 2001, di numerose Ricerche di Ateneo dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” relative a diverse tematiche filosofi- che, estetiche e artistiche. E’ stato inoltre responsabile di diversi progetti PRIN. Dal no- vembre 2012 all’ottobre 2015 è stato Direttore del Museo Laboratorio di Arte Contem- poranea (MLAC) della Sapienza Università di Roma. Come Direttore del Museo Labo- ratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma, ha ideato e coordina- to, in collaborazione con la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma e con il Teatro Argentina di Roma, numerose iniziative di carattere seminariale aventi per oggetto la filosofia, la letteratura, la musica, le arti figurative, il teatro. Dal 2015, collabora con il Teatro Eliseo all'interno del quale tiene una serie di conferenze e organizza seminari sul teatro, la musica, la letteratura e le arti visive. Collabora inoltre con la Fondazione Pri- moli di Roma e con il Museo Andersen (Polo Museale del Lazio). Tra le sue pubblicazioni: Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein (Parma, 1989); Icona e arte astratta. La questione dell’immagine tra presentazione e rappresentazione (Palermo, 1999); Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Otto- cento e Novecento (Roma-Bari, 1999; trad. in lingua spagnola a cura di D. Malquori, Estética y literatura, Universidad de Valencia, Servicio de Publicaciones, 2014); Intro- duzione a Paul Klee (Roma-Bari, 2003); Alle origini dell’opera d’arte contemporanea (Roma-Bari, 2008); Beckett ultimo atto (Milano, 2009), Ripensare le immagini (Milano, 2009); Astrazione e astrazioni (Milano, 2010); L’oggetto nella pratica artistica, (Para- digmi, 2, 2010), Il Museo oggi (Studi di Estetica, 2012), Aura (Rivista di Estetica, 2013), Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo (Roma, 2014), Fuo- ri dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi (Roma-Bari, 2015; trad. in lingua spagnola a cura di Juan Antonio Méndez, Al margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde principios del siglo XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016), Filosofia e teatro (Paradigmi, 1, 2015), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica (Studi di Estetica, 1-2/2014), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni (Milano, 2015), Arte e modernità. Una guida filosofica (Roma, 2016), 1  Una pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale (Milano, 2016), Nietzsche e l’eterno ritorno (Milano, 2016). Ha partecipato a progetti di ricerca internazionali e a progetti di ricerca europei. Ha svolto attività didattica e di ricerca (tenendo conferenze, lezioni e seminari, partecipan- do a convegni di studio e svolgendo attività didattica anche in qualità di correlatore o tutor di tesi di laurea e di Dottorato) presso importanti istituzioni straniere sia accademi- che che extra-accademiche, in Spagna, Russia e Messico: Facultat de Filosofia, Universitat de Barcelona; Facultat de Pedagogia, Universitat de Barcelona; Facultat de Filosofia, Universitat “Ramon Llull”, Barcelona; Societat Catalana de Filosofia, Institut d’Estudis Catalans; Ateneu de Vic; Ateneu de Barcelona; Associació Filosòfica de les Illes Balears, Mallorca; Facultat de Filosofia i Lletres, Universitat de les Illes Balears, Mallorca; Facultat de Filosofia i Ciències de l’educació, Universitat de València; Facultad de Filosofía, Universidad Complutense de Madrid; Istituto di studi post-universitari “SS. Cirillo e Metodio”, Mosca; Russian Christian Academy for the Humanities, S. Pietroburgo; “Peter the Great” St. Petersburg Polytechnic University, S. Pietroburgo; Producciòn Artìstica Contemporànea Coloquio (PAC), Centro Cultural San Pablo, Ciudad de Oaxaca, Messico; Monografie · Nietzsche e l’eterno ritorno, Commentario a F. Nietzsche, L’eterno ritorno, Al- boversorio, Milano, 2016 · Arte e modernità. Una guida filosofica, Carocci, Roma, 2016 · Una pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale, Mimesis, Milano, 2016 · Fuori dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2015 (trad. in lingua spagnola a cura di Juan Antonio Méndez, Al margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde principios del siglo XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016) · Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo, Carocci, Roma, 2014 · Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Mimesis, Milano, 2012 · Introduzione a Paul Klee, Laterza, Roma-Bari, 2003 · Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1999 (quinta ed., 2015; trad. in lingua spagnola a cura di D. Mal- quori, Estética y literatura, Universidad de Va-lencia, Servicio de Publicaciones, 2014); 2  · Icona e arte astratta. La questione dell'immagine tra presentazione e rappresen- tazione, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1999 · Dalla logica all'estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, Pratiche, Parma, 1989 Curatele · G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Letture shakespeariane. Otello e Re Lear, «Studi di Estetica», 3, 2017 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Contemporaneo. Arti visive, musica, architettura, «Rivista di Estetica», 61 (2016) · G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni, Mimesis, Milano, Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica, «Studi di Estetica», 1-2/2014 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Aura, «Rivista di Estetica», 52 (2013) · G. Di Giacomo, A. Valentini (a cura di), Il museo oggi, «Studi di Estetica», 45 (2012) · G. Di Giacomo (a cura di), Volti della memoria, Mimesis, Milano, 2012 · G. Di Giacomo (a cura di), Astrazione e astrazioni. In occasione di una mostra di Gualtiero Savelli, Alboversorio, Milano, 2010 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), L'oggetto nella pratica artistica, «Pa- radigmi», 2 (2010), Franco Angeli, Milano, 2010 · G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini, Mimesis, Milano, 2009 · G. Di Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo atto, Albo Versorio, Mi- lano, 2009 · G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle origini dell'opera d'arte con- temporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008 Saggi 2018 Introduzione a D. Malquori, L’incomprensibile ambiguità dell’orizzonte. Un so- gno fatto a Ginostra, Mimesis, Milano, collana Narrativa Mele d’Oro, 2018, pp. 5-10. 2017 Il problema della forma nella Teoria estetica di Adorno, in M. Manicone (a cura di), Sostanza di cose sperate. Scritti in onore di Franco Purini, Iiriti Editore, Campo Calabro (RC), 2017, pp. 329-337. 2017 Re Lear. “Essere maturi” in un mondo abbandonato alla cecità e alla follia, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a cura di), “Letture shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3, 2017, pp. 85-108. 3  2017 Otello: la tragedia della parola e il ruolo della narrazione, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a cura di), “Letture shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3, 2017, pp. 1-18. 2017 Dostoevsky, a writer and philosopher: “The Grand Inquisitor”, in “ACTA ERU- DITORUM”,  Publishing house of the Russian Christian Academy for the Humanities, 2017, pp. 61-68. 2017 Tradició i innovació en l’art, in “La Tradició”, Col-loquis de Vic, Societat Catala- na de Filosofia, Institut d’Estudis Catalans, XXI, 2017, pp. 171-178. 2017 Understanding of the «image» in Plato, in «PLATO AND ANCIENT SCIENCE», Collection of materials of 25TH INTERNATIONAL CONFERENCE «THE UNIVER- SE OF PLATONIC THOUGHT», RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMA- NITIES, Saint Petersburg, June 21–22, 2017, Appendice alla rivista di Fascia A (in Russia “VAK”) “Vestnik” della RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMANI- TIES. Redattori: Svetlov R. V., Robinson T. M. (Canada), Protopopova I. A., Mochalo- va I. N., Kurdybajlo D. S., Shmonin D. V., Alymova E. V., pp. 163-170. 2016 Form, appearance, testimony: reflections on Adorno’s Aesthetics, in G. Matteucci, S. Marino (a cura di), Theodor W. Adorno: Truth and Dialectical Experience / Verità ed esperienza dialettica, “Discipline filosofiche”, XXVI, 2, Quodlibet, Macerata, Tàpies e Bill Viola: un'arte che sopravvive alla mercificazione, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Contemporaneo. Arti visive, musica, architettura, “Rivista di Estetica”, 61, pp. 49-64 2016 Composizione, costruzione, icona nella concezione artistica di Pavel Florenskij, in D. Guastini, A. Ardovino (a cura di), I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani, Pellegrini Editore, Cosenza, pp. 325-334 2016 Prefazione a A. Lanzetta, Opaco mediterraneo. Modernità informale, Libria, Fog- gia, pp. 7-9 2016 Reflexions filosòfiques sobre la festa. Entre temporalitat i eternitat, in “La festa”, Col-loquis de Vic, Societat Catalana de Filosofia, XX, Vic, pp. 51-66 2015 The Myth. Aesthetic surgery clearly demonstrates what Greek myth has already taught us: beauty stems from horror, in P. Gandola, P. Persichetti (a cura di), Art of Blade. A book about surgery and humanity, T.A.M. Books, 2015, pp. 17-29 2015 La guerra i l'art, in La guerra, Col-loquis de Vic, Societat Catalana de Filosofia, XIX, pp. 11-26 2015 Arte e vita nella Recherche di Marcel Proust, in G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni, Mimesis, Milano, 2015, pp. 111-138. 4  2015 Lettura dell’Amleto, in G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015, pp. 21-36. 2015 Lettura del Macbeth, in G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015, pp. 111-125. 2014 Arte, linguaggio e rappresentazione nella riflessione filosofica di Wittgenstein in Comprendre. Revista Catalana de Filosofia, 16,2, pp.29-50. 2014 Icona e immagine, in G. Bordi, J. Carlettini, M.L. Fobelli, M.R. Menna, P. Poglia- ni (a cura di), L'officina dello sguardo. Scritti in onore di Maria Andaloro, Gangemi, Roma, pp. pp.33-37. 2014 El poder i les seves representacions, in L'estat, Col•loquis de Vic., vol. XVIII, pp.27-49. 2014 Dalla modernità alla contemporaneità: l’opera al di là dell’oggetto, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica, «Stu- di di Estetica», 1-2/2014, pp. 57-84. 2013 Entre la paraula i el silenci: la filosofia com a recerca de la veritat, prefaci a An- toni Bosch-Veciana, "Imatge-Mirada-Paraula", Barcelona,Facultat de Filosofia, URL, 2013 2013 L’immagine artistica tra realtà e possibilità, tra “visibile” e “visivo”, in P. D’Angelo, E. Franzini, G. Lombardo, S. Tedesco (a cura di), Costellazioni estetiche. Dalla storia alla neoestetica. Studi in onore di Luigi Russo, Guerini e Associati, Mila- no, 2013, pp.121-134. 2013 La questione dell'aura tra Benjamin e Adorno, in «Rivista di Estetica», 52 (2013), pp. 235-256 2012 Antonio Pizzuto: tra letteratura e filosofia, in D. Perrone (a cura di), La vera novi- tà ha nome Pizzuto, Bonanno Editore, Catania, 2012, pp. 37-48 2012 Bellezza e chirurgia estetica, in «Studi di Estetica», 46 (2012), pp. 65-94 2012 Il paradosso dell'apparenza nel teatro di Jean Genet, in «Comprendre. Revista Catalana de Filosofia», 2 (2012), vol. 14, pp. 41-57 2012 La qüestió de la imatge a partir del debat sobre la icona, in «Col•loquis de Vic», Societat Catalana de Filosofia, Art and Perspicuous Vision in Wittgenstein's Philosophical Reflection, in “Aisthe-  sis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico”, anno VI, n. 1, pp. 151-172  (http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/ article/view/12844/12158) 5  2012 L'opera di Kafka come narrazione infinita, in A. Valentini, Il silenzio delle Sire- ne. Mito e letteratura in Kafka, Mimesis, Milano, 2012, pp. IX-XXIV 2012 Lo statuto paradossale del museo tra globalizzazione e apertura all'alterità, in «Studi di Estetica», 45 (2012) "Il Museo oggi", a cura di G. Di Giacomo e A. Valentini, pp. 7-26 2012 Memoria e testimonianza tra estetica ed etica, in Volti della memoria, a cura di G. Di Giacomo (a cura di), Mimesis, Milano, 2012, pp. 445-481 2011 La idea d'Europa entre la cosciència de l'ocàs i l'obertura a l'altre, in Europa, in J. Monserrat, I. Roviró, B. Torres (a cura di), Societat Catalana de Filosofia, Barcelo- na, 2011, pp. 71-78 [Atti del convegno, Col•loquis de Vic, XV, Vic, 2010] 2011 Arte e mondo. A proposito di alcune riflessioni di Georges Didi-Huberman su Bertolt Brecht, in D. Guastini, A. Campo, D. Cecchi (a cura di), Alla fine delle cose. Contributi a una storia critica delle immagini, La Casa Usher, Fi- renze, 2011, pp. 200-204. 2011 Intervista sulla bellezza, in Scuderi N. (a cura di), A me la mela. Dialoghi su bellezza, chirurgia plastica e medicina estetica, Franco Angeli, Milano, 2011, pp. 128-136 2011 La produzione artistica contemporanea attraverso la riflessione di Benjamin e Adorno, in «Studi di Estetica», n. 43, 2011 , pp. 5-20 La relaciò entre imatge i temporalitat en la reflexiò de Warburg, Benjamin i Adorno, in I. Rovirò Alemany (a cura di), Estètica catalana, estètica euro- pea. Estudis d’estètica: entre la tradiciò i l’actualitat, Barcelona, 2011, pp. 9-27 L’immagine-tempo da Warburg a Benjamin e Adorno, in “Aisthesis. Prati- che, linguaggi e saperi dell’estetico”, anno 2, n. 2, pp. 73-80, (http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/article/view/11009/10381). 2010 Arte e realtà nella produzione artistica del Novecento, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), L’oggetto nella pratica artistica, «Paradigmi», 2 (2010), Franco Angelini, Milano, 2010, pp. 87-104 Il percorso di Gualtiero Savelli: dall'astrattismo di Malevič e Mondrian all'astrazione geometrica, in G. Di Giacomo (a cura di), Astrazione e astra- zioni. In occasione di una mostra di Gualtiero Savelli, AlboVersorio, Mila- no, 2010, pp. 11-19 2011 2010 2010 6  2010 La bellezza. Promessa di Immortalità?, in “Medic. Metodologia Didattica e Innovazione Clinica”, vol. 18, 1-3, dicembre 2010, pp. 48-51 2010 Ripensare l'aura nella modernità, in L. Russo (a cura di), Dopo l'Estetica, «Aesthetica Preprint», Supplementa, Palermo, 2010, pp. 75-89 Il male oggi. Produzioni artistiche e riflessioni estetiche, in P. D'Oriano, D. Rocchi (a cura di), Il male e l'essere, Mimesis, Milano, 2009, pp. 247-261 2009 Arte e moda nella riflessione estetica di Adorno, in P. Romani, Percorsi teo- retici. Scritti in onore e in memoria di P.M. Toesca, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, pp. 213-225 2009 Forma e riflessione nel romanzo moderno, in M. Fusillo (a cura di), Philoso- phie du roman, Revue Internationale de Philosophie, 63, Meyer, Bruxelles, 2009, pp. 137-151 2009 Il silenzio, il vuoto e la fine della rappresentazione, in G. Di Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo atto, Albo Versorio, Milano, 2009, pp. 13-26 2009 Immagine, icona, opera d'arte, in F. Desideri, G. Matteucci, J.M. Schaeffer (a cura di), Il fatto estetico. Tra emozione e cognizione, ETS, Pisa, 2009, pp. 163-179 2009 La questione del rapporto arte-forma nella riflessione di Prinzhorn sulle "Produzioni plastiche" dei malati mentali, Prefazione a F. Bassan, Al di là della psichiatria e dell'estetica. Studio su Hans Prinzhorn, Lithos, Roma, 2009, pp. XI-XVIII 2009 La questione dell'immagine nella riflessione estetica del Novecento, in G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini, Mimesis, Milano, 2009, pp. 367-390 2009 Le Mal aujourd'hui. Productions artistiques et rèflexions esthètiques, in «La règle du jeu», 39 (2009), pp. 153-171 2008 Adorno: arte ed estetica dopo Auschwitz, in M. Failla (a cura di), Dialettica negativa: categorie e contesti, Manifesto libri, Roma, 2008, pp. 195-207 2008 C'è ancora spazio per l'aura nella scultura contemporanea? A proposito di Luigi Mainolfi, in P. De Luca (a cura di), Intorno all'immagine, Mimesis, Milano, 2008, pp. 135-149 2008 Postfazione, in G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle origini dell'opera d'arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 203-222 2007 Armando Ferrari ed Emilio Garroni: un incontro, in in F. Romano, M. Ro- manini, S. Tauriello (a cura di), La metafora nella relazione analitica, Mi- mesis, Milano, 2007, pp. 21-41 2009 Modernitat, Societat Catalana de Filosofia, Barcellona, 2009, pp. 113-134 2009 Modernità e arte, in J. Monserrat Molas, I. Roviró Alemany (a cura di), La [Atti del convegno, Col•loquis de Vic, XIII, Vic, 2008] 7  2007 Dal cosmo al caos: la pittura di Paola Romano, in Paola Romano, Catalogo della Mostra, Print Company, Roma, 2007, pp. 5-7 2007 Ironia e romanzo, in P. F. Pieri (a cura di), Perché si ride. Umorismo, comi- cità, ironia, Moretti & Vitali, Bergamo, 2007, pp. 133-152 2007 La connessione arte-moda nella riflessione estetica del Novecento, in «Al- manacco Odradek», 2 (2007), pp. 174-177 2006 Arte, storia dell'arte e beni culturali, in D. Goldoni, M. Rispoli, R. Troncon (a cura di), Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali, Il Brennero - Der Brenner, Bolzano - Trento - Vienna, 2006, pp. 53-60 2006 Da Nietzsche a Benjamin: riflessioni sulla metropoli e dialettica del risve- glio, in R. Colombo (a cura di), «Fictions. Studi sulla narratività», 5 (2006), pp. 31-39 2006 Il "Tintoretto" di Sartre, tra presentazione e rappresentazione, in G. Farina (a cura di), «Bollettino Studi sartriani. Gruppo ricerca Sartre», 2 (2006), pp. 213-224 2006 Pietro M. Toesca: il rovesciamento della prospettiva, ovvero il doppio sguardo, in «Eupolis», 42 (2006), pp. 40-52 2006 Sul corpo. Riflessioni filosofiche e psicoanalitiche, in «Eupolis», 41 (2006), pp. 9-20 2006 Vedere e vedere-come: le "Osservazioni sulla filosofia della psicologia" di Ludwig Wittgenstein, in S. Borutti, L. Perissinotto (a cura di), Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di Wittgenstein, Carocci, Roma, 2006, pp. 125-134 2005 La poesia dopo Auschwitz, in «Eupolis», 38 (2005), pp. 36-46 2005 Sul rapporto arte-vita a partire dalla "Teoria estetica" di Adorno, in «Idee», 58 (2005), pp. 93-112 2005 Visione, forma e contenuto in Arnheim e Wittgenstein, in L. Pizzo Russo (a cura di), Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva, «Aesthetica Preprint», Supplementa, Palermo, 2005, pp. 195-212 2004 Arte e rappresentazione nella "Teoria estetica" di Adorno, in «Cultura tede- sca», 26 (2004), pp.103-121 2004 Le idee estetiche di Stendhal, in M. Colesanti, H. de Jacquelot, L. Norci Ca- giano, A. M. Scaiola (a cura di), Arrigo Beyle "Romano" (1831-1841), Edi- zioni di Storia e Letteratura, Roma, 2004, pp. 113-135 2004 Rappresentazione e memoria in Aby Warburg, in C. Cieri Via, P. Montani (a cura di), Lo sguardo di Giano. Aby Warburg fra tempo e memoria, Nino Aragno Editore, Torino, 2004, pp. 79-112 2003 Il problema della rappresentazione in Gombrich e Goodman, in «Studi di estetica», 27 (2003), pp. 79-112 2003 Il tema della bellezza nel romanzo moderno, in F. Sisinni (a cura di), Rifles- sioni sulla bellezza, De Luca, Roma, 2003, pp. 99-117 2003 Le nozioni di famiglia, classe, individuo nella riflessione estetica di Morpur- go-Tagliabue, in L. Russo (a cura di),Guido Morpurgo-Tagliabue e l'estetica del Settecento, «Aesthetica Preprint», Palermo, 2003, pp. 75-84 8  2003 Sguardo, simbolo, mito. Viaggio in un museo immaginario, in G. Baruchello, Cosa guardano le statue, Danilo Montinari Editore, Ravenna, 2003, pp. 5-22 2001 Comprensione e rappresentazione in Wittgenstein, in «Il cannocchiale», 3 (2001), pp. 197-224 2001 Sulla rappresentazione, in U. Cao, S. Catucci (a cura di), Spazi e maschere dell'architettura e della metropoli, Meltemi, Roma, 2001, pp. 139-147 1998 Eros come narrazione nella "Ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust, in «Almanacchi nuovi», 2 (1998), pp. 55-76 1998 Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell'immagine, in L. Russo (a cu- ra di), Nicea e la civiltà dell'immagine, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1998, pp. 71-86 1995 Jean Genet e il paradosso dell'immagine, in P. Montani (a cura di), Senso e storia dell'estetica. Studi offerti a Emilio Garroni in occasione del suo set- tantesimo compleanno, Pratiche, Parma, Etica ed estetica nella filosofia del giovane Lukács, Introduzione a G. Lukács, Teoria del romanzo, Pratiche, Parma, 1994, pp. 7-41 1992 Realtà e Finzione in "Dissonanzen-Quartett" di Emilio Garroni, in «La ra- gione possibile», 5 (1992), pp. 264-268 1986 Il comportamento cognitivo dell'uomo nell'epistemologia evoluzionistica di Popper, in «Terzo Mondo», 27 (1986), pp. 48-71 1984 L'epistemologia di Mach fra positivismo e costruttivismo, in «Lineamenti», 6 (1984), pp. 57-76 1984 Senso e significato nella filosofia del linguaggio di Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), Il Circolo di Vienna, Longo, Ravenna, 1984, pp. 131-156 1983 La nozione di «uso» e la funzione della filosofia in Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), L. Wittgenstein e la cultura contemporanea, Longo, Ravenna, Implicazioni e aspetti epistemologici della sociobiologia, in M. Ingrosso, S. Manghi, V. Parisi (a cura di), Sociologia possibile, Franco Angeli, Milano, 1982, pp. 69-82 1982 Natura e cultura: il rapporto tra "strutture" genetiche e "processi" di ap- prendimento nel comportamento animale e umano, in AA. VV. (a cura di), L'osservazione del comportamento sociale, Regione Piemonte, Torino, 1982, pp. 37-54 PROGETTI DI RICERCA - Progetto PRIN Tema: La forma dell’immagine Ente promotore: MIUR 2003 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile Tema: Estetica analitica ed estetica continentale: problemi, prospettive e tradi- zioni a confronto 9  Ente promotore: MIUR 2005 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile nazionale e Coordinatore dell’unità locale Tema: Memoria e rappresentazione nella riflessione filosofica e artistica Ente promotore: MIUR 2007, 24 mesi; Coordinatore dei seguenti Progetti di Ateneo: - Progetto di Ateneo: Immagine e rappresentazione. Problemi estetici, artistici e storici Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza” 2001 / 24 mesi - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2002 / 24 mesi; - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2003 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2004 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e testimonianza nella riflessione filosofica e artisti- ca del Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2007 / 24 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e testimonianza nella riflessione filosofica, storica e artistica - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2008 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Rappresentazione, memoria e testimonianza nella riflessione filosofica e artistica - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 12 mesi; - Progetto di Ateneo: La questione arte-vita nella società multiculturale. Identità, immagine e implicazioni etico-politiche - Ente promotore: Università di Roma “La Sapienza” 2012/ 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Il tema dell'"Annunciazione" come chiave di lettura degli at- tuali processi di globalizzazione - Ente promotore: Università di Roma “La - Sapienza” 2013/ 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e rappresentazione nella riflessione estetica e arti- stica Ente promotore: AST - Università di Roma "La Sapienza"  12 mesi; - Progetto di Ateneo: Evento e testimonianza nell'estetica del Novecento Ente promotore: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2008 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Il problema dell'aura nell'arte contemporanea Ente promoto- re: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2009 / 12 mesi; 10  Coordinatore dei seguenti Seminari dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della Società Italiana di Estetica, presso la Facoltà di Filosofia dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” - Seminario sul tema Estetica e storia dell’arte: necessità di un dialogo; - 27 settembre 2004: Seminario sul tema Fine (della storia) dell'arte?; - Seminario sul tema Arte, Estetica, Visual Studies; - 8-9 febbraio 2008: Seminario sul tema Oggetto artistico e oggetto comune; - 20-21 febbraio 2009: Seminario sul tema Leggere l'opera d'arte; - 18-19 febbraio 2011: Seminario sul tema Ancora l’aura oggi?;Seminario sul tema Che cos’è il museo oggi? Cfr. inoltre: - Sito Web ufficiale: www.giuseppedigiacomo.it - https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo ; https://fr.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo https://en.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo https://de.wikipedia.org/ wiki/Giuseppe_Di_ Giacomo https://ca.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo 11ROMANTIC PAINTERS and playwrights of the nineteenth century found rich material in the lives of the old masters. Fueled by irresistible half-truths and rumors, they created swashbuckling narratives about the personal intimacies and rivalries, as well as the career failures and triumphs, of the Italian Renaissance artists. At the Paris Salon of 1843, for instance, Léon Cogniet unveiled his grand entry, a large canvas depicting Tintoretto painting a portrait of his beloved daughter Marietta, who lies on her death bed. Three years later, the painter and playwright Luigi Marta published a melodrama about an amorous intrigue that supposedly led to the death of Marietta, who assisted her father as an artist in his workshop. The six-episode play reads like a soap opera in which the aristocratic Alfredo is pitted against Marietta’s true love, Valerio Zuccato, a Venetian mosaicist (and thus, in Tintoretto’s world, a fellow craftsman). The play circles around the inevitable showdown between the arrogant count and the sincere artist, which precipitates Marietta’s death at the hands of the entitled, privileged, and violent Alfredo.  Parallel to this love story, the reader is regaled with the homosocial rivalry between Tintoretto and Titian, with Paolo Veronese appearing as an intercessor who mediates a grandiloquent reconciliation scene in which all three masters unite to defend the honor of the Venetian state. The narrative unfolds against Tintoretto’s commission for the Last Judgment (1562–64) in Santa Maria dell’Orto. Marta’s artist was thus, in no uncertain terms, a struggling genius waiting for recognition from his fellow artists even at the height of his success. Indeed, the episode concludes with Titian’s transformative endorsement—Ora non siete più il povero Tintoretto, ma bensì il famoso Giacomo Robusti (“now you are no longer the poor ‘son of a dyer,’ but the famous Jacopo Robusti”).1  Loosely based on actual historical personages, the tale is almost entirely fantasy. Such theatrical characterizations are nevertheless of great importance, for they help give legends the veneer of history. Giorgio Vasari’s sixteenth-century notices about Tintoretto, as well as, in the seventeenth century, Carlo Ridolfi’s biography and Marco Boschini’s various writings on the artist, were the primary sources for many of these tasty morsels, and while scholars have tried to sift fiction from reality, some myths are just too delectable to give up. We still hear repeated, for instance, the unfounded story that the young Tintoretto was kicked out of Titian’s studio. It’s not entirely impossible, but there isn’t a shred of solid evidence to confirm the tale (any more than Ridolfi’s allegation that Tintoretto dressed Marietta up as a boy so that father and daughter could wander the city streets unimpeded by society’s strict gender expectations).   The image of Tintoretto-as-rebel would culminate in Jean-Paul Sartre’s essay “The Prisoner of Venice”(1964), where the artist is reinvented as an existentialist hero, a lone wolf fighting against the stultifying rules of the system:  Fate has decreed that Jacopo unwittingly expose an age which refuses to recognize itself. Now we understand the meaning of his destiny and the secret of Venetian malice. Tintoretto displeases everyone: patricians because he reveals to them the puritanism and fanciful agitation of the bourgeoisie; artisans because he destroys the corporate order and reveals, under their apparent professional solidarity, the rumblings of hate and rivalry; patriots because the frenzied state of painting and the absence of God discloses to them, under his brush, an absurd and unpredictable world in which anything can occur, even the death of Venice.2  At the other end of the spectrum, this leitmotif is perhaps best played out for comic effect in Woody Allen’s Everyone Says I Love You (1996), in which a skirt-chaser (Allen) is overheard in the so-called Tintoretto Museum (really the Scuola Grande di San Rocco) in Venice trying to impress a Tintoretto enthusiast (Julia Roberts) by lauding the artist’s immense genius for painting “outside the academic convention of sixteenth-century Venice.”   Sometimes myths are just too powerful, and the Tintoretto myth is an extremely appealing one for modern tastes, especially in the celebratory year marking the fifth centenary of the artist’s birth. Tintoretto’s anniversary has been staged as a magnificent international banquet. The festivities began last autumn in Venice with exhibitions at the Palazzo Ducale(“Tintoretto: Artist of Renaissance Venice”) and the Gallerie dell’Accademia (“The Young Tintoretto”), as well as an excellent little show at the Scuola Grande di San Marco (“Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s Venice”). New York, in the fall, offered “Drawing in Tintoretto’s Venice” at the Morgan Library & Museum and “Celebrating Tintoretto: Portrait Paintings and Studio Drawings” at the Metropolitan Museum of Art.  The fete continues in 2019 at the National Gallery of Art in Washington, D.C., where slightly adapted versions of the Palazzo Ducale and Morgan Library exhibitions go on view this month, fortified by a third independent show called “Venetian Prints in the Time of Tintoretto.” This is a once-in-a-lifetime opportunity for audiences in America to see some one hundred and seventy artworks by Tintoretto and other Venetian Renaissance artists, painstakingly gathered by art historians Robert Echols and Frederick Ilchman (who organized the show at the Palazzo Ducale),along with curators John Marciari (of the Morgan) and Jonathan Bober (of the National Gallery). Fans of the artist and of painting in general should take note.     IT’S HARD NOT TO get swept up in all the unbridled Tintoretto worship, but this celebration also provides us an opportunity to revisit the man, the myth, the legacy, and above all, the work. To start with the biographical elements: Tintoretto was hardly seen as a pitiful “poor dyer’s son” in the eyes of his fellow Renaissance artists, nor as a maverick who “displeases everyone.” When speaking about Titian vs. Tintoretto, one must take into account a few historical particulars. For instance, in 1519, the year after Titian installed the magnificent Assumption of the Virgin in Santa Maria Gloriosa dei Frari, Tintoretto’s only achievement was to be born. In 1545, two years before Tintoretto’s first self-portrait (with which all Tintoretto exhibitions seem compelled to begin), Titian was called to Rome by Pope Paul III; in the 1550s and 1560s he was practically a court painter to the Habsburgs, while Tintoretto was painting acres of canvas to fill the walls at the Chiesa della Madonna dell’Orto, the Scuola Grande di San Rocco, and the Scuola Grande di San Marco in Venice; Titian died in 1576 during the plague, and in 1577 a conflagration devastated the Palazzo Ducale, destroying many of his paintings there, some of which would be replaced with works by Tintoretto and his assistants in the 1580s. While there was probably no love between the two men of the kind that nineteenth-century dramatists might dream up, their careers ran parallel to each other rather than in constant antagonistic competition.   Many romantic myths are dispelled in the scholarship that went into the exhibitions and the catalogue essays, but the melodrama of this rivalry still sneaks into sections such as “The Mantle of Titian,” which, at the Palazzo Ducale, was called “Dopo Tiziano” (After Titian) thereby underlining both chronological priority as well as influence. The paintings Tintoretto did afterTitian’s death in 1576—large, powerful mythological pictures such as the Forge of Vulcan (1577) and the Origin of the Milky Way (ca. 1577–78)—are spectacular, but why filter these achievements once more through Titian? And why not have, instead, a section labeled “Dopo Tintoretto,” which would include El Greco, the Carracci, Caravaggio, and a host of other artists from the past five centuries who found inspiration in his stark chiaroscuro, raking perspective, extreme foreshortening, airborne saints, psychologically charged portraits, barefoot worshippers, elaborate banquet scenes, wraithlike angels and spirits, and busted-out straw chairs?  The oft-repeated trope that Tintoretto was an outsider also willfully overlooks his obvious status as a complete insider, born in Venice and fully embedded in its institutions from birth. Titian and Veronese, in contrast, were both provincials (practically foreigners by Renaissance standards), who came from the hills and plains beyond the lagoon. While a questionable seventeenth-century account suggested an aristocratic lineage for the Robusti family, more recent studies have emphasized instead the artist’s “working class” origins. The truth is somewhere in between. Stefania Mason’s essay “Tintoretto the Venetian,” from the catalogue that accompanies “Tintoretto: Artist of Renaissance Venice,” goes a long way to contextualize the precise socioeconomic conditions of the son of a Renaissance dyer or—to be more accurate—the son of a manager of a dye works married to a “well-born woman.” The Robusti were not wealthy by any means, but they were comfortable enough to give Tintoretto a basic education that enabled him later in life to befriend the circle of writers and intellectuals known as the poligrafi, including the notorious satirist Pietro Aretino (a friend of Titian and an early supporter of Tintoretto).   Like his father, Tintoretto married up. His father-in-law, Marco Episcopi, not only belonged to an influential family of Venetian cittadini, he was also the guardian of the Scuola Grande di San Marco, where Tintoretto—two years before his marriage—painted his finest early work, Miracle of the Slave (1548). The scene features St. Mark swooping in headfirst from the sky to protect a slave from being martyred for his faith. Current viewers need not be intimidated by the religious matter of the vast majority of Tintoretto’s pictures—they are gripping visual tales of life and death. According to seventeenth-century artist and critic Marco Boschini, one beholder of Tintoretto’s St. Mark cycle reported: “The terror makes me faint, and the piety liquefies my heart in such a manner that I lose heart and melt like wax and feel completely mad!”3 As much “Game of Thrones” as Catholic doctrine in pictures, these works were meant to move, delight, and instruct their audience. Indeed, one cannot help but feel that if Tintoretto were alive today, he would be an unapologetic fan of action films and special effects. Looking at Miracle, with its explosive light and tense shadows, its superhuman heroes and racially profiled villains, and its meticulous staging of powerful, muscular, controlled bodies, one might think he invented the genre. No wonder Boschini described him as a “thunderbolt” and the “cannons of a ship.”4  Unfortunately, Miracle of the Slave has not been allowed to cross the Atlantic. Audiences in D.C. can, however, marvel at the luminous Saint Augustine Healing the Lame (ca. 1550) and the always pleasing Creation of the Animals (1550–53), which the French philosopher Gilles Deleuze once described as an image of God as a referee “at the start of a handicapped race, in which the birds and the fish leave first, while the dog, the rabbits, the cow, and the unicorn await their turn.”5  While Miracle has been in the possession of the Gallerie dell’Accademia for many decades now, seeing it anew, rehung next to the diminutive bronze relief of the same subject by the Florentine sculptor Jacopo Sansovino, was one of the highlights of the “Young Tintoretto”exhibition. With the works placed next to each other in a darkened room, the similarities and differences were enlightening. Designed and executed between 1541 and 1546 for the north tribune of the choir at the Basilica di San Marco, Sansovino’s glowing bronze panel reduces the scene to a compact, tactile, monochromatic field of chiaroscuro with a vibrant mass of bodies emerging from the picture plane in dynamic, agitated poses. Tintoretto, just on the cusp of his thirtieth year when he painted Miracle, clearly looked closely at the dramatic effects that could be sculpted out of gesture, form, and composition alone. To this art he would add the detail of expression, the intensity of extreme lighting, the terribilità that often comes with scale, and the incomparable power of color.WHILE THE TWENTY-FIRST CENTURY audiences might think it odd for an ambitious artist to unveil a painting so closely modeled on a recent work by another artist, the reuse of motifs was a common Italian Renaissance practice, as was made clear in an insightful section of the Palazzo Ducale exhibition simply called “The Recycler.” Tintoretto and his assistants, after all, produced more square footage of painting than any other workshop in the Venetian Renaissance. In one instance, the painter salvaged an old composition from his painting Mystic Crucifixion by cutting, splitting, and reintegrating the canvas into a new picture, The Nativity(ca. 1550s and 1570s); on another occasion, he copied, pivoted, and re-costumed a previously used figure of St. Lawrence intended for the Bonomi family altar in San Francesco della Vigna, transforming the martyr into Helen of Troy. Such shortcuts were standard in most Renaissance workshops, especially prolific ones that had to turn out hundreds of altarpieces, portraits, mythological paintings, battle scenes, and other pictures.  The juxtaposition between the Florentine sculptor and the Venetian painter also underlines Tintoretto’s connectedness with other artists. He painted Sansovino’s portrait more than once, even signing one of the works as “Jacobus Tintorettus eius amicissimus” (which, if you believe the inscription, means they were Renaissance BFFs). Tintoretto was an artist’s artist. His profound sense of community comes across in a rather touching contract found in the Venetian archives and included in the small but brilliant “Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s Venice” at the Scuola Grande di San Marco. In this document, drafted and signed shortly after Christmas in 1585, the artist agrees to provide works and forgo any payment on the condition that the confraternity admit four people: his son Giovanni Battista Robusti; his son-in-law Marco Augusta (the real-life husband of Marietta); the tailor Bartolomeo di Lorenzo; and another man named Angelo Girardi. His dedication to his family, friends, and students is also borne out in numerous workshop drawings, which are well represented in D.C.  Offering important opportunities for artistic communion, drawing had its pragmatic as well as pleasurable purposes. In several sketches made after a copy of the ancient bust known as the Grimani Vitellius, we see multiple hands working seemingly side by side, line by line, smudge by smudge, highlight by highlight, with the goal of mastering the visible world around them. The willful way that these graphic studies dematerialize carved stone and reincarnate the male portrait head into what looks at first glance like the image of a flesh-and-blood subject is remarkable. In this sequence, note especially the Morgan Library drawing rendered by what the curator identifies as a “left-handed draftsman.” The work seems almost too bold in its deliberate, sweeping gestures to be “workshop,” but then Tintoretto was clearly a very good master with some very capable assistants.   In Tintoretto’s drawings and paintings, one often feels that he is “sculpting” with chalk, charcoal, watercolor, oil, and pigment, ignoring the flat surface of the paper or canvas. This comes across not only in the speckled black-and-white patterns of his drawings from sculptures (which he avidly collected) but in his life studies, too. His rendering of flesh frequently seems to be rippling and quivering with animal energy, as if the artist were trying to catch the living body in motion. His is possibly the most atomistic rendering of the human form in the Renaissance. The frenetic, vibrating lines in Seated Man with Raised Right Arm (ca. 1577), for instance, exemplify this stylistic peculiarity: the contours of the mythological body can never sit still but seem to be in a constant state of flex and flux. (Indeed, Tintoretto’s figural drawings make Marcel Duchamp’s Nude Descending a Staircase and every episode of “The Incredible Hulk” seem old hat when they appear centuries later.)   One of the art-historical myths destroyed—hopefully once and for all—by the exhibitions in honor of Tintoretto is that Venetians did not really draw. Some did more than others, and Tintoretto and his assistants surely drew up a storm. On various sheets we find words such as fa (make), sì (yes), fatto (made), no (no), and bono (good) scrawled across the surface; sometimes figures are singled out by an asterisk. These marks were workshop instructions on designs that had been cleared for production by the master. Sheets such as Study of a Man Climbing into a Boat (1578–79) were frequently greased and held up to the light so that forms could be retraced on the verso, offering compositional options. Many have squaring grids drawn across them. In some instances, this facilitated the transfer of the design onto a larger surface; in other cases, it assisted in the correction of foreshortening and the adjustment of figural proportions.   Of the thirty-some drawings by Tintoretto and his workshop on display at the National Gallery of Art, the majority are on the blue paper favored by Venetian artists. The dark surface of this carta azzurra provided an ideal ground upon which to map out gestural movements, tonal subtleties, and, above all, the effects of light and shadow. It might also be compared with the darkened grounds of many Tintoretto paintings. The canvas support for The Origin of the Milky Way, for example, is prepared with a brownish layer upon which the artist sketched out his composition with white lead paint (rather than using black paint on a white gessoed surface). Once a scene had been plotted out on the canvas, however, Tintoretto was prone to further editing, altering, and redrawing of figures and forms in a variety of white, black, and even red paint until the work was completed.     PAINTERS AND people interested in the way things are made will find much to consider in these exhibitions. Tintoretto’s process is revealed in medias res through the various X-rays that accompany the didactic material in the galleries and comes across most clearly in the oil sketch Doge Alvise Mocenigo Presented to the Redeemer(1571–74, a work included in the 2016 exhibition “Unfinished: Thoughts Left Visible” at the Met Breuer in New York). Looking at the mannequinlike figures waiting to be dressed with flesh and clothes, one comes to appreciate the procedural logic that binds these drawings and paintings together (a topic expertly discussed in Roland Krischel’s essay “Tintoretto at Work” in the National Gallery of Art exhibition catalogue). The show reveals Tintoretto’s exploratory procedure: visceral, intuitive, yet ultimately studied and thought-through—but never entirely scripted.   Tintoretto is all gestalt. If the Marxist machismo of Sartre’s characterization of the artist as a rebel “born among the underlings who endured the weight of a superimposed hierarchy” is misplaced, one must admit that his phenomenological acumen regarding the works is often startlingly spot on. Sartre writes with great perspicacity about the narrow, vertical composition of Saint George and the Dragon (ca. 1553–55):  Everything is simultaneous in his canvas, he contains everything within the unity of a single instant. But to mask the over-harsh rift, he presents the spectator with the spectre of a succession of events. Not only is the route traced in advance, but each stage devalues the previous one and shows it up as an inert memory of things past. The corpse’s immobility is memory: it is prolonged and repeated from one moment to the next, identical and useless. . . . The time-trap works, we are caught: a false present welcomes us at every step and unmasks its predecessor which returns, behind our backs, to its original status of petrified memory.6  Time and space collapse in on the spectator’s embodied experience, simulating the effects of a hallucinatory drug. And indeed, as early as Boschini we find the revelatory quality of Tintoretto’s art described in pharmacological terms. Of the whirlwind of paintings on the ceilings and walls of the Scuola Grande di San Rocco, he effuses: “I feel as if I am in a drugstore. Under my nose these odors have aromas that overwhelm my heart. These fragrances remain in my mind, my mind feels so utterly purged that my heart jumps for joy in my chest, and my soul feels totally jubilant.”7  One must be in the presence of the work in order to experience the psychosomatic force of Tintoretto’s art. A black-and-white photograph of a room filled with Tintoretto’s portraits can look like a field of dull heads, but in person these works become alarmingly ghostly presences, with hands and faces that seem capable of movement. The sketches that move from light fluffy strokes to devastating valleys of black charcoal seemingly carved with a chisel, the thick ridges of impasto that rise suddenly like waves from the surface of a canvas, the glazes and scumble that modulate color and reflect light differently depending on the angle of view, the enormity of compositions that threaten to engulf the spectator’s body—these elements simply do not translate in any form of mechanical or digital reproduction. This is true not only for Tintoretto but for Venetian art in general, with its penchant for chromatic and luminous variability and richness.   In “Drawing in Tintoretto’s Venice” the difference between Veronese’s gorgeous drawings covered in elegant, spindly figures created in a torrent of quick brown ink strokes and Jacopo Bassano’s schematic black chalk sketches marked by dusty smudges of red, white, green, pink, and brown becomes immediately clear. Domenico Tintoretto, one of the master’s sons, produced oil sketches of battle scenes that look comic in reproduction, but when one stands before the flurry of red, white, and black patches on dark brown paper, these detailed compositions dissolve unexpectedly into near abstraction.  Renaissance drawings are so fragile and sensitive to light that they can be exhibited only rarely, and many  Tintoretto paintings are so large that they have remained in situ in Venice for most of their existence. Thus the current triple exhibition is the first substantial retrospective of the old master’s work in America. It is a fitting tribute on the occasion of his five hundredth birthday—and a viewing experience not to be missed.  Endnotes 1. Luigi Marta, Il Tintoretto e sua figlia: drama in sei quadri del pittore Luigi Marta, Milan, Borroni e Scotti, 1846, p. 46.  2. Sartre quoted in Laura Lepschy, Tintoretto Observed: A Documentary Survey of Critical Reactions from the 16th to the 20th Century, Ravenna, Longo Editore, 1983, p. 185.  3. Marco Boschini, La carta navegar pitoresco, edited by Anna Pallucchini, Venice/Rome, Istituto per la collaborazione culturale, 1966, p. 280.  4. Ibid., p. 4.  5. Gilles Deleuze, Francis Bacon: The Logic of Sensation, trans. Daniel W. Smith, London, Continuum, 2003, p. 7.  6. Sartre quoted in Lepschy, p. 189.  7. Boschini, p. 150.Tintoretto was too good an artist for his time’s uses; he still clamors for a proper role, seeking affirmation, four centuries later. This thought came to me as whimsy, and stayed as conviction, at the Prado, in Madrid, which has just opened the second-ever retrospective (the first was in Venice, in 1937) of Jacopo Comin, who was also known as Robusti, and called Tintoretto, or “Little Dyer,” after his father’s profession. Tintoretto (1518-94) is the most mercurial of the five undisputed immortals of Venetian painting—the others being Bellini, Giorgione, Titian, and Veronese—and I was eager to see the Prado show, because I have never managed to get a satisfying fix on him. How could someone so great, able to summon the world with a brushstroke, be so inconsistent in style, and, on occasion, so awful? Stupefyingly prolific, Tintoretto garnished the walls, ceilings, altars, exteriors, and even the furniture of Venice, performing commissions for free when that was what it took to edge out a rival. (He was not popular with his fellow-artists.) He brought off one of the world’s largest paintings—“Paradise” (1588-92), in the Ducal Palace, which, at seventy-two feet long and twenty-three feet high, is so vast as to be essentially unseeable—and perhaps history’s most sustained demonstration of sheer painterly talent, brimming the Scuola Grande di San Rocco, between 1564 and 1588, with pictures whose profusion and intensity burn the most concerted effort of looking to ashes. But he and his populous workshop also perpetrated some of the grimmest daubs—murky and slack—that you ever rushed past with a shudder. I realized, too late, that my puzzlement was a warning. Now I feel that I have acquired a brilliant, neurotic, exhausting friend who enjoins me to undertake on his behalf campaigns that he bungled when their conduct was up to him.  Nothing inferior taxes the eye at the Prado, which augments the cream of Tintorettos in European and American collections with a few loans from Venice, where hundreds of his paintings—including his greatest works, such as “The Miracle of the Slave” (1548)—reside immovably in churches, palaces, and galleries. The show more than overcomes doubts about presuming to assess the artist outside his home town, which he is known to have left just twice, briefly, in his life. The well-restored canvases, shown in good light, sparkle and blaze. Some make plungingly deep space with muscular figures of different sizes; your mind provides perspective that the artist didn’t deign to chart. Others array action on intersecting diagonals, along which someone is apt to be arriving from somewhere at terrific speed. (There is an old line that Tintoretto invented the movies; his ways of enkindling routine scenarios, with thrilling visual rhythms that seem to unfurl in time, endorse it.) He drew with his brush, light over dark—so that shadings came first, imparting a sumptuous density to forms that are hit with highlights like spatters of sun. He is supposed to have said that his favorite colors were black and white, but he could be every bit the startling and seductive Venetian colorist when a commission required it. With abject competitive fury, he was not above imitating the grand dragon of the Venice art world, Titian, and his designated successor, Veronese.  “As a matter of fact, he almost never takes the liberty of being himself unless someone builds up his confidence and leaves him alone in an empty room,” Jean-Paul Sartre wrote in a 1957 essay, “The Venetian Pariah.” For Sartre, Tintoretto is an avatar of existential anguish, who was both behind his time—as the last native-born master on a scene ruled by a cosmopolitan élite—and ahead of it, as the ideal artist for a rising bourgeoisie that was too intimidated by the pomp of the ducal republic to recognize itself in his demotic trashings of aristocratic decorum. Intellectuals of the era, while in awe of Tintoretto’s gifts, scolded him for being too fast, careless, and insolent; when Vasari credited him with “the most extraordinary brain that the art of painting has ever produced,” it wasn’t meant as unalloyed praise. (Vasari also called him the medium’s “worst madcap.”)  As a boy, Tintoretto is said to have entered Titian’s workshop as an apprentice but was thrown out after a few days, having either frightened the master with his aptitude or irked him with his personality; at any rate, Titian’s attitude toward him was plated with permafrost. Little is known of Tintoretto’s subsequent training. His earliest surviving work, from the early fifteen-forties, is anti-Titianesque—radically sculptural and draftsmanly, embracing Central Italian influences. Then something happened which the art historian Alexander Nagel compares to the bluesman Robert Johnson’s “going down to the crossroads and coming back with scary new powers.” “The Miracle of the Slave,” made for the Scuola Grande di San Marco, electrified Venice. Its unprecedented range of spatial, chromatic, and kinetic effect suggested a synthesis of “the disegno of Michelangelo and the coloring of Titian”—a contemporaneous formula, often cited, for ultimate greatness in painting. He was roundly hailed, though Pietro Aretino, Titian’s literary ally, added a caveat about his lack of “patience in the making.” Commissions came in bunches to the new hero, but solid status skittered out of reach.  He compensated by striving to engulf the town. Meanwhile, Titian refused to slacken his grip on preëminence, let alone die. When he finally expired, at the age of eighty-eight or so, in 1576, it brought Tintoretto no peace. Though he was now, by general consent, Italy’s leading painter, he responded with pictures as flailingly ambitious and various as ever. Three from the late fifteen-seventies triumph in as many styles. In “The Rape of Helen,” the hauntingly lovely captive languishes in the corner of a churning land-sea battle scene, with scores of figures, ranging in size from huge to tiny, which you can all but hear and smell. In “Tarquin and Lucretia,” the naked, lividly fleshy protagonists struggle at the edge of a bed, toppling a sculpture and breaking a necklace that rains pearls. The woman’s right hand seems to extend from the canvas, as if to be grasped by a rescuing viewer. (The Baroque, which took hold two decades later, with Caravaggio, can seem an edited ratification of tendencies already developed by Tin-toretto.) “The Martyrdom of St. Lawrence” is a sketchy and fierce nightmare of death by roasting, with an anticipatory whiff of Goya. Tintoretto strongly influenced El Greco, blazed trails for Rubens, and fascinated Velázquez, who acquired his paintings for Philip IV.  “What is a Tintoretto?” the art historian Robert Echols asks in the show’s catalogue. The answer might be almost anything touched with genius and a strange, thorny, dashing humor. Tintoretto was reported to be a witty man who never smiled. What is his “Susannah and the Elders” (1555-56) if not a grand lark? A luxuriant, glowing nude sits outdoors, surrounded by a glittering still-life of jewelry and implements of beauty, and is ogled by dirty old men (one pokes his bald pate, at ground level, practically out of the canvas) from behind a hedge that forms part of a corridor-like recession into the far background. There are distant little ducks, and the rear end of a stag. But the picture’s form is too disorienting to sustain any particular response, including amusement. The backstage space outside the hedge ignores the unity of the central perspective, bespeaking a world that rolls away in all directions, indifferent to pocket realms of mythic anecdote. The effect is stirring and confusing. “Who is Tintoretto’s viewer?” strikes me as the really compelling question. No other great artist before modern times, in which shifting contingency affects every enterprise, seems less certain of whom he is addressing, and why. It might as well be you or me as some cinquecento ingrate, and, if we happen to think of people we know who may be interested, the artist encourages us to contact them without delay. ♦La tesi di fondo di questo saggio è che l’orizzonte problematico entro il quale si muove da sempre la pittura faccia tutt’uno con le questioni dell’immagine e che la tradizione occidentale, soprattutto nella riflessione sulla storia dell’arte, abbia incentrato la sua atten- zione sul problema dell’immagine senza tenere conto in genere dei suoi aspetti iconici. Già Tommaso d’Aquino aveva posto in questi termini tale problema: l’immagine può essere considerata come og- getto particolare, o come immagine di un altro; nel primo caso l’og- getto è la cosa stessa che al contempo ne rappresenta un’altra, nel secondo l’aspetto dominante è ciò che l’immagine rappresenta. Sem- bra dunque che rispetto a un’immagine l’attenzione si rivolga o al- l’immagine in se stessa – all’immagine come fine – o a ciò che l’im- magine rappresenta – all’immagine come mezzo 1. A diversi secoli di distanza un pensatore della statura di Witt- genstein riproporrà con forza il problema dell’immagine che, a par- tire da una prospettiva iniziale fortemente improntata a concezioni logico-raffigurative, si andrà via via sempre più delineando all’inter- no della sua riflessione come un problema di natura estetica. Così egli scrive nelle Ricerche filosofiche: «E chi dipinge non deve dipin- gere qualcosa – e chi dipinge qualcosa non deve dipingere qualcosa di reale? – Ebbene, qual è l’oggetto del dipingere: l’immagine di un uomo (per esempio), o l’uomo che l’immagine rappresenta?» 2. Tut- tavia Wittgenstein porta il problema alle estreme conseguenze: «Se paragoniamo la proposizione con un’immagine, dobbiamo tener con- to se la paragoniamo con un ritratto (un’esposizione storica) o con un quadro di genere. E tutti e due i paragoni hanno senso. Se guar- do un quadro di genere, esso mi ‘dice’ qualcosa, anche se io non cre- do (mi figuro) neppure per un momento che gli uomini che vedo rappresentati in esso esistano realmente, o che uomini in carne e ossa si siano davvero trovati in questa situazione. Ma, e se chiedessi: ‘Al- lora, che cosa mi dice?» 3. La risposta di Wittgenstein suona: «‘L’im- magine mi dice se stessa’ vorrei dire. Vale a dire, ciò che essa mi dice consiste nella sua propria struttura, nelle sue forme e colori» 4. Ponendo la questione in tali termini tuttavia Wittgenstein non in- 7  tende affatto contrapporre un’immagine intesa come ‘ritratto’, il cui scopo sarebbe quello di indirizzare l’attenzione dell’osservatore esclu- sivamente su ciò che essa rappresenta, e un’immagine intesa come ‘quadro di genere’, il cui fine sarebbe quello di presentare la «sua propria struttura» e le «sue forme e colori». Del resto, continua Wittgenstein nello stesso paragrafo, «(Che significato avrebbe il dire: ‘Il tema musicale mi dice se stesso’?)». Il fatto è che per Wittgenstein queste due modalità dell’immagine: immagine intesa come mezzo e immagine intesa come fine, sono tra loro connesse, tanto da formare un unico concetto di ‘immagine’. Che il problema vada inteso e ap- profondito in questi termini, lo chiarisce lo stesso Wittgenstein, af- frontando in alcuni paragrafi successivi la questione relativa al «com- prendere una proposizione»: «Noi parliamo del comprendere una proposizione, nel senso che essa può essere sostituita da un’altra che dice la stessa cosa; ma anche nel senso che non può essere sostituita da nessun’altra. (Non più di quanto un tema musicale possa venir sostituito da un altro.) Nel primo caso il pensiero della proposizione è qualcosa che è comune a differenti proposizioni; nel secondo, qual- cosa che soltanto queste parole, in queste posizioni, possono esprime- re. (Comprendere una poesia)» 5. E subito dopo aggiunge: «Dunque qui ‘comprendere’ ha due significati differenti? – Preferisco dire che questi modi d’uso di ‘comprendere’ formano il suo significato, il mio concetto del comprendere» 6. Wittgenstein sottolinea in questo modo che i due tipi di com- prensione – quella che potremmo chiamare ‘logica’, nel senso che il pensiero espresso dalla proposizione può essere riformulato in modi diversi, rimanendo lo stesso, e quella che potremmo definire ‘esteti- ca’, caratterizzata invece dal fatto che il suo ‘tema’ non può essere riformulato in altro modo, come esemplifica il caso del ‘tema musica- le’ o della ‘poesia’ – sono imprescindibilmente connessi tra loro in un concetto unitario. È la stessa interconnessione che Wittgenstein aveva rilevato in relazione all’immagine. Il fatto è che quel particolare tipo di immagine che l’opera d’arte costituisce può rimandare all’altro da sé, soltanto in quanto in primo luogo rimanda a se stessa, ‘dice se stessa’; può essere ‘rappresentazione’ dell’altro, solo in quanto è ‘pre- sentazione’ di se stessa. Di conseguenza, ciò che nell’opera viene rap- presentato riceve la sua ‘unicità’, la sua ‘specificità’, è insomma pro- prio ‘questo’, grazie al fatto che l’immagine lo rappresenta, lo ‘dice’, secondo le sue ‘linee e colori’. Così questo qualcosa di ‘unico’ può e anzi deve essere visto come qualcosa che, seppure da sempre presen- te sotto i nostri occhi, appare come se lo vedessimo per la prima vol- ta e, proprio per questo, non può che procurarci stupore e meravi- glia. Scrive a questo proposito Wittgenstein: «Non pensare che sia cosa ovvia il fatto che i quadri e le narrazioni fantastiche ci procura- 8  no piacere, tengono occupata la nostra mente; anzi, si tratta di un fatto fuori dell’ordinario. (‘Non pensare che sia cosa ovvia’ – questo vuol dire: Meravigliatene, come fai per le altre cose che ti procurano turbamento [...])» 7. Già nel Tractatus Wittgenstein aveva affermato che «La tautologia segue da tutte le proposizioni: essa dice nulla» 8, volendo con ciò sot- tolineare il fatto che ogni proposizione dice, rappresenta qualcosa solo in quanto in primo luogo è una tautologia, ossia ‘dice nulla’, e tale tautologicità della proposizione è ciò che la proposizione ‘mostra’ in ciò che dice. Secondo Wittgenstein il carattere logico della proposizio- ne in quanto immagine 9 è dato dal suo essere ‘rappresentazione’ di qualcosa, ossia dal suo rinviare a qualcosa d’altro da sé. In questo con- siste, sempre secondo Wittgenstein, la «fondamentalità» della logica, giacché «se segno e designato non fossero identici rispetto al loro pie- no contenuto logico, allora vi dovrebbe essere qualcosa d’ancora più fondamentale che la logica» 10. E tuttavia Wittgenstein si rende con- to che «Nella proposizione qualcosa dev’essere identico al suo signi- ficato, ma la proposizione non può essere identica al suo significato, dunque in essa qualcosa dev’essere non identico al suo significato» 11. Questo qualcosa di ‘non-identico’, vale a dire di differente, tra la proposizione, o l’immagine, e il qualcosa che viene rappresentato o detto, è ciò che esse mostrano o ‘presentano’. Tale presentazione, nel suo costituire la condizione interna al rappresentato, è anche ciò che dà a quest’ultimo il suo carattere di unicità, ossia di individualità, che sfugge a ogni previsione logica, vale a dire a ogni identificazione nel già-saputo; ciò che fa, in definitiva, del rappresentato qualcosa di non-previsto e di non-saputo, qualcosa che nell’opera d’arte trova il suo luogo esemplare. E, se la logica «è prima del Come, non del Che cosa» 12, allora «Il miracolo per l’arte è che il mondo v’è, che v’è ciò che v’è» 13. C’è dunque per Wittgenstein qualcosa di più fondamentale della logica 14. La rappresentazione logica infatti implica qualcosa che si mostra, che si manifesta e nel manifestarsi resta ‘altro’ dalla visibilità della rappresentazione stessa. Così, nel presentare se stessa, l’imma- gine manifesta l’altro del visibile, del rappresentabile: quell’altro che si rivela nel visibile, nascondendosi a esso. Se questo è il tratto carat- terizzante l’icona, allora possiamo affermare che le riflessioni di Witt- genstein sull’immagine si riferiscono non all’immagine come ‘copia’ della realtà, bensì all’immagine intesa appunto come ‘icona’. Non a caso, se per Wittgenstein il silenzio, sul cui tema si ‘chiude’ il Tracta- tus, non può dirsi, giacché esso mostra sé, è proprio l’icona che ha a che fare con l’irrappresentabile, con ciò che resta sempre altro rispet- to a ogni determinazione logica e rappresentativa. Ciò che nell’opera d’arte ‘si presenta’ sfugge alla nostra cono- 9  scenza e alla rappresentazione. Non è stata l’arte ‘astratta’ a mettere per prima in opera la ‘presentabilità’ del pittorico di contro alla sua ‘rappresentabilità’, dal momento che il rapporto tra presentazione e rappresentazione appartiene all’essenza stessa dell’immagine. È pro- prio della natura dell’immagine infatti il suo presentarsi sempre chiu- sa e insieme aperta, opaca e insieme trasparente, vicina e insieme lon- tana: nell’offrirsi all’occhio, essa cattura il nostro sguardo. È necessa- rio tornare, al di qua del visibile rappresentato, alle condizioni stes- se dello sguardo, della presentazione. È questo il non-sapere che l’immagine manifesta, e tuttavia tale non-sapere non è una condizio- ne privativa, una mancanza, ma piuttosto una condizione positiva, come positivo è il ‘Niente’ dei quadri suprematisti di Malevicˇ. Si trat- ta dell’esigenza di qualcosa che costituisce l’altro del visibile, il suo al-di-là e che non va pensato come l’Idea platonica, dal momento che questo altro del visibile è nel visibile stesso. Così l’iconoclastia del Quadrato bianco di Malevicˇ annuncia non la fine dell’arte, ma ciò che l’arte deve essere, per essere tale, arte appunto. Nell’opera d’arte qualcosa è rappresentato e si offre alla vista, ma qualche altra cosa nello stesso tempo ci guarda, ci ri-guarda. Ciò si- gnifica che la visione si divide, si lacera, nel suo stesso interno, tra vedere e guardare, tra rappresentazione e presentazione. Nella visibi- lità del quadro è in opera qualcosa che non si lascia cogliere e che, come l’oblio, resta sempre altro rispetto a ciò che possiamo ricorda- re. È come se l’immagine fosse nello stesso tempo rappresentazione di ciò che ricordiamo e presentazione di ciò che abbiamo dimentica- to; per questo nell’immagine la rappresentazione deve essere pensa- ta sempre con la sua opacità. In particolare nell’icona cogliamo l’assenza di ogni immagine, in- tesa come rappresentazione logica: è questa l’ ‘astrazione’ dell’icona, astrazione come sarà intesa, teorizzata e messa in opera da tanta par- te della pittura del Novecento. Quello che l’icona mostra non è di- scorsivamente esprimibile e, se essa può far valere la propria impre- scindibile implicazione di senso di contro alla critica iconoclastica, è perché mostra l’inesprimibile in quanto inesprimibile. È proprio que- sta paradossalità dell’icona a permettere di superare l’iconoclastia, per la quale non può che porsi l’alternativa schiacciante tra un asso- luto realismo e un assoluto silenzio. L’icona è la «porta regale», come voleva Florenskij, attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si tra- sfigura il visibile: in essa non c’è né imitazione, né rappresentazione, ma comunicazione tra questo e l’altro mondo. Così nell’icona la di- mensione epifanica finisce per coincidere con la sua dimensione apo- fatica. Da questo punto di vista si può dire che i problemi posti dal- l’icona siano gli stessi problemi che si ritroveranno nella contempo- ranea problematica dell’‘astrazione’. 10  L’arte astratta fa appello all’occhio spirituale, ossia allo sguardo, e ciò comporta il rifiuto della tradizionale distinzione soggetto-ogget- to, dal momento che l’oggetto è in tale prospettiva un soggetto che ci cattura proprio mentre lo guardiamo. Già Kandinskij con la nozio- ne di ‘composizione’ intende superare sia gli stati d’animo del sogget- to che l’oggetto come fenomeno naturale, per dare luogo a una pit- tura «iuxta propria principia», nella quale lo stesso limite estremo, la tela bianca o il silenzio, non significhi la ‘morte dell’arte’, ma la ra- dicale ‘presentazione’ di quella possibilità dalla quale ogni arte pren- de le mosse: l’essenza o, per dirla con Heidegger, l’origine dell’arte stessa. In Kandinskij l’astrattismo non è vuoto decorativismo. Al con- trario, l’astrattezza del segno, la sua non-rappresentatività, è la mani- festazione della sua «risonanza interiore», ossia della sua «spiritua- lità». La concezione dell’arte di Kandinskij è intessuta della connes- sione di interiorità e astrazione, e una componente essenziale di tale astrazione è il «misticismo». Già la mistica tedesca medievale affer- mava, con Meister Eckart, che, come Dio agisce al di là del mondo dell’essere, così l’anima, che è in grado di rappresentarsi le cose che non sono presenti, opera nel non-essere; un’analoga operazione com- pie il pittore astratto, che nientifica il mondo naturale delle cose, dando vita a un mondo di entità non-oggettive, inesistenti e tuttavia reali. Così nel principio di Kandinskij della «necessità interiore» si riflette la natura mistica del procedimento astratto di costruzione di un’opera che viene sottratta alla dipendenza delle cose esistenti. Que- sto rimando a un agire interiore dà luogo a un non-oggetto che, ana- logamente a quanto avviene nella mistica, mostra un diverso modo d’essere delle cose rispetto a quello della loro forma reale. L’eman- cipazione da qualsiasi dipendenza diretta dalla natura, della quale parla Kandinskij, è la riduzione delle cose naturali al non-essere. Di conseguenza, la necessità interiore di Kandinskij, che costituisce il tratto essenziale della sua pittura astratta, si pone come ‘altro’ rispet- to al mondo delle cose, e quest’ultimo trova in essa la sua unità e il suo senso. Del resto per Kandinskij, come per Wittgenstein, il misticismo riguarda «Non come il mondo è [...], ma che esso è» 15; esso consiste nel «Sentire il mondo quale tutto limitato» 16. Ciò significa dunque che la totalità del visibile ha un limite: lo ‘sguardo’ delle cose, ossia la loro spiritualità. ‘Astrazione’, d’altro canto, è proprio questo visi- bile limitato dal manifestarsi in esso di ciò che visibile non è: è sen- tire il non-visibile nel visibile, è cogliere la differenza nell’identità. Nell’astrattismo il segno mostra se stesso, nel senso che non riman- da all’altro fuori di sé, all’oggetto, ma all’altro che è nel segno senza essere tuttavia esso stesso segno. Così l’astrattismo rifiuta il significato 11  del segno e nello stesso tempo ne esalta il senso, che si mostra nel segno ritraendosi da esso. Non c’è dunque alcun contenuto, alcun significato manifesto dell’immagine, ma questa è l’espressione di un «contenuto interiore»: è questo a rendere il segno ‘astratto’, proprio nel suo presentarsi come ‘evento’. In definitiva, se il cubismo ha in- franto la totalità, lasciando solo frammenti, la composizione di Kan- dinskij mira non a ricomporre tale totalità, bensì a ‘presentare’ il sen- so, facendo risuonare il «contenuto interiore» del frammento stesso. Se lo ‘spirituale nell’arte’ di Kandinskij, come il suo concetto di composizione, è interno al problema dell’icona, altrettanto lo è il «mondo senza oggetto» del suprematismo di Malevicˇ. L’opera su- prematista infatti ha un’intenzione iconica: non esprime una perdita, ma una presenza, la presenza dell’‘altrimenti che essere’. Di qui quella dimensione apofatica, propria dell’icona in genere e del suprematismo di Malevicˇ in particolare, che, in opposizione ai presupposti dell’ico- noclastia – tesi a identificare la verità con la rappresentazione logico- discorsiva – mostra la verità che contiene in sé la propria negazione: la docta ignorantia è la testimonianza di tale inesprimibile coincidenza. Per questo nel colore suprematista, come nell’icona, non c’è alcuna ‘finzione’. L’essere di Malevicˇ non è l’essere secondo la necessità, ovvero secondo il concetto, ma è l’essere come evento: è qualcosa che si la- scia riconoscere solo al momento del suo apparire e, in quanto even- to, l’essere è l’altro, poiché non è soggetto ad alcuna identificazione: è l’essere così, che potrebbe anche non essere; in questo senso, affer- ma Malevicˇ, l’essere è il ‘Nulla’, ovvero il «che», lo spazio parados- sale proprio dell’opera d’arte, del tutto indipendente dal pensiero logico. Questo «che» è negazione del significato, inteso come signi- ficato logico, è negazione della rappresentazione, come rappresenta- zione logica e nello stesso tempo è affermazione del senso, in quan- to condizione dei significati possibili 17. Il «che» non può essere rico- nosciuto in relazione ad altro, ma solo per se stesso, e tuttavia por- ta in sé l’alterità, la differenza. Nel non significare nulla al di là di se stesso, l’evento – il «che» – è assolutamente singolare: accade sem- plicemente, si dà, si mostra, non come un mero oggetto per un sog- getto. Esso è il manifestarsi di qualcosa che, presentando se stessa, presenta l’altro, vale a dire si presenta come l’altro dell’essere oggetto di rappresentazione possibile. Per raggiungere infatti questo essere, che è il Nulla, Malevicˇ è uscito dal mondo degli oggetti e delle rap- presentazioni, aprendo uno spazio ‘assoluto’, in quanto spazio del- l’‘altro’. Così l’astrazione di Malevicˇ è il liberarsi dalla rappresentazio- ne per la presentazione: è questa l’autentica iconoclastia che rivela il profondo legame del suprematismo di Malevicˇ con l’icona. 12  E, se nel suo «mondo senza oggetto» il segno non è rappresenta- zione di qualcosa, ma rivela l’altro, ovvero il Nulla – in quanto Nulla di rappresentabile e di dicibile – questo Nulla non è da intendersi come nichilismo: non indica il silenzio, la fine della pittura, ma espri- me la consapevolezza che si deve continuare a dipingere perché il Nulla si riveli. È questa la radicalità della pittura di Malevicˇ. A differenza di quella di Malevicˇ, l’opera di Mondrian presenta uno spazio la cui assolutezza assume un preciso significato: tutto ciò che è, è perché si dà solo spazialmente. Per questo in Mondrian il se- gno non nasconde e in esso non ha luogo alcun ‘ritrarsi’; al contra- rio, nel segno si mostra l’essenza, l’Idea, e non a caso egli definisce l’astrattismo come la sola «arte concreta». In definitiva: nella pittura di Mondrian non si manifesta alcun ‘altro’, né alcun «contenuto in- teriore»; essa si risolve totalmente nella superficie del quadro, ossia in un piano assolutamente bidimensionale, nel quale non c’è alcuna fin- zione di profondità, ma ci sono soltanto linee in rapporto ortogonale che, tautologicamente, ‘dicono se stesse’. Così, se la ‘composizione’ di Mondrian è volta a ricostituire la totalità, tale ricomposizione si dà proprio e solo all’interno della rappresentazione pittorica, rappresen- tazione ‘assoluta’, in quanto indipendente da qualsiasi riferimento ad altro da sé. L’arte di Klee, pur interrogandosi su problemi non del tutto dis- simili, muove in direzione opposta rispetto a quella di Mondrian. Se infatti quest’ultimo vuole abolire l’elemento soggettivo – definito «tragico» – in nome dell’oggettività, Klee invece indaga proprio la presenza del mondo nel soggetto. L’oggettività di Mondrian è il ri- fiuto del mondo, in quanto particolarità e contingenza; Klee, al con- trario, non cerca una realtà più vera di quella sensibile, non cerca cioè una realtà fissa e immutabile, retta da leggi eterne, fuori dalla storia. Ciò a cui tende l’opera di Klee è ‘frugare’ nel profondo, nel- la vita sotterranea, immergendosi nel divenire delle cose stesse, nel- la genesi dei mondi possibili. Il compito dell’artista è infatti, a suo giudizio, quello di ritornare sulla creazione, portando avanti e tentan- do le vie di realtà possibili. Klee, in definitiva, non vede nel mondo qualcosa di già-concluso, ma ne ripercorre la genesi, e tale genesi si riferisce al sorgere della realtà nella percezione e quindi al costituirsi dell’essere in significa- to. I presupposti di tutto ciò vanno rintracciati nel fatto che è pro- prio sul piano della percezione che il mondo non si configura come l’insieme delle cose già date, ma come un continuo generarsi. Così l’immagine di Klee «richiama alla memoria» 18 possibilità diverse, so- miglianze e dissomiglianze, e queste trovano la loro ragione sul pia- 13  no dell’agire del pittore, che non prende le mosse da una logica pre- fissata, ma genera continuamente forme via via che procede, muoven- dosi appunto tra somiglianze e differenze. I processi di formazione di Klee sono questa sorta di «somiglianze di famiglia» – ancora una vol- ta nell’accezione wittgensteiniana – e, in quanto tali, escludono la de- finitività di ogni forma. Non a caso nell’opera di Klee la genesi dei mondi possibili riguarda l’essenza stessa della pittura: si tratta di mo- strare l’apparire di qualcosa che nessuna logica ha pre-visto, qualcosa che viene all’esistenza, apportando un «aumento di essere» 19 rispetto a tutte quelle altre possibilità che comunque sono presenti nel qua- dro come possibilità simultanee. Klee ha disvelato così l’essenza dell’opera d’arte: quest’ultima non è la rappresentazione di un fatto del mondo, ma è un evento nel qua- le si manifesta la possibilità di molteplici determinazioni del mondo, senza che tale possibilità sia riconducibile ad alcun principio logico di identità e di non-contraddizione. A ben vedere dunque tale evento, che l’opera costituisce, altro non è che il darsi del contingente, del ciò che è così ma poteva essere diversamente, in quanto condizione della stessa necessità logica che regola ciò che nel mondo è già-dato; si trat- ta di quel «che» – che si dia questo mondo e non un altro – il qua- le, come afferma Wittgenstein, precede quella logica che presiede al «come» del mondo. Si tratta insomma di quel senso che è la condi- zione dei tanti significati possibili: l’opera è la presentazione del darsi di questo senso, e non la rappresentazione del suo configurarsi come significato dato, di un senso che si può dunque soltanto sentire, stan- do al suo interno e non contemplare dall’esterno. Per questo la pit- tura di Klee ha il suo luogo d’elezione nel cuore stesso della creazio- ne, lì dove hanno origine tutte le cose. 1 Sul problema dell’immagine e del segno in genere nella riflessione filosofica medievale, si veda A. Maierù, «Signum» dans la culture médiévale, in “Miscellanea Mediaevalia”, Veröf- fentlichungen des Thomas-instituts der Universität zu Koln, Walter de Gruyter, Berlin – New York 1981; Id., Signum negli scritti filosofici e teologici fra XIII e XIV secolo, di imminen- te pubblicazione. 2 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1968, § 518 (ed. or. Philoso- phische Untersuchungen, Blackwell, Oxford 1953). 3 Ivi, § 522. 4 Ivi, § 523. 5 Ivi, § 531. 6 Ivi, § 532. 7 Ivi, § 524. 8 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1968, 5.142 (ed. or. Tractatus logico-philosophicus, London 1922). 9 Nel Tractatus infatti i due termini si equivalgono, dal momento che «La proposizione è un’immagine della realtà» Vedi su questo G. Di Giacomo, Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Witt- genstein, Pratiche Editrice, Parma 1989. 15 L. Wittgenstein, Tractatus..., cSi veda in proposito E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992, in part. pp. 245-270. 18 L’espressione è usata nel senso del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, §§ 89,90. 19 H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, pp. 168-196 (ed. or. Wahr- heit und Methode, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1972).Giuseppe Di Giacomo. Giacomo. Keywords: l’inspiegabile, aura; ‘impiegatura como spiegatura dell’inspiegabile” sensibile, imagine, icona, segno segnante segnato presentazione rappresentazione contenente contenuto formante formato, Tintoretto, Sartre, Venezia. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giacomo: impiegatura come spiegatura dell’inspiegabile” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giametta – il volo d’Icaro e l’implicatura di Sanctis – filosofia italiana – Luigi Speranza (Frattamaggiore). Filosofo.  Grice: “Giammetta is a good’un, but you gotta be an Italian to appreciate him fully, or at least have gone to Clifton, as I did!” --  Grice: Giametta’s philosophy is full of Italianateness: ‘il volo d’Icaro,’ and then there’s his ‘Croceian heterodoxies,’ and most Italianate of all, the Dantean reference to Nisso, Chiron, and Folo in the “Inferno”! Sublime!” Cura Nietzsche a Firenze. Ha scritto saggi di critica "eterodossa" su Croce. Cura Cesare. È anche romanziere, estraneo a scuole o correnti, con storie dalla forte valenza filosofica e morale;  attitudine stilistica: la prosa di Giametta pare quella di un centauro: sorprendente incontro di letteratura e filosofia.  Nella "Trilogia dell'essenzialismo" (composta da “Il Bue squartato” --  L'oro prezioso dell'essere e Cortocircuiti), elabora un proprio sistema di filosofia erede del naturalismo rinascimentale. L’Essenzialismo è una nuova filosofia, fondata esclusivamente sulla natura, intesa nei suoi due aspetti, sia come “naturans” (cf. Grice, implicans, implicaturus)  sia come “naturata” (cf. Grice implicatum, implicatura, implicaturus, implicata). Grice: “The problem: ‘is ‘naturare’ a good verb?’ --. L’essenzialismo descrive la condizione umana come determinata dalla combinazione di due elementi eterogenei: dall’essenza di tutto ciò che esiste, che è divina, e dalle condizioni di esistenza, che sono spesso fin troppo diaboliche, a cui sono sottoposte tutte le creature. Il con-temperamento di questi due elementi (essenza ed esistenza), diverso in ogni individuo, spiega le ragioni per cui si afferma o si nega la vita, si è ottimisti o pessimisti...".  Alter opera: “Oltre il nichilismo” (Tempi moderni, Napoli); “Poeta e filosofo” (Garzanti, Milano); Palomar, Han, Candaule e altri. Scritti di critica letteraria, Palomar, Bari Nietzsche e i suoi interpreti. – cfr. ‘Grice interprete di se stesso” – “Erminio; o, della fede. Dialogo con Nietzsche di un suo interprete. Spirali, Milano); “Saggi nietzschiani” (La Città del Sole, Napoli); “Croce” (Bibliopolis, Napoli); “Il mondo” (Palomar, Bari); “Madonna con bambina e altri racconti morali, BUR, Milano); “Commento allo Zarathustra” Mondadori Bruno, Milano); “Filosofia come dinamita” BUR, Milano), “Croce, il pazzo” (La Città del Sole, Napoli); “Eterodossie crociane” (Bibliopolis, Napoli); “La caduta di Icaro” (Il Prato, Padova); Introduzione a Nietzsche. Opera per opera, BUR, Milano, Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, Mursia, Milano. L'oro dell'essere. Saggi filosofici, Mursia, Milano. Cortocircuito e implicatura -- Mursia, Milano. Adelphoe, Unicopli, Milano. Il dio lontano, Castelvecchi, Roma); “Tre centauri, Saletta dell'Uva, Napoli. Filosofi, Saletta dell'Uva, Napoli. Una vacanza attiva, Olio Officina, Milano. Grandi problemi risolti in piccoli spazi. Codicillo dell'essenzialismo; Bompiani, Milano. Colli, Montinari e Nietzsche, BookTime, Milano. Capricci napoletani. Pagine di diario (Marco Lanterna), OlioOfficina, Milano; “Il colpo di timpano, Saletta dell'Uva, Napoli); “Dio impassibile” (Babbomorto, Imola. Contromano, BookTime, Milano. Il bue squartato e altri macelli, Mursia, Milano.  La passione della conoscenza. Pensa Multimedia, Lecce,. Marco Lanterna, Le grandi oscurità della filosofia risolte in lampeggianti parole. Marco Lanterna, Contributo alla critica di Sossio (in Giametta, Capricci napoletani, OlioOfficina, Milano ).  Friedrich Nietzsche Arthur Schopenhauer Giorgio Colli Mazzino Montinari.  DE SANCTIS, Francesco. - Nacque il 28 marzo 1817 a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis, in prov. di Avellino), al centro di. una zona che fino a dieci anni prima era stata tutta feudale e di cui gli antichi feudatari ancora sfruttavano la scarsa ricchezza boschiva, mentre il potere era gestito direttamente dal clero e dai piccoli o medi proprietari terrieri, anch'essi strettamente legati alla Chiesa sul piano economico -, sociale e Politico. In questo ambiente il D. trascorse solo i primi nove anni, ma esso costituì sempre per lui un punto di riferimento, perché sempre egli lo ebbe presente come "polo reale" e, insieme, come "polo negativo" della storia: la realtà da cui partire e rispetto alla quale operare per tutte le conquiste del "progresso" (morale, culturale, civile).  La famiglia De Sanctis apparteneva a quel ceto di piccoli proprietari del Sud che produceva i preti, gli avvocati e i pochi medici. Avvocato era il padre del D., Alessandro (1787-1874), che però viveva del reddito della sua piccola proprietà, prima ampliata attraverso un "buon matrimonio" locale con Maria Agnese Manzi (1785-1847), poi progressivamente sempre più dissestata; preti i due zii Carlo e Giuseppe; medico lo zio Pietro (ed anche per costui la qualifica professionale servì soltanto a sostenere l'orgoglio del ceto dei "galantuomini"). Come molti esponenti del "galantomismo" meridionale, don Giuseppe e Pietro De Sanctis avevano aderito alla carboneria (in funzione patriottica e antifeudale): dopo aver partecipato ai moti carbonari del 1820-21, vissero in esilio per dieci anni, serbando intatto lo spirito antiborbonico, ma non il patrimonio. L'altro prete, invece, don Carlo, fece fortuna in Napoli come titolare di una stimata "scuola di lettere" (un ginnasio privato).  Nel 1826 il D. fu trasferito come ospite ed allievo presso lo zio Carlo.  Dai "ricordi" del D. (La giovinezza) si può ricavare l'elenco delle discipline da lui studiate, con fortissimo impegno, per tutta la durata del corso quinquennale tenuto dallo zio ("Grammatica, Rettorica, Poetica, Storia, Cronologia, Mitologia, Antichità greche e romane" e inoltre "l'Aritmetica, la Storia Sacra, il Disegno"), nonché una serie di notazioni sul metodo d'insegnamento tutt'altro che critico e innovativo ("Un grande esercizio di mernoria era in quella scuola, dovendo ficcarsi in mente i versetti del Portoreale, la grammatica di Soave, le Storie di Goldsmith, la Gerusalemme del Tasso, le ariette del Metastasio; tutti i sabati si recitavano centinaia di versi latini a memoria").  Poiché i cinque anni di studi "letterari" avevano un completamento canonico in due anni di studi "filosofici", nel 1831 fu iscritto alla scuola di don Lorenzo Fazzini, matematico e fisico illustre, di dichiarate convinzioni sensistiche. Per due anni, perciò, egli visse immerso nello studio di "Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, Lamettrie", o del Genovesi, ma (e questo è un tratto molto importante, destinato a rimanere come atteggiamento mentale) nell'ottica "moderata" che era propria sia dell'ambiente familiare sia del maestro ("Il professore diceva che il sensismo en una cosa buona sino a Condillac, ma non bisognava andare sino a Lamettrie e ad Elvezio .... Voltaire, Diderot, Rousseau mi parevano bestemmiatori, avevo quasi paura di leggerli"). Lo stesso amalgama di aperture progressiste e di scarsa chiarezza ideologica fu nell'esperienza successiva (quella degli studi giuridici), in un'altra scuola privata, dove (con l'abate Garzia) il D. imparò ad apprezzare soprattutto i codici napoleonici, aprendosi così alla dialettica giuridica liberale. Questi studi avrebbero dovuto rappresentare il punto d'arrivo di tutto il lavoro precedente (poiché, scartata una primitiva ipotesi di carriera ecclesiastica, si pensava di far di lui un avvocato), ma a determinare una diversa scelta di vita intervenne una grave malattia dello "zio Carlo", in seguito alla quale il peso della scuola cadde sulle fragili spalle del D. diciottenne, ed egli divenne fonte di sostegno economico per la sua numerosa famiglia (dopo la morte della primogenita Genoviefa, restavano ben cinque tra fratelli e sorelle, che sempre in qualche modo gravarono su di lui, con molte preoccupazioni e ben poche gratificazioni affettive o sociali).  Un altro avvenimento, questo di qualche anno prima (1833), aveva preparato nel D. tale mutamento di interessi e di scelte: il suo ingresso nella "scuola di lingua italiana" del marchese Basilio Puoti: di un "maestro", cioè, che rappresentava in quel momento uno dei punti di riferimento più vivi della cultura napoletana e che presto prese a stimarlo, ad amarlo e a guidarlo. Ed è in ambito puotiano che nascono i primi scritti a stampa del D.: la sua volgarizzazione di un brano dell'Eudemia di Giano Nicio Eritreo (Discorso contro gl'ippocriti), apparsa nel 1835 sul Tesoretto, e la Dedicatoria (sua e del cugino Giovannino) al Puoti dell'edizione (da entrambi curata) del Volgarizzamento delle Vite de' santi Padri di D. Cavalca e del Prato spirituale di Feo Belcari (1836).  Non è da qui però che si può ricavare l'immagine complessiva di ciò che egli era alla fine del suo corso ufficiale di studi e all'inizio del suo primo magistero.  Certo, la competenza grammaticale e testuale e la sensibilità alle cose della lingua (alla lingua come sistema formale in cui penetrare con il rigore dell'intelligenza, della scienza e del gusto) erano allora e restarono per sempre una componente molto importante del D. studioso e maestro (questo va ribadito, anche per opporsi a una troppo lunga sottovalutazione critica dell'eredità puristica attiva all'interno della metodologia critica desanctisiana); ma dalla sua precedente esperienza culturale egli aveva ricavato anche un complessivo eclettismo nozionistico e ideologico, un evidente taglio "settecentesco" nell'impostazione del sapere e in più una vastissima pratica di letture, che egli sottolinea con forza nella Giovinezza e che si riverbera in tutta la sua opera. Ricostruendo dai suoi "ricordi", risulta che il D., diciottenne, aveva letto con profondo coinvolgimento (oltre a tanti latini, greci, filosofi, storici e giureconsulti) un'incredibile quantità di classici italiani maggiori e minori, dai trecentisti a Metastasio, e poi Parini, Alfieri, Verri, Monti, Foscolo, Manzoni, Berchet, Leopardi, e Fénelon e Voltaire, Young e Scott (ma la zona "moderna" ed "europea" andava rapidamente allargandosi: a poco più di venti anni, il suo patrimonio di lettura spaziava con sicurezza da Shakespeare a Richardson, da Milton e Klopstock a Chateaubriand, Lamartine e Hugo).  La professione dell'insegnamento diventò per il D. definitiva (grazie all'intervento del marchese Puoti) nel 1838-39, più o meno contemporaneamente nel settore della scuola pubblica (prima alla scuola dei sottufficiali; poi, dal 1841, al Collegio militare della Nunziatella, prestigiosa accademia militare borbonica) e in quello privato (con la "scuola di Vico Bisi", che il Puoti aprì per lui, affidandogli all'inizio i suoi allievi più giovani, poi di fatto - a grado a grado - la sua stessa funzione docente). A quest'ultima esperienza (di cui restano importanti documenti nei Quaderni discuola e una vasta rievocazione nella Giovinezza) si attribuisce, per tradizione ormai consolidata, la definizione di "prima scuola" del De Sanctis. Ma sarebbe forse più giusto comprendere nella definizione l'esperienza didattica complessiva del decennio 1838-48: il decennio che consacrò il successo indiscusso del D. maestro, il quale intanto (nelle diverse fasi della sua frenetica attività) metteva a punto il suo metodo e il suo atteggiamento critico, mentre andava costruendo intorno a sé rapporti affettivi e intellettuali che sarebbero rimasti centrali in tutta la sua vita, e mentre andava maturando fondamentali scelte ideologiche, filosofiche, politiche.  I numerosi Quaderni di scuola, che documentano il primo insegnamento desanctisiano, furono in massima parte scritti dagli alunni sotto dettatura del maestro e finalizzati a raccogliere il "succo" dei diversi corsi di lezioni, rispetto ai quali si configuravano come veri e propri libri di testo costruiti in parallelo con l'esperienza scolastica. Si tratta, perciò, di una testimonianza ampia e diretta del suo progressivo evolversi (a stretto contatto con la cultura del proprio tempo) dal purismo e dall'illuminismo moderato fino all'hegelismo, attraverso l'eclettismo, il neocattolicesimo, la partecipazione alla temperie vichiana e a quella dello storicismo romantico. In vista della loro funzione manualistica, i quaderni sono divisi secondo le "materie d'insegnamento" della scuola (alcune presenti fin dall'inizio, altre introdotte successivamente, come lo stesso D. testimonia nella Giovinezza). La grammatica fu l'insegnamento originario della scuola, ma i quaderni "grammaticali" più importanti che ci restano appartengono agli ultimi anni e si configurano perciò come approdo della ricerca desanctisiana in materia (con l'acquisizione dello storicismo romantico, del giobertismo, di Hegel). I più antichi tra i quaderni in nostro possesso sono quelli di Lingua e stile (1840-41), dove, dopo una serie di precetti di radice puristico-illuministica (con forte incidenza della "grande Enciclopedia" e in particolare di D'Alembert), troviamo documentato il primo impatto con il pensiero romantico tedesco (in particolare con F. Schlegel) e tracciata la prima sintesi di storia della letteratura italiana ("Sviluppo della letteratura italiana"). Questa ha già alcune caratteristiche che resteranno immutate nel D. maggiore (si muove in ambito postilluministico, con grande attenzione all'Europa e al presente letterario, ma presenta come modello privilegiato di scrittore "contemporaneo" il Manzoni, con un'accentuazione del punto di vista neocattolico, che andrà attenuandosi in seguito). Una lunga storia della poesia è nei quaderni dedicati alla Lirica (1841-42), in cui l'approdo è rappresentato dal Leopardi; i quaderni sul Genere narrativo (1842-43) hanno le loro fonti in Villemain, Sismondi, Voltaire, F. e A. W. Schlegel. Un salto di qualità notevolissimo si avverte nei corsi del 1843-44 (Estetica) e del 1844-45 (Estetica applicata), in cui l'esigenza di definire teoricamente i problemi dell'arte trova un sicuro sostegno nelle teorie estetiche di Gioberti, mentre Hegel fa la sua apparizione nel corso di Storia della critica (1845-46), che introduce una più stimolante rivisitazione della lirica. Nei due anni successivi egli presenta ai suoi allievi l'Estetica di Hegel nella traduzione francese di Ch. Bénard. Alla luce dei nuovi principî affronta inoltre l'esame della Letteratura drammatica (1846-47), soffermandosi a lungo sulle opere di Shakespeare. Dell'ultimo anno di scuola (1847-48) ci resta anche un quadernetto di Storia e filosofia della storia, che ha come punti di riferimento costanti Vico, Sismondi, Hegel e che aiuta a chiarire il senso dei "compendi" (autografi) della Storia d'Inghilterra di Hume e della Storia civile del Regno di Napoli di Giannone. Questo blocco di materiali storiografici conferma il livello criticamente e ideologicamente molto avanzato della ricerca desanctisiana alla fine della "prima scuola", attestando una visione laica della storia, un rigoroso rifiuto di ogni astrattismo e una forte rivendicazione della "concretezza" in ogni ambito d'analisi, nonché una chiara assunzione di metodo hegeliano in direzione progressista.Negli entourages di Puoti, della Nunziatella, della sua stessa scuola (e delle altre che dopo il 1830 fiorirono a Napoli, inaugurando il clima "filosofico" vichiano-hegeliano), il D. aveva finito per trovarsi al centro dell'intellettualità progressista napoletana, non si sa fino a che punto compromettendosi con le frange estremistiche di essa. Fatto sta che molti giovani della sua scuola si schierarono a combattere sulle barricate del maggio 1848 (dove fu ucciso quello che era certamente il più colto e il più ideologizzato fra tutti: Luigi La Vista) e che dopo quella data il D. fu in qualche modo implicato in una setta segreta rivoluzionaria di ascendenza musoliniana, l'Unità italiana, e in un attentato per il quale, tra gli altri, furono condannati a morte L. Settembrini e C. Poerio ("Si facevano i più matti deliri: porre una mina sotto Palazzo Reale pareva un gioco ... Fu la prima volta e sola che fui in convegni segreti"). "Espulso", perciò, dalla Nunziatella e da "ogni altra scuola anche privata" (come recitano i rapporti della polizia borbonica, che cominciava ad interessarsi di lui), nel 1849 il D. si rifugiò in Calabria presso un noto e attivo "patriota", il barone Francesco Guzolini, in casa del quale fu arrestato il 3 dic. 1850 con l'accusa di essere "uno dei principali agenti" della "setta diretta da G. Mazzini e da Ledru-Rollin". Trasferito a Napoli e rinchiuso in Castel dell'Ovo, subì due anni e mezzo di "carcere duro", e fu infine giudicato politicamente molto pericoloso ("attendibilissimo") e perciò bandito dal Regno e imbarcato per gli Stati Uniti (3 ag. 1853). 1 suoi allievi-amici napoletani (in particolare A.C. De Meis e D. Marvasi, a quel tempo già in esilio) lo aiutarono a sbarcare a Malta, per raggiungere il Piemonte, inserendosi nell'allora foltissima schiera degli illustri esuli politici ivi rifugiatisi (tra i meridionali, sono da ricordare: B. Spaventa, R. Bonghi, P. S. Mancini, S. Tommasi, M. d'Ayala, G. Nicotera, E. Cosenz).  Gli scritti del periodo calabrese e della prigionia rappresentano la punta massima della "spinta a sinistra" che segnò il pensiero desanctisiano a partire dal 1848. In Calabria furono elaborati due saggi (Introduzione all'Epistolario di G. Leopardi e Sulle opere drammatiche di F. Schiller), in cui l'interpretazione dei testi esita in senso fortemente politico (sia Leopardi sia Schiller segnano la fine di un'epoca, quella dell'individualismo, dalla quale va nascendo un'epoca nuova - dell'"Umanità" - impegnata in senso sociale). In Calabria fu probabilmente impostato anche un dramma in prosa, il Torquato Tasso, terminato negli anni di prigionia (il modello più vicino è quello goethiano; il linguaggio è leopardiano; evidente è l'identificazione personale-politica dell'autore con l'intellettuale perseguitato). Negli stessi anni il D. studiò la lingua tedesca e se ne servì sia per tradurre il Manuale di una storia generale della poesia di K. Rosenkranz, sia per leggere in lingua originale la Logica di Hegel, che ridisegnò in una serie di Quadri sinottici (praticamente una sintesi completa dell'intera opera). Ma il testo più interessante elaborato in Castel dell'Ovo (nel 1850-51) è certamente La prigione: un carme di 256 endecasillabi sciolti (l'unica prova poetica, se si esclude qualche poesia d'occasione), che rappresenta il punto massimo di "giacobinismo" realizzato dal D., con il rifiuto e la denuncia di ogni metafisica (un'inversione fortissima rispetto al neocattolicesimo degli anni della "prima scuola"), e con una proposta politico-ideologica chiaramente ispirata all'interpretazione "di sinistra" della filosofia di Hegel. Fortissima è anche la svolta di atteggiamento nei confronti del Leopardi: all'immagine sentimentalistica e scettica divulgata nel clima del primo romanticismo napoletano si sostituisce un'immagine combattiva e materialistica del poeta di Recanati (che offre, del resto, il modello stilistico e strutturale all'intero carme. costruito come storia metaforica del pensiero umano, in rivolta per la libertà, contro la tirannia, l'oscurantismo, l'ingiustizia sociale).  A Torino il D. rimase dal settembre 1853 al marzo 1856, in un vitale rapporto d'amicizia con De Meis e Marvasi e con B. Spaventa, ma molto isolato rispetto al potere politico e culturale. Il suo unico lavoro fisso fu, allora, l'insegnamento dell'italiano nell'istituto femminile della signora Eliott (dove si verificò un episodio d'innamoramento - per la giovanissima Teresa De Amicis - che riempirà d'illusioni e di malinconie gli anni successivi); ma ebbe anche alunni privati dal nome prestigioso (come Virgina Basco - futura destinataria del Viaggio elettorale -, Ainardo di Cavour, Luigi di Larissé). L'esperienza centrale del periodo torinese si realizzò, tuttavia, attraverso due corsi di "lezioni pubbliche" su Dante: conferenze organizzate dai suoi amici per soccorrerlo "nella dignitosa povertà dell'esilio" e che di fatto lo rivelarono alla cultura italiana.  Nel 1855 egli prese a collaborare alle appendici letterarie: sul Cimento di Torino pubblicò alcuni saggi fondamentali, vero e proprio punto d'arrivo della sua critica "militante". E allo stesso anno risale anche il primo episodio di giornalismo politico della sua vita: la pubblicazione, sul Diritto di Torino, di una serie di interventi contro il "murattismo" (cioè contro l'ipotesi di una sostituzione "diplomatica" della dinastia borbonica di Napoli con la discendenza di Gioacchino Murat), che rappresenta la prima fase di avvicinamento del D. alla monarchia sabauda (questa viene proposta come unico possibile strumento di unificazione della nazione, in un'ottica di "patriottismo costituzionale" cui, in seguito, egli resterà sempre sostanzialmente fedele).  Nel 1856, sempre per interessamento dei suoi compagni d'esilio, fu finalmente gratificato di un importante incarico pro- fessionale: l'insegnamento della letteratura italiana presso l'Istituto universitario politecnico federale di Zurigo, dove rimase fino al 1860. Gli anni di Zurigo furono anni di nostalgia e di isolamento (anni di réve, com'egli stesso diceva), ma produssero almeno due conseguenze molto importanti: l'elaborazione di lezioni che sarebbero rimaste come una pietra miliare della sua ricerca critica (soprattutto su Dante, Petrarca e la poesia cavalleresca) e il contatto con ambienti culturali e politici di vera e propria avanguardia in Europa (Wagner e Matilde Wesendonck, Moleschott, gli Herwegh, Burckhardt, Vischer, ecc.) che egli ebbe modo di conoscere e di valutare criticamente (per esempio, prendendo le distanze dall'irrazionalismo di Wagner e di Schopenhauer molto prima che le mode irrazionalistiche toccassero l'Italia, o cercando di capire i limiti concreti del ribellismo dei mazziniani quando Mazzini era ancora un mito in Italia).  Dei corsi danteschi di Torino non restano manoscritti, ma ciascuna lezione fu ricostruita su appunti di allievi (Marvasi, D'Ancona), in vista di una non mai realizzata pubblicazione in volume. Le conferenze torinesi (undici di argomento teorico, diciannove dedicate all'Inferno, cinque al Purgatorio) sviluppano presupposti romantico-hegeliani, con particolare riguardo ai problemi dell'"unità" e della "forma" del poema di Dante. Nell'esaltazione "passionale" dell'Inferno, emergono le grandi figure alla cui analisi è legata la fama popolare del D. dantista (Farinata, Francesca, Ugolino) e si afferma il taglio monografico che sarà proprio dei maggiori saggi desanctisiani. Semplificando la materia dei corsi, e prolungandola fino a percorrere tutta la Divina Commedia, il D. insegnò Dante a Zurigo dal 1856 al 1859 (anche di queste lezioni ci resta la ricostruzione da appunti). Da tale lavoro deriva tutto ciò che egli pubblicò successivamente su Dante e sul suo tempo (ivi compresi i capitoli della Storia, che ne tesaurizzano le idee-forza), ma i risultati metodologici più avanzati da lui raggiunti negli anni d'esilio sono testimoniati dai contemporanei scritti giornalistici (che furono poi pubblicati, a partire dal 1866, tra i Saggicritici). Il Pier delle Vigne (1855) è addirittura una lezione torinese trascritta, per LaNazione di Firenze, da A. D'Ancona: la celebre lettura del canto esalta i "grandi caratteri" e le "grandi passioni" dei personaggi e ne analizza le sfumature, le "situazioni", i contrasti; il saggio La Divina Commedia(versione di Lamennais), anch'esso del 1855, dichiara la fine dell'antico metodo retorico e il rifiuto del metodo "storico" di oscuola francese"; quello intitolato Carattere di Dante e sua utopia (1856) individua il "centro" della grandezza poetica di Dante nella sua "anima di fuoco" in cui "si riverbera l'esistenza in tutta la sua ampiezza". Il punto d'arrivo della ricerca zurighese (molto più problematica di quanto appare nelle lezioni) è suggerito nel saggio del 1857 Dell'argomento della Divina Commedia, che afferma da una parte il rifiuto del sistema e dall'altra la validità degli strumenti d'analisi hegeliani, a stretto contatto col testo letterario (un approdo, in sostanza, per il D. definitivo).  Negli scritti letterari d'argomento contemporaneo o d'occasione (destinati a giornali torinesi e anch'essi in massima parte raccolti poi nei Saggi), il D. esplicò, negli anni d'esilio, il suo impegno "militante", ma sempre a stretto contatto con i problemi di metodo critico che sono al centro dell'insegnamento dantesco. Il più esplicitamente politico di questi saggi è L'ebreo di Verona (febbraio 1855), che consacrò, a livello nazionale, la sua fama di polemista laico e liberale (l'autore del romanzo, il gesuita A. Bresciani, ignorando le conquiste del cattolicesimo manzoniano, ripropone la religione in funzione antiliberale e antiprogressista: il suo ruolo storico, dopo la sconfitta del '48, è "aggiungere i suoi colpi codardi alle mannaie del carnefice"). La militanza critica passa sempre attraverso una precisa idea (romantico-hegeliana o posthegeliana) della letteratura. In Satana e le Grazie (1855) essa è espressa con molta chiarezza: di fronte al poemetto di G. Prati "la fantasia rimane inerte: il cuore riman freddo", perché "in questo lavoro non vi è creazione e quindi non vi è fantasia ... Prati ha una viva immaginazione, e per questa facoltà è forse il primo poeta di second'ordine che sia oggi in Italia"; del resto, i suoi testi poetici hanno tutti i limiti e i difetti della "declamazione rettorica". E questa non è un difetto esclusivo degli scrittori moderati: essa è condannabile anche quando sia posta al servizio delle più ardite analisi politiche, come nella Beatrice Cenci di F. D. Guerrazzi (1855), avvolta nel "vecchio repertorio" delle "metafore" e dei "luoghi comuni". C'è un solo poeta italiano che abbia attinto i livelli della "grande poesia" nel mondo moderno, dice in un importantissimo saggio, e questo è Leopardi. Il saggio s'intitola Alla sua donna. Poesia di G. Leopardi ed è, probabilmente, lo scritto leopardiano più importante del D., che, con parametri schilleriani e byroniani, traccia qui una straordinaria immagine di poeta laico, interprete della civiltà contemporanea perché capace di farsi "critico e filosofo" e di far "scintillare" la poesia dalla "meditazione". Ma, a parte l'eccezione leopardiana, il clima del presente letterario fa temere un ritorno alla identificazione tra poesia e retorica (Sulla mitologia - Sermone di V. Monti, 1855). A questa pericolosa tendenza il D. oppone la difesa di Alfieri contro i critici francesi contemporanei (Veuillot e la Mirra, Giulio Janin, Janin e Alfieri, Vanin e la Mirra), ed evidentemente questa polemica ha un profondo retroterra politico: la rivalutazione della fase "eroica" del classicismo settecentesco, nella cultura "rivoluzionaria" dell'intera Europa. Perciò questa rivalutazione riguarda anche Foscolo (Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo e "Storia del secolo decimonono" di G. G. Gervinus, 1855) e la polemica colpisce anche un critico come A. de Lamartine ("Cours familier de littérature" par M. de Lamartine, 1857). Nello stesso ambito il modello di V. Hugo viene proposto come sostanzialmente positivo (Triboulet e "Le contemplazioni" di V. Hugo, 1856) ed è possibile perfino il recupero di un classico manierato come Racine, perché capace di creare dei grandi personaggi drammatici (La "Fedra" di Racine, 1856). In questo ambito, infine, si configura una delle prime, ma già precise professioni di "realismo" del D. critico (Saint-Marc Girardin, 1856): "Il sentimento astratto non è poesia, non è cosa vivente ... La poesia dee riprodurre la realtà "vivente" ... Il poeta dee rappresentarci un uomo vivo", perché questo, in quanto tale, "ègià un perfettissimo personaggio poetico".  La progressiva conquista di un punto di vista "realistico" con cui guardare al testo letterario è registrata dai ricchi appunti che ci restano (a cura di V. Imbriani) delle lezioni zurighesi sul Poema epico. Proprio in questa sede il D. usa per la prima volta il termine "realismo" (ancora nuovo nella critica francese più avanzata da cui lo deriva), mentre ribadisce il rifiuto del "sistema" hegeliano come strumento di critica letteraria e conferma la validità degli strumenti d'approccio al testo ricavabili dall'estetica hegeliana. Il messaggio filosofico più complessivo, nell'ultima fase del suo esilio e del suo vitale contatto con le avanguardie europee, fu affidato dal D. al dialogo Schopenhauer e Leopardi (1858). Anche questo testo ha una struttura leopardiana (ispirata alla provocatoria ironia delle Operette morali), ma s'interessa a Leopardi solo nell'ultima parte, dedicando molto spazio all'illustrazione del pensiero di Schopenhauer, indicato come il liquidatore di un'epoca (quella "dell'Ottantanove", "del Trenta", "del Quarantotto") che egli considera "un'illusione, o piuttosto ... una imbecillità generale". La filosofia di Schopenhauer è, perciò, "nemica della libertà, nemica dell'idee, nemica del progresso"; in politica, egli ripropone "lo Stato monarchico, la nobiltà, il clero, i privilegi", nega la libertà di stampa e odia Hegel come "corrompiteste" (la moda di Schopenhauer in Europa è, in sostanza, un grave sintomo di regresso storico: la sua tardiva riscoperta equivale a un'abiura di tutto il progressismo europeo). A prima vista, il rifiuto dell'ottimismo ideologico accosta Leopardi a Schopenhauer; ma, in realtà, c'è tra i due una vera e propria opposizione, e Leopardi è tanto interno alla fase "eroica" (progressista e rivoluzionaria) dell'umanità, quanto ad essa è estraneo e ostile Schopenhauer. La differenza non è solo nel "materialismo" di Leopardi (opposto allo "spiritualismo" di Schopenhauer) o nelle sue scelte di stile "inamabile" (mentre Schopenhauer si affida al fascino della retorica), ma anche e soprattutto nell'effetto di lettura che Leopardi produce come uomo e poeta veramente "grande" (egli "non crede al progresso, e te lo fa desiderare non crede alla libertà, e te la fa amare , è scettico, e ti fa credente").  Dopo le speranze e le delusioni della seconda guerra d'indipendenza, sulla scia dell'impresa dei Mille, il D. lasciò improvvisamente Zurigo e il politecnico e ritornò a Napoli, dove svolse un ruolo, probabilmente importante, nella mediazione che portò il "partito garibaldino" (e lo stesso Garibaldi) ad accettare il plebiscito "piemontese". Per nomina di Garibaldi, appunto in fase di preparazione del plebiscito annessionistico, fu governatore della provincia di Avellino e si mostrò attivissimo organizzatore del consenso politico, della guardia nazionale locale, della lotta al banditismo (che era già esploso violento in Alta Irpinia, recuperando antiche radici sanfediste). Subito dopo, fu direttore dell'Istruzione a Napoli e, in quindici giorni (tra l'ottobre e il novembre del 1860), tesaurizzando tutte le precedenti esperienze di riforme liberali degli studi (in particolare quella del 1848), impostò una vera e propria rifondazione della scuola napoletana. All'università chiamò ad insegnare illustri rappresentanti della cultura liberale (da Spaventa a Ranieri, a Bonghi, a Imbriani, a Villari, a Mancini); in sostituzione del liceo gesuitico istituì un ginnasio-liceo statale; per la formazione dei maestri elementari (sua grande preoccupazione di progressista ottocentesco) deliberò l'istituzione di scuole "normali" in tutte le province della luogotenenza (non senza ragione, il 1860 restò per sempre nei suoi ricordi come il periodo eroico della sua vita).  Eletto deputato al primo Parlamento nazionale unitario, fu ministro della Istruzione pubblica con Cavour e con Ricasoli (dal marzo 1861 al marzo 1862), continuando sulla linea già tracciata a Napoli, ma senza ripetere l'exploit del 1860, nell'ambito della troppo vasta e ibrida realtà nazionale (in pratica, rinunciando .all'ambizione di produrre una "legge di riforma" della scuola italiana, si limitò ad estendere con decreti all'Italia unita la legge Casati). Ciò che resta di più indicativo del primo periodo di attività come ministro è proprio la linea di tendenza teorizzata nel programma iniziale e vanificata dall'opposizione dei gruppi reazionari ("Noi abbiamo decretato la libertà in carta. Sapete, o signori, quando questa libertà cesserà di essere una menzogna? Quando noi avremo effettivamente uomini liberi; quando della plebe avremo fatto un popolo libero ... Provvedere all'istruzione popolare sarà la mia prima cura"). In questo ambito si pone anche la battaglia per istituire una rete capillare di "scuole tecniche" e "istituti professionali", nonché l'impegno per la qualificazione degli studi scientifici (ma molto avversate furono anche in questo campo le più importanti scelte progressiste, come quella che portò il materialista e "rivoluzionario" J. Moleschott ad insegnare fisiologia nell'università di Torino).  Dopo questo incarico ministeriale, pur sempre rieletto in Parlamento (con la sola parentesi di un anno, tra il 1865 e il 1866), il D. rimase estraneo e in forte opposizione rispetto ai nuovi gruppi di potere (le "consorterie", che vedeva via via riavvicinarsi ai "retrivi" e ai "codini"), su una linea mediana di progressismo monarchico e antirivoluzionario. Su questa linea si pose il giornale L'Italia (che egli diresse dal 1863 al 1867), in appoggio al gruppo emergente della Sinistra costituzionale, che nel 1865 ottenne proprio nel Sud il suo primo successo elettorale. L'appassionamento garibaldino ai tempi di Mentana, la firma del manifesto di opposizione crispina e un importante discorso di denuncia contro il riemergere del clericalismo (in campo ideologico, politico ed economico) segnarono, nel 1867, i punti più alti della sua partecipazione politica.  Nel 1863 aveva sposato, a Napoli, Maria Testa dei baroni Arenaprimo, ma il matrimonio agiato (da cui non nacquero figli) non fu sufficiente a sconfiggere la precarietà economica in cui tutta la sua vita si svolse, né fornì uno stabile nutrimento al suo complesso bisogno di réve e di comunicazione sentimentale. All'interno di una sempre meno inconfessata delusione politica e personale, egli tornò, quindi, agli studi che gradualmente ridivennero protagonisti della sua vita: dal 1866 al 1872 pubblicò in volume i Saggi critici (dove raccolse gli scritti giornalistici dell'esilio), il Saggio critico sul Petrarca, la Storia dellaletteratura italiana, i Nuovi saggi critici.  Il Saggio critico sul Petrarca (1869) ripropone un corso di conferenze tenuto a Zurigo nell'inverno 1858-59, con "pochi mutamenti" e con una "introduzione" del 1868. Esso si articola in dodici capitoli (tre dedicati alla personalità del poeta e al suo "mondo" culturale; gli altri strutturati come lettura tematica e analisi del Canzoniere) ed è finalizzato a fornire un preciso punto di vista per l'interpretazione del testo petrarchesco, sulla base della teoria elaborata dal D. a partire dalla "prima scuola" e consolidata appunto negli anni dell'esilio (tesaurizzazione dell'illuminismo, del romanticismo, dell'hegelismo; rifiuto del metodo "sistematico" e dei suoi esiti panlogistici; rivendicazione della "poesia" come "forma uscita dal più profondo della vita reale" e come "sostanza vivente", secondo i grandi modelli di Omero, Dante, Ariosto, Shakespeare). In quest'ottica, Petrarca va riscoperto, pur con i limiti che la cultura romantica ne aveva segnalato, e va rivalutato per quel che lo separa dal petrarchismo (cioè dalla sua riduzione a modello "rettorico" e "platonico"). La "poesia" di Petrarca va, quindi, individuata in particolari "situazioni" liriche (soprattutto nella "malinconia" e nei momenti di "abbandono" sentimentale), pur tra gli ostacoli frapposti dall'educazione "rettorica" e da una visione "spiritualistica" della vita. Particolare interesse è rivolto alla figura di Laura (cui sono intitolati quattro capitoli): Laura è "la creatura più reale ... che il Medioevo poteva produrre", e la sua "realtà", tutta interiorizzata nella poesia del Canzoniere, non si spegne, ma si ravviva dopo la morte del personaggio (proprio in questa "situazione" Petrarca tocca le sue rare punte di "poesia sublime").  La Storia della letteratura italiana nacque come testo scolastico ed è, infatti, una sintesi didattico-pedagogica di materiali in gran parte preelaborati secondo una precisa metodologia critica (quella appena illustrata a proposito del saggio petrarchesco) e utilizzati per un progetto complessivo di informazione-formazione (il progetto dell'"educazione nazionale") nel quale convergono tutte le attese (ed anche i timori) del D. "letterato" e "politico" agli inizi degli anni Settanta. Divisa in venti capitoli, la Storia disegna una linea di svolgimento della letteratura italiana che va dal XIII al XIX sec. secondo il "principio direttivo" (ufficialmente dichiarato dal D. in uno dei suoi ultimi scritti) della "successiva riabilitazione della materia" (di "un graduale avvicinarsi alla natura e al reale", in parallelo con i progressi della scienza, della cultura, del costume, della vita politica, della stessa morale). Ma la finea risulta tutt'altro che retta e univoca: sia perché l'ipotesi del "graduale" svolgimento della storia letteraria verso mete progressive è fortemente contraddetta dalle fasi di stasi, d'involuzione, di "ritorno"; sia perché continuamente emergono distanze o divaricazioni tra livello storico e livello letterario (e qui s'innesta la forte rivendicazione della "forma" come valore specifico del testo letterario); sia, infine, perché (in base alla predilezione per il metodo monografico e per l'analisi testuale) il racconto della Storia alterna lunghe soste con rapidissimi voli, grandi indugi analitici con improvvise e fortissime elisioni. La Storia procede, perciò, per grandi nodi tematici e testuali, muovendosi in un sistema "a spirale" di allusioni e richiami tra fenomeni, autori, epoche, con un disinibito oscillare del linguaggio dal familiare e dal basso all'oratorio e al patetico, non senza momenti di carattere mimetico a ciascun livello di scrittura (sono queste, del resto, le caratteristiche peculiari del suo composito stile). Seguendo il cammino della Storia a partire dai primi capitoli, troviamo anzitutto ISiciliani come "scuola poetica ... feudale e cortigiana", legata alla potenza della corte sveva e destinata a spegnersi prima che "venisse a maturità", radicandosi nelle "classi inferiori". Proprio questo processo di radicamento si analizza nel ben più complesso capitolo intitolato I Toscani, ma centrato soprattutto sulla cultura bolognese (e sulla "scienza" che si sviluppò in senso antifeudale presso l'università di Bologna). Il punto d'arrivo di questa storia del "mondo lirico" medievale è Dante. Il breve capitolo dedicato a La lirica di Dante la definisce come "la voce dell'umanità a quel tempo": Dante rappresenta (vichianamente) l'epoca della "fantasia", ed è "la prima fantasia del mondo moderno". Coi capitoli IV e V il discorso ritorna alle origini, per esaminare La Prosa e I Misteri e le Visioni del sec. XIII, che esprimono "l'idea religiosa penetrata ne' costumi e nelle istituzioni", ma che restano a livello di fase letteraria preparatoria dell'"aureo" Trecento. A questo secolo è dedicato un capitolo molto puotiano (attento ai Fioretti, al Cavalca e al Passavanti. ai testi di s. Caterina da Siena e alla "maravigliosa cronaca" di D. Compagni), che però anch'esso converge, romanticamente, verso la grande figura protagonistica di Dante. La trecentesca "commedia dell'anima" esprime, infatti, l'ordito culturale da cui nascerà La "Commedia" (cap. VII), con la sua "base ascetica" e la sua radicata abitudine alla "allegoria". Ma tutto ciò rappresenta (secondo l'ottica tipica del D. dantista) la "falsa poetica" attraverso e nonostante la quale Dante crea un'opera somma di poesia (una vasta analisi del poema tende proprio a mostrare come, per virtù di passione e di poesia, esso possa esprimere, "ancora pregno di misteri, quel mondo che, sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi letteratura moderna"). Il capitolo defficato al Petrarca (Il "Canzoniere") è breve, ma fondamentale: Petrarca non è solo un "artista" pieno di "grazia" e di "malinconia", ma è il rappresentante di una nuova generazione culturale che, dopo Dante, "volgeva le spalle al Medio Evo ... e si affermava popolo romano e latino". In questa scelta, secondo il D., c'è una profonda ambivalenza (da una parte c'è il "rinnovamento" inteso come nascita della coscienza laica; dall'altra la letterarietà come "erudizione", "imitazione", abito retorico), in cui si muoverà, per lunghi secoli, la storia della letteratura italiana. E in un'ottica così conflittuale il Decamerone (cap. IX) appare come "l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina" in dimensione laica, ma anche come espressione di un "niondo borghese" che, liberatosi dai vincoli dello spiritualismo, non riesce ad innalzarsi, al di là del "comico", fino alle "alte regioni dello spirito". Il Cinquecento (cap. XII) è il secolo che vede l'arte assoldata al mecenatismo, pur quando potrebbero porsi le condizioni storiche per un avvicinamento tra cultura e "popolo" (ad esempio, nella Firenze medicea) e pur quando sono già stati raggiunti grandi vertici di raffinatezza letteraria (ad es., nelle Stanze del Poliziano, cap. IX). Infine il Seicento, simboleggiato dal Marino (cap. XVIII), produce in letteratura "idilli" ed "elegie", "voluttà" e "musica", mentre l'intellettuale italiano si fa "estraneo al movimento della cultura europea e a tutte le lotte del pensiero", stagnando "in un classicismo e in un cattolicesimo di seconda mano". Nell'arco fra '300 e '600, e sempre in chiave antifrastica, sono tanti gli episodi letterari che il D. analizza, e ad alcuni, comunemente ritenuti minori, dedica interi capitoli: a F. Sacchetti il cap. X (L'ultimoTrecento), a La Maccaronea il cap. XV, a Pietro Aretino il cap. XVI. L'opera dell'Ariosto (L'Orlando furioso, cap. XIII) è esaminata secondo i parametri zurighesi: inserita nella serialità storica, essa si propone come "sintesi dell'intero Rinascimento", mentre l'"ironia" e il "riso scettico" di Ariosto si manifestano espressione di un "secolo adulto" (cioè divenuto capace di critica e ormai maturo per la libertà "borghese", pur nell'accettazione di fatto della realtà "cortigiana"). T. Tasso (cap. XVII), autore-simbolo dell'ambivalenza ideologica e sentimentale, offre l'occasione per un discorso altrettanto ambivalente sulla Contro-riforma e sul suo significato storico-culturale. Il poema del Tasso è lo specchio della "ipocrita" cultura controriformistica italiana e i suoi valori letterari vanno individuati in senso opposto rispetto a quello programmatico e ufficiale: non nella "falsa" religiosità, ma nell'"idillio", nell'"elegia", nella "voluttà" (Tasso è, perciò, accostato al Petrarca, nella tradizione di storiografia politica risalente a Sismondi e Ginguené). Ma proprio al centro dell'arco storico fra '300 e '600 c'è una punta alta, un grande ritratto in positivo: quello di Machiavelli (cap. XV), che riesce a costruire una valida ipotesi di "rinnovamento", sia opponendo alla teocrazia "l'autonomia e l'indipendenza dello Stato" ("un presentimento dei nostri ordinamenti costituzionali"), sia rinnovando il "metodo" della conoscenza, col rifiuto della "teologia" e del principio di "autorità" (per lui "la verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti"). Evidentemente, il ritratto di Machiavelli (liberato da tutte le riserve moralistiche precedentemente espresse su di lui) è un caso-limite d'interpretazione "tendenziosa" di un autore: se è scelto a simboleggiare, all'inizio del '500, la politica e la scienza moderna, è perché il D.-maestro che scrive la Storia nel 1870 (l'anno della presa di Roma, a cui esplicitamente, proprio nel cap.XV, egli fa riferimento) vuol proporre ai giovani un preciso progetto di produzione letteraria che leghi indissolubilmente letteratura, "scienza" e politica laica (e che indichi anche lo strumento di una lingua letteraria "precisa e concisa", antiretorica e antimusicale, che pure a Machiavelli viene attribuita con qualche forzatura). Nel nome di Machiavelli, dunque (anche se a distanza di 4 capitoli), si apre la parte "moderna" e propositiva della Storia, che consiste nei due ultimi lunghissimi capitoli, intitolati La nuova scienza (cap. XIX) e La nuova letteratura (cap. XX). Il rapporto tra essi è derivativo: la "nuova letteratura" non potrà nascere se non dalla "scienza", che ha come obiettivo "il progresso e il miglioramento dell'uomo", e che ha come principale strumento la libertà intellettuale e politica. Perciò, "i primi santi del mondo moderno" (i primi intellettuali capaci di "lottare, poetare, vivere, morire" per la "fede" nel progresso) furono Bruno, Telesio, Campanella, Galilei; e poi Sarpi, Vico, Giannone; infine Beccaria e Filangieri, con alle spalle il pensiero laico europeo, da Bacone alla Rivoluzione francese. Come s'innesta in questo clima la "nuova letteratura"? Dopo l'affascinante ma "superficiale" opera di Metastasio, l'innesto si realizza con la scelta illuministica di utilizzare "cose e non parole". Il primo autore "vero" della "nuova letteratura" è Goldoni (ma con dei limiti di superficialità). Il primo "uomo nuovo" è Parini, e poi vengono Alfieri e Foscolo (col Monti personaggio negativo), ma con dei limiti negli eccessi e nelle scelte di stile retorico. L'Ottocento (pur con la sua tensione d'impegno e di sperimentazione) non ha ancora offerto, in Italia, modelli attendibili per il cammino da percorrere. Il nostro futuro letterario è, perciò, incerto ma la direzione da seguire è chiara: "convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo, "esplorare il proprio petto" secondo il motto testamentario di G. Leopardi, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna".  Nella seconda edizione dei Saggi critici (1869) e poi nei Nuovi saggi critici (1872) il D. inserì alcuni scritti (in gran parte composti per la Nuova Antologia) che precedono o accompagnano la stesura della Storia e che nei confronti di essa risultano in diverso modo illuminanti. Il più antico è Una "Storia della letteratura italiana" di C. Cantù (1865), che, recensendo l'opera appena pubblicata, la denuncia come fondata su "pregiudizi" e "superficiale dottrina" e su valori che nulla hanno a che fare col letterario (perciò l'inevitabile sottovalutazione di autori come Machiavelli, Ariosto, Leopardi, Alfieri, Giusti, Berchet, cui si contrapporrà, appunto, la Storia desanctisiana). Fondamentale, per chi indaghi sulla genesi della Storia, è il saggio Settembrini e i suoi critici (1869), in cui il D. condanna il grave limite del contenutismo radicale settembriniano, così come aveva condannato il contenutismo cattolico-moderato del Cantù, ed afferma che una vera storia della letteratura dovrebbe essere un lavoro interdisciplinare (con contributi di "filosofia, critica, arte, storia, filologia") al quale la cultura italiana non è ancora attrezzata (risalendo queste considerazioni al periodo iniziale di stesura della Storia, esse dimostrano la problematicità del D. nei confronti della sua opera maggiore, e la profonda consapevolezza della "parzialità" di essa). Più collegati alla componente ideologica "positiva" della Storia risultano L'"Armando" di G. Prati e L'ultimo dei puristi del 1868. Nel primo si denuncia la fine dei "tempi sentimentali" e si afferma, per il presente, la necessità di un impegno tutto reale e concreto ("il materialismo è uscito trionfante dal seno stesso del mondo hegeliano" e impone la "serietà della vita terrestre"); nel secondo, la stroncatura di un purista attardato (F. Ranalli) dà luogo a una attenta e intelligente rievocazione del Puoti e della sua scuola, che fu "bandiera" di "libertà, scienza, progresso, emancipazione" nei primi decenni del secolo, ma che (a parte il valore sempre vivo del "metodo" puotiano) esaurì il suo ruolo storico alla vigilia della fase rivoluzionaria del '48 (al presente, ogni nostalgia puristica risulta storicamente e politicamente ingiustificata). Anche i grandi saggi danteschi del 1869 (Francesca da Rimini, Il Farinata di Dante, L'Ugolino di Dante) nacquero in margine alla Storia, sia come ripresa del tema-Dante (e, in particolare, delle riflessioni zurighesi), sia come esempio di quel lavoro di "monografia" che il D., all'epoca, considerava storicamente e scientificamente più valido delle "sintesi". I personaggi danteschi prediletti dalla cultura romantica ed hegeliana sono letti rispettivamente in chiave di "amore" e "pietà femminile" (Francesca), orgoglio politico (Farinata), complessità e profondità di sentimenti antinomici (Ugolino), nell'ambito di un'attenta, colta, sensibile lettura testuale (era in questo, appunto, che il D. voleva proporsi come modello di critica "attuale", "paziente" e costruttiva, ed è appunto questo l'aspetto dei Saggi che va ancor oggi rivendicato). Il saggio L'uomo del Guicciardini(1869) ripropone l'antitesi (presente anche nella Storia) fra Machiavelli, precursore del nazionalismo moderno, e Guicciardini, il cui "particulare" rifiuta ogni "vincolo religioso, morale, politico" (ma la vera funzione del saggio si esplicita nell'ultima frase, di amara denuncia della situazione politica presente: "L'uomo del Guicciardini vivit, immo in Senatum venit, e lo incontri ad ogni passo").  Nel 1871 venne affidata al D. la cattedra di letteratura comparata nell'università di Napoli, dove egli tenne quattro corsi annuali, dal 1872 al 1876 (è questa l'esperienza nota come "seconda scuola napoletana", che produsse quattro gruppi di lezioni, rispettivamente su Manzoni, Scuola cattolico-liberale, Scuola democratica, Leopardi). Contemporaneamente pubblicò una seconda raccolta di saggi (Nuovi saggi critici, Napoli 1872) e inaugurò quella serie di conferenze e articoli sugli orientamenti della letteratura contemporanea in chiave realistica che sarebbe continuata, per dieci anni, fino alla vigilia della morte. Tra il 1874 e il 1875 realizzò un nuovo momento d'impegno politico attivo, in occasione delle elezioni che prepararono l'avvento al potere della Sinistra costituzionale (in particolare, nel gennaio 1875 appoggiò, con un'avventurosa campagna elettorale, la propria candidatura - difficile e piuttosto equivoca - nella provincia d'origine, e ne rivisse il ricordo in una serie di cronache giornalistiche pubblicate prima sulla Gazzetta di Torino e subito dopo in volume, col titolo Un viaggio elettorale, 1876).  Al 1877 data il terzo e ultimo episodio importante di giornalismo politico desanctisiano: ancora un impegno battagliero, ma interno alla Sinistra (contro la gestione trasformistica e antidemocratica del potere da parte di Depretis e Nicotera), condotto soprattutto sulle colonne del Diritto di Roma. Nel 1878 Cairoli riaffidò al D. il ministero della Pubblica Istruzione che egli tenne fino al 1880, riproponendo, dopo 17 anni, i problemi della "scuola di tutti" (la "scuola per l'infanzia", la "scuola primaria", la formazione dei maestri) e quelli dell'istruzione tecnica, in un'ipotesi di cultura "scientifica" da sostituire alla "cultura retorica"; ma ancora una volta fu sconfitto nei punti più qualificanti del suo programma (la traccia più concreta che ne rimase fu l'inserimento dell'educazione fisica tra le materie d'insegnamento: un omaggio alla rivalutazione positivistica dell'uomo fisico). Nel 1880, colpito da una grave malattia agli occhi, lasciò l'incarico ministeriale e dedicò i suoi ultimi anni di vita a un lavoro di riflessione autobiografica (le Memorie che andò dettando alla nipote Agnese) e critica (soprattutto ripresa e riorganizzazione della riflessione petrarchesca e leopardiana). Morì a Napoli il 29 dic. 1883, lasciando incompiuti i suoi ultimi lavori, cui, pur tra le sofferenze della malattia, si dedicò sino alla fine.  Come tutti i principali episodi dell'insegnamento desanctisiano, anche le lezioni della "seconda scuola napoletana" sono documentate da riassunti (redatti in genere da F. Torraca), rivisti e ufficialmente accettati dall'autore. Il primo corso (gennaio-marzo 1872) fu dedicato a Manzoni e rappresenta il punto d'arrivo di una riflessione iniziata all'epoca della "prima scuola", sviluppata a Zurigo e rimasta sempre centrale nella ricerca del D., pur senza trovare una sistemazione editoriale. In queste lezioni le posizioni ideologiche e gli strumenti di ricerca sono molto cambiati rispetto agli anni della "prima scuola", ma non cambia il giudizio di valore. La grandezza del Manzoni è identificata ora nella sua capacità di "calare l'ideale nel reale": da lui escono tre "grandi idee critiche che hanno importanza universale": la "misura dell'ideale", il "vero" positivo e storico, la "forma" diretta e "popolare". Manzoni rappresenta la massima realizzazione della letteratura "moderna" in Italia e le "scuole letterarie" non segnano alcun progresso né sul piano dell'arte né su quello dell'ideologia. Negli anni successivi. il D. analizzò, appunto, lo svolgimento della letteratura in Italia a partire dal Manzoni, dividendola (secondo una traccia già seguita da Emiliani Giudici, da Settembrini e da altri) nei due filoni cattolico e laico, definiti rispettivamente "scuola liberale" e "scuola democratica". Alla Scuola liberale fu dedicato il secondo anno di lezioni universitarie (1872-73), con risultati di giudizio fortemente militanti: l'impegno dei cattolici per l'"educazione popolare" non offre risultati validi in arte e svolge un ruolo (più o meno esplicito) d'insegnamento reazionario ("nuovi Arcadi" sono Grossi, Carcano, Tommaseo, Cantú; Gioberti e Rosmini ripropongono una dimensione "metafisica" della storia e della politica; D'Azeglio resta attardato su una vecchia e superata immagine di letteratura retorica). Un interessante excursus riguarda, però, la letteratura meridionale dell'Ottocento: poeti poco noti (come D. Mauro, V. Padula, P. P. Parzanese, N. Sole) vengono esaminati con interesse e simpatia. Il corso del 1873-74 fu dedicato alla Scuola democratica, e anche in quest'ambito il giudizio globale è negativo: Mazzini, Rossetti, Berchet, Niccolini non possono fornire il modello della "nuova letteratura". Si conferma così l'esito perplesso e sostanzialmente pessimistico che caratterizza le ultime pagine della Storia e l'affermazione del principio del "realismo".  I saggi più importanti elaborati dal D. nell'ultimo decennio di vita riguardano, appunto, le tematiche del realismo (alcuni di essi furono raccolti nella 2 ed. dei Nuovi saggi critici, del 1879). Dopo la prolusione universitaria La scienza e la vita (1872), sono da ricordare: Ilprincipio del realismo (1876), Studio sopra Emilio Zola (1878), Zola e l'Assommoir (1879), Il darwinismo nell'arte(1883). L'assunto complessivo è che il "realismo" auspicato dal D. non si può confondere né col materialismo, né col positivismo, né col naturalismo di Zola (il quale, però, è molto valido come scrittore: lo studio a lui dedicato è particolarmente vasto e attento). La letteratura del "reale" dev'essere (cfr. Manzoni) "l'ideale calato nel reale", e cioè una costruzione "eticac forza morale impegnata per rinnovare la società, contro l'individualismo, la reazione, l'autoritarismo sempre in agguato.  Nell'ultima fase della sua vita il D. non si limitò a teorizzare l'importanza e la "modernità" del realismo in letteratura, né ad inserirsi con diversi strumenti critici all'interno del problema per farne emergere i pericoli (o quelli che a lui sembravano tali sul piano morale e politico), ma volle fornire delle prove concrete di narrativa realistica, utilizzando un registro di linguaggio "familiare", che già aveva usato nelle sue lettere alla moglie (con estrema semplificazione sintattica e con frequenti coloriture dialettali) e che, del resto, non era ignoto ai momenti più colloquiali della sua critica. L'operetta narrativa che elaborò in funzione di esempio e modello fu Un viaggio elettorale (1876): una serie di cronache del tragicomico attraversamento della provincia natia da lui compiuto a sostegno di una candidatura politica poco chiara e poco fortunata. Nella cronaca, il bozzettismo locale si alterna col patetico dei ricordi d'infanzia o delle esortazioni politiche; ma il senso del testo va ricercato più nella sua funzione che nei suoi esiti, né si può dimenticare che nella storia del realismo italiano esso si colloca quasi in contemporanea con Nedda (1874), quattro anni prima di Giacinta (1879), sei anni prima dei Malavoglia (1881).  Alla vigilia della morte (sempre su materiali autobiografici e sempre in ambito di racconto dal vero in linguaggio familiare), il D. perseguì un progetto molto più ambizioso: la stesura di un'autobiografia, della quale, però, non riuscì a portare a termine che la prima parte (egli l'aveva intitolata Memorie; P. Villari ne pubblicò il frammento realizzato col titolo La giovinezza). Così come ci resta, il frammento narra l'esperienza del D. dalla nascita fino al 1843, e consta di due nuclei narrativi essenziali. Il primo è legato ai personaggi bozzettistici della famiglia paesana e degli ambienti napoletani alti e bassi (preti, professori, avvocati, ragazze da marito, giovani avventurieri, vecchie serventi) e, al centro di essi, l'autore pone il personaggio "comico" di se stesso, pieno di tic, di timidezze, di chiusure, di sogni. Il secondo nucleo è legato, invece, alla formazione culturale e all'esperienza della "prima scuola". Qui il tessuto è molto serio e impegnativo: il D. (utilizzando ricordi, ma soprattutto vecchi "quaderni di scuola") vuole offrire un importante contributo alla critica di se stesso, mostrando come siano andate formandosi le linee di forza del suo metodo. In ciò la Giovinezza non è del tutto veritiera (molti sono gli imprestiti ideologici e teorici che il vecchio D. fa al se stesso giovane maestro di Vico Bisi), ma resta, comunque, il fascino di un clima in cui rivivono Puoti e Leopardi, la scoperta del romanticismo, di Vico e di Hegel, l'autoritarismo borbonico e le utopie libertarie del primo '800 napoletano.  Nell'ultimo anno d'insegnamento all'università di Napoli (1875-76), argomento delle lezioni era stato Leopardi: dagli appunti delle lezioni il D. ricavò, negli ultimi mesi di vita, uno Studio su G. Leopardi, che segue il poeta nelle diverse tappe della vita, dell'opera, del pensiero, secondo lo schema della "biografia critica" di taglio positivistico. La biografia rimane, però, incompiuta, chiudendosi al livello dei "nuovi idilli" (come il D. definisce i grandi canti del 1827-29), e proprio in questo tentativo di riduzione di Leopardi alla misura dell'idillio lo Studio è stato foriero di gravi equivoci e fraintendimenti nella successiva critica leopardiana, mentre nell'ultimo D. si giustifica come tentativo di leggere Leopardi in quella stessa chiave di "realismo" che si era rivelata funzionale per il Manzoni e il suo romanzo. Celebri, proprio in quest'ambito, le riflessioni sulle figure femminili dell'"idillio" leopardiano ("Silvia non è questa o quella donna; è il primo apparire della giovinezza in un cuore femminile", ecc.); ma, a parte questo, lo Studio non aggiunge molto né alla conoscenza del Leopardi né alla critica del De Sanctis. In sostanza, il meglio su Leopardi era stato detto nel saggio del 1855 (ma non vanno dimenticate certe importanti considerazioni della "prima scuola", né il ruolo interessantissimo, problematico e antidogmatico, che Leopardi ha nelle ultime pagine della Storia). Altri saggi leopardiani appartengono alla fase e al clima di ricerca della Storia (La prima canzone di G. Leopardi, 1869; Le nuove canzoni, 1877; La Nerina, 1877). In quest'ultimo, ancora un esame (forse uno dei più importanti) della donna nella poesia leopardiana: "La vita è tutta e solo in terra... La morte è l'altro motivo tragico di questa concezione ... Il motivo della Silvia è lo sparire. Il motivo della Nerina è il riapparire".  Lasciando da parte la fortuna del D.-maestro (un vero e proprio appassionamento suscitato nei giovani allievi di Napoli, Torino e Zurigo), per ricostruire la storia del dibattito sul D. bisogna muovere da un dato obiettivo di iniziale "sfortuna" critica: lo scarto fra i tempi della genesi dei testi maggiori (a partire dagli anni '40) e quelli della loro pubblicazione (intorno al '70). A causa di questo scarto, egli apparve subito come un idealista "attardato" (e perciò più meritevole di giudizi sommari che di attenzione testuale), nel clima di positivismo dominante in cui i suoi scritti si offrivano ad un'interpretazione globale (per es. F. D'Ovidio era convinto che il D. ignorasse "la pazienza della ricerca e dello studio", e G. Carducci gli attribuiva "difetto" di "cognizione dei fatti e dei documenti"). A sintomatico che, in un dibattito così fortemente pregiudiziale, venisse del tutto ignorato non solo il tipo di formazione del D., ma anche l'ultimo decennio della sua produzione, con la dichiarata opzione "realistica" e con la forte propensione per lo scientismo. Ma proprio a causa della pregiudizialità del dibattito di fine secolo (rilevata, fin d'allora, da qualche attento osservatore straniero, come A. Gaspary), il D. poté divenire, attraverso l'elaborazione crociana, lo strumento chiave per il rilancio di un metodo critico antipositivistico e per la progressiva riaffermazione culturale e ideologica dell'idealismo nei primi decenni del '900. Al Croce spetta, certo, il merito di aver "costretto" la cultura italiana a riconoscere nel D. un protagonista dell'800 (la sua appassionata cura di editore e di studioso del D. durò per oltre mezzo secolo); ma, contemporaneamente, Croce prese a "rielaborare" il "pensiero" del D., fino a propome la riduzione a teoria del "puro" gusto estetico (G. A. Borgese, che nel 1905 presentò il D. come punto di arrivo di "tutte le esperienze della critica romantica in Italia", fu, in realtà, uno dei primi e più autorevoli interpreti di questa tendenza riduttiva; scarsa fortuna ebbe, d'altra parte, una proposta di G. Gentile per un "ritorno al De Sanctis" di segno fascista).  Proprio dall'interno della scuola crociana (dai cosiddetti "crociani di sinistra") fu prospettata, tuttavia, l'esigenza di un dibattito diversamente impostato, volto al recupero della complessità della figura del D.: mentre L. Russo rivendicava "il significato pedagogico ed etico" dell'opera (1928) e la sua "intelligenza dell'arte" come notalità" (1931), C. Muscetta sottolineava l'importanza della sua "poetica realistica" (1931), la sua "serietà" culturale (1934), la sua visione della letteratura come "vita morale" (1940). Importanti, in questa fase, furono anche gli studi di W. Binni sull'"amore del concreto" che nutrì tutta la ricerca desanetisiana e che problematizzò i suoi rapporti con l'hegelismo (1942) e di G. Getto sulla Storia, "in cui la letteratura era studiata nel suo autonomo valore e insieme nel suo necessario legame con tutta la vita e la cultura" (1942). Infine, presentando una importante antologia di scritti desanctisiani, nel 1949, G. Contini dichiarò, a nome di un'intera generazione di studiosi, l'uscita dall'"equivoco formalistico" della "riduzione crociana" del D. e la necessità di tentare finalmente una comprensione filologica dei testi desanctisiani, con tutta la loro problematicità anche irrisolta.  Ma lo spostamento ideologico dell'intero dibattito critico mosse dalla pubblicazione dei Quaderni di Gramsci (Letteratura e vita nazionale, Torino 1950) e dalla sua celebre affermazione che "il tipo di critica letteraria proprio della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis". Da qui appunto si partì per un'ampia verifica dell'"impegno" del D., del carattere "militante" della sua critica, dei "saldi convincimenti morali e politici" che, secondo Granisci, la sostanziavano: era una verifica, evidentemente, molto correlata al bisogno della cultura d'incidere sul presente storico, dopo e contro il "disimpegno" teorizzato, nel ventennio fascista, da crociani e non crociani. Questo momento di dibattito produsse, fra l'altro, le iniziative editoriali, cui si deve, oggi, la possibilità di leggere il D. su testi di alto livello scientifico: le due collane avviate nel 1952 da Einaudi e Laterza (e dirette rispettivamente da C. Muscetta e L. Russo) per la pubblicazione delle "opere complete". E non a caso, negli stessi anni, apparivano fuori d'Italia (dove la letteratura desanctisiana è scarsissima) due importanti interventi critici: quello di R. Wellek (che nella sua grande Storia della critica moderna del 1957 presentò il D. come autore della "più bella storia che sia stata mai scritta di una letteratura") e quello di P. Antonetti (che nel 1963 ne pubblicò in Francia una documentata e intelligente biografia culturale). Né a caso, negli anni '50-'60, furono condotte indagini nuove e approfondite sui legami tra il D. e la cultura dell'800 (M. Mirri, S. Landucci, G. Oldrini).  Alla fine degli anni '70, in un clima culturale ancora una volta mutato, e ormai insofferente dell'insistenza sull'"impegno politico del letterato", si affermò l'esigenza di uscire dall'ottica di un D. modello per il presente, e di sottolineare (accanto ai "valori" ormai definitivamente affermati) la distanza storica e le diversità culturali che ci separano da lui. Tra gli interpreti di questa esigenza ricordiamo A. Asor Rosa e parecchi dei partecipanti al convegno napoletano del 1977 su "De Sanctis e il realismo". Con maggiore cautela, le più recenti occasioni offerte dal centenario desanctisiano (F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983 e F. D.: un secolo dopo, a cura di A. Marinari, ibid. 1985) si sono mosse su una linea di attenzione ai testi, di chiarificazione e approfondimento della vasta (ancora aperta e interessante) problematica desanctisiana, di tricollocazione" storico-culturale nel mutevole orizzonte di cultura europea in cui tutta la sua ricerca si mosse.  Il materiale manoscritto, ormai quasi tutto edito, si trova (tranne una parte di quello epistolare, sparso un po' in tutta Italia) a Napoli (Bibl. nazionale, bibl. di casa Croce e bibl. del dott. F. De Sanctis Jr.) e ad Avellino (Bibl. prov. S. e G. Capone). Restano inediti quasi solo i voll. dell'Epistolario, relativi agli anni 1870-1883.  Le raccolte degli scritti, dopo le incomplete ediz. Cortese (1931-38) e Barion (1933-411, sono oggi quella laterziana (Bari, negli "Scrittori d'Italia", a cura di L. Russo, incompleta) e quella einaudiana (Torino, Opere di F. De Sanctis, a cura di C. Muscetta, priva soltanto degli ultimi due voll. dell'Epistolario). La raccolta laterziana comprende i seguenti voll.: La letteratura italiana nel sec. XIX, I (A. Manzoni, a cura di L. Blasucci, 1953); II (La scuola liberale e la scuola democratica, a cura di F. Catalano, 1953); III (G. Leopardi, a cura di W. Binni, 1953); Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce 19121, 19659; Memorie, lezioni e scritti giovanili, I, a cura di F. Brunetti, 1962; Saggio critico sul Petrarca, a cura di E. Bonora, 1954; Saggi critici, a cura di L. Russo, 19521, 19656; La poesia cavalleresca, a cura di M. Petrini, 1954. La raccolta einaudiana, invece, comprende: Lagiovinezza (memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli), a cura di G. Savarese, 1961; Purismo illuminismo storicismo (scritti giovanili, frammenti di scuola e lezioni), a cura di A. Marinari, 1975; La crisi del romanticismo (scritti del carcere e primi saggi critici), a cura di G. Nicastro e M. T. Lanza, 1972; Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, 19551, 19672; Saggio sul Petrarca, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 1952; Verso il realismo (prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, frammenti di estetica, saggi di metodo critico), a cura di N. Borsellino, 1965; Storia della letteratura italiana, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 19581, 19663; La letteratura italiana del secolo XIX, Manzoni (a cura di C. Muscetta e D. Puccini, 1955), La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli (a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19722), Mazzini e la scuola democratica (a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19612), Leopardi (a cura di C. Muscetta e A. Perna, 1960); L'arte la scienza e la vita (nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari), a cura di M. T. Lanza, 1972; Il Mezzogiorno e lo Stato unitario (scritti e discorsi politici dal 1848 al 1870), a cura di F. Ferri, 1960; I partiti e l'educazione della nuova Italia (scritti e discorsi dal 1871 al 1883), a cura di N. Cortese, 1970; Un viaggio elettorale(seguito da discorsi biografici, dal taccuino parlamentare e da scritti politici vari), a cura di N. Cortese, 1968; Epistolario: 1836-1856 (a cura di G. Ferretti e M. Mazzocchi Alemanni, 1956); 1856-1858 (a cura degli stessi, 1965); 1859-1860 (a cura di G. Talamo, 1965); 1861-62(a cura dello stesso, 1969); 1863-1869 (a cura di A. Marinari, G. Paoloni e G. Talamo, in corso di stampa). Ottime antologie degli scritti del D. sono quelle curate da G. Contini (Torino 1949) e da N. Sapegno e N. Gallo (Milano-Napoli 1961).  Fonti e Bibl.: Per la bibl. delle opere e della critica, cfr. B. Croce, Gli scritti di F. D. e la loro varia fortuna, Bari 1917 (con integrazioni di C. Muscetta, in F. De Sanetis, Pagine sparse, Bari 1944) ed E. Pesce, Supplemento alla bibliografia desanctisiana 1944-65, Napoli 1965. Sono da tener presenti inoltre le rassegne: M. Tondo, La lezione di D. Rassegna degli studi dell'ultimo venticinquennio, Bari 1976; P. Tuscano, F. D. a cento anni dalla morte, in Cultura e scuola, LXXXVI (1983), pp. 32-45; G. Oldrini, La storiografia desanctisiana dell'ultimo decennio, nel miscellaneo F. D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985.  Per la biografia, vanno ricordati anzitutto i seguenti saggi d'insieme: E. Cione, F. D., Messina-Milano 1938 e Milano 19442; F. Montanari, F. D., Brescia 1939; P. Antonetti, F. D. (1817-1883). Son évolution intellectuelle, son esthétique et sa critique, Aix-en-Provence 1963; E. Croce-A. Croce, D., Torino 1964. Per gli anni della formazione, sono da tener presenti i seguenti scritti: B. Croce, Introd. a F. De Sanctis, Teoria e storia della letteratura, Bari 1926; A. Marinari, Introd. a Purismo illuminismo storicismo cit., nonché Le correzioni del Puoti ai primi due discorsi di scuola del D., in Belfagor, XV (1960), pp. 584-601; Id., Alcuni problemi di cronologia desanctisiana, Firenze 1963 e Il giovane D. lettore di P. Giannone, in Letteratura e critica, Studi in onoredi N. Sapegno, II, Roma 1975, pp. 643-80; G. Savarese, Primo tempo del D. e altri saggi, Bologna 1971; P. Luciani, L'"estetica applicata" di F. D., Firenze 1983; C. Muscetta, D. e i generi letterari in F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983, pp. 363-84. Per gli anni della prigionia e dell'esilio, sono indispensabili: E. Cione, F. D. dallaNunziatella a Castel dell'Ovo, Napoli 1933; B. Croce, Il soggiorno in Calabria, l'arresto e la prigionia di F. D., Napoli 1917 (ora in Aneddoti di varia letteratura, IV, Bari 1954); F. D. a Torino, a cura di C. Vernizzi, Torino 1984; M. Guglielminetti-G. Zaccaria, F. D. e la cultura torinese (1853-56) e R. Martinoni, Gli anni zurighesi (1856-60), entrambi in F. D. nella storia della cultura cit. (dello stesso Martinoni, cfr. anche La puzza della birra e del tabacco. Gli anni zurighesi di F. D. [1856-60], in L'Almanacco 1983, Bellinzona 1983, pp. 112 s.); O. Besomi, D. "in partibus transalpinis", ma non "infidelium": letture zurighesi, in Per F. D., Bellinzona 1985, pp. 89-118. Per gli anni 1836-60 sono da tener presenti i voll. dell'Epistolario (con le rispettive introduzioni). Lo stesso vale per gli anni successivi (almeno fino al 1869). Per il soggiorno del D. a Firenze, cfr. G. Spadolini, D. e Firenze capitale, in F. D. - Un secolodopo cit., pp. 437-43. Per il D. ministro, cfr.: G. Talamo, F. D. politico e altri saggi, Roma 1969; S. Soldani, Scuola e lavoro: D. e l'istruzione tecnico-professionale, inF. D. nella storia della cultura cit., pp. 451-516; G. Ciampi, Il governo della scuola nello Stato postunitario, Milano 1983, ad Indicem; A. Santoni Rugiu, Aspetti dell'ideologia formativa di F. D., nonché S. Valitutti, Il pensiero e l'azione scolastica di D. ed E. Bottasso, D. ministro e la formazione delle prime tre biblioteche nazionali (tutti in F. D. - Un secolo dopo cit.). Per la morte e le onoranze funebri, cfr. In memoria di F. D., a cura di M. Mandalari, Napoli 1884 (rist. anast., Napoli 1983, a cura della Comunità montana "Alta Irpinia").  Tra gli studi critici di carattere generale, cfr.: B. Croce, F. D., in Letteratura della nuova Italia, I, Bari 1956 (per gli altri scritti desanctisiani del Croce, cfr. G. Savarese, Croce e D., in Rassegna della letteratura italiana, CXLIV [1967], pp. 158-174; L. Russo, F. D. e la cultura napoletana, Venezia 1928 (poi Firenze 1956, ora Roma 1983); C. Muscetta, F. D., inLetteratura italiana. I minori, IV, Milano 1962 e in Letteratura italiana. Storia e testi, VIII, 1, Bari 1975, ibid 19854; M. Fubini, F. D. e la critica letteraria, in Romanticismo italiano, Bari 19653; M. Mirri, F. D. politico e storico della civiltà moderna, Messina-Firenze 1961; S. Landucci, Cultura e ideologia di F. D., Milano 1963 (sul quale cfr. M. Mirri in Critica storica, III [1964] e la risposta di S. Landucci, in Belfagor, XX [1965]); A. Asor Rosa, L'idea e la cosa: D. e l'hegelismo, in Storia d'Italia (Einaudi), IV, 2, Torino 1975, pp. 850-78 e Il "diagramma De Sanctis"... e il nostro, in Letteratura italiana (Einaudi), Torino 1982, I, pp. 22-26. Utilissime sono anche tutte le introduzioni ai singoli volumi delle edizioni cinaudiana e laterziana. Sono da tenere inoltre in grande considerazione le osservazioni di I. Svevo (in Racconti. Saggi. Pagine sparse, Milano 1968, p. 800" e G. Debenedetti (Commemorazione del D.), 1934 (ora in Saggi critici, 2a serie, Milano 1971), nonché quelle di W. Binni (L'amore del concreto e la "situazione" nella prima critica desanctisiana [1942], ora in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze 1951, pp. 99-116), G. Contini (Introd. a F. De Sanctis, Scelta di scritti critici, cit.); G. Getto (Storia delle storie letterarie, Milano 1942, ad Indicem), C. Dionisotti (Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, ad Indicem) e R. Wellek (Storia della critica moderna, IV, Bologna 1969, pp. 123-55). Molto ricche sono le miscellanee: F. D. e il realismo, con Introd. di G. Cuomo, Napoli 1978; F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983; F. D. tra etica e cultura ("Riscontri", VI, 1-2), a cura di M. G. Giordano, Avellino 1984; D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985; Per F. D., Bellinzona 1985; F. D.: recenti ricerche, a cura dell'Ist. per gli studi filosofici, Napoli 1989.  Per i rapporti fra il D. e la cultura napoletana dell'800, cfr. gli scritti di G. Oldrini (in particolare, La cultura filosofica napoletana dell'800, Bari 1973 e gli interventi apparsi nelle varie miscellanee già citate). Per quelli con l'hegelismo, oltre allo scritto già cit. del Binni, cfr.: N. Giordano Orsini, D., Hegel e la situazione poetica, in Civiltà moderna, XIV (1942), pp. 138 ss.; M. Rossi, Sviluppi dello hegelismo in Italia (F. D., S. Tommasi, A. Labriola), Torino 1957; Il primo hegelismo italiano, a cura di G. Oldrini, Firenze 1969; M. T. Lanza, D. e Hegel, in F. D. nella storia della cultura, cit., pp. 155-84; S. Landucci, cit.  Tra i tanti altri saggi, cfr. pure: M. Aurigemma, Lingua e stile nella critica di F. D., Ravenna 1968; F. Battaglia, Parva desanctisiana, Bologna Moretti, La lingua di F. D., Firenze 1970; A. Prete, Il realismo di D., Bologna 1972. G. Malcangi, F. D. deputato di Trani, con Introd. di A. Lapenna e A. Marinari, Bari 1972; A. Marinari, Il "viaggio elettorale" di F. D. Il "dossier Capozzi" e altri inediti, Firenze Ghilardi, Il superamento del kantismo e l'esperienza politica di F. D., Napoli Guglielmi, Da D. a Gramsci: il linguaggio della critica, Bologna 1976; N. Celli Bellucci-N. Longo, F. D. e G. Leopardi tra coinvolgimento e ideologia, Roma; M. Dell'Aquila, Giannone, D., Scotellaro. Ideologia e passione in tre scrittori del Sud, Napoli 1981; G. Nencioni, F.D. e la questione della lingua, Napoli 1984.  Per i rapporti con le altre letterature europee: per la Francia cfr. F. Neri, Il D. e la critica francese (ora in Saggi, Milano 1964); P. Antonetti, F. D. et la culturefrançaise, Firenze-Parigi 1964; U. Piscopo, D. e la culturafrancese, in F. D. - Un secolo dopo cit.; per la Germania, cfr.: G. Bach, La cultura tedesca in F. D., in Studi e ricordi desanctisiani, Avellino 1935; F. Matarrese, Goethe e D., Bari Westhoff, Schiller e D., Roma Mazzocchi Alemanni, La "fortuna" di D. in Germania, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 547-76; per il mondo angloamericano, cfr.: A. Lombardo, D. Shakespeare e la letteratura inglese, in F. D. - Un secolo dopo cit., Della Terza, D. e la cultura anglosassone, in F. D. nella storia della cultura cit., e D. negli Stati Uniti d'America, in F. D. - Un secolo dopo cit., pp. 651-63.  Per la fortuna critica dell'opera del D., cfr. L. Biscardi, F. D., Palermo Romagnoli, F. D., in Iclassici italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, II, Firenze 19612 ; F. De Castro, F. D. nella critica italiana del secondo dopoguerra, in Problemi, Longo, Il "ritorno" di D. Storia, ideologia, mistificazione, Roma Cfr. pure, al riguardo, le rassegne di G. Oldrini, M. Tondo e P. Tuscano citate a proposito degli scritti bibliografici.Sossio Giametta. Giametta. Keywords: il volo d’Icaro, l’implicatura di Croce – eterodossie crociane – Cosi parlo Zoroaster; cosi implico!”—cortocircuito e implicature, la pazzia di Croce, il pazzo di Croce – la caduta di Icaro? No, il vuolo di Icaro! – Colli e Montanari! --   Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giametta: cortocircuito ed implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giandomenico – l’apertura semantica e l’implicatura di Galilei – filosofia italiana – Luigi Speranza (Carunchio). Filosofo. Grice: “I like Giandomenico; he makes excellent commentary on Bernard’s controversial, deterministic idea of life – from amoeba to man, in Russell’s words --.” Grice: “Surely this has connections with my method in philosophical psychology, from the banal to the bizarre, which actually starts with philosophical BIO-logy!” Grice: “Giandomenico shows that while Bernard never thought he had to provide a ‘conceptual analysis’ of ‘vivente,’ he does propose this or that criterio: for one he tries to prove that self-nourishment cannot be the criterion – but I’m not sure what the positive he poes, if any!” Si laurea con Corsano all’istituto di filosofia di Bari.Insegna a Brindis, Lecce, Foggia, e Bari. Studia l'insegnamento di Filosofia  nei Licei. Studia filosofia della comunicazione. Fonda il Laboratorio di Epistemologia Informatica e il Centro per la Metodologia della Sperimentazione. Studia pragmatica computazionale e Informatica umanistica. Membro della Società Filosofica Italiana. Si occupato della storia della fisiologia, la storia sdell’informatica, l’informatica pragmatica, teoria della comunicazione, teoria dell’implicatura conversazionale, e teoria del segno. Pubblicato uno studio su Tommasi, che aderì alla sperimentazione. Ha trattato il contributo scientifico di Pende.  Analizza i fondamenti dell'informatica nei suoi rapporti con le teorie filosofiche, mettendo in evidenza le strutture epistemiche reciprocamente significative. “Filosofia ed informatica”, Inoltre, ha sperimentato applicazioni delle tecnologie informatiche nella ricerca umanistica.  Le ricerche condotte nell'ambito dell'informatica linguistica si sono proposte l'analisi linguistico-computazionale. L'obiettivo è stato quello di andare al di là del livello “lessicografico” – il filosofese – o terminologia filosofica, como ‘implicatura’ -- e di implementare una rete sintattica automatica con l'ausilio di software dedicati.  Il primo progetto ha riguardato l'analisi della conversazione nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi” di Galileo. Usando un software, creato dal Laboratorio di Epistemologia Informatica di Bari, ricava un “vocabolario” (filosofese, terminologia filosofica, vocabolario filosofico) galileiano, procedere ad una prima valutazione dello stile ed avviare l'analisi “semantica” di un “concetto” utilizzato da Galileo. Ha raccolto, infine, questi spunti in una riflessione sui linguaggi dell'artificiale, intersecati con quelli della vita, sulle nuove tecnologie della comunicazione e sull'etica.  Altre opera: “Tommasi, filosofo, Bari, Adriatica; “Filosofia e sperimento” Bari, Adriatica; “Scienza, filosofia, letteratura, Verona, Bertani; “ Introduzione a Charcot, Fasano, Schena); “Epistemologia informatica, Bologna, Transeuropa); “ Filosofia e informatica. Bari: G. Laterza); “L'uomo e la macchina trent'anni dopo: Filosofia e informatica, Società Filosofica Italiana, Bari, G. Laterza); “Dall'offerta formativa alla creazione di un nuovo lavoro: la laurea umanistica” in Convegno per il corso "Informatica umanistica” BARI: G. Laterza); “Laboratori di psicologia tra passato e futuro, Lecce, Pensa Multimedia); “La prosa di Galileo: la lingua la retorica la storia, Lecce, Argo); “La filosofia come strumento di dialogo tra le culture, Bari, Mario Adda Editore); La Società Filosofica Italiana, Roma, Armando,. Note  M. Triggiani, Cultura, un fronte unico. Università e Comune per una rete dei contenitori, in Gazzetta del Mezzogiorno, 3 A.L., Dopo la laurea faccio il master in orecchiette, in Specchio. Supplemento di La Stampa, F. Di Trocchio, Dall'archivio al futuro, in L'Espresso,de Ceglia, l. Dibattista, Semi di storia della scienza.  Milano, Franco Angeli.  L’esperire immediato e l’esperienza mediata Affronteremo in questa lezione il difficile rapporto che s’instaura tra il mondo-della-vita e quello della scienza, tra esperienza diretta ed immediata ed organizzazione razionale. Husserl ritiene che le scienze moderne (matematiche e naturali) hanno bisogno di un nuovo fondamento, diverso e ben più solido di quello che vien loro solitamente attribuito dalla comunità degli scienziati, dei logici e dei metodologi. Per trovare questo nuovo fondamento, egli si rivolge direttamente al mondo-della -vita, cioè al mondo dell’esperienza concreta, nel quale le intuizioni si presentano al loro stato originario, non ancora elaborate in concetti: in una parola, si rivolge al mondo del precategoriale. A questo proposito egli mette in guardia gli scienziati, i quali ritengono di considerare la natura come è realmente e non si accorgono dell’astrazione attraverso la quale essa è diventata per loro un tema scientifico, non si accorgono cioè che le cose cui fanno riferimento - perfino quando parlano di oggetti empirici, di risultati dell’osservazione e della sperimentazione - sono in realtà il frutto di un precedente, assai complesso e artificioso, lavoro categoriale. Possiamo ricordare, a questo proposito, le procedure operative che oggi (in maniera più evidente di quanto si poteva percepire ai tempi di Husserl) le scienze sperimentali adottano. Ecco un esempio. Vedere, nella scienza del nostro tempo, vuol dire, quasi esclusivamente, interpretare segni generati da strumenti: tra la vista di un astronomo del nostro tempo che fa uso del telescopio spaziale Kepler e una di quelle lontane galassie che appassionano gli astrofisici ed accendono la fantasia di tutti gli esseri umani sono interposti oltre una dozzina di complicati apparati mediatori del tipo: un satellite, un sistema di specchi, una lente telescopica, un sistema fotografico, un apparecchio a scansione che digitalizza le immagini, vari computer che governano riprese fotografiche e processi di scansione e memorizzazione delle immagini digitalizzate, un apparecchio che trasmette a terra queste immagini in forma di impulsi radio, un apparecchio a terra che ritrasforma gli impulsi radio in linguaggio per un computer, il software che ricostruisce l’immagine e le conferisce i necessari colori, il video, una stampante a colori e così via. Questo esempio evidenzia che la scienza ha due attività fondamentali: la teoria e gli esperimenti. Le teorie cercano di immaginare come il mondo è; gli esperimenti servono a controllare la validità delle teorie e la tecnologia che ne consegue cambia il mondo. L’intero iter della ricerca scientifica si può sintetizzare con una affermazione netta: rappresentiamo e interveniamo. Rappresentiamo al fine di intervenire e interveniamo alla luce delle rappresentazioni. Dall’epoca della rivoluzione scientifica ha preso vita una sorta di “artefatto collettivo” che dà campo libero a tre fondamentali interessi umani: la speculazione, il calcolo, l’esperimento. La collaborazione fra ciascuno di questi tre ambiti porta a ciascuno di essi un arricchimento che sarebbe altrimenti impossibile. Per questo, come aveva insegnato già il filosofo inglese Francesco Bacone (ritenuto con Galilei il padre della scienza moderna), la scienza non è osservazione della natura allo stato grezzo. I sensi dell’uomo vanno ampliati mediante strumenti. I raggi dell’ottica di Newton, così come le particelle della fisica contemporanea, non sono dati in natura, sono i dati di una natura sollecitata da strumenti. Di fronte alla natura - come aveva affermato con una delle sue barocche metafore il Lord Cancelliere inglese - dobbiamo imparare a “torcere la coda al leone”. Da questo punto di vista la storia degli strumenti non è esterna alla scienza, ma ne è parte costitutiva e integrante. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  4 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune In altre parole: la definizione operativa accolta usualmente dagli scienziati tende sì a ricondurre i concetti ad un contenuto empirico, ma questo contenuto in realtà è quello filtrato da teorie e strumenti, come dall’esempio che abbiamo sopra riportato.La tesi di Husserl è, invece, che il fondamento di tutte le scienze - anche di quelle cosiddette empiriche - possa venire fornito soltanto dal «fiume eracliteo» delle intuizioni che precedono qualsiasi tipo di concettualizzazione e che ci coinvolgono nell’immediatezza della vita, personale e professionale, vissuta, la quale presuppone “il mondo circostante quotidiano della vita, in cui tutti noi, e anch’io in quanto filosofo, esistiamo coscienzialmente: non meno le scienze, in quanto fatti culturali inclusi in questo mondo, e gli scienziati e le loro teorie. Nei termini del mondo-della-vita: noi siamo oggetti tra gli oggetti; siamo qui o là, nella certezza diretta dell’esperienza, prima di qualsiasi constatazione scientifica, fisiologica, psicologica, sociologica, ecc. D’altra parte siamo soggetti per questo mondo, soggetti egologici che lo esperiscono, che lo considerano, che lo valutano, che vi si riferiscono attraverso un’attività conforme a scopi, soggetti per i quali il mondo circostante ha il senso d'essere che gli è stato attribuito dalle nostre esperienze, dai nostri pensieri, dalle nostre valutazioni, ecc., e nei modi di validità (della certezza, della possibilità, eventualmente dell’apparenza, ecc.) che noi realizziamo attualmente, in quanto soggetti di validità o che già possediamo da prima e che portiamo in noi in quanto abitualmente acquisiti, in quanto validità di questo o di quel contenuto che possono essere attualizzate a piacimento. -Naturalmente tutto ciò soggiace a una molteplice evoluzione, mentre ”il” mondo continua a essere un mondo unitario, e si corregge soltanto nella sua struttura di contenuto”.[...] Ora, se consideriamo noi stessi in quanto scienziati, nella funzione di scienziati in cui ora di fatto ci troviamo, al nostro particolare modo d’essere, di essere scienziati, corrisponde il nostro fungere attuale nel modo del pensiero scientifico, del nostro porre problemi e del nostro ricavare soluzioni teoretiche in relazione alla natura e al mondo dello spirito; ciò a cui ci riferiamo non è dapprima altro che uno degli aspetti del mondo-della-vita già precedentemente sperimentato o, comunque, già presente alla coscienza e già valido scientificamente o pre-scientificamente. Fungono con noi gli altri scienziati, che vivono con noi in una comunità teoretica, che attingono o già possiedono le stesse verità, oppure che, grazie all’accomunamento di questi atti, stanno con noi nell’unità di operazioni critiche e nel proposito di un accordo critico. D’altra parte noi possiamo essere per gli altri, e gli altri per noi, meri oggetti; invece che nella comunità dell’unità di un interesse teoretico attuale, possiamo conoscerci reciprocamente attraverso l’osservazione; possiamo conoscere gli atti del pensiero, gli atti dell’esperienza e, eventualmente, altri atti, come fatti obiettivi, ma “senza interesse”, senza partecipazione, senza un’adesione o un rifiuto critico”. (E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit. pp. 134-135, 139). Ogni pensiero scientifico e qualsiasi problematica filosofica, secondo Husserl, implicano sempre certe ovvietà, per esempio la certezza che il mondo esiste, che è già sempre preliminarmente, e che qualsiasi rettifica di un’opinione di qualsiasi tipo, presuppone sempre il mondo in quanto orizzonte di ciò che senza dubbio è e vale. Anche la scienza oggettiva pone i suoi problemi sul terreno di questo mondo, il quale, però, è sempre già da prima, che è già a partire dalla vita prescientifica. Essa, come qualsiasi prassi, presuppone il suo essere; ma, insieme, si pone come fine la trasformazione del sapere prescientifico (che è imperfetto sia nella sua portata che nella sua consistenza), in un sapere compiuto, conformemente all’idea della correlazione tra mondo, che in sé è ben determinato, e verità scientifiche che lo spiegano, presentandosi come delle verità in sé. In altri termini, il suo compito è quello di attuare questa esplicazione attraverso un processo sistematico, attraverso gradi di compiutezza, utilizzando un metodo che permetta un costante progresso.  In realtà Husserl tende a realizzare una descrizione dello strato precategoriale (o antepredicativo) posto a fondamento dell’edificio logico-categoriale. Questo strato può presentarsi sia come un piano autonomo d’esperienza che ignora la destinazione predicativa, sia come un’anteriorità funzionale, cioè come un precategoriale non autonomo in quanto indirizzato verso il piano predicativo (o categoriale). In questo secondo caso, il predicativo assume il valore di interpretazione ed esposizione linguistica dell’antepredicativo cioè dell’originario d’esperienza. Il criterio che egli assume, peraltro, richiede che ogni fondazione e chiarificazione conoscitiva acquisisca, dal punto di vista fenomenologico, la forma del rinvio all’intuizione fondante. In tal modo il rapporto tra sensibilità ed intelletto (è evidente qui il richiamo critico alle due “fonti della conoscenza”, di kantiana memoria) si traduce nel rapporto tra “sensibile” e “categoriale”: il non-categoriale, il precategoriale è collocato nella sfera del sensibile con tutta la sua valenza fondativa per gli atti logici superiori.  di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune 3 Agrimensura empirica e geometria scientifica Tra le pagine più note, nelle quali Husserl analizza il rapporto fondativo del precategoriale incarnato nel mondo-della-vita ed il categoriale consacrato nei paradigmi scientifici, quelle dedicate alla genesi della geomertia e della geometrizzazione della natura sono particolarmente idonee per le tematiche che stiamo analizzando. Husserl precisa subito che la sua indagine “genealogica” non mira ad una ricostruzione “storiograficamente corretta” delle origini della geometria (emblematicamente assurta a simbolo della scienza “esatta”, ma non “rigorosa”) bensì vuole rintracciare il senso profondo, originario della sua collocazione categoriale. “Il problema dell'origine della geometria (e sotto il titolo di geometria raccogliamo qui, a fine di concisione, tutte quelle discipline che si occupano delle forme esistenti matematicamente nella spazio-temporalità) non è qui un problema storico-filologico; non si tratta quindi di reperire i primi geometri che·abbiano formulato proposizioni, dimostrazioni, teorie geometriche, né quelle determinate proposizioni che essi possono aver scoperto, ecc. Il nostro interesse mira invece a risalire al senso più originario in cui la geometria si è costituita, in cui si è sviluppata attraverso millenni, in cui è ancora viva per noi e in cui continua a evolvere; noi indaghiamo cioè il senso in cui si è presentata per la prima volta nella storia - il senso in cui dev’essersi presentata, anche se nulla sappiamo, né cerchiamo di sapere, sui suoi creatori. Partendo da ciò che sappiamo della nostra geometria, oppure dalle sue forme più antiche tramandateci (per es. dalla geometria euclidea), cerchiamo di risalire agli inizi originari e ormai sommersi della geometria, a quegli inizi “originariamente fondanti” così come devono necessariamente essersi prodotti. Questo tentativo di risalire al senso originario si mantiene necessariamente nell’ambito delle generalità, ma, come La rivincita della conoscenza comune risulterà tra breve, si tratta di generalità ricchissime, la cui esplicitazione offre la possibilità di attingere problemi particolari e constatazioni evidenti che a loro volta si configurano come problemi. La geometria, per così dire, compiuta, a cui occorre rifarsi per risalire al suo senso, è una tradizione. La nostra esistenza umana si muove nell’ambito di un numero enorme di tradizioni. Tutto il mondo culturale, in tutte le sue forme, è per noi in base alla tradizione. Perciò le forme culturali non sono soltanto divenute causalmente: noi sappiamo anche che la tradizione è appunto una tradizione che si è costituita nel nostro spazio umano e in base all’attività umana, sappiamo che è spiritualmente divenuta - anche se in generale noi non sappiamo nulla della sua precisa provenienza e della spiritualità che l’ha di fatto determinata. E tuttavia, anche questo non-sapere include sempre, per essenza e implicitamente, un sapere che può essere esplicitato, un sapere di un’evidenza incontestabile”. (E. Husserl, ibidem, p.381). Questo sapere, continua Husserl, affonda le radici, nell’esempio specifico che egli illustra, nell’impiego empirico dei concetti geometrici. A questo livello possiamo certo accontentarci di determinazioni piuttosto vaghe, di una vaga tipicità; e dunque di confronti sommari, a occhio e croce. Ci possiamo contentare, ma beninteso secondo i casi. Vi sono situazioni in cui non ci contentiamo affatto. Se, ad esempio, dobbiamo vendere il nostro campicello o scambiare il nostro con quello di un altro, presumibilmente non saremo affatto soddisfatti da determinazioni tra il più e il meno. Cercheremo di escogitare metodi più precisi di confronto, dunque metodi di misurazione. Si vede subito allora in che senso la pratica della misurazione abbia a che fare con la geometria, e in particolare con la sua origine. Pur essendo motivati da interessi pratici, cominciamo tuttavia ora a porci problemi teorici, continua Husserl, sia pure in una forma relativamente disorganica. Per escogitare metodi di misurazione abbiamo bisogno di operare una certa classificazione delle forme, scoprire certe relazioni tra esse o inventare dei ben determinati congegni per stabilire tra esse una relazione. In tutto ciò sono implicite numerose riflessioni teoriche che preparano la riflessione propriamente geometrica. Lo stesso problema di una classificazione tenderà, ad esempio, ad un certo ordinamento che prefigura la distinzione tra forme elementari e forme derivate e che non solo richiede un preciso intervento teorico, ma configura altrsì un possibile campo di indagine con fini propriamente ed esclusivamente conoscitivi. Questa origine della problematica geometrica non ha evidentemente un carattere “storiografico” nel senso consueto del termine. In altri termini, non ci sono “documenti” che mostrino che le cose siano andate proprio così, e questo è un altro elemento di notevole interesse che emerge dalle riflessioni di Husserl e che riguarda il concetto della storicità. È innegabile infatti che siamo comunque di fronte ad una descrizione “storica”, ma essa è condotta sul filo di una logica interna ai concetti, non è un racconto più o meno leggendario. E persino l’origine della riflessione geometrica dall’agrimensura ha forse queste caratteristiche di una connessione “genetica” non storiograficamente documentata in senso stretto, ma che rientra tuttavia, in un certo senso, nel pensiero di una storia della geometria alle sue origini. Scrive Husserl: “La metodica geometrica della determinazione operativa di alcune e poi di tutte le forme ideali a partire da forme fondamentali, in quanto mezzi elementari di determinazione, rimanda alla metodica esercitata già nel mondo circostante pre-scentifico-intuitivo, dapprima in modo rudimentale poi secondo regole d’arte, alla metodica della misurazione e in generale della determinazione misurativa. Le sue finalità hanno un’origine, che è rivelatrice, nella forma essenziale di questo mondo-della-vita. Le sue forme sensibilmente esperibili e sensibilmente- intuitivamente pensabili in esso e tutti i tipi pensabili, a qualsiasi grado di generalità, si connettono continuamente le une con gli altri. In questa continuità essi riempiono la spazio- temporalità (sensibilmente intuitiva) che è la loro forma (Form). Ogni forma che rientra in questa aperta infinità, anche quando è data come un fatto nella realtà, è priva di “obiettività”, perciò non è determinabile intersoggettivamente da chiunque - per es. da un altro che non la veda di fatto -, né comunicabile nella sua determinatezza. Evidentemente a costui serve la misurazione. La misurazione è qualcosa di molto differenziato, il misurare vero e proprio non è che il suo momento conclusivo: da un lato si tratta di produrre concetti adatti per le forme corporee dei fiumi, dei monti, degli edifici, ecc. che di regola devono rinunciare a concetti e a nomi rigorosamente determinanti; innanzitutto per le loro “forme” (nell’ambito della somiglianza visiva), e poi per le loro grandezze e per i loro rapporti di grandezza e; ancora, per l’ubicazione, mediante la determinazione delle distanze e degli angoli che vengono riportati a luoghi e a direzioni presupposti noti e immobili. La misurazione scopre praticamente la possibilità di scegliere come misura certe forme fondamentali empiriche, che sono concretamente definite su corpi che di fatto sono generalmente disponibili ed empirico-rigidi, e, mediante i rapporti che esistono (e che devono essere scoperti) tra queste misure e le altre forme corporee, cerca di determinare intersoggettivamente e in modo praticamente univoco queste forme - dapprima in sfere ridotte (ad es. nell’ agrimensura) poi per nuove sfere di forme. Si capisce così come, in seguito all’esigenza, ormai desta, di una conoscenza “filosofica”, di una conoscenza che determinasse il “vero” essere, l’essere obiettivo del mondo, la misurazione empirica e la sua funzione empiricamente- praticamente obiettivante, attraverso la trasformazione dell’interesse pratico in un interesse puramente teoretico, potesse venir idealizzata e trapassare così in un pensiero puramente geometrico. La misurazione prepara così la geometria universale e il suo “mondo” di pure forme- limite”. (E. Husserl, ibidem, pp. 57-58). Naturalmente la fenomenologia rappresenta in certo senso la guida di questo pensiero. Benché l’istante della transizione non possa essere documentato, è tuttavia chiaro che molte conoscenze geometriche siano state anticipate e presupposte nella tecnica degli agrimensori. Anzi in generale i problemi che sorgono nell’ambito della soluzione di difficoltà pratiche stimolano la ricerca sul piano teoretico–conoscitivo: la prassi tecnica genera motivi di riflessione teorica. E inversamente la riflessione teorica diventa un “mezzo della tecnica”; una volta che una scienza come la geometria si è costituita, quando cioè esiste un lavoro scientifico diretto in modo autonomo ad un universo di oggetti concettualmente definito, questo lavoro si ripercuote a sua volta sul terreno dei problemi tecnici suggerendo nuove idee e nuovi progetti.  Logica trascendentale e mondo-della-vita Questa interconnessione tra precategoriale e categoriale non riguarda soltanto le scienze naturali e sociali, ma investono ovviamente anche le scienze formali e, tra queste, la logica, verso la quale Husserl, fin dall’inizio della sua attività filosofica, ha sempre mostrato particolare interesse. Dalle Ricerche logiche (1900) a Logica formale e trascendentale (1929) a Esperienza e giudizio (1939), egli traccia la via di una “genealogia” della logica, in polemica con il logicismo e lo psicologismo, Nello sviluppo del suo pensiero si impone a Husserl anche l’esigenza di chiarire che genere di rapporto sussiste tra la logica antepredicativa e la logica predicativa . La percezione sensibile, per quanto consista nel tendere da parte dell’io verso l’oggetto intenzionato, è sempre una conoscenza instabile, insicura, che non consente mai di possedere l’oggetto conosciuto in maniera definitiva. Questo è possibile soltanto mediante una conoscenza predicativa, cioè attraverso la logica, la quale ha la capacità di fissare l’oggetto e di conservarlo anche quando non è presente nella percezione. La conoscenza antepredicativa e quella predicativa, perciò, si differenziano nettamente e ciascuna si caratterizza per una propria specificità. Se però si analizza la genesi della logica, ci si rende conto che bisogna rifarsi alla percezione sensibile per spiegare la logica predicativa. Questo significa che la conoscenza predicativa, di cui appunto la logica è l’espressione più compiuta, riposa fenomenologicamente, cioè dal punto di vista della sua fondazione, sulla conoscenza antepredicativa, cioè si esplicita in logica trascendentale. Scrive Husserl: “Chiarito il contrasto tra scienza obiettiva e mondo-della- vita, occorre tuttavia localizzare la loro essenziale connessione: la teoria obiettiva nel suo senso logico (in termini universali, la scienza come totalità delle teorie predicative, dei sistemi “logici” in quanto sistemi di “proposizioni in sé”, di “verità in sé” e, in questo senso, di enunciati logicamente connessi) è radicata e fondata nel mondo-della-vita, nelle sue evidenze originarie. Proprio per questo la scienza obiettiva ha una costante relazione di senso col mondo in cui sempre viviamo, e in cui, quindi, viviamo anche nella nostra qualità di scienziati accomunati a tutti gli altri scienziati - si tratta cioè di una relazione col comune mondo-della-vita. Ma così la scienza obiettiva è un’operazione di persone pre-scientifiche, di persone singole e di persone accomunate nell’attività scientifica, di persone quindi che appartengono al mondo-della-vita. Le loro teorie, le formazioni logiche, non sono naturalmente cose del mondo-della-vita nel senso in cui lo sono i sassi, le cose, gli alberi. Sono totalità logiche e parti logiche costituite da elementi logici ultimi. Per parlare con Bolzano: sono “rappresentazioni in sé”, “proposizioni in sé”, conclusioni e dimostrazioni “in sé”, unità ideali di significato, la cui idealità logica è determinata dal loro telos “verità in sé”. Ma anche questa idealità, come qualsiasi altra, non muta nulla al fatto che sono formazioni umane connesse per essenza alle attualità e alle potenzialità umane, e che quindi rientrano nella concreta unità del mondo-della-vita, la cui concrezione dunque ha una portata maggiore di quella delle “cose”. Ciò vale, correlativamente, anche per le attività scientifiche, sperimentali, per le attività che “in base” all’esperienza plasmano le formazioni logiche, in cui esse compaiono in forma originaria e in modi originari di evoluzione, nei singoli scienziati e nella comunità degli scienziati: quale originarietà delle proposizioni, delle dimostrazioni, ecc. che sono state elaborate in comune”. (E. Husserl, ibidem, pp. 158-159). Come potete notare, si tratta di un’ampia riflessione sul come le strutture logiche siano o meno adeguate alla dimensione della realtà oggettiva. In questo senso la logica trascendentale si presenta come logica dei fondamenti, ed è in seno ad essa che si costituisce la logica come scienza formale. La logica formale tradizionale, invece, ha ignorato la propria genesi, presupponendo come ovvia la validità delle proprie leggi. Al contrario, un giudizio logico deve essere valutato come un atto soggettivo di conoscenza che si impadronisce del suo contenuto. Per questo motivo le leggi logiche formali, che siano normative del giudizio, ma che non tengono conto del fatto che sono normative anche del suo contenuto, fanno sorgere interrogativi sulla validità dei loro giudizi sul mondo naturale e sulla verità ed evidenza dei loro contenuti. Seguendo questo punto di vista, Husserl sviluppa pienamente il tema della logica trascendentale in rapporto alle categorie di verità e di significato. Conseguentemente, la logica si configura qui come teoria delle teorie: essa non è solo un discorso logico sulla logica, condotto con i mezzi della logica, ma un metadiscorso sulla logica, che tuttavia non si presenta né come una sovrastruttura né come una forma speculativa. E’, a tutti gli effetti, una regressione, un ritorno ai fondamenti che l’hanno costituita nelle sue operazioni originarie, anche storiche, nonché nelle sue operazioni attuali. Le ricerche fenomenologiche, ribadisce Husserl, risultano necessarie alla logica pura, trascendentale. Ne rappresentano la sua fondazione intuitiva e precategoriale: in quanto la logica è da ricercare nelle operazioni costitutive, diventa logica filosofica, filosofia prima, teoria della teoria. Ma, badate bene, ciò non è in contraddizione con la fondazione precategoriale: è solo l’altra faccia della questione, poiché la fondazione deve sempre essere ristabilita nella presenza e nelle modalità temporali e quindi genetiche e storiche. Le scienze, invece, che non prendono in considerazione ciò che costituisce il loro fondamento trascendentale, cioè le condizioni per cui si danno, si risolvono in pure tecniche di manipolazione di simboli linguistici.Mauro Di Giandomenico. Giandomenico. Keywords: l’apertura semantica, “How Pirots Karulise Elatically” – pirots karulise elatically – pirots karulise – ‘implicazione’ – aperture semantica, Galileo, la retorica di Galilei, Galilei, lo stile di Galilei, Vinci, I corpi, la filosofia positivistica italiana  -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giandomenico: l’implicatura conversazionale: ‘Pirots karulise elatically; therefore, pirots karulise!” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giani – implicatura mistica – l’implicatura di Catone -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Muggia). Filosofo italiano. Grice: “It’s hard for me to judge Giani’s philosophy because I fought against the Italians during the so-called ‘second world war,’ so-called!” Grice: “But I would be willing to expand: if Giani developed what he aptly called a ‘mystique’ – so did we at Oxford – Churchill surely held his ‘mystique.’ Of course the Italian, being more scholastic, had to call it ‘scuola di mistica,’ – and the idea was that of an all-male chivalry order – aptly set at Milan!” Fonda la corrente filosofica nota come "Mistica". Partì come volontario di guerra e morì sul fronte.  Dopo aver frequentato il Liceo ginnasio Dante Alighieri di Trieste si trasferì a Milano, dove si iscrisse a Milano e quindi ai Gruppi Universitari, laureandosi. Anticipa l'imminente apertura della scuola sul foglio dei Gruppi Universitari, "Libro e moschetto" della Scuola di Mistica. Ne divenne direttore, carica che lasciò alla fine dell'anno seguente dopo aver scritto il suo ampio discorso da tenersi a Roma in occasione dellaI iunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze che coincideva anche con il decennale della Marcia su Roma in cui enuncia i principi della nuova scuola.  Su impulso di Giani si comincia inoltre a pubblicare i Quaderni della scuola di mistica. Poche settimane dopo la riunionesi dimise da direttore con una lettera inviata a Mussolini, per contrasti interni con il segretario politico dei Gruppi Universitari. Imputa le dimissioni al mancato trasferimento della Scuola nella vecchia sede de Il Popolo d'Italia chiamato anche "Il covo" La richiesta di entrare in possesso de "Il Covo" puntava ad ottenere il possesso di uno degli ambienti più importanti dell'immaginario fascista. Continua quindi a collaborare con diversi quotidiani come "Il Popolo d'Italia" e "Gerarchia". "Lineamenti sull'ordinamento sociale dello Stato" gli fece ottenere la libera docenza e e quindi la cattedra di Storia a Pavia ma parte volontario per la guerra d'Etiopia arruolandosi col grado di capomanipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale nel CXXVIII Battaglione"Vercelli".  Rientrato in Italia, riassunse la guida della scuola, qui in occasione della chiusura dell'anno scolastico nell'aula della casa del Fascio di Milano. Rientrato in Italia riassunse la carica di direttore della "Scuola di Mistica" lanciando due importanti iniziative, rilancia la pubblicazione della serie di "Quaderni" che affrontavano differenti problematiche e sempre per sua iniziativa fu creata nell'ambito della scuola la rivista mensile, Dottrina che divenne l'organo ufficiale della Scuola, in cui pubblica  il "Decalogo dell'italiano nuovo”. Si dedica inoltre al giornalismo diventando direttore a Varese di "Cronaca prealpina" e collaborando a diverse testate, tra cui Tempo (Direttore: Alfredo Acito). Dalle pagine di "Cronaca prealpina" prese parte alla campagna fondata sui propri convincimenti del ‘spirito’ contrapposto al "biologico"  La Cronaca prealpina dopo la nomina di Giani a direttore arriva a quadruplicare la tiratura.   L'incontro a Roma con Mussolini in cui si decise la cessione del "Covo" ai "mistici" della Scuola. Su impulso di Giani, con una cerimonia presieduta di Starace, la sede ufficiale della Scuola di Mistica si spostò nel medesimo edificio che ospitò ai suoi primordi il giornale Il Popolo d'Italia, chiamato "il Covo". Il "Covo" negli anni era stato trasformato in una galleria. La palazzina e proclamata monumento nazionale con tanto di guardia d'onore  svolta da squadristi e combattenti. Per esplicita decisione di Mussolini, fu ufficialmente consegnata ai mistici della scuola. L'evento fu vissuto come una autentica consacrazione dei insegnanti riuniti intorno a Giani. In realtà la consegna era già stata disposta come risulta da un foglio d'ordini del PNF e in quell'occasione il consiglio direttivo era stato ricevuto a Roma da Mussolini. Mussolini li aveva spro continuare nella loro attività.  A Milano, in occasione del decennale dalla fondazione della scuola, organizzò il "Convegno nazionale di mistica" che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere il primo della serie. Obiettivo che sfumò a causa dell'entrata in guerra. L'incontro vide oltre 500 partecipanti ed ebbe l'adesione della maggior parte degli filosofi dell'epoca. Come gran parte dei "mistici", partecipa nuovamente come volontario alla seconda guerra mondiale, conflitto nel quale vedeva il presagio di una rivoluzione in vista di una nuova era.  Inquadrato nell'11º reggimento alpini prese parte alla battaglia delle Alpi Occidentali contro la Francia e venendo decorato con la medaglia d’argento al valor militare.Terminata la campagna di Francia in seguito all'armistizio tornò alla vita civile ma incominciata nel frattempo la guerra in nord Africa richiese più volte di partire volontario senza ottenere soddisfazione. Alla fine ottenne di partire  come corrispondente di guerra de Il Popolo d'Italia, della Cronaca prealpina e de L'Illustrazione Italiana presso i reparti della Regia aeronautica. Per quest'ultima realizza anche diversi servizi fotografici. All'attività di giornalista affiance anche quella di militare prendendo parte ad alcune azioni e ottenendo una medaglia di bronzo al valor militare. E richiamato in Italia dove riassunse la guida de "La cronaca prealpina".Nuovamente incorporato nell'11º reggimento alpini riparte infine come volontario per la campagna di Grecia, dove cadde sul fronte greco-albanese nella battaglia per la conquista della Punta Nord del Mali Scindeli. Si offre volontario per una pericolosa missione che prevede la conquista di una munita postazione greca. L'attacco ebbe inizialmente successo con la conquista della posizione ma riorganizzatisi i greci condussero un contrattacco. Nello scontro cadde. Il periodico L'Illustrazione Italiana scrisse, senza riportare dove o come avrebbe potuto registrare tali parole, che l'ufficiale greco che lo aveva colpito a morte avrebbe raccontato che nello scontro Giani gli si era parato davanti "come un dio o un demone".  Il corpo di Giani andò disperso e gli altri assaltatori che avevano preso parte all'attacco dovettero ritirarsi rapidamente incalzati dai soldati greci. Fu pochi giorni dopo incaricato delle ricerche Carati che era anche vice-direttore della Scuola di mistica. Le ricerche a causa della perdurante situazione di guerra furono nulle, e riuscì solo ad individuare il luogo in cui era caduto.  In quell'occasione, richiesta un'udienza al Duce, chiese che potessero partire per l'Albania il cognato Guido Giani e il fratello Aldo Sampietro. Questi ultimi rinvennero la salma sepolta in maniera anonima in territorio greco. Di qui la salma fu translata nel piccolo cimitero militare di Klisura.  Mussolini fu preso come principale punto di riferimento dalla Scuola di Mistica. Elabora un discorso programmatico in cui enuncia i principi fondanti della Scuola e della Mistica fascista. Compito nostro deve essere soltanto quello di coordinare, interpretare ed elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola di mistica ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i nuovi valori  che sono nell'opera del Duce.  (Giani in La marcia sul mondo). Inizialmente i principi esposti da Giani facevano parte di un discorso più ampio da tenersi a Roma in occasione di una riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze. L'ampio discorso fu poi pubblicato nella serie dei "Quaderni" voluti da Giani con il titolo "La marcia sul mondo della Civiltà". Si impone un ritorno alle origini, ovvero al movimentismo rivoluzionario, riallacciandosi idealmente all'esperienza delle prime squadre d'azione e degli arditi della Grande Guerra quindi, secondo Veneziani "una più radicale rivoluzione coniugata al recupero di una più integralistica tradizione". Ma più che legati agli enunciati politici del manifesto di sansepolcro i mistici di quella esperienza esaltavano soprattutto la lotta contro la borghesia affaristica del primo dopoguerra. La mistica si considera rappresentante proprio di questo mondo ispirato dall'amore di patria e posta a guardia della rivoluzione permanente e in contrasto con gli opportunisti e i trasformisti. Individuava nell'epoca contemporanea *quattro* principali mistiche, destinate ad apportare in un primo tempo dei benefici ma poi a fallire: liberale, democratica, socialista e comunista. Liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo sono le quattro mistiche dominanti nella societa. Il bilanciolo abbiamo già visto è per tutte negativo. Il liberalismo porta all'anarchia. La democrazia porta all'instabilità politica e sociale. Il socialism porta alla otta civile. Il comunismo porta alla vita primitiva. Queste quattro mistiche sono pertanto anti-storiche. A fronte di esse l'unica mistica in grado di superare tali crisi era quella come sviluppato nel capitolo intitolato "La marcia ideale" la cui conoscenza e diffusione presso le masse era compito della élite. Medaglia d'argento al valor militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'argento al valor militare «Volontario nella guerra d'Africa ove prese parte volontario a diverse pattuglie esploratori, chiese ed ottenne di essere anche in quest guerra assegnato ad un reparto combattente. Destinato all'11º alpini volontario a due azioni del battaglione Bolzano chiese di partecipare alla ardita discesa di due compagnie del battaglione Trento effettuata in una valle occupata dal nemico e avanzò con la prima pattuglia sotto intenso bombardamento, sprezzante del grave pericolo di sorprese e di accerchiamento nemico, esempio trascinante a ufficiali e soldati, e prova di dedizione alla patria, di alta fede e di valore.» Medaglia di bronzo al valor militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia di bronzo al valor militare «Corrispondente di guerra presso una squadra aerea disimpegnava il suo particolare e delicato servizio con alto senso di responsabilità. Spesso presente sugli aeroporti più avanzati e maggiormente battuti dall'offesa nemica allo scopo di rendersi conto di ogni particolare, partecipava volontariamente a difficili e rischiose missioni di guerra, dando sicura prova anche nelle più critiche circostanze di sereno sprezzo del pericolo e completa dedizione al dovere.» Medaglia d'oro al valor militarenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro al valor militare «Volontariamente, come aveva fatto altre volte, assumeva il comando di una forte pattuglia ardita, alla quale era stato affidato il compimento di una rischiosa impresa. Affrontato da forze superiori, con grande ardimento le assaltava a bombe a mano, facendo prigioniero un ufficiale. Accerchiato, disponeva con calma e superba decisione gli uomini alla resistenza. Rimasto privo di munizioni, si lanciava alla testa dei pochi superstiti, alla baionetta, per svincolarsi. Mentre in piedi lanciava l'ultima bomba a mano ed incitava gli arditi col suo eroico esempio, al grido di: «Avanti Bolzano! Viva l'Italia», veniva mortalmente ferito. Magnifico esempio di dedizione al dovere, di altissimo valore e di amor di Patria.» — Punta NordMali Scindeli (Fronte greco), 14 marzo 1941. Opere: “La via della gloria, anni 20 La marcia sul mondo della Civiltà Fascista, Lineamenti su l'ordinamento sociale dello Stato, Giuffré ed. La mistica come dottrina. Perché siamo, A. Nicola. Perché siamo mistici. Mistica della rivoluzione. Antologia di scritti, Il Cinabro,  Longo, “I vincitori della guerra perduta” (sezione su  Giani), Edizioni Settimo sigillo, Roma.Carini, Giani e la scuola di mistica fascista,  Mursia, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate,Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Tomas Carini nella prefazione su  Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Carini,  Giani e la scuola di mistica, Mursia,Tomas Carini, Giani e la scuola di mistica, Mursia, Carini, Giani e la scuola di mistica fascista, Mursia, Tomas Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Grandi, Gli eroi, Giani e la Scuola di mistica, Cfr. a tale proposito le ricerche di Enzo Laforgia, una cui sommaria sintesi è nel sito varesenews Archiviato. Tomas Carini nella prefazione su Niccolò Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo, Il saggio, edito da Dottrina Fascista, riporta in forma integra la conferenza inaugurale tenuta da Giani per l'inaugurazione del corso per maestri della Scuola di Mistica. Cfr. a tale proposito le ricerche di Enzo Laforgia in Aldo Grandi, Gli eroi di Mussolini, BUR, Milano, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarcoedizioni, Varese, Longo, Gli eroi della guerra perduta, edizioni settimo sigillo, Roma,  L'Illustrazione italiana, Grandi, Gli eroi di Mussolini. Niccolò Giani e la Scuola di mistica fascista, cAldo Grandi, Gli eroi di Mussolini. Niccolò Giani e la Scuola di mistica fascista, cNiccolò Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,, Tomas Carini nella prefazione su Niccolò Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Marcello Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarcoedizioni, Varese, Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,, Tomas Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo, Tomas Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,  Tomas Carini, Giani e la Scuola di mistica, prefazione di Marcello Veneziani, Mursia, Milano, Grandi, Gli eroi di Mussolini. Giani e la Scuola di mistica, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, RaidoSpeciale Scuola di Mistica, Raido, Roma, Arnaldo M., Coscienza e dovere.  Niccolò Giani MISTICA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA Antologia di scritti, 1932-1941, pp. 302, euro 15.00 In libreria dal 27 novembre   In breve: «Siamo mistici perchè siamo degli arrabbiati, cioè dei faziosi, se così si può dire, del Fascismo, uomini [...] partigiani per eccellenza e quindi anche assurdi [...]. Del resto nell’impossibile e nell’assurdo non credono gli spiriti mediocri. Ma quando c’è la fede e la volontà, niente è assurdo». (Niccolò Giani) Un’antologia che raccoglie i più significati testi di Niccolò Giani, tra i massimi esponenti della corrente più radicale, oltranzista e universale del Fascismo, la Scuola di Mistica Fascista. Questa antologia rappresenta la prima raccolta organica dei più significativi scritti di Niccolò Giani nel periodo che va dal 1932 al 1941. È, a nostro giudizio, il modo migliore per illustrare senza filtri la sua persona, il suo pensiero e la sua azione. È un omaggio doveroso al testimone di quello che fu il Fascismo universale e intransigente che mai scese a compromessi con la “vita comoda”, al rinnovatore spirituale e politico di una intera generazione. Esempio di eroismo che, al di là della contingenza storica, seppe essere coerente con i propri principî vivendo l’ideale sino all’estremo sacrificio; quasi innalzando il Fascismo ad una categoria universale dell’essere, come fonte inesauribile di spiritualità cui innestarsi per fare la rivoluzione dell’uomo e del mondo. Niccolò Giani, nato a Muggia il 20 giugno 1909, cadde sul fronte greco il 14 marzo 1941, nello slancio del combattimento, trasfigurato ormai nell’eroismo muto. Dimostrò con la vita affermata oltre la morte, l’armonia tra pensiero e fede, la continuità tra dottrina ed azione, e della autentica Rivoluzione rimane il puro rappresentante della giovinezza nuova: per questo il suo esempio sarà il seme fecondo dell’aspro cammino di domani. Seppe con l’azione indicare la strada, con l’intransigenza insegnare l’esempio. I «tesserati» furono i suoi avversari. Contro di essi combatté, contro cioè i falsi, i presuntuosi, gli esibizionisti, i retorici, gli arrivisti; contro coloro, insomma, che considerarono la Rivoluzione come atto di ordinaria amministrazione, sfruttabile per fini personali.    Il Cinabro Ufficio stampa ufficiostampa@ilcinabro.it   INDICE: Saggi introduttivi: - Luca Leonello Rimbotti: Mistica Fascista. L’ordine della Milizia sacra - Maurizio Rossi: La Mistica Fascista dell’Uomo Nuovo. Tra milizia politica e metapolitica la scuola rivoluzionaria del Fascismo *** Introduzione: - Fernando Mezzasoma: Niccolò Giani discepolo di Arnaldo *** Decalogo dell’Uomo Nuovo La marcia ideale sul mondo della Civiltà fascista Generazioni di Mussolini sul piano dell’Impero Civiltà fascista civiltà dello spirito Aver Coraggio A difesa dell’Europa Fuori La mistica come dottrina del fascismo Le due Europe Mistica del fascismo, Corporativismo e Autarchia Il Centro di preparazione politica per i giovani. Fucina di Campioni della Rivoluzione Valore primordiale del “Covo” I soliti imbecilli L’equivoco Perché siamo dei mistici Il volto della guerra Testamento spirituale al figlio Niccolò Giani: Presente!Mistica Della Rivoluzione Fascista “E questo diritto alla prima linea, ad essere i disperati del Fascismo, è l’unica pretesa che, oggi, domani, sempre, i mistici del Fascismo accamperanno di fronte alla Rivoluzione, come, con vena veramente squadrista, ha detto Guido Pallotta nella sua relazione che ha avuto lo spirito e la mordenza del «menefreghismo» più autenticamente fascista. Prima linea, sul fronte esterno ed interno, contro il nemico di fuori e di dentro. Contro gli attentatori della nostra integrità territoriale, ma anche, e con uguale decisione e durezza, contro gli attentatori della nostra integrità spirituale.”  (Niccolò Giani)  Le conseguenze derivate dalla fine del primo conflitto mondiale e l’immediatarossi 5 crisi strutturale delle istituzioni e dei valori che investì, con una forza che non aveva avuto precedenti nella storia, le società europee, vennero allora giudicate come l’annuncio di un radicale mutamento di tutte le forme della vita politica e civile fino ad allora conosciute e complessivamente accettate. Una deflagrazione interna dei costumi, di certezze consolidate e di mentalità che modificò in maniera irreversibile l’immaginario collettivo di popoli e nazioni.  Niente sarebbe più stato come prima. Uno Spirito nuovo si affacciava con ruvida decisione e realismo eroico reclamando il proprio posto nella Storia. L’alba delle grandi rivoluzioni si affacciava sul continente europeo e i popoli si sarebbero messi in marcia affascinati da nuove e esaltanti Weltanschauung.  Per Arthur Moeller Van Den Bruck, uno dei primi e tra i più significativi esponenti della Rivoluzione Conservatrice tedesca, si tratterà di una presa di posizione a carattere diffuso più che evidente: “Assistiamo all’evento per cui tutto quel che non è liberale si unisce contro quel che è liberale. Noi viviamo i tempi di questa agitazione mondiale, che si produce per una estrema consequenzialità, e che si esplica in una rivoluzione radicale che prospetta la perdita da parte del nemico della sua posizione di potere: tale nuova situazione mondiale esordisce con un allontanamento dall’Illuminismo.”  Il periodo che immediatamente fece seguito al termine di un conflitto di così immensa portata, venne visto dai più attenti e acuti osservatori incredibilmente saturo di una genuina e stupefacente valenza rivoluzionaria e innovatrice, ciò significò l’inizio di una nuova stagione di entusiastiche mobilitazioni che avrebbero alla fine tonificato la fibra morale e politica del continente fino ad allora logorata ed estenuata da sovrastrutture ipocrite e corrose nel loro intimo che erano riuscite, attraverso innumerevoli sotterfugi, a sopravvivere a se stesse, sempre più annichilite da un pervasivo decadentismo culturale e morale e dal predominio di una mentalità borghese e oligarchica connotata dalle sue più perniciose vedute utilitaristiche e mercantilistiche.  Le conseguenze della fine della grande guerra significarono soprattutto una presa di coscienza collettiva e un’accelerazione formidabile dei fenomeni sociali, accompagnate entrambe da una esigenza totalmente nuova di considerare l’esistenza e i rapporti umani, esigenza che venne principalmente percepita prima dai combattenti e poi dai reduci come il frutto maturo della traumatica e allo stesso tempo travolgente esperienza della guerra di trincea, insomma un insieme di condizioni imprescindibili che prepararono il terreno e l’atmosfera per l’avvento delle ondate rivoluzionarie nazionalpopolari che misero in crisi valori e regole consolidate da tempo, assestando colpi mortali alle strutture politiche, sociali e culturali delle società borghesi liberal-democratiche.  Dalle forme statiche si passava alle forme dinamiche, nel senso jungeriano del termine.  Il Fascismo sarà la matrice principale che inaugurò la feconda ed entusiasmante stagione delle insurrezioni nazional-rivoluzionarie e il primo laboratorio culturale delle ancor più affascinanti sintesi nazionali e sociali.  Furono infatti i reduci del fronte, gli ex-combattenti che avevano creduto fino in fondo ad una particolare visione eroica della vita propria di una ideologia della guerra sviluppatasi nell’interiorizzazione del sacrificio bellico e del sangue versato – subendo poi la frustrazione di una vittoria conseguita sul campo di battaglia a duro prezzo che videro mutilata negli accordi di pace internazionali – a rappresentare la spina dorsale di una innovativa e volontaristica visione politica che pretendeva di coniugare un nazionalismo intransigente e guerriero partorito nelle trincee con le più avanzate e spregiudicate chiavi di lettura sociali.  La grande guerra di popolo aveva travasato nei combattenti il senso della tensione nazionale e sociale verso scopi e missioni comuni, una nuova coscienza collettiva che sarebbe stata cementata da un formidabile sentimento di fraterno e virile cameratismo, il culto della differenza e del radicamento nella specificità etnica della Stirpe italica.  Gli squadristi fascisti non fecero altro che travasare tutti questi motivi nelle battaglie di piazza.  Sorti dalla guerra di popolo, divennero avanguardia di popolo. E il 28 Ottobre 1922 sarà il coronamento dei loro sacrifici, la loro apoteosi.  D’altronde era stato lo stesso Mussolini a dire che l’esperienza della guerra avrebbe generato le migliori condizioni per la rivoluzione sociale e politica. Anzi, ne sarebbe stata la prefazione. Era il novembre 1916 e Mussolini combatteva sul fronte del Carso, nei ranghi del 11° Reggimento Bersaglieri: “Noi vinceremo la guerra: ma poi dovremo vincere la pace. Sarà duro; ma ci arriveremo. La società italiana deve assolutamente mutare. (…) Sui giovani bisognerà contare. Questa guerra che noi combattiamo e che con tragica definizione viene detta di logoramento, porterà alla ribalta delle lotte civili una generazione che riuscirà a fare quello che la nostra non è riuscita a fare: il riscatto sociale e politico del mondo del lavoro, al di sopra e al di fuori dei dottrinarismi che oggi lo incatenano. A ciò non saremmo mai arrivati se non avessimo voluto la guerra, rovesciato i vecchi feticci sostituendo alle vuote ideologie i fatti e le loro naturali conseguenze. Questo non sarà solo di noi, ma anche di altri popoli.”  Una lucida e profetica anticipazione di quanto sarebbe poi accaduto in tutta l’Europa.  Tutto questo si pose, in maniera del tutto naturale, in totale opposizione al principio democratico in politica e a quello liberale nel campo economico, all’insegna di una rivoluzionaria concezione elitaria, fortemente gerarchica e anti-egualitaria che reclamava la valorizzazione delle minoranze attivistiche e carismatiche con la conseguente affermazione del principio guida del Capo, con il mito dello Stato totalitario come asse formante e legittimante della Comunità nazionale e non ultimo la funzione pedagogica del Partito unico, soprattutto mediante una costante mobilitazione politica delle masse, una sacralizzazione della politica attraverso il ricorso a liturgie collettive, miti e simbologie, e una crescente militarizzazione della vita sociale e civile, l’intervento statale attraverso gli istituti del Corporativismo per una razionale direzione disciplinata dell’economia che ponesse termine all’epoca del predominio delle oligarchie mercantilistiche e parassitarie e riportasse la vita economica al servizio dell’interesse collettivo subordinandola alle necessità politiche nazionali.  Infine, l’affermazione sovrana di una particolare e severa tipologia umana di nuova impronta che avrebbe rappresentato lo spirito del nuovo tempo: l’Uomo Nuovo, l’Uomo integrale come manifestazione vivente di una Tradizione atemporale che ebbe la volontà e la capacità di tradursi in Rivoluzione.  Proprio nel senso di quell’interpretazione che Niccolò Giani seppe dare, facendosi portavoce di quegli ambienti del Fascismo intransigente e rivoluzionario che vollero interpretare al meglio gli insegnamenti mussoliniani: “Il Fascismo è un richiamo violento alla Tradizione, non un ritorno o una ripetizione. Per noi fascisti la Tradizione come lo dice il significato etimologico del termine e come Evola ha documentato, è e non può essere che dinamica. Altrimenti si parlerebbe di conservatorismo o di reazione. Invece, la Tradizione è continua coniugazione, attraverso il presente, del passato e dell’avvenire; è processo inesausto di superamento, è una fiaccola accesa con la quale ogni popolo illumina la propria strada e corre nel tempo verso l’avvenire. Ecco perché, oggi, Rivoluzione e Tradizione non si escludono, ma anzi si identificano e questo spiega il culto che noi abbiamo pel passato e dice ai soliti uomini dai paraocchi che l’italiano del secolo XX non può che essere fascista.”  Questa nuova visione della politica rappresentata dal Fascismo rappresentò inequivocabilmente la radicale negazione dei principi emersi dalla rivoluzione francese, una evidente antitesi storica e culturale di quanto fu incarnato dall’illuminismo, che costituì l’essenza di tutte le manifestazioni materialistiche ed economicistiche della decadenza moderna: da quelle individualistiche, liberali e democratiche a quelle cosmopolite, genericamente progressiste e marxiste.  Il Fascismo, anche nella sua più vasta comprensione europea, intese proporre in maniera concreta ed efficace un discorso radicalmente alternativo alla politica borghese e alla società borghese richiamandosi al concetto di avanguardia delle idee, un’avanguardia rivoluzionaria che fosse in grado, senza contraddizioni, di saldare assieme passato e presente vincendo così la sfida della modernità, sostituendo il vigore giovanile della passione idealistica e volontaristica alla decadente dissolutezza del conservatorismo borghese e il cameratismo militante radicato nella coscienza popolare alla società atomizzata e polverizzata delle democrazie liberali.  Un discorso ambizioso per un’avanguardia che ambiva ad essere al contempo simbolo della genuinità politica e della resurrezione spirituale, una speranza che venne riposta nel mito capacitante dell’Uomo Nuovo creatore di nuovi valori, l’esemplare di una specifica specie umana lanciata alla conquista del futuro senza per questo dover recidere le radici culturali e spirituali che lo mantenevano legato alla propria dimensione storica, etnica e popolare; nei confronti della quale si espresse il Duce parlando nel 1933 all’Assemblea delle Corporazioni: “L’uomo economico non esiste, esiste l’uomo integrale che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è guerriero.”   Quindi questa figura particolare dell’Uomo Nuovo, capace di raccogliere in sé tutte le sue forze creative, che la cultura rivoluzionaria del Fascismo proponeva e che non mancava costantemente di ricollegare alla stagione dello squadrismo, così intrisa di eroicità e di sacrificio, riconduceva alla stessa definizione dell’Uomo integrale di mussoliniana memoria, ovvero un uomo che non esistesse unicamente perché cartesianamente pensante, ma perché arricchito di tutte quelle virtù “romanamente” intese, eroiche, civiche e politiche, sia nella ragione come nei sentimenti.  Spesso e volentieri nell’immaginario intellettuale il discorso sull’Uomo Nuovo si andava a concretizzare poi nell’ideale della gioventù, una gioventù non solamente intesa in senso spirituale ma anche come dato anagrafico, poiché il concetto di gioventù rimandava all’ansia del cambiamento e all’impeto rivoluzionario, racchiudendo in se stessa gli ideali della forza e della bellezza, di una esuberante virilità aggressiva, l’anelito vitale di un futuro tutto da conquistare, proprio l’opposto di quanto ancora proponevano i rappresentanti delle democrazie borghesi con tutte le loro desuete convenzioni e i loro logori formalismi, con tutta la loro boriosa rispettabilità e lasciva ipocrisia.  Il Fascismo fu quindi profondamente giovane e irruento, meravigliosamente violento e lo fu sia spiritualmente che anagraficamente.  Il comune denominatore della più intransigente e autentica cultura fascista, quella derivata appunto dalla passionale ed eroica stagione dello squadrismo, si trovava nell’aspirazione alla realizzazione di un originale disegno politico ed esistenziale da esplicarsi mediante cambiamenti radicali frutto di una ferma volontà rivoluzionaria che armonizzava i riferimenti alla rivolta romantica dell’interventismo e alla mistica eroica evocata dalla guerra di trincea con i nuovi miti palingenetici di trasformazione della società e dello Stato. Questa cultura dell’azione che si nutriva dello spirito barricadiero di rivolta contro l’ordinamento borghese in nome di un rivoluzionario e fascista Ordine Nuovo era la caratteristica di quell’ambiente fascista che si riconosceva, anche per esperienza diretta, nel mito capacitante delle aristocrazie del combattentismo – quella trincerocrazia più volte evocata da Mussolini – e nella scuola di vita e di coraggio rappresentata dalla militanza squadristica che venne vissuta, letta ed interpretata non solamente come una reazione organizzata e armata volta all’annientamento dei focolai dell’insurrezionalismo marxista, ma soprattutto come militanza rivoluzionaria e idealistica volta alla rigenerazione della Nazione e alla creazione di uno Stato nuovo. Una specifica rilettura che si svolgeva anche in aperta polemica con coloro che ritenevano che la nascita del governo presieduto da Mussolini, all’indomani della marcia su Roma, rappresentasse la fase risolutiva del Fascismo.  In questo modo, il Fascismo, doveva e poteva assumere una superiore valenza metafisica affermando il suo essere come un completamento naturale e organico della storia della Nazione italiana, andando ben oltre la semplice insorgenza anti-sovversiva e anti-modernista – non a caso lo stesso Niccolò Giani volle mettere l’accento sul fatto che: “La Rivoluzione Fascista infatti non è stata reazione come qualcuno ha creduto in origine e come tuttora si crede da molti all’estero; è stata invece l’ostetrica della nuova storia. E sorta una nuova civiltà capace di risolvere tutti i problemi della società contemporanea.”  Per costoro, che in fondo rappresentavano la vasta base della militanza fascista e anche quella intellettualmente più viva, l’agire politico del Fascismo non doveva assolutamente compromettersi con i residui della vecchia classe dirigente, che in virtù del processo di normalizzazione e di pacificazione avviato dal Duce si adoperavano nell’inserimento all’interno dei gangli del regime, doveva invece mantenere e tonificare una assoluta intransigenza dottrinaria senza incorrere in alcun cedimento politico e morale, perché se il Fascismo era una rivoluzione, doveva necessariamente procedere nei suoi obiettivi con mentalità e metodi rivoluzionari, come perentoriamente affermò un autorevole esponente dell’epopea squadristica della statura di Roberto Farinacci: “Bisogna insomma che la bestia proteiforme del vecchio conservatorismo sornione sia liquidata bruscamente; che le vecchie clientele d’interessi e d’ambizioni fiorite ai margini della vita politica italiana siano messe in mora, vigilate, controllate, sopra tutto tenute lontane, bisogna che sia impedito a chiunque di rifarsi, attraverso il Fascismo, una qualsivoglia verginità e continuare, sotto mentite spoglie, le abitudini peccaminose del passato. La vittoria deve essere integrale.”  Tra gli oppositori più accaniti della deriva moderata si evidenziarono gli ideatori della Scuola di Mistica Fascista, costituitasi a Milano il 10 Aprile 1930, tutti provenienti da quella generazione di giovani dei GUF che era cresciuta respirando l’atmosfera del Fascismo, maturando così una profonda convinzione nei miti fondatori del regime e una fedeltà assoluta nella persona del Duce.  Al loro fianco si schierarono altre personalità di spicco del Fascismo rivoluzionario: Berto Ricci con il suo universalismo fascista, Alessandro Pavolini e l’esaltazione della primavera squadristica, Edmondo Rossoni con tutte le aspettative del sindacalismo rivoluzionario.  La Scuola di Mistica Fascista verrà intitolata a Mussolini, il figlio prematuramente scomparso di Mussolini. Giani, Pallotta, Mezzasoma e molti altri giovani entusiasti, avvalendosi della guida orientatrice di Arnaldo Mussolini, seppero rappresentare, attraverso l’opera che fu sviluppata dalla Scuola, una autentica e intransigente avanguardia intellettuale e morale posta a difesa dei valori espressi dalla Rivoluzione Fascista, che sempre più doveva farsi rivoluzione culturale e antropologica per meglio adempiere alla consegna rivoluzionaria che il Duce del Fascismo aveva dato alle nuove generazioni.  Sarà Niccolò Giani a spiegare gli scopi dell’istituzione: “Poiché una mistica è un postulato di tanti credo, e un valore assoluto non lo si può derivare che da una fonte indiscutibile, questa fonte non può essere che il Duce. Ecco perché la fonte deve essere quella, esclusivamente quella. Compito nostro deve essere soltanto quello di coordinare, interpretare ed elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola di Mistica fascista ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i nuovi valori del Fascismo che sono nell’opera del Duce.”  Quindi una rivoluzione culturale, del carattere e dello Spirito che, attraverso interessanti rievocazioni del mito della romanità e della sacralità della Stirpe – rappresentazioni metastoriche e metafisiche della migliore tradizione aryo-romana – sarebbe approdata ad una coesione organica della Stirpe italica costituitasi in Comunità nazionale e avrebbe dato all’Italia fascista il diritto-dovere di adempiere ad una missione universale facendo del Fascismo il crocevia della storia europea del ventesimo secolo e il riformatore dei tratti essenziali della Civiltà contemporanea in ogni suo aspetto, la ripresa e il rinnovamento dell’Europa all’indomani del fallimento della democrazia liberale e delle utopiche promesse marxiste. Aprire la strada al secolo fascista.  Certamente nella visione della Mistica fascista elaborata dalla Scuola vi era la ferma consapevolezza che il Fascismo fosse una autentica rivoluzione totale della società italiana: spirituale ed etica, sociale e politica, ma al contempo anche una ripresa di tutte le tradizioni essenziali, però la memoria storica proposta non si sarebbe dovuta risolvere in un ripiegamento nel passato, l’immagine del passato non finì mai per schiacciare la dimensione del presente e tanto meno si configurò come un richiamo intensamente nostalgico, bensì le potenzialità ideologizzanti della rimemorazione storica vennero fatte espandere fino a provocare una vera e propria occupazione del cosiddetto campo dei ricordi – una lotta spirituale e rivoluzionaria per il dominio del ricordo e della memoria – che conducesse ad una riscrittura della cronologia nazionale che rispecchiasse le concezioni del pensiero irrazionalista, anti-intellettualista e pragmatista dei decenni trascorsi, un pensiero profondamente permeato di sfumature di matrice nietzschiana e soreliana.  Anche i richiami alla Mistica insita nel Fascismo erano animati dallo spirito di rivolta, contro le mentalità borghesi ancora sussistenti, delle nuove generazioni cresciute ed allevate nelle organizzazioni totalitarie giovanili e universitarie, una rivolta che si manifestava con i forti caratteri di un idealismo morale ed etico qualitativamente aristocratico esprimente l’esaltazione di una giovinezza istintiva, disinteressata e piena di spirito vitale, aggressiva, pura e decisa a dare battaglia a qualsiasi forma di conservatorismo e di borghese “buon senso” pur di affermare il carattere intransigente e le finalità rivoluzionarie sociali e spirituali del Fascismo.  Non vi era nessun punto di convergenza con eventuali nostalgie reazionarie, mentre invece era presente una totale e coerente aderenza alle istanze di trasformazione rivoluzionaria che il Fascismo esigeva e che ancor di più il Duce imponeva.  Per questi giovani attivisti non vi era altra strada per uscire definitivamente dalla crisi della modernità, esplosa alla fine del primo conflitto mondiale, che con un mutamento radicale del popolo italiano e una tale mutazione antropologica poteva provenire solamente da una fede ben salda che aveva iniziato a germinare in un primo tempo con l’esperienza della guerra nel mito della Nazione in armi, della guerra di popolo, proseguendo poi con l’esaltante epopea della lotta squadristica, per approdare infine nella costruzione dello Stato fascista di popolo, corporativo e totalitario, il compimento finale del rinnovamento sociale e spirituale della Stirpe e della grandezza politica della Nazione.  Nel corso degli anni che trascorsero dal 1930 fino all’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 la Scuola di Mistica Fascista assolse in maniera esemplare ai compiti che si era prefissata, ovvero l’ambizione di voler rappresentare l’infrangibile scudo morale, etico e dottrinario contro il quale si sarebbero dovute infrangere le velleità dei nemici del Duce e del Fascismo, soprattutto i nemici interni, i più pericolosi, quelli che si annidavano tra le pieghe del regime per minarlo alla base.  Affinché lo scudo della rivoluzione fosse solido i mistici della Scuola, i soldati politici dell’Idea, vollero essere loro stessi esempio di virtù civiche, morali e politiche, di fedeltà indiscussa nei confronti della guida della rivoluzione, il Duce, spesso descritto come il genio della Stirpe, l’Eroe che con la sua instancabile opera dava quotidianamente prova di rappresentare pienamente la coscienza e la voce dell’anima del popolo, soprattutto di un popolo a cui il Fascismo aveva restituito la dignità politica e sociale e un’unità spirituale che attingeva dalla viva coscienza di appartenere integralmente all’organismo della Nazione.  Da questa chiave di lettura emergeva, quindi, una superiore comunione mistica che legava il Duce al suo popolo, cementata dalla comune fede fascista, una fede intensa che a sua volta veniva elevata al rango di una sorta di religione mistico-popolare sacralizzata dal sangue offerto in sacrificio dai martiri dello squadrismo sull’altare della rivoluzione, una rivoluzione continua che, come affermava un giovane esponente della Scuola, procedeva impetuosamente la sua marcia: “I giovani della Mistica si sono irradiati tra le file delle generazioni vecchie e nuove e hanno dato il goccio d’acqua, il pezzo di pane del conforto, hanno sorretto i deboli, hanno convinto i pusillanimi. La Rivoluzione ha attraversato le ubertose valli della sua fase politica, ora sale. Guai a chi volesse tentare di derogare alle direttive di marcia per evitare le asprezze della salita e impedire che dalla politicità si torni alla rivoluzione piena e travolgente delle ore di audacia e di lotta.”  Per queste nobili motivazioni gli esponenti della Mistica fascista chiesero e ottennero nel 1939 che la Scuola divenisse la custode del famoso “Covo” milanese di via Paolo da Cannobio, il sacrario della rivoluzione delle camicie nere, appunto il Covo del fascio primogenito dove la fede fascista aveva mosso i primi passi e dove il Duce aveva chiamato all’adunata.rossi  Un luogo simbolico carico di suggestivi richiami emozionali, ben presente nell’immaginario collettivo della militanza squadristica, che avrebbe dovuto essere la fonte di irradiamento della Mistica fascista verso tutta la Nazione.  Il cosiddetto “Covo” del fascio primogenito rivestì sempre per i mistici fascisti un ruolo centrale nel loro immaginario dottrinario, rappresentava la fonte mitica della fede mussoliniana, il principio fondante del Fascismo, era come trascendere il tempo profano per riapprodare al tempo mitico della purezza dell’Idea, un riaccostamento di ordine metafisico a cui si poteva accedere soltanto attraverso i miti e i simboli, e la Mistica fascista era satura di richiami, di miti e di simboli: “Qui è tutta l’attualità e la contemporaneità del “Covo”. Attualità e contemporaneità che non dovranno mai tramontare. Non solo per noi, infatti, ma per i nostri figli e per i figli dei nostri figli il “Covo” deve e dovrà essere l’Arca dei valori della Rivoluzione, la bussola cui guardare nei momenti di indecisione, la guida cui ispirarsi, la stella polare che il navigante dello Spirito deve vedere sempre alta e lucente davanti a se. E ad esso oggi, domani, sempre gli italiani dovranno salire in pellegrinaggio, per meditare, per ispirarsi. Ad esso le generazioni si accosteranno sempre con stupore religioso per imparare che nulla allo Spirito è impossibile.”  Il Fascismo, come spesso ripeteva il Duce, era una fede coltivata nella lotta che aveva avuto i suoi caduti, i suoi martiri che immortalatisi vestendo la gloriosa camicia nera la avevano rafforzata e sacralizzata: “Se ogni secolo ha una sua dottrina, da mille indizi appare che quella del secolo attuale è il Fascismo. Che sia una dottrina di vita, lo mostra il fatto che ha suscitato una fede: che la fede abbia conquistato le anime, lo dimostra il fatto che il Fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi martiri. Il Fascismo ha oramai nel mondo l’universalità di tutte le dottrine che, realizzandosi, rappresentano un momento nella storia dello spirito umano.”  Adesso, questa fede, attraverso i mistici fascisti della Scuola aveva trovato i suoi intransigenti custodi e i suoi più appassionati apostoli.  Anche loro si stavano preparando al combattimento – nella sua duplice veste fisica e spirituale – aspirando di potere affrontare degnamente il supremo sacrificio per il Fascismo e onorare così la loro scelta di vita versando il proprio sangue per la causa rivoluzionaria.  Morire all’ombra dei gagliardetti neri: Mistica dell’azione – Mistica del realismo eroico – Mistica della fede. Fedeltà che era più forte del fuoco, come narravano antiche saghe.  Che l’intensa e interessante attività svolta dalla Scuola nell’approfondimento e nell’arricchimento della Dottrina fascista fosse il risultato di un grande impegno contrassegnato da un’altrettanto grande serietà venne comprovato dai numerosi riconoscimenti che ricevette, non ultimo l’apprezzamento e la manifesta simpatia avuta da parte di Julius Evola, ma il riconoscimento più importante, i mistici, lo ricevettero dal Duce che li encomiò pubblicamente il 20 novembre 1939, incontrando i quadri della Scuola a Palazzo Venezia, incitandoli a proseguire nel cammino intrapreso quali custodi della purezza dell’Idea e del mito rivoluzionario: “Io vi ho seguito in tutti questi anni da vicino e con vivissima simpatia perché considero la mistica in primo piano. Ogni rivoluzione ha infatti tre momenti: si comincia con la mistica, si continua con la politica, si finisce nell’amministrazione. Quando una rivoluzione diventa amministrazione si può dire che è terminata, liquidata. Potrei dimostrarvi che tutte le rivoluzioni sono passate attraverso questo ciclo: noi che conosciamo la storia dobbiamo impedire che la politica scivoli nell’amministrazione. Alle origini di ogni rivoluzione c’è la mistica: se la politica è il contingente, la mistica è l’immanente, essa rappresenta i valori eterni, essenziali, primordiali. (…) Voi dovete lavorare per l’avvenire. Per far questo occorre la fede. E’ facile ad un certo momento deviare nella politica: voi dovete essere al di fuori e al di sopra delle necessità della politica. Di queste cose ho parlato in modo molto sommario; ma tutte erano presenti in voi. Avete tempo di riflettere.”  Il secondo conflitto mondiale era però già iniziato e l’Italia sarebbe entrata in guerra l’anno successivo.  I mistici fascisti volendo essere, fino alle estreme conseguenze, la prima linea del Fascismo accolsero con felicità ed entusiasmo la notizia, chiedendo ufficialmente che gli venisse concesso l’Onore dell’arruolamento volontario “nei più rischiosi reparti di terra, di mare o di cielo”. Subito, ben 169 quadri dirigenti della Scuola partiranno per il fronte, convinti che il processo rivoluzionario fascista avrebbe avuto una formidabile accelerazione proprio per effetto della guerra. Molti altri mistici seguiranno a ruota l’esempio dei loro capi.  La loro esemplare condotta evidenzierà una magnifica esplicazione degli insegnamenti della Tradizione: se hai di fronte due strade, scegli sempre la più difficile. Poiché c’è sempre una strada per chi vuole percorrerla.  Sia Niccolò Giani, sia un’altra figura di eccezionale valore come Berto Ricci, testimonieranno la loro intransigente coerenza esistenziale e politica con la scelta del combattimento. Il primo volontario sul fronte greco-albanese dove troverà eroicamente la morte nel marzo del 1941, il secondo, sempre volontario, sul fronte africano dove coronerà la propria esistenza di credente nella fede fascista incontrando, altrettanto eroicamente, la morte il 2 febbraio 1941 a Bir Gandula sul Gebel cirenaico.  Nell’arco di un solo mese il Fascismo perse due tra i suoi migliori campioni.  Le vicende belliche decimarono di fatto il gruppo dirigente della Scuola che sarà costretta a cessare le sue attività. I pochi sopravvissuti di quell’esperienza raccolsero di nuovo la chiamata del Duce aderendo nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana, tra questi Fernando Mezzasoma che era stato il vicepresidente della Scuola e che ricoprì il dicastero della propaganda nella RSI, trasportando con il proprio esempio le intime motivazioni della Mistica fascista nell’esperienza repubblicana: “È questa nostra intransigenza nei confronti della Dottrina che abbiamo sposato, delle battaglie che combattemmo, delle realizzazioni che abbiamo attuate, che, se ci consente di accettare la collaborazione di qualsiasi Italiano in buona fede e di buona volontà che voglia aiutare la titanica fatica del Duce, ci obbliga tuttavia a respingere sdegnosamente qualunque patteggiamento con coloro che agiscono al servizio del nemico, uccidendo a tradimento i nostri migliori compagni di marcia e di battaglia, con coloro che nell’Italia invasa perseguitano i fascisti che a migliaia risorgono e insorgono per rendere dura la vita agli invasori e aprire la strada al nostro ritorno. Questa deve essere oggi la nostra missione di fascisti. Questo è il comandamento di Niccolò Giani. Questo è il suo insegnamento. Nel suo nome, e nel nome degli altri Caduti, i superstiti della Scuola di Mistica fascista chiamano a raccolta l’autentica gioventù italiana.”  Anche lui morirà poi nel 1945 assassinato dai partigiani.  Andarono tutti volontariamente incontro alla morte per onorare un patto di fedeltà e di fede che li legava al Duce e al Fascismo, così facendo coronarono una vita degna e ben vissuta, il loro abbraccio mistico con il Fascismo si consumò eroicamente in combattimento e di fronte ai plotoni di esecuzione.  Se ancora oggi, dopo i tanti decenni trascorsi, la loro memoria, la memoria delle tante battaglie ideali e materiali affrontate, viene nonostante tutto ancora sentita come viva, se il ricordo di questi uomini caduti con onore non in nome di una passione generica, ma per il Fascismo, per il compimento di una Rivoluzione che è rimasta scolpita nella Storia, torna ancora ad emergere non deve assolutamente avvenire perché i vivi di oggi debbano morire nel loro cuore, struggendosi nella nostalgia del ricordo, ma deve invece impetuosamente emergere affinché i morti di ieri possano tornare a vivere tra di noi.  Quella marcia, iniziata il 28 Ottobre 1922, non è ancora terminata.  Non ci consta che esistessero specifiche istituzioni pubbliclie, ma in proposito possiamo ricordare numerosi provvedimenti e diverse associazioni private. Fra quelli, le leggi agrarie, le disposizioni a favore dei debitori, le distri­ buzioni semigratuite o gratuite dì grano, fatte dagli edili; i congiari imperiali (che erano copiose elargizioni di farina, olio e carne disposte dagli imperatori). Provvidenze che mi­ ravano tutte a combattere, direttamente e indirettamente, le cause dell’indigenza o almeno a paralizzarne gli effetti, ben­ ché nella loro essenza e origine avessero carattere politico, cioè fossero prese sopratutto per cattivarsi il favore e la simpatia della plebe o evitare tumulti e sommosse. Fra le associazioni, sopratutto bisogna ricordare quelle costituite a scopo mutualistico ; e tale è il carattere dei collegia fune- raticia, dei collegia termiorum, delle casse di soccorso isti­ tuite da Giulio Cesare fra i suoi legionari. Anche nel campo dell’istruzione si devono ricordare istituti privati i quali istruivano la classe dirigente romana. E’ invece nelle opere pubbliche ohe specialmente i romani ai distinsero legando ai posteri terme e acquedotti, palestre e strade, circhi e palazzi olle ancora oggi, in parte, almeno, durano e sono efficienti. L’ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO  SECONDO LA CONCEZIONE FASCISTA. LA TEORICA FASCISTA SULLA NATURA E SULLE   FUNZIONI DELLO STATO. LA FUNZIONE SOCIALE DELLO   STATO.  PRECEDENTI STORICI DELLA FUNZIONE SOCIALE  DELLO STATO NELLA POLITICA E NELLA LEGISLAZIONE SOCIALE. In Roma sino all’editto di Costantino.Durante il medioevo.Dopo la riforma protestante. Ordinamento sociale dello Stato fascista  In Italia . L’evoluzione e la trasformazione della legislazione sociale. La legislazione sulla beneficenza e sulla assistenza pubblica e privata. La legislazione sulla mutualità e sulla previdenza. La legislazione del lavoro. La legislazione sull’istruzione pubblica. La legislazione sull’igiene e sulla sanità pubblica. La legislazione sui servizi e sulle opere pubbliche. GLI ELEMENTI DELL’ORDINAMENTO SOCIALE DELLO   STATO FASCISTA. I soggetti . Gli obiettivi . Gli obiettivi relativi ai cittadini in genere. Gli obiettivi inerenti alle condizioni generali di vita . Gli obiettivi inerenti in particolare alla fase di forma¬   zione e di preparazione del cittadino, a quella di  produttività e a quella di riposo. Gli obiettivi relativi ai cittadini benemeriti . Gli obiettivi relativi ai cittadini non risanabili e non   rieducabili. Gli strumenti . Il criterio, profondamente corporativo, adottato dal legi¬  slatore fascista per la scelta degli strumenti attuanti la  politica sociale. La famiglia. L’associazione professionale . 42Le istituzioni promananti, singolarmente o pariteticamente, dalle associazioni professionali. Gli enti locali. Le opere nazionali parastatali. I limiti . LE ISTITUZIONI DEL NUOVO ORDINAMENTO  SOCIALE DELLO STATO FASCISTA  Di alcune considerazioni preliminari. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLE CONDIZIONI GENERALI DI VITA DEL CITTADINO . La- legislazione inerente alla sicurezza, all’igiene e   alla sanità pubblica . Per garantire la sicurezza. Per assicurare l’igiene e la sanità. La legislazione inerente alla previdenza . Per incrementare il risparmio . Per potenziare la mutualità. Per favorire la cooperazione. Per diffondere le assicurazioni Ubere.La legislazione inerente alla assistenza di soccorso. Per l soccorsi in natura e in contanti. Per i soccorsi medico-sanitario-ospitalieri. La legislazione inerente alla propaganda, all'inte¬  grazione culturale e al perfezionamento scientìfico . Per favorire il perfezionamento scientifico ....  Per la propaganda e l’integrazione culturale .... La legislazione inerente all’integrazione della forma¬  zione e dell’educazione fisica e sportiva . La legislazione inerente alla costituzione e all’in¬  cremento del nucleo familiare . Per favorire la costituzione della famiglia. Per facilitare l’esistenza e lo sviluppo delia famiglia . La legislazione inerente a particolari servizi pubblici.Per garantire il soddisfacimento di bisogni primari . . Per assicurare i rapporti e i contatti economico-sociali . Per valorizzare il patrimonio nazionale. Ordinamento sociale dello Stato fascista    La legislazione inerente al controlla, <UVadegua¬  mento e al collegamento ielle istituzioni dell’ordinamento  sociale e alla selezione dei suoi soggetti . Per assicurare il controllo e l’adeguamento delle istitu¬  zioni sociali . Per ottenere il collegamento nell'ambito dell’ordinamento sociale. Per assicurare la formazione della classe dirigente mediante la selezione totalitaria del cittadini .  IL PARTITO NAZIONALE FASCISTA E LE ORGANIZZAZIONI DIPENDENTI.Origine, natura e funzione sociale del P. N. F .  I Fasci di Combattimento ..I compiti .I soggetti .L’ordinamento. L’Associazione nazionale famiglie Caduti fascisti e Mutilati e Invalidi per la Causa Nazionale .I compiti . I soggetti. L’ordinamento. L’Unione nazionale ufficiali in congedo d’Italia ... I compiti  I soggetti . L’ordinamento. L’Unione nazionale fascista del Senato . I compiti . I soggetti . L’ordinamento. Gruppi Universitari Fascisti . I compiti . I soggetti .  L’ordinamento. I Fasci Giovanili di Combattimento . a- I compiti . I soggetti. L’ordinamento. I compiti . I soggetti .   L’ordinamento.  L’Opera Nazionale Dopolavoro .  I compiti .I soggetti .  L’ordmamento. Le Associazioni fasciste ..I compiti  I soggetti  L’ordinamento.  Il Comitato intersindacale .  I compiti. I soggetti. L'ordinamento. Gli Uffici di Collocamento  I compiti.  I soggetti.  L’ordinamento. L'Ente Opere Assistenziali  I compiti. I soggetti .  L’ordinamento.  L'Opera Universitaria .I compiti .   I soggetti. L’ordinamento. Il Comitato olimpionico nazionale italiano. I compiti.  I soggetti.   L’ordinamento. Di alcune considerazioni sul P. N. E. . La legislazione richiamata . DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLE CONDIZIONI GENERALI  DI VITA DEL CITTADINO. Ordinamento sodale dello Stato fascista. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FORMA¬  ZIONE FISICO-MILITARE E ALLA PREPARAZIONE  PROFESSONALE-NAZIONALE DEL CITTADINO . La legislazione inerente al nucleo familiare per la formazione fisico-militare del cittadino . S 1. Per sopperire alla insufficienza relativa dei mezzi economici della famìglia e sostituirla nella vacanza di alcune  sue funzioni. Per integrare l’inadeguatezza assoluta di alcuni mezzi   della famiglia.  L’OPERA NAZIONALE PER LA PROTEZIONE DELL’INFANZIA. L’origine, la natura e la funzione sociale deU’.O.N.M.I. I compiti . Per l’integrazione e il coordinamento dell’azione svolta   da altri enti o istituti o da privati. Per la vigilanza e il controllo delle singole istituzioni   di assistenza. Per la propaganda e la vigilanza suU’applieazione  delle leggi e dei regolamenti riguardanti l'assistenza  materna e infantile.  I soggetti . .L’ordinamento . Dì alcune considerazioni suli’O. N. M. 1 . La legislazione richiamata. La legislazione inerente all’istruzione e alla formazione professionale del cittadino. Per garantire l’istruzione professionale del cittadino sino   al 14° anno di età. Per favorire e incrementare l’istruzione professionale   La legislazione inerente all’educazione e alla formazione fisica, premilitare, morale e nazionale del cittadino.  L’OPERA NAZIONALE BALILLA PER L’ASSISTENZA E  L’EDUCAZIONE FISICA E MORALE DELLA GIOVENTÙ’ .L’origine, la natura e la funzione somale dell’.O.N.B. . . I compiti . I soggetti .. L’ordinamento . 161   Di alcune considerazioni sull’O.N.B. La legislazione richiamata. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FORMAZIONE FISICO-MILITARE E ALLA PREPARAZIONE PROFESSIONALE-  NAZIONALE DEL CITTADINO. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FASE DI   PRODUTTIVITÀ’ DEL CITTADINO.La- legislazione inerente all’azione sociale attuata   dalle associazioni professionali . Per garantire l’azione sociale da attuarsi direttamente   dai sindacati . Per assicurare l’azione sociale da attuarsi dai sindacati   a mezzo di speciali istituzioni.  IL PATRONATO NAZIONALE PER L’ASSISTENZA SOCIALE. L'origine, la natura e la funzione sociale del P.N.A.S. .I compiti . I soggetti . L’ordinamento . Di alcune considerazioni sul P.N.A.S. La legislazione richiamata. La legislazione inerente all’azione sociale attuata.   dalle corporazioni. Per garantire il produttore obiettivamente e subiettivamente di fronte alle condizioni del lavoro. Per tutelare i reciproci rapporti fra i produttori nella   loro dualità di datori di lavoro e di prestatori d’opera . Per favorire ii perfezionamento e l'elevazione professio¬  nale del produttore. Ordinamento sociale dello Stato fascista. La legislazione inerente alla conservazione dello  spirito nazionale e della preparazione fisico-militare del  produttore.  DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FASE DI PRODUTTIVITÀ DEL CITTADINO. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AL PERIODO DI  RIPOSO-VECCHIAIA DEL CITTADINO. La legislazione inerente all’obbligo delle garanzie previdenziali per la fase di riposo-vecchiaia. La legislazione inerente a speciali interventi statuali a favore del vecchio bisognoso. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI 'SOCIALI RELATIVE AL PERIODO DI RIPOSO-VECCHIAIA DEL CITTADINO. LE ISTITUZIONI RELATIVE AI CITTADINI CHE HANNO BENEMERITATO DALLO STATO . La legislazione inerente alle benemerenze collettive. La legislazione inerente alle benemerenze individuali. DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AI CITTADINI BENEMERITI. LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AI CITTADINI  MINORATI NON RISANABILI E NON RIEDUCABILI. La legislazione inerente ai minorati assolutamente   non produttori .La legislazione inerente ni minorati relativamente   non produttori . DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI RELATIVE AI CITTADINI MINORATI NON RISANABILI E NON INEDUCABILI.LA POSIZIONE E I RAPPORTI DI RELAZIONE DEL  CITTADINO NEL NUOVO ORDINAMENTO SOCIALE   Di alcune considerazioni preliminari . LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO DALLA NASCITA ALLA MAGGIORE ETÀ’. L’anione previdenziale e assistenziale dello Stato sino   al quinto anno . Per la costituzione della famiglia.Per la esistenza e l’incremento della famiglia . .Per li cittadino neonato . Per Viilegittimo e l’esposto. Per l’orfano. Per iì cittadino infante. Di alcune considerazioni sull’azione previdenziale e assisten¬  ziale dello Stato sino al quinto anno. L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato   dal sesto al quattordicesimo anno . Per la formazione e lo sviluppo fisico, militare, morale   e nazionale. Per la formazione intellettuale e professionale . Di alcune considerazioni sull’azione previdenziale e assistenziale dello Stato dal sesto al quattordicesimo anno . L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato  dal quindicesimo al ventunesimo anno .  Ordinamento sociale dello Stato fascista.  Per il cittadino che studia. Per il cittadino che lavora. Di alcune considera «ioni sull’azione previdenziale e assistenziale dello Stato dal quindicesimo al ventunesimo anno. DA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO PRODUTTORE . L’anione previdenziale e assistenziale dello Stato per   il cittadino ohe è produttore. L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato   per la famiglia e i suoi membri .  LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO A RIPOSO . LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO BENEMERITO. LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO MINORATO NON RISANABILE E NON RIEDUCABILE. LA POLITICA SOCIALE DELLO STATO FASCISTA. DELL’AZIONE SVOLTA DIRETTAMENTE DALLO STATO   ATTRAVERSO AI SUOI ORGANI. Per la riorganizzazione, il potenziamento e l’esten¬  sione della rete consolare . DELL’AZIONE SVOLTA MEDIANTE LA STIPULAZIONE  DI CONVENZIONI BILATERALI E PLURILATERALI  E MEDIANTE L'OPERA DELL’O.I.L. Le convenzioni bilaterali e plurilaterali ..Le convenzioni intemazionali, le raccomandazioni e   le risoluzioni dell'O.I.L . La legislazione richiamata. Appartene alla categoria dei mistici per i quali è bello vivere se la vita è nobilmente spesa ma è più bello morire se la vita è donata all'Idea. Arnaldo Mussolini fu il suo Maestro: da Arnaldo im­ parò che prima di agire e costruire è necessario ele­ varsi, purificare il proprio spirito, temprare il proprio carattere; allora soltanto si potrà essere certi che l'azione sarà feconda e l'edificio sicuro. Da Arnaldo imparò che per conoscere, giudicare e guidare gli al­ tri è prima indispensabile conoscere bene se stessi, punire inesorabilmente i propri difetti, affinare inces­ santemente le proprie virtù: allora soltanto si potrà aspirare all'onore del comando. Da Arnaldo imparò che solo il sacrificio può suscitare le opere grandi e buone e distruggere le cose piccole e vili. Ciò che non costa non vale; ciò che non procura fatica e sof­ ferenza non dura; quanto è al di fuori di noi non conta; gli onori, le cariche, le ricchezze sono effimere e ca­ duche cose. Quello che importa è quanto è dentro di noi, perchè è nostro e nessuno potrà mai portarcelo via, neanche a strapparci la carne viva di dosso. Es­ sere se stessi in ogni momento, rimanere se stessi sempre: ecco la più grande conquista degli uomini. Uomo di fede Un uomo di fede fu Niccolò Giani. E la sua fede era di quelle che non vacillano mai, di quelle che restano intatte nella buona e nella cattiva sorte e che traggono anzi dalle difficoltà e dalle sfortune un più profondo contenuto e sempre nuovi motivi. La sua fede era di quelle alte cui fonti cristalline attingono le intelligenze chiare e gli animi trasparenti degli uomini puri i quali sanno che se si vuole raggiungere l'ultima cima, mol­ te vette bisogna scalare e talvolta anche scendere da alcune per risalire su aifre vette più alte ancora. In 8 i   Giani la fede nasceva da un inesausto tormento spi­ rituale, da un'ansia incontenibile di elevazione e di conquista per divenire, come dice il Poeta, «cara gioia sopra ia quale ogni virtù sì fonda ». Egli credeva in Dio, nel Dio di noi Italiani fascisti e cattoiici a cui dobbiamo non soltanto il dono misterioso della vita ma anche il privilegio di averci chiamati a continuare la missione di civiltà e di giustizia che la gente nostra svolge nel mondo da più di due millenni. Egli credeva nella dottrina politica enunciata da Mussolini, scaturita dall'azione, alimentata dalla fede, consacrata dal sa­ crificio e nella sua possibilità di instaurare un nuovo sistema di vita, di educare gli uomini a una visione vasta ed umana delle cose, di creare un nuovo tipo di civiltà italiana, ed europea. Credeva in Mussolini perchè lo considerava l'uomo della Provvidenza, l'e­ sponente di una razza eletta, il fondatore di una ci­ viltà universale, il protagonista e l'artefice di una nuòva storia, il condottiero di giovani generazioni, il DUCE, a cui non occorre chiedere prima di iniziare la marcia dove ci porta e quando si arriverà perchè dal giorno in cui un destino fortunato (o pose alla testa —9 ‘1   del suo popolo, la meta era già nei suoi occhi e la vittoria nel suo pugno. Credeva nei giovani nati e cresciuti col sorgere del Fascismo, educati alla severa scuola del Partito e li voleva rivoluzionari nello spirito e nel sangue, gene­ rosi ed audaci, pronti alla lotta e alla rinunzia. Sogna­ va una classe dirigente che sapesse dimostrare con l'esempio, nelle opere e nel sacrificio, di essere de­ gna del nostro grande popolo e del nostro grande Capo; una classe dirigente fatta di uomini integrali, forti della loro indipendenza morale — la sola ric­ chezza umana che non abbia un valore misurabile in denaro — e dotati di tutte le virtù spirituali, intellet­ tuali e fisiche che sono indispensabili per poter eser­ citare con dignità e con efficacia la missione dei co­ mando. Concepiva la famiglia nel senso più tradizio­ nalmente nostro; amava cioè la sana numerosa fami­ glia italiana, ricca di onestà e prodiga di figli, sboc­ ciata dall'amore tra l'uomo che vive lavorando o com­ battendo-per la Patria e la donna che nel piccolo gran­ de regno della casa vive nella serena ed operosa attesa del ritorno di lui; e se l'uomo non tornerà la 10 —   donna lo piangerà senza lacrime perchè egli sopravvi­ va nella fierezza dei figli, I quali continueranno, nella luce del suo esempio, l'opera sua. Credeva nella Patria come ne « la più pura, la più grande, la più umana delle realtà », amava la Patria « più della propria anima ». Tutto per la Patria: fu la sua consegna. Niente per lui valeva qualche cosa se non serviva alla Patria. Perchè la Patria è tutto e tutti; sè e gli altri; le generazioni che furono, che sono e saran­ no; la storia di ieri, di oggi e di domani. La Patria è la sintesi di tutte le più nobili aspirazioni. Essa è fatta di uomini da rendere sempre più degni e di territori da fare sempre più vasti. Per essa si lavora, si soffre, si spera; per essa si combatte, si vince o si muore. Giornalista della Rivoluzione e Maestro dei giovani Niccolò Giani fu un giornalista della Rivoluzione. Egli intendeva il giornalismo come una scuola di vita, come uno strumento di educazione e di formazione. Dalle agili colonne del suo giornale, la «Cronaca Preal- " T T r pina », e da quelle della sua rivista « Dottrina Fasci­ sta » si battè accanitamente per la creazione di un giornalismo rivoluzionario, dinamico, coraggioso, un giornalismo che fosse in grado di svolgere una fun­ zione costruttiva di divulgazione, di propulsione e di controllo, un giornalismo che fosse degno di essere considerato un'arma affilata della Rivoluzione. Ma soprattutto maestro dei giovani egli fu. All'Inse­ gnamento si era consacrato con il religioso fervore con il quale soleva dedicarsi a tutte le attività rivolte ai giovani. All'Ateneo di Pavia, al Centro di prepara­ zione politica, alla Scuola di Mistica Fascista egli portò il contributo della sua beila cultura fatta di conoscen­ za e di azione, illuminata dalla fede, riscaldata dal sentimento, Alla Scuola di Mistica diede la parte mi­ gliore di se stesso. «Tutto quello che di buono e di meritevole è stato fatto dalla Scuola — ha detto Vito Mussolini, nostro Presidente — proviene unicamente da lui. Bisognerà ricordarlo sempre e presentarlo co­ me un mirabile esempio ai giovani che in lui potranno vedere l'espressione più sublime di obbedienza ai comandamenti del Duce ».   Era il migliore tra noi: il più limpido, ii più generoso, ii più puro. Delia nostra mistica fede fu l'aifiere più ardilo e i'apostolo più acceso. Egli voieva che dalia nostra Scuoia uscissero ì missionari, i portatori del no­ stro credo politico e fu egli stesso il più tenace e il più convinto assertore dei principi che sono a fonda­ mento deiia nostra dottrina. La Scuola sorse con lui per la volontà di un mani- poio di credenti che egli chiamava i «disperati del Fascismo », così come gli squadristi un tempo amava­ no chiamarsi « fascisti arrabbiati ». Aii'inizio la Scuola fu un'attività de! Guf milanese; divenne quindi un'attività di tutti i Gruppi Fascisti Uni­ versitari: oggi si è imposta al rispetto e ail'atten- zione di tutti i fascisti. La sua opera è rivolta ai gio­ vani, ma la sua azione è seguita ed amata anche dai camerati della vecchia guardia che vedono con in­ tima gioia esaltate e rinnovate ogni giorno, dagli al­ lievi della Scuola, le due più preziose virtù dello squa­ drismo: la fedeltà e la intransigenza. I camerati della vecchia guardia milanese sanno che il, nome di Niccolò Giani è legato alla riapertura del Covo di Via Paolo da Cannobio, prima sede del « Popolo d'Italia », prima trincea del Fascismo, che il Duce ha voluto affidare in gelosa custodia ai giovani della Scuola di Mistica perchè le giovani generazioni, accostandosi alle sorgenti genuine delia nostra Ri­ voluzione, cogliessero, dall'umile grandezza delle ori­ gini, la poesia e il fermento delia vigilia. Niccolò Giani fu soprattutto un fedele ed un in­ transigente. Taluni potrebbero chiamarlo un fanatico, ma solo I fanatici sanno dare movimento col sangue «alla ruota sonante della storia». Il suo spirito si ribellava a qualunque forma di com­ promesso; sul terreno della fede non ammetteva pat­ teggiamenti; il bello, il buono, il vero sono da un lato della barricata; dall'altra parte c'è il brutto, il male, la meschinità. Mi piace di ricordarlo ai Convegno di Mistica del febbraio 1940: eravamo alla vigilia delia nostra guer­ ra di liberazione e c'era in tutti noi una febbrile im­ pazienza di decisione. Il tema del Convegno era bru­ ciante: «Perchè siamo dei mistici?». I problemi dell'inteiligenza e deila cultura furono esaminati al lume della fede; i poveri dì fede furono sbaragliati e Giani dichiarò guerra a viso aperto a tutti gli spiriti troppo raziocinanti, agli innamorati della ricerca fredda e del ragionamento calcolatore. La dottrina che conquista è quella che sorge dalla fede e non quella che discende dalla indagine arida ed oziosa; la cultura che costruisce è quella che pene­ tra e trasforma e non quella che resta gelida ed inerte. li Convegno si svolse in un'atmosfera di fuoco e la risposta al tema che fu oggetto dei nostri appassionati dibattiti fu data dallo stesso Giani: « Fascismo uguale a spirito, uguale a mistica, uguale a combattimento, uguale a vittoria. Perchè credere non si può se non si è mistici, combattere non si può se non si crede, e vincere non si può se non si combatte ». Fu in quel Convegno, ò giovani camerati della Scuola di Mistica, che i giovani della generazione del Litto­ rio affermarono solennemente il loro diritto al combat­ timento, Soldato dì Mussolini Niccolò Giani fu tra i primi a partire. C'era in lui la preoccupazione morbosa di stabilire coi fatti una coe­ renza perfetta tra il pensiero e l'azione. Aveva già partecipalo come volontario alla guerra per la con­ quista dell'Impero, aveva chiesto ripetutamente di partire per la Spagna e non gli era stato concesso; finalmente sopraggiungeva la nuova prova lungamente attesa. Chi lo vide tenente degli alpini al Fronte Occidentale lo ricorda come un esempio di disciplina e di ardi­ mento. Ma la parentesi fu troppo breve: tornò insod­ disfatto, Andò in Africa settentrionale come corrispon­ dente di guerra del «Popolo d'Italia»; ma quando seppe che il suo reggimento era già sul fronte greco chiese di raggiungerlo. Non poteva vivere lontano dai suoi alpini, gli sembrava un tradimento. Partì per non tornare. Tre volte si offrì per azioni rischiose, tre volte fu appagato, la terza volta fu l'ultima. I suoi uomini lo adoravano; con lui sarebbero andati dovunque: potenza insuperabile dell'esempio! Andò con un manipolo di 25 alpini a raggiungere una vetta lontana per compiere una ricognizione sulle po­ sizioni del nemico; assolse il suo compito felicemente e rapidamente, ma proseguì oltre: il suo programma era un altro. Aveva incontrato poco prima, lungo il cammino, un camerata di Milano e gli aveva affidato l'incarico di salutare per lui tutti gli amici di Mistica e di comunicare loro che egli era partito per un'impresa della quale si sarebbe dovuto' parlare. Mantenne la promessa. Alla testa dei suoi alpini raggiunse un'altra vetta, sulla quale alta sfolgorava la luce della gloria, e a bombe a mano assalì un presidio greco. Circon­ dato, lottò eroicamente, fino a quando una pallottola ' gli recise la gola, gli spezzò la vita, soffocò il canto della sua giovinezza. Così cadde Niccolò Giani. Egli è morto come era vissuto, non per sè ma per gli altri, Ètriste non potergli più vivere accanto, non poter più rinfrescare il nostro spirito alia polla purissima della sua fede; ma egli ha chiuso la sua vita terrena in modo degno di luì, Arnaldo gli aveva insegnato che i! segreto della vita è tutto qui; saper vivere, saper morire, nel modo più degno. Niccolò Giani ha voluto insegnare ai giovani della sua generazione come deve vìvere e come sa morire un italiano di Mussolini. La nostra Scuola, o camerati di Mistica, non lo onora col pianto che egli non approverebbe. Il nostro ciglio è asciutto anche se il cuore in questo momento acce­ lera il ritmo dei suoi palpiti. Ma noi sentiamo che non un vuoto egli ha lasciato nelle nostre file, li suo spirito inquieto è con noi, dinanzi a noi, oggi come non mai, ad additarci la strada che conduce alla vittoria, ad ammonirci che il suo tormento deve essere anche il nostro tormento, la sua ansia anche la nostra ansia, il suo amore anche il nostro amore, oggi, domani, sempre. E noi sentiamo che Arnaldo, il suo ed il nostro Mae­ stro, lo ha accolto nell'altra esistenza, accanto al suo figlio prediletto e agli altri Martiri delia nostra Scuola, come il migliore dei suoi discepoli. Il mito di Roma contro Si guardi Ro- il mito di Jehova in ma repubblicana. Catone, Cicerone, Quale è il suo Tacito, Giovenale ideale? Ce lo di- e negli Imperatori ce Marco Porcio Catorie nel suo libro « De Agri cultura » laddove scrive che i romani « quando lodavano un uomo dabbene, 15   lo chiamavano buon agricoltore, buon colono. E con ciò si riteneva di dare la maggiore lode a colui che così veniva chiamato ». E ciò per­ chè « dalla classe degli agricoltori nascono gli uo­ mini più forti e i soldati più valorosi... e coloro che si dedicano a tale occupazione non concepi­ scono cattivi propositi ». Queste parole, questo saggio romano le scrive­ va più di 150 anni avanti Cristo, cioè, esattamen­ te, nello stesso periodo in cui Roma combatteva l’ultima e definitiva partita con la semita Carta­ gine. Ma, a questo proposito, ci si è mai chiesto perchè poi Cartagine era delendam, perchè Ro­ ma s’era fissata ili questo mito della distruzione totale della città di Annibaie? La risposta è una sola : la lotta tra le due rivali infatti non era solo politica ed economica : era ben di più : era lotta di civiltà, di sistema di vita. Roma rurale, Ro­ ma gerarchica, Roma guerriera ed eroica com­ batteva anche la Cartagine dei mercanti e della demagogia. Ecco perchè non è strano, ma, anzi, logico, necessario addirittura, che l’uomo che in Senato terminava i suoi discorsi col noto « cete- rum censeo Carthaginem delendam esse » fosse lo stesso che nel suo libro poneva l’ideale ro­ mano nella gente nata dai campi, cresciuta in mezzo alle bellezze e alle forze della terra, tem­ prata nelle lotte aperte e solari della natura. Più di un secolo dopo, un altro grande roma­ no, che gli ebrei aveva conosciuto perchè uno di 16   essi, Apollonio Molone, come ci dice il giudeo Lazare, aveva avuto per maestro : Cicerone, tuo­ nerà anche lui contro la loro mentalità. « Il tenere testa alla turba giudaica che spesso schiamazza nelle riunioni popolari e farlo nel­ l’interesse della Repubblica è prova di saldi prin­ cipi », diceva infatti Cicerone rivolto a Lelio, cinquanta anni prima di Cristo, nella sua orazio­ ne « Pro Fiacco ». E nel suo « De Officiis » (II, 89) si legge questo aneddoto che dice anche ai sordi in quale dispregio avessero i romani i traf­ ficanti di denaro. Ecco infatti come Cicerone rac­ conta che Catone rispondesse a chi lo interroga­ va sul miglior modo di amministrare i propri beni : « Bene pascere ». E in quale altro modo? fu richiesto a Catone. « Salis bene pascere » fu la risposta. E poi? « Arare » egli disse ancora. «£ che ne pensi del prestare ad usura?» cioè del prestare denaro a interesse. Rispose Catone : « E tu che ne pensi dell’uccidere un uomo? ». Come, quindi, i romani, con mentalità siffat­ ta, avrebbero potuto, non dico apprezzare, ma solo riconoscere la mentalità ebraica? E se è vero che nel 160 avanti Cristo con l’Ambasciata di Giuda Maccabeo si iniziano i primi rapporti di­ plomatici tra Roma e Gerusalemme, se è vero che nel 143 e nel 139 seguono altre ambasciate, se è vero che Giulio Cesare e Ottaviano li tolle­ rano, è altrettanto vero che gli ebrei anziché essere grati e devoti allo stato romano ricambia- 17 2   rio con disordini e con tradimenti la generosità dei Cesari, al punto che Claudio, da un decreto di tolleranza passa alla loro espulsione e ciò per­ chè, come testimoniano numerosi scrittori lati­ ni — da Persio a Ovidio, da Svetonio a Plinio, da Tacito a Giovenale — « gli Ebrei conside­ rano come profano tutto ciò che da noi è consi­ derato sacro » (cfr. Tacito, Hist.; V, 4, 5); per­ chè « essi hanno un culto particolare, leggi par­ ticolari, disprezzano le leggi romane » (cfr. Gio­ venale, Im. Lat.; XIV, 96, 104). Colle generazioni questo contrasto di civiltà e questa antitesi di istituzioni si acuiscono. È così che si arriva alla spedizione di Tito : all’assedio e alla distruzione di Gerusalemme. E in tal mo­ do, due secoli dopo Cartagine, anche sull’or­ goglioso regno di Giudea passa l’aratro romano e viene cosparso il sale. Così quei giudei che pretendevano di essere il popolo eletto e che per invidia di capi e per in­ comprensione ingenerosa di popolo avevano tra­ dito e condannato nostro Signore Gesù Cristo; quegli eredi del Profeta che smentirono la profe­ zia compiuta, furono dispersi per il mondo. La profezia del Golgota ebbe in tal modo realizza­ zione per mano di Tito, di quel Tito, il cui arco, forse per imperscrutabile volontà di quel Dio che egli inconsciamente servì, s’aderge ancora intatto contro il cielo eterno di Roma, quasi a testimonia­ re e ammonire le genti e il mondo intero della giu- 18   stizia e della verità che promanano dai sette colli sacrati all’Impero del Littorio e alla Chiesa di Cristo.Niccolò Giani. Giani. Keywords: implicature mistica, mistico, il mistico – la mistica del liberalismo – la mistica del comunismo – la mistica della democrazia – la mistica del socialismo – filosofia politica – dottrina liberale – dottrina comunista – dottrina democratica – dottrina socialista --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giani” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giani – la radice italica del melodramma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I love Giani; for one, he was less fanatic than Nietzsche, even if it is Nietzsche’s fanaticism that attracts Strawson! For one Giani is more careful: if ‘music’ comes from the muses, which are Apollonian, why has Nietzsche to emphasise in a piece of bad rhetoric, that tragedy has its birth in the ‘spirit’ of “music” – surely Nietzsche means ‘Dionysian,’ but there’s no ‘music’ in Dionysus, only noise! Trust an Italian to correct Nietzsche on that point!” --   Appartene ad una famiglia dell'alta borghesia torinese con spiccate inclinazioni per la musica e per l'arte: lo zio  Giuseppe (Cerano d'Intelvi) fu pittore piuttosto noto, docente all'Accademia Albertina, così come il figlio di lui Giovanni (Torino). Si dedica al violino e condusse contemporaneamente gli studi  fino alla laurea. Si interessa inoltre al fermento filosofico di fine Ottocento, a Spencer, ma soprattutto Nietzsche: di Così parlò Zarathustra eavrebbe in seguito dato una traduzione, a partire dalla seconda edizione italiana (Torino, Bocca). Si appassiona, inoltre, al teatro musicale di Wagner, così come altri intellettuali torinesi, e lo difende. Risale la fondazione, per opera sua e dell'amico editore Bocca, della Rivista musicale italiana, in cui inizialmente hanno parte preponderante gli scritti di Giani, soprattutto recensioni sul teatro musicale contemporaneo e note sui testi poetici da musicare, anche se va probabilmente ascritto a Giani anche l'editoriale programmatico del primo numero, all'interno di una rivista che si propone di ospitare scritti musicologici ispirati al metodo positivistico diffuso tra i due secoli, pur restando aperta all'apporto di altre correnti filosofiche quali quelle dell'idealismo. In “Per l'arte aristocratica”, dimostra le doti di polemista che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita: in esso si confuta un giudizio di Torchi e si afferma che la cosiddetta "arte per l'arte" non solo non è immorale, ma è anzi la naturale evoluzione e conclusione dello sviluppo storico di questa manifestazione dello spirito umano. Dedica un saggio al “Nerone” di Boito, che egli da allora considerò incondizionatamente un maestro: al tempo Boito aveva reso pubblico il solo testo del Nerone, che venne accolto molto vivacemente e con alterna fortuna dall'ambiente letterario italiano. La posizione intorno al Nerone è singolare e indicativa di quali fossero i requisiti che la cerchia di Giani e Bocca ricercava nell'opera musicale. Questa tragedia farebbe parte del novero delle tragedie vere, quelle in cui ritmo, suono della parola, gesto, musica concorrono alla creazione di un che di superiore. Tuttavia, quando la musica del Nerone fu resa nota postuma, dichiara una certa delusione. Uomo dalla cultura enciclopedica, versato con competenza anche negli studi di letteratura, Giani cura L'estetica di Leopardi. Vede inLeopardi il luogo in cui le immagini della sua poesia si comporrebbero in un universo etico ed estetico coerente. All'interno della storia della critica leopardiana, pare avvicinabile ora alla posizione di Croce, di distinzione tra il momento della poesia e il momento della riflessione, ora a quelle positivistiche. Singolarmente,parla di musica e dell'analogia tra il ruolo del coro greco e il ruolo del coro nelle Operette morali solo nella conclusione, benché in termini acuti. Avrebbe contribuito ad un ulteriore campo degli studi letterari, quello della musica nel mondo antico. Apparve “Gli spiriti della musica nella tragedia” -- Fin dal saggio, si richiama alla nota opera di Nietzsche, “La nascita della tragedia dallo spirito della musica”. Giani non condivide l'opinione di Nietzsche secondo cui il razionalismo del teatro di Euripide avrebbe spento la portata dionisiaca della tragedia. La tragedia di Euripide permane ad un livello musicale altissimo. Per affermare questo ricostruisce il ruolo della musica nei testi tragici sulla base delle fonti antiche, dedicandosi alle singole parti e forme musicali dei drammi, sempre attento a sottolineare la valenza estetica complessiva della tragedia o melodramma, ma nel contempo senza trascurare le posizioni metodologiche della scuola filologica. Fino ad allora non aveva stretto profondi legami con i musicisti coevi (eccettuato Boito), si avvicina sempre più alle compositori. Saluta con favore Bastianelli e Pizzetti, approvandone principalmente le posizioni estetiche e la ricerca di una certa spiritualità nella music, tipica dei due esponenti del circolo fiorentino della Voce, ma prese le distanze ben presto dalle loro prove compositive, in particolare dai drammi musicali di Pizzetti, che non parvero a opere d'arte totalmente compiute.  Un legame creativo e biografico molto più stretto strinse con Ghedini, anche per via delle comuni frequentazioni torinesi: per Ghedini, che sta ancora cercando una personale posizione estetica e anda raggiungendo progressivamente le conquiste di stile e di linguaggio che lo avrebbero reso famoso, Giani valse come una sorta di pigmalione, suggerendo testi da musicare per le liriche e esaminando con occhio critico le composizioni di Ghedini.  Giani stesso fu librettista. Ridusse L'Intrusa di Maeterlinck, musicata da Ghedini ma mai rappresentata, e scrisse Esther per Pannain.Verso il termine della sua vita, divenne molto noto in tutta Italia per i suoi scritti di radicale confutazione di Croce. Non era particolarmente ostile all'idealismo di Croce, anzi considerava la teoria dell'arte come intuizione una delle chiavi per la valutazione della creatività anche musicale e teatrale. Tuttavia, a mano a mano che l'estetica di Croce veniva sistematizzata dal suo stesso autore, ma soprattutto da alcuni suoi pedestri seguaci mal tollerati dal nostro, attaccò tale concezione con il bellicoso pseudonimo di Luigi Pagano in La fionda di Davide, criticando che in essa non vi fosse posto per il lato tecnico e materiale della creazione e che addirittura la stessa musica non fosse stata debitamente considerata da Croce al medesimo livello delle altre arti che diedero lustro al passato italiano. Il posto di Giani nella storia della musicografia è tutto particolare.Pestalozza vi ha addirittura visto un predecessore della “fenomenologia musicale.”In realtà, ad un attento esame quantitativo dei suoi scritti, pare essersi dedicato assai poco a questa o quella musica in particolare, mentre il suo contributo fu assolutamente preponderante nei temi di estetica musicale.Fu una voce originale, fuori dal coro, che inizialmente difese il dramma di Wagner, quindi auspice fermamente all'interno dei testi musicati dai compositori qualità come la purezza e la letterarietà, infine spronò, pur da lontano, i compositori ad una libertà adogmatica e ad una ricerca continua di stile e di linguaggio, rendendoli attenti alla peculiarità della musica, che doveva essere cosa che egli ripete spessissimo nei suoi scrittila "figuratrice dell'invisibile", cioè l'elemento che dà corpo alle sensazioni, alle suggestioni, alle fantasie suscitate dai testi musicati e non immediatamente in essi esplicate. Una posizione la sua che può essere paragonata a quella del "critico-artista" teorizzata da Wilde, che Giani ben conosceva: un "critico-artista" nel senso di ri-creatore dei percorsi attraverso cui la composizione è venuta alla luce, e ignoti al compositore stesso, ma nei quali quest'ultimo riesce a identificarsi una volta che il critico li rivela a lui e al mondo. Dispose per testamento che i suoi libri venissero donati "ad una biblioteca di piccola Città preferibilmente Pinerolo" e proprio presso la Biblioteca Civica "Camillo Alliaudi" di Pinerolo ora si trovano, presso il Fondo che prese il suo nome.  Altre saggi: “Per l'arte aristocratica (in proposito di uno studio di Luigi Torchi), in “Rivista Musicale Italiana”, -- aristocrazia, democrazia, crazia – kratos – il concetto di potere --  Il “Nerone” di Arrigo Boito, in “Rivista Musicale Italiana”, L'estetica di Leopardi, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di Anticlo:  Gli spiriti della musica nella tragedia greca, in “Rivista Musicale Italiana”, Milano, Bottega di Poesia, L'amore nel Canzoniere di Francesco Petrarca, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di Luigi Pagano:  La fionda di Davide. Saggi critici (Boito, Pizzetti, Croce), Torino, Bocca. Dizionario Biografico degli Italiani Cesare Botto Micca, in morte di Romualdo Giani, in “Rivista Musicale Italiana”, Annibale Pastore, In memoria,, in “Rivista Musicale Italiana”, Massimiliano Vajro, “Rivista Musicale Italiana”, Luigi Pestalozza, Introduzione a «La Rassegna Musicale». Antologia, Luigi Pestalozza, Milano, Feltrinelli, Guido M. Gatti, Torino musicale del passato, in «Nuova Rivista Musicale Italiana». Guglielmo Berutto, Il Piemonte e la musica, Torino, in proprio, ad vocem. Stefano Baldi, “Fotografare l'anima” -- Romualdo Giani e Giorgio Federico Ghedini, in “Bollettino della Società Storica Pinerolese”, Paolo Cavallo,La vita, il fondo musicale, le collaborazioni musicologiche e gli interessi letterari, Pinerolo, Società Storica Pinerolese,. Con contributi di Casagrande, Baldi,  Betta, Cavallo, Balbo, Fenoglio.  GIANI, Romualdo. - Nacque a Torino il 28 febbr. 1868 da Francesco e da Clementina Guidoni, originari della Valle d'Intelvi.  Laureatosi in giurisprudenza non ancora ventenne, esercitò l'avvocatura patrocinando esclusivamente cause civili nel settore commerciale; allo stesso tempo si occupò con continuità di arte e letteratura. Creativo e versatile, ebbe profonde conoscenze della storia e della tecnica delle diverse arti, ampliate dai numerosi viaggi effettuati nelle principali città d'arte europee.  Nel 1894 fu tra i fondatori, con l'amico editore G. Bocca, della Rivista musicale italiana, alla quale collaborò ininterrottamente per trentasette anni, spesso valendosi di pseudonimi.  Esordì sul primo numero della rivista con la critica "I Medici". Parole e musica di R. Leoncavallo. Il dramma (Riv. mus. italiana, I [1894], pp. 86-95); sullo stesso numero diede il via alla rubrica Note sulla poesia per musica(ibid.), ove poneva in luce difetti e pregi dei testi inviati da autori sconosciuti per dimostrare che la poesia del melodramma era forma d'arte.  Nel 1896, in Per l'arte aristocratica (ibid., III, pp. 92-127), sostenne una vivace polemica con L. Torchi sull'autonomia dell'arte, alla quale parteciparono M. Pilo, D. Garoglio, A. Foulliée e altri; il G. volle dimostrare che la formula "l'arte per l'arte" o "l'arte aristocratica" non era cosa assurda e immorale, come sostenuto dal Torchi, ma l'ultimo effetto di un'evoluzione.   Nel 1901 pubblicò il saggio critico Il"Nerone"di A. Boito (Torino 1901; 2a ed. ampliata ibid. 1924; cfr. Riv. mus. ital.), che gli procurò l'amicizia dell'autore, il quale gli inviò numerose lettere in cui si dichiarava suo grande ammiratore. Nel volume L'estetica nei "Pensieri" di G. Leopardi (Torino 1904; 2a ed. ibid. 1928; cfr. Riv. musicale italiana) il G. oltre a ricostruire il pensiero estetico del poeta di Recanati, ne esaminò anche le teorie sull'arte musicale.  Nel 1899, per la "Biblioteca di scienze moderne" del Bocca, era stato pubblicato Così parlò Zaratustra di F. Nietzsche, tradotto da E. Weisel; il G., ritenendo la traduzione non fedele all'originale, ne approntò una nuova versione d'accordo con il Weisel, pubblicata, sempre dal Bocca, nel 1906. Nel 1913, con lo pseudonimo di Anticlo, diede alle stampe lo studio Gli spiriti della musica nella tragedia greca (Milano 1924; Riv. musicale italiana, XX, pp. 821-887). Nel 1917, durante il primo conflitto mondiale uscì L'amore nel Canzoniere di F. Petrarca (Torino 1917; in appendice Nota sul suono e sul ritmo), considerata dalla critica, forse, la sua opera più riuscita.  Il G. inoltre traduceva per diletto dal latino, soprattutto Tibullo e Orazio, e dal francese; come poeta pubblicò nel 1920 soltanto due libretti d'opera: Esther (Riv. musicale italiana, XXVII, pp. 611-648), tragedia lirica in tre atti ispirata dal testo biblico, mai musicata, sebbene offerta dal G. a I. Pizzetti, e L'Intrusa (ibid., pp. 340-358), un atto per musica, tratto dal dramma in prosa di M. Maeterlinck, musicato dapprima da G.F. Ghedini (1921; non rappresentato), e poi da G. Pannain (1926), che la rappresentò a Genova nel 1940.  La pubblicazione dell'articolo Il Vangelo e il Breviario,celebrazione dell'estetica crociana (in Riv. musicale italiana), apparso sotto lo pseudonimo di Luigi Pagano, rappresentò un attacco all'estetica crociana che diede origine a una polemica col Croce stesso. Il G., con logica inflessibile, dimostrò infondati alcuni concetti del filosofo, come l'eccessivo idealismo che considerava la musica estranea ai fenomeni fisici che la originano e alla tecnica, espressi in Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1902) e nel Breviario di estetica, opere che il G. ironicamente chiama Vangelo e Breviario. Con Socrate e la pulce (ibid.) rispondeva allo scritto La musica e l'estetica dell'idealismo (ibid., pp. 61-76), in cui il Pannain assumeva la difesa delle tesi crociane. Questi saggi, compreso quello del Pannain, furono raccolti in seguito nel volume La fionda di Davide (Torino 1928) insieme con uno studio sul Boito, e la critica a Debora e Jaele di Pizzetti, giudicata un'opera mancata. Contemporaneamente il G. pubblicava il Sillabario di estetica (in Riv. musicale italiana, XXXV [1928], pp. 442-453), e a conclusione della polemica aggiungeva una Nota crociana, nel capitolo terzo de La fionda di Davide, in cui evidenziava ancora altre contraddizioni nella teoria del Croce. La polemica si riaprì nel 1929 con lo scritto La favola dell'aridità(ibid., XXXVI, pp. 311 s.) con il quale il G. insorgeva, in difesa del Seicento musicale italiano, contro un'affermazione del Croce che definiva "età di aridità creativa" il secolo compreso tra il 1550 e il 1650; la rettifica crociana Obiettanti e seccatori non soddisfece il G., che replicò con Il parto settimello (ibid., XXXVII [1930], pp. 249-254).  Il G. scrisse inoltre numerose recensioni e articoli sulla Rivista musicale italiana e sulla Rassegna musicale, a cui collaborò dal 1928, spesso sotto gli altri pseudonimi di H. Giraud e A. Cannella.  Il G. morì a Torino il 16 genn. 1931.  Oltre agli scritti citati si ricordano: "Savitri"Idillio drammatico indiano in tre atti di L.A. Villanis. Musica di N. Canti. La poesia, in Rivista musicale italiana, II (1895), pp. 95-112; Note marginali agli "Intermezzi critici" di I. Pizzetti, ibid., XXVIII (1921), pp. 677-690;Note Leopardiane, in Campo (Torino), n. 5, 18 dic. 1904; Estetica nuova, ibid., n. 9, 15 genn. 1905; Per una biografia di Berlioz, ibid., n. 26, 14 maggio 1905; Melodramma e dramma musicale, ibid., n. 37, 30 luglio 1905.  Fonti e Bibl.: G. Adler, R. G., Gli spiriti della musica nella tragedia greca, in Riv. mus. ital., L. Ronga, In morte di R. G., ibid.,Botto Micca, R. G. (Lo scrittore e il critico), in Il pensiero di Bergamo, Pastore, In memoria di R. G., in Riv. musicale italiana, Vajro, R. G., ibid., LIII (1951), pp. 337-368; A. De Angelis, Diz. dei musicisti, Roma 1928, pp. 244 s.; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, III, p. 189.Romualdo Giani. Giani. Keywords: implicatura.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giani” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giannantoni – la dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I love Giannantoni; for one, he believes, with me, that there is Athenian dialectic, Roman dialectic, Florentine dialectic and Oxonian dialectic; like me, he has explored mostly ‘Athenian dialectic,’ and he has noted that its birth (‘nascita’) is in the ‘dialogo socratico,’ so it should surprise nobody that I have based my philosophy on the facts of conversation!” Si laurea a Roma sotto Calogero. In “Il dialogo di Socrate e la dialettica di Platone” attribuisce a Socrate una concezione molto laica della divinità e della religiosità («Religiosità, che Socrate, il quale era certamente una personalità religiosa, intendeva in modo del tutto diverso da come comunemente era sentita a quell'epoca»). La sua dottrina storico-filosofica si fonda sul principio che ogni seria riflessione filosofica si debba basare su un'accurata e rigorosa ricerca filologica delle fonti.  Questo spiega l'enorme dispiego di tempo dedicato all'elaborare la sua opera monumentale, “Reliche di Socrate” (“Socratis et Socraticorum reliquiae”). Giannantoni ha sempre seguito il criterio di Croce e Gramsci, secondo cui l'esposizione di un filosofo debba avvenire tramite l'esame storico cronologico (unita longitudinale) delle sue opere, allo scopo di prendere consapevolezza dell'evoluzione della dottrina e di separare da questa ogni sovrapposizione interpretativa personale non adeguatamente basata sulle fonti.  Convinto dell'onestà intellettuale come valore fondamentale cui deve rifarsi ogni interprete della storia della filosofia, capace perciò di rinunciare di fronte alla ricostruzione filologica dei testi anche alle proprie più profonde convinzioni personali. Traccia un profilo “ideale” dello «storico autentico» della filosofia, che ha il «dovere di farsi filologo rigoroso per avvicinarsi il più possibile al mondo del filosofo da lui studiato», ben sapendo che ciò «non basta ancora se non è accompagnato da una sensibilità filosofica e da una consapevolezza teoretica e storica insieme. Di qui conclude il fascino di una ricerca che, rendendoci consapevoli di una grande quantità di problemi altrimenti inavvertiti, termina in un autentico arricchimento spirituale. Il suo insegnamento è stato caratterizzato dalla volontà di essere semplice e chiaro nell'espressione del pensiero considerando questo un dovere morale dell'intellettuale nei confronti degli altri studiosi.  Anche allo scopo di realizzare una scrittura filosofica quanto più scientificamente precisa, ha compiuto studi approfonditi sulla logica di Aristotele e sulla storia della semantica filosofica (teoria del segno).  Nella sua vita e nella dottrina si è sempre impegnato nel mettere in pratica l'insegnamento socratico, così come fece il suo maestro Calogero: insegnando la conversazione basatio sulla regola d’oro: il rispetto verso il co-conversazionalista. Cura I Presocratici di Diels e Kranz. Altre saggi: “La metafisica dei lizii” (Roma, Rai); “Che cosa ha veramente detto Socrate” (Roma, Ubaldini); Cirenaici (Firenze: Sansoni); “Filosofia romana” (Napoli: Bibliopolis); “Filosofia italica in eta antica” (Milano: Vallardi); Le filosofie e le scienze contemporanee, Torino: Loescher, I fondamenti della logica de’ lizii” (Firenze: La nuova Italia); Le forme classiche / Torino: Loescher, “Volpe / Roma: Riuniti, Socrate. Tutte le testimonianze: Da Aristotfane e Senofonte ai Padri cristiani; Bari: Laterza, Aristotele. Opere; introduzione e indice dei nomi, Roma; Bari: Laterza, Epicuro. Opere, frammenti, testimonianze sulla sua vita; Bignone;.Bari: Laterza, I presocratici: testimonianze e frammenti / Bari: Laterza, Profilo di storia della filosofia, Torino: Loescher. La razionalitàmTorino: Loescher, Socratis et Socraticorum Reliquiae. Collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit G. Giannantoni,  2Bibliopolis. Anthropine Sophia. Studi di filologia e storiografia filosofica in memoria di Gabriele Giannantoni; Introduzione di Francesco Adorno: per Gabriele Giannantoni: un dialogo, Editore Bibliopolis (collana Elenchos), 2009  Deputati della V, VI, VII legislatura.  Op.cit. Bruno Centrone, ed.Bibliopolis, Enciclopedia Treccani, Bruno Centrone, Bibliopolis, Edizioni di filosofia, ILIESI CNR  La traduzione dei Presocratici da parte di Giannantoni è stata criticata da Giovanni Reale nell'introduzione alla sua nuova traduzione dei Presocratici del 2006, critiche riportate in due articoli-intervista comparsi sul "Corriere della Sera" nei quali  Giannantoni, di formazione gramsciana veniva accusato come curatore della "vecchia" edizione laterziana di avervi perpetrato «una certa manomissione del sapere filosofico», in ossequio all'ideologia e all’egemonia culturale marxista. Interpretazioni del pensiero di Socrate#Socrate: l'interpretazione di Giannantoni Guido Calogero La teoria sul pensiero greco arcaico.  Per chi abbia svolto la propria attività di ricerca o abbia compiuto la propria formazione scientifica nell’ambito della storiografia filosofica negli anni ’80 e ’90, il nome di Gabriele Giannantoni (Perugia, 1932 – Roma, 1998) è legato anche al Centro di Studio del Pensiero Antico (CSPA).   dal Consiglio Nazionale delle Ricerche Roma,1 su richiesta, appunto, di Gabriele Giannantoni – in sostituzione del precedente Centro di Studio per la Storia della Storiografia Filosofica –, il Centro di Studio del Pensiero Antico si inserì nel panorama nazionale e internazionale della ricerca storica come una realtà innovativa e contribuì allo sviluppo di una disciplina, la storia della filosofia antica, appartenente al duplice contesto della storiografia filosofica e delle scienze dell’antichità. Il Centro fu attivo in modo autonomo fino al 2001, quando, a seguito di una riforma che ridisegnò la rete scientifica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, esso fu accorpato con il Centro di Studio per il Lessico Intellettuale Europeo per dar vita all’ Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee (ILIESI), sotto la direzione di Tullio Gregory.2 L’attività del Centro di Studio del Pensiero Antico fu inevitabilmente legata al percorso intellettuale e di ricerca del suo fondatore, benché in modo non esclusivo. In questo breve profilo si cercherà di rievocare, in primo luogo, i motivi culturali che furono alla base della costituzione di questa realtà, nonché alcuni modelli scientifici di riferimento che ne hanno determinato in certa misura la configurazione e l’attività; in secondo luogo, i contributi originali che il Centro è stato in grado di fornire all’area disciplinare di propria competenza, in termini di pubblicazioni, progetti e formazione, sotto la guida di Giannantoni e di coloro che ne coadiuvarono la direzione. 1 Decreto del Presidente del CNR. n. 6303, ratificato successivamente da una convenzione tra il CNR e “La Sapienza”, stipulata il 21 aprile 1983 e confermata dal Presidente del CNR fino al 2001. Per il testo della convenzione si veda “Elenchos”, 1, 1980, pp. 201-202. 2 Sull’iter di riforma che portò alla nascita dell’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee e per i riferimenti normativi, si veda Liburdi 2018, p. 49 e ss. Istituito nel 1979  presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico MOTIVI CULTURALI E MODELLI ISPIRATORI Come accennato, l’attività scientifica del Centro di Studio del Pensiero Antico fu comprensibilmente orientata da precise scelte critiche e metodologiche di colui che ne aveva voluto l’istituzione. Per dare ordine a questo sintetico profilo, credo sia opportuno riassumere i motivi che ispirarono la promozione di un organo di ricerca mirato agli studi storici sul pensiero antico, in tre principali indirizzi: in primo luogo, la possibilità di considerare la storia della filosofia antica come una disciplina dotata di un proprio specifico (e in certa misura autonomo) profilo quanto a materia di indagine, arco storico e metodologia; in secondo luogo, la nascita, o rinascita, dell’interesse verso scuole filosofiche dell’antichità greca e romana tradizionalmente classificate come minori, in particolare, le cosiddette scuole socratiche e le scuole ellenistiche, che dalle socratiche discendono direttamente sotto l’aspetto storico e dottrinale; infine, la rivisitazione del patrimonio dossografico – cioè del complesso della tradizione indiretta che ha conservato, per estratti, parafrasi o compendi, il pensiero di quei filosofi antichi di cui non è giunto a noi né il corpus né una singola opera completa –. Quest’ultimo indirizzo si inseriva in una tendenza di studi continentale che fece della dossografia antica una vera e propria categoria storiografica con risultati particolarmente innovativi. L’interesse portato alla dossografia, oltre a sostenere gli studi nell’ambito delle filosofie di derivazione socratica e quelle ellenistiche (delle quali, per l’appunto, non si è conservato alcun testo d’autore), apriva un percorso di studi a cui Giannantoni era particolarmente legato e che lo vide impegnato sia come direttore del Centro che individualmente, e cioè la riconsiderazione di tutta la dossografia relativa alla filosofia presocratica. Una rapida messa a fuoco di questi tre indirizzi permetterà di chiarire quali interessi scientifici di Gabriele Giannantoni abbiano maggiormente pesato sulle strategie generali e sulle iniziative specifiche del Centro, nonché sulla formazione professionale che esso ha reso possibile. Quanto al primo indirizzo, la questione del profilo specifico della storia della filosofia antica presuppose, da parte di Giannantoni, una approfondita analisi della visione storica che la cultura filosofica italiana era venuta maturando intorno alla filosofia antica. In questa analisi, i cui esiti si leggono, non a caso, nell’articolo di apertura della 6 ILIESI digitale Temi e strumenti   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico rivista “Elenchos” intitolato La storiografia idealistica e gli studi sul pensiero antico (“Elenchos”), svolge un ruolo chiave la rappresentazione che del pensiero antico seppe dare l’idealismo italiano, specie con Croce, e la sua valutazione critica. L’idealismo italiano si era infatti distinto per due caratteri, l’uno teorico, l’altro metodologico, che apparentemente non favorirono lo sviluppo di una moderna storiografia del pensiero antico. Per un verso, tanto Croce che Gentile vedevano nella filosofia antica (cioè greca) i limiti di un pensiero oggettivo, astratto e naturalistico, che mai sarebbe arrivato a concepire la positività dell’idea di infinito, né quella della soggettività. I punti più alti raggiunti dalla filosofia teoretica greca, Socrate, Platone, Aristotele, coincidevano rispettivamente con la delineazione del concetto, o universale astratto, con la sua separazione dalla realtà sensibile (la teoria delle idee trascendenti e la scienza come dialettica delle sole idee) e con una logica puramente strumentale (la sillogistica), alla quale sarebbe mancata la teorizzazione del giudizio individuale, o giudizio storico,3 nonché la capacità di superare l’astrattezza e attingere l’atto stesso del pensiero.4 Nella filosofia pratica parimenti i Greci antichi, pur non mancando di intuizioni profonde, non avrebbero superato il precettismo e l’empirismo, e la loro etica ingenua non sarebbe mai giunta a distinguere etica ed economica, morale e diritto, come categorie dello spirito.5 3 Giannantoni 1980, n. 13, rimanda a Croce 19092, di cui diamo qui i riferimenti da Croce. 4 Ciò Giannantoni ricavava, pur senza riferimenti testuali precisi, sia dagli excursus storici che possiamo leggere in Gentile e in Gentile 1917, vol. I, pp. 21-32, sia da Gentile 1964. 5 Giannantoni 1980, nn. 14 e 15, rimanda a Croce 19455; si veda Croce e a Croce 19273, si veda Croce 2007, pp. 164-165. ILIESI digitale Temi e strumenti 7   Figura 1: copertina di “Elenchos”, 1, 1980.    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Per l’altro verso, però, l’idealismo formulò una critica, entro certi limiti giusta e salutare, alla filologia classica – cioè alla filologia classica moderna sviluppata in Germania nel corso del XIX secolo, distintasi, tra le altre cose, per una predilezione della cultura greca rispetto alla latina –, colpevole sostanzialmente di non essere una disciplina veramente storica. La filologia classica, malgrado i grandi risultati raggiunti nella costituzione dei testi della letteratura antica, nella revisione della tradizione bizantina e nelle nuove acquisizioni, si affermò come una procedura tecnica complessa e molto raffinata ma priva della visione della storicità del documento, del suo autore, dell’ambiente della sua composizione, nonché del suo testimone. La questione, che emerse inizialmente nel campo delle edizioni letterarie,6 non è meno complessa per quelle filosofiche: i testi della filosofia antica richiedono anche una comprensione dei contenuti teorici e pretendono di essere inquadrati in sistemi di pensiero il cui senso trascende il ripristino del testo, o quanto meno se ne distingue in data misura. Questo fu il nodo che si dovette sciogliere perché si potesse cominciare a delineare una storia della filosofia antica che includesse tanto la capacità di fornire edizioni affidabili sotto il profilo testuale, quanto quella di storicizzare i documenti, cioè di comprenderne i contenuti alla luce di coordinate culturali congrue con le epoche di appartenenza. La storiografia idealistica è dunque imputata da Giannantoni di evidenti limiti interpretativi del pensiero antico, come fu ben presto mostrato, ad esempio, dalle due celebri monografie di Rodolfo Mondolfo sull’infinito nel pensiero greco e sul soggetto umano nell’antichità,7 che smentivano l’idea di un connaturato e irreparabile oggettivismo della filosofia greca. Tuttavia l’idealismo ha fornito un’importante lezione e soprattutto ha indicato con chiarezza un ostacolo da superare: 6 In particolare, la critica crociana a cui Giannantoni fa riferimento  prese le mosse da edizioni di testi poetici e si volse contro la “mera filologia” e la Kulturgeschichte che, nella pretesa di restituire il senso del testo letterario, non apportavano comprensione né storica né concettuale. Cfr. ad esempio la recensione alla monografia del 1950 di Ettore Romagnoli su Aristofane e che si può leggere in Croce. Dice Giannantoni al riguardo (p. 19): “...il problema del rapporto tra filologia e poesia, tra filologia e storiografia, tra filologia e filosofia sta al centro dell’elaborazione dell’idealismo italiano”. Giannantoni probabilmente pensava anche alle considerazioni gentiliane intorno al “filologismo” che affligge la storia e ostacola la costituzione di una storia della filosofia, in Gentile 1Mondolfo 1933; Mondolfo 1958. 8 ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Tracciando nel primo dei due volumi in onore di B. Croce per il suo 80° compleanno, quello che è tuttora l’unico panorama complessivo degli studi di filosofia antica nel cinquantennio, Guido Calogero non ritenne di dover prendere in considerazione né Croce stesso né Gentile (e neppure De Ruggiero) quali interpreti del pensiero antico; né altri ne hanno trattato in modo approfondito (mentre studi importanti esistono sulle loro interpretazioni di altri periodi della storia del pensiero) ... la ragione ... è da ricercare in una persistente separazione, non solo concettuale, ma anche di organizzazione degli studi, che lo stesso idealismo ha contribuito non poco a consolidare, tra considerazione filosofica, ricostruzione storica e indagine filologica. Gli studi di filosofia antica hanno infatti sofferto in modo particolare di una vera e propria scissione tra quelli che erano considerati i compiti esclusivi del filologo e quelle che erano considerate le competenze dello storico e del filosofo: con la conseguenza che questi studi sono potuti apparire troppo filologici ... ad alcuni e ad altri, all’opposto, troppo filosofici per entrare di pieno diritto nell’ambito di ciò che si era soliti chiamare la “scienza dell’antichità”.8 Quando Giannantoni scriveva queste parole (cioè nel 1980), era persuaso che la scissione non fosse superata e fosse causa, oltre che di una durevole influenza idealistica, anche di un pregiudizio nei rispetti della filologia, malgrado i grandi progressi e le messe a punto di tanta prestigiosa filologia classica italiana.9 Stante, quindi, una situazione di progresso “zoppicante”, per così dire, degli studi storiografici italiani sulla filosofia antica, Giannantoni nutrì l’aspirazione di delimitare un preciso terreno metodologico cogliendo la preziosa occasione che il Consiglio Nazionale delle Ricerche gli offriva. Il secondo indirizzo è quello che, almeno a prima vista, rivela maggiormente la stretta relazione tra il percorso scientifico individuale di Giannantoni e lo spettro di interessi messi in campo da quanti hanno operato nel o col Centro, a cominciare dai suoi allievi. Tanto più che l’attenzione rivolta non solo a Socrate ma alle tradizioni socratiche ed ellenistiche non è del tutto indipendente dalla questione dell’impatto dell’idealismo italiano sulla fortuna della storiografia filosofica dell’antichità. Il giudizio crociano sui limiti delle filosofie di Socrate, Platone e Aristotele, ad esempio, diventa un vero e proprio deprezzamento delle tradizioni “minori”.10 Ed è appena necessario 8 Giannantoni 1980, pp. 7-8. Il riferimento a Calogero è da intendersi a Calogero 1950, pp. 43-59. 9 Si veda al riguardo il chiarimento di Giannantoni relativo all’opera di Giorgio Pasquali, che pervenne ad un’unità di filologia e storia come unità di metodo, non di contenuti, e che si caratterizzò tramite uno storicismo della filologia classica, profondamente diverso dallo storicismo idealistico: questo, inteso come riconoscimento nella storia e nella cultura di figure e “categorie” del pensiero e dello spirito, quello, inteso come intima connessione tra le rigorose tecniche filologiche e la conoscenza storica (cfr. 1980, p. 37). 10 Cfr. Croce 19455, p. 201: “... col considerare principalmente il contrasto delle passioni verso la volontà razionale sorsero le scuole opposte dei cinici e cirenaici, ILIESI digitale Temi e strumenti 9    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico ricordare che la figura di Socrate, a cui deve farsi risalire il terreno di ricerca costituito dalle scuole socratiche e buona parte di quello attinente alle tradizioni ellenistiche, fu al centro di importanti riflessioni teoretiche e storiografiche di Guido Calogero,11 che di Giannantoni fu il maestro. Abbiamo poi vari segni di un’interazione di tendenze di studio comuni a più scuole anche fuori dell’Italia. L’interesse per le tradizioni dette “minori”, tali cioè in quanto paragonate alle filosofie di Platone e Aristotele e, in più, conservate solo tramite tradizione indiretta, si manifesta già alla fine degli anni ’40 con studi seminali sui Sofisti, su alcuni discepoli di Socrate, in particolare Antistene di Atene e Aristippo di Cirene, sulla tradizione scettica.12 Proprio ad Aristippo di Cirene e alla sua scuola Giannantoni dedica la sua prima importante opera scientifica (Giannantoni 1958). In essa si profilano le problematiche, filologiche e storiografiche prima ancora che concettuali, relative alla intricata questione della eredità socratica: l’edizione critica di un corpus proveniente da molti e diversi testimoni; la possibilità di dirimere le fonti storicamente attendibili dalla ritrattistica aneddotica; la contestualizzazione del filosofo all’interno di un milieu composito in cui si intrecciano le influenze della Sofistica e della retorica classica e il magistero socratico. stoici ed epicurei e altrettali; ma le dottrine di tutte coteste scuole, se serbano qualche valore empirico come precetti di vita più o meno convenienti a individui, classi e tempi determinati, non ne presentano alcuno o scarsissimo, esaminate in quanto concetti filosofici; e cinici e cirenaici, stoici ed epicurei, piuttosto che filosofi sembrano monaci, seguaci di questa o quella regola”. Sulle “scuole socratiche minori” cfr. anche il giudizio, meno sommario, di Gentile. Com’è molto noto, Socrate occupò un ruolo centrale nella personale riflessione teorica di Guido Calogero, che elaborò la sua “filosofia del dialogo” esattamente sul modello del Socrate dei dialoghi platonici, nel quale il filosofo italiano vide la prima formulazione di un’istanza intellettuale e morale – il dialogo, appunto, contrapposto al “logo” conclusivo e assertivo – destinata a far giustizia della pretesa di fondare l’etica sulla epistemologia e sulla metafisica, e che sarebbe stata anche alla base della moderna concezione dello stato liberale e di diritto. Ma Socrate fu anche al centro di importanti lavori storiografici di Calogero, alcuni dei quali aprirono la strada alla ricerca della posterità del magistero socratico nel pensiero tardo-ellenistico e cristiano. Una visuale critica diversa da quella di Giannantoni, ma in linea con la percezione del ruolo capitale svolto da Socrate nella storia del pensiero antico. Mi limito su tutto ciò a rimandare a Giannantoni 1987 e a Brancacci 2017. 12 Per limitarsi alle opere principali: Untersteiner 1949, con moltissime riedizioni; Dal Pra 1950; Humbert 1967; Mannebach 1961; Decleva Caizzi 1966; Patzer 1970. 10 ILIESI digitale Temi e strumenti     Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Questi elementi appaiono, nella storiografia e nella filologia europea degli anni ’70, sempre più determinanti per la comprensione delle dottrine di personalità come Aristippo, Antistene di Atene, Euclide di Megara, Eschine di Sfetto. In più, il superamento della Quellenforschung tradizionale e l’approfondimento dei contenuti filosofici aprirono nuove possibilità di delineare il percorso che dalle scuole socratiche della seconda metà del IV secolo a.C. porta alle principali tendenze ellenistiche, il Giardino, la Stoa, il Peripato post- aristotelico, la scepsi pirroniana ed accademica. A questo complesso terreno di ricerca è dedicata una iniziativa che precede l’istituzione del Centro di Studio del Pensiero Antico benché sempre sostenuta dal Consiglio Nazionale delle Ricerche: il convegno “Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica”, organizzato nel 1976 dal Centro di Studio per la Storia della Storiografia (la cui direzione era stata affidata allo stesso Giannantoni), e i cui atti furono pubblicati nel 1977 dalla casa editrice il Mulino di Bologna. Le relazioni presentate al Convegno del 1976, mirate ad una ricognizione dello stato documentario delle filosofie riconducibili a Socrate o ad uno dei suoi discepoli, e dei rapporti concettuali tra queste tradizioni e le filosofie ellenistiche e di età imperiale,13 furono aperte dalla comunicazione dello stesso Giannantoni sul tema Per un’edizione delle fonti relative alle scuole socratiche minori, nella quale lo studioso esponeva i risultati di un già lungo percorso di ricerca, ma ancora lontano, nel 1976, dalla sua conclusione. In questa relazione vengono messe a fuoco le 13 Cambiano 1977; Celluprica 1977; Sillitti; Decleva Caizzi; Ioppolo 1977; Brancacci 1977; Donini 1977; Isnardi Parente 1977; Repici 1977. ILIESI digitale Temi e strumenti 11   Figura 2: copertina di G. Giannantoni, I Cirenaici. Raccolta delle fonti antiche, traduzione e studio introduttivo, Firenze, Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico peculiarità e la notevole problematicità, soprattutto sotto il profilo filologico, di una edizione di testi filosofici e di molti autori. Emerge da questo breve testo non solo uno stato dell’arte ma un criterio programmatico che non considera sufficienti, benché certamente necessarie, le sole competenze della filologia classica, ma pretende una sensibilità storica e una capacità di comprensione teorica che gli sforzi della Altertumswissenschaft tradizionale non avevano sempre garantito. L’edizione di testi filosofici di trasmissione indiretta non può limitarsi alla costituzione del testo e alla redazione di apparati critici da cui si desuma il meticoloso lavoro di collazione dell’editore, ma deve tener conto dei contesti storici e problematici nei quali sono vissuti tanto il filosofo quanto il suo testimone. Inoltre, un’edizione che sia, in più, una silloge di testi relativi a (e non provenienti da) molti filosofi, comporta di andare oltre la natura estrinseca14 della singola testimonianza (epoca e ambiente del testimone, distanza cronologica dall’autore, genere letterario della fonte, parametri stilistici, etc.) e di individuare alcune strutture di pensiero che, in un lasso di tempo abbastanza lungo, si facciano riconoscere per caratteri salienti e durevoli e, al contempo, riflettano le condizioni storiche che ne determinano la specificità (secondo i dettami dello storicismo), diventando pagine e capitoli di una lunghissima storia culturale; si configurino, cioè, come tradizioni: Il fatto è che a proposito di una raccolta di testi che riguardano uno o più filosofi, emerge molto più nettamente che in altri casi l’impossibilità di considerare la testimonianza antica come un dato puramente oggettivo, e quindi la necessità di storicizzarla fino in fondo: in realtà essa deve essere considerata come un capitolo di una vera e propria storia della cultura durata all’incirca un millennio, e perciò da ricondurre di volta in volta al suo tempo e alle tendenze storicamente determinate che la produssero: parleremmo di un Diogene irreale e mai esistito se pensassimo di poter adoperare come ingredienti mescolabili a piacere Epitteto e Dione Crisostomo, Luciano e Giuliano l’Apostata, un padre della chiesa e le epistole apocrife che vanno sotto il nome del cinico.15 Il terzo indirizzo, relativo alla dossografia, è quello che presenta, almeno in apparenza, un maggiore tecnicismo, perché volto alle problematiche ecdotiche ed interpretative attinenti allo studio di 14 Sulla cosiddetta filologia “esterna”, sul ruolo da essa svolto nelle edizioni filosofiche e sui suoi limiti, si veda Giannantoni 1980, p. 15, a proposito dell’opera di Girolamo Vitelli, la cui importanza per la storia della filosofia antica è legata specialmente alle edizioni critiche dei commenti aristotelici di Giovanni Filopono. 15 Giannantoni 1977, p. 22. 12 ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico dottrine riportate da testimoni spesso assai lontani, per cronologia ed orientamento intellettuale, dagli autori di cui si vuole conoscere il pensiero. D’altra parte, la dossografia si è rivelata un capitolo importantissimo di quella millenaria storia culturale che costituisce il terreno di indagine della storia della filosofia antica. Non si potrebbe ancora oggi redigere una storia della storiografia filosofica dell’antichità senza iniziare non solo dalle grandi raccolte di testi e frammenti allestite dalla filologia ottocentesca e comparse nei primi anni del XX secolo (le raccolte di Usener,16 Diels,17 Arnim,18 per citare degli esempi), ma anche dalla prima grande opera di analisi e comparazione dei testimoni, i Doxographi Graeci di Hermann Diels;19 come è altrettanto vero che non si può oggi fare a meno dei più recenti e sistematici contributi all’analisi della dossografia filosofica, cioè gli Aëtiana di Jaap Mansfeld e David Runia.20 I più importanti progetti editoriali varati negli ultimi decenni, inoltre, si sono strettamente legati alla problematica della dossografia e all’analisi dei testimoni, a lato di quelle condotte sugli autori e sulle tradizioni dottrinali. Allo studio di autori di grande notorietà e impatto della tradizione culturale antica, ai quali si deve gran parte della conoscenza dei filosofi precedenti, come Cicerone e Plutarco, si è venuta affiancando una sempre maggiore familiarità con testimoni meno noti ma che hanno rivelato un’importanza fondamentale, come Filodemo, Diogene Laerzio, Sesto Empirico, Galeno, Giovanni Stobeo. L’indirizzo dossografico fu quindi un segno della tempestività e della sensibilità di Gabriele Giannantoni nei rispetti di un terreno di ricerca che si veniva imponendo in ambito internazionale, e che di fatto contribuì alla dimensione internazionale dello stesso Centro, la cui attività progettuale e congressuale fu in buona misura dedicata alla dossografia di epoca tardo ellenistica ed imperiale. Si può far rientrare in questo ultimo indirizzo anche una linea di attività di studi la cui ragione storiografica fu oggetto di un vivacissimo 16 Usener 1887. 17 Diels 1903. 18 Arnim 1903. 19 Diels 1879. 20 Mansfeld-Runia 1997; Mansfeld-Runia 2009; Mansfeld-Runia 2010. È appena necessario ricordare che le parole stesse “doxographus”, “doxographia”, sono coniate da Hermann Diels. Sulla dossografia e sul suo sviluppo come categoria filologico-storiografica, cfr. Mansfeld 1998, rist. in Mansfeld-Runia 2010, Mansfeld 2002, rist. in Mansfeld-Runia 2010. ILIESI digitale Temi e strumenti 13    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico dibattito e che è nota come la questione delle dottrine non scritte di Platone. Sorta nell’accademia tedesca, in particolare a Tübingen, da un’ipotesi schleiermacheriana, la questione degli agrapha dogmata consisteva, molto in breve, nella convinzione che Platone avesse teorizzato una dottrina dei principi (Uno e Molteplice), della quale non resta traccia nei suoi scritti – perché oggetto di pura trasmissione orale all’interno dell’Accademia antica – ma solo sparsi indizi in pagine aristoteliche. Alla nascita, per così dire, del Centro, Giannantoni invitò Konrad Gaiser, ordinario di filologia classica all’Università di Tübingen e uno dei maggiori sostenitori di questa ipotesi, a tenere una lezione presso la Sapienza sul tema La teoria dei principi in Platone, il cui testo venne pubblicato nel primo numero della rivista “Elenchos”.21 Tuttavia, il punto che merita attenzione in questa sede è che la questione delle dottrine non scritte di Platone fu, oltre che un tema rilevante per se stesso, anche un “pretesto” per riconsiderare Aristotele come testimone egli stesso del passato filosofico, più precisamente per le cosiddette filosofie presocratiche. Com’è noto, Aristotele può essere considerato se non il primo testimone in assoluto delle precedenti tradizioni di pensiero, certamente il primo testimone che ne offre una informazione organizzata secondo criteri espositivi dettati dalle proprie esigenze filosofiche e che hanno inevitabilmente condizionato la visione storiografica moderna. Per quanto apparisse improprio, naturalmente, definire Aristotele un dossografo, il riesame della sua testimonianza della filosofia precedente, anch’essa una tradizione indiretta, apparve a Giannantoni una linea d’azione congrua con quelle relative alle scuole socratiche e le filosofie ellenistiche, ancorché meno visibile tra i risultati delle ricerche del Centro. A conclusione di questo primo paragrafo, ricordiamo che l’istituzione del Centro di Studio del Pensiero Antico non fu del tutto priva di modelli in Italia e fuori e che con alcuni di essi si instaurò una costante collaborazione. L’esempio più immediato, sia sotto il profilo tematico e scientifico, che sotto quello del funzionamento istituzionale, fu il – Léon Robin, una unità di ricerca del 21 Gaiser 1980. 14 ILIESI digitale Temi e strumenti  Centre de Recherches sur la Pensée Antique  Centre National de la Recherche  Scientifique (CNRS), ma operante all’interno e sotto l’egida    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  dell’Université Paris-Sorbonne (perciò definito anche Unité Mixte de  Recherche, o UMR), in modo non troppo dissimile dai Centri di Studio  del CNR istituiti in regime di convenzione con i vari Atenei italiani. La  collaborazione con questo Centro si focalizzò sulle tematiche  socratiche e dette luogo al ripetuto scambio di studiosi tra le due sedi nel biennio 1994-1995 nell’ambito del programma di ricerca “Socrate e la storia del pensiero antico: rottura o continuità?”; i contributi  pubblicati nel 1997 sotto il titolo di Lezioni socratiche, a cura di furono   Gabriele Giannantoni e Michel Narcy, per l’Editore Bibliopolis di  Napoli. Un’altra importante istituzione scientifica a cui Giannantoni  guardò con particolare attenzione e con cui intrecciò stretti rapporti  scientifici nonché di cordiale amicizia è stata senz’altro il Centro  Internazionale per lo Studio dei Papiri Ercolanesi, oggi intitolato a  Marcello Gigante, che ne fu il fondatore nel 1969. I motivi di tale  collaborazione erano dettati ovviamente dall’interesse intrinseco per  la grande opera editoriale a cui il Centro fondato da Gigante era  votato. La pubblicazione delle nuove edizioni critiche dei papiri reperiti  nel sito ercolanese offriva alla comunità scientifica un patrimonio  inestimabile per la conoscenza dell’Epicureismo, della tradizione  socratica, dello Stoicismo. Ma furono anche ragioni metodologiche a  sancire un sodalizio importante, che si concretizzò in varie iniziative e  pubblicazioni cui parteciparono entrambi i Centri: i testi ercolanesi,  com’è molto noto, costituiscono un materiale che permette di  arricchire enormemente la conoscenza di molte importanti tradizioni  filosofiche e letterarie, a condizione di possedere un complesso di  conoscenze e tecniche interpretative che difficilmente possono  trovarsi nella medesima personalità e che però vanno applicate  contestualmente. In altre parole, l’esperienza collaborativa tra questi  due Centri, forti, l’uno, di una formazione propriamente storica e  filosofica, l’altro, di alte competenze filologiche, contribuì in modo  significativo a costituire quella storiografia della filosofia antica che  aveva, almeno per la cultura accademica italiana dei primi decenni  del ’900, faticato ad assumere uno statuto proprio.  ILIESI digitale Temi e strumenti 15  Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Quanto detto nel precedente paragrafo trova un riflesso, diretto o indiretto, nelle attività di ricerca del Centro, nonché nelle sue pubblicazioni. L’interesse per il consolidamento della storia della filosofia antica come disciplina autonoma, dotata cioè di un suo impianto metodologico, oltre che di un preciso confine cronologico, viene perseguito tramite l’attività progettuale, congressuale e editoriale, di cui si dà qui una descrizione sintetica. Vale però la pena di ricordare, prima di tutto, una iniziativa promossa da Giannantoni dopo l’istituzione del Centro, in conformità di un indirizzo dell’organo direttivo della rivista “Elenchos”, e dedicata alla problematica storiografica: Nelle riunioni del Comitato direttivo della rivista “Elenchos” è emersa più volte l’opportunità di aprire una discussione sul metodo o, meglio, sui metodi attuali della storiografia filosofica relativa al pensiero antico. Si è pensato perciò di cominciare con una “tavola rotonda”, chiamando a parteciparvi esponenti di orientamenti diversi e significativi, ai quali è stato chiesto di intervenire liberamente su tre questioni principali: 1) se ha senso parlare ancora di una storia della filosofia (e quindi anche di una storia della filosofia antica) come disciplina a se stante e in sé autonoma; 2) quali innovazioni si possono riconoscere all’ampliarsi e al differenziarsi delle impostazioni teoriche che sono sottese ai vari approcci metodici alla storia del pensiero antico; 3) quale è il contributo che viene, una volta tramontato il vecchio mito classicistico, dall’applicazione di categorie elaborate dalle “scienze umane”.22 Alla tavola rotonda parteciparono Enrico Berti, Mario Vegetti, Carlo Augusto Viano, e lo stesso Giannantoni, ciascuno portando un contributo molto peculiare e strettamente conforme al proprio orientamento intellettuale. L’intervento di Giannantoni rispecchia le riflessioni condotte qualche anno prima e pubblicate nel già citato articolo di apertura della Rivista (La storiografica idealistica), di cui ripropone le premesse problematiche e a cui aggiunge precise prese di posizioni sulla specificità della storia della filosofia antica e sul modo di salvaguardarla: ... senza perdere di vista il fatto che lo scopo principale (scil. dello storico della filosofia antica) resta la comprensione dei testi che ci trasmettono il pensiero antico, ritengo necessario rivendicare l’imprescindibilità di una rigorosa e metodica impostazione filologica, anche se tale impostazione non può non venire assumendo sempre più, essa stessa, una fisionomia storica: quella della storia degli studi ... ciò dovrebbe indurre a uscire da un tradizionale isolamento e a promuovere una 22 Giannantoni 1983, p. 147. 16 ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico organizzazione del lavoro diversa e meno diffidente verso i sussidi che la tecnologia moderna può offrire. In ogni caso, la storia degli studi è ormai elemento costitutivo di ogni indagine che voglia avere un minimo di serietà, non solo per le conoscenze che ha acquisito ma anche per le divergenze che ha proposto. L’alternativa a questa impostazione è o l’arbitrio nella scelta dei riferimenti o l’illusione di un ritorno alla “lettura diretta” dei testi.23 In queste parole possiamo rintracciare ad un tempo la finalità della costituzione del Centro e la visione di Giannantoni del modo di operare storiografico: più che il cenno alle nuove tecnologie e più che l’esortazione ad abbandonare l’isolamento, sicuramente importanti l’uno e l’altra, conta sottolineare, a mio parere, il richiamo alla storia degli studi come parte integrante della storia della filosofia, in particolare della filosofia antica, affidata in larghissima misura alla tradizione indiretta. La “serietà”, cioè la plausibilità dei risultati della ricerca storico-filosofica sono messi a rischio dalla “illusione” di poter leggere (e capire) le parole del filosofo, specie se antico, senza gli strumenti della conoscenza filologica, linguistica e culturale nel senso più lato, conoscenza cui si perviene ricostruendo, ove sia possibile, anche una storia intelligente delle letture altrui. Uscire dall’“isolamento” è, allora, non solo la cooperazione tra colleghi ad un progetto scientifico unitario, ma anche la conoscenza e la valutazione delle migliori offerte interpretative che di un testo e del suo contesto siano state date entro un certo arco di tempo.  23 Giannantoni 1983, pp. 182-183. ILIESI digitale Temi e strumenti 17   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Sia nelle azioni istituzionali, che investirono e coinvolsero il complesso delle risorse del Centro, incluse le relazioni stabilite con il mondo universitario, sia nelle attività di ricerca individuali, un ruolo primario fu senz’altro svolto dalle tradizioni ellenistiche e dall’analisi della letteratura dossografica. Già nel 1980, il Centro organizza un convegno sullo scetticismo antico,24 e tra il 1982 e il 1986 coopera strettamente con l’Università degli Studi di Pavia e in particolare con Mario Vegetti, ordinario di Storia della filosofia antica di quella Università, e con i suoi più stretti collaboratori, sostenendo l’organizzazione di due importanti convegni: “La scienza ellenistica” (Pavia, 1982)25 e “ 1986).26 Ancora alla filosofia ellenistica è dedicata l’importante pubblicazione dei Proceedings del quarto simposio internazionale sulla filosofia ellenistica, che vide tra i suoi partecipanti esperti di caratura internazionale, alcuni di stretta collaborazione con il Centro stesso.27   Figura 3: copertina del primo volume di Lo scetticismo antico, Atti del convegno, a cura di G. Giannantoni, Napoli, 1981.  Le opere psicologiche di Galeno” (Pavia, 10-12 settembre 14-16 aprile ILIESI digitale Temi e strumenti  Giannantoni 1981.  Giannantoni-Vegetti 1985.  Manuli-Vegetti 1988.  Barnes-Mignucci 1988.   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Carattere sistematico ebbe anche la linea d’azione dedicata allo studio della dossografia. Il Centro organizza, nel 1985, il congresso internazionale sull’opera del biografo di età imperiale Diogene Laerzio (“Diogene Laerzio storico del pensiero antico”, Napoli-Amalfi, 30 settembre-3 ottobre 198528) e, nel 1991, il congresso internazionale sull’opera del medico scettico di età imperiale Sesto Empirico (“Sesto Empirico e il pensiero antico”, Sestri Levante, 28 maggio-1 giugno 199129). Si delinea in entrambi gli eventi un’unica prospettiva, grazie alla quale l’oggetto dell’indagine storiografica è, per così dire, duplice e contestuale: l’autore, cioè il filosofo il cui pensiero è oggetto di trasmissione da parte di un testimone, e il testimone stesso, la sua epoca, il suo orientamento, nonché la struttura formale della sua testimonianza, struttura che rivela assai spesso una tesaurizzazione delle informazioni attraverso i differenti metodi per la loro esposizione. Così, mentre l’opera di Diogene Laerzio, che già da lungo tempo aveva attirato l’attenzione della filologia classica, conserva una concezione ampia del genere biografico, restituendo non solo informazioni biografiche e dottrinali dei singoli filosofi nonché cataloghi d’autore, ma anche specifici schemi espositivi presi a prestito dalla letteratura storica (il più caratteristico è senz’altro quello delle “successioni”), l’opera di Sesto Empirico mostra le conseguenze sul piano storiografico di un modello propriamente concettuale, la diaphonia. Un altro forte sodalizio, quello con il Centro Internazionale per lo Studio dei Papiri Ercolanesi di Marcello Gigante, permise di allestire negli anni subito successivi un grande congresso internazionale sul tema “L’Epicureismo greco e romano” (Napoli-Anacapri, 19-26 ILIESI digitale Temi e strumenti 19   Figura 4: copertina di Diogene Laerzio storico del pensiero antico, Atti del congresso, “Elenchos”, 7, 1986.  28 Atti pubblicati nel volume 7 dell’annata 1986 della rivista “Elenchos”. 29 Atti pubblicati nel volume 13 dell’annata 1992 della rivista “Elenchos”.    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico maggio 1993),30 un evento di ampio spettro tematico e cronologico all’interno del quale poterono cimentarsi papirologi e papirologi ercolanesi, filologi classici, paleografi ed epigrafisti, storici, storici della letteratura e della poesia greca e romana e, ovviamente, storici della filosofia antica. Proprio di questo incontro fu il suo carattere transdisciplinare e, per quel che attiene alle attività in corso presso il Centro, la messa alla prova di molte ipotesi di lavoro anche individuali sulla relazione tra l’Epicureismo e le rilevanti tradizioni (le scuole socratiche, la Stoa, la scepsi accademica e pirroniana) che impegnavano in quegli anni sia Giannantoni in prima persona che il suo gruppo di lavoro operante presso la Sapienza e il Centro. Tra gli ultimi impegni di Giannantoni in qualità di direttore del Centro ci fu l’organizzazione di due altri convegni: “ “Empedocle e la cultura della Sicilia antica. Illustrazione di un frammento inedito della sua opera” (Agrigento, 4-6 settembre 1997).32 Il primo raccolse un gruppo consistente di esperti della cultura greco- romana e fu un raro esperimento di indagine lessicale da parte del Centro, volto a delineare l’area semantica dell’affezione (emozione, sentimento, malattia) nelle diverse manifestazioni della cultura classica antica, dalla letteratura, dal teatro e dall’arte figurativa, alla filosofia e alla medicina. Il secondo convegno fu un altro esempio del modo in cui Giannantoni intendeva inserire la vita scientifica del Centro all’interno di una rete di relazioni istituzionali, oltre che scientifiche e accademiche, perché il convegno, motivato dalla 30 Giannantoni-Gigante 1996. 31 Atti pubblicati nel volume 16/1 dell’annata 1995 della rivista “Elenchos”. 32 Atti pubblicati nel volume 19/2 dell’annata 1998 della rivista “Elenchos”. 20 ILIESI digitale Temi e strumenti   Figura 5: copertina del primo volume di Epicureismo greco e romano, Atti del congresso, a cura di G. Giannantoni e M. Gigante, Napoli, 1992.  Il concetto di  pathos nella cultura antica” (Taormina, 1-4 giugno 1994);31     Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico recente scoperta del Papiro di Strasburgo contenente una porzione del poema empedocleo, fu organizzato in collaborazione con la sovrintendenza dei beni archeologici di Agrigento. Esso inoltre doveva essere una prima tappa di un più ampio progetto dedicato alle tradizioni culturali e filosofiche della Sicilia e della Magna Grecia, e che non vide la luce per la scomparsa dello stesso Giannantoni. *** Sarebbe un errore pensare che le strategie e i progetti del Centro avessero come unici interlocutori le istituzioni accademiche italiane e straniere. Certamente, uno degli obiettivi di Giannantoni era quello di costituire un piccolo ma vivace e solido bacino collettore degli interessi intorno al pensiero antico, e tali interessi erano, di fatto, collocati nelle Università e organizzati secondo i modi della didattica e della formazione universitarie. Ma il Centro partecipò anche alla realizzazione di una delle maggiori iniziative che il Consiglio Nazionale delle Ricerche abbia dedicato al settore delle scienze umane, e cioè il progetto strategico intitolato “Il Sistema Mediterraneo. Radici Storiche e Culturali e Specificità Nazionali”.33 Questo grande progetto  fu articolato in cinque linee di indagine, la  prima delle quali dedicata al mondo antico, in particolare greco-  romano.34 Fu in questo contesto che Giannantoni, oltre a scrivere il  saggio La tradizione culturale greca in Magna Grecia e Sicilia,  apparso nel 2002 nel volume che raccoglieva i risultati delle attività  promosse dal progetto,35 maturò l’idea di una linea di attività, cui si è  fatto cenno, dedicata alle tradizioni filosofiche della Magna Grecia e  della Sicilia, linea che avrebbe dovuto raccogliere e mettere a frutto le  metodologie sperimentate nella più generale attività del Centro  33 Il Progetto Strategico, svoltosi negli anni 1995-2000 e coordinato da Antonello Folco Biagini fu varato nel 1994 dal 34 “ 35 Biagini 2002. ILIESI digitale Temi e strumenti 21  Comitato Nazionale di Consulenza del CNR per  le Scienze Storiche, Filosofiche e Filologiche, allo scopo di convogliare tutte le competenze rappresentate ed espresse dalla rete scientifica costituita dai Centri di Studio e dagli Istituti afferenti al Comitato stesso, in una grande area di interesse, appunto il “Mediterraneo”. Al fondo della decisione del Comitato era la convinzione che il Mediterraneo costituisse non un’entità identitaria ma un complesso “sistema” di realtà molteplici, tradizionalmente oggetto di indagine da parte di settori disciplinari indipendenti. Si trattava perciò di conferire unità strategica e di metodo ad una  naturale e fisiologica molteplicità di fenomeni culturali.  Origine e incontri di culture nell’antichità”.   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  (studio della dossografia e delle tradizioni indirette). Rivisse, in questo  progetto non realizzato, l’antico interesse di Giannantoni per la  trasmissione delle cosiddette tradizioni presocratiche, molte delle  quali per l’appunto fiorite nelle aree magnogreche (l’Eleatismo, il  Pitagorismo, Empedocle, Gorgia di Leontini), e per il ruolo svolto in  tale trasmissione da Platone e Aristotele. A questo più antico arco  cronologico, si sarebbe poi unito il costante interesse per  l’Epicureismo, nella forma storica dell’Epicureismo campano.  Vale la pena ricordare, infine, l’attività formativa che il Centro  riuscì a svolgere, facilitata, come è facile comprendere, dalla  posizione accademica di Giannantoni. Il Centro di Studio del Pensiero  Antico si formò infatti raccogliendo i suoi allievi, che si unirono ai  ricercatori già in forza presso il precedente Centro di Studio per la Storia della Storiografia Filosofica. L’attività progettuale, inoltre, non si limitava alla sola attività di pianificazione scientifica e ancor meno alla sola organizzazione dei convegni, ma prevedeva lavori continuativi di studio collettivo e di confronto sulle tematiche di principale interesse e di rilevanza strategica.  I maggiori convegni venivano quindi preceduti  da seminari propedeutici sulle dossografie antiche, sull’opera di  Diogene Laerzio e su quella di Sesto Empirico, e su quest’ultimo  autore, anzi, si svolse un seminario aperto anche ai dottorandi di  ricerca della Sapienza. Nell’ambito del progetto strategico  “Mediterraneo” e quindi della linea di ricerca sul Mediterraneo antico,  il Centro ottenne dal Comitato di Consulenza per le Scienze Storiche,  Filosofiche e Filologiche tre borse di studio (1995-1996).  22 ILIESI digitale Temi e strumenti  Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico LE PUBBLICAZIONI DEL CENTRO  Un discorso a parte merita l’attività editoriale a cui il Centro riuscì a  dar vita. Due furono le iniziative editoriali, strettamente coerenti con  l’idea programmatica che ispirò la costituzione del Centro: la serie  “Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero antico”, e il periodico  “Elenchos. Rivista di studi sul pensiero antico”. La scelta del  medesimo nome per le due iniziative si spiegava facilmente in  riferimento all’orientamento intellettuale ed al bagaglio culturale dello  stesso Giannantoni, che riteneva la discussione, il confronto  (elenchos, appunto), in primo luogo, uno dei lasciti più significativi  della cultura filosofica antica, quello che maggiormente ha contribuito  alla formazione della coscienza moderna. Ma in secondo luogo, e  secondo un’angolatura più tecnica, Giannantoni vedeva nella  discussione, intesa come analisi critica, il metodo per eccellenza dello  studio del testo filosofico antico e della dottrina in esso contenuta,  come avevano mostrano i primi autori di una nascente “storia della  filosofia” ancora in forma di dossografia, Platone e soprattutto, com’è  assai noto, Aristotele. In omaggio dunque, all’ideale dialogico  trasmesso dal magistero di Guido Calogero, l’elenchos fu, nei limiti  del possibile, il contrassegno delle ricerche realizzate o promosse dal  Centro e divenne il nome delle due pubblicazioni, entrambe affidate  alla casa editrice napoletana Bibliopolis, Edizioni di Filosofia e  Scienza, di Francesco del Franco.  La collana era destinata in larga misura, benché non  esclusivamente, a premiare le ricerche individuali, le quali dovevano  concretarsi in studi monografici, edizioni di testi e strumenti per la  ricerca. Non deve stupire che in questa sede ci si limiti a mettere in  primo piano l’opera Socratis et Socraticorum Reliquiae, collegit,  disposuit apparatibus notisque instruxit Gabriele Giannantoni, 1990, 4  voll. Frutto di una ricerca individuale più che trentennale, preparato da  molte precedenti pubblicazioni, questa edizione delle testimonianze  relative a Socrate e alle scuole socratiche, corredata di apparati critici  e note di commento (e senza traduzione, secondo la prassi  dell’austera filologia classica moderna), rappresentò la più importante  espressione degli interessi tematici e dei principi metodologici che  caratterizzarono il Centro. Basterebbe infatti considerare i volumi  usciti nella medesima collana “Elenchos” votati alle tradizioni  socratiche, alle scuole ellenistiche, alla dossografia e alle edizioni di  ILIESI digitale Temi e strumenti 23  Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  testi e frammenti di autori ancora  poco studiati, per apprezzare   l’impatto delle ricerche di Giannantoni su tutto il gruppo di ulteriori interessi e accolse studi accademica.   ricerca del Centro.36 Naturalmente  la collana non fu preclusa ad   critici su tematiche di grande  rilevanza nell’ambito del platonismo  e dell’aristotelismo e delle filosofie  della tarda antichità,37 promuovendo  in tal modo uno scambio costante  con la più ampia comunità   Quanto alla rivista, è forse  opportuno rimandare direttamente  alla Presentazione che Giannantoni  Figura 6: copertina del primo volume di G. Giannantoni, Socratis et Socraticorum Reliquiae, Napoli, 1990.  antepose al primo fascicolo: essa fa  molto ben intendere tanto la  relazione essenziale tra il programma scientifico del Centro e il periodico  che di quel programma doveva essere lo strumento di diffusione; quanto  l’apertura al dibattito scientifico che la rivista (e quindi il Centro stesso) si  prefiggeva; quanto, infine, la tempestività di un’operazione culturale che  il Consiglio Nazionale delle Ricerche ebbe la sagacia di sostenere:  Questa rivista ... intende dare attuazione ad uno dei punti programmatici contenuti nella convenzione stipulata tra il Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Università di Roma, e che sta alla base del neocostituito Centro di Studio del Pensiero Antico ... essa non è, tuttavia, in senso stretto espressione soltanto di questo Centro: al contrario, chi ha la responsabilità di dirigerla intende farne uno strumento di studio e di ricerca aperto alle collaborazioni più ampie, un punto di incontro e di confronto e un’occasione a disposizione sia di studiosi già affermati sia di giovani ricercatori ... Questa rivista è l’unica dedicata interamente al pensiero antico che si pubblichi in Italia38 e perciò essa non può non proporsi anche un compito di promozione di questi  36 I titoli della collana “Elenchos”, corredati da schede riassuntive, sono consultabili al sito web dell’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle idee http://www.iliesi.cnr.it/pubblicazioni.shtml 37 Mi limito a citare il grande progetto di traduzione e commento della Repubblica di Platone, promosso e diretto da Mario Vegetti, e i cui primi tre volumi furono stampati quando Giannantoni era ancora in vita: Vegetti  Questa situazione è rimasta invariata fino al 2007, e cioè fino alla comparsa della rivista “Antiquorum Philosophia”, edita da Fabrizio Serra Editore, Roma-Pisa, e diretta da Giuseppe Cambiano.  ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  studi ... Ma essa si propone anche uno scopo più ambizioso; se è vero, come è vero,  che la storia del pensiero antico è un campo in cui debbono potersi incontrare ... gli apporti e le problematiche della storiografia filosofica e del metodo filologico; e se è vero, come è vero, che tanto la storiografia filosofica quanto il metodo filologico attraversano ... una fase di ripensamento critico molto profondo dei propri presupposti e delle proprie certezze, allora ad una rivista come questa spetta, in primo luogo, il compito di proporsi come sede di verifica di discipline diverse e di modi diversi di affrontare lo studio del pensiero antico e di aprire le sue pagine ... anche a contributi che per la conoscenza del pensiero antico possono venirci da storici dell’antichità, filologi classici, studiosi delle lingue e delle letterature classiche, archeologi, papirologi ... Per questi motivi di fondo – oltre e più che per la sua origine istituzionale – questa rivista si caratterizza per l’unità del campo di ricerca, non per l’unità dell’orientamento interpretative. LA PERMANENZA DI UN PATRIMONIO E L’ATTUALITÀ DI UN METODO In accordo con gli obiettivi enunciati nella Presentazione della rivista “Elenchos” e nel protocollo che lo istituiva, il Centro di Studio del Pensiero Antico si dotò di un consiglio scientifico che affiancò Gabriele Giannantoni nella direzione del Centro e delle pubblicazioni che esso produsse, il quale contò tra i propri membri eminenti storici della filosofia, quali Francesco Adorno, Enrico Berti, Giovanni Reale, Carlo Augusto Viano, Anna Maria Ioppolo, Aldo Brancacci e Vincenza Celluprica, nonché eminenti filologi classici e storici della letteratura greca quali Marcello Gigante e Luigi Enrico Rossi. Il Centro poté disporre di sufficienti risorse e di una struttura organizzativa40 che gli 39 “Elenchos”, 1, 1980, pp. 3-4. 40 Fecero parte del Centro in qualità di ricercatori inquadrati nei ruoli del Consiglio Nazionale delle Ricerche: Barbara Faes (direttrice del Centro nel 1999), Gigliola Caporali, Stefano Garroni, Vincenza Celluprica (direttrice del Centro per il biennio 2000-2001 e poi responsabile della linea relativa al pensiero antico nell’ILIESI fino al 2005), Lucina Ferraria, Aldo Brancacci (poi docente presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”), Bruno Centrone (poi docente presso l’Università degli Studi di Pisa), Francesca Alesse, Maria Cristina Dalfino, Luca Simeoni, Riccardo Chiaradonna (poi docente presso l’Università degli Studi di Roma Tre). Collaborarono in modo istituzionale e continuativo con il Centro Anna Maria Ioppolo (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Luciana Repici (Università degli Studi di Torino); Giuseppina Santese (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”); Giovanna Sillitti (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”); Carmela Baffioni (Università degli Studi di Napoli l’Orientale); Emidio Spinelli (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”) e Francesco Aronadio (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”). Molti sono stati i giovani che, nel corso della loro formazione post lauream sono venuti in contatto con Gabriele Giannantoni e con il Centro, lavorando fattivamente alla redazione di “Elenchos” o adoperandosi in attività editoriali e scientifiche in senso proprio. Tra questi mi è gradito ricordare Rosa Maria Piccione (Università degli Studi di Torino), Michele Alessandrelli (ILIESI-CNR), Diana Quarantotto (Sapienza Università di Roma), Francesco Fronterotta (Sapienza Università di Roma), Adriano ILIESI digitale Temi e strumenti 25    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico consentirono di diventare un organismo collettore di attività di ricerca nel campo dell’edizione critica e dell’interpretazione dei testi della filosofia antica, fino al 2001. Chi scrive non crede che l’esperienza acquisita nei poco più che vent’anni di vita del Centro sia andata perduta né dimenticata. Quando, nel 2001, nacque l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee, al suo interno fu garantita la prosecuzione e l’autonomia delle indagini relative alla storia della filosofia antica, per esplicito volere di Tullio Gregory che del nuovo Istituto fu il primo direttore. Queste indagini confluirono in una linea progettuale denominata prima “Storia del pensiero filosofico- scientifico e della terminologia della cultura mediterranea greco-latina, ebraica e araba” e successivamente “  Il pensiero filosofico nel mondo  antico: testi e studi”.41 L’impegno principale della linea fu  rappresentato da una serie di progetti che in parte proseguivano le  tematiche di studio e le strategie cooperative del Centro di Studio del  Pensiero Antico, e in parte introducevano nuove tipologie di analisi,  connesse alle tecnologie digitali. La continuità culturale fu inoltre  garantita dal mantenimento delle due pubblicazioni, la collana  “Elenchos” e la rivista “Elenchos”. Da questa permanenza delle  ricerche sul pensiero antico nella nuova realtà istituzionale si deve  ricavare non solo e non tanto l’attualità di una disciplina (che si è  comunque stabilizzata nel mondo accademico con la benefica  diffusione di cattedre e centri di insegnamento, in Italia e fuori),  quanto piuttosto l’attualità di un metodo di lavoro. Questo metodo di  lavoro, che potrebbe descriversi, un po’ aulicamente, come un nuovo  diatribein socratico, cioè come la capacità di discutere in modo  competente con i “morti” prima che con i vivi, rispecchia abbastanza  bene la disposizione intellettuale e comportamentale di Gabriele  Giannantoni, uomo tanto pacato nelle discussioni con i contemporanei,  quanto fermo nelle sue strategie di ricerca sul mondo antico.  Gioè, Matteo Nucci, Mariacarolina Santoro, Francesca Gambetti e Cristina Cunsolo (a quest’ultima si deve l’allestimento della bibliografia ragionata digitale Le tradizioni filosofiche e culturali greche della Magna Grecia e della Sicilia antica, ora in fase di aggiornamento ad opera di Francesca Gambetti). 41 A questa linea, diretta da Vincenza Celluprica fino al 2005, fanno riferimento i ricercatori già operanti nel Centro, a cui si aggiunge, dal 2010, Silvia M. Chiodi, specialista in storia delle religioni del mondo antico e del Vicino Oriente. 26 ILIESI digitale Temi e strumenti   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico BIBLIOGRAFIA Arnim 1903 = Hans von Arnim, Stoicorum Veterum Fragmenta, Lipsiae, Teubner. Barnes-Mignucci 1988 = Jonathan Barnes, Mario Mignucci (a cura di), Matter and Metaphysics. Fourth Symposium Hellenisticum, Napoli, Bibliopolis. Biagini 2002 = Antonello F. Biagini (a cura di), Il Sistema Mediterraneo. Radici Storiche e Culturali e Specificità Nazionali, Roma, CNR Edizioni. Brancacci 1977 = Aldo Brancacci, Le orazioni diogeniane di Dione Crisostomo, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 141-171. Brancacci 2017 = Aldo Brancacci, Il Socrate di Guido Calogero, “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, s. 7, vol. 13, pp. 205-226. 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La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VII (Libro X). e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VII (Libro X).  a    BS’l RATTO <Ia 1 Bollettino (ti Filologia Classica  Anno XXIV. - Fase. 2-3-1 - Agosto-Setteiiibre-Ottobre 1917      X II 6xi|iòvtov di Soorate — Como già nei tempi antichi, cosi anello  più tardi il 3 r.|iàviov di Socrate lui sempre suscitato il più vivo inte¬  resso ed è rimasto lino ai giorni nostri oggetto di studio. Ma, per  quanto sia stato scritto attorno ad essa e per quanto no sia stata ago-  volata la compronsione por merito di Seliloiormacher e dei suoi suc¬  cessori, non si può dire clic si sia linoni riusciti a trovare una spie¬  gazione soddisfacente di questo fenomeno, che fu una dèlio cause dèlia  tragica fine del grande pensatore.   Le fonti, alle quali dobbiamo attingere nella nostra ricerca, sono,  come si sa', gli scritti di Platone o di Senofonte. Ma.qui ci troviamo  subito di fronte ad una questione molto discussa c cioè; quale dei due  autori sia rispetto alla dottrina socratica il più attendibile. Poiché i  rapporti di Platono o di Senofonte si contraddicono riguardo allo ma¬  nifestazioni del Satpdviov di Socrato in un modo assai pronunciato, è  chiaro che dalla decisione alla quale arriviamo rispetto a questo divario,  deliba infine dipendere la soluzione del problema.   1 > m ,to che nel diciottesimo secolo si fece strada il parere del leib-  niziuno Brucfecr, secondo il quale gli scritti di Senofonte sarebbero  per lo studio del socratismo i più veritieri, parere che ha avuto fino  ad oggi i suoi fautori. Di quest’opinione è in linea generalo anche  Hegel (IJ. 1|S. principio del secolo passato però, Schleiermacher (2) ed  altri insistettero che por la valutazione della dottrina socratica do  vesso tenersi maggior conto delle opere di Platone. Di fronte a queste  due correnti lo Zollerai sogni un indirizzo, elio possiamo chiamare  intermediario. Senza entraro in particolari, si può dire che, sebbene  gli atti attorno a questo divario non siano ancora chiusi, diventa sem¬  pre più salda la convinzione, che senza uno studio profondo di Platone  una comprensione del socratismo non è possibile (-1). Ma con ciò il no¬  stro quesito non è ancora risolto.   Secondo Platone il Sxigóvwv agisce in modo esclusivamente inibitorio,  esso non è mai incitativo. Secondo Senofonte, però, funziona nei due  modi. Si è, è vero, creduto che la contraddizione tra lo due versioni  fosse soltanto apparente, perchè, se il «aigóviov non inibiva Socrate  nel 6uo fare, ciò equivaleva, si è detto, ad un'atrcrmaziono nel senso   «C.   (1) G. W. F. Hegel, Vorl. ti. d. Gesch. d. l'Ii tfp s. Il, 2* ed., p. 69, 1812.   (2) F. Schleiermacher, Abkdl. kad. su Berlin, 1818, p. 50 seg.   (3) E. Zm.i.ER, Die Philosophie hen li, 1, t* '.al., p. 91 seg., p. 131    Mg. 1869.     (4) Cfr. G. Zuocantb, Socrate, pòrte prima,di un ordine positivo. In verità, però, mi sembra, che la diversità  venga con una talo interpretazione soltanto celata, ma non eliminata,  perchè in realtà le differenze tra i rapporti doi due autori sono do¬  vute a processi psichici in sè diversi. Corto, se qualcuno mi dice, ad  es. : non andare via ! quosto equivale praticamente al comando positivo:  rosta ! Ma con ciò la cosa non è fluita. So io non distolgo qualcheduno,  che devo guidaro, da una azione, che egli è in procinto di compiere,  do, è vero, con ciò il mio consentimento al suo proposito, ma la sua  azione scaturì da motivi sorti nella sua coscienza e prosegue secondo  leggi psichiche. E so, in un altro caso, lo freno con un semplice: no!  senza però dargli altri ordini positivi, io non permetto che egli ese¬  guisca quello che stava per fare, ma con ciò non gli indico ancora  quanto devo in sua vece intraprendere. Il suo agiro dipende di nuovo  unicamente da lui o si sviluppa ancora da motivi che sorgono in lui  stesso. Ma so gli dico: fa cosi ! allora lo sottopongo in senso positivo  ad una volontà non sua o lo faccio compiere un’azione, i cui motivi  sorsero nella mia coscienza e non nella sua. Egli diventa lo strumento  del volere di un’altra persona, e, se consideriamo il fatto dal lato etico,  la responsabilità per lo conseguenze di una tale azione cado in questo  caso interamente su di rao o per nulla su di lui. Non occorrono altri  esempi : in fondo la diversità doi due rapporti si riduco presso a poco  al caso citato. Secondo Senofonte, Socrate riceve anche ordini positivi  dalla divinità, egli compie quindi azioni, che non furono da lui deciso,  secondo Platone mai. Ogni sua azione procedo, secondo Platone, in se¬  guito a motivi, che appartengono alla sua propria coscienza, ed è sem¬  pre la sua volontà che lo fa agiro anche dopo che egli ha abbandonato,  per l'intorvonto del Baijióvwv, una decisione presa.   Como si vede, la differenza non si lascia eliminare. Per quanto si  corchi di celarla, essa riappare sempre. Mi sembra quindi più savio  di riconoscerla. Ma ciò facondo ammettiamo anche che una dello due  versioni non può essere esatta e cho si deve decidere, quale delle due  si abbia da riconoscere come vera.   Delle opero cho portano il nome di Senofonte, V Apologia viene oggi  quasi da tutti riconosciuta apocrifa. Per ciò non ne teniamo conto.  Degli altri suoi scritti sono per noi importanti i Memorabili ed il Con¬  vito. Faccio qui osservare che, dopo un esame della rispettiva lette¬  ratura o specialmente in base agli studi dello Schonkl(l), sono arri¬  vato alla conclusione cho per il nostro problema soltanto i passi Meni.  1, 1, 2 segg., Meni. I, 4, 15 segg. o Conv. 8, 5 sono con tutta sicurezza  da considerarsi come autentici. Per talo ragione lasciamo da parte in  questa breve nota i passi : Mem. IV, 3, 12, IV, 8, 1 o IV, 8, 5.   Dalle opero cho vanno sotto il nome di Platone e che trattano del  Saipóviov escludiamo il Teagete, perchè oggi generalmente ritenuto apo¬    lli K. Schenkl, Xenophont. Studien. Sitzungsber. d. K. Akad. d. Wiss . i  zu Wien, 1875, 1876.     orilo. L’autenticità dell'A Icibinde 1 è fortemente messa in dubbio, lo  accettiamo con riserva. Non posso decidermi di respingere 1 Fall frane,  malgrado lo obiezioni di Ueborwog (I). Dogli altri scritti platonici limino  per noi valore VApologià, YEutidemo, il Tediato, il Fedro e la Repubblica.   Senza entrare rpii noi particolari della questiono, (pialo sia I ordino  cronologico delle opere di Platone, dobbiamo intenderci sull'epoca in  cui fu scritta Y Apologia, perchè questo lavoro ci dà la più esatta in-  i rmazione intorno al Saipiviov di Socrate. La maggior parto dogli stu-  .dcigi — c ciò è per noi importante — fa salirò l’origine di quest o-  pcra ad un’epoca non molto distante dalla condanna o dalla morte del  illusolo, l’orsino autori elio sono del parere clic Platone 1 abbia scritta  a Megara, ammettono con ciò (dio questo importante documento ap¬  partiene al suo primo periodo di attivila, scientifica. Allo stesso risul¬  tato giunse Lutoslawski per mezzo del suo metodo stilometrico. Quan¬  tunque si debba riconoscere l’unilateralità di questo metodo e per  •quanto sarebbe arrischiato di fondarci unicamente su di esso, ci co-  -stringono nondimeno ragioni psicologiche di non negargli ogni valore.   Alla questione esposta si connetto quost’altra, cioè, so nell’Apologià  .di Platone si tratti di una fedele riproduzione di quanto Socrate real¬  mente disse davanti al tribunale di Atene, o se si tratti soltanto di  una riproduzione piu o meno fedele del contenuto dei suoi discorsi.  La prima opinione è quella di Schleiermacher (2), della seconda è  Stcinhart (3), elio vede nell’Apologià un'opera d'arte, in cui lo spirito  -socratico o quello di Platone si trovano armonicamente fusi insieme.  Ambedue le opinioni hanno avuto i loro fautori. Considerazioni psico¬  logiche mi hanno condotto nelle duo questioni accennato a con' inzioni  che risultano da quanto seguo.   Come si vuol spiegare l'influenza che quest'opera ha sempre eser¬  citata sui più grandi spiriti della razza umana, o come si potrebbo  comprendere la elevazione morale clic ognuno devo provare in sè,  quando vi si abbandona senza pregiudizio, so non si ammette che essa  suscita nel lettore la convinzione di sentire la parola viva di Socrate  stesso ? Quale valore potrebbo avere questo scritto, se si volesse con¬  siderarlo unicamente come una creazione d'arto, come una descrizione  dell’ideale platonico? In questo caso dovremmo bensì inchinarci da¬  vanti all’autore quale artista, ma in fondo avremmo cosi un Socrate  come Platono avrebbo desiderato che egli fosso, ma non come real¬  mente era. Non stava in Socrato piuttosto la verità incorporata da¬  vanti ad Atene decadente, davanti alla stessa Atene che egli aveva  conosciuta nello splendore del periodo di Pericle? Non era quest uomo  un idealo morale di una tale grandezza elio ogni tentativo di idealiz¬  zarlo maggiormente doveva necessariamente rimpicciolì rio ?   P. Ueberweg, Unters. fi. d. Echtheit u. Zeitfolge piatoli. Schriflen , F. Schle i rum ache R, Plalons Werke, I H. MQli.er e K. Stf.inhart, Plalons sàmmtl. Werke,  Per quali ragioni poi l 'Apologia non fu scritta in forma di dialogo?  Nessuna introduzione, nessuna descrizione dello scenario, nessun nesso  tra i singoli discorsi, nessun accenno a circostanze secondarie inter¬  rompono l'azione in questo meraviglioso documento. Non dovremo con¬  venire che soltanto forti motivi psicologici indussero l’autore ad esporre  cosi lo sviluppo del processo? Non si dimentichi neppure quanto di¬  versamente Socrate parla della morte ne\\'Apologia e nel Fedone, la  qual opera, senza alcun dubbio, fu scritta molto più tardi. Nell’yfpo/ofna  è in verità Socrate stesso che parla, mentre nel Fedone è Platone che  motto, entro la cornice della realtà storica, la propria convinzione in  bocca al suo amato maestro.   Vi sono poi altri fatti psicologici da rilevare. Ricordiamo che Platone  ascoltava un maestro, che aveva seguito con tutto l'ardore del suo en¬  tusiasmo giovanile per lunghi anni, e dal quale emanava un lascino  che faceva dimenticare a lui come ad altri giovani greci la figura di  Sileno clic nascondeva il vero essere del grande innovatore. Ricordiamo  clic Platone era penetrato nello spirito della dottrina socratica come  nessun altro e clic egli solo è stato capace di salvarla interamente  per la filosofia occidentale. Gli orano quindi lamiliari tutti i partico¬  lari esteriori che sono caratteristici por ogni personalità umana o senza  i quali non possiamo neppure rappresentarcela. Conosceva esattamente  il timbro e la cadenza della sua voce, il suo vocabolario, il suo perio¬  dare, i suoi movimenti mimici e pantomimici, in breve tutti i numerosi  fattori clic, secondo la leggo della fusione psichica, cooperano a lar  sorgere in noi l’immagine di una persona a noi nota c che, tutti quanti,  esercitano la loro influenza dormito la riproduzione di un suo discorso.   È inoltro cosa saputa che ogni riproduzione di un discorso riesce  tanto più fedele, quanto piu l'attenzione rimaneva tosa, quanto mag¬  giore era l’interesse che l'oratore suscitava in chi l'ascoltava. Si può  immaginano un’attènzione piu concentrata elio nel caso presente?   Figuriamoci lo stato d’animo del giovano Platone, che pende dalle  labbra del suo maestro e che appercepisce attivamente ogni parola  da lui pronunciata; ridestiamo nella nostra immaginazione l’uragano  di emozioni che lo travolge, le fluttuazioni della sua anima tra la spe¬  ranza ed il timore, tra l'ammirazione della grandezza sovrumana  che si palesa e lo schianto per la certezza della perdita irrimediabile,  e si dovrà convenire elio l’organismo umano forse non sopporterebbe  tali stati d’animo una seconda volta. Sappiamo che emozioni come  queste non passano facilmente, ma (die tornano sempre in nuovo on¬  dato. Sappiamo inoltro che nessun moto d'animo rimane senza espres¬  sione o elio lo singolo persone a questo riguardo si comportano diver¬  samente. Anche l’anima dell’artista lui le sue reazioni ed ogni artista  le ha a seconda dell’arto, alla quale dedicò la sua vita. Ora, anche Pla¬  tone era artista o come tale non potevano rimaner mute lesile emo¬  zioni. Ma egli era anello scienziato, uno scolaro, anzi Io scolaro per  eccellenza, ili quoH'uomo che durante una lunga vita non aveva ccrrato altro ohe la verità. Oli era impossibile di rinchiudere in se ciò  clic aveva vissuto quel giorno. Cosi, appena può, prende lo stile por  dare uno slogo all'emozione olia lo soffoca. li se il suo stato non diede  luogo a fenomeni precisamente nllucinnttfri, nondimeno tutto ciò che  aveva visto e sentito, torna a vivere in lui, conio per il poeta vivono  ed agiscalo lo persone croato dalla sua fantasia.   Cosi, io penso, nacque VApologia platonica. Essa non è un rapporto  stonogralico, perché è certo olle anche questa riproduzione doveva su¬  bire quei cambiamenti che, secondo i risultati della trattazione speri¬  mentale. hanno luogo in tutti i processi riproduttivi. Perciò non ogni  parola ebbe il suo posto originario, un pensiero avrà avuto un'espres¬  sione un po' più breve, un altro una l'orma un po' più lunga, eco., ma  quanto al resto il documento è. come per il contenuto, cosi puro pol¬  la forma tanto fedele, quanto, data la mente Idi un Platone, era uma¬  namente possibile. Con ciò ho esposto II mio punto di vista rispetto  allo due questioni sovracconnatc. No risulta che dobbiamo fondarci nella  nostra ricerca4U/-quanto viene riferito in quest'opera intorno al &ti-  póviov di Socrate. Aggiungo die gli accenni contenuti negli altri scritti  di Platone non contraddicono in alcun modo i dati precisi dell’Apologià.   Per quanto concerno lo opero di Senofonte che ci interessano, bi¬  sogna ricordare che esse furono scritte parecchi anni dopo la morto  di Socrate, o die in esse i.on veniamo mai informati intorno al feno¬  meno da Socrate stesso. Desideroso di dimostrare l'innocenza del grande  filosofo, come puro la ingiustizia dell’accusa c della condanna, Senofouto  metto, convinto, beninteso, di scrivere la verità, il Saipòvcov di Socrate  in relazione colla fedo popolare nello divinazioni. Ciò non può sorpren¬  dere, quando si pensa all'abuso che il popolo di qucH'epoea, già invaso  dallo scetticismo, fece dei divinatori, c quando si tiene presente elio  Souofontc non ora filosofo, ma uomo politico. Per questa ragione non  dove recar meraviglia, se Senofonte non aveva compreso ciò che era  nuovo ed essenziale nella concezione socratica del fenomeno.   In Meni. I, I, 2 è detto clic la divinità (vi Saipòviov) dava segni a  Socrate ed in I, 4 viono aggiunto elio egli comunicava tali messaggi  a quelli clic lo ci re urlavano o elio aveva loro predetto ciò che dove¬  vano faro e ciò elio non dovevano l'aro, come puro elio quelli elio se¬  guivano questi consigli ne ebbero vantaggi, mentre gli altri elio non  li seguivano, dovevano poi pentirsene.   Meni. 1, 4 contiene il noto colloquio con Aristodemo. In 4, 11 Socrate  domanda ad Aristodemo, clic cosa gli dei dovessero l'aro per convin¬  cerlo elio si curavano anche di lui. A ciò Aristodemo, alludendo al  S-x.aó e.'j'i. risponde, un po' ironicamente, che dovevano mandargli dei  consiglieri per fargli sapere quello elio doveva faro e non fare, corno  Socrate pretendeva che fosse il caso spo.   In Cono. 8, 5 Socrate non aveva affatto parlato del suo Sxtgtìvwv o  non no parla neppure in seguito. Antistuno, però, gli fa il rimprovero,  come se egli se no servisse per trarsi d'impiccio.  È evidente che, se non avessimo lo rispettivo, opere platoniche, il  ixigiviov di Socrate sarebbe rimasto per sompro un fenomeno inespli¬  cabile. D'altra parte però le comunicazioni di Senofonte sono di grande  valore, in (pianto che fanno vedere il modo in cui in Atene si giudi¬  cava questo fonomono, ivi assai conosciuto.   Dall' Apologia ili Piatone apprendiamo che Socrate disse nel suo primo  discorso (Apoi. 31 c-d), che egli non si era occupato di altari politici,  perchè succedeva qualche cosa di divino o di demonico (Dstov r. -/.od  Sxqidvtov) in lui, che dai tompi della sua fanciullezza (è-/. r.x'.Sif) vi era  stata in lui una corta voce (qxov^ vi?) la quale, ogni volta che gli so¬  pravveniva, l’aveva trattenuto da qualche cosa, ma che non l’aveva  mai spinto a qualsiasi azione. Nel terzo discorso (40 a-c) Socrate spiega,  come la solita divinazione (r, siioSHtà poi prmxi)) l’avesse nel passato  sovento fermato, trattandosi anche di coso molto piccole (jiàvu érti opi-  xpotg), ma che il segno di Dio (vi r.ù 9-soO a^pstov) non gli era soprav¬  venuto durante tutto il giorno c neppure durante tutto il suo parlare,  mentre durante altri discorsi l'aveva spesso frenato. Dice ancoraché  la morte non poteva essere un male per lui, perché nel caso contrario  il solito segno (vò e!i»9-ò; a^pAv/J l'avrebbe cortamente trattenuto nel  parlare. Alla fine di questo discoi-so (41 <1) ripeto che il morire doveva  ora essere per lui la miglior cosa, perché altrimenti il segno (vo oij-  pstov) l'avrebbe avvertito.   Gli altri scritti di, Platone, dei quali dobbiamo tener conto, non pos¬  sono naturalmente iù avere il valore storico, elio abbiamo attribuito  all’Apologià, ma siccome i rispettivi passi, corno fu già detto, non sono  menomamente in contraddizione con quolli dell' Apologia, essi hanno  certamente un fondamento storico. In ogni modo illustrano, come Pla¬  tone vuole che il Sxwdvwv di Socrate venga inteso.   Nell'Atò/drtde I (103 a) l’autore si servo del fenomeno per iniziare  il dialogo. Socrate dice ad Alcibiade di non meravigliarsi, se da tanti  anni non gli avesse più parlato, perchè un ostacolo di natura non  umana, ma demonica (oùx ivD-piójiswv, àX/.i vi Sxipdviov ivawttopx) gliene  aveva impedito.   ììo\VEulifrone (3 b) questo domanda a Socrate, su che cosa Meleto  abbisi l'ondato la sua accusa. Socrate dico che Meleto gli rimprovera  di introdurre nuovi dei c di non credere negli antichi. E Eutifrono  gli risponde di aver capito ora, che è perchè Socrate parla sempre  del suo Sxtpóviov.   Noi Teetelo (150 c-151 a) Socrate parla della sua maieutica e dico che  molti discepoli l'avevano abbandonato, perchè, non comprendendo la  sua arto, lo tenevano in poco conto. Egli aggiunge che, se tali giovi¬  netti tornavano da lui, il ìoupóviov (ti yiyvò|ìevóv poi Sxqwviov) gli impe¬  diva di accoglierne alcuni, mentre ad altri non era contrario e che  questi facevano di nuovo progressi.   Nell 'Entidemo (272 o), un dialogo, in cui Platone fa vedere tutto  il vuoto ed il poricolo dell'arte solistica, Critono prega Socrate di parlargli di duo solisti. Socrato consento o dico clic il giorno innanzi  ora stato seduto noi liceo od in procinto di andarsene, quando gli ora  sopravvenuto il solito sogno demonico (tò siwà-ò: ay iuCcv tò ìaqiòvt'vv}.  Poreiù ora rimasto seduto o tosto quei duo, cioè Kutidemo e Dioniso-  doro orano entrati.   Noi Fedro (241 a-d) Platone ha già oltrepassato di molto il socialismo  puro e semplice, come risulta dalla spiegazione elio dà dell’anima o  dello ideo. Dopo una meravigliosa descrizione del paesaggio vediamo  corno Socrato o Fodro si coricano sulla sponda dell’Ilisso nell'omhra  di un albero. Socrato ticno il discorso sul bel ragazzo che aveva avuto  molti amanti. Fedro vorrebbe clic continuasse su questo tema, ma So¬  crate gli risponde che, in procinto di attravorsare il fiume, gli era so¬  pravvenuto il solito segno demonico (tò ìxqiòvtòv t= usci tò siiottòs aijgEìovl,  gli era parso di sentire una corta voce (za{ tivx cpiovijv iìi-a aòTò!M=v  àzoùoai), elio lo impediva di andare via prima di essersi purificato da  un peccato commesso contro la divinità. Dice ancora che egli deve essere  veramente un divinatore, ma soltanto per ciò elio riguarda lui stesso,  e continuando rileva dm la sua divinazione rassomiglia all'arte di  quelli che leggono c scrivono male, perché anche questi possono ser¬  virsene soltanto per i propri bisogni. Con ciò egli passa man mano  agli splendidi discorsi elio tutti conoscono. — Platone si serve in que¬  st'opera con arte line del ìaqiòviov in modo similo a quello in cui so n'è  servito ncll’AHbiado e neU’Eutidcmo. Egli introduce il fenomeno per  rendere possibili i discorsi che seguono.   Nella Repubblica (VI, 496 c) Socrato dice elio il segno demonico (tò  ìaqiòviov ovjiietovJ non era stato concesso a nessuno prima di lui o quasi  a nessuno.   So analizziamo più da vicino il problema, vediamo che esso rac¬  chiudo in sé tre problemi clic dobbiamo risolvere l’uno dopo l'altro.  S’impone prima di tutto il quesito, corno mai Socrate abbia potuto  -chiamare il fenomeno in questione tò ìaqiòviov. A questo si connette  l’altro, cioè di sapere che cosa Socrate stesso abbia realmente inteso per  questo termine. In terzo luogo dobbiamo corcare, come la psicologia  empirica moderna possa spiogare questo fatto. II primo quesito e, fino  ad un certo punto, anemie il secondo fanno parte della psicologia dei  popoli, mentre il terzo appartiene esclusivamente alla psicologia indi¬  viduale.   I. Il significato del ìaqiòviov di Socrate dal punto di vista della psi¬  cologia dei popoli. — 11 concetto del demone è sorto da primitive ve¬  dute attorno all’anima. Esso ha avuto poi un lungo sviluppo, duranto  il quale, sotto l’influenza di rappresentazioni magiche, subisce molte  trasformazioni e acquista varie forme. All’epoca in cui appare l’eroe,  questi 'lue concetti si fondano man mano in una rappresentazione to-  talo, nella quale il concetto del demone perde il suo carattere imper¬  sonale, mentre l’eroe acquista dolio qualità sovrumane. Cosi nasce il  panteismo. Importante è però in tutto questo sviluppo, che la rappresontazione ilei demono non si perdo dopo la formazione degli dei pa¬  gani o elio corto qualità ili questi ultimi vengono attribuite anche ai  demoni. Per ciò accado olio lu coscienza popolare non distinguo sempre  nettamente tra dei e demoni. Nella Grecia il concetto del demone, sotto  l'influenza della poesia e della filosofia, subisce poi un’altra modifica¬  zione, in quanto i demoni vengono considerati come esseri elio stanno  tra gli dei o gli uomini. Si confronti a questo proposito la descrizione  deH'origino dell'Eros nel Convito di Platone (802 dj, come pure il primo  discorso di Socrate nel .['Apologià platonica (27 c).   Dal punto di vista della psicologia dei popoli si può diro elio col  «aipóviov di Socrate il concetto del demono torni nell'anima umana,  nella quale, per motivi psicologici e per processi di oggettivazione, è  nato, vi ritorna filosoficamente trasformato ed eticamente purificato (1).  E caratteristico per tutto questo sviluppo elio Socrate nel Convito di  Senofonte chiama l'anima umana un santuario dell’Eros (Vili, 1). ,   2. Come intende Soci'de il suo 8*i|lòviov ? — Prendo le mosse da un  punto ilei primo discorso AoW Apologia di Platone e precisamente dal  punto, ove Socrate invita Meleto a spiegare esattamente, se egli nella  sua accusa intenda di diro clic Socrate non creda negli dei dello Stato,  o so egli voglia addirittura accusarlo di ateismo. Quando Meleto an¬  nuisco a questNiltima interpretazione, l’accusato corea di far vedere  l'assurdità dell'assorziono, dimostrando dapprima che, chi crede in qual¬  che cosa di demonico, devo necessariamente riconoscere l'esistenza ili  demoni. E quando Meleto devo nuovamente ammettere che i demoni  sono figli di doi, la partila è ila Scorato quasi vinta. Comesi può ere-  dorè all’esistenza di tigli dogli dei, egli conclude, senza credere con ciò  anche a quella degli dei stessi ? Difatti, i giudici elio lo ritenevano  colpevole, erano in piccola maggioranza.   Se prendiamo questo passo insieme con quanto Socrate dice ancora  ilei suo 2xi|ióvtov o del suo concetto della divinità, abbiamo in mano la  chiave per la sua concezione del fenomeno. Faccio qui ancora notare  che intendo il termini vó ìzciivtov nelle opere di Platone, secondo l'os-  sorvaziono dello Schlcierinacher (2), nel senso di un aggettivo. Dico  questo per respingere l'opinione che Sperate abbia creduto in uno spe¬  ciale spirito custode.   Socrate scoglio il termine iò Saupòviov in conformità alla fedo popo¬  lare. Come i demoni, secondo questa, stanno tra dei o uomini e ven-  .,gono detti persino ilei, perchè da dei generati, cosi anche il demonico  in lui è generato dalla divinità. Per questo lo chiama anche tó 3-iCov,  il divino. Il nesso psicologico mi sembra qui evidente. Abbiamo qual¬  cosa di s'inilo nella designazione del suo metodo, il quale egli credeva  puro impostogli dalla divinità (Teeteto 150, o). Come a baso di tutte   (1) Clr. W. Wu.ndt, m/terpsi/eholOjfie li, 2, p, 3iìS. 19 ni; Clemente der  VSt/cerpsi/chol.,(21 Op. cd., p. 309. — Cfr. puro B. E. Uaonaiihtks, The Ctnssical Retitelo,  XXVIII, ri, p. 185. 1911.    lo azioni di Socrate sta il bisogno etico della cortezza(1), cosi egli è  assolutamente certo che in casi, in cui la propria ragione lo lascia in  asso, una volontà divina lo trattiene in ogni circostanza, piccola o  grande, dolla vita, quando è in pericolo di non agire giustamente, cioè  di non compiere la sua missione. In questa cortezza, che forma una  parte della sua fedo religiosa, sta la giustificazione otica dolla ironia,  colla quale egli lancia l'accusa indietro sull’avversario. Ma oltre ad  essere qualche cosa di divino, il demonico in Socrate è poi anche qualche  cosa di umano, perché si produce nell’anima umana o diventa sua pro¬  prietà, cioè un oracolo interiore. Per ciò il demonico stava veramente,  come il demone della mitologia, in mezzo tra il divino e l'umano. Si  aggiunga elio Socrate ora in fondo persuaso che prima di lui questo  dono non era stato posseduto da nessun altro mortale. Ecco ciò che  vi ha di nuovo nella concezione socratica della divinazione, di fronte  a quella della fede popolare. Como dalla Repubblica di Piatone, questo  fatto risulta anche dalle superbe parole, colle quali Socrate si esprime  sul suo valore davanti ai suoi giudici (Apoi. 31 a-38c). Tali parole  può pronunciare un ammalato di mente, che si deve compatire, ma  quando escono dalla bocca di un Socrate, sono l'espressione di una pro¬  fonda convinzione religiosa, che deve scuotere chiunque miri a tini  etici. Importante è per la fede di Socrate che egli non cerca di scol¬  parsi in quanto al non credere negli dei dello Stato, ma solo in quanto  al sospetto di avere delle convinzioni ateistiche (Apoi. 35d).   Por quanto concorno la teologia socratica, elio al pari della sua  etica doveva rimanere ili carattere pratico, anziché sistematico (2),  è importante ricordare che Socrate trovò nella sua naz.iono il poli¬  teismo ellenico, corno Cristo trovò nella sua il monoteismo giudaico.  Socrate era, come ogni essere umauo, un tiglio del suo tempo. Educato  in (inolia religione ogli si riteneva, come Cristo, esteriormente legato  allo prescrizioni religioso in vigore. Come prendeva sul serio la mas¬  sima di Delfo: conosci le stesso, cosi rispettava l'altra di ubbidire alle  leggi. L’ultima parola del filosofo morente era la raccomandazione di  non dimenticare il sacrificio dovuto ad Esculapio (Fedone. 118), e poco  prima aveva domandata all'uomo, elio gli portava il calice fatale, se  ora permesso di farne una libazione. In questo modo Socrate non rag¬  giunse l'altezza dolla dottrina del Nazareno, ma si avvicina ad essa,  perchè sulla*larga base della religione popolare si eleva, quale sintesi  della sua conoscenza, la fedo in un Dio unico, al quale si deve ubbi¬  dire più che non agli uomini (Apoi. 29 d) c di cui egli si credeva un  apostolo (Apoi. 31 a). Socrate è tolcrautc verso la fede della moltitu¬  dine, ma il suo Dio è l’intelletto che governa l’universo e per il quale  non trova neppure un nome, un Dio onnisciente ed onnipresente, che    (1) A. Labriola, Socrate. Nuova edizione a cura di B. Croce, p. 5, 35, 76,  80 seg., 86 seg., 88 sei;., 150 si>g., 176, 274 seg. 1909.   (2) Cfr. A. Labriola, op. cit., p. 151, 155, 179 segg., 250 segg., 271 segg.        si cura ilei Leno di tutti gli nomini (Sonof., Meni. I, 4). Tutte le sue  pratiche religioso sono in fondo rivolto n quest'unico Dio senza nomo,  clic si rivela agli uomini in molti modi. Con una espressione di ledo  in questo Dio onnisciente, si chiudo ì'Apntoi/ia platonica(l). Tenendosi  presente questo concetto della divinità, si comprendo la sua incrolla¬  bile fede nel S»tpóvtov come in una rivelazione della medesima.   Il l'atto che il plurale oi '.Hol si trova in Platono come in Senofonte  accanto al sì neolaro 6 tei? potrebbe destare il sospotto elio Sorrato  accanto all'intelletto universale abbia ammesso ancora dolio altro forme  divino. Ma ciò è escluso. Egli sceglie il plurale in modo simile come,  per es., nella Genesi il plurale Eloliim sta por il singolare della di¬  vinità. Non è qui il luogo ili entrare in altri particolari. Ricordo sol¬  tanto elio troviamo precedenti in Senofane e che audio Anassagora  aveva già riconosciuto un unico principio immateriale che tutto or¬  dina secondo lini. Cho Socrate abbia conosciuta l'opera di Anassagora,  apprendiamo direttamente da Platone (Fedone. U7).   Non ho bisogno di rilevare che, con quanto fu esposto, sono sen¬  z’altro respinte le opinioni di Lèi ut o di altri, cho considerano Socrate  come un ammalato di mente, come pure il parere di Dii l’rel, che  mette il Sxqidvtov di Socrate in relazione collo proprio teorie mistiche (2).   3. // 8r.pó/tov di Sacrale dal punto di vista detta psicologia empirica  moderna. — So teniamo conto di tutti i fatti che Platone ci presenta,  è evidente che nel «atpivtov di Socrate si tratti ili un processo che ap¬  partiene al campo delle inibizioni psichiche. Naturalmente non può  trattarsi qui di una inibizione nel senso della dottrina intcllcttuuli-  tstica di Horbart. Ciò che nel nostro caso è inibitorio, non appartiene  all'atto al contenuto oggettivabile della coscienza umana, ma si trova  piuttosto dalla parte puramente soggettiva di essa, cioè da quella dei  sentimenti. Da questo punto di vista dobbiamo cercare di risolvere il  problema. L’inibizione procede da un sentimento totale, che si forma  in base ad un numero più o meno grande di intensivi sentimenti par¬  ziali, legati ad clementi rappresentativi che rimangono al limito della  coscienza e che non giungono all’appercezione. Con questo è inteso,  che non può trattarsi nel caso di Socrate, come è stalo ripetutamento  affermato, di processi allucinatoci (3). Nel fatto che l’inibizione parte  da un sentimento, al quale non corrisponde un contenuto oggettivo,  sta la ragione, perchè Socrato non può fare alcuna indicazione precisa    (l) Cfr. pure (I. /Cuccanti:, op. cit., pirte IV, c«p. XIII.  tX) F. I.ÉIX'T, L)it itóiiion de Si,croie ni. 1 4556. — C. Du Prel, Ine Ma¬  stiti d. alt. (ìrieclien, p. 121 seg. 1.333. E caratteristico che Du Prel l'accia uso  ilei Teapele , benché riconosca che questo non sia un'opera di Platone.   d) Cile Platone colla frase nel Fedro “ xxt -iva ipiovijv £So;a xùxcàsv ày.ofkJx: „  non vuol alludere ad una allucinazione, dimostra con molta chiarezza anche lo  Cuccante (op. cit., p. 372). Si aggiunga che. se il Szqicvtcv di Socrate avesse  tale origine, questo si rileverebbe in tutti i rispettivi racconti platonici, ciò che  non è assolutamente il caso.    - intorno al fenomeno, ma (leve in casi, in cui non lo chiama semplice¬  mente il demonico o il divino, contentarsi di termini metaforici. Parla,  ad es., di una voce, come oggi si usa il termine “ voce della coscienza,,.  Questo sentimento, sorto dapprima per via associativa, viene poi atti¬  vamente appercopito e, riferito alla divinità, acquista il carattere di  un motivo imperativo che, coll'intensità di una forza morale, lo co¬  stringe ad abbandonare un'intenzione presa. Dal fatto cho l’inibizione  viene da Socrate creduta un segno divino, si comprendo elio in lui  non possono mai nascere dei dubbi, come accadrebbe con altro persone.  Non vi è mai in un tal caso una lotta tra motivi in lui, mai alcun  conflitto tra doveri. Appena egli s'accorge dell’inibizione, è assoluta¬  mente sicuro di aver avuto trasmesso un divino “No,.. Cosi la rifles¬  sione o la fedo nel suo Sztjióv»/diventano i principi fondamentali, che  lo guidano nella sua intera attività filosòfica ed etica.   In ultima analisi si tratta qui di un fatto psichico clic si verifica in  ogni coscienza normale più o meno frequentemente, benché molte per¬  sone non lo osservino o non si lascino da esso frenare. Di James Stuart  Mill ci viene riferito elio egli osservò il fenomeno in se stesso molto  intensamente (1). A me molte persone hanno dotto di aver notato in  sè tali inibizioni sentimentali. Siccome Socrate ci informa che egli  aveva osservato il fenomeno spesso in sè dai tempi della sua fanciul¬  lezza, non è escluso che vi sia stata in lui por lo sviluppo di esso una  certa disposizione. Ma d'altra parto si devo ricordare (dio egli per tempo  si abituò a fare molto sul serio l'esame di se stesso o cho il fenomeno  era una parte integrale della sua fede religiosa. Dal momento cho egli  era corto cho il sentimento inibitorio era una rivelazione divina, questa  convinzione doveva dominare tutta l’anima sua. Dato questo continuo  autoesame in connessione collo sviluppo (lolla sua convinzione teolo¬  gica, si comprendo, come dovesse entrare in giuoco un principio che  governa ogni vita psichica, cioè quello dell’esercizio. L’ininterrotto  esercizio doveva renderlo capaco di riconoscere l'inibizione di ogni  grado appena sorta e di afferrarla coll'attenzione. Si aggiunga (die la  coscienziosità colla quale cercò continuamente di compiere la sua mis¬  sione, e colla quale mirava sempre ai medesimi lini, doveva renderlo  straordinariamente sensibile o facilitare la formazione di tali senti¬  menti. Cosi si spiega il frequente ripetersi del fenomeno in tutto lo  sue azioni. Io credo clic, con quanto fu esposto, siano trovati i punti  principali «he debbono guidarci nella spiegazione psicologica del Sacgóviov  di Socrate. Tornerò sull’argomento in un lavoro più esteso, ed in questo  sarà tenuto conto delle opinioni di altri autori più di quanto mi è  stato possibile di fare in questa breve comunicazione.    (1) G. Zuccante, op. cit., p. 378. JL ~jt    e 3    Federico Kiesow. SOCRATE   ET    VoAmour Grec. SOCRATE   ET   IPAmour Grec   ( Socrates sanctus nai Sepaatrjs )   D1SSERTATlON DE   Jean-Matthias GESNER   Traduite en Francais pour la premiere fois  Texte Latin en regard   Par Alcide BONNEAU PARIS   Isidore LISEUX , Editeur  Rue Bonaparte, jegg^arean-Matthias Gesner, 1’auteurde  «JgE cette curieuse dissertation, est  I S&fe l un erudit Allemand du xvm e sie-  cle, dont les travaux ne sont pas tres-  connus en France. On lui doit d’excel-  lentes etudes sur les Scriptores rei rus-  ticce , une Chrestomathie de Ciceron,  une Chrestomathie Grecque , des Lexi-  ques, une traduction Latine des ceu-  vres de Lucien, des editions de Pline  le jeune, de Claudien, de Quintilien,  de Rutilius Lupus et autres anciens    a    rheteurs, toutcs enrichies de notes sa-  vantes et de longs prolegomenes; plus,  un nombre formidable de dissertations  sur toutes sortes de sujets, Opuscula di-  versi argumenti (Breslau, 1743-45, 8 vol,  in-8°), parmi lesquelles son Socrates  sanctus pce der asta tire forcement l’oeil  par la bizarrerie de son titre.   Cette bizarrerie a valu au livre sa no-  toriete, et en meme temps lui a fait grand  tort. Beaucoup de gens, entre autres  Voltaire, malheureusement pour 1 ’erudit  Tudesque, n’ont pas ete au dela, et iis  ont construit sur cette minee donnee un  ouvrage tout entier de leur fantaisie, a  1 ’extreme desavantage du pauvre Gesner.  D’autres ont cru Voltaire sur parole et  sont arrives au meme resultat.   C’est Larcher, THelleniste, qui le pre-  mier chez nous mit en lumiere cet opus-  cule, dans son Supplemenl & THistoire  universelle de labbe Bapn (1767, in-8°),  en le citant parmi les ouvragcs a consulter sur le proces de Socrate ; il se  contenta d’en faire mention, sans meme  traduire ni expliquer le titre, ne s’ima-  ginant pas qu’on put s’y meprendre, et  qu’un homme tel que Gesner fut suppose  capable d’une indecente apologie. Vol-  taire, dont le vif et alerte esprit se plai-  sait a effleurer les surfaces, sans presque  jamais approfondir, ne connaissait sans  doute pas Gesner et certainement n’avait  pas lu son Socrates. Le Supplement a  VHistoire nniverselle n’etait d 7 ailleurs  qu une refutation tres-savante, quoique  un peu lourde, de son Introduction a  1'Essai sur les maeurs , publiee d^abord a  part et sous le pseudonyme de 1’abbe  Bazin; quelques critiques justes qu’on y  rencontre le mirent de mauvaise humeur ,  et, battu sur divers points d’erudition, il  chercha une occasion de dauber Larcher,  a cote du sujet, selon son habitude. Il  crut la trouver dans le livre etrange qu’il  supposa, d’aprcs le titre cite qu’il interpretait mal, s’indigna de ce qu’on osait  donner comme faisantautoritedesimons-  trueuses elucubrations (le monstrueux  n’etait que dans ce qu’il imaginait), et  tantot sous le pseudonyme d’Orbilius,  tantot sous celui de M Ilc Bazin ( Defense  de mon oncle, un de ses pamphlets), il ne  cessa de poursuivre la-dessus de ses bro-  cards son inoflensif adversaire. Tres-  content d’avoir leve ce lievre, il a meme  reproduit son assertion plus que hasardee  dans le plus populaire de ses ouvrages ;  on la trouve en note de 1’article Amour  socratique , du Dictionnaire philosophi-  que. « Un ecrivain moderne, nomme  Larcher, repetiteur de college, dans un  libelle rempli d’erreurs en tout genre et  de la critique la plus grossiere, ose citer  je ne sais quel bouquin dans lequel on  appelle Socrate Sanctus pcderastes ; So-  crate saint b ! Il n’a pas ete suivi   dans ces horrcurs par 1’abbe Foucher. »  Larcher avait trop beau jeu pour ne pas repliquer. II le fit dans sa Repons e .  la Defense de mon oncle (1767, in-8°),  opuscule rare, reimprime a la suite du  Supplement a 1’Histoire universelle :  « Vous m’attribuez , dit-il a Voltaire,  votre infame et infidele traduction du  titre d’une dissertation de feu M. Gesnera  Je n’ai point traduit le titre de cette dis-  sertation ; il ne pouvait se prendre que  dans un sens tres-honnete, mais il etait  reserve a M lle Bazin et a Orbilius de lui  en donner un infame. Cela ne vous suf-  fisait-il pas? Fallait-il encore me 1 ’im-  puter? »   Pour qui avait suivi toutes les phases  de la discussion, Larcher et Gesner etaient  innocentes; Voltaire restait convaincu  d’avoir note dfinfamie un livre sans le  connaitre. Mais ces temps sont loin ; per-  sonne aujourd’hui ne lit Larcher pour  son plaisir, et le Dictionnaire philoso-  phique est dans toutes les mains. Voila  pourquoi on croit generalement que Ges~     ner a developpe le plus scabreux des pa-  radoxes et fait une apologie en regie d’un  vice honteux. Nous pourrions citer au  moins un de ceux qui, se fiant a Voltaire,  ont propage 1’erreur mise par lui en cir-  culation, et affirme que cette dissertation  n’est qu’un tissu d’invectives ; mais nous  ne voulons faire de la peine a personne.   Gesner, ecrivain des plus doctes et plus  estime encore pour son caractere que  pour son savoir, professeur de Belles-  Lettres a TUniversite de Goettingue, puis  bibliothecaire de cette universite, ne pou-  vait ecrire qu’une defense de Socrate,  une refutation des calomnies dont on a  obscurci sa memoire, et que la langue a  attachees a son nora d’une maniere en  quelque sorte indelebile par les mots de  socratisme et d 'amour socratique. Inquiet  et tourmente, comme il 1’assure, de voir  peser sur le pere de la Philosophie de si  indignes soup9ons, il a voulu remonter  aux sources, compulser tout le dossier  et reviser le proces sur les pieces memes.  II l'a fait d’une facon non moins inge-  nieuse que savante dans cette disserta-  tion lue a 1 ’Academie de Goettingue en  fevrier 1752, recueillie dans les Memoires  de cette academie (t. II, p. 1), dans les  Opuscula diversi argumenti de 1 ’auteur  et tiree a part en 1769 (Utrecht, in-8°).  C’est cette derniere edition que nous  avons suivie pour la reimprimer et la tra-  duire, ce qui n’avait jamais ete fait en  Francais, ni probablement dans aucune  autre langue. Gesner a-t-il reussi a dis-  culper entierement Socrate? Nous l’es-  perons; mais nous etions de son avis  avant d 7 avoir lu son livre, et, ccmme per-  sonne ne 1’ignore, c’est surtout chez ceux  qui pensent comme lui qu’un auteur, si  bon dialecticien qu’il soit, porte la con-  viction. Les esprits mal faits qui incli-  nent a 1’opinion contraire, et ceux-la  seront toujours difficiles a persuader,  persisteront peut-etre a trouver singulier que Platon, interprete de Socrate, ait si  souvent parle de 1’amour; qu’il ait con-  sacre trois de ses plus beaux dialogues,  le Lysis , le Phedre et le Banquet , a cette  brulante passion; qu’il l’ait tant de fois  soumise aux analyses les plus delicates,  expliquee par les conceptions les plus  sublimes, les mythes les plus poetiques,  et que jamais, sauf un moment, dans  l’admirable episode de Diotime du Ban-  quet , il ne soit question de la femme.   Alcide Bonneau.   UTRECHT es hommes illustres, ceux qui sont  regardes comme tels non-seulement  par la posterite, mais par leurs  contemporains, ceux surtout dont le  plus grand eclat consiste precisement dans  leur vertu, sont souvent accuses, sur les plus  legers indices, de quelques travers, sinon  de defauts plus graves; et c’est la un travers    iros illustres, et non a posteris solis sed  coaevis tales habitos , eos maxime quorum  praecipua laus virtutis est , vitii alicujus  nedum criminis gravioris suspicari levibus ar-  gumentis, vitium id quidem non leve : reos agere  et condemnare crimen et piaculum ; in Christiano  homine, in homine , in barbaro.   Quanta istorum ignominia, tanta est gloria  piorum virornm qui versantur in probrosis his  l’editeur   qui Iui-meme ne manque pas de gravite. Se  faire a la fois 1’accusateur et le juge, c’est  une chose criminelle, un sacrilege, qu’il  s’agisse d’un Chretien, ou seulement d’un  homme, meme d’un paien.   L’ignominie de ceux-la rehausse d’autant  la gloire des hommes pieux qui s’appli-  quent a repousser ces odieuses attaques.  On peut le dire de Gesner, ce savant illus-  tre, du petit nombre de ceux qui depas-  sant par la science tous leurs contempo-  rains, font encore plus estimer en eux les  qualites du coeur que celles de 1’esprit ;  c’est un honneur pour lui d’avoir pris en  main la cause de Socrate, et un plus grand  peut-etre pour Socrate d’avoir dte le Client  de Gesner.   II nous a paru bon de recueillir dans  une edition nouvelle cet ouvrage de faible    conatibus coercendis. Gesnero, illustri nomini , e  numero paucorum illorum qui cum eruditione  coaevos possint excellere, animi dotibus quam  ingenii celebrari malunt, incertum an honori sit  caussam Socratis egisse, magis quam Socrati  Gesnerum habuisse patronum.   Visum fuit , memoriam brevis operae sed auro  contra noti carae nova editione colere. Docuit  vir praeclarus , scripto quidem, quam inani co-  natu virtus summi hominis sollicitata fuerit ab  obscuris obtrectatoribus , qui non solent deesse  virtuti. Docuit autem exemplo, pertinere ad dimension, mais qui ne serait pas trop  cher paye au poids de For. Son excellent  auteur nous y montre, la plume a la main,  1’inanite des efforts diriges contre un sage  par ces obscurs detracteurs qui ne man-  quent jamais a lavertu; il nous fait voir  aussi, par son exemple, qu’il appartient a  tout honnete homme de defendre la cause  des gens de bien. II nous enseigne surtout  avec quel soin et avec quelle erudition il  est besoin d’ecrire dans de telles matieres,  ou l’on ne doit rien avancer qu’apres un  examen scrupuleux.   Profite donc, lecteur, de ce travail, plus  utile qu’il ne le semblerait au premier  abord; et si, par ignorance ou par trop  forte credulite, tu as rejetd loin de toi les  ecrits Socratiques, reprends-les maintenant  et garde-les avec amour. Il nous sera per-    bonos omnes bonorum virorum caussam : tum et  illud, in primis, ubi ejus modi res agitur, accu-  rate et docte scribendum esse, nec arripi quid-  piam absque subtili examine, et benevolo illo ,  debere.   Fruere, Lector , labore utiliori quam decet : et  si imprudentius forte abjeceris Socraticas char-  tas nimium credulus, abi continuo et in sinu  eas reconde. Integrum erit culpare qui Socratem  citant, tibi convenisset laudari Davidem et Sa-  lomonem : sed patiamur , bonum et pauperem  Socratem . , placide subridentem , sereno vultu ,    xvi l’editeur au lecteur   mis a notre tour de mettre en accusation  ceux qui font un crime a Socrate de ce  qu'ils trouveraient admirable s’il s’agissait  de David et de Salomon ; mais laissons le  bon et pauvre Philosophe s’interposer dou-  cement avec son placide sourire, son tran-  quille visage, et s’ecrier : Moi aussi, Vertu,  je t’ai honoree, Deesse !   Quant a ceux qui blameront cette apolo-  gie, non comme excessive, grands dieux,  car que pourrait-on dire de trop sur So-  crate ? mais comme inconvenante et depla-  cee, qirils prennent garde de tomber dans  Todieux de cette populace Portugaise tou-  jours prete, sinon a lapider ou a bruler,  du moins a exorciser a force de signes de  croix traces d’un doigt tremblant, le teme-  raire qui oserait croire que la Bienheu-  reuse Vierge Marie etait une Juive.    leniter interponere, Et ego te, Virtus ! colui  Deam,   Quibus fastidium movent elogia, justa Di boni!  quid enim de Socrate dici nimium potest? sed  quce magis opportune forsatn collocari potuis-  sent, videant ne in odium id evadat, quale est  plebis Lusitanae, si non rogum parantis aut la-  pides, saltim tremente digito averruncas cruces  describentis, si quis auserit credere, B. Virginem  Judaeam fuisse.      SOCRATE   ET    L’Amour Grec     IO. MATTHI. GESNERI V. C.   Socrates   SANCTUS T/E D E T{A STA    t nihil tam alte vel natura , vel  virtus , vel fortuna constituit, in  quo non vel deprehendatur ali-  quid labis et vitii , vel vires suas experia-  tur maledica invidia , cujus vocibus boni  etiam viri abripi se ad suspicandum certe  non nunquam patiuntur : ita mirum non  est , neque excelsam Socratis gloriam      Socrate   ET   L’qAMOU% g%ec    1 n’est rien de place si haut par la  nature, la vertu ou la fortune,  qui n’ait ses taches ou ses inv  perfections, ou que 1’envie ne s’efforce  d’atteindre, cette medisante envie dont  les clameurs poussent 1’homme de bien  lui-meme a soupconner le mal : c’est  pourquoi nous nc devons point nous obtrectatoribus suis carnis se. Ac de  Anyti Melitique criminibus, quibus op-  pressus est vir innocens , et, si forte vani-  tatis aut nugarum et cavillationum pos-  tulatus, et Scurrae nomine traductus est (i),  in prcesenti non erimus soliciti. Unum  crimen est, quod, varie jactatum, et plus  semel non sine specie in scenam reduc-  tum scepe me solicitum habuit, Fuerit ne  impuro ac detestabili puerorum amori  deditus? Hoc enim si verum sit, actum  est profecto de virtute viri, indignus est  cujus cum honore nomen usurpetur.    2. Postulatum esse hujus turpitudinis,  negari non potest. Mittimus , quae de  adolescentia viri ad libidinem proclivi    (i) Factum id esse a Zenone Epicureo, prodidit  Cic. de Nat. Deor. i, C. 34, ubi vid. Davis.   etonner que lagloire si haute de Socrate  ait eu, elle aussi, ses detracteurs. Tou-  tefois nous ne voulons ni parier ici des  accusations d’Anytus et de Melitus sous  lesquelles succomba son innocence, ni  nous inquieter de savoir si ce grand  homine a ete incrimine de vanite, de  mensonge et de sophisme, affuble du  surnom de Bouffon[i). Une seule accu-  sation m’a souvent tourmente ; c’est  celle qui, sans cesse discutee, a toujours  ete remise en avant, non sans apparence  de justesse: Socrate etait-il adonne d  l’impur et detestable amour des jeanes  gargons ? Si cela est vrai, c’en est fait des-  ormais de la vertu de cet homme ; c’est  un indigne, lui dont on ne prononce le  nom qu’avec respect.   2. Qu’il ait ete accuse de cette turpi-  tude, le fait est certain. Negligeons ce  que Porphyre, d’apres Theodoret [De la    (i) Comme le fait PEpicurien Zenon, au dire de Ci-  c6ron {De Natura Deorum , i) ; consuit, la-dessus  J. Davies.    i .    Porphyrius apud Theodoretum [Graecar,  affect. cur. ser. 4 pr.) memorat : nam  ibidem additur , illum c-ojo^ xat oioayrj  xouxou? a^aviaat xou; xurcous, impressas ve-  luti notas libidinum studio ac doctrina  abolevisse (1). Neque valde huc faciunt ,  quce ex eodem Porphyrio , qui Aristo-  xeno auctore usus sit, idem Theodore-  tus (Serm. 12 p. iy5, 8) memorat, par-  tim quod ad adolescendam primam viri,  de qua nobis sermo non est, pertinent ,  partim quod Archelaus Anaxagorae dis-  cipulus, honestus amator (spaax 7 ]$) ipsius  fuit. Ejusdem generis est, quod Cyrillus  (contra Julia. 6, p. 186, D) ex eodem  Porphyrio (in Historia Philosopha , libro  olim deperdito) refert , Socratem -po; xr ( v  twv aopootatwv yp7jatv acpo Spdxspov p.sv sivac,  aoizov os p.rj -poasTvat. t\ yap xaT;Ya[j.sxaT;, vj xat?  •/.oivat; y prjaQat fj-ovat?. Fuisse ad res venereas  aliquantum vehementem, sed injuriam  abfuisse, qui vel uxoribus solis, vel    (1) Conf. quae in fra de mali equi Socratici notis  dicentur. § 18.    et l’amour grec 7   cure des prejuges des Grecs , Disc. iv),  raconte de sa jeunesse, laquelle aurait  ete encline au libertinage ; 1’auteur  ajoute, en effet, au meme endroit qu’il  parvint a effacer en lui, par Venergie de  sa volonte \ jusqu’aux traces meme des  passions (i). Ne nous occupons pas non  plus de ce que le meme Theodoret  (Discours xn) emprunte encore a Por-  phyre, qui lui-meme suivait Aristoxene,  c’est-a-dire de ce qui se rapporte a la  premiere jeunesse de Socrate (elle n’est  pas en cause), et a ce disciple d’Anaxa-  goras, Archelaus, qui aurait ete, en tout  bien tout honneur, un ami fervent  (!pa<j-r]s) du philosophe. A la meme cate-  gorie appartient ce que S. Cyrille  [Contre Jidien, 6) a extrait de YHistoire  philosophi que de Porphyre, livre aujour-  d’hui perdu : a savoir que Socrate et ait  violemment pousse aux choscs de ia-  mour, mais qiiil s’abstint de faire tort a   (i) Voyez ce que l’on dit plus bas des marques  du « mauvais cheval Socratique. »      (quam diu caelebs esset) communibus  uteretur. Nondum quidquam ex Por-  phyrio vel Aristoxeno, quem ille aucto-  rem sequitur, allatum est de horribili  scelere, Pcederastia : quod praetermissu-  rus non erat, qui satis hic in Philosophice  parentem iniquus est, Cyrillus. Decla-  mat igitur praeter rem Socrates alter  (Hist. Eccles. 3, 23, p. i gj, D), cum ita de  Porphyrio narrat, IIopcpupio; xou xopu^aio-  xaxoa xoiv <piXoao<ptov, Scoxpaxous, xov [3''ov oietu-  psv £v ifi YsypaixpiEvr] auxai <piA oaoow toxopta, xai  xoiauxa Tuept auxou ypa^a;xaxdXi7TEv, oia av p.7]xs  MeTaxo;, p.r[x£ v Avuxo; oi jpa^aixsvoi Swxpaxrjv  ItTictv e-zyjiprjGxv, ita traductum, ait, a  Porphyrio Socratem, talia de viro scripta,  quae neque accusatores ipsius Anytus et  Melitus dicere in ipsum ausi sint. Acci-  pimus, quod negat objectam in judicio  turpitudinem talem Socrati, quo nempe  argumento constet, famam viri hac tum  macula caruisse. Sed nec a Porphyrio  plura aut turpiora his memorata, quae  jam vidimus, satis illud argumento est ,  quod iniqui Socratis glorice homines,     personne, en riusant jamais que de ses  propres femmes ou , durant son celibat,  des femmes qui apparticnnent a tout le  monde. Nulle part, soit chez Porphyre,  soit chez Aristoxene que Porphyre co-  piait, il n'est rien allegue de cet horrible  crime : Pederastie ! II ne Paurait point  passe sous silence, ce Cyrille si injuste  envers lepore de la Philosophie. IPautre  Socrate ( Histoire ecclesiastique, m, 23 )  avance donc une insigne faussete lors-  qu’il dit : « Porphyre a compose la vie  de Socrate, le coryphee des philosophes,  d’apres les histoires ecrites sur lui ; et il  nous a transmis, d Vaide de ces docu-  ments, des choses si monstrueuses que les  accusateurs de Socrate, Anytus et Meli -  tus, n’ont pas meme ose' les lui reprocher. »  Retenons seulement de ceci Taveu qu’on  n’en fit pas un grief a Socrate, lors du  jugement public, ce qui ressort de la  phrase elle-meme, et que cette tache fut  alors epargneeT a sa renommee. Mais  Porphyre n’a pas rapporte autre chose  ou des choses plus monstrueuses que ce    Cyrillus ac Theodoretus, non plura pro-  tulere, quibus fuerant haud dubie cau-  sam suam , si res facultatem dedisset,  ornaturi.    3. Nempe nec Aristophanes , qui cor-  ruptce ad impietatem et calumniandi ar-  tem juventutis accusat in Nubibus Socra-  tem . hujus criminis ullam mentionem  facit , non omissurus profecto , si illud  adhaerescere posse putasset. Nec forte  quisquam est ex omni antiquitate remo-  tiore illa, et temporibus Philosophi pro-  pinqua . , serius et severus accusator hujus  criminis. Lusit inter posteriores, pro  petulanti illo ingenio suo, Lucianus (de  CEco, ita enim potius dicendus erat ille  libellus quam de Domo, c. 4 , T. 3, p.  ig 2 , 83) cum accusat Socratem, qui non  erubuerit advocare Musas, virgines,  cuvsaojjiva; ia -aiBepaama, ut audirent  illos de puerorum amore sermones. At-  qui illi sermones, uti mox videbimus.   que nous venons de dire ; nous en trou-  vons la preuve en ce que S. Cyrille et  Theodoret, deux detracteurs de Socrate,  n’en ont souffle mot, et qu’ils n’auraient  pas manque d’en orner leurs diatribes si  la chose eut ete possible.   3 . En second lieu, Aristophane qui, dans  ses Nuees , represente Socrate comme  un corrupteur de la jeunesse, comme  faisant de 1’imposture un enseignement,  n’a pas davantage mentionne cette accu-  sation; l’aurait-il omise, si elle eut pu  s’appliquer a Thomme qu’il bafouait? II  n’y a enfin personne, si l’on prend des  temoins dans cette antiquite reculee ou  dans les temps voisins du Philosophe,  qui se presente comme un accusateur  serieux et digne de foi. Plus tard seule-  ment Lucien, entraine par sa verve  moqueuse (dans 1’opuscule que l’on tra-  duit ordinairement De Domo et qu’il  vaudrait mieux traduire De CEco ,  chap. iv), reprocha a Socrate de n’avoir  pas rougi d ; invoquer les Muses, des     reprehendant vehementer amorem : re-  spicit enim ad Phcedrum Platonis (p. 340 ,  G) de quo dedita opera dicendum erit.  Qua ? in Amoribus (c. 24. To. 2. p. 424 ,  go) in Socraticum amorem Platonicum-  que vel a Luciano, vel quicunque auctor  est, jocose et per calumniam dicuntur,  ea ad ipsum illum locum diluisse me  arbitror .    4. Sed veterum criminationes Maxi-  mus Tyrius ( Dissertat . 2S. 26. et 27  al. g. 10. 11) refutavit, ut non videatur  opus esse aliquid addi : cum praesertim  tanto magis et agnoscant innocentiam  Socratis, et illud crimen ab illo depel-  lant ut hujus, ita paullo superioris aitatis  homines, quo magis virum ex aequalium  ac paullo juniorum de illo scriptis ut  cognoscere possent, cuique contigit. Quin  ne consultum quidem judicarem veterem  litem resuscitare , nisi viderem, nuper    et l’amour grec i3   vierges, pour leur faire dcouter ces fa-  mcnx discours sur Vamour des jeunes  gargons. Mais ces discours, comme nous  allons le voir, blament fortement cette  sorte d’amour; Lucien fait, en effet,  allusion au Phedre de Platon dont nous  aurons a nous occuper. Ce que Fon dit  debamourSocratiqueet Platonique dans  les Amonrs , que ces dialogues soient de  Lucien ou de tout autre, n’est qu’une  plaisanterie ou une mechancete, comme  je\ l’ai demontre en temps et lieu (i).   4. Maxime de Tyr ( Dissertations 25 ,  26 et 27) a d’ailleurs refute toutes les ac-  cusations portees a ce sujet par les an-  ciens, etilserait inutile d’y rien ajouter.  Le meilleur argument, c’est que ceux qui  ont le mieux reconnu Tinnocence de  Socrate et repousse loin de lui avec le  plus de force 1’accusation infame, sont  les hommes de la generation qui a imme-   (1) Dans ses notes sur Lucien, dont il a fait une  edition et une traduction Latine tres-estimees.  fuisse, et esse hodie homines eruditos, et  bonos viros, qui pravam de patre illo  Philosophia ? opinionem conceperint, quo-  rum non pono nomina, quia mihi non  cum ullo homine certamen esse volo,  sed cum opinione ea, quam praeterquam  quod falsam puto, etiam virtuti noxiam ,  praeter consilium quidem bonorum viro-  rum, humanitati certe adversam esse,  arbitror.    5. Qui autem fieri potuit, ut homines  neque indocti neque maligni in sinistram  falsamque de Socrate opinionem incide-  rint? ut apologia vir sanctus opus habeat?  Praeter naturalem illam -/.axor{0£tav nos-  tram, quae imis velut medullis fixa , et  superbiae illius nostrae nixa radicibus.    et l’amour grec i5   diatement suivi la sienne. Or, ce sont  les contemporains et leurs successeurs  immediats qui peuvent le mieux juger un  homme, en pleine connaissance de tout  ce qu’on aecrit sur lui. Je n’aurais donc  pas songe a ressusciter cette vieille que-  relle si je n’avais vu naguere, et tout  recemment encore, des hommes instruits,  vertueux, concevoir la plus mauvaise  opinion de ce pere de la Philosophie ; je  ne dirai pas leurs noms, ne voulant me  prendre corps a corps avec personne,  mais seulement avec une opinion que  je considere comme sans fondement,  nuisible a la vertu, et, contrairemcnt a  1’avis de ces gens de bien, defavorable a  1’humanite tout entiere.   5. Comment donc a-t-il pu se faire  que des personnages qui ne p£chent ni  par ignorance ni par mechancete, aient  concu de Socrate une opinion si facheuse  et si fausse? Pourquoi cet homme veri-  tablement saint a-t-il besoin d’etre de-  fendu? En dehors de cette maligni te      inter ultima vitia eradicatur, ceterasque  ex genere morum rationes, conveniunt  hic alia qucedam , quce facilem errandi  occasionem praebent. Magna pars docto-  rum etiam hominum legendi laborem  fugit, legendi uno tenore, continuata  attentione , totos veterum scriptorum  libros; sed satis habet decerpere quce-  dam, in quce primum incurrere oculi,  aut, quod deterius frequentius que idem,  repetere ab aliis excerpta, et e media  nonnunquam sermonum velut compage  evulsa, de quorum sic sententia non facile  sit judicare. Platonis libri , unde pleraque  Socratica peti hodie necesse est, multos  arcent ob Atticum illud sermonis genus,  breve et acutum, floridum praeterea, ac  semipoeticum, ipsamque disserendi ratio-  nem subtiliorem scepe, quam ut mediocri  attentione, non acutissimi homines illam  statim adsequantur. Nec licet , ut adhuc  res est, ad interpretes confugere ; qui  quoties vel nihil dicant, vel alia omnia  dicant, vix sine invidia licet commemo-  rare. Et tamen nisi attente legas, et to-    naturelle qui reste fixee jusqu’au fond de  nos moelles, qui se fortifie de notre or-  gueil et qui ne s’arrache qidavec les der-  niers defauts, outre encore diverses rai-  sons tirees de nos mceurs, il a fallu pour  cela un concours de circonstances pro-  pres a faciliter 1’erreur. La plupart des  gens instruits eux-memes evitent la fa-  tigue de lire dans leur entier, avec une  attention soutenue, tous les livres ecrits  par les Anciens ; on a plus tot fait de  choisir quelques passages, les premiers  qui tombent sous les yeux, ou, ce qui est  bien pire, de s'en tenir aux passages  choisis par d’autres, a des fragments de-  taches de 1’ensemble et dont il est par  consequent difficile d’apprecier le sens  veritable. C’est ce qui arrive des livres  de Platon, d’ou il nous faut aujourd’hui  tirer toutc la doctrine Socratique ; iis  embarrassent bon nornbre de lecteurs  par leur style trop Attique, raffine et  aiguise, fleuri pourtant et semi-poetique,  par ces controverses si subtiles souvent  que, si 1’attention se relache, 1’esprit le       tos legas dialogos, et qua scripti sunt  lingua legas, non est ut de sententia  illorum, h. e. quam tribuat Plato sen-  tentiam Socrati, recte judices. Quare  mirum non est, si multi refugiant lectio-  nem ita laboriosam ; et illis veluti spinis  a familiari tractatione eorum librorum  deterreantur .    6. Denique si quid etiam tribuatur a  Platone Socrati, tamen, si illud Xeno-  phontis narrationi repugnet, non dubi-  taverim equidem, fidem potius adhibere  Grylli filio, memor illius, quod narrat  Laertius 3, 35, Socratem , cum Lysin  Platonis legisset, dixisse , to; tzoXKx uoj      plus eclaire n’cn suit pas aisemcnt le fil.  Et il serait inutile, dans le cas present,  de recourir aux annotateurs ; ou iis  ne disent rien, ou iis disent tout  autre chose que ce qu’il faudrait ; on ne  peut s’empecher de leur en faire un re-  proche. Cependant, amoins de lire avec  un soin scrupuleux tous les dialogues de  Platon et de les iire dans la langue meme  ou iis ont ete ecrits, il n’est pas possible  de juger saineinent de leur doctrine,  c’est-a-dire de la doctrine que Platon  attribue a Socrate. Il n’est donc pas sur-  prenant que nombre de gens reculent  devant une si laborieuse lecture et  soient rebutes, comme par des epines,  du commerce familier de ces livres.   6. Enfin il faut dire que si Platon at-  tribue a Socrate une maniere de voir  contredite par la narration de Xenophon,  il n’y a pas a hesiter : c’est a Xenophon  qu’il faut se fier, si l’on se souvient du  mot rapporte par Diogene de Laerte  (ui, 35). Socrate, apres avoir lu le Lysis     xaxe^uBeO’ 6 veavfoxo; ; Quam multa de me  mentitur adolescens! Tanto magis hoc  memorabile est , quod ille Dialogus ita  scriptus est, ut non modo tanquam per-  sona colloquens inducatur Socrates, sed  tanquam, qui ipsum illum dialogum  scripserit. Ceterum quia hic sumus, hoc  breviter indicamus, amatorium quidem  esse hunc libellum , sed nihil habere pu-  dendum ne Platoni quidem. Argumen-  tum hoc est : Queritur Lysidis amator  Hippothales, ab illo se non amari ; So-  crates ostendit, si velit amari, non adu-  landum esse puero, sic enim futurum  superbiorem ; sed illi potius ostenden-  dum, quibus rebus indigeat, et quam  parum in ipso sit boni (i). Deinde dela-  bitur in disputationem, Quis proprie  amicus sit vocandus? et, In quo insit  natura amicitia’ ? plenam illam quidem  cavillationum , sed praeclararum etiam  de amicitia sententiarum. Ceterum tri-   (i) Sic nempe ipse solebat Socrates in potestatem  quasi suam redigere adolescentulos, de quo que-  rentem audiemus Alcibiadem. de Platon, se serait ecrie : « Comme ce  jenne homme invente souvent ce qu’il me  fait dire! » Le mot est d’autant plus  remarquable que, dans ce dialogue, So-  crate estpresente non comme un simple  interlocuteur, mais comme s’il avait  ecrit lui-meme tout le morceau. Pen-  dant quenous y sommes, disons brieve-  ment que cetouvrage roule sur 1’amour,  mais qu’il n’y a rien dont put rougir  Platon lui-meme. Voici le sujet : Hip-  pothales, qui aime Lysis, se plaint de ne  pas en etre aime; Socrate lui demontre  que s’il veut 1’etre, il ne faut pas qu’il  fiatte ce jeune homme, ce qui le rendrait  plus orgueilleux encore ; il vaut mieux  qu’il lui represente tout ce qui lui man-  que et le peu de bonnes qualites quhl  possede (i). On discute ensuite ces ques-  tions : Qui est digne d’etre appele un ve-  ritable ami? et, Quelle est la nature de  Tamitie? Controverse pleine, il est vrai,   (i) C’est ainsi que Socrate avait en effet coutumc  d’assujettir les jeunes gens & son autorite, et nous  voyons Alcibiade s’en plaindre.  bui a Platone colloquentibus, de quibus  ipsi non cogitarint, vetus observatio est ,  de qua vid. Athenaeus Deipnos. i, i / ad  fin. p. 5 o 5 . Qiio dialogorum more se  excusat, etiam Varroni in Academico-  rum dedicatione Tullius. Neque ausim  Platonis ipsius, junioris praesertim, pa-  trocinium suscipere de mollioribus versi-  culis, quos Apulejus servavit (Apol.  p. 279 sq.) et Laertius Diogenes ( 3 , 2g) :  de quibus modo in neutram partem dis-  puto, causamque Platonis a Socratis  causa hac in re sejungo.    7. Quaecunque vero cum aliqua specie  testimonia Platonis contra Socratem pro-  feruntur, ea cum ex Phaedro, nescio  quam bona semper fide, corrupte quidem  et perverse non nunquam, depromi vi-  deam, propter ea pretium opera* putavi,  de futilites, mais aussi de remarquables  definitions dePamitie. C ; est uneobserva-  tion qui a ete faite depuis longtemps,  que Platon attribue a ses interlocuteurs  des idees qu’ils n’ont jamais eues : on  peut consulter la-dessus Athenee ( Dei -  pnosophistes i, ii). Ciceron, qui avait le  meme defaut, s’en excuse sur le genre  meme du dialogue , dans son envoi des  Academiques a Varron. Je n’ose pas non  plus defendre Platon du reproche d’avoir  commis, surtout dans sa jeunesse, des  vers badins tels que ceux que nous ont  conserves Apulee (dans son Apologie) et  Diogene de Laerte (m, 29); vieux ou  jeune, jen’ai pas affaire a lui et je separe  completement sa cause de celle de So-  crate.   7. Entrelesdiverstemoignages fournis  par lui, ceux que Ton peut alleguer con-  tre Socrate avec quelque apparence de  justesse sont tires du Phedre ; pas tou-  jours bien scrupuleusement et quelque-  fois a 1’aide d’alterations ou de contre-    non semel totum illum dialogum attento  animo perlegere , et uno quidem tenore ,  et lingua sua, ne quid eorum me falleret,  qua • saepe fraudi esse viris doctis, modo  dicebam. Ac spero non ingratum fore  aliis, quorum rationes non ferunt tam  longam solicitamque operam, si hic pos-  sint brevi studio cognoscere velut oecono-  miam illius libri et argumentum, inde-  que de toto consilio vel Platonis vel  Socratis arbitrari. Concedamus enim, ne  abuti videamur illa, quam modo propo-  suimus observatione, Socratis hic veram  sententiam bona fide a Platone proponi.    8 . Ac primo illud meminerimus, So-  cratem hic (p. 340, E) introduci senem,  tantum non decrepitum, quem facile ju-  venis Phaedrus viribus superet. Jam  fingitur Phaedrus audisse Lysiam dispu-  tantem, magis obsequendum gratifican-  dumque esse non amanti, quam amanti :  camque orationem Socrati prcelegere   sens. Cest ce qui m’a engage a lire  attentivement ce dialogue, et plutot deux  fois qu’une, dans son entier, et dans le  Grec, afin d’echapper a ces chances d’er-  reur dont j’ai parle plus haut et qui font  trebucher les plus doctes. II sera peut-etre  interessant, je 1’espere, pour ceux dont  1’esprit repugnerai-t a une besogne si  longue et si difficile, de connaitre sans  grande etude le sujet et pour ainsi dire  1’economie de ce livre, et de pouvoir  apprecier toute la theorie de Platon ou  de Socrate. Nous admettrons, pour ne  pas abuser de la reserve faite par nous  plus haut, que la doctrine de Socrate a  ete ici exposee de bonne foi par Platon.   8. Rappelons d’abord que Socrate y  est presente comme un vieillard, non  pas tout a fait tombe en decrepitude,  mais qu’un jeune homme, comme Phe-  dre, peut maitriser aisement. Phedre ra-  conte qu’il a entendu Lysias discourir  sur cette question : Un jeune homme  doit-il avoir plus de facilite et de com-        2b   (a p. 338 , C. ad 33 g, G). Reprehendit  hanc Lysiae orationem , cante quidem et  multa cum ironia Socrates , et meliora se  audisse ait , quae dicere illum amabilis-  sime cogit Phcedrus. Incipit hic a Musa-  rum invocatione (p. 340 , G) quam calum-  niatur, ut modo dicebamus 3 ), Lu-  cianus : cum sit nihil in ea oratione non  virginum auribus dignissimum. Orditur  a definitione Amoris (p. 341, D) quem  vocat cupiditatem , quae incitate feratur  ad voluptatem  pulchritudinis, et inde,  quam mala res, quam noxia sit, ostendit  (ad p. 342, F) et claudit hexametro :   A'j-/.ol aova oi^ouV, ojq ~aToa epAouVjtv  1 r’ 1 !   |Sf/aTra’..   Ut cordi agna lupo est, puerum sic ardet amator.    9. Bene ista , et Musis faventibus. Sed  subito, At Amor tamen Deus est, inquit ,  et palinodiam parat , quae incipit (p. 3 43 .   plaisance pour celui qui ne 1’aime pasque  pour celui qui Faime ardemment ? II lit  ensuite ce discours a Socrate. Celui-ci,  avec beaucoup de finesse et ddronie,  trouve a blamer dans la composition  oratoire de Lysias et pretend qu'il a en-  tendu dire la-dessus autrefois de bien  plus belles choses; Phedre le conjure de  les lui rapporter. Socrate debute alors  par cette invocation aux Muses que Lu-  cien a calomniee, comme nous le disions  plus haut, car il n’y a rien dans tout le  discours qui ne soit parfaitement digne  des oreilles chastes. II commence par la  definition de 1’amour, qu’il appelle un  desir violemment entraine vers le plaisir  que promet la beaute ; il enumere en-  suite les ecarts auxquels il peut pousser  et conclut parcet hexametre :   Comme le loup aivic Vagneau , ainsi Vamoureux   [cherit le jeune garcon.   9. Voila qui est bien, grace aux Muses.  Mais aussitot : L’ Amonr est cependant  un Dieu, s’ecrie-t-il ; et il entrcprend une       F) ab eo, uti dicat, non ideo amorem  damnandum fuisse, quod sit furor ; esse  enim furorem etiam bonum aliquem :  ipsam [jLavTixrjv 5. divinatoriam facultatem  esse a verbo [i-aiveaOai dictam , velut quan-  dam [j.avi/7]v s. furiosam. Talis furoris  plura genera enarrat , in his etiam ponit  amorem, cumque (p. 344, C ) magnae  felicitatis causa tum amantis cum amati  datum his esse divinitus, conatur osten-  dere. Ad eam demonstrationem sumit  primo hanc propositionem. Omnem ani-  mam esse immortalem, quam inde pro-  bat (quam bene vel male , nunc non dis-  putamus) quod principium motus sui in  se habeat.    1 0 . Deinde similem ait animam no-  stram, etiam antequam ea in corpus ve-  niat, bigae alatae cum suo auriga. Alte-  rum hujus biga 3 equum bonum ponit et  tractabilem (ibid. E), malum alterum ac  refractarium. Sic coelestia spatia ingre-  diuntur ista • cum suo auriga bigce, et    ET l’aMOUR GREC 2(J   palinodic en declarant tout d’abord que  1’amour n'est pas condamnable en soi,  qu’il estun delire, et que dans tout delire  il y a quelque chose de bon ; que fxavnxr],  la divination, derive du mot (jiodveaGai,  comme qui dirait [xavtxr), c’est-a-dire  folle. II compte diverses especes de  delires parmi lesquelles il place 1’amour,  et il s’efforce de montrer que c’est un  present divin fait a bhomme pour le plus  grand bonheur de celu*i qui aime et de  celui qui est aime. Sa demonstration  s’appuie sur cette proposition premiere:  Tonte dme est immortelle, dont il tire la  preuve (bien ou mal, ce n’est pas notre  affaire) de ce qu’elle a en soi le principe  de son mouvement.   io. Il compare ensuite notre ame,  avant qu’elle ne vienne habiter un corps,  a un attelage aile, compose de deux  chevaux et d’un cocher. L’un des  chevaux est excellent et docile ; 1’autre,  d’un mauvais naturel et retif. L’attelage  parcourt ainsi les espaces celestes, avec    Deorum aliquem secutce (Socratis anima  Jovem , p. 846 , D) ea spatia permeant.  In hoc volatu et illa equorum dissimilium  dissensione, alia; quidem anima; retinent  alas, et ad sublimia feruntur, contem-  plantur que ea etiam, qua; extra supre-  mum coeli orbem sunt (p. 345 , B). Alia;,  qua; partim in altum elata; viderunt plu-  ra, partim ab equo illo refractario impe-  dita; ac retractae, pauciora ; ruptisque  per illam equorum in diversa tendentium  luctam pennis atque amissis, cadunt, et  in corpora humana veniunt.    1 1 . Harum, pro gradu cognitionis  illius et inspectionis rerum coelestium  diverso, novem classes constituit (ibid. F).  Qua plurimum veritatis et rerum coeles-  tium vidit anima, ea inseritur semini, e  quo nascatur aliquis sapientias, pulchri,  doctrinas, et amoris studiosus, st? yovfjV    et l’amour grec 3 I   son cochcr, et s’elance a la suite de l’un  des douze dieux ( 1 ’ame de Socrate sui-  vait Jupiter). Dans cette course a travers  les espaces et malgre la lutte des deux  chevaux, si dissemblables, quelques ames  parviennent a garder leurs ailes, voya-  gent dans les regions etherees et con-  templent meme ce qui est au dela de la  voute du ciel. Les autres, parfois em-  portees jusqu'aux plus hautes regions,  parfois retenues et embarrassees par le  cheval retif, n’arrivent qu’a connaitre  une partie des mysteres ; dans cette lutte  des chevaux qui tirent en sens inverse,  elles brisent et perdent leurs ailes ; ces  ames tombent alors sur terre et sont  emprisonneesdans les corps des hommes.   1 1 . Suivant le degre de connaissance  qu'elles ont atteint dans la contempla-  tion des essences, Socrate divise en neuf  classes ces ames dechues. Celle qui a  per9u le plus de verite et de choses  sublimes, vient animer le germe d’ou  naitra un homme tont entier consacre au      avopo? ycV7]ao[j.c'vO’j ? oiXoao^ou, 7) <pt\oxaXou, tj  fi.ouaixou Ttvos, x at spamxoy. Secundi fastigii  anima animabit regem, legibus, bello,  imperio, potentem : tertiae classis anima  civitatis familiaeque regendae et rei fa-  ciendae peritum : quartae, laboris aman-  tem eundemque in exercendis sanan-  disve versantem corporibus : quinti  ordinis animae vitam habebunt in vati-  cinando, aut in castimoniis initiisque  mysteriorum occupatam : sexti, poetas :  septimi, geometras aut fabros : octavi  sophistas aut cum factione populares :  noni denique animabunt tyrannidis cu-  pidos. Multa hic nec injucunda de hoc  ordine , de his vitee generibus, disputandi  occasio : sed maneamus in argumento  nostro.    12 . Ha’ omnes anima?, cum morte dis-  cesserunt a corporibus, in locum vel pce-    33    ET L’AMOUR GREC   culte de la sagesse, de la beaute , de la  Science et de Vamour ; Vdme du second  degre vivra dans le corps d’un roi juste ,  belliqueux et capable de commandere  celle du troisieme fonnera un homme  habile a administrer sa famille, sa cite  ou la chose publique ; celle du quatrieme  un athldte laborieux ou un medecin, tous  deux occupes soit d exercer le corps  humain , soit d le guerir ; les ames de la  cinquibme classe passeront leur vie , soit  d predire 1’avenir, soit d initier aux  abstinences et aux mysteres ; celles de la  sixieme former ont des poetes ; celles de  la septieme , des laboureurs ou des ou-  vriers,- celles de la huitieme, des sophistes  ou des chefs de factions populaires ;  celles de la neuvidme, enfin, des tyrans.  Ce serait peut-etre 1 ’occasion de dispu-  ter, et non sans agrement, des rangs  assignes a ces ames et de leur genre de  vie : mais restons dans notre sujet.   1 2.Toutes ces ames,quandle trepas les a  separees du corps, parviennent au sejour    narum vel pr cerni orum perveniunt, et  mille exactis annis, accipiunt potesta-  tem eligendi sibi nova corpora , vitas  novas, sive hominum sive bestiarum .  Quce anima ter sibi, exactis millenis illis  annis, primam istam sedulo philoso-  phantis, sive pueros cum philosophia  amantis, vitam delegerit (p. 3g5, G) tou  <ptXocrocprjaavto; aooXc. 05, r] "atospaaxrJcjavTO;  [j.£xa <ptXoao<p''a;, ea, absoluta ista ter mille  annorum periodo , pennas denuo accipit,  quibus ut ante tolli, deum aliquem sequi,  contemplari coelestia , queat : cum reli-  quarum octo classium animae, non nisi  decies mille annorum periodo absoluta,  in primam illam conditionem restituan-  tur. Hoc ipsum quod primam et felicis-  simam classem Paederastarum philoso-  phantium constituit, quod tantum prae-  mium illis, compendium septies mille  annorum, tribuit Mythi hujus s. Allego-  ria ? auctor, sive Socrates fuit, sive Pla-  to ; hoc ipsum igitur jam satis monere  nos poterat, non posse hic sermonem esse  de re ita turpi , quam fuisse illud, cujus    ET LaMOUR GREC    35    des peines et des recompenses, et au bout  de mille annees, recoivent la permission  de choisir de nouveaux corps, soitd’hom-  mes soit de betes, et de vivre de nou-  velles vies. L’ame qui, durant trois revo-  lutions de mille annees, trois fois de  suite a choisi Texistence d’un homme  quicultive sincerement la philosophie, ou  qui aime les jeunes gens d'un amour  philosophique , a 1’expiration de cette  triple periode, recouvre les ailes qidelle  possedait autrefois et peut, comme au-  paravant, suivre l’un des dieux et con-  templer les essences celestes. Les huit  autres classes ne retournent a cette con-  dition premiere qu’apres une revolution  de dix mille annees. Ainsi la premiere  classe et la plus heureuse est celle des  philosophes amis des jeunes gens, et l’in-  venteur de ce mythe ou allegorie, que  ce soit Socrate ou Platon, la favorise  d’une exemption de sept mille annees :  cela seul nous avertit assez qu’il ne peut  etre question ici de ce vice infame dont  on accuse Socrate et que d’ailleurs les    3postulatur Socrates, ipsis etiam legibus  Atticis, paullo post ostendemus : sed ma-  gis hoc apparebit, si quis ea, qu ce sequun-  tur, apud Platonem paullo attentius  considerare mecum voluerit.   i 3 . Intelligentia hominum , ex pluribus  rebus sensu perceptis collecta, nihil est  aliud, quam recordatio illorum, quae  anima in illo volatu suo coelesti viderat,  quae sola verum illud ens sunt (t 6 ov-co;  ov, p. 346, A). Haec intelligentia maxima  est in illa prima philo sophantium paede-  rastarum classe : haec ipsa est, ob quam  alas soli recipiunt, quibus volatum illum  coelestem, deorumque comitatum tentant :  prae qua terrena hcec, et sensus externos  ferientia, ita negligunt, ut male sani  aliis et furiosi videantur, icocpa -/.ivouvts?,  quos commotos s. commotce mentis  vocat Horatius (Serm. 2, 3 , 2og et 278),  cum re vera divino quodam spiritu agi-  tentur, svOouaux^oviss, qui illos semper ad  coelestem illam pulchritudinem revocet,  quam in priore volatu viderant.   lois Athenicnnes reprimaient, comme je  le demontrerai tout a 1’heure ; cela de-  viendra plus evident encore pour qui  voudra bien examiner attentivement  avec moi ce qui suit dans Platon.   i3. L’intelligence humaine est formce  de la reunion des idees percues a l’aide  des sensations, et les idees ne sont rien  autre chose que les reminiscences de  ce que 1’ame a vu anterieurement dans  son vol celeste, c’est-a-dire des essences  veritables. Or 1’intelligence la plus com-  plete appartient a la premiere classe, a  celle des philosophes amis zeles des  jeunes gens, et c’est pourquoi seuls iis  recouvrent les ailes a 1’aide desquelles  iis pourront essayer de nouveau de par-  courir le ciel et suivre le cortege des  dieux. Detaches des soins terrestres et  de tout ce qui frappe les organes, iis pas-  sent pour des insenses et des hommes en  delire, -apa/ivoSvis?, de ceux qu’Horace  appelle des fren^tiqucs, des esprits trou-  bles, tandis que vraiment ce sont des en-    Haec pulchritudo , qucc inest in  sensu, <ppov 7 ]<m (p. 846, E), in mentis  qua vult et intelligit prostantia, si ita in  oculos, ut alia quce videri his possunt,  incideret , ad mirabiles sui amores exci-  tatura esset. Jam pulchritudo sola corpo-  rum, hanc (Aotpav habet, hoc velut fatum,  et conditionem , uti subeat oculos, ut amo-  rem moveat. Hinc ponamus ipsa verba ,  ut existimare melius ac certius de tota  re possint etiam, quibus ad manus non est  Plato ipse, vel magnum volumen de pluteo  promere non lubet. c O piv oOv pu] vsoxeXt];,  ■Jj otscpQappivos, oux otjiiog evOevOs Exstas ©s'psxat  7ip6; auxo xo xaXXo;, Ostopisvo; a3xou xrjv xrjoE  smavupiiav. waxs ou as'6sxat 7rpoaopojv, aXX’  7]3ov^ 7:apaoou;, zBzpdtTzodog vo ptco (Batvstv S7Ct-  y stpsT xat 7iat8oa7EOpstv. xal u6pst x:poao|j.tXaiv,  ou os'ootxsv ou 8’ ata/uvsxai IIAPA ‘I^TXIIN ( 1 )    (1) Notabile est, Platoni etiam de Ijcgib. r .  thousiastes, agites comme d’un transport  divin, qui les attire sans cesse vers cette  beaute celeste precedemment entrevue  par eux dans leur vol.   14. Cette beaute, dont Pessence reside  dans un sens particulier, la sagesse,  source de la volonte et de 1’intelligence,  s’il etait donne a l’oeil de 1’apercevoir,  comme toutes les autres choses visi -  bles, elle nous exciterait a d’admirables  amours. Mais c’est seulement la beaute  corporelle, telle est sa necessite fatale et sa  nature, qui frappe les yeux et nous porte  a 1’amour. Ici nous placerons le texte  meme afin que ceux qui n’ont point Pla-  ton sous la main ou qui ne se soucient  pas de tirer du rayon un gros volume,  puissent se faire une opinion en toute    p. 56g, E. hanc turpitudinem appsvwv np 6?  appevag, Ij OrjXsTwv xpog OrjXsix;, to ITAPA  •bTSIN To'X[j.7)p.a appellari. Non igitur Plato-  nem , vel Socratem adeo, feriunt divina illa ful-  mina Pauli Rom. /, 26 . sq., ut neque ea, qua ? in  idolatriam vibrantur.      f,5ov7]v 0 -W.ojv. '0 8e apttteXrj?, 6 twv xdxe  TroXuGcapojv, oxav OsoEtSsg r.poaioTzov' t07), -/.aX-  Xo; eu [j.E[j.vr ( [x£vov rj uva ac;o$fj.axo ios'av —  oj? Geov a£'6sxai. Hcec ita verto, Hic ergo,  qui non est nuper illis mysteriis coeles-  tibus in illo volatu animarum initiatus,  aut, initiatus cum esset, corruptus est,  non celeriter, ut oportebat, hinc, ab hac  corporea, non vera, pulchritudine, illuc  fertur ad ipsam veram, coelestem pul-  chritudinem, cujus hic videt nomen,  umbram , similitudinem : itaque neque  inter adspiciendum eam, divinum quid-  dam colit : sed libidini se tradens, qua-  drupedis ritu inscendere formosum co-  natur, et genitale semen profundere, et  cum contumelia (vid. ad §. 18) congres-  sus formoso corpori , non veretur, nec  erubescit PRXETER NATURAM libidi-  nem persequi. At ille nuper initiatus,  qui multa eorum quae tum videbat ,  contemplatus est, ubi vultum divino  similem conspexit, qui pulchritudinem  illam veram bene imitetur, aut incor-  poream quandam illius speciem, verbo ,   certitudc. « L’homme qui n’a pas un  « souvenir recent de son initiation aux  « mysteres, ou qui, recemment initie,  « s’est laisse depraver, ne s’eleve pas fa-  « cilement, comme il faudrait, de cette  « beaute corporelle, qui n’est pas la  « vraie, a cette beaute celeste, absolue,  « dont il ne rencontre ici-bas que le nom,  « 1’ombre, la ressemblance ; en 1’aper-  « cevant il n’y respecte rien de divin.  « Entraine par la volupte, il se precipite,  « comme une brute, sur 1’objet de ses  « desirs, ne cherche qu’a genitale semen  « profundere et, outrageant ce beau  « corps qu ? il etreint, il n’a pas honte, il  « ne rougit pas de poursuivre un plaisir  « contre nature ( 1 ). Au contraire, l’hom-  « me, encore plein des saints mysteres  « qu’il a longtemps contemples autrefois,    (1) 11 est remarquable que Platon, meme dans ses  Lois, appelle crime contre nature le commerce hon-  teux marium cum maribus, et feminarum cum fe-  minis. Les foudres de Saint Paul ( Ep . aux Rom. 1.  26) n’atteignent donc ni Platon ni Socrate, pas plus  que celles qu’il lance contre 1’idolatrie.    virtutem speciosam : — Dei instar  colit.    i5. Deinde enarrat pheenomena quae-  dam hujus sancti et philosophici amoris ,  similia, ex parte Venerei, et quomodo  illa ' alce, quas amiserat anima , hinc de  novo crescant, sub Allegoria perpetua  describit, qua nihil aliud tandem indicat ,  quam enthusiasmum quendam , et injec-  tam divinitus philosopho cupiditatem  versandi cum pulchris, h. e. ingenio vel  forma potentibus, adolescentulis : quos  nempe captabat Socrates, qui sciret , cum  facilius sit formare ad sapientiam et  virtutem hanc aetatem, tum hos esse, a  quibus futura civitatis fortuna pendeat.  Hinc est quod se venari pulchros non dis-  simulabat (vid. Protagora > principium ,  frustra reprehensum Cyrillo contra  Julia, i, 6, p. i8j, A), quod Xenophon-  tem baculo etiam transverso objecto    et l’amour grec q'3   « en presence d’un visage presque divin  « ou d’un corps dont les formes lui rap-  it pellent 1’essence de la beaute, c’est-a-  « dire 1’essence de la vertu, adore comme  « en presence de la divinite. »   i5. Platon retrace ensuite quelques-  uns des phenornenes de ce saint et phi-  losophique amour, parfois peu different  de l’autre; il montre aussi comment re-  poussent les ailes autrefois perdues par  rame. C’est une allegorie perpetuelle  dont la conclusion est que le philosophe  con^oit, par une sorte de grace divine,  le plus fervent desir de vivre au milicu  des beaux adolescents distingues par la  perfection de leurs formes ou par leurs  dispositions naturelles. C’est ceux-la, en  effet, que Socrate ambitionnait de gagner ,  sachant qu’il est facile, a cet age, de les  tourner au bien et a la vertu, et que  c’est d’eux que dependent les futurs des-  tins de la Republique. II appelait cela  prendre les beaux garcons dans ses filets  (voyez la-dcssus le commencement du.    velut exceptum, sibi adjunxit (Diog.  Laert. 2, 48). Ipsum illud hinc est , quod  gymnasia , conviviaque et deambulatio-  nes, quoscunque denique juvenum coetus,  sequebatur, quod ludos et jocos non refu-  giebat, quod se plane communem illis  faciebat , nec irrideri aut peti maledic-  tis refugiens. Ipsa illa ironia perpetua,  quod doceri se velle simularet , certe dis-  cendi causa disputare , ut accessum ad  Sophistas illi dabat , ita adolescentulo-  rum super bulae de se opinioni et praeci-  pitantiae blandiri videbatur. Sed perga-  mus Platonis Mython enarrare.    16. Philosophi illi amatores pulchro-  rum non indiscretim omnes amant , sed  (p. Sdy, C) quem quisque in illo coelesti  volatu Deum secutus est , ejus Dei si-  milem sibi quaerit amasium; qui Jovem ,  ut Socrates, Jovialem (Auvov x wa), Martia-  lem vero qui Martem, et sic Junonios.    ET Protagoras , blame a tort par Saint Cy-  rille), et il se fit de la sorte un disciple  de Xenophon qu’il arreta en lui barrant  le passage avec son baton. Voila pour-  quoi aussi il frequentait les gymnases,  les banquets, les promenades, tous les  lieux de reunion des jeunes gens, ne  fuyait ni les jeux ni les badinages, s’en-  tretenait avec tous et s’inquietait peu de  preter a rire aux medisants. Cette ironie  perpetuelle grace a laquelle il feignait  toujours de vouloir apprendre, pour  mieux enseigner, lui donnait acces au-  pres des Sophistes et flattait aussi la suf-  fisance et la presomption de la jeunesse.  Mais achevons d’exposer le Mythe de  Platon.   16. Ces philosophes amoureux des  beaux garcons ne s’attachent pas indis-  tinctement a tous ; selon le dieu quhls  accompagnaient dans les espaces etheres,  chacun d’eux choisit parmi les anciens  suivants du meme dieu celui qu’il doit  aimcr. L’ame qui etait, comme celle de    SOCRATE    46   Bacchicos , Apollineos : et talem ubi in-  ventum amare coeperint , faciunt omnia ,  uti Deo illi, quem ipsi secuti sunt, et cu-  jus jam similitudinem quandam in ipso  deprehenderunt, sibique adeo , reddant  quam similimum. Ita Socrates, Jovis in  illo volatu satelles, quaerit Joviales, ama-  tores natura sapientiae, et natos ad im-  perandum. Hactenus ergo bene res ha-  bet, sancti tales Paederaslce, J elices qui  sic amantur.    / 7 . Sed nec dissimulanda sunt quae  sequuntur apud Platonem. Redit Socrates  (p. 3 -lj, F) ad superiorem illum de Ani-  ma Mythum (’§. 10), quam triplicis na-  turae ponit scilicet. Sunt vellit equi duo,  est auriga. Equorum alter bonus, sanus,  verecundus, gloria • amator , qui sine pla-  gis, sola ratione auriga regitur : pravus  alter, qui multum ac temere una aufera-  Socrate, dans le cortegc de Jupiter, re-  cherche un suivant de Jupiter, et ainsi  des autres qui avaient choisi Mars, ou  Junon, ou Bacchus ou Apollon. Des  qu’ils Pont trouve, iis s’efforcent de  rendre celui qu’ils aiment semblable a ce  dieu dont iis retrouvent en eux-memes  le caractere. Ainsi Socrate, satellite de  Jupiter, recherchait pour les cherir ceux  qui avaient aussi suivi ce dieu, c’est-a-  dire ceux qui, par nature, etaient portes  a la sagesse et a la domination. Jusqu’ici  tout va bien ; de tels Pederastes sont de  vrais saints, et bien heureux ceux qui  sont aimes de la sorte !   17. Mais il ne faut pas dissimuler ce  qui vient apres dans Platon. Socrate re-  tourne au precedent Mythe de hame  qu’il a coniparee aux triples forces reu-  nies de deux chevaux et d’un cocher.  L’un des chevaux est bon, sam, plein de  retenue et d’emulation ; le cocher le di-  rige, sans avoir besoin du fouet et par  la seule persuasion : 1’autre est mechant    SOCRATE    48   tur , (impetu alieno potius feratur ,  smo judicio) dura ac brevi cervice, simus,  nigri coloris, glaucis oculis, suffusus san-  guine, petulantia contumeliaque gau-  dens, hirsutus circa aures, surdus, fla-  gello ac stimulis vix tandem concedens.  Operet ? pretium videtur mali equi notas  etiam Gra } ce ponere : cxoXt 65, ~oXu; eixrj  a'j[j. 7 :scpopr]|j.^vo?, xpaTEpauyrjv, ( 3 payuipayrjXo?,  aipLOTCpoacoro;, [xsXayypa);, yAauxop.p.a“0?, oepat-  [xo;, u6p ew; xal aXa^oveiac staTpo?, zept coxa  Xaaco; , xwipog , gaartyt p.S7a xdvxpwv [xdy.;   UTEclXOJV .   r<S\ Apposui Graeca , ut facilius judi-  cari possit , probabilisne sit conjectura, in  quam incidi , dum in hac equi mali de-  scriptione versor. Nempe, aut vehemen-  ter fallor, aut memorat hic Socrates non  tam equi mali proprie dicti signa, quam  sui corporis formam, quatenus vitiosum  inde ingenium colligebat physiognomon  ille Zopyrus. Hic enim , ut est apud Ci-  ceronem (de Fato c. 5), Stupidum esse  Socratem dixit et bardum, — addidit    et s’emporte facilement, sans raison au-  cune (c 7 est-a-dire qu’il semble dirige plu-  tot par une force exterieure que par son  propre jugement); il a 1’encolure courte  et dure, les naseaux apiatis a la maniere  du singe, le poil noir, les yeux glauques  le sang le tourmente et il est toujours en  rut et en querelles ; il a, de plus, les  oreilles velues, il est insensible a tout et  n 7 obeit qu’a peine au fouet et a 1’aiguil-  lon. Il est necessaire de transcrire, dans  le texte Grec, ces marques particulieres  du mauvais cheval.   18. J’ai cite le texte afin qu’on puisse  decider si la conjecture que me suggere  cette description du cheval retif a quel-  que vraisemblance. Ou je me trompe  fort, ou Socrate ici retrace moins les ca-  racteres d 7 un cheval defectueux que son  propre portrait, dans lequel le physio-  nomiste Zopyre trouvait les indices d’un  naturel vicieux. Zopyre, au dire de  Ciceron (Du Destin , chap. v) pretendait  en effet que Socrate etait lourd et stu~   etiam mulierosum. Illud de stupore con-  venire cum Homzne xpaTepau/7)v et (3payuxpa-  mox declarabitur : quod muliero-  sum dicebat, illud cum G6psa Ixatpop con-  gruit : novimus enim quos uSp-.sxa; tum  dixerit Graecia ( i ). Porro illud aipio-pd-  aw-ov plane pertinet ad notationem Socra-  tis, in quo cum deridetur a Critobulo (2),  tum ipse suaviter sibi illudit, et in eo  patulisque non modo deorsum sed in hori-  qontem naribus, non minus quam in ocu-  lis ultra frontem eminentibus, et labio-   (1) Unum ponamus exemplum e libello, quipree  manu est, Aristotelis Physignom. c. ult. p. / 18 1,  E. 01 (Jisya cpcnvotjvxs; papuxovov, OSpiaxa^. Ava-  tpspexat £~1 xoj; ovoj;. Physiognomones e simili-  tudine vocis asinina: argumentum ducunt ad libi-  dinem asininam. Conf. § 14, it. 32 .   (2) Xenoph. Sympos. c. 4, § /p, Socrates ad  Critobulum, formee sua: jactatorem, x; xoDxo ; w?  yap /a! Ip.o 0 ' zaXXtcjjv wv xauxa v.oxt.xCv.c,, Quid  istuc? quasi me quoque pulchrior esses, ita gloriaris.  Ad qua: Critobulus , Nrj Ata, rj Ttavxcov SsiX7jvwv  xmv sv aaxupixoh; alaytaxo; av eVtjv . Nisi te for-  mosior essem, ait, essem Sileuorum, qui in Satyri-  cis fabulis in scenam veniunt, turpissimus.    pide; il aurait ajoute : adonrtd anx plai-  sirs veneriens. Pource qui est dela lour-  deur, cela concorde avec 1’encolure  courte et dure ; adonne anx plaisirs ve-  neriens, repond a &'6peto; ItaTpo;. Nous  savons, en effet, quels etaient ceux que  les Grecs appelaient uSpiatat' (i). Quant a  la face simiesque, cette designation s’ap-  plique parfaitement au portrait de So-  crate ; il y a fait lui-meme agreablement  allusion en repondant aux moqueries de  Critobule ( 2 ). Il avoue que toute sa  beaute consiste en un nez epate et me-  nafant le ciel, en des yeux saillants et    (1) Contentons-nous d’un seul exemple tird du livre  que nous avons sous la main , le De Physiognomia ,  d’Aristote : Ceux qui ont la voix forte et grave  sont &6picrcai, par similitude avec Vane. De ce que  la voix £tait bruyante comme celle de l’ane, les phy-  sionomistes conci uaient qu’on devait avoir le tempe-  rament lascif de cet animal.   (2) Xenophon (Banquet, ch. IV, 19). Socrate dit il  Critobule, qui vante sa propre beautd : « Quoi donc ?  Tu crois etre plus beau que moi ? » Critobule lui  repond : « Si je n’etais plus beau que toi,je serais  le plus affreux de ces Silenes que Von voit paraitre  dans les drames salyriques. »    rum tumore molli , pulchritudinem suam  prcedicat (Xenoph. Sympos? c. 5) sicut  in Platonis Convivio (vid. §. 35) Sileni  s. Satyri formam Alcibiades illi tribuit :  et in Tlieceteti Platonici principio Theo-  dorus negat pulchrum esse Thecetetum,  cum sit Socrati similis, tQ te cijxo-rjta xat  to s£w twv o[j.[j.aTtov, naso simo et eminen-  tibus oculis, licet minus quam Socrates  utraque re sit notabilis. Nempe hcec si-  gna cum haberentur, et naturales quae-  dam notce, hominis libidinosi, iracundi  et stupidi, non negabat illud Socrates,  verum eo majoris faciendam esse Philo-  sophiam ostendebat, quee tantum contra  vitiosam naturam valeret.    iy. Quoniam hic sumus, non injucun-  dum forte fuerit lectoribus nostris in  rem quasi preesentem ire, et ex artis,  qualis tum erat, praeceptis, Zopyri judi-  cium defendere. Vix autem opus est  admoneri lectores, non hoc agi, Num  veri aliquid sit in ea arte? Num ipso   des levres gonflees comme un abces ; de  meme dans le Banquet de Platon, Alci-  biade compare son masque a celui de  Silene ou d’un satyre, et au commence-  ment du Theatdte , l’un des interlocu-  teurs, Theodore, refuse toute grace a  Theatete en disant qu’il ressemble a So-  crate, qu’il est camard et que les yeux  lui sortent de la tete ; que pour etre chez  lui moins apparents que chez le maitre,  ces defauts n’ensontpas moins sensibles.  Socrate ne niait pas d’ailleurs que ces  particularites physiques n’indiquassent  un homme lascif, violent et d’un esprit  paresseux ; il en concluait seulement en  faveur de la Philosophie qui parvient a  dompter un si vicieux naturel.   19. Pendant que nous y sommes, il ne  deplaira peut-etre pas au lecteur d’aller  plus au fond sur ce chapitre et de de-  fendre les idees de Zopyre, idees basees  sur des regles alors acceptees. Il nes’agit  pas de savoir si cette Science est sure ;  est-ce que 1 ’excmplc meme de Socrate   etiam Socratis exemplo ea refellatur, et  vanitatis convincatur? sed hoc modo ,  quod dixi, Utrum Zopyrus ex arte, et  ut oportebat, judicium de illo tulerit?  Exstat in operibus Aristotelis libellus,  <J>uaioyvoj[juxa inscriptus, quo superiorum  hujus artis consultorum collegisse prae-  cepta videtur . Hinc ea, quee ad formam  Socratis, qua ? ad equi hujus mythici na-  turam pertinent , huc transferamus.   2 0 . Igitur (c. 3, p. 1 1 j3, B) inter ’Avai-  c07j- ou hoc est stupidi , et sensu communi  pene carentis signa sunt ~'x nepl tov auysv a  aap'/.oj07) 7.ocl G'j[j.7ZB7zXsj[isva x a\ auvo£ 0 £|j.£va,  Ea quas adjacent collo carnosa, com-  plexa et colligata, itemque cervix crassa,  XGxytjkoq -ayjj;. Et (c. 6. p. I Ij8, C) Oi?  Ta "£p\ ta; xXeTBoc; aug~£pi~£cppaY(x£va £<ruv,  avodaQiyroL. Nonne totidem fere verbis  Ciceronianus Zopyrus? Stupidum esse  Socratem, et bardum quod jugula con-  cava non haberet, obstructas eas partes  et obturatas. Alia adhuc mala signifeat  ista conformatio. Olc xpd.yrj.oc r.ayyc xai    ne temoigne pas du contraire ? Mais  Zopyre en a-t-il tire, en ce qui concerne  notre Philosophe, un pronostic judi-  cieux ? II y a dans les oeuvres d’Aristote  un opuscule intitule Physionomiques ou  ce philosophe parait avoir recueilli les  regles admises avant lui par les habiles.  Nous transcrirons celles qui se rappor-  tent au portrait de Socrate et au carac-  tere de son cheval mythique.   20. D ? apres Aristote (chap. m), les in-  dices d’un esprit lourd et presque prive  du sens commun sont le gonflement des  chairs qui avoisinent le cou, leur engor-  gement et leur replelion- ce qu’il con-  firme en disant au chapitre vi : « C’cst  un signe de betise que d’ avoir 1 ’cncolure  epaisse. » Zopyre, dans Ciceron, n’ex-  prime-t-il pas la meme idee? Socrate,  dit-il, etait lourd et stupide, parce quii  navait pas le cou bien degage, que ces  parties etaient cheq lui comme engorgees  et obstruees. Cette conformation indi-  que cncore bien d’autrcs dcfauts : la    56    SOCRATE    TzlioK, 0 o 1 uo£i 8 e!'s, Crassa et plena cervix  iracundos signat, exemplo taurorum : Ol?  8s [Bpayjj; ayav, irdfi ouXoi, Brevis nimium  quibus est, ii sunt homines insidiosi, lu-  porum instar. Talem modo vidimus  illum malum equum, xpaxepauyeva et [Bpa-  yuxpayjiXov. Talem nisi fallor se indicat  Socrates, aut potius talem significat  Plato Socratem, a natura fuisse.    21. Videamus reliqua. Equus malus  Socratis est — sp\ xa wxa ).asto;, hirsutus  circa aures. Libidinosi, Xayvou, apud  Aristotelem ( c . 3 extr. p. 1174, C) o t  xpdxoupot oaa$T?, densa pilis i. e. hirsuta  tempora. Deinde (c. 6. p. 1174, C) oi  xa yecXrj “aysa eyovxe; puopoi — avacpdpexai    £7ii xou; ovou;. Physiognomones crassa labia  stultitiae characterem faciunt, ob simili-  tudinem asinorum. Quid de se Socrates  (Xenoph. 1. c.) in ludicra cum pulchro  Critobulo contentione? Ata 76 r.ayla. syeiv  xa ylCkt], oux otst xa\ [xaXaxaSxspdv oou 'iyv.v xo  csfX7]p.a; Propter labia crassa suum putat  osculum mollius. Et, v Eotxa syw xaxa xov    et l’amour grec 5 7   nuque epaisse et charnue denote un  homme violent, par similitudo avec le  taure au ; ceux qui l’ont trop courte sont  ruses, par similitude avec le loup. Or,  cette indication, 1’encolure epaisse et  courte, figure parmi les marques du  mauvais cheval. Si je ne me trompe  Socrate avoue qu’il etait bati de la sorte,  ou plutot c’est ainsi que le depeint Platon.   21 . Voyons le reste. Le mauvais che-  val Socratique a les oreilles velues : Aris-  tote designe comme libertins ceux qui  ont du poil jusques sur les tempes. De  plus, les physionomistes notent les  grosses levres comme un indice de betise,  par similitude avec 1’ane. Or que lisons-  nons dans la plaisante discussion (Xeno-  phon, 1 ) de Socrate avec Critobule? —  « A cause de ses l&vres charnues il pense  que son baiser est plus sensuel », et plus  loin : « Je te par ais avoir, 6 Critobule,  une bouche plus difforme que celle de  Vane, avec ces bourrelets qui me tienncnt  lieu de levres. »   aov Xoyov x at Ttov Ovojv aiayiov to GTOu.a lysiv,  turpius os quam habent asini illum  mollem labiorum tumorem habere tibi,  o Critobule , videor.   22 . Simus fuit, ut vidimus, Socrates :  at|jio-po'ato7:o; est malus equus. Quid Phy-  siognomones, atque adeo Zopyrus ? Si  fides Aristoteli (c. 6. p. iiyg, B.) 01  G'|j.7jV Eyovts; piva, Xayvor avacpspezai i~\ tou;  iXa^ou;, Simi sunt libidinosi, exemplo  cervorum. Patulas quoque versus nares  suas, qu£e possint odores undecunque  oblatos excipere, laudat sipojv Socrates  Xenophonteus , pra ? Critobuli naribus  humo obversis. Ot ;xev yao ao\ (xuxT7jpE; ei;  yrjv opcSat, ol 8’ eijloi ava“£"tavTat, wgte tx;  T:av~o0£v oGua; izpoa ov/yOou. At Physio-  gnomones ( I . C.), 0:; o! p.uxT7jp£$ ava"E^"a-  pL^vot, OupiojoEi;, Iracundi sunt, quorum  patula? nares, quod in ira diffundi so-  lent. Iracundum valde a natura fuisse  Socratem, non soli credamus Cy r rillo,  quamvis Porphyrium auctorem laudat ,  qui ab Aristoxeno se illud dicat acce -   Socrate, nous le savons, etait ca-  mard ; son mauvais cheval a les naseaux  ecrases du singe. Quel indice en tirent  les physionomistes et Zopyre ? Aristote  dit : « Les camards sont lascifs, par simi -  litude avec le cerf ». Socrate declare  quii a les narines lar gement ouvertes ,  comme pour subodorer de toutes parts  les parfums. Jaime mieux cela, dit-il,  que d’avoir, comme Critobule , un ne^  penche vers le sol. Mais d’apres les phy-  sionomistes, c’est 1’indice d’un tempera-  ment porte a la colere. Que Socrate ait  etedun naturel violent, nous ne nous en  rapporterons pas la-dessus seulement a  Saint Cyrille, quoique son temoignage  soit corrobore de ceux de Porphyre etd’A-  ristoxene et qu’il dise en propres termes :  « Socrate etait devenu si irritable qu’il  ne pouvait moderer ni ses paroles ni ses      pisse, ’'Ote <pXe-/0e't7] utzo zou TrdOou; toutou [de  ira sermo est) ostvrjv etvat xr ( v aayr][jLO(Hjvr)v •  ouoevo; yap ouxe ovopiato; azoa^saOat oSxe  -payjj.ato;, Eo importunitatis progressum ,  ut nullo neque verbo neque opere absti-  neret : sed ipsi de se credamus Socrati,  qui tam gravi ac molesto sibi, quam fuit  Xanthippe, patientia ? et mansuetudinis  gymnasio opus fuisse, fassus sit apud  Xenophontem [Sympos. 2, 10 ) BouXo'|ievo;,  dv0pco7tot; y prjoOat jcat opuXe Tv, Tauxrjv x&ttj-  ptat, sii eloco;, oxt, et lauxrjv 'j"Otaco, PAAIQS  TOIS TE AAAOIS 'AIIASIN, avOptfaoic  auveaouat, Quam ferre si posset, facilis  esset cum aliis omnibus conversatio.    23 . Unum superest : e^^OaXpto; erat  Socrates. Itaque ita jocabundus disputat  cum pulchro Critobulo, ut cum primo  convenisset, Pulchras esse res , quatenus  respondeant consilio, propter quod ha-  bentur ; roget eum , Cujus rei gratia ha-  beamus oculos? eoque, ut necesse erat ,  respondente, Ad videndum, inferat ,  Suos ergo pulchriores esse, qui Sta zo   actions ». Croyons-en Socrate lui-meme;  dans le Banquet de Xenophon , il avoue  que le caractere acariatre de Xanthippe  fut pour lui la meilleure ecole de pa-  tience et de douceur; que par la suite il  lui fut plus facile de supporter la con-  tradici ion.    23 . Il ne reste plus qu’une chose : So-  crate avait les yeux saillants. Il dispute  la-dessus agreablement avee le beau Cri-  tobule, et le fait convenir d’abord que  toute chose est belle pourvu qu’elle re-  ponde au but en vue duquel elle existe.  Il lui demande alors : Pourquoi faire  avons-nous des yeux ? — Pour voir, re-  pond naturellement Critobule. — E/i bien  alors , dit Socrate, mes yeux sont les plus  beaux de tous, car iis me sortent de la    £7it-oXatot sivat, quod emineant, non ea  modo, quas exadversum sint videant, sed  etiam quae a latere. Et cum diceretur ,  secundum hmc pulcherrime oculatum  (euo^OaXjj-GTa-ov : ) animal esse cancrum,  id ipsum affirmat. Jam Physiognomon  Aristoteles (c. 6. p. i ijg, D) "Oaoi i£6z>-  OaXjjiot, inquit , aS&vepoi, Fatui sunt, quibus  oculi eminent : rationem petit ab judicio  quodam decoris et convenientia ■ naturali ,  et ab similitudine asinorum. Male de  horum gente meritus est Stagirita :  quce videtur ex hoc prcesertim libello  contraxisse infamiam illam , qua ab eo  inde tempore, et Platonis quibusdam  dictis, onerata est : honestum superiori  cetate animal, cujus majestatem, ut Var-  roniano verbo utamur, (de R. R. 2, 5,  4) adhuc agnoscebat Homerus. De hac  re adjicietur potius huic disputationi  quoddam corollarium, quam ut longius  digrediamur a Socrate.   tete, si bien que je puis voir non-seule-  ment devant moi, mais & droite et d  gaiiche. Son interlocuteur lui repond  qu’a ce compte les crabes ont de tres-  beaux yeux, et Socrate affirme que c’est  parfaitement vrai. Or, d’apres Aristote,  les yeux saillants sont 1’indice de la sot-  tise; il tire ce pronostic de certains rap-  ports naturels de convenance, de syme-  trie, et de la ressemblance que ces yeux  offrent avec ceux des anes. Le philosophe  de Stagyre a par la bien mal merite de  cette race inoffensive, et ce doit etre a  partir de ce petit traite qu’il acquit le  mauvais renoni confirme depuis par  Platon lui-meme. L’ane, cet honnete  animal, etait mieux apprecie des genera-  tions precedentes, et Homere se plaisait,  suivant le mot de Varron, a lui recon-  naitre de la majeste. Nous ferons de cela  un corollaire a cette dissertation pour ne  pas trop nous eloigner presentement de  Socrate (i).    (i) Gesner a «Jcrit un appendice intitulc De antiqua  Nempe tempus est, ut videamus,  quorsum evadat ille de bono et malo  equo Myihus. Ad conspectum pulchri  (p. 34 j, F) bonus ille quidem aurigee  obsequitur, contineri se patitur, malo  alteri , quantum potest reluctatur. Simile  certamen est in pulchro, qui amatur :  repugnat malo isti equo bonus illius  jugalis, hic enim est (p. 348 , G) 6 [xo'£u£,  et ipse auriga adeo repugnat [aet’ dtSous  xat Xdyou, cum pudore et recta ratione. Si  ergo ita vincant meliora, et ad vitam  ordinatam, quae eadem philosophia est,  ducant illum currum, beatam et concor-  dem hic vitam agunt continentes se, et  decus suum tuentes, syxpatcTs auroiv xat  xdajjuot ovtss, in servitutem redacto illo  equo, cui vitiositas animae inerat; in li-  bertatem asserto eo, cui virtus. Tandem  vero alati ac leves denuo facti, sic de tri-  bus illis certaminibus (de quibus §. 12)   asinorum honestate, imprime i la suite du Socrates  sanctus pcederasta ; il ne nous a pas sembl£ otfrir  assez d’interet pour Ctre traduit. (Note Ju Traduc-  teur.)  II est temps de voir ou il veut en  venir avec son Mythe du bon et du mau-  vais cheval. A Taspect de la beaute, ie  coursier docile obeit au cocher et se laisse  contenir; il resiste de toutes ses forces a  son mauvais compagnon. L/objet aime est  lui-meme en proie aunesemblablelutte ;  son bon cheval se defend contre les ten-  tatives de son mauvais compagnon d’at-  telage, que de plus le cocher s’efforce de  contenir par la pudeur et la raison. Si les  meilleurs instincts remportent la victoire  et conduisent le char dans les chemins de  la vie rangee, cest-d-dire de la philoso-  phie, les deux amant s vivent dans le bon-  heur et bunion, maitres d’ eux-memes  et regles dans leurs mceurs : iis ont  dompte le mauvais cheval, qui repre-  sente le vice, et affranchi 1’autre qui re-  presente la vertu. Recouvrant enfin leurs  t ailes et leur legbrete primitives , iis sor-  tent vainqueurs de ces trois luttes vrai-  ment Olympiques dont nous avons parle  plus haut. Socrate peut donc dire*sans  hesitation que ccux qui se prescrvcnt.  vere Olympicis, unum vicerunt. Absque  hcesitatione igitur beatissimos esse dicit,  qui se puros et castos ab amore Venereo  servaverint.    25. At nunc sequitur apud Platonem,  in quo defendere illum , Platonem, in-  quam, nam Socratis causam hic segre-  gandum putamus (vid. 6) paullo diffi-  cilius est; tacuisset enim forte sapientius :  sed non iniquum (i) excusare. Nempe  his, quee modo prolata sunt, subjungit,  quee non scripta equidem malim : sed  pono, ne quid dissimulasse videar, ne  parum bona fide egisse. Quam vero caute,  quam suspensa velut manu illud ulcus  tractet, videre opera? pretium est. Eav’  os 8tatT7) <popzi7Ui)~ipx ~z xat A<I>IAO—  cptXoTtjxu) 8s yprfacjvzx'., -i/' av ~oj ev uiOat;  sitivi a)xA7) dasXsta Tci> axoXaTCto ajTOtv Gno-  JXiytco XaSovTE, xa\ tjrjya; xopojpo-j; aovaya-  yovTE et; toeutov, tf ( v u ~6 :wv -oXX oiv [xaxaot-    fi) Multum certe facilior causa Platonis, quam  alicujus Beneventani Episcopi : aut aliorum, quos  vrxterco sciens. purs et chastes, de 1’amour Venerien,  jouissent de la plus grande beatitude.    25. Ce qui suit, chez Platon, est un  peu plus difficile a expliquer; chez Pla-  ton, disons-nous, car ici nous croyons  devoir separer sa cause de celle de So-  crate; evidemment il aurait mieux fait  de se taire , mais il n’cst pas impossible  de l’excuser (i). A ces choses sublimes  que nous venons de transcrire, il en  ajoute d’autres que j’aimerais mieux lui  voir passer sous silence; je les exposerai  cependant, de peur de paraitre rien dissi-  muler et manquer un peu de bonne foi.  Il faut ici donner le texte pour qu’on    ( 1 ) Son cas est en effet moins grave que celui de  certain eveque de Bdnevent et de quelques autres que  je ne veux pas nommer. — (L’auteur fait ici allusion  a 1’archeveque Giovanni .delia Casa et a son fameux  Capitolo dei forno ; mais il ne 1’avait probablement  pas lu, et il se meprend, comme bien d’autres, surle  sens de ce celebre petit poeme. — Note du Traduc-  te ur.)    68    SOCRATE    cTr;v atpeotv £tXcTr ( v ~t /ai Ste^pa^avxo x x X.  Si vero vitam vivant LICENTIOREM  et A PHILOSOPHIA ALIENAM, ean-  demque ambitiosam, forte aliqua in  ebrietate aut qua alia negligentia depre-  hensas INCAUTAS animas equi illi  uiriusque amatoris indomiti, eodem con-  ducant, et sic illam quce beata vulgo vi-  detur electionem faciant, et (turpe illud  facimts) peragant : eoque peracto per re-  liquum tempus utantur quidem (illa  voluptate ) sed raro, quippe qui non  omnino deliberata mente (sed deprehensi  velut incauti ) hoc agant — etiam hi  praemium non parvum amatorii illius  furoris (non Venerei, de quo modo dic-  tum, sed philosophi , de quo §. i3) aufe-  runt : in tenebras enim illas et illud sub  terram iter non veniunt, etc.  voie avec quelle prudence et sans ap-  puyer la main, il decouvre cet ulcere de  la civilisation Grecque. — « S’ils embr as-  sent , dit-il, nn genre de vie moins austdre,  etrangbre a la Philosophie et livree aux  passions desordonnees , il arrivera quau  milieu de Vivresse ou de quelque autre  etourderie les coursiers indomptes sur-  prendront leurs ames et les meneront l’un  et l’ autre au meme but,' iis prendront alors  le parti de faire ce en quoi , selon le vul-  gaire , consiste le supreme bonheur et  (c’est la le crime infame) satisferont leurs  desirs. Dans la suite , iis renouvelleront  leurs jouissances , mais rarement, parce  qxCelles ne sont pas approuvdes de l’dme  entiSre et qu’ils agissent comme par sur-  prise et sans defense. C’est pourquoi ce  qu’il y a encore d’excellent dans leur  amour (le pur amour pliilosophique et  non le desir Venerien) recevra plus tard  sa recompcnse ; iis niront pas, aprds leur  mort, dans ces tenebres et par ces routcs  souterraines,.., etc. »    yo   Apertum est his, qui et sermonem  Platonis intelligunt, et non ultro qucerunt  crimina, non illum prcemium constituere  pceder astice turpi, non Philosophice genus  facere flagitiosum puerorum amorem :  sed summam c.ulpce esse hanc , quod di-  cat, si qui coelestis illius pulchritudinis,  quam in volatu illo suo viderint, deside-  rio icti, etiam pulchros amant, et dum  arctius eos complectantur, liberius cum  iis versentur, etiam ad turpe facinus ab  ebrietate, certe ex improviso, incauti,  proster deliberatam voluntatem, abri-  piantur, id quod ipsis contingat ob genus  vivendi licentius atque a Philosophia alie-  num, iis tamen prodesse primum illud7'io-  biliusque philosophandi propositum, ut  non cum reliquis ad inferos mittantur,  et ad poenarum locum (vid. §. 12) non  cogantur post ternas millenorum anno-  rum periodos , septem alias subire ete  sed facilius alas ut recipiant, quibus evo-  lare ad coelestia, deum aliquem sequi du-  cem possint. Hactenus reprehendat Pla-  tonem, si quis volet, non ut laudatorem    et l’amour grec 7 1   26. II est bien clair, pour qui veut  comprendre Platon et ne cherche pas de  griefs de son plein gre, qu J il n’assigne  pas cette recompense aux fauteurs du  vice honteux, qu’il ne fait pas de 1’igno-  minieux amour masculin un attribut  special des Philosophes. On voit, au con-  traire, combicn il blame ceux qui, les  yeux encore eblouis de cette beaute ce-  leste entrevue par eux dans leur vol an-  terieur, con^oivent des desirs pour la  beaute terrestre, recherchent les jeunes  garcons, et a force de les embrasser etroi-  tement, devivre familierement avec eux,  se trouvent entraines a 1 ’improviste, au  milieu de livresse, par surprise et sans  que leur volonte y ait part, a conimettre  l’acte immonde; cela leur arrive, parce  qu’ils ont adopte un genre de vie trop  libre et qu’ils negligent la Philosophie.  Iis tirent cependant ce profit, de s’etre  d’abord propose pour but cette noble  Science, qu’ils ne sont pas relegues aux  enfers avec tous les autres hommes ; apres  une revolution de trois mille annees, iis  Pcederastice, sed ut clementem nimis ,  lentumque adeo castigatorem : qui prae-  sertim in aliis peccatis severum satis ac  durum se praebuerit (1 ).    27 . Sed , si cequi esse volumus, si de  nostris religionum doctoribus ecquos ex-  periri judices, videamus etiam , quid dici  pro ratione illa Platonis possit , quid pro  Socrate, quatenus et ipse non horribili  flagello sectari vitia id genus solebat.  Distinguamus legislatoris personam et  Philosophi. Legibus Atheniensium primo  antiquissimis illis a Cecrope , sanctitas   (1) Bona pars libri De re publica decimi in eo  consumitur, ut a"apat~r]Tou?, a^apa[xu0rjTOU?,  implacabiles sacrificiis Deos, ostendant. Vid. pras.  a p. 6 72 extr. et conf. qua: collegit Davis. ad Gic.  de Legib. 2. c. j 6 . p. i 3 j    n’ont pas a en su.bir sept mille autres;  iis recouvrent plus vite leurs ailes et peu-  vent s’elancer vers les spheres celestes, a  la suite d’un des douze dieux. Que l’on  reproche donc a Platon, si l’on veut, non  pas de s’etre fait 1’apologiste de la Pede-  rastie, mais d’avoir ete trop clement,  de ne pas chatier assez ferme, lui surtout  qui pour de moindres fautes se montre si  dur et si severe (i),   27. Mais soyons equitables; prenons  d’honnetes gens pour juges de nos Phi-  losophes, voyons ce que l’on peut dire  en faveur de Platon ou de Socrate, et  jusqu’a quel point ce dernier a vraiment  neglige de flageller le vice en question.  II faut distinguer le legislateur du Phi-  losophe. Les plus anciennes lois Athe-  niennes, celles de Cecrops, proclamaient  la saintete du mariage. La loi de Dracon    ( 1 ) II emploie la majeure partie du X® livre de sa  Republique a montrer que les dieux sont insatiables  de sacrifices. Comparez avec ce qu’a <5crit Davies  sur le Tr ciite des lois , de Cicerrr.i.   matrimoniorum constituta : Draconis  lex capite plectebat adulteros : Solon li-  beram faciebat marito potestatem sta-  tuendi in adulterum in facto deprehen-  sum , quidquid liberet. Itaque mirum  fuerit si masculam libidinem non punis-  sent.   28. Sed bene habet : supersunt monu-  menta Solonis hac etiam de re legum,  diligenter collecta a Sam. Petito (de Le-  gibus Att. 6, 5 et in Commentario  p. 468 sqq.) prcesertim ex vEschinis in  Timarchum (a p. 186 edit. Aurei. Al-  lobr. 1607. /•) et Demosthenis contra  Androtionem (a p. 421) orationibus :  unde hoc constat, qui vi vel persuasione  ingenuum corrupisset, produxissetve,  gravissima poena (quce ad ultimum sup-  plicium corruptoris et productoris, in-  terdum etiam corrupti, poterat progre-  di) affectum esse. Qui illam patiendi pro  mercede turpitudinem admisisset, si  effugisset poenam aliam, illi neque lice-  bat inter novem Archontas esse, neque punissait de mort les adulteres; Solon  laissait la faculte au mari, dans le cas de  flagrant delit, de se faire justice comme  il 1’entendrait. II serait bien surprenant  que ces deux legislateurs fussent muets  a l’egard de Tamour masculin.    28. Mais nous avons mieux ; il reste  des lois portees par Solon sur la matiere  divers fragments precieusement recueillis  par Samuel Petit (voy. ses Lois attiques  et le Commentaire dont il a accompagne  cet ouvrage); ii les a surtout tires du  Discours contre Timarque, d’Eschine, et  du Discours contre Androtion, de Demos-  thene. Il y est dit : Quiconque, memesans  violence, aura debauche ou prostitue un  homme de condition libre sera passible  de la peine la plus rigoureuse. — (Le cha-  timent pouvait etre la mort, dans l’un  comme dans Tautre cas, et pour le liber-  tin, comme pour savictime.) — C elui qui  se sera prostitue pour de l’argent, s’il  echappe a toute autre peine, ne pourra ni fungi sacerdotio, neque syndicum creari,  neque ullum magistratum vel intra vel  extra urbem, neque sortito neque suf-  fragiis, capere, neque pro Praecone s.  oratore mitti usquam, neque sententiam  dicere unquam, neque in templa publica  intrare, neque in pompa coronata et ip-  sum coronari, neque intra sacros fori  cancellos (evto; twv t rj; ayopa? TteptppavTT]-  P’'wv) ingredi. Si quis vero damnatus im-  pudicitiae quidquam horum fecisset, ca-  pital erat. 0avato> r7)[j.'oua0w sunt verba  legis ab As schine recitata. Plura huc  transferri opus non est , cum rarum esse  Petiti opus desierit. Summa capita habet  etiam in Themide Attica ( 1 , 6) Meur-  sius.    2 q. Utrum seynpcr valuerint istce le-  ges? annon eas perruperit interdum au-  etre l’un des neu f archontes , ni remplir  aucune fonction sacerdotale , ni etre nomme  delegue d’une ville ; il lui est interdii  d’exercer aucune magistrature, soit en  dedans , soit en dehors de la cite , quii  ait et e designe par le sort ou par les  suffrages de ses concitoyens ; d’etre en-  voyd nulle part comme Herault, ou comme  orateur ; de prononcer aucune sentence ;  de penetrer dans les temples publics; de  faire partie des processions et d’y porter  une couronne sur la tetc; de franchir  ienceinte sacree de l’Agora. Qiiiconque,  deja condamne pour fait de prostitutiori ,  fera ou acceptera de faire une de ces  choses sera puni de mort. Puni de mort,  tel est le texte meme de la loi lue par  Eschine. II est inutile d’en transcrire ici  davantage, car Touvrage de Samuel Petit  est loin d’etre rare ; Meursius en a meme  donne, dans sa Themis Attique, les cha-  pitres importants.   29. Ces prescriptions eurent-elles tou-  jours force de loi? Ne purent-elles etre dacia , astus subterfugerit , eluserint  rhetores? annon ipsa poenarum gravitas  impunitati occasionem non nunquam de-  derit? an non professce impudicitiae ho-  minis utriusque sexus, libidinum publica-  rum victimce, toleratce sint? An denique  poetce non multa saepe impudenter scrip-  serint, fecerint? jam non quceritur. Uti-  nam non avxtxatrjyopia quadam repellere  possent veteres Attici cujuscunque vel sec-  tae vel cetatis homines, si qui acerbius ex-  probrare iis velint, quce de Comicorum pe-  tulantia sublegerunt illi apud Athenaeum  (i3, 8 p. 601 ) Deipnosophistce, et quae  colligere ex illa parentum cura apud  Platonem (Conviv. p. 3ig, E), Pceda-  gogos constituentium suis filiis, qui ne  quidem colloqui suis cum amatoribus  (turpibus nimirum et flagitiosis) eos pa-  tiantur : e. i. g. a.    3o. Ceterum severitate legum eo ma-  gis opus erat, quod obtentum fiagitiis    et l’amour grec 79   enfreintes par les audacicux, adroitemcnt  tournees par les gens ruses, eludees par  les avocats ? La rigueur du chatiment ne  favorisa-t-elle pas elle-meme Timpunite ?  Est-ce qu’on ne tolera pas des prostitues  de profession, victimes de 1’incontinence  publique et remplissant le role de l’un et  1’autre sexe ? Les poetes n’ont-ils pas ef-  frontement deerit ces turpitudes, ne les  ont-ils pas mises en action sur la scene ?  Cela ne fait aucun doute. Plut au ciel  que les Atheniens de nfimporte quelle  secte et de quelle epoque ne pussent re-  tourner Taccusation a ceux qui leur re-  procheraient trop vertement ces horreurs  etalees par les poetes comiques et recueil-  lies par les Deipnosophistes d’Athenee, ou  ce qu’on peut induire de 1’inquietude des  peres de famille confiant leurs fils, d’apres  Platon, a des precepteurs severes, pour  les empecher de s’entretenir avec leurs  amis, — des amis infames et detestables.   3o. Les lois devaient etre d’autant plus  severes, que les coutumes de la Grece    8o    SOCRATE    non nunquam praeberet (ut nempe res  sancta ? prope omnes , ut ipsce populorum  sceculorumque pene omnium religiones ,  atque ceremonice) ille puerorum amor ,  castus , legitimus, sanctus, quo tanquam  potentissimo virtutis cum bellicce tum  civilis incitamento utebantur qucedam  Grcecorum respublicce : quarum legisla-  tores, cum viderent, ignava fere esse  virtutis prcecepta, firmis licet nixa de-  monstrationibus, nisi ea affectu quodam  et tanquam spiritu animentur, nisi ev0ou-  aiaajxou quoddam genus accedat, quo acti  homines et commoda sua , et jacturas, et  salutem, et pericula et tormenta contem-  nerent. Hinc excogitata et in usum  civitatis recepta sunt splendida ista et  efficacissima remedia, Religio, Pudor,  Amor patrice, Gloria, res quondam po-  tentissimce, quod ex illarum effectibus  judicare pronum est: nunc prceclara quo-  rundam, qui sibi Philosophi videntur,  opera fere ad inanium vocabulorum stre-  pitus relata, et, dum relata sunt, etiam  redacta. comme toutes les choses saintes, comme  les cultes et les ceremonies religieuses de  presque tous les peuples et de tous les  temps) donnaient plus de facilite a la  depravation. La fervente amitie entre  jeunes gens, Tamitie chaste, legitime, sa-  cree, etait favorisee, dans les republiques  de la Grece, comme le plus energique  stimulant du courage militaire et des ver-  tus civiles. Leurs legislateurs savaient  bien que ni la vertu ni le courage ne s'in-  culquent a 1’aide de demonstrations, si  bonnes qu’elles soient ; que 1’homme est  naturellement faible a moins qu’il ne soit  pousse par la passion et par 1’orgueil ou  entraine par cette espece d’enthousiasme  qui lui fait mepriser les aises de la vie, la  fortune, la vie elle-meme, et affronter les  perils et les supplices. C’est pourquoi l’on  mettait en jeu, dans Torganisme de la cite,  ces heroiques et sublimes mobiles, la Re-  ligion, 1’Honneur, 1’Amour de la patrie,  la Gloire, mobiles autrefois bien puis-  sants, comme nous pouvonsen juger par  ce qu’ils firent accomplir; aujourd’hui,In illis igitur rei publicce bene ge-  renda? incitamentis, an instrumentis?  erat Amor ille adolescentulorum tum in-  ter se, tum inter ipsos et natu majores :  inde illa sacra Amantium cohors The-  bis, et Cretensium. Quanta illius vis  esset, et quam metuendus esset miles  amator, svOouatwv, et ab Amore simul  atque a Marte bacchans, occurenti in  prcelio hosti, ita enarrat 2E liantis (H.  V. 3 , g) ut IvOo-jatav et furere ipse prope  videatur. Idem (c. io et 12) Laconica  qucedam circa eam disciplina? publica?  partem instituta commemorat : V. G.  ab illis multatum esse virum alioquin  bonum, ea de causa , quod nullum ha-  bere juniorem, quem amando sui si-  milem, et per hunc forte etiam alios,  redderet : itemque peccantis adoles-  centuli virum amatorem punitum , cui grace a de certains Philosophes, ou soi-  disant tels, ces grandes choses ne sont plus  que de vains mots, creux et vides, dont le  sens s’affaiblit a mesure qu’on en abuse.   3 1 . Ainsi, 1’Amour des jeunes gens, soit  entre eux-raemes, soit entre eux et leurs  ames , etait favorise partout en Grece ,  pour le bien de la chose publique ; voila  ce qui donna naissance a la cohorte sa-  cree des Amants , chez les Thebains et  chez les Cretois. Quel etait le courage de  ces sortes de soldats, quelle etait la ter-  reur qu’ils inspiraient, lorsqu’ils rencon-  traient Tennemi, ivres a la fois d’amour  et de sang : c’est ce que Elien nous a fait  connaitre, en partageant, pour nous les  mieux depeindre, leur impetuosite et  leur fureur. II nous indique aussi qu’il  y avait quelque chose de semblable dans  les institutions de Sparte ; un Lacede-  monien fut mis a 1’amende , quoique  excellent citoyen, pour avoir neglige d’ai-  mer quelque compagnon plus jeune que  lui, a qui il aurait inculque ses vertus et nempe illius imputari vitia posse cen  serent.    32 . Etiam illud Laconicum narrat , so-  litos ibi adolescentulos petere ab ama-  toribus , viris nempe bonis ac fortibus ,  stareveTv auTot ?, ut se adflarent. Interpreta-  tur illud verbum , Laconibus proprium,  sElianus per epav, amare : idem factum  ab Hesychio V. sp.-v£ Tjj-ou, et epa, eia7cver.  Multa similia ad utrumque Hesychii  locum viri docti , post Meursium (Mis-  cell. Lac. 3 , 6 ) sed nihil, unde ratio ap-  pellationis queat intelligi. Nec satisfacit,  quod refert, non probat Eustathius (ad  Odyss. A, 36 1 p. 1743 et ad E, 478  p. 240, 38 ) EtarevElxai yap tpaat, t 7j? pLOp^?  ti /at x i); wpa;, inspirari aliquid fornice et  pulchritudinis. Hcec enim Laconicce se-  veritati parum conveniunt, si fides anti-  quis, ipsique adeo JEliano in ipso illo,  de quo agimus , loco. Srap-ctaTT)? epio; ata-  qui eut ete capable, a son tour, de les  transmettre a d’autres. Lorsqu’un jeune  homme commettait une faute, les Spar-  tiates punissaientson intime ami, comme   responsable des vices qu’il lui tolerait.   /   32. Elien rapporte encore cette autre  coutume de Sparte, que les jeunes gens  exigeaient de ceux dont iis etaient aimes,  toujours choisis parmi les meilleurs et les  plus braves, ut se adflarent. II explique  le verbe ekjttvs Tv ( adflare ), propre aux La-  coniens, par cet autre : spav (aimer), et He-  sychius de meme aux mots EpjcvEtgou, ipS  et eiu7iveT. Divers savants ont accueilli cette  interpretation, a 1’exemple de Meursius;  mais je n’ai rien compris aux raisons  qu’ils en donnent. Je ne suis pas davan-  tage satisfait de Tassertion emise, sans  preuve, par Eustathe, dans son commen-  taire des chants IV e et V e de YOdyssee :  a Les inspires (i) sont guides dans leur    (i) On appelait indifTeremment ItaKVETxat, ii a-  7UvrjXa' (inspires) ou spacjiat (amants) ces couples ypov oux otosv x. t. X. Spartanus amor  turpe nihil quidquam novit. Sive enim  ausus fuerit adolescentulus pati turpia  (upo-v uzoaeivat) sive amator facere (£»|Bp6  oat) neutri quidem Spartee manere pro-  fuerit : aut enim patria privarentur, aut  vita ipsa. Quare illud ela-vetv s. s[j.7ivsTv,  illos £ta7iVTjXa;, quos eosdem aixa? vocat  Eustathius (Hesych. afcav, s-aTpov) ab in-  spirando s. adspirando divino quodam  spiritu, dictos arbitror , unde afflati, ut  7rveuu.atocpo'poi quidam et svOouaiwvTsc, divi-  no quodam furore perciti , ruerent. Hic  est ille furor, quem supra i3) tetigi-  mus, et de quo plura sunt in Platonis  Phcedro (p. 344, A. 346, A. 352, E).  Nempe spiritum 7iveSp.a quum dicebant an-  tiqui, non rem illi tantum cogitantem in-  dicabant, sed rem subtilem, magna ean-  dem movendi et agendi vi praeditam, etc.   de friires d’armes , si terribles dans les batailles.  'Etcnvelv (ad/lare) peut se traduire positivement  par meter les souffles ou metaphoriquement par  avoir des aspirations communes. ( Note du Tra-  ducteur.)    ET l’aMOUR GREC 87   choix par la beaute et 1’elegance corpo-  relle. » Cela me parait peu convenir a  cette severite Laconienne dont temoi-  gnent tous les anciens et Elien lui-meme,  a Tendroit en question : « On ignorait a  Sparte ce que detait que les impures  amours. Si quelque jeune homme eut ose  se prostituer , ou prendre 1’autre role, il  lui eut mal reussi de rester d Sparte; il  y allait pour lui de Vexilou de la mort. »  C’est ce qui me fait croire que ces inspires ,  designes aussi sous les noms de compa-  gnons, freres d’armes, par Eustathe et  par Hesychius, etaient ainsi appeles du  souffle ou de Tesprit en quelque sorte  divin qui les animait, lorsqu’ilsse ruaient  sur l’ennemi comme transportes d’une  fureur plus qu’humaine. Nous avons deja  parle de cette espece de delire, dont il est  si souvent question dans le Phedre de  Platon. Il convient en effet de remarquer  que les anciens n’entendaient pas comme  nous par esprit une faculte intellectuelle,  mais une essence subtile, douee d’une  grande forcc de mouvement et d’action. Non vagatur hcec extra oleas ora-  tio. Cum enim fuerit , quod, adhuc proba-  tum est, in Grcecia r.aiozptxizv.a. quaedam  honestissima, et sancta adeo , qua ad virtu-  tem, bellicam praesertim , et quidquid pul-  chrum est, incitari homines crederentur,  cum nomina spojvuo?, Ipaaxou, raioapaaxou,  itemque spwuivoy, -atot/.wv, et similia tur-  pitudinem nondum haberent : cum illud  raiSspaaxsTv res esset adeo honesta, ut quem  ad modum capital Romae erat servo, si  militarat, ita Solonis lege multaretur  quinquaginta plagis publice, qui servus  eXsuOspou 7ra'oo; spav, amare liberum pue-  rum, auderet : haec ita se cum haberent  omnia, nemo jam debet mirari, adoles-  centulorum esse amorem professum So-  cratem, fecisse illum, quae ante (§. i5)  dicta sunt, eaque scripsisse tanquam So-  cratis dicta Platonem, quae ex Phaedro  commemoravimus . Quod mitior est vel  Plato, vel ipse adeo Socrates, (si quis ei  tribuat, non satis ille quidem aequa ratio-  ne, quidquid apud Platonem ex ipsius  persona dictum ponitur) in hos etiam quos  Cette digression ne nous a pas  eloigne de notre sujet. Puisqu’il existait  en Grece , comme nous venons de le  prouver, une jcatBspao-rfta tres-honnete ,  sainte, on peut dire, et reputee propre a  pousser les hommes au bien et a la vertu,  surtout a la vertu guerriere; puisque les  mots d’amants, d’amis, de 7tad>epa<jTcu et  de 7:aioi7.wv n’avaient rien de honteux ;  puisqu’il etait meme si honorable de se  livrer a cette zcaSspaardtix, que la loi de  Solon punissait de cinquante coups de  fouet, subis en pleine place publique,  tout esclave qui aurait ose aimer un jeune  homme de condition libre; puisque tout  cela est irrefutable, personne ne doit s’e-  tonner que Socrate ait professe 1’amour  des j eunes gens, qu’il ait lui-meme eprouve  cet amour et agi en consequence; que  Platon nous ait transmis, comme l’ex-  pression des doctrines de Socrate, ce que  nous avons cite du Phedre. Sans doute  Platon ou, si l’on veut, Socrate, quoiqu’il  ne soit pas equitable de lui attribuer tout  ce que son disciple lui fait dire, se montre  mala libido ad turpitudinem transversos  abripuit 25 . 26) illud primo hanc  rationem , ut innuimus , habuit , quod nec  legislatorem hic, neque publicum accusa-  torem ageret ; sed Philosophum , sed  amatorem, amicum certe quidem, qui  non metu pcence deterrere a turpitudine  homines, sed virtutis amore revocare a  peccato vellet. Deinde erant forte, quibus  parcendum erat, juvenes a vitiis ejus-  modi non plane puri, Alcibiades , Critias ,  alii, 9[Xox''[j.o) illi quidem sed eadem «popti-  /Mxipcc et dcfikoaofM otattr) yprjaajxsvoi (vid.  §. 25 ) quos abscisse nimis ab omni fructu  Philosophice, ab omni ad virtutem reditu  excludere velle, et sic plane a se et a  virtute segregare, non erat consilii. Non  instituam hic comparationes, quce invi-  diam habere possunt : sed illud addam  unum, si forte aliquid veri sit ineo, quod  de liberiori Socratis adolescentia dictum  est /'§. 2) : si non mendax historia , e qua  refert Origenes contra Celsum , qui su-  periorem vitee conditionem primis Chris-  ti discipulis objecerat (l. 1. p. 5 o. pr.)    beaucoup trop clement envers ceux qu’un  infame desir pousse a Tacte honteux. Son  excuse, nous Tavons deja dit, c’est que ce  n’est pas ici un accusateur public ou un  legislateur qui parle, c’est un Philosophe,  un ami, un amant, et il essaye non de  detourner les hommes du vice en les ef-  frayant par la menaee des chatiments,  rnais de les dissuader d’une faute en leur  inculquant Tamour de la vertu. II y avait  d’ailleurs peut-etre autour de lui des  jeunes gens qui n’etaient pas irreprocha-  bles et envers lesquels il ne fallait pas se  montrertrop dur, un Alcibiade, un Cri-  tias, d’autres encore, pleins de fougue,  adonnes a une vielicencieuse et etrangere  a la sagesse; les priver de quelques-uns  des benefices de la philosophie, c’eut ete  leur fermer toute voie de retour au bien,  les eloigner de la personne du maitre et  par consequent de la vertu. Je ne cherche  pas a faire des comparaisons qui pour-  raient sembler malseantes; je veux ce-  pendant rapporter un fait, vrai ou faux,  qui a traita la jeunesse un tant soit peu  Phcedonem e lupanari traductum ad  Philosophiam a Socrate : quid facere  illum oportebat in hac disputatione?    34. Nihil igitur est in Phcedro , quod  urgeat Socratem : si quid incautius dic-  tum sit , illa Platonis culpa fuerit : quam-  quam si universam circumstantiam , ut  a nobis ostensa est , quis consideret , etiam  hunc accusare , vel non excusare, ini-  quum videtur. De Convivio Platonis jam  non opus est multis disputare. Distin-  guat mihi aliquis personas loquentes : ad  universam libelli descriptionem, quam  vocamus CEconomian, ad Allegorian  denique ab amore Venereo ductam , ac  translatam ad animos, quorum lenonem  se et obstetricem ferebat Socrates : ad  hcec, inquam , mihi attendat aliquis, et    et l’amour grec q3   dereglee de Socrate. C'est Origene qui le  raconte dans son traite contre Celse.  Celse reprochait aux premiers disciples  du Christ d’avoir ete tires de conditions  abjectes; Origene repondit que Socrate  avait bien tire Phedon d’un mauvais lieu  pour le convertir a la Philosophie. J e vous  demande un peu ce que ce Phedon venait  faire dans la discussion.   34. On ne rencontre donc rien dans le  Phedre qui puisse incriminer Socrate; s’il  y a ca et la quelques paroles imprudentes,  c’est la faute de Platon. Encore, si l’on  examine bien toutes les circonstances,  comme nous 1’avons fait, il serait injuste,  tout en blamant Platon, de ne pas lui  trouver d’excuse. Nous ne nous etendrons  pas longuernent sur son Banquet. Que  l’on distingue bien les uns des autres les  interlocuteurs, que Fon fasse attention  a 1’ensemble du dialogue, a ce que nous  appelons 1’economie de 1’ouvrage, que  Fon analyse enfin cette allegorie tirce  de 1’amour physique, puis appliquee aux   mirabor, si quid ibi sit , unde Jiagitio  ipsi praesidium, vel crimini in Socratem  jactato firmamentum peti possit. Sed est  in illo libro, quod maxime ad defenden-  dum a Socrate fagitium pertinet, quod  ut magis pateat, tota ultimee partis, et  velut actus postremi fabulae illius convi-  valis, CEconomia proponenda est, e qua  ipsa appareat, velle pro veris haberi Pla-  tonem, qua ’ in Alcibiadis personam con-  jecta de Socrate dicuntur.    35. Ebrius nempe Alcibiades ad eum  finem, ut neque pedes officium faciant,  comissator supervenit potantibus apud  Agathonem Socrati ceterisque. Hic, ex  lege compotationis , dextrum sibi accum-  bentem Socratem laudare jussus, obse-  quitur cum professione ebrietatis, ut  tamen (p. 332, G) vera se dicturum con-  firmet et redargui petat , si quid mentia-  tur. Ac primo sub imagine quadam lau-    et i/amour grec 9 5   idees, dont Socrate se donnait comme  l’entremetteur et Taccoucheur, et je serai  bien surpris si 1’on y decouvre quoi que  ce soit en faveur du vice infame ou a  1’appui de 1’accusation portee contre So-  crate. On pourra y puiser, au contraire,  les meilleurs arguments pour l’en defen-  dre ; mais il est necessaire d’exposer ici  toute 1’ordonnance de la derniere partie,  ou plutot du dernier acte de ce dialogue,  ou il est clair que Platon veut nous faire  tenir comme vrai ce qu’il a place, tou-  chant Socrate, dans la bouche d’Alci-  biade.   35. Alcibiade arrive a la fin du festin  dans un tel etat d’ivresse que ses pieds  refusent de le porter; il veut prendre sa  part de plaisir avec Socrate et les autres,  en train de boire chez Agathon. La, par  suite d’une convention adoptee entre les  convives, il est force de faire 1’eloge de  Socrate, assis a sa droite, et demande  de 1’indulgence, en se fondant sur ce  qu’il est ivre ; il affirme pourtant qu’il ne daturus Socratem , cum Sileno aliquo  (Conf. §. 18 J nominatim cum Satyro  Marsya , tibicine , illum comparat, cujus  figura, ex ligno, edolata ruditer atque  deformi, utebantur artifices pro theca,  quce intus haberet pulcherrimum aliquem  Mercuriolum (p. 333, F) : scilicet in  corpore deformi habitare animam pul-  cherrimam demonstrat : et esse tibicini  Marsyce similem Socratem, ob illam  vim demulcendi animos, cui resisti non  posset.    36. Deinde narrat, cum eundem pul-  chrorum sectatorem quendam ct capta-  torem videret, se, qui fiduciam fornice  haberet, sperasse, si pellicere virum ad  amorem sui (venereum nempe) posset,  eique se prceberet obsequiosum, impetra-  turum se ab illo admirabilem illam ar-  tem, et ablaturum, quce Socrates sciret,  omnia. Hinc narrat verbis quidem ho-  nestis modestisque , ct tamen venia ante dira que la verite et exige, s’il se trompe,  qu’on lui donne un dementi. II com-  mence, pour louer Socrate, par le com-  parer a ces grossieres figures de bois  representant Silene ou le satyre Mar-  t syas, le joueur de flute, sculptees sans  travail et sans art, dont les statuaires se  servaient comme de gaines, et qui rece-  laient a 1’interieur quelque joli petit Mer-  cure ; ainsi, dit-il, dans un corps difforme  peut habiter une belle ame; de plus, So-  crate ressemble au joueur de flute Mar-  syas en ce qu’il a, pour charmer, une force  a laquelle nui n’est en etat de resister.   36. II raconte ensuite que le voyant  s’attacher a la poursuite des beaux ado-  lescents et s’efforcer de les prendre dans  ses filets, plein de confiance en sa beaute  parfaite, il avait essaye de lui inspirer de  1’amour, comptant bien qu’avec un peu  de complaisance pour ses desirs il obtien-  drait de lui qu’il lui communiquat son  admirable science, et qu'il gagnerait a  cela tous les talents de Socrate. Alcibiade exorata ebrietati , et pro? fatus (p. 334 ,  C) uti servi aliique profani aures obtu-  rent (zuXa<; 7: avo [xEyaXai xot; walv £7ri0E<?0s)  quam varie, et quibus veluti gradibus,  frustra continentiam Socratis, temperan-  tiamquefrecte fortitudinis hic nomen adji-  cit) tentarit. Summam facit hanc, (p.  334 , G) ut Deos Deasque testes faciat,  se cum totam noctem sub eadem veste  cum Socrate jacuisset, non aliter ab  illo, quam ut filium a patre, aut a fratre  majori frater deberet, surrexisse. Itaque  se frustratum spei esse in homine, quem  hac sola forte parte capi posse putasset.    3y. Enumeratis deinde aliis Socratis  virtutibus, bellica prcesertim , qua sibi  etiam vitam servarit, addit, non se tan-  tum contumelia tali ab eo affectum , sed  Charmiden etiam , Euthydemum et    et l’amour grec gg   place ici , mais en termes honnetes et  mesures, quoiqu’il se soit excuse sur son  ivresse et qu'il ait recommande aux es-  claves et aux profanes de se boucher les  oreilles, le recit des gradations savantes  et de tous les stratagemes vainement mis  en oeuvre par lui pour induire en tenta-  tion la continence, la temperance ou plu-  tot, comme il le dit fort justement, l’he-  roique fermete de Socrate. II conclut en  disant : Je prends les dieux et les deesses  d temoin quapres avoir repose toute une  nuit d cote de Socrate, et sous le meme  m ante au , je me levai d'aupres de lui tel  que je serais sorti du lit de mon pere ou  de mon frere aine. Ainsi, le seul point  par lequel il croyait que cet homme fut  accessible avait tout a fait trompe ses  esperances.   37. Apres avoir ensuite enumere les  autres vertus de Socrate et appuye sur sa  valeur guerriere, a laquelle il etait lui-  meme redevable de la vie, il ajoute qu’il  n’est pas le seul, du reste, a qui Socrate alios multos, quos ille amoris simulatione  deceptos in potestatem suam redegerit ,  ou? oiito; s^aTCatojv w; IpaartT)?, Tuatoty.a piaXXov  autos -/.aOiaTa-ai avi’ epaotou. Nempe adu-  labantur vulgo amatores , certe qui turpe  quid spectarent , pueris aetatula sua et  illa ipsa adulatione superbientibus. Alia  ratio Socratica , quae etiam supra (§. 6)  in Lysidis argumento declarata est. Sua-  vissima sunt reliqua in Symposio Plato-  nis : eo autem referuntur omnia , ut in-  telligamus Socratis hanc fuisse consue-  tudinem . , pulchrorum amorem uti prae se  ferret , cum illis suaviter et amice ut  versaretur, ut virtutis illos amore im-  pleret , reliqua omnia non tanti esse os-  tenderet , in quibus valde sibi elaboran-  dum vir sapiens existimaret. Sanctus ergo Paederasta Socrates ,  et foedissimi , si quod usquam est , crimi-  ait fait un tel affront; que pareille chose  est arrivee a Charmis, a Euthydeme et a  bien d’autres qu’il avait feint d’aimer  tendrement, pour mieux les asservir et  les diriger. Les amis vulgaires, ceux sur-  tout qui esperaient de honteuses com-  plaisances, se faisaient les flatteurs des  jeunes garcons, et ceux-ci n’en etaient  que plus fiers de leur beaute. Autre etait  la methode Socratique, comme nous l’a-  vons montre plus haut en exposant le  sujet du Lysis. Ce qui suit, dans le Ban-  quet de Platon, est charmant ; tout aboutit  a nous montrer que telle etait la coutume  de Socrate de rechercher les bonnes gra-  ces des jeunes gens que distinguait un  exteneur gracieux, et de vivre avec eux  dans une douce et agreable intimite, afin  de leur faire aimer la vertu; ce point  obtenu, il jugeait facile de leur donner  les autres qualites qu’un sage doit s'ap-  pliquer a acquerir.   38. Ainsi, Socrate n’avait pour la jeu-  nesse qu’un amour chaste ; il etait pur du  nis expers : a quo etiam alios avocare  studuit , quod Critice exemplo docet  Xenophon, ejus, qui post in triginta  tyrannis fuit , quem Euthydemi pudori  insidiari cum sentiret , utxov ti Tiaay eiv  dixit, suillo more prurire, eaque re ini-  micitias hominis factiosi et potentis sibi  contraxit; quibus carere poterat , nisi  potius fuisset officium.    3g. Sed admonet me Xenophon de  crimine alterius illo quidem generis, et  multo, ut in malis, tolerabiliore : quod  tamen ipsum etiam in illo adhaerescere,  quantum in me est, non patiar. Accusa-  tur, ut naturalis quidem , sed malce ta-  men libidinis suasor et leno quidam,  propter ea quce referuntur in Xenophon-  tis Convivio (c. 7 et g). Sed nec ibi quid-  quam est, cujus bonum Socratem, aut  illius amicos pudere debeat. Spectacula  exhibentur convivis mirabilia , partim vice infame entre tous. Bien mieux, il  s’efiforcad’en detourner lesautres, comme  Xenophon nous 1’apprend par 1’exemple  de Critias. Ce disciple de Socrate, devenu  par la suite l'un des Trente tyrans, avait  voulu attenter a la pudeur d’Euthydeme ;  lorsque son ancien maitre Bapprit : II a  le prurit du porc{ i), s’ecria-t-il ; paroles  qui lui attir£rent 1’animosite d’un homme  puissant et redoutable, ce qu’il lui eut  ete facile d’eviter, s’il n’avait mieux aime  faire son devoir.   3g. Mais Xenophon me fait songer a  une autre accusation qui a ete egalement  portee contre Socrate ; quoique moins  grave, elle n’en est pas moins facheuse,  et je l’en disculperai de toutes mes forces.  On lui reproche, a 1’occasion d’un inci-  dent rapporte par Xenophon, dans son  Banquet , d’avoir excite ses disciples a la  debauche, ce qui serait pernicieux encore,   (i) Concupiscit ad Euthydemum se affricare  quemadmodum porcelli solent ad saxa (Xeno-  phon, Memorabilia).       etiam periculosa , et horrorem quendam  spectantibus moventia , inter districtos  gladios corpora saltu jactantium , aut in  figuli rota circumacta scribentium le-  gentiumque. Non placent ea Socrati, qui  aptius convivio spectaculum putat ipyjln-  Gat r.poc, tov auXov T/rJijiaTa, Iv oi; Xapixe; ts  •/.a't Qpat, xa\ Niifxcpat ypstaovtai, ad tibiam  edi motus et saltationes, eo habitu, quo  Gratiae, Horae, Nymphae a pictoribus  exhibentur.    Forte suspectum alicui fuit hoc quod  Gratice nuda; pingi solent. Sed huic sus-  picioni repugnat , quod dicitur Ariadne  illa saltatrix w; vop-sr, xcy.ocju.rjU.svr,, sponsce  autem profecto apud Grcecos nudce esse     bien qu’i.1 s’agisse ici de plaisirs confor-  mes au vceu de la nature, et de s’etre fait,  en quelque sorte, entremetteur. II n’y a  rien, dans ce passage, dont doivent rougir  1’honnete Socrate et ses amis. Des mimes  viennent d’executer devant les convives  toutes sortes d’exercices extraordinaires,  quelques-uns tres-dangereux et propres  a donner le frisson aux spectateurs; on  a vu les uns presenter leurs poitrines, en  sautant, a des pointes d’epees rangees en  file ; d’autres lire ou ecrire enfermes dans  une roue de potier mise en mouvement.  Ces exercices deplaisent a Socrate ; il  pense qu’il serait plus convenable, au  milieu d’un festin, de voir des danseuses  executer des poses, au son de la Jlute,  sous le costume que les pcintres pretent  d’ ordinaire aux Graces, aux Heures et  aux Nymphes.   Cela a pu paraitre suspect parce qu’on  a coutume de representer les Graces  toutes nues. Mais ce soupcon ne repose  sur rien, car la danseuse qui parut  alors, habillee en nymphe, representait      I Ob   non solebant : nymphae in insectis ab  eo ipso dicta?, quod involuta? sunt. Gra-  tias decenter vestitas contemplari licet  in Grcecis monimentis apud Montfauc.  Ant. Expl. To. i Tab. iog ad p. ij6.  Movit forte eum, qui primus crimen  hinc excerpsit Socrati, a/r^a-coiv appel-  latio, qua? inter alia ad turpes figu-  ras refertur , quales olim Philcenidis et  Elephantidis commendatas libellis fuisse  constat (i), ut hic ejusmodi impudens  spectaculum suspicaretur . Sed tum inter-  jecta de amore disputatio ( 2 ) (c. 8) tum  ipsa perfectio exsecutioque consilii (c.  g) suspicionem illam eximunt. Aguntur  Ariadnes et Bacchi nuptice,sed illa ut in  scenam nihil veniat, pra?ter oscula et   (1) De quibus Spanhem. de usu et Praest.  numism. Diss. i 3 . p. 522 . sq. Hic ay 7 jfi a est  omnis gestus saltantium blandus, minax, derisor.  Vid. Lucia. de Saltat, c. 18. T. 2 p. 278 in  primis c, 36 . extr.   (2) Apertior, simpliciorque , et incautior adeo  Xenophontis de his rebus oratio , quam Plato-  nica : sed cujus summa eodem pertineat, uti ab  impura libidine ad sanctam animorum conjunc-  tionem homines revocentur.       Ariadne, et les Grecs ne permettaient  pas le nu dans les roles de femmes  mariees. D’ailleurs, certains insectes  imparfaits sont appeles nymphes pre-  cisement parce qu’ils sont enveloppes.  On peut voir aussi, dans YAntiquite' ex-  pliquee de Montfaucon, que les Grecs,  meme sur leurs monuments, figuraient  les Graces decemment vetues. Celui qui  le premier a lance contre Socrate cette  accusation s’est peut-etre effarouche du  mot pose, qui, entre autres, est applique  a des images obscenes, du genre de celles  qu’on rencontrait dans les livres de Phi-  laenis et d’Elephantis (i); il a soupfonne  Socrate d’avoir reclame un spectacle lu-  brique. Or, ladiscussion surTarnour qui  intervient alors ( 2 ), 1’execution et l’ache-   (1) Spanheim (De prostantia et usu numisma-  tum antiquorum) parle de tout cela. On appelait  poses toute esp6ce de geste lascif, provocant ou  railleur, des mimes. ('Comparez Lucien, De la  Danse, ch. XVIII.)   (2) Le dialogue de Xenophon est bien plus franc,  bien plus simple et bien moins circonspCct que celui  de Platon ; tous les deux d’ail!eurs vont au meme      amplexus , cetera reservantur postsce-  niis (i).    but, qui est de detourner les hommes des plaisirs les  plus impurs et de les rapprocher dans une sainte  communion des ames.    (r) Tales saltationes s. repraesentationes etiam  pars sacrorum erant. Apud Lucia. in Pseudom.  c. 38 . To. 2 p. 244 xsXsx7]'v xtva cuvtaxaxat  Alexander , xai SaStyta?, xat tepocpavxta; —  In his mysteriis et sacris etiam est KoptoviSo?  yapto; cum Apolline — item riooaXstpiOU xai  pLTjTpo; AXs^avSpou yauo; — denique SsXrJvr^  xai AXs^avBpou spto? — Alexander ut Endymion  alter xaOsuSwv exsixo sv xw piato — cptXrjtxaxa  xs eytyvovxo xat ~£pt~Xoxa\, st 8s ar t r. oXXat  iqaav at 8a8ss, xay’ av xt xat xwv utco xoXtcou  sjxpaxxsxo. Apposui locum , quia hic etiam  7t$pt7tXoxa'i, et tamen nihil obscenum.    ET l’aMOUR GREC IO9   vernent immediat du divertissement qu’il  avait demande, enlevent toute force a  cette conjecture. Les mimes representent  les noces d’Ariadne et de Bacchus : mais  on ne voit rien de plus sur la scene que  des baisers et des etreintes amoureuses ;  le reste se passe derriere le rideau (i).   ( 1 ) Ces sortes de danses et de reprdsentations  faisaient partie des Myst6res. Dans lM lexander seu  Pseudomantis, de Lucien, on voit Alexandre, in-  troduit comme nouvel initii, passer par les 6preuves  du dadouque et de l’hi<5rophante. Parmi les scenes  religieuses auxquelles cette initiation donne lieu  figurent : les noces d’Apollon et de Coronis, celles  de Podalirius et de la mere dAlexandre, enfin les  amours d’Alexandre et de la Lune. « Alexandre,  comme un autre Endymion, etait couchd au milieu  du theatre; on dchangeait des caresses et des bai-  sers. S’il n’y avait pas eu D des torches en quan-  tite, peut-etre bien qu’il se fut laiss6 entrainer a  faire qucedam earum quce sub veste Jieri solent. »  Cest un peu ldger ; cependant il n’y a rien la de bien  obscene.   — Gesner aurait du citer Lucien plus complete-  ment ; ce passage du Pseudomantis offre un tableau  de genre exquis : « Alexandre, comme un autre  Endymion, etait couche au milieu du thdatre, faisant  semblant de dormir. II tombait de la voute, comme du  ciel, une certaine Rutilia, tr£s-jolie, qui jouait le  role de la Lune et qui dtait la femme d’un intendant  de 1'einpereur. Elie aimait vraiment Alexandre et    10    I IO    SOCRATE    40 . Finem et effectum negotii ita indi-  cat Xenophon : teXo; 0 i ol <jup.7ioToci ’.oovte;  T:ept6e6Xr]xdT:a; ts aXXrjXou c xai oj; et; euvrjv    aTr-.ovTa:, 01 (j.r,v ayauoi yaixetv £zw[xvuaav, 01  oe ysyap-rixoTec, ava 6 xvc£; Ijci xou; ? 3 C 7 COUS, a-rj-  Xauvov Tipo; xa; lauxujv yuvaTxa;, otim; xojxojv  xuy otsv . Tandem post blanditias quasdam ,  verecundas, maritales, complexi se invi-  cem sponsus et sponsa , i. e. manibus  implexis, vel brachiis mutuo cervici im-  positis, vel tergo circumjectis , velut  cubitum discedunt : ab hoc spectaculo  incalescentes , et ut paullo ante dicebat,  av£7iTEpo)|jiivoi (vid. no. ad §. i5) convivae  caelibes dejerant, se ducturos esse uxo-  res ; mariti autem equis conscensis domos  festinant, ut simili voluptate et ipsi  fruantur. Utinam vero e spectaculis et  theatris hodie ita discederetur ! utinam  Socratis hac parte disciplinam sequeren-  tur publicarum Voluptatum Tribuni.  Talia spectacula edere debebant Romani    eu 6tait aimee. Sous les yeux de son propre mari,   iis echangeaient des caresses et des baisers »     40. Xenophon indique de la maniere  suivante la fin et les resultats de l’his-  toire. Apres toutes sortes de caresses  honnetes et maritales, les deux epoux se  tenant embrasses, c’est-a-dire, je pense,  les mains entrelacees ou les bras pas-  ses mutuellement soit autour du cou,  soit autour de la taille, s’eloignerent  comme pour aller se coucher. Echauffes  par ce spectacle et se sentant de furieu-  ses demangeaisons, comme s’il leur pous-  sait des ailes , les convives encore celiba-  taires /irent le serment de ne pas tarder  a prendre femme ; les maris monthrent a  cheval et se haterent de regagner le lo-  gis, pour gouter d leur tour de sem-  blables voluptes. Plut au ciel qu’aujour-  d’hui on quittat les spectacles et les  theatres dans de si bonnes intentions !  plut au ciel que cette partie de la disci-  pline Socratique fut pratiquee par les  ediles preposes aux plaisirs publics ! Ce  sont de tels divertissements qu’auraient  du decreter les empereurs Romains, sou-  cieux d’exciter toutes les classes au ma-    principes , cum de maritandis ordinibus ,  et sobole Romana augenda soliciti erant :  talia conveniebant nuper Lutetia ? et Gal-  lice adeo universae, quum Ducis Burgtin-  dice natalem nuptiis mille puellarum  celebrarent : talia magnam Britanniam ,  si quid veri habent quorundam qucerelce,  Swiftiance praesertim , quas eo loco protu-  lit , ubi de abrogando clero disputat : aut  eorum , qui hodie peregrinos invitandos ,  supplendi populi causa . et civitate donan-  dos , censent.    41. Nempe incidit aetas Socratis in ea  tempora, ubi civium paucitate laborabat  exhausta bellis Persicis et Peloponnesia-  cis Attica , cui etiam lege matrimoniali  obviam ire, et afferre remedium , conati  esse dicuntur. Debemus notitiam hujus  legis ipsi Socrati, quatenus nulla forte  illius mentio extaret hodie, nisi de dua-  bus Philosophi uxoribus jam olim dispu-  tatum esset. Res cum queestioni. de qua    riage ct d’accroitre la posterite de Re-  mus : iis auraient convenu naguere a  la ville de Paris et a la France entiere  lorsqu’on feta la naissance du duc de  Bourgogne en mariant un millier de  jeunes falles; iis auraient bien fait Faf-  faire de la Grande-Bretagne, s'il y a  quelque chose de vrai dans ces plaintes  dont Swift surtout s’est fait l’e'cho et qui  reclamaient 1’abolition du celibat despre-  tres; iis conviendraient encore a ces  pays ou l’on attire les etrangers en leur  conferant les droits civiques pour sup-  pleer au petit nombre d'habitants.   41. Socrate vivait a une epoque ou  1 ’Attique, epuisee par les guerres des  Perses et du Peloponese, souffrait de ne  plus avoir qu'une population clair-se-  mee ; on dit menae que les Atheniens s’ef-  forcerent de remedier a cet etat de choses  par une nouvelle loi touchant lesmaria-  ges. Nousdevons 1’unique renseignement  que l’on ait sur cette loi a Socrate , car  il n’en subsisterait aujourd’hui aucune     agimus conjuncta sit , illam , quam brevi-  ter jieri potest , expediemus. Duas So-  crati uxores vulgo tribui videmus, Xan-  thippen e qua Lamproclem susceperit, et  Myrto , Sophronisci atque Menexeni  matrem. In hoc conveniunt Cyrillus  ( contra Julia. I. 6. p. 186, D) et Theo-  doretus (Grcecar. Affect. curat, ser. 6 p.  ij4, 40) ac Diogenes Laertius (2, 26).  Porro de Xanthippe Cyrillus ex Por-  phyrio, 7tspi7tXa-/.asav XaQstv, clanculum in  ipsius amplexus venisse ; quod plane  repugnat Platoni et Xenophonti, qui  nullius conjugis prceter Xanthippen , jus-  tam uxorem , mentionem faciunt : tum  Theodoreto, qui tamen ipse quoque sua  debere ait Porphyrio, sed non tantum  pro TCspiTt^axetaav XaOsTv habet 7:po<j-XaxeTcjav  Xa6sTv, induxisse priori uxori, ut pereat  illa secreti , et furti amatorii notio : sed  etiam addit, solitas esse eas mulieres in-  ter se depugnare, deinde pace facta con-  junctim impetum facere in Socratem  ideo , quod is bella illarum non dirime-  ret : hunc vero utrumque genus pugna:   mention sans la controverse autrefois  agitee au sujet de ses deux femmes.  Comme cette question tient a notre su-  jet, nous la discuterons bridvement. On  donne communcment a Socrate deux  femmes : Xantippe, dont il eut un de ses  fils, Lamprocles, et Myrto, la mere de  Sophronisque et de Menexene. S. Cy-  rille, Theodoret et Diogene de Laerte  sont tous les trois d’accord la-dessus.  Mais S. Cyrille, empruntant ce detail a  Porphyre, dit de Xantippe que son ma-  riage avec Socrate fut clandestin, qu’elle  se cachait pour 1’embrasser, ce qui con-  tredit absolument Xenophon et Platon,  puisqu’ils ne parient d’aucune autre  femme que de Xantippe, epouse legitime  de Socrate. Theodoret, qui lui aussi dit  tenir de Porphyre ses renseignements,  change 7iepi7tXoaEiaav XaOsTv en npovnXxxsT-  aav XafleTv et declare ainsi que Socrate  introduisit Xantippe chez sa premi^re  femme, ce qui ruine toute cette histoire  de mariage secret, et de furtifs baisers ;  bien mieux, il ajoutc que ces deux me-     cum risu speci are consuevisse. Utri fi  dem habebimus?    42. Sed nondum est finis discordia-  rum. Theodoretum si audimus , induxit  Xanthippen suce jam Myrto Socrates :  sed Laertius negat convenire inter auc-  tores , utram prius duxerit. Idem ait ,  simul ambas habuisse Socratem , a qui-  busdam esse traditum. In hac sententia  etiam fuit auctor Dialogi Halcyon , qui  inter primos Lucianeos editur , in cujus  fine Socrates dicat , se Halcyonis amo-  rem in maritum suis conjugibus Xan-  thippee et Myrto prcedicaturum esse.  Antiqua porro esse illa relatio memora-  tur Callisthenis , Demetri Phalerei , Sa-  tyri Peripatetici , Aristoxeni Musici ,   geres se battaient continuellement, puis  la paix faite, tombaient a poings fermes  sur le pauvre Philosophe, en lui repro-  chant de ne les avoir pas separees: pour  lui, il restait simple spectateur du com-  bat et voyait donner ou recevait lui-  meme les coups en souriant. A qui faut-  il s’en rapporter, de S. Cyrille ou de  Theodoret?   42. Et nous ne sommes pas au bout  de la querelle. Dapres Theodoret, So-  crate epousa Xantippe, dtant deja marie  a Myrto; mais Diogene de Laerte af-  firme que les auteurs ne sont pas d’ac-  cord et qu’on ne sait qui des deux il  epousa la premiere. Il dit aussi qu’il les  eut toutes les deux ensemble, et sur  quelles autorites repose cette assertion.  Elie a ete accueillie par 1’auteur du dia-  logue intitule Alcyon, imprime en tete  de ceux de Lucien; on y voit Socrate  proposer en exemple a ses deux femmes,  Xantippe et Myrto, 1’amour d’Alcyon  pour son mari. Plutarque (Vie d’Aris-    i   Hieronymi Rhodii, apud Plutarchum  (vita Aristid. extr.) qui ceteris narrandi  auctorem fuisse ait Aristotelem in libro  de nobilitate, (rapi s-jyevsia;) qui tamen  liber an sit Aristotelis, Plutarchus dubi-  tat : narrant autem ita, Aristidis neptim  Myrto, vidua cum esset et paupercula,  domum ductam a Socrate, eique cohabi-  tasse, licet aliam uxorem habenti .    43. At non licebat a Cecrope inde  Athenis plure s una habere uxores. Qui  sit igitur, ut neque Comici exprobrarint,  neque Accusatores objecerint digamian  Socrati ? Hic nobis narrant Athenaeus et  Laertius legem, latam supplenda 1 multi-  tudinis civium causa. Exstabat Athenceo  prodente ipsum decretum a Rhodio Hie-  ronymo conservatum, wax' si-eivat xai ouo    ET 1/aMOUR GREC I i q   tide) rapporte que cettc opinion etait  ancienne, et qu ; elle fut partagee par  Callisthene, Demetrius de Phalere, Sa-  tyrus le peripateticien, Aristoxene le  musicien et Hieronyme de Rhodes;  Athenee dit de son cote qu’ils Tavaient  tous puisee dans le Traite de la No-  blesse d Aristote, livre dont cependant  Plutarque doute qu’Aristote soit l’au-  teur. Tous racontent que- Myrto, pe-  tite-fille d Aristide, etant veuve et se  trouvant dans une extreme pauvrete, fut  recueillie par Socrate dans sa maison et  qu’il cohabita avec elle, quoiquhl fut  deja marie.   4 J - Les vieilles lois de Cecrops inter-  disaient cependant a Athenes les doubles  unions. Pourquoi donc ni les poetes co-  miques, ni les accusateurs de Socrate ne  lui ont-ils reproche ou oppose ce cas de  bigamie ? Cest a ce propos qu’A.thenee et  Diogene de Laerte nous parient de cette  loi nouvelle_, edictee, disent-ils, dans le  but d’accroitre le nombre des citoyens.    120    SOCRATE    'systv yuvatxa; tov [3o'jaojj.£vov. Secundum haec  male accusaretur Socrates, qui et legi  paruerit de augenda sobole Attica , et  Aristidis progeniem viduitate et pauper-  tate extrema liberaverit.    V    44. Verum enim vero totum hoc de  duabus Socratis uxoribus , quin de lege  maritali etiam falsum esse , prcesertim  ex dissensu commemorato , itemque ex  Platonis et Xenophontis silentio arguit  Bentleius (1). Et habet , quantum est de  monogamia Socratis, magnum auctorem  Pancetium, quem laudat Plutarchus, qui  cum retulisset eam quce modo proposita  est de Myrto narrationem, satis illam  refutatam ait a Panaetio : cujus si opus  hodie extaret, facilior forte hodie esset  causa Socratis, quem tamen a turpi pue-   (/) In Dissertat, de Phalaridis et exteror.  Epistolis, ET l’aMOUR GREC 12 1   Athenee s’avance jusqida dire qu’il y  avait un decret, conserve par Hieronyme  de Rhodes, et ainsi concu : « 11 est per-  mis d’avoir jusqua deux femmes. » Si  cela est vrai, on accuserait mal a propos  Socrate, qui n’aurait fait qu’obeir a la  loi portee en vue de repeupler 1’Attique,  et qui de plus aurait sauve du veuvage  et de la mis&re la petite-fille d’Aristide.   44. Mais vraiment Phistoire des deux  femmes, tout aussi bien que celle  de la loi matrimoniale, paraissent en-  tachees de faussete a Bentley (1); il se  fonde surtout sur le desaccord que nous  avons signale et tire une grande preuve  du silence de Platon et de Xenophon.  Nous avons, pour ce qui est de la mono-  gamie de Socrate, une excellente auto-  rite, Pantetius, dont Plutarque fait le  plus bel eloge; apres avoir rapporte ce  que nous avons dit de Myrto, il ajoute  que cettefable a ete suffisamment refutee   ( 1 ) Dissertation sur les Epitres de Phalaris ,  Themistocle, Sacrale et Euripide (1697, iu-8").    SOCRATE    rorum amore, et a lenocinio turpi , et a  libidinosa digamia, vel sic satis libera-  tum esse confido.     ET L AMOUR GREC    par Panaetius. Si nous possedions son  livre, la cause de Socrate serait aujour-  d’hui plus facile a defendre; je pense  cependant avoir prouve qu’il ne fut ni  un corrupteur de la jeunesse, ni un  provocateur a la debauche, ni un bi-  game libertin. Alcibiade; ses avances  repouss^es par Socrate,  p. 97-99.   Ame, comparde par Pla-  ton a un attelage ai!6,  p. 29, 47-65 ; — clas-  sification des ames  suivant le degrd de  connaissances acquises  avant la vie, p. Amour philosophique, — raisons  qui dirigent les choix  dans cette sorte d’a-  mour, p. 45-47; — les  impuretes ou il peut  s’egarer, p. 69.   Analyse du Lysis, dialo-  gue de Platon, p. 21;  — du Phedre, p. 23 -  29; — du Banquet,  p. 95 et suiv.   Beaute morale et Beaute  physique, p. 39-41.   Bigamie; Socrate eut-il  deux femmes? p. 1 1 3  et suiv.; — la bigamie  etait-elle autorisde en  Grece ? p. 1 19.   Cohorte sacree des  amants, a Thebes et  en Crete, p. 83 .   Inspires; couples d’amis,  p. 85 - 87 -   Minies ; leurs exercices et  poses plastiques, p. io 5 .   riaiospaatsta, le mot  et la chose pouvaient  etre pris en bonne part,    chez les Grecs, p. 89.   Peines portees par les  Grecs contre les infa-  mes, p. 75.   Pronostics tirds par les  physionomistes de la  voix forte et grave, p.  5 1 ; — de lencolure  courte, p. 55 ; — des  oreilles velues, p. 57 ;   — des grosses levres,  p. 5 q; — du nez ca-  mard, p. 59; — des  yeux saillants, Representations mythologiques et divertisse-  ments dans les festius,  p. 105-109 ; — dans les  mysteres, p. 109 (note);   — effets singuliers pro-  duits parfois sur les  convives par ces re-  pr^sentations, p. m.   Socrate; motifs ordinaires des accusations  portees contre lui, p.  1 5 — 1 7 ; — pourquoi il  recherchait les beaux  garcons, p. 43 ; — son  portrait physique, p.  49 et suiv.   Socrate l’ Ecclesiasti-  que ; comment il a ac-  cuse, sans preuves, Socrate le Philosophe, p. 9.   Sparte ; coutume rappor-  t6e par Elien, p. 85 ; —  les amours impures y  etaient ignorees, p. 8.7.    Paris. — Imp. Motteroz, 3 i, rue du Dragon. Gabriele Giannantoni. Giannantoni. Keywords: la dialettica, dialettica, Epicuro a Roma, Calogero, il principio dialogo, Lucrezio, Cicerone. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannantoni” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giannetti – corpuscolarismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Albiano di Magra). Filosofo. Grice: “I like Giannetti; for one, he is the only philosopher I know whose first name is ‘Pascasio.’ He taught at Pisa, but not in the tower – Oddly, while he is from Tuscany, there is a street (‘via’) in La Spezia named after him!” – Grice: “His logic was considered heretic, at least by the duke, who diligently expelled him from any obligation of teaching!” – Insegna a Pisa. Quando lascio la cattedra,  gli successe Grandi. Di formazione galileiana, fu un acceso nemico dei Gesuiti. Sollecitato da Grandi, che lo aveva anche introdotto a Newton, cura Galilei (Firenze). Rimosso da Pisa da Cosimo III de' Medici, vi fece rientro alla morte di quest'ultimo.  NC. Preti, Dizionario Biografico degli Italiani, Memorie storiche d'illustri scrittori e di uomini insigni dell'antica e moderna Lunigiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 54, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  PASCASIO GIANNETTI Essendo Pascasio Giannetti tra'maestri più singolari di filosofia e di medicina dell' Universi tàdiPisa,quantoonoreaquelloStudio recasse non si può dire. Costui ebbea quelle scienze pro clive natura, e tanta forza e vivacità d'ingegno > che a sermonare e discorrere di materie mediche efilosofichepareanatoaposta.Fu e'diAlbiano di Lunigiana, e divenne lettore in detta Univer sità nel 1682 ; e così bene in cattedra sue dottri ne tratto, che per lo più savio discepolo del M a r chetti e del Bellini, cattedranti nobilissimi, tutti lo conoscevano. Nulla ignoto eragli di quanto G a   lileo e Gassendo aveansi ritrovato, e sostenitore acerrimo fu della filosofia corpusculare. Per ques stoguerra eterna pareva intimata avesse a tutti li Peripatetici e Scolastici ostinati; che ligii si di chiaravano agli antichi sistemi, quali adesso ricor dansi appenanelle scu ole de'monasteri. Per lo che il Giannetti futenuto per uno de'più arditi e co raggiosisostenitori degli insegnamenti novelli e assai molesto riuscì a'superstiziosifilosofanti, ma in particolar modo ai Gesuiti i quali, potendo al loramoltissimopressoCosmo IIIde'Medici,fece ro in grave sospetto cadere di errori di religione il Giannetti non solo, ma quasi tutta la Pisana Università. Per tale cagione , sendo state forti let tere scritte e minaccevoli ai professori con ordi nare,chenon volevasifilosofiademocratica,ilGian netti, cui sapea benissimo delle persecuzioni altrui schermirsi e rintuzzare le dicerie degli imperiti con la dotta e mordace sua lingua, difese con trion fo la causa per iscrittura,nè mai digua proposta sentenza cesso. Finalmente costretto nel 1706 di mutarcattedraedileggeremedicina,non ostan te filosofava su i nuovi sistemi anche interpretan do gliaforismid'Ippocrate e di Galeno,e men tre con eloquio squisito e con pompa di erudizio ne le materie mediche spiegavà,senza punto de nigrare alla gravità della scienza e del loco ; l' al trui cabale e leggerezze con vaghi scherzi e argu ti motti derideva. Moltissimo ancora si adoperò in fisiciani sperimenti e nelle savie cure di Michela gnolo Tilli per ogni maniera di lode famoso : nè mezzanamente sidistinse insieme con lo Zambes cari di Pontremoli suo collega a sperienze fare nti lissime su le terme del territorio Pisano e Luriena se,che servirono ad ambeduni di grande merito. Intra le altre fece minute prove su l'acqua salsa di Monzone di Lunigiana, e trovolla più efficace di quella del Tettuccio di Valdi Nievole, e poteró  183   Viri Paschasii Giannelli Albianeusis Philosoph. et Medicin, in Pisau. Acudem . Professoris logeniiacumine eloquen.et ingenua philosoph. libert. Quam difficillimis temporib, fere solus inter Acadlem. retinuit ConcesseratAun.S Thomas Perelliuspraecept.et Amico DI PIER CARLO VASOLI Io non posso tacere di aver molte cose rica vato diquesto librodalle fạtiche e dagli scritti di questo Pier Carlo Vasoli di Fivizzano, il quale sembra avesse in mente d'illustrare sua patria , e però non deggio scordarmi di retribuirlo di grata inemoria, tanto più che molto distinto riuscì nel la medicina e buon coltivatore della poesia. Q u e stouomoerudito,comeraccontaincertosuoEr bariolo Lunense m . s., avendo studiato prima a Bolognae poiaPisaallascuoladelcelebreMar cello Malpighi, dove si dottorò verso la fine del  184 si estrarre il sale catartico a guisa di quel d' In ghilterra , se non venisse incautamente adulterata. Benespesso Pascasio dilettavasi d'investigare le azioni è i consigři degli uomini più che i segreti dellanatura,equasi Epicuro con aspreparoleab batteva i vizi ele inezie altrui. Mente profonda mostrò in tutto, ma poca industria: e vivendosi fino alla vecchiezza, dopo 57 anni di lettura in quella Università, nel 1742 morì in una villetta che avea a Capannoli su quel di Pisa, e sepolto nellachiesadiquellaterra,fugliperTommaso Pe relli suo scolare messo questo marmo sopra il se polcro, riferito ancora da inonsignor Fabroni in sua stor. dell'Univ. Pis. tom . 3. dove parla del Giannetti: = Pijs Manibus et Memoriae aeternae Cum paucisaetatis suae comparandi Obiit Octuagenario major in proxima Villula In quam post impetratam a docendo vacationem D. S. O. M. P.  GIANNETTI, Pascasio. - Nacque, da Polidoro, ad Albiano Magra di Aulla in Lunigiana, il 2 ag. 1661.  Avviato agli studi filosofici, li coltivò, insieme con quelli medici, presso l'Università di Pisa, dove era ben viva la tradizione galileiana e, in fisica e in medicina, era ben rappresentata la corrente meccanico-corpuscolarista. Fu il gruppo di docenti formatisi alla scuola di G.A. Borelli a istradarlo verso questa tradizione concettuale; soprattutto A. Marchetti, L. Bellini e D. Zerilli lo introdussero allo studio delle opere, oltre che di Galilei, di Gassendi e del Borelli. Parallelamente, il G. attinse da G. Del Papa gli stimoli di un diverso indirizzo, anch'esso presente nell'ateneo pisano, teso a far convivere, soprattutto in campo medico, il galileismo con esigenze di ordine pratico.  Laureatosi il 30 maggio 1682 in filosofia e medicina (promotore fu il Del Papa), il G. ottenne nello stesso anno la lettura di logica, che conservò fino al 1686, per passare poi a quella di filosofia naturale. Il suo magistero, argutamente antiaristotelico e apertamente atomistico, dovette risultare piuttosto efficace. Quando, verso il 1690, si delineò una reazione generale della Chiesa contro quelle interpretazioni dello sperimentalismo considerate arbitrarie e potenzialmente eversive dell'ortodossia religiosa, a causa dei possibili esiti materialistico-libertini, il G. fu direttamente coinvolto. Nell'ottobre 1691, insieme con altri sei lettori pisani, si vide intimare dall'auditore F.M. Sergrifi di non insegnare la filosofia atomistica. Per nulla intimidito, a detta di A. Fabroni, il G. alimentò le polemiche che seguirono con un libello, oggi perduto, in difesa dei lettori ammoniti. Poca sorpresa dovette quindi destare tra i contemporanei il provvedimento, preso dal governo di Cosimo III nel 1706, di trasferire il G. alla lettura di medicina teorica, mitigato dal permesso di tenere lezioni domiciliari di filosofia.  Come lettore di questa disciplina medica, il G. mostrò di voler tenere aperti spiragli per un discorso "moderno". Lesse gli Aforismid'Ippocrate, proclamandosi così seguace dell'indirizzo che privilegiava la pratica clinica sulle questioni di teoria medica, ma nel commentarli continuò a seguire i novatori.  In particolare, a quanto sembra, già in questa fase i motivi galileiano-gassendiani si erano venuti in lui incrociando con motivi della dottrina newtoniana. Da questa aveva recepito la tesi della struttura porosa della materia, che, attraverso l'ipotesi dei diversi ordini di combinazione dei corpuscoli, è assunta come matrice delle qualità macroscopiche dei corpi. È probabile che una delle fonti attraverso le quali il G. venne a conoscenza della teoria newtoniana sia stata il padre camaldolese G. Grandi, suo buon amico (Ortes ci riferisce che il Grandi "solea frequentemente conversare" nella casa del G.), ma, a differenza del Grandi, il G. non dovette essere pienamente in grado di coglierne l'impalcatura matematica, tanto da ritenerla conciliabile con la distinzione gassendiana tra punto matematico e punto fisico. G., insieme con B. Bresciani, G. Averani e altri, fu coinvolto dal Grandi nella preparazione della seconda edizione delle Opere di Galilei (Firenze 1718). Più tardi, alla metà degli anni Venti, il suo nome venne fatto in alternativa a quello del Grandi quale autore di un libretto pseudonimo (Q. Lucii Alphei Diacrisis in secundam editionem Philosophiae novo-antiquae r.p. Thomae Cevae cum notis Ianii Valerii Pansii, Augustoduni 1724), che segnò una nuova occasione di scontro tra i novatori pisani e i gesuiti del collegio di Firenze.  Il libretto, nato come replica alla prefazione del gesuita M. Dalla Briga al poemetto Philosophia nova-antiqua (Florentiae), del confratello T. Ceva, fornisce una descrizione caricaturale delle forme di opposizione allo sperimentalismo che, a detta dell'autore, circolavano nel collegio fiorentino.  Non è chiaro se sia da collegarsi a questa polemica il basso profilo assunto dal G. nel quarto decennio del secolo. La relazione sullo stato dello Studio che G. Cerati presentò ai nuovi governanti nel maggio 1738, ci informa che "già da alcuni anni" il G., pur retribuito, aveva interrotto le lezioni pubbliche e si limitava a dare privatamente lezioni di filosofia. Il Cerati attribuiva ciò a non meglio precisate "indisposizioni del corpo", ma l'Ortes attesta che il G. godette per tutta la vita di ottima salute. Priva di riscontri è la notizia di una sua adesione alla loggia massonica fondata a Firenze nel 1733, loggia che però sicuramente accolse un buon numero di suoi allievi.  Il G. morì a Capannoli, presso Pisa, Quelle che sembrano essere le sue uniche opere a noi giunte si trovano a Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 3098 (Tractatus phisici iuxta recentiorum opinionem conscripti a Paschasio Giannetto) e a Pisa, Bibl. universitaria, ms. 177 (Philosophiae tractatus, datato 1714).  Fonti e Bibl.: Per la collaborazione del G. all'edizione fiorentina del 1718 delle Opere del Galilei vedi le lettere di T. Buonaventuri a G. Grandi, Pisa, Bibl. universitaria, Carteggio Grandi, 85, passim; sei lettere del G. al Grandi e alcune note di argomento fisico ibid., 92, cc. 19r-28v; Acta graduum Academiae Pisanae, II, a cura di G. Volpi, Pisa 1979, p. 549; G. Ortes, Vita del padre Guido Grandi, Venezia G.A. De Soria, Raccolta di opere inedite, Livorno, Fabroni, Historiae Academiae Pisanae, III, Pisis 1795, pp. 410-413; F. Sbigoli, Tommaso Crudeli e i primi framassoni in Firenze, Milano 1884, p. 71; N. Carranza, Monsignor Gaspare Cerati provveditore dell'Università di Pisa nel Settecento delle riforme, Pisa, Storia dell'Università di Pisa, Pisa 1993, Morelli, Per una storia di Andrea Bonducci, Roma, Livorno nel Settecento, Livorno 1997, pp. 23, 62, 79.Pascasio Giannetti. Gianetti. Keywords: corpuscolarismo, implicature corpuscolare, Isaaco Newton, Galilei, Grandi, Giannetti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannetti: implicatura corpuscolare – The Swimming-Pool Library.

 

Giannetta search – another time?

 

Grice e Giannone – la terza Roma – e l’implicatura ligure – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ischitella). Filosofo italiano. Grice: “Giannone is an interesting philosopher. He philosophised on the ‘citta terrena,’ which is a back-fromation from ‘celestial city,’ and by which he meant Rome! – Then he compared men – in their collectivity, to apes, even if ingenious ones!”  “Non solo i corpi, ma, quel che è più, anche le anime, i cuori e gli spiriti de' sudditi si sottoposero a' suoi piedi e strinse fra ceppi e catene.” Esponente di spicco dell'Illuinismo italiano, discendente da una famiglia di avvocati (anche se il padre era uno speziale), lasciò il paese natale per intraprendere gli studi a Napoli. Si laurea entrando ben presto in contatto con filosofi vicini a Vico. Fu praticante presso Argento, che disponeva di una vasta biblioteca, la frequentazione della quale fu essenziale per la sua formazione.  I suoi interessi non si limitarono soltanto al diritto ed alla filosofia, appassionandosi anche agli studi storici e dedicandosi alla stesura della sua opera storica più conosciuta Dell'istoria civile del regno di Napoli, che gli causò tuttavia numerosi problemi con la Chiesa per il suo contenuto.  Costretto a riparare a Vienna, ottenne protezione e sovvenzioni da Carlo VI, il che gli permise di proseguire indisturbato i suoi studi filosofici.  Il suo tentativo di rientrare in patria fu ostacolato dalla Chiesa, nonostante i buoni uffici dell'arcivescovo di Napoli recatosi a Vienna per convincerlo a tornare a Napoli. Fu costretto a trasferirsi a Venezia dove, apprezzatissimo dall'ambiente culturale della città, rifiutò sia la cattedra a Padova, sia un posto di consulente giuridico presso la Serenissima. Il governo della Repubblica lo espulse, dopo averlo sottoposto a stretti controlli spionistici, per questioni inerenti alle sue idee sul diritto marittimo e nonostante la sua autodifesa con il trattato Lettera intorno al dominio del Mare Adriatico.  Dopo aver vagato per l'Italia (Ferrara, Modena, Milano e Torino), giunse a Ginevra, dove compose un altro lavoro dal forte sapore anticlericale “Il Triregno: il regno terreno, il regno celeste, e il regno papale, che gli costò nuovamente la persecuzione delle alte sfere ecclesiastiche culminate con la sua cattura in un villaggio della Savoia, ove fu attirato con un tranello.  Rimasto nelle prigioni sabaude, fu costretto a firmare un atto di abiura che non gli valse tuttavia la libertà. Fu tenuto prigioniero nella fortezza di Ceva, dove scrisse alcuni dei suoi componimenti più famosi. Trasferito alla prigione del mastio della Cittadella di Torino. +“Dell'istoria civile del regno di Napoli” ebbe enorme fortuna mentre la Chiesa ne avversò le tesi ponendola all'Indice dei libri proibiti, comminando al filosofo una scomunica la quale obbligava Giannone a riparare all'estero. I temi trattati nell'Istoria, sviluppati su precisi riferimenti giuridici, forniscono una lucida descrizione dello stato di degrado civile del Regno di Napoli, attribuendone le cause all'influenza preponderante della Curia romana. Auspica in primis con quest'opera, «il rischiaramento delle nostre leggi patrie e dei nostri propri istituti e costumi».  Nel Triregno, opera aspramente avversata anch'essa dagli ambienti ecclesiastici, presenta la religione secondo un prospetto evolutivo: la Chiesa, col suo "regno papale", si contrappone al "regno terreno" degli Ebrei ma anche a quello "celeste" idealizzato dal Cristianesimo e il superamento del male, che lo Stato Pontificio così incarna, si realizzerà soltanto attraverso un cambiamento di rotta deciso, mediante ulteriore consapevolezza individuale raggiunta dall'uomo nel corso della sua vicenda Storica. Indi teorizza uno Stato laico capace di sottomettere l'istituzione papale, anche mediante un'espropriazione dei beni materiali del clero. La Chiesa porta avanti una forma di negazione di quella libertà individuale che deve essere posta come fondamento giuridico e sociale. Al filosofo sono intestati vari istituti scolastici, tra cui lo storico Liceo classico Pietro Giannone di Caserta, quello di Benevento, quello di Foggia, e quello di San Marco in Lamis.  Nel Capitolo settimo della Storia della colonna infame, Manzoni dedica al Giannone ampio spazio elencandone i numerosissimi plagi e gli errori che anche Voltaire gli rimprovera. Inizia paragonandolo a Muratori e indicandolo come "scrittore più rinomato di lui", poi aggiunge un lungo elenco (e raffronto) delle opere plagiate e degli autori, tra cui Nani, Sarpi, Parrino, Bufferio, Costanzo e Summonte: "...e chissà quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca". E conclude che se non si sa se fosse "pigrizia o sterilità di mente", fu certo "raro il coraggio".  Altre opera: Autobiografia: i suoi tempi, la sua prigionia, appendici, note e documenti inediti, Augusto Pierantoni, Roma, E. Perino, I discorsi storici sopra gli Annali di Tito Livio, Apologia dei teologi scolastici Istoria del pontificato di Gregorio Magno, “L'Ape ingegnosa” “Istoria civile del Regno di Napoli. 1, Napoli, Giovanni Gravier); Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 2, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 3, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 4, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 5, Napoli, Giovanni Gravier,  aprile. Note  Pietro Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, Capolago, Tipografia Elvetica,   l  Ibidem, note da 80 a 89  Fausto Nicolini, La fortuna di Pietro Giannone: ricerche bibliografiche, Bari, Laterza, Marini, Il giannonismo (Bari, Laterza). Vigezzi, PGiannone riformatore e storico. Milano, Feltrinelli, 1Giannoniana: autografi, manoscritti e documenti della fortuna di Giannone, Sergio Bertelli, Milano-Napoli, Ricciardi, Giuseppe Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Giannone., Milano-Napoli, Ricciardi, Mannarino, Le mille favole degli antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di Giannone, Firenze, Le Lettere, Giuseppe Ricuperati, La città terrena di Pietro Giannone: un itinerario tra crisi della coscienza europea e illuminismo radicale, Firenze, Olschki, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vita scritta da lui medesimo, Feltrinelli, testo in versione digitale della Biblioteca Italiana, 2003.//filosofico.net/giannone.htm.  De'Liguri duri e forti:loro estensioneinItalia;e come sopra tutti gli altri popoli tenesseró esercitati i Romani nella disciplinamilitare,sicchèfosserogliultimiad essersog. giogati. Livio in più occasioni parlando de'liguri,confessa che niuna provincia esercitò cotanto i romani nella virtù e disciplina m i litare, quanto la Liguria, poichè dura nelle armi, bellicosa amica di fatiche e di travagli, e di riposo impazienle , nelle sueguerrenon tostoerada’romani vintachesorgevapiùani mosae forte d iprima:ishostis,velutnatus ad continendam inter magnorum intervalla bellorum romanis militarem discipli nam , erat : nec alia provincia militem magis ad virtutem acue bat(1).Nonabitavanoiliguri(eciòanche contribuivaalla loro bellicosa indole) in luoghi piani ed ameni e sotto temperato e molle clima, il quale avesse potuto rendere simili a sè gli abitatori ; m a all'incontro occupando essi quella occidental parte d'Italiache ha per confine laGalliaNarbonense,vivendo in regioni montuose aspre ed inaccessibili, e per le angustie delle vie acconce a tendere aguali ed insidie; non temevano di numerosi eserciti, nè d'istromenti bellici , nè di macchine o d'altri apparati militari, difendendoli il suolo e l'arduità de'loro siti.E perciò essi militavano senza molto apparecchio mi cidiale:nihil,dice Livio,præter arma etviros,omnem spem inarmis habentes,erat, Gli antichi liguri erano divisi di qua e di là delle alpi e dell'appennin o in molti popoli o s i e n o comunità, non altrimenti di ciòche si èdeltodegli antichi etruschi, ed occupavano va stissime regioni. Le alpimarittime e gran parte delle medi terraneeeranodaessipopolate.Dilà dellealpiipiù celebri furono i liguri salii, i deceali e gli oxibi; di qua furono i vedianzi, ivagienni, glistatielli,imagelli,gli eburiati, (1)Dec. IV,lib.9, inprinc.  i veliati , i tigulii, gl'ingauni , i salassi , i libici, i lau riniedaltri.Livio,oltrequestipopolida Pliniorapportati fa menzione di altri liguri posti di qua dell'appennino chia mati Apuani, i quali vinsero i romani e debellarono un eser cito consolare sotto Q. Marzin console , e nota che il luogo della sconfitta fino a'suoi tempi chiamavasi perciò il campo Marziano: fa memoria ancora dialtriliguridilàdell'appen nino ch'egli chiama ligurifrisinati. Questi popoli aveano più città o vichi, dove dimoravano ciascuno nel proprio distretto ; e fra le città son da considerarsi alcune antiche ed illustri le quali, secondo la divisione dell'Italia fatta poi da Augusto in undici regioni, formavan parte della XI. Nella Liguria rivoltaal mare inferiorediquà delfiume Varo, che divide l'Italia dalla Gallia Narbonense , la prima città marit timaches'incontravaerade'ligurivedianzi chiamata Cime lion. Prossima a questa i massiliesi edificarono Nicea , oggi detta Nizza, alle radici delle alpi marittime, non lontana dalle foci del fiume Varo, che poi crebbe dalle ruine di Cimelio , cittàantichissima,la quale ebbe vescovi prima che da Costan tino Magno fosse stata la religione cristiana fatta ricevere nel l'imperio. Rimangono ancora le vestigia de'suoi ruderi ed il nome di Cimelio: l'anticasua cattedra fu unita a quella di Nicea, la quale non si appartiene già al la Gallia Narbonense , siccomealcunicredeltero,ma secondoPlinio,Tolomeoedaltri geografi antichi, alla nostra Italia, c o m e quella che è costrutta di qua del fiume Varo.Antipoli fondata pure da'massiliesi si appartienealla GalliaNarbonense,perchèerettadilàdelfiume: essa lungo tempo fu sotto i massiliesi loro fondatori, ed ora sotto ire di Francia è chiamata Antibo. Appresso Nicea nel mar li gustico siegue Monaco detta dagli antichi Porto di Ercole, indi AlbioInlemelio,Albingauno,Savona,Genua,Porto Delfino Tigulia, e più in dentro Segesta città de'liguri tigulii. Chiude questo confine il fiume Macra che da questa parte divide la Liguria dall'Etruria.  Dall'altra parte mediterranea ove si erge l'appennino ,ampio monte il quale con gioghi perpetui e continuali fino allo stretto Siciliano divide l'Italia per mezzo , avevano i liguri di qua e di là d e l monte medesim o 'nobilissime città; especialmente da un lalo del Po Libarna, Dertona , Iria , Barderate , Industria , Polentia, Potentia, Valentia,ed Augusta de'liguri vagienni. Quest'ultima città posta alle radici delle Alpi Cozie , non molto lontana dal monte Vesulo d'onde ilPo ha sua origine, fu dappoi resa colonia de'romani. Non ci rimane ora di essa alcun ve stigio, ma insua vece surse al luogo stesso ne'secoli da noi men lontani la città di Saluzzo sede un tempo di principi e capo del famoso 'marchesato di Saluzzo, la quale in fine da Giulio Imeritò esser decorate delladignità episcopale. Ma sopra queste s'innalzarono nella Liguria tre città non meno antiche che illustri,Alba Pompeia,Asta,ed Aqui cittàde'liguristatielli. Alba posta nella Liguria montuosa presso l'Appennino nellarivadelfiume Tanarofudagliantichigeografichiamata Pompeia, e per distinguerla da Alba degli Elvii posta nella Gallia Narbonense, e per aver quella G. Pompeo rifatta e la sciati ivi vestigi di sua memoria e beneficenza. Ebbe vescovi antichissimi, poichè rapportasi ilprimo tra questi essere stato nell'anno 350 S. Dionigi discepolo di S. Eusebio, poi innal zato alla cattedra di Milano. E ne'secoli men remoti vi se dettero due uomini insigni che la illustrarono, uno per la pru denza civile,e fu Lazarino Fieschi de'Conti di Lavagna , al quale la regina di Napoli Giovanna contessa di Provenza nel 1350 commise il governodelPiemonte,daluiquindiammi nistratoconsomma lode commendazione; l'altropersapienza é somma dottrina ed erudizione, qual fu il famoso Girolamo Vida,quelchiarissimopoetalatinochecilasciò l'incompara bilesua Cristeideedisuoidotti dialoghi De Republica. Acqui posta alla riva della Bormida in quella parte del Piemonte di là del Tanaro ,la quale Monferrato oggi si ap pella, fa edificatada’liguri statielli popoli potentissimi della Asla posta nella Liguria mediterranea non lontana dal Tanaro furesacoloniade'romani,edun tempofuseded’unodeglian tichi duchi longobardi. Ebbe anch'essa antichissimi vescovi,i quali quando l'imperio di Occidente passò a'germani , furono dagli imperatori molto favoriti ed a sommi onori innalzati; e non poco splendore recò a quella città aver seduto nella sua cat tedra vescovileilfamoso Panigarola,chiaroalmondo eloquenza e per tanti monumenti che lasciò di sua dottrina. > per lasua   montuosa Liguria. Fu detta Acqui dalle acque calde che quivi scaturiscono assai salutifere , siccome oltre la testimonianza diPlinio, l'istessaesperienza dimostra:efuchiamataAcqui de'liguri statielli, per distinguerla dalla Acqui sestia de' Salii posta nella provincia Narbonense . Fu anche sede di uno de'Duchi longobardi; ma la sua cattedra non è cotanto an tica quanto le due precedenti come quella che prende sua ori gine da'longobardi che furonoi primi ad erigerla. I liguri si stendevano anche di là del Po , é molte città le qualisecondoladivisioned'ItaliafattadaAugusto sono col locate nella XI regione alle radici delle Alpi , anche da'liguri traggon l'origine. Le prime che s'incontrano sono Vibiforo e Secusia, oggi detta Susa , le quali furon poi mutate in due colonie romane.Anche Torino Plinio fa derivare dall'antica stirpede’liguri;antiquaLigurum stirpe,egliscrisse(1)edisse il vero, poichè coloro che la fan derivare da'massiliesi , sica come Nicea ed Antipoli, vengono a togliere a questa città molto della sua antichità. Non è dubbio che i liguri sieno popoli d'Italiatantoantichi,chediessinon sisal'origine,onde sicredono indigeni del paese, nè mischiati con altrefore stiere nazioni , non altrimenti che Tacito credette de' ger mani : all'incontro de'massiliesi si sa l'origine ed il tempo nel quale profughi dalla Focide navigando nel mare inferiore e cercando nuove sedi,si fermarorro ne'lidi della Gallia Nar bonense innanzi detta Bracata. Ciò avvenne , secondo la te stimonianza di Livio (2), mentre in Roma regnava Tarquinio Prisco,quando laprima voltaigallipassaronole Alpi,iquali dopo aver soccorso i massiliesi contro i salii che impedivano loro lo sbarco, se ne calaron pe' monti Taurini dalle Alpi Giulie nell'Insubria , discacciandone gli etruschi. Livio stesso ri ferisce che a'medesimi tempi i salluvii avendo passate le Alpi , si posarono intorno al fiume Ticino vicino a ’ liguri levi , anticagenteed indigenadique'luoghi.Salluvii, e'dice,qui, præter antiquam gentem Levos ligures, incolentes citra Ticinum amnem , expulere. Se dunque i liguri, chiamati da Livio gente antiea, quando i massiliesi poser piede nella Gallia Narbonense tenevano questi luoghi ; più antica sarà l'origine di T o rino derivandola da’liguriche da'massiliesi, iqualisiccome molti e molti anni dappoi che furono stabiliti in Massiglia fon darono Antipoli e Nicea , molto maggior tempo appresso avreb ber dovuto fondare Torino più lungi che quelle.Si aggiunge che quando Anoibale calò per le Alpi in Italia , secondo rapporta Livio (1),Torino eragià metropoli degli antichi popoli Taurini,i quali reggendosi per se slessi aveano allora mossa guerra agl’in subri, ericusarono l'amicizia di Annibale contrastandogli coraggiosamente il passo, che egli sforzò a gran fatica.Inoltre Livio stesso rende testimonianza che la prima volta in cui i romani ? mosser guerra a’liguri fu per occasione che questi depredavano i campi di Nicea e di Antipoli , ciltà de'massiliesi soci de’ro mani ,e non già i campi di Torino, la qual città perciò non era de'massiliesi, ma abitata da’ liguri taurini. Furono questi popoli chiamati Tauriniche dieder nome alla città, siccome i monti a piè de'quali essa è posta furono anche detti Taurini, a cagione che dagli antichi i gioghi de monti erano chiamati Tauri per la figura che sogliono avere simili a'dorsi o alle schiene di tori, ond'è che quel celebre monte che divide la Siria dal rimanente dell'Asia fu chiamato Tauro sic come alcuni altri popoli presso Plinio ed altri antichi geografi son chiamati anch'essi Taurini specialmente nella Scizia, per chè abitano presso i monti anticamente appellati Tauri. Ri dottipoiquesti popoliliguri sottolasoggezionede'romani, Augusto ingrandi la città, che perciò venne poi detta Augusta Taurinorum , non altrimenti che Lutetia Parisiorum da'parisii popoli della Gallia Lugdunense che l'abitavano. Ebbero i liguri salassi anche in questa XI regione un'altra città, chiamata da Strabone , Plinio, Tolomeo ed Antonino Augusta Prætoria (ora detta Aosta) per distinguerla dall'altra Augusla de'liguri vagienni già menzionata : è posta frà le due facce delle Alpi Graie e Pennine . Furon le prime dette da' greci Graie per lo passaggio di Ercole (nisi de Hercule fabulis credere libet,comesaviamentedicePlinio),eleseconde (siccome volgarmente si crede) dal passaggio di Annibale co’ suoi  cartaginesi furon chiamate Poenine, secondoavvisòanchePlinio, benchèLivione dubiti.Checchèsiadiciò,èda osservarsi che da questa Augusta Prætoria , essendo per la sua situazione laprima cittàd'Italia,gliantichigeometriprendevanlamisura della lunghezza di questo nostro paese , tirando una linea per Capua fino a Reggio, ultima città sullo stretto siciliano (1). Fu dessa ancora città famosa ed illustre a'tempi de're longo bardi, quando questi tennero il regno d'Italia.Ad Eporedia , città posta nella stessa regione all'imbocco della Valle Augustana edalleradicidelleAlpi,oggi dellaIvrea, Pliniodà,senon così anticaorigine,nulladimenounaassaipiù illustre,scrivendo che fu da”romani fondata per impulso degli dei, secondo che da'librisibillinierastatolormostrato:Oppidum Eporediam, e'dice,SybillinislibrisaPopuloRomano condijussum(2).Fu antica colonia romana ,e perciò cotanto memorata da Cicerone, Strabone, Tacilo e da altri romani scrittori. Vercelli anche secondo Plinio dee riconoscere la sua origine da'liguri sallii poichè egli scrive: Vercelle Libicorum ex Salliis ortæ. E se dobbiamo prestar fede al vecchio Catone, Novara anche da’li guri ebbe origine, quantunque in ciò Plinio discordi, facendola derivare da' vocontii popoli della Gallia Narbonense. Questa era l'aptica Liguria che occupava tutta quella gran parte d'Italia occidentale, la quale poscia dal tempo che cangia emuta inomi,ilinguaggi,icostumi,iconfinietutto,sorti altre divisioni e nuovi domini . Furon poi queste regioni chia mateLanga,Monferrato,l'Astegiana,Piemontesuperiore,Mar chesato di Saluzzo, Piemonte inferiore ovvero tratto Torinese, Canavese,Valle Augustana,Vercellese e Biellese. Molti tra vagli i romani sopportarono per sottoporre tanti popoli liguri, poichè questi duri nelle armi e difesi da'luoghi inaccessibili si mantenner liberi, nè prima degli ultimi tempi della romana repubblica furono ad essa soltomessi. I romani cominciarono a sperimenlarli nelle armi dopo che si erangiàresiformidabili inItaliaedaltrove,dopocheebbervinto Pirro re di Epiro e lui costretto a ritirarsi nel suo regno , e dopo che nella prima guerra punica il console C. Lutazio diede  > ! (1) Plin., Hist. nat.lib. II , cap. 5. (2)Plin.lib.I,cap.17. 270   a'cartaginesi quella terribile rotta nelle isole agale, per la quale costoro furono forzati a chieder pace a'romani. Allora , finita questaguerra, i vincitoricominciaronoamuovere learmicontro i liguri intorno alla metà del sesto secolo di Roma. Livio, nella seconda sua deca, seguendo il suo costume, ne avrebbe certamente fatto conoscere le minute circostanze,ma questa deca interamente ci manca .L. Floro nell’Epitome ne rammenta ilprincipio dicendo: Adversus ligurestuncprimum exercitus promotus est. Ma da altri scrittori romani e da ciò che Livio stesso scrisse nella III e IV deca,lequali per buona sorte ciri mangono, è facile il conoscere che fin qui i romani non profittarono niente sopra i liguri, poichè è anche fuor di dubbio che nel principio della seconda guerra punica quando Annibale passò le Alpi,iliguri gli prestaronoaiutocontroiromani; e Livio nel primo libro della III deca parra, che col loro fa. vore prese Annibale per insidie due questori romani con due tribuni de'soldati e cinque figliuoli de'sanniti dell'ordine eque stre. Nè dopo scacciatoAnnibale d'Italiasi perderonodianimo, sicchè non tenessero continuamente esercitati i romani nelle armi. Declinando il sesto secolo di Roma, ambi duei consoli C. Flaminio contro i liguri frisinati ed apuani (i quali scorre fino ne’ campi Pisani e Bolognesi), e M . Emilio contro glialtriliguridiqua dell'Appennino, furono destinati con due eserciti consolari a soggiogarli: e sebbene ciò avessero i consoli menato ad esecuzione, non mancaron quelli di risorger poi più animosi e forti che prima , sicchè fu d'uopo nel s e guenteannoa'successoriconsoliQ. MarzioePostumio,dopoche questi sispacciarono dalle inquisizioni de'baccanali, riprender la guerra, la quale a Q. Marzio riusci pur troppo infelice , poichè colto ilsuo esercito da'liguri apuanifraluoghistreltie dificili,fudissipatoinguisache,siccomescriveLivio(1),qua tuormillia militum amissa, et legiunis secundæ signatria, undecim vexilla sociorum ac Latini nominis in potestatem hostium venerunt, et arma multa,quæ quia impedimento fugientibusper silvestres semitas erant, passim jactabantur: prius sequendi Ligures finem quam fugæ Romani fecerunt. Marzio fuggi dunque col residuo  (1)Dec.IV,lib.9. - 271   delsuoesercito:nonlamen,soggiunge Livio,obliterarefa mam reimalegestepotuit;nam saltus,undeeumLiguresfu gaverant,Martiusestappellatus.Nè minori furonogli sforzi ne'seguenti anni de'consoli successori, Sempronio che pugnò contro iliguri apuani ed Ap.Claudio controiliguriingauni. Inbreve,diceLivio(1),eragiàridottoincostume"non de cretarsia'consolialtraprovinciasenon quellade'ligurionde erano quelli spesso intenti a formare nuove legioni per poter abbattere sì valorosi inimici;laqual cosa non ebbe effetto se non sotto L. Emilio Paolo il quale (essendogli stata proro gata la consolare potestà) con potente esercito spedito contro i liguri ingauni ottenne su questi piena viltoria, siccome più tardi M. Bebio l'ottenne su’liguri apuani .E finalmente soltanto verso la fine del secolo, insieme con gl'istri, co' galli cisalpini e con le genti alpine, furono i liguri sottomessi a'romani (2): de’liguri in fatti primieramente trionfo C. Claudio console l'apno 578 , e ne'posteriori anni furono quelli poscia del tutto debellati(3).Di questa costanzae dabito de'ligurialle fatiche della milizia ed a soffrire patimenti e disagi, ben si accorse Annibale, il quale passate le Alpi, nelle sue prime pugne contro i romani, più che in altro popolo e più che ne'cartaginesi stessi,poseogni fiduciane'liguride'quali sivalse.E quando profugo da Cartagine ricovrossisotto Antioco re della Siria, il quale allora avea guerra co’ romani, il più sano consiglio che a quel principe pole dare, siccome Livio scrisse (4), fu che dovesse attaccare in due parti i romani dividendo in due classi lanumerosasuaarmata,eduna,dellaqualefossestato An tioco stesso il comandante e l'ammiraglio, diriger nella Grecia per discacciarne i romani , l'altra, dellả quale egli stesso A n nibale sarebbe stato il capitano supremo , dopo avere stretta lega co'cartaginesi, con le navi di questi inviare nel mar li gustico; poichè pensava che sbarcata la sua gente nella Li guria, egli fidando mollo nel coraggio e valore de'liguri osti nati difensori della loro libertà contro i romani , bene avrebbe  . 272 (1)Dec. IV,lib.10,inprinc. (2)Dec. IV,lib.10,et Dec. V, lib.2. (3)Florus Epit.,lib.7,Dec. V. (4)Dec. IV. >   273 . potuto unendo le armi liguri alle sue portar nuova formidabil guerra in Italia e porre nuovo assedio fino alle mura di Roma istessa ; m a quello stolto e vano re non appigliandosi a questo sano consiglio e volendo piuttosto seguire leadulazionide'suoi propricapitani,die'cagionealletantesue perditeesconfitte ed alla sua totale rovina. Ma riguardandosia'secolipiùanoivicini,non dovrà ta cersi un pregio che rese la ligure provincia assai più gloriosa di quante mai possano vantarsi di essere state avventurose madri di eroi e di semidei. Si celebrano cotanto presso i greci e le nazioni tutte del mondo Alcide , Bacco ed Ulisse per le lunghe loro peregrinazioni, per aver debellato i mostri , verteignoteterreescorsiincognitimari.Ma Ercolestesso Chi fu colui che rese isegni diErcolefavolavile a'naviganti industri? Chi fu colui che rese navigabili quelli che prima erano inaccessibili ed ignoti mari, e fece palesi ai noi regni non meno sconosciuli che vasti ? Chi fu colui che spiegando le fortunate sue antenne ad un nuovo polo , oscurò la fama di Alcide e di Bacco , se non il ligure Colombo ? Quanto ben gli si adattano, e con quanta maggiore proprietà e ragione con vengono à lui quelle lodi che Lucrezio diede al suo Epicuro , e che dal nostro incomparabile Torquato assai più acconcia mente furono attribuite al coraggio ed alla grandezza d'animo del Colombo, quando di lui canto : Unuom dellaLiguriaavràardimento All'incognito corso esporsi in prima: Nè ilminaccevol fremito del vento, Nè l'inospitomar,nèildubbioclima, Nè s'altro di periglio o di spavento Più grave e formidabile or si stima, Faran che il generoso entro a'divieti D'Abila angusti l'alta mente accheti (1). (1)Ger.lib.c.XV.  GIANNONE, Pietro. - Nacque il 7 maggio 1676 a Ischitella (Foggia), piccolo centro del Gargano, da Scipione (1646-1725), speziale, e Lucrezia Micaglia (1653-1709). Ebbe quattro fratelli: Francesca (n. 1680), Vittoria (1685-1735), Carlo (1688-1755) e Teresa (n. 1691).  Dopo aver compiuto i primi studi sotto la guida dell'arciprete del paese, Gaetano Serra, dal 1691 il G. studiò per due anni filosofia con un frate francescano. Fu inizialmente destinato allo stato ecclesiastico, ma la famiglia mutò parere e ai primi di marzo del 1694 il G. si trasferì a Napoli, dove, grazie all'aiuto del prozio materno, Carlo Sabatelli, iniziò a studiare diritto presso il procuratore Giovan Battista Comparelli. Nel 1696 divenne allievo di Domenico Aulisio, sotto la cui guida studiò diritto civile e canonico; iniziò poi gli studi storici nella Biblioteca Brancacciana e in quella del cardinale Gerolamo Seripando. Negli stessi anni il poeta leccese Filippo De Angelis lo introdusse alla filosofia di P. Gassendi e ai classici latini, greci e italiani.  Laureatosi il 4 sett. 1698 all'Università di Napoli, dallo stesso anno il G. iniziò a frequentare (anche se marginalmente) l'Accademia di Medinacoeli, in cui conobbe alcune delle maggiori figure della cultura napoletana, fra cui il giurista e poeta Nicola Capasso, il medico Luca Antonio Porzio, il filosofo Gregorio Caloprese e il medico Nicola Cirillo sotto il cui influsso abbandonò la filosofia gassendiana per abbracciare quella di Cartesio. Morto improvvisamente il Sabatelli nel 1700, il G. iniziò l'attività d'avvocato, conducendo il suo apprendistato presso Giovanni Musto, ma, insoddisfatto della sistemazione, si trasferì (su consiglio di don Giovanni Spinelli, che già lo aveva presentato all'Aulisio) presso Gaetano Argento. Per la formazione culturale del G. l'incontro con Argento si rivelò fondamentale, poiché a casa di questo, dal 1702, iniziò a riunirsi l'Accademia de' Saggi, che, proseguendo l'esperienza della Medinacoeli, riuniva un gruppo di giovani giuristi destinati a divenire il nerbo del governo napoletano durante il viceregno austriaco. Fu in quell'Accademia che maturò il progetto d'una nuova storia del Regno, cui il G. diede il suo contributo iniziando a lavorare all'Istoria civile del Regno di Napoli.  Grazie alla sua attività di avvocato, il G. si garantì un agiato tenore di vita che gli permise di chiamare a Napoli il fratello minore Carlo e l'ormai anziano padre. Il G. aveva nel frattempo iniziato una relazione con la popolana Elisabetta Angela Castelli, da cui ebbe due figli: Giovanni (1715) e Carmina Fortunata (1721). Anno decisivo per la sua carriera forense fu il 1715, quando divenne avvocato dei cittadini di San Pietro in Lama in una causa intentata contro il vescovo di Lecce Fabrizio Pignatelli intorno alla questione delle decime. In risposta a due allegazioni di Nicola D'Afflitto, avvocato del vescovo, il G. pubblicò la scrittura Per li possessori degli oliveti nel feudo di San Pietro in Lama contro monsignor vescovo di Lecce barone di quel feudo intorno all'esazione delle decime dell'olive, cui seguì, l'anno successivo, il Ristretto delle ragioni de' possessori degli oliveti. Tali testi, per la marcata e aperta adesione alle più avanzate tematiche giurisdizionaliste e per gli ampi riferimenti che il G. faceva alla storia del Regno, provocarono una forte e vivace discussione e possono considerarsi i suoi primi importanti lavori.  Molto scalpore suscitò nel 1719 la causa in difesa del nipote dell'Aulisio, Nicolò Ferrara, arrestato due anni prima con l'accusa di avere avvelenato lo zio. Vinta la causa, come compenso il G. ottenne dal suo assistito i manoscritti dell'Aulisio, di alcuni dei quali avrebbe poi curato l'edizione. Nel 1718 a Napoli il G. aveva pubblicato intanto, sotto lo pseudonimo di Giano Perontino (anagramma del nome del G.), la Lettera scritta da Giano Perontino ad un suo amico che lo richiedea onde avvenisse che nelle due cime del Vesuvio in quella che butta fiamme ed è più bassa la neve lungamente si conservi e nell'altra ch'è alquanto più alta e intera non duri che pochi giorni. Il breve scritto era frutto degli interessi scientifici che il G. aveva coltivato sin dal suo arrivo a Napoli (riscontrabili in tutte le opere sino a quelle del carcere) e dai quali, come avrebbe affermato nell'autobiografia, s'era dovuto allontanare perché assorbito dagli studi giuridici e storici.  Infatti il G., pur impiegando gran parte del suo tempo nell'attività forense, lavorava alacremente all'Istoria civile. Fu proprio per potervi attendere con più tranquillità che, nel 1718, comprò e restaurò una villa presso Posillipo, detta Dueporte perché si riteneva fosse appartenuta ai fratelli Giovan Battista e Niccolò Della Porta. Nei cinque anni successivi la stesura dell'Istoria lo assorbì sempre di più, tanto che i suoi continui ritiri a Dueporte gli valsero l'ironico soprannome di "solitario Piero". Alla fine del 1720, l'Istoria civile era ormai pressoché completata; il G. fece allora trasferire la tipografia di Nicolò Naso nella villa che il suo amico Ottavio Vitagliano aveva a Posillipo, vicino a Dueporte, e all'inizio del 1721 cominciò la stampa. Poiché, nonostante l'istruzione ricevuta, era più avvezzo al linguaggio giuridico (e al dialetto napoletano) che non all'italiano letterario, il G. chiese allora all'amico Francesco Mela di rileggere l'opera, volgendola, ove necessario, in buon italiano. Nel marzo 1723 l'Istoria civile del Regno di Napoli vedeva finalmente la luce, in un'edizione di 1100 esemplari (1000 in carta ordinaria e 100 in carta reale).   Scritta con lo scopo principale di difendere i diritti e le prerogative dello Stato contro la Curia romana, l'Istoria civile non intendeva tanto apportare nuovi contributi documentari alla storia del Regno, quanto offrirne una nuova interpretazione, esaminandone l'evoluzione dalla disgregazione dell'Impero romano sino al Viceregno austriaco.  Il G. non raccolse (se non per i primi libri) la documentazione direttamente dalle fonti, ma organizzò quella reperibile in altre opere, in particolare nell'Istoria del Regno di Napoli di A. Di Costanzo (L'Aquila, Cacchi, 1581), nell'Historia della città e Regno di Napoli di G.A. Summonte (Napoli 1601-43), nella Historia della Repubblica veneta di B. Nani (Venezia 1662) e nel Teatro eroico e politico de' governi de' viceré del Regno di Napoli di D. Parrino (Napoli 1692-94). Il procedimento gli causò, in seguito, l'accusa di plagio da parte di A. Manzoni nel capitolo VII della Storia della colonna infame, e poi da tutta la storiografia neoguelfa, rappresentata, tra gli altri, da G. Bonacci e C. Caristia. Il giudizio non coglieva l'importanza dell'Istoria civile, che non stava nella ricostruzione erudita degli eventi del Regno, ma nell'affermazione del principio dell'autonomia dello Stato.  In effetti, se dagli storici napoletani il G. traeva le notizie necessarie, i modelli storiografici erano però altri, italiani ed europei. Fra i primi Guicciardini, Sarpi e, soprattutto, il Machiavelli delle Istorie fiorentine: come quest'ultimo aveva attribuito alla Chiesa la responsabilità di avere impedito ai Longobardi la realizzazione in Italia di un forte regno nazionale, così il G. accusava Roma di avere troncato lo sviluppo dello Stato napoletano, distruggendo l'esperienza normanno-sveva con la chiamata di Carlo d'Angiò. L'avversione nei confronti degli Angioini è uno dei temi ricorrenti dell'Istoria civile: alla dinastia francese il G. imputava di avere diminuito il potere regio, accresciuto quello baronale, ma soprattutto di aver riconosciuto giuridicamente il Regno come feudo della Chiesa. A causa di tale acquiescenza verso il Papato, il Meridione avrebbe consumato il proprio distacco dal resto d'Italia, dove invece le dinastie regnanti contrastavano apertamente le pretese di Roma. Fra i modelli stranieri che avevano ispirato il G. erano J.-A. de Thou e U. Grozio, da cui il G. riprendeva la rivalutazione dei barbari, e in particolare dei Longobardi, visti come signori nazionali, nemici di Roma e di Bisanzio. Tanto il G. era avverso agli Angioini quanto mostrava simpatia per gli Aragonesi, i quali, pur fra incertezze e contraddizioni, avevano tentato di restituire al Regno l'autonomia dell'epoca normanno-sveva. Con il dominio spagnolo si era concluso tale tentativo e per questo il G. era fortemente critico verso Madrid, sottolineandone la politica di sfruttamento nei confronti del Regno. L'Istoria civile si concludeva con le pagine dedicate al dominio austriaco, nel quale il ceto civile riponeva le proprie speranze.  L'Istoria era dunque un'opera collettiva, non perché scritta a più mani - come malignamente sostenevano i nemici del G. -, ma in quanto "opera che raccoglieva e organizzava le esigenze del ceto civile" (Ricuperati, 1970, p. 163). Con l'Istoria civile il G. si era proposto di analizzare le ragioni del potere della Chiesa nell'Italia meridionale e in vista di ciò aveva dedicato ampio spazio all'epoca longobarda (l'unica per cui il G. ricorresse direttamente alle fonti). Per dimostrare soprusi e sopraffazioni della Chiesa sul Regno, il G. ricostruiva l'evoluzione politica del Papato, respingendone implicitamente l'origine divina; questo atteggiamento verso la religione, interpretata in chiave esclusivamente politica, rendeva l'Istoriaun'opera del tutto nuova nel panorama storiografico europeo ma motivava anche l'ostilità di Roma verso il Giannone.  Il 17 marzo 1723 il Consiglio municipale di Napoli (gli Eletti) concesse al G. una regalia di 195 ducati e lo nominò avvocato generale della città. Mentre copie dell'Istoria erano inviate a Vienna, a Napoli divampavano le polemiche. Le autorità ecclesiastiche protestarono perché l'opera non aveva ottenuto la licenza del tribunale vescovile (il G., in effetti, non l'aveva chiesta, ritenendola superflua poiché riteneva che l'opera non trattasse argomenti di giurisdizione ecclesiastica) e alcuni religiosi iniziarono a tenere prediche contro il Giannone. In seguito a ciò, il potere civile mutò atteggiamento: il viceré austriaco Friedrich Michael von Althann, che alla fine del 1722 aveva concesso al G. la licenza necessaria per la pubblicazione dell'opera, il 12 aprile, in una riunione del Consiglio del Collaterale, biasimò apertamente gli Eletti, i quali, peraltro, sin dal 7 aprile avevano congelato i provvedimenti a favore del G., nominando una commissione per valutare l'opera. Nello stesso tempo, il Collaterale ordinò la sospensione delle prediche contro il G. e la vendita dell'Istoria.  La situazione volse al peggio al momento del rito di s. Gennaro: poiché il sangue tardava a sciogliersi, il clero napoletano cominciò a sostenere che il santo fosse adirato con i Napoletani per la pubblicazione dell'Istoria civile. Contro il G. si diffusero allora in tutta la città poesie e libelli (diversi dei quali sono oggi conservati in un codice della Biblioteca nazionale di Napoli), mentre la curia arcivescovile si preparava a scomunicare l'opera. Ormai era a rischio la stessa vita del G., il quale, spinto anche dagli amici, decise di recarsi a Vienna per chiedere la protezione dell'imperatore Carlo VI. Dopo alcune esitazioni, il 1° maggio il G. lasciò Napoli per quella che sperava una breve assenza e che, invece, sarebbe stata una partenza senza ritorno. Raggiunta in incognito Manfredonia, da lì si trasferì a Barletta, riparando per alcuni giorni in una villa del fratello di Niccolò Fraggianni; nel frattempo a Napoli il sangue di s. Gennaro si scioglieva. Trovata una nave su cui imbarcarsi, il 25 maggio 1723 era a Trieste, il 27 a Lubiana e ai primi di giugno giungeva a Vienna.  In questa città il G. prese subito contatto con alcuni esponenti della numerosa comunità italiana, fra cui Alessandro Riccardi, Niccolò Forlosia e il medico e bibliotecario di corte Pio Niccolò Garelli, che portò una copia dell'Istoria all'imperatore Carlo VI. Nel frattempo, venuto a conoscenza della scomunica lanciatagli dalla curia arcivescovile di Napoli e della messa all'Indice dell'Istoria civile (1° luglio), il G. ricominciò a scrivere. Dapprima ritornò sul trattato Del concubinato de' Romani ritenuto nell'Impero dopo la conversione alla fede di Cristo, già iniziato a Napoli, poi scrisse due nuovi trattati: De' rimedi contro le proposizioni de' libri che si decretano in Roma e della potestà de' principi in non farle valere ne' loro Stati e De' rimedi contro le scommuniche invalide e delle potestà de' principi intorno a' modi di farle cassare ed abolire (che confluì nell'Apologia dell'Istoria civile). Negli ultimi mesi dell'anno la posizione del G. sembrò migliorare. Il 22 ottobre, in seguito alle pressioni viennesi, la scomunica fu revocata e in dicembre il G. ottenne udienza da Carlo VI, che l'anno seguente gli concesse una pensione annuale "sopra i diritti della Secreteria di Sicilia". Egli non riuscì, però, a ottenere un incarico ufficiale che, come aveva sperato, gli permettesse di tornare a Napoli in una posizione sicura. Decise quindi di fermarsi a Vienna e nel 1726 si stabilì nel palazzo della baronessa Therese Leichsenhoffen von Linzwal, con la sorella minore della quale, Ernestine, aveva stretto una forte amicizia.  Nel frattempo, in Italia apparivano diverse confutazioni dell'Istoria civile. Nel 1724 fu pubblicata a Roma l'Apologia di quanto l'arcivescovo di Sorrento ha praticato cogli economi de' beni ecclesiastici della sua diocesidell'arcivescovo Filippo Anastasio. In risposta Ottavio Ignazio Vitagliano pubblicò a Napoli, nel 1727, una Difesa della real giurisdizione intorno a' regi diritti su la chiesa collegiata appellata di S. Maria della Cattolica della città di Reggio, in cui, pur volendo difendere il G., finiva invece con il criticarlo. Il G. fu allora costretto a reagire con un proprio testo, diffuso a Napoli in forma manoscritta. Nel 1728 apparvero a Roma le Riflessioni morali e teologiche sopra l'Istoria civile del Regno di Napolidel gesuita Giuseppe Sanfelice: rispetto all'opera dell'Anastasio si trattava di un lavoro ben più articolato e problematico, tanto che il G. in un primo tempo aveva deciso di non replicare, ma durante la villeggiatura a Perchtoldsdorf (nei dintorni di Vienna) scrisse la Professione di fede. L'opera conobbe una vasta fortuna, testimoniata da un'imponente circolazione manoscritta, e segnò la definitiva rottura con la Chiesa cattolica. Un'altra Risposta del G. fece seguito alla pubblicazione delle Annotazioni critiche sopra il nono libro dell'Istoria civile di Napoli(Napoli 1732) del padre Sebastiano Paoli, scritte con l'aiuto dell'erudito e antiquario Matteo Egizio, esponente della parte più moderata del giurisdizionalismo napoletano, non disposta a seguire la lezione del Giannone.  Fallite le speranze di ottenere un incarico a Vienna, il G. riprese l'attività forense; oltre a diverse allegazioni per clienti viennesi e napoletani, nel 1725 scrisse il Ragionamento per il signor don Leopoldo Pilati, in cui difendeva i diritti di quest'ultimo alla nomina (poi non avvenuta) a vescovo di Trento dopo la morte di Giovanni Benedetto Gentilotti e, nell'autunno del 1727, il trattato De' veri e legittimi titoli delle reali preminenze che i re di Sicilia esercitano nel Tribunale detto della Monarchia, sulla complessa questione del Tribunale della Monarchia di Sicilia. Al 1731 risalgono due lavori di rilievo: la Breve relazione de' Consigli e dicasteri della città di Vienna, commissionatagli dal reggente Domenico Castelli, e le Ragioni per le quali si dimostra che l'arcivescovado beneventano… sia… sottoposto al regio exequatur, come tutti gli altri arcivescovadi del Regno, opera scritta su incarico della Città di Napoli.  Nel frattempo, con l'apparizione della traduzione inglese dell'Istoria civile (The civil history of the Kingdom of Naples, London 1729-31) iniziava la fortuna europea del G. e dell'Istoria. Sin dal 1728 il G. aveva cominciato a corrispondere regolarmente con gli eruditi tedeschi Siegmund Liebe e Johann Burckard Mencke, e con il figlio di questo, Friedrich Otto, iniziando la collaborazione agli Acta eruditorum Lipsensium. Nel 1729 scrisse la Dissertazione intorno il vero senso della iscrizione "Perdam Babillonis nomen" posta in una moneta di Lodovico XII re di Francia, da alcuni creduta coniata in Napoli l'anno 1502, che, tradotta in latino, uscì a Londra nel 1733 in un'edizione degli Historiarum sui temporis libri XXIV di J.-A. de Thou. All'inizio degli anni Trenta, il G. era ormai un intellettuale inserito nel contesto europeo, per i rapporti di collaborazione stretti con esponenti della cultura inglese e tedesca e per la sua conoscenza, maturata in quel periodo, delle opere che meglio rappresentavano quelle culture. In tal senso, un ruolo fondamentale aveva avuto la frequentazione con il principe Eugenio di Savoia, nella cui ricchissima biblioteca il G. aveva letto i più importanti testi del pensiero libertino e radicale europeo. Da queste sue fertili frequentazioni nei primi anni dell'esilio viennese derivò il progetto della sua opera principale, il Triregno, iniziata nell'estate del 1731, durante una villeggiatura a Medeling, e le cui prime due parti erano quasi terminate due anni più tardi, nel 1733.  Il Triregno si articola in tre parti: nella prima, il Regno terreno, il G. studia la religione ebraica e sottolinea come in essa non si conoscesse un aldilà, in quanto al popolo ebraico si prometteva esclusivamente il dominio sugli altri popoli senza alcun riferimento a mondi ultraterreni. Quello che Dio aveva promesso all'uomo nella Genesi era, dunque, esclusivamente un regno terreno. Nel successivo Regno celeste l'attenzione del G. si sposta al cristianesimo delle origini: studiando i testi neotestamentari, mette in evidenza come fosse stato il cristianesimo a introdurre l'idea di un mondo ultraterreno cui i fedeli erano destinati dopo essere stati giudicati sulla base delle loro azioni mondane. Il Regno papale, l'ultima parte, riprende il discorso iniziato nell'Istoria civile sulle origini del potere del Papato: dopo i primi secoli vissuti in conformità con l'insegnamento evangelico, i pontefici, approfittando della decadenza del potere imperiale dopo Costantino, costituirono il loro Regno sul principio della superiorità rispetto agli Stati mondani.  Nella composizione del Triregnoconcorrevano diverse tradizioni: la fondamentale esperienza del libertinismo erudito, con cui il G. era entrato in contatto negli anni della sua prima formazione napoletana, per influenza dell'Aulisio, dal quale il G. comprese l'importanza della storia ebraica. Molti temi delle Scuole sacre - l'opera di Aulisio uscita postuma nel 1723, pochi mesi dopo l'Istoria civile - ricomparivano, infatti, nel Triregno, filtrati dalle conoscenze acquisite a Vienna: la storiografia protestante tedesca (particolarmente evidente nel Regno celeste, dove forte è l'influenza delle Origines, sive Antiquitates ecclesiasticae di Joseph Bingham e delle Observationes sacrae di Salomon Deyling) e, soprattutto, il deismo europeo postspinoziano. In questo senso importante era stato il rapporto con gli scritti di John Toland (in particolare le Lettere a Serena, Origines Iudaicae e Nazarenus), dai quali il G. trasse la tesi secondo cui gli ebrei credevano nella mortalità dell'anima e non avevano idea di un mondo ultraterreno, e con la storiografia che con questi si era misurata criticamente (come le Vindiciae antiquae Christianorum disciplinae del luterano Johann Laurenz Mosheim).  Il Triregno non era, peraltro, del tutto slegato dall'Istoria civile. La matrice giurisdizionalista era evidente soprattutto nell'incompiuto Regno papale, dove il G. riprendeva il problema delle origini del potere ecclesiastico, affrontandolo, però, con gli strumenti della storiografia protestante: non più "istoria civile" del Regno di Napoli, ma di tutto l'Occidente cristiano. Di qui la persecuzione che la Curia romana mosse contro di lui, riuscendo, infine, non solo a farlo arrestare, ma a entrare anche in possesso dell'autografo del Triregno.  Si impedì così la pubblicazione dell'opera, ma non ne fu, tuttavia, impedita completamente la diffusione, che avvenne grazie a un apografo (probabilmente uscito dagli archivi romani in cui l'originale era custodito). Nel secondo Settecento diversi codici del Triregnocircolarono in Italia e in Europa, e negli anni Sessanta sembrò addirittura imminente una sua pubblicazione, poi non avvenuta, ad Amsterdam.  La conquista del Regno di Napoli a opera di Carlo di Borbone determinò la dispersione della comunità napoletana di Vienna. Ritenendo, con ragione, che fosse in pericolo la sua pensione, basata su rendite siciliane, anche il G. decise, allora, di partire. Lasciò Vienna il 28 ag. 1734, e giunse a Venezia il 14 settembre. Doveva essere solo un punto di passaggio sulla via per Napoli, ma le autorità borboniche gli rifiutarono il passaporto, temendo che un suo ritorno avrebbe compromesso le trattative per il riconoscimento papale del nuovo sovrano. L'ambiente culturale veneziano si rivelò, comunque, ricco di stimoli per il G., che strinse amicizia con il senatore Angelo Pisani, con il principe milanese Alessandro Teodoro Trivulzio, con l'abate Antonio Conti, con l'avvocato Giuseppe Terzi e con il libraio Francesco Pitteri. Con quest'ultimo, in particolare, si accordò per una nuova edizione dell'Istoria civile, per la quale approntò, come quinto tomo, quell'Apologia dell'Istoria civile cui lavorava da tempo e in cui confluirono i tre trattati composti a Vienna. In realtà, anche a Venezia il G. non mancava certo di nemici. Poco dopo il suo arrivo, Domenico Pasqualigo gli aveva offerto la cattedra di diritto civile all'Università di Padova, ma la Curia romana era riuscita a fare sospendere l'offerta. Nello stesso tempo, il nunzio a Venezia, Iacopo Oddi, faceva pressioni sul governo della Serenissima perché il G. fosse cacciato e consegnato alle autorità pontificie. Per screditare il G. venne diffusa la voce che egli avesse criticato la Repubblica veneziana in alcune pagine dell'Istoria civile, obbligandolo così a difendersi: la Risposta a tale accusa confluì anch'essa nell'Apologiadell'Istoria civile. Alla fine del marzo 1735 il G. si stabilì nell'abitazione del Pisani e un mese più tardi fu raggiunto a Venezia dal figlio Giovanni, che aveva lasciato a Napoli dodici anni prima. Riprese, allora, la stesura del Triregno, discutendone con i suoi amici veneziani. Fu nella villa del Pisani a Rovere di Crè (presso Rovigo) che, nel luglio 1735, il G. scrisse la Prefazione al Triregno. Anche questa volta, tuttavia, la tranquillità doveva rivelarsi effimera.  Dopo oltre un anno di complesse manovre sotterranee, il nunzio ottenne il risultato sperato: la notte del 13 sett. 1735, poco dopo aver lasciato, insieme con l'abate Conti, la casa dell'avvocato Terzi, il G. fu catturato da agenti del S. Uffizio, caricato a forza su un'imbarcazione e abbandonato nel Ferrarese, in territorio pontificio. Riuscì quindi fortunosamente a raggiungere Modena e vi restò nascosto per circa un mese, sotto il falso nome di Antonio Rinaldi, protetto, fra gli altri, anche da L.A. Muratori. Iniziò, allora, la stesura del Ragguaglio dell'improvviso e violento ratto praticato in Venezia ad istigazione de' gesuiti e della corte di Roma. Raggiunto, infine, dal figlio, il G. si recò a Milano, allora occupata dalle truppe sabaude, dove sperava nell'aiuto della famiglia del principe Trivulzio. Il 16 nov. 1735 fu ricevuto dal marchese Giorgio Olivazzi, gran cancelliere, il quale gli consigliò di scrivere a Carlo Vincenzo Ferrero marchese d'Ormea, ministro di Carlo Emanuele III di Savoia, per offrirsi come storico di corte. Quel che Olivazzi non poteva sapere era che l'Ormea s'era già accordato con il cardinale Alessandro Albani, offrendogli l'arresto del G. come contropartita per la concessione di un concordato favorevole allo Stato sabaudo al fine di chiudere lo scontro - aperto un ventennio prima da Vittorio Amedeo II - fra Torino e Roma. Da Torino partì quindi l'ordine di arresto del G., che però nel frattempo aveva già lasciato Milano per la capitale sabauda. Non considerando più gli Stati italiani un rifugio sicuro dopo l'esperienza veneziana, il G. aveva deciso di andare a Ginevra, dove era in contatto con l'editore Marc-Michel Bousquet (che sin dal 1729 aveva annunciato la sua intenzione di pubblicare una traduzione francese dell'Istoria civile). Mentre dava l'ordine di arrestarlo a Milano, l'Ormea non poteva immaginare che il G. fosse proprio a Torino, dove si fermò il 27 e il 28 nov. 1735. Giunse a Ginevra il 5 dicembre, dove, pur rifiutando di convertirsi al calvinismo, strinse amicizia con i teologi protestanti Jean-Alphonse Turretini e Jacob Vernet.   A causa delle sue precarie condizioni economiche, decise di pubblicare la traduzione francese dell'Istoria civile, per la quale s'era accordato già da tempo con il Bousquet. Questi, però, aveva sciolto proprio allora la sua società con lo stampatore J.-A. Pellissari, e si era trasferito in Olanda. Fu solo grazie all'aiuto di Vernet che il G. poté trovare un nuovo finanziatore nel libraio Jacques Barillot, ma, quando, all'inizio del marzo 1736, tutto era pronto per la nuova edizione dell'Istoria, il G. fu attirato fraudolentemente in territorio sabaudo e arrestato.  Sin dal 10 dic. 1735 il marchese d'Ormea aveva dato disposizioni per l'arresto al governatore della Savoia, conte Giuseppe Piccon della Perosa. La trama del rapimento è stata raccontata dal G. stesso, nella sua autobiografia, in pagine esemplari per chiarezza e drammaticità. A Ginevra egli aveva preso alloggio presso il sarto Charles Chénevé, da tempo amico di un doganiere sabaudo, tale Giuseppe Gastaldi, il cui fratello era aiutante di campo del conte Piccon. Dapprima Gastaldi si guadagnò la simpatia di Giovanni, il figlio del G., invitandolo spesso a Vésenaz (il piccolo centro savoiardo di fronte a Ginevra, dov'era la dogana) insieme con Chénevé. In questo modo egli venne a conoscenza dei movimenti del G. a Ginevra, informandone Piccon. Dopo aver rifiutato gli inviti del Gastaldi per tutto l'inverno, il G. accettò di assistere alla messa della domenica delle Palme nella chiesa di Vésenaz. Sabato 24 marzo 1736 si trasferì con il figlio a casa di Gastaldi. Questi, presi con sé alcuni soldati, irruppe di notte nella stanza del G. e arrestò lui e il figlio; il giorno dopo, Gastaldi si mise in marcia verso Chambéry. Il G. racconta la gioia del doganiere il quale, tenendo in mano un suo ritratto (probabilmente una copia dell'incisione fatta a Vienna da Jacob Sedelmayer) andava di paese in paese urlando di aver catturato "un grand'uomo".  Giunto a Chambéry la sera del 26 marzo 1736, Gastaldi consegnò i prigionieri al conte Piccon, il quale, il 7 aprile, ne dispose il trasferimento nella fortezza di Miolans, tradizionalmente deputata ad accogliere i prigionieri di Stato (quarant'anni dopo vi sarebbe stato rinchiuso anche il marchese de Sade). Ricevuta notizia dell'arresto, l'Ormea ne informò il cardinale Albani, al quale riferì anche l'intenzione di Carlo Emanuele III di non inviare il G. a Roma, ma di impegnarsi a tenerlo in carcere "perpetuamente". Per quanto la corte di Roma avrebbe preferito giudicare direttamente il G., il 5 maggio Clemente XII ringraziò il sovrano sabaudo per l'arresto del "sedizioso". Ormea e Albani si accordavano, intanto, perché il G. fosse processato dal S. Uffizio piemontese e costretto ad abiurare.  Durante la sua prigionia a Miolans (aprile 1736 - settembre 1737) il G. scrisse l'autobiografia (Vita di Pietro Giannone scritta da lui medesimo) e iniziò, aiutato dal figlio, una prima versione dei Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, un'opera che intendeva offrire a Carlo Emanuele III per l'educazione del principe di Piemonte, il futuro Vittorio Amedeo III. Nello stesso periodo l'Ormea riuscì, grazie al conte Piccon e ad altri agenti sabaudi, a entrare in possesso dei manoscritti delle opere del G. (compreso quello del Triregno), che, dopo esser stati esaminati da Giovanni Antonio Palazzi, abate di Selve, bibliotecario e storico di corte, furono inviati a Roma. Il 15 sett. 1737 il G., separato dal figlio Giovanni (che fece ritorno a Napoli), fu trasferito a Torino (nelle carceri di Porta Po, prima, e nella cittadella, poi). Qui fu affidato alla cura spirituale del padre filippino Giovan Battista Prever. Nel marzo del 1738 prestò formale abiura dei suoi errori di fronte al vicario inquisitoriale, Alfieri di Magliano.  Il testo dell'abiura non era quello che la Curia romana si attendeva, tanto che - contrariamente alla prima intenzione - si decise di non renderlo pubblico. A convincere il G. ad abiurare era stata la speranza di poter tornare presto in libertà, ma il 15 giugno 1738 fu trasferito al forte di Ceva, dove sarebbe rimasto sei anni. Le istruzioni impartite al conte Giuseppe Amedeo De Magistris, governatore del forte, erano per la migliore sistemazione possibile nel castello (il G. fu rinchiuso nella prigione detta "la speranza": due stanze e un anticamera interamente rivestite in legno e chiuse da una porta di pietra). Gli era permessa qualche ora d'aria al giorno (purché non parlasse con nessuno, tranne il governatore e il confessore del forte) e poteva leggere e scrivere (purché le sue opere non uscissero da Ceva se non per Torino).  Nei sei anni di prigionia cebana il G. terminò i Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio (conclusi nel maggio 1738) e scrisse altre tre opere: l'Apologia de' teologi scolastici (1739-41), l'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno(1741-42) e L'ape ingegnosa (1743-44). In esse riaffioravano molti temi del Triregno, soprattutto nell'Apologia de' teologi scolastici - dove l'autorità dei Padri della Chiesa era sottoposta a una vera e propria demolizione -, e nell'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno. Quest'ultima, inizialmente concepita come conclusione dell'Apologia, era una vera e propria prosecuzione del Triregno, nel cui Regno papale una vasta parte doveva essere dedicata a tale pontefice. Temi tipici degli autori libertini, in particolare del Toland, grazie a un sapiente uso della Naturalis historiadi Plinio il Vecchio, tornavano anche nelle pagine dell'Ape ingegnosa, vasto e complesso zibaldone, come recita il titolo, di "varie osservazioni sopra le opere di natura e dell'arte", denso di spunti autobiografici.  Nonostante la prigionia, la fortuna europea del G. continuava: nel 1738 ad Amsterdam era apparsa la traduzione francese dei libri sulla "politia ecclesiastica" (Anecdotes ecclésiastiques contenant la police et la discipline de l'Église chrétienne depuis son établissement jusqu'au XIe siècle), nel 1742 l'intera Istoria civile era stata tradotta in francese da C.-G. Loys de Bochat e G. Bentivoglio e pubblicata a Ginevra (ma con la falsa indicazione dell'Aja). Mentre a Torino la diffusione delle opere giannoniane preoccupava le autorità ecclesiastiche, a Ceva il G. entrava in contatto con esponenti della nobiltà locale, che lo incaricarono della stesura di alcune allegazioni forensi.  Nell'estate del 1744, a causa dell'avanzata delle truppe franco-spagnole, allora impegnate contro il Piemonte nella Guerra di successione austriaca, il G. fu trasferito a Torino, dove giunse il 3 settembre. In un primo tempo le condizioni della prigionia nella cittadella si rivelarono assai più dure: il governatore Ercole Tomaso Roero di Cortanze non aveva avuto, come invece il De Magistris, ordini particolari per il prigioniero, il cui trattamento non fu inizialmente dissimile a quello riservato ai molti prigionieri che affluivano nella capitale da tutto il Piemonte. La situazione fu aggravata dalla morte del marchese d'Ormea (maggio 1745), tanto che il 14 maggio 1746 il G. inviò al sovrano un lungo e disperato memoriale sul proprio stato e sulle angherie cui lo sottoponeva il maggiore della cittadella, il conte Giovan Battista Caramelli. Da allora le condizioni della sua detenzione migliorarono sensibilmente. Il suo ritorno a Torino non era passato inosservato; in pochi mesi il G. entrò in relazione con personaggi della corte e della cultura, come i bibliotecari dell'Università Paolo Ricolvi e Antonio Rivautella, e, soprattutto, con il residente inglese, Arthur Villettes, il quale gli fece avere diversi libri della propria biblioteca, grazie ai quali, oltre a quelli avuti dalla Biblioteca reale tramite Roero di Cortanze, il G. poté aggiungere nuovi capitoli all'Apologia de' teologi scolastici e iniziare una nuova versione, rimasta incompiuta, dei Discorsi. Il nuovo interesse destato dal G. suscitò la reazione delle autorità ecclesiastiche: il nunzio a Torino, mons. Ludovico Merlini, protestò presso il sovrano, il quale gli assicurò che le condizioni del prigioniero sarebbero divenute più severe.   In realtà il G. continuò a scrivere e a ricevere libri da Villettes e da Roero di Cortanze sino alla morte, sopraggiunta il 17 marzo 1748.  Il desiderio del G., formulato in una lettera all'Ormea nel marzo 1741, che sulla sua tomba fosse posta un'iscrizione da lui appositamente composta non fu esaudito: il suo corpo fu sepolto nella fossa comune dei prigionieri della chiesa di S. Barbara, all'interno della cittadella. La chiesa fu distrutta intorno al 1860.  Opere: Opere di Pietro Giannone, a cura di S. Bertelli - G. Ricuperati, Milano-Napoli 1971 (con un'accuratissima bibliografia), in cui sono comprese la Vitascritta da se medesimo, pagine scelte dell'Istoria civile, del Triregno, del Ragguaglio del ratto, delle altre opere del carcere e alcune lettere; Istoria civile, a cura di A. Marongiu, Milano 1970; Triregno, a cura di A. Parente, Bari 1940; Dopo la "Giannoniana": problemi di edizione, nuovi reperimenti di fonti e l'introduzione perduta del "Triregno", a cura di G. Ricuperati, in L'Europa fra Illuminismo e Restaurazione.Studi in onore di Furio Diaz, a cura di P. Alatri, Roma 1993, pp. 43-88; un manoscritto del Ragguaglio del ratto è stato pubblicato in Un testo inedito di P. G., a cura di A. Denis, in Archivio storico italiano, Delle altre opere del carcere l'unica sinora pubblicata in edizione critica è L'ape ingegnosa, overo Raccolta di varie osservazioni sopra le opere di natura e dell'arte, a cura di A. Merlotti, Roma 1993 (con bibliografia Per le lettere: P. Giannone, Epistolario, a cura di P. Minervino, Fasano 1983; Lettere autografe, a cura di P. Minervino, ibid. 1990 (in entrambi i casi l'edizione non è del tutto affidabile, cfr. la rec. di G. Di Rienzo, in Bollettino storico-bibliogr. subalpino, Arch. di Stato di Torino, Biblioteca antica, Manoscritti di Giannone(inventario a cura di G. Ricuperati, Le carte torinesi di P. G., in Memorie dell'Acc. delle scienze di Torino, classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. 4, IV [1962]): nel 1992 il fondo è stato arricchito da documenti autografi del G., in gran parte relativi ai periodi austriaco e veneziano; F. Nicolini, Gli scritti e la fortuna di P. Giannone. Ricerche bibliografiche, Bari 1913; L. Marini, P. G. e il giannonismo a Napoli nel Settecento, Bari 1950; B. Vigezzi, P. G. riformatore e storico, Milano 1961; S. Bertelli, Giannoniana. Autografi, manoscritti e documenti della fortuna di P. G., Napoli 1968; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di P. G., Milano-Napoli 1970; G. e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Napoli 1980; A. Merlotti, Settecento e "Risorgimento ghibellino": Giuseppe Ferrari lettore di P. G., in Annali della Fondazione Einaudi,Id., Negli archivi del Re. La lettura negata delle opere di G. nel Piemonte sabaudo (1748-1848), in Riv. stor. italiana,G. Ricuperati, P. G.: an itinerary in European free-thinking, in Transactions of the Ninth International Congress on the Enlightenment, Oxford 1996, pp. 242-245; H. Trevor-Roper, P. G. and Great Britain, in The Historical Journal, A. Hook, La "Storia civile del Regno di Napoli" di P. G., il giacobitismo e l'Illuminismo scozzese, in Ricerche storiche, Mannarino, Le mille favole degli antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di P. G., Firenze 1999.Grice: “One good thing about the Roman Church (you know, there’s a Jewish Church, too) is Giannone – he was rendered an ‘impious’ by the Church and imprisoned to death. This allowed him to philosophise on the Liguri – and he did!” Pietro Giannone. Giannone. Keywords: la terza Roma, autobiografia, ego-grafia – Vico, Giannone, Genovesi – Liguria – commento su Livio – regno terreno, regno celeste, regno papale --. Storia di roma antica -- giannonismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannone” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gioberti – del bello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “I like Gioberti; he published ‘Del bene, del bello,’ suggesting they are etymologically connected, and they are: BONUS alternates with BENE in Roman, and the dimintuvie, BENETULUS, gives ‘bellus’ – So the Roman implicature is that the ‘bello’ is a ‘little’ ‘bene’ – or gracious, comfortable, and proportionate, rather than having to do with ‘bene’ itself. – “like bene” – and affectionate diminutive, one hopes!” – Laureato, e parzialmente influenzato da Mazzini, lo scopo principale della sua vita divenne l'unificazione dell'Italia sotto un unico regime: la sua emancipazione, non solo dai signori stranieri, ma anche da concetti reputati alieni al suo genio e sprezzanti del primato morale e civile degli italiani. Questo primato era associato alla supremazia del Papa, anche se inteso in un modo più letterario che politico. Carlo Alberto di Savoia lo nomina suo cappellano. La sua popolarità e l'influenza in campo privato, tuttavia, erano ragioni sufficienti per il partito della corona per costringerlo all'esilio; non era uno di loro e non poteva dipendervi. Sapendo questo, si ritirò dal suo incarico ma fu arrestato con l'accusa di complotto e bandito dal Regno sabaudo senza processo. Andò a Parigi e Bruxelles per insegnare filosofia. Nonostante ciò, trovò il tempo per filosofare con particolare riferimento al suo paese e alla sua posizione.  Essendo stata dichiarata un'amnistia da Carlo Alberto,  divenne libero di tornare in patria. Al suo ritorno a Torino, fu ricevuto con il più grande entusiasmo. Rifiutò la dignità di senatore che Carlo Alberto gli aveva offerto, preferendo rappresentare la sua città natale nella Camera dei deputati, della quale fu presto eletto presidente.  Cadde il governo. Il re nominò Gioberti nuovo presidente del Consiglio. Il suo governo terminò. Con la salita al trono di Vittorio Emanuele II lla sua vita politica giunse alla fine. Ebbe un posto nel consiglio dei ministri, anche se senza portafoglio, ma un diverbio irriconciliabile non tardò a maturare. Fu allontanato da Torino con l'affidamento di una missione diplomatica a Parigi, da cui non fece più ritorno. Rifiutò la pensione che gli era stata offerta e ogni promozione ecclesiastica, visse in povertà e passò il resto dei suoi giorni a Bruxelles, dove si trasferì dedicandosi agli studi filosofici. I primi due licei istituiti a Torino celebrarono uno l'opera diplomatica di Cavour (il Liceo classico Cavour) e l'altro il pensiero, anche politico, di Gioberti (il Liceo classico Vincenzo Gioberti). Gli scritti sono più importanti della sua carriera politica; come le speculazioni di Rosmini-Serbati, contro cui scrisse, sono state definite l'ultima propaggine del pensiero medievale. Anche il sistema di Gioberti, conosciuto come “ontologismo”, più nello specifico nelle sue più importanti opere iniziali, non è connesso con le moderne scuole di pensiero. Mostra un'armonia con la fede che spinse Victor Cousin a sostenere che la filosofia italiana era ancora fra i lacci della teologia e che Gioberti non e un filosofo.  Il metodo per lui è uno strumento sintetico, soggettivo e psicologico. Ricostruisce, come afferma, l'ontologia e comincia con la formula ideale, per cui l'Ens crea l'esistente ex nihilo. Dio è l'unico ente Ens. Tutto il resto sono pure esistenze. Dio è l'origine di tutta la conoscenza umana (le idee), che è una e diciamo che si rispecchia in Dio stesso. È intuita direttamente dalla ragione, ma per essere utile vi si deve riflettere, e questo avviene tramite i mezzi del linguaggio. Una conoscenza dell'ente e delle esistenze (concrete, non astratte) e le loro relazioni reciproche, sono necessarie per l'inizio della filosofia.  Gioberti è, da un certo punto di vista, un platonico. Identifica la religione con la civiltà e nel suo trattato Del primato morale e civile degli Italiani giunge alla conclusione che la chiesa è l'asse su cui il benessere della vita umana si fonda. In questo afferma che l'idea della supremazia dell'Italia, apportata dalla restaurazione del papato come dominio morale, è fondata sulla religione e sull'opinione pubblica. Tale opera e la base teorica del neoguelfismo. In “Rinnovamento e Protologia” si dice che abbia spostato il suo campo sull'influenza degli eventi. La sua prima opera aveva una ragione personale per la sua esistenza. Un amico, avendo molti dubbi e sfortune per la realtà della rivelazione e della vita futura, lo ispirò alla stesura de “La teorica del sovrannaturale”.  Dopo questa, sono passati in rapida successione dei trattati filosofici. La “Teorica” è seguita dalla “Filosofia”, dove afferma le ragioni per richiedere un nuovo metodo e una nuova terminologia. Qui riporta la dottrina per cui la religione è la diretta espressione dell'idea in questa vita ed è un unicum con la vera civiltà nella storia. La Civiltà è una tendenza alla perfezione mediata e condizionata, alla quale la religione è il completamento finale se portato a termine. È la fine del secondo ciclo espresso dalla seconda formula, l'ente redime gli esistenti.  I saggi “Del bello” e “Del buono hanno” seguito l'introduzione. Del primato morale e civile degl'Italiani e Prolegomeni sulla stessa e a breve trionfante esposizione dei Gesuiti, Il Gesuita moderno, pubblicato clandestinamente a Losanna da Bonamici, ha senza dubbio accelerato il trasferimento di ruolo dalle mani religiose a quelle civili. È stata la popolarità di queste opere semi-politiche, aumentata da altri articoli politici occasionali e dal suo Rinnovamento civile d'Italia, che lo ha portato ad essere acclamato con entusiasmo al ritorno nel suo paese natio. Tutte queste opere sono state perfettamente ortodosse e hanno contribuito ad attirare l'attenzione del clero liberale nel movimento che è sfociato, sin dai suoi tempi, nell'unificazione italiana. I Gesuiti, tuttavia, si sono raduttorno al Papa più fermamente dopo il suo ritorno a Roma e alla fine gli scritti di Gioberti furono messi all'indice. I resti delle sue opere, specialmente “La filosofia della rivelazione” e la Prolologia espongono i suoi punti di vista maturi in molte parti. Tutti gli scritti giobertiani, tra cui quelli lasciati nei manoscritti, sono stati pubblicati daMassari (Torino). Il Ministero dei beni culturali ha affidato la redazione dell'edizione nazionale all'Istituto di Studi Filosofici "Enrico Castelli", presso l'Università La Sapienza di Roma. Altre opera: Prolegomeni del Primato morale e civile degli italiani, Enrico Castelli; Primato morale e civile degli italiani, Ugo Redanò; Introduzione allo studio della filosofia, Alessandro Cortese; Teorica del sovrannaturale, Alessandro Cortese; Del rinnovamento civile d'Italia; Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento civile d'Italia, Del rinnovamento civile d'Italia, Scrittori d'Italia Bari, Laterza. Cfr. lettera di V. Gioberti a G. Leopardi  in Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, Successori Le Monnier. Gioberti visse in Rue des marais S. Germain, hotel du Pont des Arts n° 3.  In lingua latina: "dal nulla", vedi anche la locuzione Ex nihilo nihil fit di Lucrezio. Antonio, su Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Istituto Castelli-Roma in.  Anteprima disponibile su  Anteprima della II edizione disponibile su books.google.  Giuseppe Massari, Vita di Gioberti, Firenze, Antonio Rosmini Serbati, Gioberti e il panteismo, Milano, Spaventa, La Filosofia di Gioberti, Napoli, Achille Mauri, Della vita e delle opere di Gioberti, Genova, Giuseppe Prisco, Gioberti e l'ontologismo, Napoli, Pietro Luciani, Gioberti e la filosofia nuova italiana, Napoli, Domenico Berti, Di  Gioberti, Firenze, Giorgio Rumi, Gioberti, Bologna, Il mulino, Mario Sancipriano,  Gioberti: progetti etico-politici nel Risorgimento, Roma, Studium,  Francesco Traniello, Da Gioberti a Moro: percorsi di una cultura politica, Milano, Angeli, Gianluca Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione di Gioberti, Milano, Mursia, Mustè, La scienza ideale. Filosofia e politica in Gioberti, Soveria Mannelli, Rubbettino, Mustè, Il governo federativo, Roma, Gangemi, Alessio Leggiero, Il Gioberti Frainteso. Sulle tracce della condanna, Roma, Aracne,  Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Gioberti attuale – Il Popolo d’Italia -- Non bisogna cedere alla facile tentazione erudita di dare troppi precursori al fascismo, come si è fatto da taluno in questi ultimi tempi. Il fascismo ha molti precursori e e non ne ha nessuno. Non ne ha nessuno se alla parola « precursore » si dà un significato strettissimo o letterale, ne ha molti se la stessa parola viene interpretata in un senso più lato. ln quest'ultima categorià può esser posto Vincenzo Gioberti. Ecco un autore che appare oggi « attuale » più di quanto non fosse fra il 1840 e il 1850 o anche semplicemente venti anni fa. Ci sono nelle pagine dei suoi libri notazioni, istruzioni, moniti, previsioni che il tempo ha confermato. Si vuole oggi, dal fascismo, una gioventù studiosa, che sia forte nel corpo come nello spirito. Or ecco come il Gioberti, a proposito della necessità dell'educazione fisica giovanile, si esprimeva nel suo Primato: « I giovani indurino il corpo avvezzandolo al sole, allenandolo alla corsa e ai ginnici esercizì, rompendolo alle operose veglie e alle utili fatiche, costringendolo a nutrirsi di cibi frugali, a posare su dura coltrice e assoggettandolo in ogni cosa allo imperio dell'animo, il quale col domare i sensi; si rende libero e franco e si dispone ai nobili affetti, ai vasti e magnifici pensieri ». Il fascismo ha battuto sempre in breccia certi persistenti snobismi linguaioli, che sono ormai superstiti soltanto in piccoli gruppi. Vedete come Gioberti flagellava gli esotismi del tempo che facevano preferire le lingue straniere all'italiana, l'abietto « forestierume », come, con parola di scherno supremo, diceva il Gioberti: « Riscuotano dunque se stessi da ogni ombra di forestierume, non solo nelle cose gravi ma anco nelle leggere, perché queste concorrono a informare il costume, che in opera di mutazioni morali è la somma del tutto. E non lieve faccenda, ma gravissima e importantissima è la lingua nazionale così per la stretta ed intima congiuntura dei pensieri con le voci, onde gli uni tanto valgono quanto l'espressione che li veste (dal che segue che le parole non sono pur parole, ma eziandio cose) come perché essendo ·la favella lo specchio più compito e più vivo delle specialità morali e intellettive di un popolo, chi la trascura e disprezza non può essere veramente libero, né aver cara l'indipendenza e la libertà della patria. Perciò indizio grave di servilità e di declinazione civile e prova non dubbia di poco amore verso il luogo natìo, è il trasandare la propria loquela e il vezzo di parlare o di scrivere senza bisogno di lingua forestiera. Tale indegno costume è altresì basso e vile! ». Pochi scrittori hanno, più del grande pensatore torinese, posto in rilievo la somma importanza della lingua nella vita di un popolo e i pericoli insiti nel trascurarla o avvilirla. L'ostracismo che il regime ha dato agli eccessivi dialçttismi e ai tentativi di creare su basi regionali delle letterature dialettali, trova la sua più alta giustificazione in questo superbo brano ,di prosa giobertiana. E da ricordare che il Gioberti definisce la italiana come « la più bella delle lingue vive ». « Lo stile, dice Giorgio Buffon, è l'uomo; lo stile e la lingua, dico io, sono il cittadino. La lingua e la nazionalità procedono di pari passo, perché quella è uno dei principi fattivi e dei caratteri principali di questa, anzi il più intimo e fondamentale di tutti, come il più spirituale, quando la consanguineità e la coabitanza poco servirebbero ad unire i popoli unigeneri e compaesani, senza il vincolo morale della comune favella. E però il Giordani insegna che "la vita interiore e la pubblica di un popolo si sentono nella sua lingua", la quale "è l'effige vera e viva, il ritratto di tutte le mutazioni successive, la più chiara e indubitata storia dei costumi di qualunque nazione e quasi un amplissimo specchio in cui mira ciascuno l'immagine ·della mente di tutto e tutti di ciascuno". E il Leopardi non dubitò di affermare che "la lingua e l'uomo e le nazioni per poco non sono la stessa cosa" ». Parole queste che non saranno mai abbastanza meditate. Quanto alla missione di Roma nella storia italiana e in quella europea e universale, ecco alcune citazioni di Gioberti che hanno un sapore attualissimo. « Il genio orientale affine a quello dell'Italia, se non altro perché Roma fu una volta e sarà forse di nuovo un giorno, se posso così esprimermi, l'oriente dell'Oriente ». « Roma in effetto, nel bene come nel male, nei tempi antichi come nei moderni, è arbitra suprema e norma delle genti italiche ». La figura di Gioberti, quale filosofo e patriota, ci è giunta un poco deformata dalle polemiche del tempo. Ma bastano le citazioni di cui sopra per far vedere che la portata educatrice del pensiero giobertiano, non è diminuita con le vicende del tempo. Gioberti è « attuale », anche e soprattutto oggi, nell'Italia del Littorio. The next day in “Il Popolo d’Italia” by Scrittore Fascista. Ancora Gioberti (Pubblicato in « Il Popolo d'Italia », 11 febbraio 1934)  di Scrittore fascista  La prosa giobectiana è ricca di parole asprigne, saporose e di neologismi indovinati. Si incontrano parole come queste: schifiltà, infemminire nell'ozio, forestierume, perennare, sfasciume, smanceroso, attillature, disviticchiare, mollizie, delicature, uomini faticanti, laicocrazia, fogliettisti, ecc. Ma più importanti sono sempre i pensieri del filosofo torinese. In tutte le questioni egli ha un punto di vista, che rappresentando le verità fondamentali, vale, oggi, come nel 1850. Ecco con quali termini il Gioberti stabilisce i compiti e i doveri di un'aristocrazia degna di questo nome. Si tratta dell'educazione da impartire ai figli degli aristocratici. « Imprimano in essi la semplicità dei modi, la grandezza dell'animo, l'austerità del costume, la tolleranza nelle fatiche, la fermezza nelle risoluzioni, J'intrepidità nei pericoli, la generosità nei travagli; li assuefacciano a contentarsi del poco, a fuggire gli agi e le pompe, a tenersi per depositari anziché padroni della loro ampia fortuna, come di un tesoro da dispensarsi in opere di beneficenza e in imprese di utilità pubblica ». Nel Gioberti si trova l'incentivo e la giustificazione delle opere di ripristino archeologico, alle quali il regime si è particolarmente consacrato, non soltanto a Roma, ma in ogni parte d'Italia. Se Vincenzo Gioberti potesse vedere lo spettacolo meraviglioso della Roma di oggi, dovrebbe fare constatazioni diverse da quelle del suo tempo. Gli scavi, la esumazione e la restaurazione degli antichi monumenti, non giovano soltanto a documentare al mondo la nostra gloriosa storia trimillenaria, ma sono anche fonti di ricchezza, per il richiamo che essi esercitano su tutte le ·genti del mondo civile. Le poche decine di milioni spese per creare quei capolavori che sono la via dell'Impero, la via dei Trionfi, la via del Mare, sono già stati recuperati almeno cento volte, attraverso l'affluire ìnces.sante degli stranieri. Ma Gioberti insisteva sul lato educativo e morale delle ricerche archeologiche così esprimendosi: « Egli è doloroso a pensare che così pochi siano al dl d'oggi gli italiani solleciti di conoscere e studiare le patrie rovine e che tale inchiesta si abbandoni, come inutile, all'ozio erudito di qualche antiquario. L'archeologia non meno della filologia, ben !ungi dall'essere una scienza sterile e morta, è viva e fecondissima, perché oltre a rinnovare il passato, giova a preparare l'avvenire delle nazioni. Imperocché la risurre2ione erudita dei monumenti nazionali porta seco il ristauro delle idee patrie, congiunge le età trascorse colle future, serve di tessera esterna e di taglia ricordatrice ai popoli risorgituri, destandone ed alimentandone le speranze colla voglia e con l'esca delle memorie ». Tutta la storia d'Italia passa in rapide sintesi potenti nelle meditazioni di Gioberti. I periodi di grandezza e di miseria, gli alti e bassi del nostro popolo, trovano nel Gioberti un indagatore e un illustratore vigoroso e penetrante. Egli « sente » la storia e come s'inorgoglisce parlando dei periodi di splendore, è amaro e violento quando trae a descrivere le epoche di decadenza. Nella citazione che segue sono condensati tre secoli della nostra storia, i quali dal punto di vista politico sono stati oscuri, perché furono secoli di divisione e di servitù. « Le ultime faville di virtù e di carità patria perirono in Italia colla repubblica di Firenze; spenta la quale dalla truce e schifosa progenie dei secondi Medici, l'ingegno secolaresco, costretto a menar vita privata ed umbratile, non ebbe più altro campo dove esercitarsi che quello degli studi: in cui rifulsero ancora tre sommi laici, il Tasso, il Galilei, il Vico, che nel culto della sapienza poetica, naturale, filosofica, andarono innanzi a tutti, e risposero in un certo modo alla triade clericale e monachile del Bruno, del Campanella e del Sarpi. Ma il rinnovamento del ceto civile nella penisola e la creazione dell'Italia laicale è dovuta a Vittorio Alfieri, che, nuovo Dante, fu il vero secolarizzatore del genio italico nell'età più vicina e diede agli spiriti quel forte impulso che ancora dura e porterà quando che sia i suoi frutti ». Questa profezia del Primato si è avverata. L'impulso dato da Alfieri diede i suoi frutti col Risorgimento. Dopo una eclissi, tale impulso è lo stesso che scatenò il maggio radioso del '15 e la marcia di ottobre del '22. È l'impulso che fece vincere la guerra e trionfare la rivoluzione. Non ancora un secolo è passato e già queste parole del Primato giobertiano fiammeggiano nei cuori delle generazioni littorie. « Italiani - diceva Gioberti - qualunque siano le vostre miserie, ricordatevi che siete nati principi e destinati a regnare moralmente sul mondo! ». GIOBERTI, Vincenzo. - Nacque a Torino il 5 apr. 1801 da Giuseppe, impiegato, e da Marianna Capra. Un dissesto finanziario del padre, morto prematuramente, rese molto precarie le condizioni economiche della famiglia. Formatosi nelle scuole dei padri oratoriani, rivelò precoci interessi per la letteratura e per gli studi filosofici e teologici, e annoverò tra i suoi maestri e guide spirituali G.G. Sineo, poi ricordato come "il solo vero prete moderno" che avesse incontrato. Tuttavia il G. fu essenzialmente un autodidatta, che, nonostante la malferma salute, si dedicò con inaudita intensità alle più disparate letture, toccando anche il settore linguistico, storico, naturalistico, geografico, politico (con una precoce passione per N. Machiavelli), e lasciandone traccia in una congerie sterminata di appunti e di pensieri: in uno dei quali rivelava di essere stato "reso anti-monarchico dalla lettura dell'Alfieri, irreligioso, ma per poco, da Rousseau, pirronista dagli altri filosofi" (Meditazionifilosofiche inedite, p. 45). Tali frammenti provano come il giovanissimo G. accumulasse una rilevante cultura filosofica, in parte di tipo manualistico, ma in parte notevole ricavata da letture di prima mano (sebbene non sempre nella lingua originale) concernenti in special modo le opere di Platone, s. Agostino, F. Bacon, J.-B. Bossuet, G. Vico, G.W. von Leibniz, N. de Malebranche, G.S. Gerdil, J.-J. Rousseau e I. Kant. Quest'ultimo, unitamente alla "scuola scozzese" di Th. Reid, appariva al G. il filosofo che aveva riportato "nel campo dell'osservazione quel principio pensante, che molti aveano a tal segno obliato da confonderlo coi sensi e colla materia" (ibid., p. 167). Alla linea di pensiero che il G. definiva allora idealistica si affiancò il confronto ravvicinato, ma costellato di dissensi, con il tradizionalismo cattolico di J. de Maistre, L.-G.-A. de Bonald, F.-A.-R. de Chateaubriand, P.-S. Ballanche e delle prime opere di F.-R. de La Mennais. È da osservare che il G. conosceva bene il francese, appreso dalla madre, e, ovviamente, il latino, ma non il greco, mentre nel 1821 aveva iniziato, senza però approfondirlo, lo studio dell'ebraico e del tedesco.   In linea generale, prevalse nel giovane G. un orientamento eclettico, considerato peculiare dei "cristiani filosofi" e apertamente professato in opposizione allo "spirito esclusivo" dei sistemi, pur in un quadro teorico segnato dalla polemica antisensistica e dalla ricerca, non priva di momenti laceranti, di un punto di equilibrio tra una persistente venatura scettica e l'ancoraggio, punteggiato peraltro da corrosivi spunti anticlericali, alla religione cattolica, assunta come deposito di verità oggettive, attingibili per via razionale solo in maniera parziale e frammentaria. Oltre che sul piano teoretico, la necessità della rivelazione cristiana s'imponeva per il giovane G. sul piano pratico e politico, essendo "una religione rivelata e positiva l'organo indispensabile della morale nella società", ovvero anche "un'obbligazione sociale", chiamata a integrare "il mantenimento e l'accrescimento dei diritti", indicati come fine della politica. La ragionevolezza dell'adesione alle verità dogmatiche della fede cattolica, tenute distinte da quanto nella società religiosa vi è di accidentale e di transeunte, sostituiva, nel giovane G., l'idea di religione naturale d'impronta deistica, facendo salvi, da un lato, il principio di una rivelazione soprannaturale depositata nella Chiesa cattolica e, dall'altro, il concetto di un suo progressivo dispiegamento nella storia umana.  Membro dell'accademia ecclesiastica fondata dal Sineo e di quella dall'abate L. Solaro, il G. risentì dell'impronta - probabiliorista in campo morale e cautamente giurisdizionalista in campo ecclesiastico - della facoltà teologica torinese, da cui trasse alimento il suo vivace antigesuitismo. Addottorato in teologia il 9 genn. 1823, fu aggregato alla facoltà teologica l'11 ag. 1825, con la discussione di tre tesi: De Deo et naturali religione, notevole per la padronanza della relativa letteratura sei-settecentesca, De antiquo foedere, De christiana religione et theologicis virtutibus, la cui edizione accademica restò per quattordici anni l'unica opera del G. data alle stampe. Poco prima, il 19 marzo 1825, era stato ordinato sacerdote, dopo che la curia torinese e forse lo stesso arcivescovo C. Chiaverotti erano intervenuti per vincere la sua ritrosia all'ordinazione. Nel gennaio 1826 fu nominato cappellano di corte con uno stipendio annuo di 480 lire.  Notevoli zone d'ombra caratterizzano la fase successiva della sua biografia. La stessa renitenza del G. a tradurre in pubblicazioni l'immenso materiale accumulato, nonostante la notorietà acquisita negli ambienti colti e l'attività svolta in alcuni circoli filosofici e letterari, appare indicativa sia di una persistente fluidità del suo pensiero, sia della percezione di un sempre più chiuso clima intellettuale e politico, che il G. tendeva ad attribuire, sul fronte ecclesiastico, alle mene dei gesuiti e della "frateria" - da lui personalmente contrastati in occasione della vicenda che aveva coinvolto il teologo G.M. Dettori, allontanato dalla cattedra universitaria nel 1829 con l'accusa di giansenismo - e, sul versante politico, all'involuzione autoritaria del governo sabaudo.  Tra il 1826 e il 1833 la riflessione del G. sui rapporti tra religione e filosofia e tra religione e vita sociale seguì un percorso non lineare. Ne sono documento eloquente le lettere indirizzate a G. Leopardi (personalmente conosciuto nel 1828 a Firenze, durante un viaggio per l'Italia in cui il G. ebbe modo di incontrare anche A. Manzoni), le lettere al giovane amico e discepolo C. Verga e una lettura accademica sull'accordo della religione cattolica coi progressi della società civile (Ricordi biografici e carteggio, a cura di G. Massari, I, pp. 116-126).  Scrivendo al Leopardi da Torino il 2 apr. 1830, il G. confessava di aver professato nel passato "un puro teismo", e di aver mutato idea in seguito a nuove indagini sulla "verità del Cristianesimo (e quindi del Cattolicismo che è la sola forma invariabile di quello) come sistema dottrinale e come fatto storico", e di essere approdato a una "adesione intima, schietta, profonda alla religione cattolica", che gli aveva consentito di vincere "i fastidi, le amaritudini, i terrori, la malinconia" che fin allora lo avevano tormentato (Epistolario, I, pp. 41-44). Due anni dopo, reduce dall'aver "letto a furia" Le mie prigioni di S. Pellico, scriveva al Verga una lettera in cui, opposto "il cristianesimo di Silvio" a quello dei gesuiti, dei "nemici della filosofia e della civiltà", rivelava di essere divenuto assertore di una religione filosofica: cioè di una religione "immedesimata" e non solo conciliata con la filosofia, fondamento di una morale austera, "ispiratrice di azioni grandi e generose, e dell'oblio di se medesimo per intendere unicamente al bene della patria" (ibid., pp. 131-133).  Nei primi anni Trenta, anche in seguito alla lettura del Nuovo saggio sull'origine delle idee di A. Rosmini Serbati, il G. enunciò in modo più stringente e sistematico l'idea di una diretta connessione tra risorgimento filosofico e risorgimento nazionale, appellandosi a una tradizione filosofica autoctona, dispiegata genealogicamente da Pitagora al Rosmini, attraverso la scuola eleatica, la patristica latina, l'umanesimo e G. Vico (lettera a C. Verga, 23 dic. 1831, ibid., pp. 69-73). Dichiarandosi continuatore di questa linea ideale, il G. manifestò una speciale consonanza con il pensiero di Giordano Bruno, facendo a più riprese, in parallelo con l'evoluzione delle proprie idee politiche, professione di panteismo.  Tale collegamento è attestato da una lunga lettera, scritta probabilmente nella primavera-estate del 1833 ai compilatori della Giovine Italia e ivi pubblicata sotto lo pseudonimo di Demofilo nel 1834. Il G. vi esaltava il panteismo come la sola filosofia "destinata a fiorire un giorno col voto unanime dei buoni ingegni", affermando di avvertire nelle dottrine politiche professate dai mazziniani "un'applicazione di questi dettati" (ibid., II, pp. 5-25; cfr. anche lettera al Verga del 9 apr. 1833, ibid., I, pp. 167-172). La lettera, ripubblicata con intenti antigiobertiani nel 1849 non da G. Mazzini, come a lungo si credette, ma probabilmente da C. Cattaneo, col titolo Della repubblica e del cristianesimo, era rivelatrice di una radicalizzazione delle convinzioni del G., coinvolto in una serie di vicende destinate a mutare il corso della sua esistenza: vi si proclamava la necessità di una religione civile finalizzata alla liberazione dei popoli, ma, contemporaneamente, l'impossibilità di dar vita a "una religione veramente nuova […], tanto che i filosofi, e gli uomini universalmente cominciano a persuadersi, che fuori del Cristianesimo non v'ha religione"; e vi si accennava a una lettura escatologica, ma non solo ultraterrena, dell'idea cristiana di salvezza e di redenzione, implicante una sua dilatazione dalla sfera individuale a quella sociale, prefigurata nella promessa di un regno "da aspettarsi eziandio in questo mondo". Nell'accezione giobertiana, ispirata ora a un messianismo politico-sociale in vesti cristiane cui non erano estranei gli echi delle dottrine sansimoniane, il motto mazziniano "Dio e il popolo" diventava così il presupposto di una "cristianità novella", l'annunzio di un'epoca imminente in cui "Iddio sarà umanato non nel figliuolo dell'uomo, ma nel popolo", e destinato non alla croce, ma a un "regno stabile, a una pace perpetua, all'immortalità e alla gloria".   L'abito di prudenza e di riservatezza adottato dal G. non impedì che le sue idee destassero diffusi sospetti di ateismo anche presso i suoi superiori. Ciò lo indusse il 9 maggio 1833 a lasciare la carica di cappellano e a rinunciare al relativo stipendio. Nel frattempo si era affiliato a una società segreta, detta dei Circoli, e poi ad altra associazione patriottica di dubbia identificazione, forse i Veri Italiani; non sembra che mai entrasse nella Giovine Italia, sebbene coltivasse intimi rapporti con alcuni suoi affiliati, come l'abate P. Pallia. In seguito a delazione, fu quindi coinvolto nella repressione prodotta in Piemonte dalla scoperta della congiura mazziniana del 1833, arrestato con pesantissime accuse il 31 maggio e tenuto in carcere, senza processo, fino al settembre. Qui lo raggiunse un provvedimento immediatamente esecutivo che lo esiliava senza permettergli di incontrare alcuno dei suoi amici.  Per poco più di un anno, dall'ottobre 1833 alla fine del 1834, il G. visse a Parigi in una situazione assai precaria, che lo induceva ad autorappresentarsi nei panni di uno "sdottorato" e uno "spretato" (era privo di celebret per la messa), di uno che aveva "perduto tutto". Nonostante le relazioni intrecciate con i molti italiani insediati stabilmente o temporaneamente nella capitale francese, come il matematico G. Libri, A. Peyron, T. Mamiani, C. Botta, e con esponenti di primo piano del mondo accademico francese, come V. Cousin e J.-J. Champollion, visse in relativo isolamento, in una città che considerava il "microcosmo d'Europa" ma non amava, ascoltando le lezioni accademiche di C. Fauriel e di Th.-S. Jouffroy, impartendo per vivere lezioni private d'italiano e progettando, senza realizzarli, lavori di argomento filosofico o di polemica politica sulla sanguinosa repressione seguita alla congiura del 1833 e al tentativo mazziniano del 1834. Nella febbrile atmosfera intellettuale della monarchia di luglio il G. avvertì come sintomi di una crisi epocale, ma senza condividerne appieno i contenuti, i messaggi di rinnovamento sociale espressi dalla tarda scuola sansimoniana, da Ph.-J.-B. Buchez, dalle Paroles d'un croyant di F.-R. de La Mennais. Lo scenario parigino, che gli appariva connotato dalla totale estinzione del culto e della pratica cattolica, fornì nuovo alimento alla venatura apocalittica del suo pensiero, che gli faceva presagire come prossima la "fine del mondo; ma del mondo antico, donde sorgerà il nuovo", nel quale "gli ordini morali di Cristo" sarebbero diventati "gli ordini civili delle nazioni", compenetrando lo Stato sino a produrre "una società di uomini, retta da sé medesima, sotto la legge universale, una, libera, fiorente, morigerata, santa, ed esprimente la concordia del cielo colla terra" (lettera all'abate P. Unia, 14 maggio 1834, ibid., I, pp. 134-139). Per altro verso, si approfondiva sino a divenire inconciliabile il dissenso del G. nei riguardi della linea mazziniana e verso i movimenti insurrezionali, cui attribuiva la responsabilità di aver "impedita o spenta una metà almeno di quel civile progresso che altrimenti or sarebbe in Italia". Ne discendeva un caldo invito, rivolto ai suoi numerosi corrispondenti piemontesi, all'accorta prudenza e a un lavoro di lunga lena finalizzato a un apostolato politico basato sull'aperta propaganda delle idee patriottiche. Dall'insieme delle posizioni giobertiane dell'esilio parigino trasparivano una sostanziale sfiducia nel grado di maturazione raggiunto dalla coscienza nazionale del popolo italiano, "languido, diviso e inerte", un'attenuazione delle antecedenti pregiudiziali repubblicane e l'abbandono delle convinzioni panteistiche. Sul piano politico, il G. inquadrava ora la questione nazionale nella riapertura, ritenuta certa, del ciclo rivoluzionario in Francia e nella susseguente esplosione di una guerra europea, condizioni determinanti della liberazione dell'Italia dall'Austria e della cacciata definitiva dei "nostri tiranni".  Nel dicembre 1834 accettò, anche per ragioni economiche, l'offerta di assumere l'insegnamento di storia e filosofia nel collegio fondato a Bruxelles da P. Gaggia (un ex sacerdote italiano convertitosi al protestantesimo), che ospitava un centinaio di giovani cattolici ed evangelici. Forse anche in relazione alla più pacata atmosfera politica del Belgio, dove i cattolici erano parte attiva del sistema costituzionale sortito dalla rivoluzione del 1830, il G. proseguì nella revisione ideologica già profilatasi nel periodo parigino, prospettando più lucidamente che nel passato un'esigenza di conciliazione, che non implicasse identificazione, tra dogmatica religiosa e idee filosofiche e tra ordine soprannaturale e ordine civile. Dichiarava in proposito che, mentre in precedenza aveva immedesimato i dogmi cristiani colle idee, ora li disgiungeva, evitando di ridurre il cristianesimo a una simbolica filosofia, ma considerandolo invece "il compimento della filosofia medesima" (a P.D. Pinelli, 15 apr. 1835, ibid., II, pp. 239-243). Ne conseguì la decisione di produrre finalmente delle opere a stampa. Ai primi del 1838 vide infatti la luce a Bruxelles una sua "dissertazione religiosa" intitolata Teorica del soprannaturale, o sia Discorso sulle convenienze della religione rivelata colla mente umana e col progresso civile delle nazioni, composta in poco più di un mese sul finire del 1837 e stampata a spese dell'autore; cui seguirono, in rapida successione, l'Introduzione allo studio della filosofia (Bruxelles 1839-40), che ebbe una circolazione superiore a quella, inizialmente limitatissima, della Teorica, sebbene di entrambe le opere venisse interdetta l'introduzione nel Regno sardo; la Lettre sur les doctrines philosophiques et politiques de m. de Lamennais (dapprima anonima, nel Supplement à la Gazette de France dell'8 genn. 1841, poi con firma e con titolo leggermente mutato a Parigi-Lovanio, 1841); il saggio Del bello, composto come voce dell'Enciclopedia italiana e dizionario della conversazione (Venezia) diretta da A.F. Falconetti, e pubblicato anche come volume a sé nell'autunno del 1841, prima opera del G. edita in Italia, che doveva essere seguita da un altro testo destinato alla stessa sede, Del buono, uscito invece in forma autonoma a Bruxelles nel 1843; e le dieci lettere Degli errori filosofici di Antonio Rosmini (Bruxelles 1841; la seconda edizione, del 1843-44, portava a 12 il numero delle lettere e comprendeva altri scritti giobertiani).  Nella Teorica il G. faceva i conti con il proprio antecedente itinerario intellettuale e con le tendenze filosofico-religiose del suo tempo. L'opera, imperniata sull'analisi delle relazioni tra ordine religioso e ordine civile osservate sotto un'angolatura gnoseologica, etica e storica, aveva come principale obiettivo polemico la riduzione monistica della sfera religiosa a quella civile o viceversa, operata, secondo il G., dalle teorie razionalistiche e panteistiche, dal "cristianesimo politico" dei sansimoniani alla Buchez, dal tradizionalismo antimoderno di Maistre, Bonald e del primo La Mennais. Dalle dottrine tradizionalistiche, tuttavia, il G. prendeva, rielaborandola, l'idea di una rivelazione primitiva cui veniva fatta risalire sia l'attivazione (mediante il dono soprannaturale del linguaggio) della facoltà di conoscere e di volere e quindi l'origine della civiltà, sia l'infusione nella mente umana di verità sovraintellegibili, percepite come misteri, analizzabili razionalmente solo per via analogica, e fondanti l'ordine religioso. Ne discendeva una storia parallela, basata sul principio di distinzione e di interrelazione, della civiltà e della rivelazione religiosa, anch'essa rappresentata come progressiva, fino al suo compimento nella rivelazione cristiana, custodita integralmente e infallibilmente dalla Chiesa cattolica. Il tracciato di questo duplice cammino era per il G. contrassegnato dal progressivo incremento del ruolo della religione come "causa e stromento" di civiltà, e dal graduale accostamento degli ordini politici al modello di società organizzata costituito dalla Chiesa (visibile tra l'altro nell'applicazione alla sfera politica del sistema elettivo proprio degli ordini ecclesiastici). Emergevano pertanto dalle pagine della Teorica i lineamenti di una rilettura cattolica della genesi della civiltà moderna, in opposizione alla tesi delle sue origini protestanti, e una riaffermazione del primato della religione sulla civiltà e della Chiesa sullo Stato, che si traduceva nella confutazione dei sistemi politici, assoluti o democratici che fossero, i quali implicassero una subordinazione della religione alla volontà del sovrano. Si trattava, in definitiva, di un'apologia del cattolicesimo in senso civile, che nello scorcio conclusivo dell'opera assumeva una marcata impronta nazionale.  Tale impronta era ancora più forte nell'Introduzione allo studio della filosofia. L'opera era infatti imperniata sull'idea che toccasse all'Italia, dopo un lungo periodo di oscuramento della sua tradizione filosofica determinato dalla perdita dell'"indipendenza civile", promuovere la restaurazione della "vera filosofia", scomparsa dall'orizzonte europeo in seguito all'espulsione dell'"idea di Dio dallo scibile umano", e porre rimedio agli effetti devastanti prodotti sul piano politico dalla diffusione di falsi principî filosofici, generatori delle due contrapposte tirannidi prevalenti nel mondo moderno, quella dei despoti e quella del popoli, dipendenti "dallo stesso principio, e aventi uno scopo unico, cioè il predominio della forza sul diritto". L'Introduzione intendeva porre le basi di un organico sistema filosofico (inteso in senso molto estensivo), in grado di contrapporsi alle deviazioni psicologistiche, soggettivistiche o panteistiche della filosofia moderna generate principalmente, sul piano speculativo, dal pensiero e dal metodo analitico di Cartesio e, su quello religioso, dalla Riforma: un sistema imperniato sull'Idea, intesa, a suo dire, in un'accezione totalmente diversa da quella utilizzata dai sensisti, dagli idéologues e dai panteisti moderni (tra cui G.W.F. Hegel), e analoga invece a quella platonica e malebranchiana. Il riferimento all'Idea, intuita dalla mente umana come oggetto reale e in atto che esiste indipendentemente dal soggetto, cioè come Ente o principio ontologico e non solo gnoseologico, si realizza nel giudizio sintetico a priori o formula ideale "l'Ente crea l'esistente", che pone nell'atto creativo l'origine del mondo, e da cui scaturisce, in ragione dell'identica matrice della realtà generata e del pensiero, l'intera enciclopedia filosofica sul piano speculativo. Il principio contenuto nella formula ideale si esplica infatti in un secondo ciclo creativo che procede, a differenza del primo, dall'esistente all'Ente, e del quale è partecipe, come causa seconda, l'azione dell'uomo in quanto dotato di intelligenza e di libero arbitrio, che lo rende "in un certo modo creatore" e simile a Dio. Mentre il primo ciclo è il principale oggetto dell'ontologia, scienza dei principî, il secondo ciclo, nel quale si esplica la "vita attiva", è l'oggetto dell'etica, scienza dei fini.  Tra le molteplici applicazioni della formula ideale abbozzate nell'Introduzione assumevano un rilievo particolare quella concernente il rapporto tra religione e civiltà secondo lo schema relazionale già profilato nella Teorica, e quella riguardante la sfera della sovranità. In argomento il G., ponendo nell'Idea l'origine della sovranità, ne confutava sia il fondamento contrattualistico (visto come prodotto delle deviazioni soggettivistiche e sensistiche della filosofia moderna), sia l'identificazione con il potere assoluto di un principe. Definendo la sovranità come un processo discendente dall'Idea, ma nello stesso tempo partecipativo, il G. perveniva alla enunciazione di una formula politica (modellata sulla formula ideale), per la quale "il sovrano fa il popolo" ma "il popolo diventa sovrano", mediante "la trasformazione lenta, graduata e sicura del Demo in patriziato". Ciò si traduceva in un'apologia della monarchia civile o rappresentativa generata dal cristianesimo e già prefigurata negli ordinamenti medievali, vista come sintesi tra un potere tradizionale e un'"aristocrazia elettiva" chiamata a estendersi col progredire dell'incivilimento. Inoltre, distinguendo il diritto sovrano dal diritto del principe, il G. finiva per recuperare come "unico giure assoluto, essenziale, irrepugnabile" l'idea di sovranità nazionale, trasferendo alla nazione (una volta istituita come corpo politico) il carattere di primazia che i fautori dell'assolutismo attribuivano al principe: sino a proclamare non solo il diritto di resistenza nei confronti del principe assoluto, ma financo, in casi estremi, la legittimità della rivoluzione.   Il progetto di cui la Teorica e l'Introduzionecostituivano una prima cornice speculativa era sintetizzato in una lettera a T. Mamiani del 15 ott. 1840 (Epistolario, III, pp. 66-69), dove il G. esprimeva la convinzione che il solo modo di giovare all'Italia fosse quello di "creare una scuola di libertà temperata, morale, religiosa, italiana, una scuola di civiltà tanto aliena dal sentire dei demagoghi quanto da quello dei despoti"; indicava l'obiettivo di far della religione "una insegna nazionale" immedesimandola "col genio dell'Italia, come nazione", facendone "una di quelle idee madri che seggono in cima al pensiero degli uomini e signoreggiano ogni parte del vivere civile". Con l'aggiunta che, distinguendo "nella religione cattolica la credenza dall'istituzione" e insistendo sulla seconda, non sarebbe stato difficile convincere gli increduli che "il cattolicesimo, anche umanamente considerato, sia il migliore degli istituti religiosi possibili".  Un programma di così ambiziosa portata prefigurava un disegno in qualche misura egemonico sul piano culturale e induceva il G. non solo a entrare in diretta polemica con le opere di autorevoli esponenti del coevo pensiero europeo, come Cousin (in uno scritto concepito come appendice dell'Introduzione, ma pubblicato inizialmente a parte, a Bruxelles nel 1840, le Considerazioni sopra le dottrine religiose di Vittorio Cousin), e come Lamennais (in un opuscolo duramente critico verso le sue ultime opere filosofiche e politiche), ma soprattutto a competere con l'altro pensatore italiano, Rosmini, che aveva intrapreso a propria volta, con intenti non meno ambiziosi, un programma di edificazione di una filosofia cristiana capace di misurarsi con il pensiero moderno. Il dissenso nei suoi confronti si era già manifestato nell'Introduzione, dove alla dottrina rosminiana dell'Essere ideale era mossa la critica di perdurante e invalicabile psicologismo e perciò di soggettivismo e finanche di sensismo mascherato. Tale iniziale dissenso si tradusse in acre e prolungata polemica, specialmente in ragione dei successivi interventi dei seguaci del Rosmini, come M. Tarditi, l'abate L. Gastaldi, futuro arcivescovo di Torino, G. di Cavour, secondo i quali le tesi giobertiane menavano dritto al panteismo. Il G. ribatté colpo su colpo, incominciando dalla già citata alluvionale opera Degli errori filosofici di A. Rosmini, importante soprattutto per il fatto che l'autore vi tracciava il processo teorico attraverso cui era pervenuto alla formula ideale. Nella polemica il G. fu affiancato e sostenuto dai suoi amici e seguaci, come P. De Rossi di Santarosa, mentre risultò vano l'intervento pacificatore di N. Tommaseo.  Nella primavera del 1843, sempre a Bruxelles, il G. diede alle stampe l'opera che doveva dargli la celebrità, Del primato morale e civile degli Italiani, tirato nella prima edizione in 1500 esemplari. Concepito inizialmente come "un'operetta di non molte pagine", "un discorsetto non solo sul Papa ma sull'Italia", il Primato divenne strada facendo un ponderoso lavoro in due grossi volumi, la cui scrittura, iniziata nel 1842, procedette in parallelo con la stampa fino al maggio dell'anno successivo.  L'opera, dalla struttura sovrabbondante e magmatica, colma di formule apodittiche e di scarti lessicali, aveva tuttavia un suo asse portante nel tentativo di definire i caratteri originali e permanenti della nazionalità italiana sintetizzati in quello che il G. chiamava "genio nazionale". Plasmato da fattori naturali, come il sito geografico e la feconda mescolanza di stirpi pelasgiche ed etrusche, connotato dalla preminenza di elementi sacerdotali e aristocratici, dotato di un suo particolare "genio federativo" espresso dalla "società di popoli" realizzata dalla repubblica romana (poi tralignata in signoria imperiale), riflesso culturalmente da un'ininterrotta tradizione filosofica autoctona, il genio italico aveva trovato, secondo il G., una sua configurazione effettivamente nazionale per opera del Papato, che lungo il Medioevo gli aveva dato stabile forma avviando la traduzione in "ordini civili" dei dettati religiosi e morali del cristianesimo. Il tratto costitutivo della nazione italiana veniva così reperito in un principio ideale, convalidato tuttavia da fattori naturali di tipo etnico e confermato dalla storia: nell'essere l'Italia "nazione religiosa per eccellenza", dotata di un primato religioso determinato dal trapianto in Roma dell'Evangelo e dall'elezione provvidenziale della sede romana a sede apostolica, che si riverberava in un primato dell'Italia nell'ordine morale e civile, da cui traeva il carattere di "creatrice, conservatrice e redentrice" della civiltà europea. Il ruolo o la missione religioso-civile, che faceva degli Italiani "il nuovo Israele" e dell'Italia una "nazione sacerdotale", veniva perciò raffigurato dal G. come indivisibile da quello del Papato: il quale, mediante l'esercizio della potestà civile connaturata alla sua primazia religiosa, non solo aveva costituito la nazionalità italiana, ma le aveva altresì impresso i tratti suoi propri di nazione guelfa. Per converso, il declino della potestà civile dei pontefici, iniziato nel tardo Medioevo e culminato nell'Età moderna, si era tradotto nella decadenza, nell'asservimento politico, nella subordinazione culturale dell'Italia e nella frammentazione politico-religiosa dell'Europa. Il risorgimento italiano, concepito dal G. sullo sfondo di una riunificazione religiosa europea, veniva dunque a raccordarsi strettamente con la restaurazione della "scaduta potestà civile del Papa in modo conforme e proporzionato all'indole e ai bisogni del secolo". Tale formula conteneva il nocciolo della tesi centrale del Primato: posto che, secondo il G., l'esercizio della potestà civile pontificia, perno della più ampia potestà civile della Chiesa, era per sua natura suscettibile di assumere modalità variabili in relazione al cammino della civiltà in senso secolare, essa era chiamata a evolversi in maniera vieppiù adeguata alla propria originaria legittimazione religiosa e alla progressiva acquisizione di "indipendenza civile" e di "capacità nazionale" da parte dei popoli, assumendo le forme preminenti della forza morale, della persuasione, dell'influenza pacifica e pacificatrice. L'itinerario della potestà civile pontificia tracciato dal G. procedeva dunque dalla "dittatura", consona alle età barbariche, verso un "potere arbitrale", delimitato dal fatto di non "avere alcun effetto civile che non sia consentito alla libera [cioè liberamente] dalle parti gareggianti e deliberanti". Si realizzava così la saldatura tra la restaurazione-riforma del potere civile del Papato e il Risorgimento italiano: nel senso che la ridefinizione del primo avrebbe reso possibile l'esercizio effettivo da parte del pontefice del ruolo, mai assunto nel passato, di capo civile della nazione sotto forma presidenziale (o dogale) - un ruolo, dunque, istituzionale, analogo ma più forte di quello arbitrale -, e la contemporanea trasformazione in unità "nazionale e politica" della preesistente, ma virtuale, unità italiana senza che ne venissero toccati i legittimi poteri dei sovrani.  Quest'ultimo aspetto costituiva un altro snodo del Primato, che consentiva al G. di tracciare una via consensuale, pacifica e aliena da fratture rivoluzionarie per la costruzione dello Stato nazionale. Scartate come estranee alla natura e alla storia del genio italico le forme del dispotismo e della democrazia "demagogica" fondata sull'idea della sovranità popolare, e assumendo come punto di riferimento il riformismo settecentesco, in specie di Pietro Leopoldo e di Benedetto XIV, il G. raffigurava l'erigenda entità politica nazionale come una confederazione dei maggiori Stati italiani, retti a monarchia "consultiva" sotto la presidenza moderatrice del pontefice elettivo. La formula della monarchia consultativa veniva preferita a quella della monarchia rappresentativa per il fatto di non frammentare la sovranità, e di permettere ugualmente ai sovrani di governare secondo il voto della nazione, raccolto e filtrato da un corpo vitalizio di "veri ottimati" tratto da un'aristocrazia selezionata dal merito e dall'ingegno più che dal sangue nobiliare, agente come canale di collegamento con l'opinione pubblica. Un'attenzione particolare era dedicata dal Primato al potere dell'opinione negli Stati moderni, alle condizioni necessarie del suo sviluppo, al ruolo che il clero era chiamato a esercitarvi nel rispetto del "principio sacrosanto della libertà delle coscienze", alla funzione modernizzatrice delle élitesintellettuali. L'utopia della confederazione italiana (tale la definiva lo stesso G.) si traduceva in una forma politica composita, che richiamava in certa misura l'ordinamento ecclesiastico, caratterizzata dalla presidenza conciliatrice del pontefice, da un insieme di "aristocrazie civili e consultative, ciascuna sotto un capo ereditario investito del supremo comando", e finalizzata all'unione, all'indipendenza e alla realizzazione della libertà civile, tenuta distinta da quella politica, cioè costituzionale.  Scritto come libro "moderatissimo" per non "irritare gli animi" e consentirgli di circolare per tutta la penisola (il che accadde, nonostante gli interdetti dell'Austria e il divieto di smercio nello Stato pontificio), con l'esplicita intenzione di raccogliere i più ampi consensi, il Primato lasciava deliberatamente da parte argomenti di più immediata rilevanza politica, che pure il G. affermava di aver originariamente previsto, quali il predominio dell'Austria o la laicizzazione del governo dello Stato pontificio. Il Primatosegnava inoltre un ripiegamento rispetto ad alcune delle tesi sviluppate nell'Introduzioneallo studio della filosofia e conteneva positivi apprezzamenti nei riguardi della Compagnia di Gesù. Accolto con favore in ambienti laici ed ecclesiastici, compresi quelli gesuitici, ma stroncato da G. Ferrari nel quadro della polemica antigiobertiana che percorreva il suo saggio La philosophie catholique en Italie (uscito in due puntate sulla Revue des deux mondes nel marzo-maggio 1844, cui il G. rispose con una lettera pubblicata in appendice alla seconda edizione di Degli errori filosofici di A. Rosmini), il libro contribuì in modo rilevante alla formazione dell'opinione nazionale, pur a prezzo o forse in ragione delle sue reticenze e dissimulazioni, trovando una naturale collocazione nel contesto del riformismo moderato degli anni Quaranta, specialmente in Piemonte, grazie anche all'apologia, presente in certe sue pagine, della missione nazionale riservata allo Stato sabaudo sotto il profilo militare, e all'esaltazione del riformismo carloalbertino: temi subito ripresi e sviluppati, in senso più marcatamente sabaudista ma anche meno proclive all'idea del primato italiano, nelle Speranze degli Italiani di C. Balbo (che sul finire del 1844 ebbe parte principale nella nomina del G. a socio nazionale non residente dell'Accademia delle scienze di Torino). Di segno opposto furono le accoglienze riservate al Primato da G. Mazzini e dai neoghibellini. La prima edizione del Primato - la cui lettura era resa ancora più ardua dalla mancanza di un indice analitico - andò rapidamente esaurita, e il G. provvide tra il 1844 e il 1845 ad allestirne una seconda corretta, stampata dallo stesso tipografo belga, e comprendente un lungo testo introduttivo, che venne tirato a parte in 2000 copie col titolo di Prolegomeni del Primato. Qui il G. abbandonava alcune delle originarie cautele, con un pronunciamento a favore della monarchia rappresentativa e con un'acre denuncia degli orientamenti settari attivi nella Chiesa e identificati in particolare nell'Ordine gesuitico o, per meglio dire, nel "gesuitismo" inteso come categoria morale contrapposta al "cattolicismo" e incompatibile con la civiltà moderna e i suoi valori nazionali. Ciò innescava un'aspra controversia, destinata ad aggravarsi e a prolungarsi nel tempo, con eminenti scrittori della Compagnia, segnatamente con F. Pellico, fratello di Silvio, e C.M. Curci, non senza il sostegno e l'incoraggiamento del padre generale J. Roothaan.  I Prolegomeni segnavano una prima sterzata rispetto alle tonalità ecumeniche del Primato, e il riaffiorare nel G. di una virulenta vena polemica che trovò un successivo sfogo nella pubblicazione del Gesuita moderno, apparso a Losanna nel 1846-47. Una parte non trascurabile nella vicenda ebbe il passaggio del G. da Bruxelles a Parigi (1845), reso possibile dall'autonomia finanziaria assicuratagli dalla buona riuscita della sottoscrizione promossa a Torino da P.D. Pinelli per una nuova edizione delle sue opere complete. A Parigi, ove rinsaldò l'amicizia con G. Massari (divenuto nel frattempo suo discepolo e ammiratore), il G. si trovò nel pieno dello scontro sulle scuole delle congregazioni e nel cuore delle controversie sulla Compagnia di Gesù innescate dai corsi tenuti al Collège de France da E. Quinet e da J. Michelet. Soprattutto, suscitò grande eco nell'animo del G., che ne avrebbe tratto a più riprese corrosivi spunti antigesuitici, il coinvolgimento della Compagnia nei coevi conflitti politico-religiosi della Svizzera, sfociati poi nella guerra del Sonderbund.  Impostato come una replica alle critiche dei padri Pellico e Curci, Il gesuita moderno si trasformò strada facendo in un farraginoso lavoro in cinque volumi (l'ultimo dei quali di documenti) scritto dal G. in uno stato di tensione e di inquietudine che lo induceva a sospettare di una sistematica opera di spionaggio messo in atto da emissari della Compagnia nei suoi confronti. L'opera era un concentrato di argomenti antigesuitici ricavati dalla storia e collegati dall'idea dominante già abbozzata nei Prolegomeni: la radicale e irrimediabile ostilità dello spirito gesuitico, in quanto pervaso da misticismo, lassismo morale e autoritarismo, a un cattolicesimo civile, ispiratore del movimento nazionale. Nel rappresentare il gesuitismo come il principale e più subdolo nemico del Risorgimento, il G. prendeva anche in considerazione, in un'appendice al quinto volume, le tesi enunciate dal p. L. Taparelli d'Azeglio nel saggio Della nazionalità (1846), dove si affermava non essere l'indipendenza politica un attributo necessario della nazionalità, e veniva definito inammissibile il perseguimento di uno Stato nazionale se in conflitto con i diritti dei sovrani. Il G. vi contrapponeva un'idea di nazionalità come "creatrice di diritti", fattore sostanziale e incoercibile di identità di un popolo, in tal modo proclamando non solo l'incomponibile divaricazione tra due idee di nazionalità, ma anche prendendo definitivo congedo dalle sfumature legittimistiche del Primato.  Gli eccessi polemici del Gesuita moderno, singolarmente contrastanti con la moderazione del Primato, gli valsero un'accoglienza controversa e suscitarono non poche critiche anche da parte di cattolici liberali come Balbo, Rosmini e Tommaseo; ma assicurarono ulteriore udienza e popolarità all'autore e un'ampia circolazione, superiore a quella del Primato, all'opera, che non era stata interdetta dalla censura ecclesiastica ed era venuta a cadere in una fase in cui il vento antigesuitico spirava forte negli Stati europei (la seconda edizione, del 1847, fu tirata in 12.000 copie).  I cambiamenti avvenuti nella Chiesa e nella situazione italiana con l'elezione di Pio IX e l'accelerazione del movimento riformatore, gli atteggiamenti assai cauti, se non riguardosi, del nuovo papa, già lettore del Primato, nei confronti del G., e, viceversa, il moltiplicarsi delle critiche al Gesuita modernoin Italia e più ancora in Francia, specialmente per mano dell'archeologo Ch. Lenormant, indussero il G., sul finire del 1847, a porre mano a un nuovo lavoro, l'Apologia del libro intitolato "Il gesuita moderno", con alcune considerazioni intorno al Risorgimento italiano (Bruxelles e Livorno 1848). Qui la rinnovata battaglia contro il gesuitismo, estesa ora al partito francese dei "laici ipercattolici" capeggiato da Ch. de Montalembert, veniva a connettersi più direttamente con i progressi compiuti nel frattempo dal movimento nazionale e interpretati dal G. come una totale convalida delle proprie tesi. Sennonché, tra l'inizio della stesura e della stampa, progredita assai lentamente, e la conclusione del lavoro, compiuto nell'aprile 1848, erano intervenuti il sovvertimento della scena politica europea con la rivoluzione parigina del febbraio (direttamente osservata e idealmente difesa dal G.), la concessione degli statuti da parte dei maggiori sovrani italiani, la rivoluzione di Vienna e la crisi dell'Impero austriaco, l'insurrezione milanese, l'avvio della guerra in Italia. Inoltre la Compagnia di Gesù era stata espulsa da molti Stati, tra cui quello sabaudo, tanto da far pensare al G. che i gesuiti, dei quali aveva auspicato in lettere private l'espulsione, fossero "morti politicamente", pur continuando a sopravvivere "i loro spiriti". Tutto questo impose un rifacimento del capitolo finale dell'opera, più legato all'attualità, e la stesura di un lungo proemio, datato Parigi 8 apr. 1848, in cui i fatti italiani, a partire dalla rivoluzione siciliana del gennaio, entravano prepotentemente nella sua analisi, rendendo il libro ancor più eterogeneo nei suoi contenuti e il suo titolo ancor più inadeguato, ma accrescendone pure di molto l'interesse. L'opera vide finalmente la luce, in quattro edizioni quasi contemporanee, quando il G. era ormai ritornato a Torino.  Molteplici elementi imprimevano all'Apologiail tono di un manifesto programmatico, in linea con i numerosi interventi avviati dal G. su alcuni giornali liberali come la Patria di Firenze, l'Italia di Pisa, il Risorgimento e soprattutto la Concordia di Torino, diretta da L. Valerio: in primo luogo, l'esaltazione, condotta con toni volutamente forzati, dell'azione riformatrice di Pio IX, nel quale il G. indicava l'incarnazione provvidenziale del pontefice da lui stesso preconizzato, guida del Risorgimento nazionale interpretato come "un evento religioso, europeo, universale", promotore di "una rivoluzione fondamentale negli ordini umani del cattolicesimo" e di una metamorfosi del Papato da "aristocratico e monarcale" a "popolano e democratico come nelle sue origini"; in secondo luogo, la perorazione per la sollecita creazione di un regno costituzionale dell'Alta Italia sotto la dinastia dei Savoia, accompagnata dalla confutazione dei programmi municipalisti e repubblicani. Per altro verso, l'Apologia portò allo scoperto, sotto la sollecitazione degli eventi, venature del pensiero giobertiano in precedenza tenute in ombra, riflettendone gli approdi più recenti. Il libro era tutto attraversato dal tema della democrazia, non tanto intesa come ordinamento politico, ma quale prorompente e benefica "rivoluzione, che per la mole, l'estensione, la natura, l'importanza, la durata, non si può comparare a niuna di quelle che la precedettero, la quale avrà per ultimo esito di conferire al popolo la piena signoria delle cose umane"; rivalutava, rifacendosi alle opere di A. de Lamartine e di J. Michelet, l'opera dei giacobini nella Rivoluzione francese; assegnava a meta conclusiva del movimento nazionale, dopo la necessaria fase federativa, la costituzione di uno Stato unitario, accennando a una sua futura trasformazione in senso repubblicano; individuava il solo modo di perpetuare la monarchia pontificia in una riforma costituzionale dello Stato della Chiesa, che consentisse al papa, in quanto principe temporale, di regnare senza governare e di realizzare la "separazione assoluta del governo spirituale dal temporale".  Quando rientrò a Torino, il 29 apr. 1848, dopo oltre quattordici anni di esilio e accolto da entusiastiche manifestazioni, il G. era reduce da una prima cocente delusione politica, determinata dall'annuncio confidenziale, pervenutogli a Parigi e seguito da immediata smentita, della sua nomina a ministro dell'Istruzione nel gabinetto Balbo, fatta cadere dal veto di Carlo Alberto, che gli era e gli restò ostilissimo. In compenso, in un collegio torinese e in uno genovese era appena stato eletto a sua insaputa alla Camera subalpina, che alla metà di maggio lo proclamò proprio presidente. Fino alla fine di luglio, tuttavia, il G. non mise piede in Parlamento, perché ai primi di maggio, accompagnato da don G. Baracco, già era partito per una lunga peregrinazione politica, che lo avrebbe portato a Milano (dove ebbe un incontro col Mazzini), al quartier generale piemontese di Sommacampagna (dove fu ricevuto da Carlo Alberto), poi, attraverso la Lombardia e l'Emilia, a Genova, a Livorno, a Roma (dove soggiornò due settimane e fu ricevuto in tre diverse udienze da Pio IX), e infine, per l'Umbria e le Marche, a Bologna e a Firenze, donde rientrò, via Genova, nella capitale sabauda. Il viaggio per l'Italia, avvenuto in una fase in cui la guerra federale contro l'Austria aveva ricevuto un colpo letale dall'allocuzione di Pio IX il 29 aprile - il cui significato il G. tentò invano di minimizzare - e dalla reazione borbonica di maggio, fu tanto indicativo dei vertici raggiunti dalla popolarità del G., ovunque fatto oggetto di accoglienze trionfali e talora deliranti, e tanto ricco d'incontri con i più vari circoli politici, quanto povero di durevoli risultati. Nel corso di tale viaggio, affrontato con lena missionaria, il G. propagandò fervidamente alcune idee-guida: in nome della concordia nazionale combatté a spada tratta le ipotesi repubblicane di ogni genere, i movimenti da lui tacciati di municipalismo, i progetti per un'assemblea costituente, che finì tuttavia per ritenere inevitabile e non pericolosa a certe condizioni; invocò il pronto accoglimento dei voti di unione al Regno sabaudo del Lombardo-Veneto e la proclamazione di un forte regno dell'Italia settentrionale; tentò con la medesima energia di rilanciare la soluzione federale, contro i riaffioranti particolarismi statali e dinastici, non esclusi quelli del Piemonte; si adoperò per un consolidamento del sistema costituzionale a Roma, utilizzando anche i propri rapporti di amicizia con il ministro T. Mamiani.  Analoghi programmi il G. sostenne durante la breve vita del gabinetto Casati, al quale fu aggregato dal 29 luglio, giusto all'indomani del disastro di Custoza, in qualità di ministro senza portafoglio e poi dell'Istruzione, facendosi personalmente promotore della missione del Rosmini presso Pio IX, finalizzata alla stipulazione di un trattato confederale e di un nuovo concordato. Ma la firma dell'armistizio Salasco (9 ag. 1848) e l'interruzione della guerra con l'Austria lo colsero di sorpresa. Di fronte alla svolta che portò alle dimissioni del governo Casati, il G. abbracciò posizioni assai impopolari presso i moderati, dapprima avversando e poi perorando una richiesta di aiuto militare alla Repubblica francese, combattendo a spada tratta la richiesta di una mediazione diplomatica franco-inglese, schierandosi per una ripresa della guerra in una cornice federativa quanto mai inattuale. Le ombrosità e le ambizioni del G., che aspirava alla presidenza del Consiglio, ebbero modo di tradursi in aperto dissenso politico in occasione della formazione del governo presieduto da C. Alfieri di Sostegno (poi da E. Perrone di San Martino), che pure includeva tre amici del G. come il Pinelli, in posizione preminente, F. Merlo e Santarosa. Al nuovo ministero il G. dichiarò guerra aperta con un opuscolo dai toni aggressivi, I due programmi del ministero Sostegno (Torino 1848). Accusato il nuovo governo di spirito municipalista, cioè di disinteresse per le sorti degli altri Stati italiani, il G., che aveva lasciato il seggio parlamentare in occasione della sua nomina ministeriale, tentò, facendo appello all'opinione pubblica nazionale, di promuovere una politica alternativa basata sull'idea di una Costituente federativa con mandato limitato, da contrapporre sia all'inerzia del governo piemontese in carica, sia ai programmi di Costituente agitati dai gruppi democratici radicali. Fu quindi coinvolto nella fondazione della Società nazionale per la confederazione italiana, che tenne in ottobre a Torino il suo primo e unico congresso. Preceduto da un suo infiammato indirizzo "ai popoli italici" (dov'erano tra l'altro adombrati gli irreparabili guasti religiosi di un eventuale "funesto scisma d'Italia e di Roma") e aperto da un discorso introduttivo in cui il G. denunciò le colpe dei "repubblicani pratici" e le "disorbitanze dei democratici schietti e dei comunisti", il congresso si concluse con la faticosa elaborazione di un progetto di Costituente federativa e con la proclamazione del carattere irrevocabile della fusione delle regioni settentrionali nel Regno dell'Alta Italia.  Rieletto alla Camera nella tornata suppletiva del 30 settembre e nuovamente asceso alla presidenza dell'Assemblea, dopo le dimissioni del governo da lui accanitamente avversato il G. ebbe a metà dicembre l'incarico di presiedere il nuovo ministero, in cui assunse anche il dicastero degli Esteri. Salito alla presidenza del Consiglio non più come simbolo di unità e di concordia ma come esponente di maggior spicco dell'opposizione, nel discorso programmatico del 16 dicembre definì il proprio ministero con l'appellativo di democratico, cioè, come disse, volto a innalzare la plebe "a dignità di popolo", a serbare rigidamente l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge comune, a provvedere agli interessi delle province, con implicito riferimento alla difficile situazione genovese, a "corredare il principato d'istituzioni popolane, accordando con gli spiriti di queste i civili provvedimenti"; manifestò inoltre l'intenzione di riprendere la guerra interrotta, di promuovere una Costituente federativa italiana, e proclamò il diritto degli Stati italiani - di fatto, il diritto dello Stato sabaudo, cui attribuiva apertamente una funzione egemonica - di intervenire negli altri Stati della penisola per evitare sommovimenti rivoluzionari o interventi militari stranieri. Il G. s'inoltrò pertanto in una politica nazionale alquanto avventurosa, seppur coerente con il principio, carico di valore ideale ma povero di forza normativa e da lui ribadito in documenti ufficiali, per il quale egli affermava la sussistenza di un diritto della nazionalità, preminente sulle vigenti istituzioni politiche e imperativo nelle relazioni tra gli Stati italiani. Venne così progettando invii di truppe sarde nei punti critici della penisola e si propose come indesiderato mediatore tra i sovrani italiani e i loro popoli. Del tutto vani si rivelarono i suoi insistiti tentativi di intermediazione tra Pio IX, rifugiatosi a Gaeta, e la commissione provvisoria di governo di Roma, intesi a ricondurre il pontefice nel suo Stato con l'appoggio di truppe piemontesi subordinato al mantenimento degli ordini costituzionali; e volti nel contempo a impedire l'ingresso del Mazzini in Roma e la convocazione della Costituente italiana.  Sul finire dell'anno il G. chiese e ottenne dal sovrano lo scioglimento della Camera e l'indizione per il 22 genn. 1849 di nuove elezioni, che videro il suo personale successo in dieci collegi del Regno, ma produssero un'Assemblea decisamente sbilanciata sulla Sinistra democratica. Poco attento agli equilibri parlamentari, che considerava con un certo disdegno, abbandonate le velleità di convincere Ferdinando di Borbone e gli indipendentisti siciliani ad affidare alla Costituente federativa la composizione del loro prolungato conflitto, s'addentrò in un'avventura militare che doveva riuscirgli fatale. Dopo aver lungamente tentato, grazie anche ai suoi buoni rapporti con G. Montanelli, di indurre il governo democratico toscano a più moderati consigli circa i ventilati progetti di Assemblea costituente, posto di fronte alla traduzione di tali progetti in legge operativa e alla successiva fuga di Leopoldo II, il G. predispose in gran segretezza un intervento armato piemontese in Toscana, per riportare il granduca sul trono preservando il sistema costituzionale. La conoscenza del disegno, rivolto contro un governo di orientamento marcatamente democratico, e degli atti compiuti per realizzarlo, provocò la sollevazione del Parlamento sardo, una frattura profonda nella compagine ministeriale e le dimissioni del presidente del Consiglio, accolte di buon grado il 21 febbraio dal sovrano, pronto a sostituirlo con il generale A. Chiodo. Per sostenere le ragioni della propria politica, invisa ormai alla maggioranza dei gruppi parlamentari di ogni orientamento, il G. dette vita, in marzo, a un giornale politico, il Saggiatore, sul quale intervenne il 17 marzo per invocare l'unità degli spiriti in occasione della ripresa della guerra con l'Austria, da lui perorata ma ora altamente disapprovata per i modi in cui era avvenuta. Dopo Novara l'abdicazione di Carlo Alberto e l'ascesa al trono di Vittorio Emanuele II, il G., su invito del Pinelli, accettò di entrare come ministro senza portafoglio nel nuovo gabinetto presieduto da G. De Launay, nonostante il solco profondo che lo divideva dal primo ministro e dai suoi orientamenti conservatori, e di assumere l'incarico di inviato straordinario del Regno sardo a Parigi. L'indeterminatezza del compito affidatogli e gli atti poco amichevoli compiuti dal governo piemontese nei suoi confron ti non appena giunto a destinazione, indicavano che il vero significato della missione era quello di togliere di mezzo l'incomodo personaggio, anche per favorire le trattative di pace con l'Austria. Il G., che aveva preso a tessere relazioni con vari personaggi della vita politica francese e inglese, tra cui A. de Tocqueville, reagì con la consueta irruenza, troncò ogni rapporto ufficiale con il Regno sardo dimettendosi da deputato, da ministro e da inviato straordinario, manifestò a chiare lettere il suo pessimismo sulla situazione italiana, espresse il suo distacco dal Piemonte anche con la decisione di restituire le somme pervenutegli per l'edizione delle sue opere, e si ritirò in un secondo, volontario esilio.  Si aprì per il G. un altro periodo operosissimo sul piano intellettuale e di riflessione, non certo distaccata, sugli eventi di cui era stato protagonista. Nella corrispondenza privata, tutta intessuta di riferimenti alla situazione italiana, francese ed europea, ebbe modo di reagire, con sarcasmo misto ad amarezza, alla condanna comminata il 30 maggio 1849 dalla congregazione dell'Indice al suo Gesuita moderno, adottando pubblicamente la linea del silenzio anziché quella della sottomissione. Sul piano politico espresse a più riprese la convinzione che le idee repubblicane, colorate di socialismo, fossero in fase di inarrestabile ascesa, affermando, in una lettera del 1851, di vedere all'opera una Provvidenza tinta di rosso "perché ordina tutto al trionfo vicino o lontano di questo colore". Si dichiarava altresì fautore di un ordinamento scolastico saldamente nelle mani dello Stato, in quanto promotore e responsabile dell'"educazione nazionale", della gratuità dell'istruzione primaria, dell'assistenza pubblica ai vecchi, agli ammalati e "alla povertà che non trova da lavorare".  Mentre nella primavera del 1851 usciva a Capolago, per iniziativa e con un'introduzione del Massari, una raccolta di lettere, interventi e discorsi dalla fine del 1847 all'inizio del 1849, con il titolo di Operette politiche, il G. riprese in mano i propri lavori di argomento filosofico e religioso, editi e inediti, ma soprattutto si dedicò alacremente alla stesura di una nuova opera di ampio respiro che volle si stampasse a Parigi sotto la sua sorveglianza, pur affidandone la pubblicazione all'editore torinese Bocca: era Del rinnovamento civile d'Italia, che vide la luce nel novembre del 1851, in due volumi, il secondo dei quali contenente anche una nutrita parte documentaria.  Il Rinnovamento si presentava come una riflessione politica che, prendendo spunto dalla ricostruzione critica e storica degli eventi del '48, affrontava il tema generale delle mutate condizioni interne e internazionali in cui l'unificazione nazionale avrebbe ripreso il suo cammino. Il libro proclamava la fine della fase del Risorgimento e l'inizio della fase del rinnovamento, concepito come parte integrante "di un moto comune a quasi tutta l'Europa": il primo si era mosso nella logica di una trasformazione graduale delle cose, il secondo avrebbe assunto "aspetto e qualità di rivoluzione"; il primo era stato movimento autonomo, governato dalle condizioni dell'Italia, il secondo sarebbe dipeso "in gran parte dai fatti esterni"; il primo aveva dovuto limitarsi all'obiettivo di un sistema federale "perché non ve n'era altro possibile", il secondo non poteva escludere una possibile, e benefica, accelerazione storica verso l'unificazione politica. Su questa falsariga il G. affrontava dettagliatamente, traendo lezione dagli errori che a suo giudizio erano stati commessi da tutte le forze nazionali, una serie di argomenti di grande impegno: l'insostenibilità del potere temporale dei papi, "la maggiore anticaglia superstite dell'età nostra", dannoso all'Italia, all'Europa e soprattutto al cattolicesimo come causa di subordinazione del Papato alle forze della reazione interne ed esterne; il posto e la natura del partito conservatore e del partito democratico nella "politica nazionale"; le condizioni alle quali il Piemonte, "il paese più scarso di spiriti italici", dominato da una classe politica di patrizi e di avvocati "inclinati al municipalismo", guidato da una dinastia "stata finora impropizia all'ingegno, aristocratica e municipale", e nondimeno l'unico ad aver preservato gli ordinamenti costituzionali, poteva svolgere quel ruolo egemonico su scala nazionale che solo avrebbe salvato la monarchia sabauda da un fatale declino. Un argomento che l'autore adduceva a convalida delle proprie tesi, e che, diversamente dal Primato, implicava l'attribuzione al Regno sardo di un ruolo anche morale (pur rimanendo una futura "Roma laicale e civile […] il principio ideale della risurrezione italica"), era la politica ecclesiastica inaugurata dalle leggi Siccardi: un passo verso la "separazione assoluta tra le due giurisdizioni", la temporale e la spirituale, costituente "la prima base della libertà religiosa, che tanto è cara ai popoli civili", cornice necessaria alla formazione di un clero "liberale e sapiente", capace di purgare la religione "dagli errori e dagli abusi che la guastano".  Ma il Rinnovamento era pure un discorso di "scienza civile", secondo la definizione giobertiana, intessuto di riferimenti a Machiavelli, ma condotto sulla base dei "bisogni principali dell'età nostra, il predominio del pensiero, l'autonomia delle nazioni e il riscatto della plebe": a soddisfare i quali il G. poneva come condizioni l'esistenza di governi liberi, la costituzione di Stati a misura nazionale, il funzionamento di ordini civili atti a promuovere l'innalzamento della plebe a popolo. Per tale aspetto una funzione determinante veniva attribuita, da un lato, all'"ingegno", cioè alle élites intellettuali, chiamate a imprimere unità e coesione alla "sciolta moltitudine", e a impedire che sotto il simulacro della democrazia trionfasse invece la demagogia dei numeri e delle masse; dall'altro lato, alle riforme economiche, "unico riparo al comunismo politico", se volte a ripartire e a regolare le ricchezze (anche con l'imposta progressiva) e non a inaridire le sue fonti. Il Rinnovamento, percorso tra l'altro da fremiti antiborghesi, rifletteva una visione del movimento nazionale quale luogo d'incontro e d'interazione tra le "aristocrazie dell'ingegno", tratte dal popolo e da questo riconosciute, e le plebi anelanti al proprio riscatto sociale, garantite da una monarchia non solo costituzionale, ma anche schiettamente popolare.  Nel pubblicare il Rinnovamento il G. era convinto che l'opera sarebbe incorsa nell'interdetto della Chiesa; quando apprese che il S. Uffizio, con decreto del 14 genn. 1852, aveva condannato tutte le sue opere, in qualunque lingua pubblicate, si consolò col rilevare che, "involgendo nella proscrizione anche quegli scritti che furono conosciuti da tutti per irreprensibili", si erano meglio manifestati il puntiglio di Pio IX e la vendetta dei gesuiti.  I pesanti giudizi su figure eminenti della classe politica subalpina di cui il Rinnovamentoera cosparso, provocarono una tempesta di polemiche, cui il G. rispose con due opuscoli del 1852, il primo dei quali conteneva una risposta (che non cambiava, ma semmai aggravava la sostanza di quei giudizi) alle risentite reazioni di U. Rattazzi, di F.A. Gualterio e del generale G. Dabormida; il secondo intitolato Ultima replica ai municipali, aveva soprattutto di mira il Pinelli e C. Bon Compagni, schieratosi a difesa del vecchio amico del G. e ormai divenuto uno dei suoi bersagli preferiti, il quale si era ammalato gravemente nel bel mezzo della diatriba. La morte del Pinelli, sopravvenuta quando già l'opuscolo era stampato, creò grande imbarazzo al G., che stese a tamburo battente un Preambolo in cui rendeva giustizia sul piano personale alla figura del defunto, decidendo in seguito, dopo vari tentennamenti, di far distruggere le oltre 1200 copie già stampate dell'Ultima replica - di cui restò un solo esemplare - e di mettere in circolazione esclusivamente il Preambolo (Parigi e Torino 1852).  Fu l'ultima opera edita lui vivente: in assoluta solitudine il G. morì infatti improvvisamente, nel suo modesto appartamento di Parigi, il 26 ott. 1852.  Tra le sue carte rimase una mole imponente di frammenti manoscritti e di opere incompiute e inedite, costituenti nel loro insieme una specie di continente sommerso, non meno rilevante, per la conoscenza del suo pensiero, degli scritti da lui dati alle stampe. Questo materiale manoscritto fu in parte pubblicato postumo, con scarso rigore, dal Massari che, nel quadro di un'edizione delle opere inedite giobertiane, di cui uscirono a Torino 10 volumi, diede alle stampe nel 1856 i frammenti Della riforma cattolica della Chiesa e la Filosofia della Rivelazione, seguiti nel 1857 dalla Protologia, forse la maggior opera filosofica del G. maturo, che ne aveva incominciato la stesura negli anni Quaranta. Nel 1910, a cura di E. Solmi, furono editi, con criteri non meno discutibili, i frammenti della Libertà cattolica e della Teorica della mente umana, insieme con il dialogo Rosmini e i rosminiani. In seguito La riforma cattolica e La libertà cattolica furono ripubblicate, in modo più corretto, da G. Balsamo Crivelli nel 1924, e da G. Bonafede, insieme con la Filosofia della Rivelazione, nel 1977 e, lo stesso anno, nell'edizione nazionale delle opere, da C. Vasale. Appartenenti per la maggior parte alla produzione che il G. aveva definito "acroamatica", le opere postume, pur nel loro stato di incompiutezza, rivelano un G. che si confrontava in maniera più diretta con la critica della religione sviluppata dalla cultura primo-ottocentesca, anche nelle sue espressioni radicali. L'obiettivo di questi lavori era la dimostrazione dell'adeguatezza del cattolicesimo, liberato dalle sue deformazioni temporalistiche, autoritarie e "iper-mistiche", nel rispondere ai bisogni intellettuali e morali dell'uomo moderno. A questo fine il G. assumeva come fondamento del suo rinnovato discorso religioso-filosofico la nozione cattolica di tradizione, facendone il criterio ermeneutico dell'evoluzione storica delle forme religiose e dello sviluppo del cristianesimo in senso secolare. Ne derivava un'interpretazione molto audace per la sua epoca del rapporto tra libertà e autorità in materia religiosa e, in generale, della dogmatica cattolica. Tali opere dimostrano che il pensiero giobertiano in materia religiosa si era vieppiù spostato dall'asse della riforma ecclesiastica o politica a quella della riforma religiosa. Ciò spiega anche la riscoperta del G. in epoca modernistica; senza trascurare tuttavia che una parte molto consistente della cultura dell'Ottocento e del Novecento si è misurata con l'eredità giobertiana, dall'idealismo al federalismo (specialmente meridionale), dal gentilianesimo al nazionalismo e quindi al fascismo, dal popolarismo di L. Sturzo alla cultura democratico-cristiana.  Fonti e Bibl.: La principale raccolta di manoscritti giobertiani è quella giunta dopo varie vicende in possesso della Bibl. civica di Torino, che li conserva in 55 voll., 54 dei quali rilegati nel 1912 in maniera alquanto arbitraria e classificati in un indice sommario: si tratta di carte che il G. aveva con sé al momento della morte, riguardanti i frammenti miscellanei giovanili, appunti ed estratti di lavoro, e gli autografi delle opere più tardive, pubblicate postume. Alla stessa biblioteca sono anche pervenute una parte della biblioteca personale del G. (il cui principale nucleo fu peraltro venduto all'incanto dopo la sua morte), poche decine di sue lettere autografe e circa 2500 lettere di corrispondenti, il cui indice è stato pubblicato nel 1928 col titolo Le carte giobertiane della Bibl. civica di Torino da G. Balsamo Crivelli, al quale risale anche La fortuna postuma delle carte e dei manoscritti di V. G. ora depositati nella Bibl. civica di Torino, in Il Risorgimento italiano, IX (1916), pp. 665-694; cfr. anche P.A. Menzio, Cenni sulle carte e sui manoscritti giobertiani, in Atti della R. Accad. delle scienze di Torino, LI (1915-16), pp. 659-675. Manoscritti autografi riguardanti Il Rinnovamento sono conservati nella Bibl. nazionale di Napoli e presso l'Istituto per la storia del Risorgimento italiano di Roma, quasi integralmente pubblicati a cura di L. Quattrocchi nel III volume (Inediti) del Rinnovamento, ed. nazionale, Roma 1969.  L'Epistolario, a cura di G. Gentile - G. Balsamo Crivelli, I-XI, Firenze 1927-37, è lungi dall'essere esaustivo; le lettere sono riprese, salvo rari casi, da precedenti edizioni a stampa come: V. Gioberti, Ricordi biografici e carteggio, a cura di G. Massari, I-III, Torino 1860-63; Il Piemonte nel 1850-51-52. Lettere di V. Gioberti e G. Pallavicino, a cura di B.E. Maineri, Milano 1875; D. Berti, Di V. G. riformatore politico e ministro con sue lettere inedite a P. Riberi e G. Baracco, Firenze 1881; Lettere inedite di V. Gioberti e saggio di una bibliografia dell'epistolario, a cura di G. Gentile, Palermo 1910; Lettere di V. Gioberti a P.D. Pinelli, a cura di V. Cian, Torino 1913; G. - Massari. Carteggio (1838-52), a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino 1920; Carteggio Lambruschini - Gioberti, a cura di A. Gambaro, in Levana, III (1924), pp. 277-409. Un numero cospicuo di lettere al G. fu pubblicato col titolo di Carteggio di V. Gioberti, I-VI, Roma 1935-38, in un'edizione che comprende lettere di P.D. Pinelli (a cura di V. Cian), di I. Petitti di Roreto (a cura di A. Colombo), di G. Baracco (a cura di L. Madaro), di G. Bertinatti (a cura di A. Colombo), di "illustri italiani" e di "illustri stranieri", a cura di L. Madaro. L'Edizione nazionale delle opere edite e inedite, avviata nel 1938 con la riedizione dei Prolegomeni del Primato, a cura di E. Castelli e affidata nel tempo a tre editori diversi, è giunta al vol. XXXVIII, con il secondo tomo dei Pensieri numerati, a cura di G. Bonafede, Padova 1995: comprende ormai tutte le principali opere del G., pubblicate con criteri non omogenei. Materiale giobertiano continua peraltro a venire alla luce: per es., Appunti inediti di V. Gioberti su R. Cartesio. La storia della filosofia, a cura di E. Bocca - G. Tognon, Firenze 1981.  Le principali bibliografie giobertiane sono quelle di A. Bruers, G., Roma 1924, che comprende circa 1400 titoli, fino al 1923, e di G. Talamo, in Bibliografia dell'età del Risorgimentoin onore di A.M. Ghisalberti, I, Roma 1971, pp. 168-172. Tra le voci enciclopediche: G., V., di G. Saitta, in Enc. Italiana, XVII; di L. Stefanini, in Enc. Cattolica, VI; di C. Mazzantini, in Enc. Filosofica, III; di F. Traniello, in Dict. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, XX. Per una sintesi delle interpretazioni: G. Bonafede, G. e la critica, Palermo 1950. Tra le opere più recenti: E. Passerin d'Entrèves, Ideologie del Risorgimento, in Storia della letteratura italiana (Garzanti), VII, L'Ottocento, Milano 1969, pp. 333-364; A. Del Noce, Gentile e la poligonia giobertiana, in Giornale critico della filosofia italiana, IL (1969), pp. 222-285; G. Derossi, La teorica giobertiana del linguaggio come dono divino e il suo significato storico e speculativo, Milano 1970; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970, pp. 31-51 e passim; E. Pignoloni, G. e il pensiero moderno, in Rivista rosminiana, LXIV (1970), Id., Le postume giobertiane nel giudizio della critica, ibid., LXV (1971), pp. 167-186; G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974, pp. 64-70, 180-189 e passim; C. Vasale, L'ultimo G. fra politica e filosofia. Appunti sulle origini ottocentesche dell'ideologia in Italia, in Storia e politica, XV (1976), pp. 201-261; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, II, Roma-Bari 1977, pp. 238-245, 338-341, 362-368 e passim; A. Galimberti, G., Gentile, Rosmini, in Giornale critico della filosofia italiana, LVIII (1978), pp. 172-187; C. Vasale, Riforma e rivoluzione nel G. postumo, in Storia e politica, XVIII (1979), pp. 395-441, 621-665; A. Rigobello, V. G., in Christliche Philosophie im katholischen Denken des 19. und 20. Jahrhunderts, a cura di E. Coreth, I, Graz-Wien-Köln 1987, pp. 619-642; S. La Salvia, Il moderatismo in Italia, in Istituzioni e ideologie in Italia e in Germania tra le rivoluzioni, a cura di U. Corsini - R. Lill, Bologna 1987, pp. 169-310; F. Traniello, La polemica G. - Taparelli sull'idea di nazione e sul rapporto tra religione e nazionalità, in Id., Da G. a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano 1990, pp. 43-62; Id., Il cattolicesimo riformato di V. G., in Storia illustrata di Torino, a cura di V. Castronovo, Milano 1992, IV, pp. 1101-1120; G.P. Romagnani, V. G., A. Chiodo, G. De Launay, M. d'Azeglio, Roma 1992; C. Vasale, Il significato del federalismo giobertiano nella storia d'Italia, in Stato unitario e federalismo nel pensiero cattolico del Risorgimento, a cura di G. Pellegrino, Stresa-Milazzo 1994, pp. 215-245; L. Pesce, Peyron e i suoi corrispondenti. Da un carteggio inedito, TrevisoG. Rumi, G., Bologna 1999; G. Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione del pensiero filosofico di V. G. alla luce delle opere postume, Milano 1999.   La sovrintelligenza Sezione seconda.ConceTTO,METODO E DIVISIONE DELLA FILOSOFIA (Dommatismo) Sezione prima .COSTRUZIONE DEL PRIMO TERMINE DELLA FORMOLA (l'Ente ).Definizione del Primo.Distinzione del Primo psicologicoe del Primo ontologico . Il Primo filosofico. Caratteristica del Primo filosofico Giobertiano. Polemica contro Rosmini . Il P r i moèl'Entereale.Cosasialarealtà.Giob.nonar riva a dirlo chiaramente. Difello e pregio del suo concello della reallà (del concreto:unità del positivo e del negativo).pag.158-164. CAP. 3. Deduzione della realià dell'Ente dal concetto dell'Ente. 164-185 D. I. Dal giudizio l'Ente è non si deduce la realtà del. L'intuito . pag . 1-99 . O ľ Ente. Sicontradiceall'ontologismo.- Sicon 100-119 Sezionc prima.LA CONOSCENZALa riflessione psicologica CAP. 3. La riflessione ontologica Cap.4.Laparola. .COSTRUZIONE DELLA FORMOLA IDEALE   fonde la realtà col puro essere Personificazione dell'Ente Abbozzo della vera via di dedurre la realtà dell'Ente. Realtàosussistenza= intelligibilitàoidealità.Giob. non adempiequestaesigenza. RelazionetraEnte edEsistente.Processoaprioriea posteriori.(Causa ed Effetto) . II.Prova dell'intuito (Identità dei due ordini ,onlo logico e psicologico.Verità dell'atto creativo).pag. 206-246. - S.III. L'intuito come prova dell'atto creativo.Dommatismo.Gioberti,Platone,Schelling ed Hegel.Prove indirelte dell'intuito 248-253.- $. I. Lo spirito è produzione di sè stesso.pag. 253-260. – S. III.Intuito dell'intuito. $.II.Falsoconcellodellalibertàenecessilàdel pen  242-247 CAP. 4. Conseguenze della dottrina dell'intuito. OntologismoePsicologismo.pag.200-206.- S. S.I.Epilogo:mancanza didialettica.pag.272-274- o 272-282 CAP. 2. L'intuito come conoscenza dell'atto creativo .L'intuito immediato è la conoscenza empirica. Confusione del(primo)pensabile edel(pri mo )conoscibile. . 266-272 Cap. 2. Falso concello del pensiero speculative. Duplice ordine psicologico: intuitivo e riflessivo. chiusione di tutta questa Sezione pag.184-185. Sezione seconda.COSTRUZIONE DEL SECONDO E TERMINE DELLA FORMOLA . Gioberti e Rosmini.Insussistenza delle ragioni re c a t e d a Gioberti per difendere il p r i m o ordine come condizione del secondo : il concetto dell'infinito condizione del concelto del finito (concello dell'Ente condizione del concetto dell'esistente).La relazione ei suoi termini. L'ordine intuitivo come cognizione nonèchelascienza.pag.220-234.- S.I.Nuova instanza di Gioberti: concello del Necessario e del contingente. pag.235-241.- $.III,L'intuito del l'atto creativo è lo stesso processo a posteriori pag. pag.260-264. Sezione ( il Noo ) . terza,L'INTUITOSPECULATIVO O IL PENSIERO PURO   $.I.Prima prova delloSpinozismogiobertiano.pag. Cap. 5. Epilogo sulla identità e differenza tra Spinoza e Gio berti. Sezione terza,L'INTELLIGIBILITA'. Identilà di crcazione e illustrazione.La vera i m m a 372-381 381-390 397-415 324 349  . LA FORMOLA Seconda prova. Si considera di nuovo l'intuilo.Caralleristica. (Contenutodell'altocreativo)(Dio-Quantilà). Caralleri dello Spinozismo:loro contradizione.Concello generaledelladifferenzatraSpinozaeGioberti. 350-356 Cap.2. Anticipazionedelconcello diDiocomerelazioneasso lula.Confradizione. Doppio concello dell'esislenic (ediDio) CAP . 3. Dio Quantità. Lo spirito : contradizione. La vera dili 356-364 collà . Cap. 4. Soluzione: Dio come Sviluppo. (Prima di Kant e dopo 364-372 Kant) nenza.Difetto delloSpinozismo.Doppia intelligibi. lità delle cose.pag.398-402.- S.II.Difficoltà con tro la immanenza nel sensibile.Paragone della co " gnizione colla visione.Meccanismo nello spirito.Con cello dello spirito (del conoscere ).Kant; l'empirismo. prova. siero.Confusionedell'lilea CAP.1. FalsoSpinozismo(Diosemplicesostanza,noncausa).317-323 CAP. 2. Vero Spinozismo (Diosostanza causa). 317-349 e della rappresentazione.Relazione del pensiero puro coll'esperienza . 2.Il Noo passive èilsenso 301-306 CAP, 5. L'Innatismo . IDELAE (Spinozismo). Sezioneprima.SPINOZISMO(forma dell'alto creali vo:meccanismo) DIFFERENZA TRA GIOBERTI E SPINOZA. Intelligibile assoluto Intelligibile relativo.Fondamento della soluzione del problema Gioberti riunisce idue difetti. Rispostaalla difficoltàprecedente, everoconcetto dell'intelligibilerelativo.COGNIZIONE DELLA REALTÀ DE CORPI, E ORIGINE DELLE IDEE, COME PROVE INDIRETTE DELLA FORMOLA .PASSAGGIO AL MISTICISMO. COGNIZIONE DELLA REALTA' DE' CORPI. .Gioberti non ammette la prova,ma l'inluito della realtà dei corpi . . 426-429.S.II.Ragioni del realismopag.429.- S. III.Necessità di un principio superiore: cos'è. Galluppi:criticatodaGioberti.pag.Certezza e verità.Fede e Scienza.Certezza e ve denza metafisica,efisica.Critica. pag.456-467. Sezione seconda.Origine delle idee.pag. precedenti,especialmentediRosmini.La generazio La dipendenza logica.a )Distinzione delSovrintelligibile edell'Intelligibile.Significato e conseguenza di questa distinzione.Ragionee So  Idealismo e Realismo ( i m p e r f e t t i ): i d e a l i s m o assoluto; certezza ed evidenza .. Ragioni dell'idealismo;e suo difello.Rosmini.pag. . . . Significato generale della quistione.Critica de'filosofi . .479-526 S. I. Distinzione de'concelli in assoluti e relativi.pag. . ritàdelmondo Dottrina propria di Gioberti sulla cognizione de'corpi; 542 e certezza ed evidenza di questa cognizione. Significato e difficoltà del problema . 2. solu zione:l'Individuazione (creazione:creareèindivi d u a r e ) . G i o b . p o n e be n e il problema , m a n o n l o r i solve.Anzifaimpossibileogni soluzione;incono scibilità dell'alto creativo nella sua essenza.Perples silàdiGioberti3.Critica.Certezza dellacognizione de'corpi.1. Distinzione della certezza in fisica e metafisica. 2. L'evidenza come fondamento della certezza in generale.3. Evi ne ideale (analisi e sintesi )La produzione ideale giobertiana : attività sintetica ori ginaria. Critica di questa dottrina   vraragione ( Ente cd Essenza ); dipendenza logica e generazione.Contradizioni.Doppio sovrintelligibile: Unità delle delerminazioni razionali , e Trinilà divi na.c)L'ldea come pura ragione o unilà delle deter minazioni razionali. Moltiplicilà astralla e unilà a stratla ( pura sintesi o dipendenza logica,e pura a nalisi ).Vera unità: unità della sintesi e dell'analisi; lamoltiplicitàcome momento dell'unità;unità- pro cessoassoluto.pag.489-509. -S.Ill.Larelazione del concello relativo coll'Ente ( creazione ). a ) D u e ipotesi:generazione,e creazione.Risultato ;assur dilà dell'allo creativo come punto di passaggio tra l'Ente e l'esistente.La creazione è l'aulogenesi dello spirito. b).La creazione è in sè generazione. Conse  guenze di questa dolirina pag.509-526. C A P . 3. Risultato generale deila doitrina di Gioberti sulla p r o duzioneideale.— PassaggioalMisticismo Elenco di Opere di Vincenzo Gioberti possedute dalla Biblioteca Nazionale di Torino (*) De Deo et naturali religione, de antiquo foedere, etc. Taurini, Bianco, 1825, in-8°. Teoricadelsovrannaturale.Brusselle,Hayez,1838,in-8°. La stessa. Torino, Ferrerò e Franco, 1849, in-8°. La stessa. Accresciuta d’un discorso preliminare e inedito intorno alle calunnie di un nuovo critico. Capolago, Tip. Elvetica, 1850, 2 tomi in 1 voi., in-8°. Degli errori filosofici di Antonio Rosmini. Brusselle, Hayez, 1841, in-8°. La stessa. Brusselle, Meline, 1843, 3 voi. in-8°. La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1846, 3 voi. in-8°. Del primato morale e civile degli Italiani. Brusselle, Meline, 1843, 2 voi. in-8°. (i) Elenco favorito con gentile premura al Comitato Editore dal Prefetto della Biblioteca Nazionale Cav. Avv. Francesco Carta.   284 La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, Prolegomeni del primato morale e civile degli Italiani. Brusselle, Meline, 1846, in-12°. Introduzioneallostudiodellafilosofia.Brusselle,Hayez, 1840, 2 tomi in 3 voi., in-8°. Lastessa.Secondaediz.,Brusselle,Meline,1844,4vo¬ lumi in-8° Considerazioni sopra le dottrine religiose di Vittorio Cousin. Brusselle, Meline, 1844, in-8°. Il Gesuita moderno. Losanna, Bonamici, 1846, 5 vo¬ lumi in-8°. Lastessa. Torino, Fontana, 1848, 5 tomi in 3 voi., in-8°. Lastessa.Capolago,Tip.Elvetica,1847,7voi.in-16\ Apologia del libro intitolato « Il Gesuita moderno », con alcune considerazioni intorno al risorgimento italiano. Parteprima.Parigi,Renouard,1848,in-8\ DelBuono.Brusselle, Meline,1843,in-8°: La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1845, in-16°. Essai sur le Beau, ou éléments de philosophie esthétique, traduìtde l’italien par Joseph Bertinatti. Brusselle, Meline, 1843, in-8°. Del Bello. Firenze, Bucci, 1845, in-8°. Allocuzione di un filosofo cattolico a Pio IX. Torino, 1847, in-12°.   285 Discorso pronunziato nell’adunanza generale per l’aper¬ tura del Congresso nazionale federativo la sera del 15 ot¬ tobre1848nelTeatroNazionale.Torino, G.PombaeC., 1848, in-8°. IdueprogrammidelMinisteroSostegno.Torino,Fontana, 1848, in-8°. Antiprimato papale e l’automatismo romano distrutto dal VangeloedaiSantiPadri.Torino,1850,in-16°. Lettre sur les doctrines philosophiques et Politiques de Lamennais.Capolago,Tip.Elvetica,1850,in-8°. Delrinnovamentociviled’Italia.Parigi, Crapelet,1851, 2 voi. in-8°. Operette politiche. In « Documenti della guerra santa d’Italia », voi. VII. Capolago, Tip. Elvetica, 1851. Preambolo dell’ultima replica ai Municipali. Parigi, Mar- tinet, 1852, in-8°. Risposta a Urbano Rattazzi. Sopra alcune avvertenze di Filippo Gualterio. Al Generale Dabormida. Torino, Ferrerò e Franco, 1852, in-8°. Della filosofia e della rivelazione, pubblicata per cura di GiuseppeMassari.Torino,ErediBotta,1856,in-8°. Pensieri e giudizi sulla letteratura italiana e straniera, raccolti ed ordinati da Filippo Ugolini. Firenze, Barbèra, 1856, in-12°. Della protologia, pubblicata per cura di G. Massari. Torino, Eredi Botta, 1857, 2 voi. in~8°.   286 Profezie politiche intorno agli odierni avvenimenti d'Italia. Torino, 1859, in~l2°. Pensieri, Miscellanee. Torino, Eredi Botta, 1859, 2 voi. in-8°. Ricordi biografici e carteggio, raccolti per cura di Giu¬ seppe Massari. Torino, Eredi Botta, 1860-62, 2 vo- lumi, in-8°. Studi filologici desunti da manoscritti di lui autografi ed mediti fatti di pubblica ragione per cura dell’avvo¬ catoDomenicoFissore.Torino,Tip.Torinese,1867, in-8u gr. Una lettera a Terenzio Mamiani in data del 28 maggio 1834, pubblicatadaVincenzoDiGiovanni.Roma,Tip.delle Terme, di a. Balbi, 1894, in-8°. Lettera sugli errori politico-religiosi di Lamennais. Vincenzo Gioberti e Giordano Bruno. Due lettere inedite, pubblicatedaG.0.Molineri.Torino, L.Kourt:eC. 1889, in-8°. Vincenzo Gioberti e Giorgio Paìlavicino. Lettere per cura di B. K. Maineri. (Piemonte (II) negli anni 1850-51-52). Milano,FratelliRechiedei,1875,in-l&'. METAFISICA ONTOLOGIA Dell'Enle, come concreto e reale. PARAGRAFO 2. Dell'Ente, come astratto ed ideale, CATEGORIA I. 86 CATEGORIA 4 .  I. Dell'atto creativo. TEOLOGIA RAZIONALE velazione e della Civiltà colla Reli . 161 'ART. 3. D. Primo Storico CATEGORIA 2CATEGORIA 6 Del tempo e dello spazio. Delle convenienze della ragione colla R i COSMOLOGIA , 3& 120 ivi   LOGICA fato,della fortuna e del destino,dell'ac cidente e della necessità. PARTE SPECIALE Della sovrintelligenza e del desiderio  Della diffinizione e della divisione. 269 271 ART. 5. Del metodo.  284 , 253 pag. 193 • 204 221 227 234 gressisti , Della volontà umana . 212 2Dellefacoltàdellospiritoumano. ART. 4. Det raziocinio e delle sue forme esteriori. 273 A r t . 6 . Dell'arte critica.Ciclo generativo e Cosmogonico ART. 3, della forzacosmica.. 216 • 26 278 266 ART . i. Della proprietà delle parole. .Delle proprietà dell'uomo . Dei giudiziie delleproposizioni.  Prima di esporre la filosofia acroamatica si compie il ritratto della vita dell'autore- Giobertisiritiranellavitaprivata- come eiparla disè stesso cercadirompereognilegamenonpurecolGoverno, macogliuomini-comesostienelavita– lapovertàdiluidàoccasione adunattogenerosodelRosmini— pertenersiprontoastampareal cuna opera utile all'Italia non vuole dettare un Discorso sull'Alfie ri- qualieranoicasiimprovisichepoteanoindurloastampare— perchè opinava più probabile che la repubblica francese non ca desse — concetto che egli avea di Luigi Napoleone - i n che fu fal laceilsuo giudiziosullaFrancia— nellametà del51 pone inlucc il Rinnovamenlo – intento di questo libro : sua convenienza e diffe renzacolPrimato– censuratuttietuttocoll'intendimentochefae cia pro nell'avvenire - - -rottura col Pinelli e coi municipali - pole micaconesi— mortedelPinelli--sibrucianolecopiedel'opu scoloUltimareplicaaimunicipali— l'autorelascialapoliticaeri volge il suo animo tutto al le opere nuove da pubblicare — forse la troppatensionedimenteglinocque- morteimprovisaedoloreuni versale— quantodannofuallascienzaeallareligione– vocazione diGiobertinonmancataperlamorteintempestiva— leoperepostu me– quando furono scritteprimaodopoil48?- ilconcettoeil titolo di esse furon suggerito dalle circostanze o ne sono indipen denti?– Tuttociòcheoraèstampatoappartenevaadessesecondo l'intendimento dell'autore ? - - c quale fu quest intendimento ? - gli scritti postumi sono solo l'apparecchio e imateriali delle opere che volevadarealaluce- ildisegnoperòv'apparisce:qual'èdesso?-  CAPITOLO PRIMO   ragioni che rendono difficile a cogliere la connessione e la verita della dottrina contenuta nei detti scritti---apparente antinomia di cssa dottrina -come ho proceduto io per afferrarne l'unità e la germanaintenzione inqualformamisonrisolutodiesporla-fu benecheilMassaricurasselapubblicazionediessiscritti– pote vanoperòesseremeglioordinatidariuscirepiùintelligibili– ladot trina del Gioberti è più difficile di quella dell'Hegel. CAPITOLO SECONDO PRELIMINARI La filosofia acroamatica non è contraddittoria all'essoterica , ma solo tanto diversa - nesso tra l'una e l'altra — differenze della cognizione direttaospontaneadelRosmini,edelCousindalpensiero imma nentedel Gioberti Doppiostatodelpensieroumano caratteri dellostatoriflessivoedellostatoimmanente– l'intuitodell'ente differisce da quello dell'esistente — in che consiste la strellezza spe cialedell'enteintelligibilecolpensieroimmanente -comel'attività dello spirito coesiste coll'Ente senza che questo sia subbiettivato condizioni proprie dello stato immanente - si rimuove una obbiezio nc-dell'attivitàumana -suodoppiostatoedifferenzedell'unostato dal l'altro- - della personalità — l a penetrazione del pensiero nello slalo immanente è diversa dalla compenetrazione dello stato successivo triplice proprietà del pensiero immanente analoga a tre momenti dell'ente- lospiritosebbeneunapersonanelpensieroimmanente non subbicttivizza la cognizione - l'ordine psicologico è proprio della riflessione: suofondamentoontologico– anchepropriodellarifles sione è l'ordine cronologico - che fa il tempo -- onde nasce il ripie gamento della intuizione sovra se stessa— falso modo d'intendere la visioneideale cheèlavitaanterioredescrittadaPlatonenelFe d r o - d i f f i c o l t à d i c o g l i e r e il p e n s i e r o i m m a n e n t e - - - l a d i s t i n z i o n e b e n nelladellaintuizionedallariflessionecorreggeladottrinaplatonica- obiezione del Grote - come vi si risponde - - dei giudizii – doppio giul. dizioobiettivo- lospiritoescedallostatoimmanente coll'affermare eglil'Ente-comesiafferrailpensicroimmanente- delmodocome  502 3.42   possediamo le idee - le quali nascono per via didisgregazione, non di generazione— deigiudiziianaliticiesintetici- sichiarisceundub bio-delraziocinio dellafilosofia:suadefinizione--filosofiaprima qual'è;sua distinzionedall'ontologia-obiezione contro laProtologia: risposta -dellacircuminsessionedeiveri:suaradice -criteriodelve ro - onde nasce l'evidenza e la certezza scientifica— che è un siste m a scientifico - in che senso i principii dipendono e sono illustrati dalle conseguenze — le une non sono affatto eguali in valore agli al tri--dell'ipotesi,deipostulati,edegliassiomi- seiprincipiisono astratti , onde si trae la concretezza , senza di che la scienza non avrebbevalore?- IlPrimodellascienzaèlaFormola ideale-c0 me siprova che è ilPrimo -mutua collegazione e dipendenza delle verità secondarie e primato relativo della formola -- l'unità scienti fica deve salire e fondamentarsi nell'unità ideale trasparente all'in tuito - il processo non fa la scienza perfetta - questa risulta dalla in tima unionedellacognizioneriflessivacollaintuitiva--dell'Ultimo della scienza – la parola è il passaggio dal pensiero inimanente al s u c cessivo - onde si cava la necessità della parola per l'uso del pensiero riflesso - origine del linguaggio : tre opinioni - - -sentenza dell'aulo re- comepuòdirsicheilsegnodellinguaggioèunitoal'Idea unità della dottrina di Gioberti su questa materia . DOTTRINA DELL'ENTE C o m e l'unità e semplicità di Dio si accorda colla moltiplicità degli a l tributi - dell'unione dei contraddittorii in Dio - - trasformazione dia letticadeidiviniattributi— Hegelcontuttiipanteisticonfondeil processopsicologicocol'ontologico-l'antropomorfismoéopera del l'imaginazionenondellaragione dellafuturizionedivina-Iddioè insieme sovrintelligibile e intelligibile- negatività di Dio- come co nosciamol'Assoluto?— Dioèpersonale:obiezioni,risposte— Dio produttività infinita-lapotenzialitàel'attualitàsonodiverseinDio enellecreature- Dioèliberoenecessario- èbuono- l'esistenza di Dio è verità intuitiva pel pensiero immanente , dimostrativa pel  DOTTRINA DELLA CREAZIONE L'ideadicreazioneportasecoperduerispettil'ideadinulla—delcan 95-124  successivo- laprovadimostrativamiglioretraggesidallanozione dell'infinito- processoprotologicoedesplicativodelleattribuzioni dell'Ente - attribuzioni esterne ed interne- doppia eptate - dell'in finito;onden'abbiamol'idea- èdeterminato;mas'intendenonsi comprendedella presunzione divina dell'infinito potenziale nel suo atto — antinomie rislessive:ipanteisti frantendono l'idea dell'infi nito - assurdità dell'infinito nunerico - distinzione dell'infinito pos sibile o potenziale dall'attuale - due infiniti: ilrelativo e l'assoluto dell'infinito aritmeticomonadico. giamento-l'atlocreativoèunoinsè anchenell'estrinsecoéper fetto-puossiconsiderarepertrerispetticomeinfinito– l'infinità potenziale del finitosuppone ilpossesso attuale,benchè finito, del l'infinitàattuale-incheconsistesiffattopossesso— l'attocreativo intervieneintutto— ècausachel'unitàdell'Ideasisparpagliain molteidee- igenerisonovari-lavarietàspecificadellecosede riva dalla maggiore o minore intensità dell'atto creativo  zioneèdivisioneemoltiplicazione- rispettoall'esistentel'attocrea tiyo è sintetico e analitico - differenza della causalità finita dall'in finita-cheèilcronotopo--suaunità- comedall'unitàdell'istante edelpuntosibiforcailtempoelospazio— l'intervalloèuno-5e nesidelcronotopo- doppiovaloredelpuntoedell'istante- dell'in ternitàedell'esternità- l'unitàdelcontinuosirappresentainordine lospazioeiltempohannouncentro al discreto sotto tre aspetti— del passato , sintesi del continuo e del discreto nei modi del tempo -- del presente e del futuro- l'eternità non cresce — doppio continuo , attualeepotenziale -infinitazionedelcronotopo-inchesensoilmon do è cterno - ogni epoca e stato mondiale è una palingenesia verso il p a s s a t o , e u n a c r e a z i o n e v e r s o l ' a v v e n i r e - il c r o n o t o p o e l ' u n i v e r soinfinitisonorealicomeintelligibili– l'indivisibilitàdelcronotopo dal pensiero colto dal Kant- del pensiero divino e umano-- interio la crea   DOTTRINA DELL'ESISTENTE debbonsidiresull'esistente- questosomigliaall'entepereffettodella creazione- incheconsistel'improntadell'entecheportainsèl'esi stente diversosensodatodall'autoreallevocimetessiemimesi quale è il senso che in quest'opera si dà alla prima -- distinzione dellapotenzaedell'atto- metessipotenziale,intermedia,eattuale l a m i m e s i - e s s e n z i a l e a l l e f o r z e c r e a t e è il c o n c r e a r e e il g e n e r a r e : prove- carattere del primo momento dello sviluppo dinamico -- due 64 125-166  505 Difficoltà di esporre la materia-nesso delle cose dette con quelle che ritàeesterioritàdelpensieroumano irrazionalitàdelvero nella s u a c o n c r e t e z z a - c o m e il p e n s i e r o u m a n o c o n o s c e il c o n t i n u o - l ' i m manenzadell'eternodatocidalpensiero— l'estensioneeladurata esprimono ilimitidell'esistente — Dialettica;ildiverso,ladualità, lamoltiplicitàappartengonoall'essenzadellacreazione- incheversa ladialetticaeondetraeilnome duedialettiche:realeeideale che forma il moto o vita dialettica- la dialettica consta di due m o menti,sebbene sembra che constidi tre- glieterogenei,cioè idi versi ed opposti,non sono contraddittorii---differenza della eteroge neità dalla contraddizione –secondo un certo rispetto l'eterogeneità èinDio-l'opposizioneriguardailnegativodellecose- ilcontrap postoèdiversodall'opposizione- glieterogeneiimportanogliomoge neieviceversa-cheèilterzoarmonicoodialettico come mai il conflitto dialettico pruduce l'armonia — uell'unione dell'omogeneo ed eterogeneo quale prevale— ciò che è l'opposto in natura è l'antino mianellascienza– dellaantinomiarealeedell'apparente– della guerra- lapolemicaèlaguerranell'ordinedelpensiero- delloscet ticismo - lo scetticismo obbiettivo non è sofistico -che sono l'errore e la colpa - due periodi distinti della storia della filosofia - - -divisione eriunioneèilprocessouniversaleedialettico- diversitàdiprocesso delladialetticadell'Enteediquelladell'esistente dellaschemato logia - - -della sofistica - - - il moltiplice e il conflitto son ridotto ad unità ed armonia mediante la mediazione dell'infinito.  ciclidellavirtùconcreativadelleesistenze realtàd'unaintelli gibilitàrelativa- ilsensibileèlafugadell'intelligibilerelativoda sèstesso,lasuamoltiplicazione,diversificazioneerottura-prove causa percuil'intelligibilecreatosimanifestacomesolosensibile negliordinideltempo differenzadellanostradottrinadaquelladei sensisti — nozioni che racchiude l'idea del sensibile- la successiva distruzioneerinnovazione delle forme sensibilièilnisusdiessoa diventareintelligibili- ilsensibileconsisteessenzialmentenelare lazione tra l'uomo intelligente e la natura intelligibile - del sensibile interno ed esterno - se il sensibile può o no conoscersi- si chiarisce ilsignificatodellaparolasensibile- ilsensibileschiettononsipuò pensare- prova che la sensazione non è lacognizione- qual'èl'og getto della cognizione del sensibile - - come si risolve l’antinomia ap parenteditrovareinescogitabileilsensibileepurepoterlopensare la dottrina nostra è la sintesi delle diverse dottrine precedenti Galluppi,Rosmini,Platone- nelladottrinadiGiobertinonbisogna confondere l'intelligibile assoluto,l'intelligibilerelativoeilsensi bile- la teorica dell'intelligibile relativo non annienta ilsovrintelli gibile— siviendivisandopiùparticolarmentelamimesi—mimesi prevalente-esteriorità,apparenza,fenomeno,conflitto,passaggio, metamorfosi-la gerarchiamimeticadeglienticonsistenellavarietà deigradiconativi-sinotanoiprincipali dellaluce-lamaggiore intelligibilità nella natura corporea si manifesta mediante la finalità , dell'uomo;ilcorpo,chiloforma —delsonnoedeisogni—l'istinto l'anima e il corpo in parte diversi , in parte uni - doppio stato del la vita;latenteeinanilesta—duevitedell'uomo- dellepassioni:la gloria,lamalinconia,lanoia- facoltàdell'animo:ilsenso,l'imagi nazione,lamemoria,laragione— lescoperteeitrovatiapparten gono allo sviluppo metessico del Cosmo -- che cosa è la scienza- lo spirito creato è l'anima del mondo , lo spirito uniano è l'anima della lerra- gl'intelligibiliintelligentirelativinonsonogiàdellosteso generedue speciedimentalità -cheèilpensiero- inchesifonda l'identitàdelmondo- metessiprevalente:suadefinizione-doppia u n i t à , la d i v i n a d e l l ' a t t o c r e a t i v o , e l ' u n i t à m e t e s s i c a e c o n c r e a t i v a dellarelazione;essasovrastaaiterminichelacostituiscono- due relazioni--natura speciale della relazione che corre tra l'Ente e l'esi  Del progresso : che n'è il tipo e il principio – il progresso considerato 167-250  507 stente— l'azione finita è reciproca , quindi inseparabile dalla passio no:l'unitàloroèlarelazione,larelazioneinfinitaè unamla rela zioneèilveraceassoluto cherappresentalarelazione essaè l'appicco del finito coll'infinito - riscontro del vero col mondo - le relazioni sono nelle cose,enon solo nello spiritonostro,enella mente divina -- falsità della dottrina dell'Hegel che pone l'assoluto e il concreto nelle sole relazioni - la specie non è un'astrattezza la specie non è l'idea specifica-metessicamente non si distingue il tutto dalle parti- come raffigurarci la concretezza della potenza - dellecontagionimoraliemateriali- l'armoniadellamimesierumpe sempreerisiedesostanzialmentenellametessiiniziale diversità della metessi mimetica dalla finale -dell'implicazione e dell'inter nitàdellecose- qual'èilprogressometessico- v'èunapermanenza metessica di ciò che passa mimeticamente- Idea,metessie mimesi - ilpassaggiodellamimesiècreazioneeannientamente- accordodi dueopinioniopposte- trecondizionimondiali— vanitàdellecose umane inquantopassanoesiannullano- delladottrinadiProtago ra- scienzamimeticaemetessica--Comemaiilrealepuòrassomi gliarsiall'ideale?- Comemaiilfinito,ilrelativoecontingentepuò rassomigliareilnecessario,l'assolutol'infinito? Comemailecose materiali possono rassomigliare il pensiero ? in riguardo alla metessi iniziale, alla mimesi ,e alla metessi linale lamimesièprogressivaneiparticolari,soloregressivanel genera le- ilregressoèleggedelprogresso– l'andamentocosmicosial terna di progressi e di regressi— la vita è la sintesi e il dialettismo del progresso e del regressoma conferma di ciò si trova nell'esame dell'uomo,dellareligione,dell'arteedellascienza- ilprogressoquan do è passato diventa regresso - accordo dei progressisti e dei regres sisti-delaperiodicità– ècircolareeregressivadisuanatura— ha luogo nelle parti dell'universo, non nel tutto - la forza rallenta   508 tricenecessariaallasocietàcomeallanatura seilprogressosia reale o apparente --- la periodicità perfetta è sola apparente - corso migliorativodituttol'universo- ilprogresso nascedall'intreccio deltempocollospazio- Individuoegenere--processoestrinseco dell'atto creativo- l'evoluzione è nelle idee , nella metessi , non già nell'Idea—checosaèlagenerazione- essenzialeallagenerazione è l'idea di specie, la quale non è astratta soltanto- la generazione è l'estrinsecazione più viva della metessi specifica delle cose,eap partieneallamimesi -dellasessualità—dov'èilprincipiogenerativo se nello sperma o nell'uovo- della donna e dell'uomo - la sessualità riscontratacolladialettica dellafemminilitàedellavirilità–del conjugio — dell'individuo compiuto e in che consiste la sua essenza e valore -- l'individuo e l'Idea sono nell'ordine attuale idue estre midellarealtà— influenzadelpensieroneglieffettidellagenera zione la generazione e la nutrizione sono le principali azioni tantodelcorpoquantodellospirito— altreconsonanzetrailcorpo e l'anima - del psicologismo e dell'ontologismo - come ci può essere concretamente insegnata l'attinenza del genere coll'individuo -due classi d'individui- - se l'individuo è sparito dinanzi alle masse - che cosaèlaplebe- relazionedell'ingegnocollamoltitudine -comepuò affermarsi che nell'ingegno v’abbia qualcosa del divino - Dell'amo r e , d o v ' è il s u o t i p o , e q u a l e n ' è l ' e s s e n z a - l ' a m o r e a s s o l u t o e i n finito è l'identità --ch'è l'amore rispetto all'esistente nello stato m i mctico dell'amoreattivoedelpassivo- delpuroe corrollo Ca gione dello scisma tra l'amor del cuore e quello dei sensi — che è l'idealedell'amore--delmaritaggio- deldivorzio– l'amorecorro traidissimiliarmonici-universalitàdell'amore--parenteladell'amo recolBelloecolBuono--delBelo--originedelmalc- duemorale, p a r t i c o l a r e e u n i v e r s a l e – o t t i m i s m o r e l a t i v o n o n a s s o l u t o - il m a l morale è impossibile nell'etica divina e universale - l'antinomia a p parente della natura seco stessa si risolve mediante la necessità de gli ordini --contraddizione della natura nello stato presente --dell'in felicità umana--scopodellavitaterrestre--della virtùedellalibertà umana— l'uomoèpotenzialmenteonnispecie,puòsalireescendere nella gerarchia cosmica - la giustizia cosmica procede per ragione geometrica - dell'abito- è verso l'anima ciò che l'accrescimento e  >   509 la nutrizione verso il corpo - la virtù è sforzo , è la trasformazione dellamimesiinmetessi-ed ilsagrifiziodell'individuoalaspecie- La Società ha un fondamento metessico e idealee logico-lapolizia è una metessi iniziale - la polizia dell'uomo comincia coi primi prin cipii della sua vita— individualità e polizia principiano e crescono di conserva--unitàdinamichedellanostraspecie– divisionedelgenere umanoingenericheespecifiche– dellanazionalitànaturaleearti ficiale- lamisuradell'ampliazionedell'unitàèiltermometrodella civiltà-doppiaunificazionedeipopoli--autorità morale— ilpotere sovrano è fontalmente l'Idea— formazione primordiale della socie tà- unitàprogressivadeivaricetidellasocietà— dellaplebeedel l'ingegno - intento della riforma politica moderna - nel mondo tutto èordinatoallosvolgimentodelpensiero— ciòcheaccadeorainEu ropa è in certa guisa una ripetizione di ciò che accadde in Grecia dellademagogia:dominiodellaRussia —unitàsovrannazionale- unità intermediatralasovrannazionaleelanazionale- l'egemoniamo dernadoverisiede-delPrimato,assolutoerelativo- alcunititoli del primato italiano- il Cielo che rappresenta alla mente umana - della causa e dell'effetto negli ordini finiti- attinenza della terra col c i e l o - i v a r i m o n d i f a n n o u n s o l o u n i v e r s o - il m o n d o n o n è s o l o u n aggregato, ma un aggregante - da che è prodotto l'individualità nei corpi- gerarchiadegliesseri--dellaNuidità -ilprincipioeilfine si somigliano e differiscono - della materia in astratto e in concreto -- lapotenzagenerativaessenzialeaogniforzacreata- dellapreesi stenzadeigermi--dellaleggecentripetainorganogenia- ilcentri fugismo non è la stessa cosa dell'ipotesi della preesistenza dei ger mi —laforzaprimitivaquandoerumpenell'attocominciacolladualità ocollamoltiplicità?-gradidellaforzacreatauniversalmente- dei cinque gran regni della natura - della mutazione delle specie- sunto delladottrinadell'autore- dueleggidell'esistente:leggedietero geneità,eleggediomogeneità— dellapolarità– infinitonumerico solo possibile nello stato di metessi - due soluzioni di esso - infinito aritmeticomonadico - l'infinitoèilsovrannaturale-due errorisul mondodell'ottimismo— infinitàpotenzialedellacreatura -delfu infinito e del sarà infinito.  CICLO CREATIVO Palingenesia Del secondo ciclo creativo ; ritorno del'esistente al l'ente – è solo per approssimazione -- la creazione non ebbe prima, perchè fu un Pri ilsecondociclocreativoèumanoedivino- comeilprincipio e il fine sono finiti e infiniti -- che cosa è specificatamente la palia genesia--come siamcerticheesiste– lapalingenesiaèobietiva esubiettiva,cosmicaeindividuale— delprogressorelativoedel progressoassolutodellecose comesideeintenderechelostato palingenesiacosiamentalitàpura— dellamorte– dell'immortali tà--l'esistenzaeinamissibile- lamorteèunsaltoegradosecondo chesiguardaildiscretooilcontinuo— futuritàparticolaredel l'anima— la palingenesia consiste nell'acquistare la coscienza che nonsiha- èilcolmodellacoscienza– duepresunzionidel'infi nitopotenziale– delliberoarbitrio- ilprocessopalingenesiacoè unprocessogenerativo- due metamorfosi:mondaneeoltramonda ne– obiezionecontrolarealtàdellapalingenesia:risposta– igno riamol'avvenire– haancheunabasenell'esperienza--nelapa lingenesial'internitàsaràesternata- divarioerassomiglianzatrala cosmogoniaelapalingenesia- inchesensolanegazionedell'im mortalità umana è vera - unità dello stato palingenesiaco - comuni cazionedell'intelligenzaedell'amorecoll'infinito dellafelicitàe beatitudineassoluta-l'uomonellapalingenesiaopera- ideadelpro gressopalingenesiaco– larivelazionepalingenesiacanonescluderà ogni elemento misterioso. RELAZIONE DELLA PROTOLOGIA COLLA RIVELAZIONE Il Gioberti prima cercò verificare psicologicamente l'idea di mistero poisiproposedimostrarlaontologicamente infineporgerneuna   511 prova universaleeprotologica- lametessièilsovrannaturale- unione dialettica del naturale e sovrannaturale nell'atto creatico - ilsovrannaturale èuniversale;ènelprincipionelmezzo enel fiue- la natura senza la sovrannatura è in contraddizione seco stessa- la dottrina del nostro autore toglie l'opposizione tra il naturalismo e il sovrannaturalismoesagerati- ilsovrannaturaledell'ordineattuale è la metessi anticipata nel seno della mimesi -nel sovrannaturale e nelsovrintelligibilev'haunelementonaturaleeintelligibile~-due spe ciedisovrannaturale— differenzatrailsovrannaturaleel'oltrena turale--ideadellareligione- religioneperfettaèlarivelata— ari velazione è l'apice della cognizione- necessaria ad accordare la ri flessionecoll'intuito duerivelazioni- larivelazioneimmanenteè virtuale— la potenza primitiva delle due rivelazioni è l'intuito- la rivelazione sovrannaturale spiega le potenze dell'intuito rimase in fecondepermancodiparolaacconcia- larivelazioneesterioredi vieneinteriore- treconseguenzcimportanti- intentodelGioberti- nel suo sistema la ragione e la fede entrano l'una nell'altra – l'idea d e l l'infinitoèilvincolotrailsovrintelligibileel'intelligibile- essenzadel mistero:misteriteologici,antropologici,e teoantropologici- imi steririvelatinonsonoeffetto,ma principiodiragione-esempidella feconditàrazionaledeimisteririvelati- ilmisteropertieneallara gione e la supera ad un tempo — tre membri della formola, tre es senze,tremisteri-veradottrinadelGioberti- nellavitaterrenail sovrintelligibile non diventa mai intelligibile- il vero sovrintelligi bilenoniscema- delmiracolo:sesipensa,èpossibile-checosa èilmiracolo- ogniprodigioimportaunfattoobbiettivoeunfatto subbiettivo--ilmiracoloeladisposizioneeattitudineacrederlo si corrispondononell'unitàmetessica- ilfattomiracolosononènelco smo,ma nellapalingenesia- imiracolidecrescono— lanatura(mi mesi ) e mito e simbolo del sovrannaturale (metessi, palingenesia) il cristianesimo importa un nuovo atto creativo, ciò come avviene ? - perchè si tralasciano di esporre partitamente i dogmi religiosi attinenze della rivelazione colla scienza,e della religione colla filo sofia  Perchè mi son risoluto a tessere questa conclusione-- il lettore non ri  - 512 cordando più le cose lette negli altri volumi non avrebbe potuto giudi care quest'ultimo - m'è piaciuto altresi di dare uno sguardo su tutto ciòdamepensatoescritto— occasionedell'opera- caratteredela maggiorpartedegliegeliani—come èdeltatoillibrodelprof.Spa ventasullafilosofiadiGioberti- lemieConsiderazioni— suiaspra menteripreso- soliloquio- neiprimivolumimostraiunpo'diri sentimento - l'esposizione della seconda parte si fa con modi dice voliallascienza- checosamihafattoperseverarelungamentein questa opera , perchè l'idea di essa non si era prima incarnata l'Italia al la stregua della filosofia dominante oltrealpi - perchè era nomala terra dei morti— lotta interiore del pensiero di Gioberti ragione del suo tardi stampare— la lotta cessa nel 1835 : creazione d'unanuovadottrina--lacuipellegrinitàstanelnessodellareligione collafilosofia -perquattroannisecostessoesaminalabontàeve rità del nuovo sistema - tre stadi del suo processo intellettuale- le nazionicoesistonoinsiemecsigiovanoscambievolmente- lanuova vitad'Italianecessariaalprogressoumano- ciòchehannocompiuto nel mondo i Francesi e i Tedeschi — difetto della civiltà da essi pro dotta— scopodellarinascenzaitalica— caratteredellavitaitaliana dall'AlfieriaGioberti nelqualeciòcheeravirtualeeastratto divieneconcretoeeffettivo— chiudeunepocaenecominciaun'al tra - medesimezza dell'idea individuale che costituisce l'eccellenza di Gioberti coll'idea sostanziale che costituisce ilgenio nuovo na zionale - rifà in sè tutto il processo anteriore dello spirito u m a n o quando acquistò il suo spirito intera coscienza di se medesimo - sti mò che iconcetti natigli in mente erano stati indirizzali ad un alto linedallaProvvidenza– siapparecchiaadeseguireildisegnodivi no- moto dall'individuo alla nazione e alla specie- come nel divul gare la sua dottrina e farla fruttare si mostrasse tradizionale e n o vatore ad un tempo --procedette per l'antagonismo degli estremi per 1 l   513 meglio far spiccare l'armonia del mezzo—dissimulò una parte del suo pensiero -- la filosofia la religione e la nazionalità italica sono unite e connesse subbiettivamente e obbiettivamente  mosse dal l'idea al fatto, dai principi al metodo di esposizione -carattere delle opereessotericheedelleacroamatiche- Giobertipossedevauna dottrina ben divisata e armonica , di cui avea piena consapevolezza – ciòsinegadaicritici- sidiscutelalorosentenza -sigiungeaduna conclusionc lutta opposto alla loro con solo l'esame dei fat ti -- si cerca allrcsi la dottrina intrinsecamente e logicamente e si ha lo stessorisultamento, perchéquasituttiicriticihanfranteso trinadiGioberti- ilmedesimo ladot è accaduto al Prof. Spaventa - qua l'èilconcellonuovoch'ioneporgo- essoèstatoignotofin'ora; nelle scuole d'Italia s'è insegnato solo la parte essoterica- di questa ècontrappostol'Hegelianismo- venutoiltempochesistudiaecol liva la parte acroamatica che contenendo la sintesi ed armonia di questoediquella,delpresenteedelpassato apre la via alla spe culazioneavvenire- nellacontroversiaintornoaGiobertibisogna separarelatesistorica,dallafilosofica— caratterichedistinguono, la dottrina di Gioberti da quella di Hegel , e il moto civile d'Italia daquellodiGermania- solol'Italiahaoggiunaveramissionestori ca,ilcuidelineamento trovasidegliscrittideltorinese—riscontri tra le parti in cui fu divisa la dottrina c i vari periodi del rinnova - mentonazionale– comel'egemoniapiemontesehaprodottoisuoi frutti, così li produrrà il Primato – il primato è tutt'uno colla riu novazione del pensiero italiano- ogni nazione ha da natura un sito intellettivo- - che dee cavare dal suo l'Italia- oggello della scienza sulural'idealitàinfinita– riformareligiosacnuovavitadelcattoli cismo - senza una filosofia e leologia infinitesimale ogni ristorazione religiosaèindarno-provailrecentemotodiGermania- ilDöllin ger non ha ragione di biasimare gli italiani- i vecchi cattolici sono oppostosofisticodeiGesuiti– quindicontinuanolasofisticareli giosa che travaglia la nostra età-diseltano d'una teologia veramente nuova e proporzionata al bisogno- mentre coi loro ciechi colpi con tro il papismo gesuitico ne han mostrato più che mai la necessità— senza di quella non si può distinguere l'essenziale dall'accessorio nella religione, nè accordare ildivino coll'umano-carattere della 63   nuovateologia- modocomedeeprocederelariformacattolica- l'entratura di essa appartiene al laicato,e in ispezieltà all'italiano così lagerarchia non sarà annientata,nè scossa,ma condotta a ri formarsidasè— ilmoloitalicoristabiliràperfezionatal'unitàmora le e civile d'Europa – esso perciò è indirizzato ad una meta più alta diquellaacuiègiuntalaGermania— iforestierimalintendonoe mal giudicano l'Italia ; in parte ne han colpa i fautori della coltura tedesca -ragionedell'imitazionetedescatranoi--devecessareedar luogo alla produzione paesana nell'ordine dei pensieri ,dei senti menti e delle azioni.La teorica della conoscenza nel Gioberti .   Esposizione e critica.   In uno degli ultimi scritti, — certo V ultimo scritto filosofico, —  pubblicato pochi mesi prima di chiudere la sua lunga e intensa  operosità, Antonio Rosmini, discorrendo della necessità speculativa  di tener distinta nell' essere la forma ideale dalla reale, usciva in  queste solenni parole: ' L'esperienza tuttavia e la storia della fi-  losofìa dimostrano, che e' è una somma diMcoltà a distinguere e  mantenere costantenftnte distinta nella mente la forma ideale ed  obbiettiva dell'essere, dalla forma reale, e me ne somministrò non  ha guati la prova quel facondo e immaginoso scrittore che diede  a me biasimo e mala voce d'aver proposta e stabilita una tale  distinzione, dettando tre volumi col titolo de' miei errori. Laonde  con tutto lo zelo e la fidanza egli si pose di contro a me, quasi  abbarrandomi il passo, e si dichiarò perfetto realista: incolpando  gli stessi scolastici realisti, di non essere stati tali abbastanza, ec-  cetto alcuni pochi. Ma pace a quell'anima ardente: e torniamo  alla storia *) ,.   Si sa che gli avvenimenti politici del quarant' otto avevano rav-  vicinato i due grandi avversar], smorzato perfin le ire implacate e  sospettose del torinese, che faceva pubblica ammenda della vivacità  frequente delle sue polemiche, dichiarando che, appena conosciuto  di persona il Rosmini, aveva cominciato anche lui " a venerare     ') RoiKiNi, Ariat. esposto ed esaminato, Torino, 1857, pre&z. p. 36. La  prefazione di quest'opera postuma era Btnta pubblicata dal Bosmìnì Hteeao  nella Riviìta contemporanea di Torino, au, ir, voi. II, fase. 17» e 18', decembre  1854 egenoaio 1855; riprodotta poi nella Poliantea Caffo^ca di Hilauo, an.  IV, 1855.     Digitizcdby Google     Rosmini e CHoberH 247   con tutta Italia tanta sapienza e tanta virtù , ^). — Quanto al Rosmini, benché l' animo suo non si fosse mai inasprito, i fatti del  ' 48 lo conciliarono di più col Gioberti, e non è questo il luogo  dì ricordare le belle prove da lui date de' suoi sentimenti verso il  filosofo esule per la seconda volta '), e poi quando fa morto, e  quando prima, nel ' 49, ebbe a G-aeta a difenderne calorosamente  la fama a l' ing^no contro le insinuazioni e le malignazioni d' un  gran gesuita ^).   Ebbene, tutto ciò e il tempo corso in mezzo e il cammino in-  tanto fatto nella scienza, non lo rimossero fino al termine, come  s' è visto dall' ultimo suo scritto dianzi citato, dalla posizione già  tenuta di contro al Gioberti. E questi, dal canto suo, ìn quel di-  scorso che premise alla seconda edizione della sua Teorica del  sovrannaturale, e che si può considerare come Y ultima sua scrit-  tura di genere puramente filosofico, rimaneva anche lui al suo posto,  nonostante l' om^gio quivi reso alle virtù e alla sapienza dell' av-_  versarlo; poiché scrìveva: *U Rosmini ed io siamo d'accordo nel  recare alla riflessione la possibilità dell'errore, e il suo rimedio  all'intuito che la precede. Ma dissentiamo intorno al contenuto di  tale intuito ; il quale al parere dell' illustre Roveretano, non ci poi^e  che un ente astratto, iniziale, destituito di sussistenza ; laddove, al     ')■ Discorso preliminare tìiU 2' Bàìz.ifiìla Teorica del sovran7iaturide(i850]  I, ^ n. Vedi pure ciò ohe, quasi nel tempo atesBo, ne scriveva nobìlmeate nel  Rinnovamento àvUs, lib. I, cap. XIII; ediz. Napoli, Morano, 1864, 1, 285 e aegg.   !) Vedi quel che HCTisae Q. Uassuii, nella bua Bitiista pdiHca del 15  luglio 1855 nel Cimento di Torino (voi. VL B. 3", p. 86) commemoiando il Ro-  smini. Sono due pagine dimenticate, e che hanno tuttavia molta importansa per  le opinioni politiche e per la biografia del Rosmini; T. pure Tommaseo, A. Ro-  smini, (in Rimala Contemporanea dal 1855, voi. IV) §. 28,   ') H Liberatore. — Chi fu presente al colloquio e ne scriveva poi a Baff.  De Ceaare.attesta che le parole «eloquenti dette dalBosmini in quella occasione  lìaHciiono il più autorevole e più meraviglioso elogio del Gtiobeiti >. Tedi  Db CssAaB, Dopo la wndanna del S. Uffi,ziOt in N. Antologìa, 16 luglio  1888, p. 205.     .dbyGoosle     348 G. Gentile   mio, ci dà un concreto effettivo, che nel primo de' suoi termini  è assoluto e apodittico. Or qual'è il miglior fondamento del vero?   ^ l'astratto o il concreto? T insusaistente o il reale? l'incoato o l'as-   l soluto?, ').   I due filosofi, adunque, compiono la loro carriera filosofica con  opposta sentenza intomo al principio della loro dottrina, nonostante  la polemica vigorosa per dottrina e dialettica che s' era in propo-  sito dibattuta; talché si direbbe che essa non abbia avuta nessuna  efficacia sulle dottrine de' due filosofi. Questo però è appunto quello  che ci rimane ancor da vedere.   f~^ Come il Rosmini abbia introdotto V. Gioberti nel campo della   ' moderna filosofia, cioè della filosofia kantiana, l'abhiam veduto e  dimostrato nel terzo capitolo della prima parte del presente studio;  coachiudendo, che già nella Teorica del sovrannaturale egli ci ap-  parisce sì un rosminiano, ma un rosminiano il quale vuole andare  avanti al Rosmini. Neil' opera che seguì immediatamente dopo,  V Introduzione aUo studio della Filosofia, si delinea ben nettamente  la nuova posizione speculativa del Gioberti ; e si vede quali essen-  ziali modificazioni, secondo lui, debbono subire le dottrine del filo-  sofo roveretano.   Ma prima di studiare cotali modificazioni, vediamo come si  muove in questa nuova opera il pensiero dell'autore.  / La concezione della storia filosofica qui è l'es^erazloae di quella  donde sì rifa nel Nuovo Saggio il Rosmini; ma certamente è mo-  dellata sovra di essa. Pel Rosmini, come s'è notato, v'ha sistemi  che peccano per eccesso e sistemi che peccano per difetto di apriori  nella spiegazione del fatto del conoscere : da una parte falsi idea-     *) Op. cit, I, 2K. Cfr. Errori filoaqfiei di A. Bosmini, II, 126-134. —  L'ultima parola venunente à nel Rmnovat>ieato civile, dove al lib. n, oap. 7*,  (voi. II, pag. 191), è detto ancora uoa volta « Cosi, per cagion d'esempio, il  divorzio introdotto da un chiaro nostro psicologo tra il reale e l'ideale, non  si puA comporre stando nei termini della psicologia sola; e se si muove da  questo dato pei salir più alto, si riesce di necessità al panteismo dell'Hegel e  de' suoi seguaci >.     DigitizcdbyGOOgle     Jtosmitii e Gioberti 249   iiami, e dall'altra falsi empirismi. Ma nell'idealismo, oltre l'errore  di ammettere più elementi a priori che non ne siano richiesti a  quella spiegazione (Platone, Aristotele, Leibniz) può esservi un  più grave difetto : quello di far soggettivo, come avviene in Kant, Va  priori ricercato in seno alla conoscenza, la quale, se vuol essere vera  e certa, dev'essere invece oggettiva. Onde pel Rosmini Ì sistemi  sbagliati si riducono al postutto al sensismo o all'idealismo sog-  gettivo, cfae è una specie di scetticismo mascherato ; dacché il pla-  tonismo, a parte l'eccesso dell' a priori che va corretto, trova grazia  appo lui per l'assoluta separazione posta fra cotesto a priori e il  soggetto umano che conosce. E contro il sensismo e l' idealismo  soggettivo e si può dire (poiché pel Rosmini il senso era la fa-  coltà soggettiva per eccellenza) in genere, contro il soggettivismo  ei si proponeva di scendere in campo col Numo Saggio.   Contro questo soggettivismo insorge parimenti la filoso&a del  Gioberti; il quale raddoppiando d'ardore per le dottrine platoniche  riconosciute pure in fondo al contenuto filosofico delle dottrine  cristiane, tutti gli opposti sistemi involge in una comune condanna  con quel sensismo, che ormai, quando usciva il suo libro, era già  morto e sepolto cosi in Italia come in Francia; talché dimostrare  sensistica una teorica, era lo stesso che averla giudicata senza  appello.   E sensistica, a parere del Gioberti, è tutta la filosofia moderna  in Europa; a cominciare da Renato Cartesio; il quale, del resto,  non fece se non applicare alla filosofia il metodo che aveva già  fatto ben trista prova con Lutero, nella Protesta, proclamando la j  intimità autonoma della fede religiosa. . -J   Cartesio sensista? " Parrà strano, scrive il Gioberti, a dire che  il sensismo sia conforme ai principii cartesiani, e che il Locke,  il Condillac, il Diderot, con tutta la loro numerosa ed infelice pro-  genie, siano figliuoli legittimi del Descartes; quando questi pre-  tese nlle sue dottrine un teismo purissimo al sembiante, e volle  stabilire sopra uua salda base la spiritualità degli animi umani.  Ma il teismo del Descartes é puerilmente paralogistico. Il suo dubbio     .dbyGoosle     250 Q. OmHk   metodico e assoluto, e il riporre eh' egli fa nel fatto del senso in-  timo la base di tutto lo scibile, conducono necessariamente alla  negazione di ogni realtà materiale e sensibile , *). E che altro è  il sensismo? ' Spogliato dalle contraddizioni de' suoi partigiani, e  ridotto al suo vero essere dalla logica severa di Davide Hume,  riuscendo a un giuoco aubbiettivo dello spirito, che, rimossa ogni  realtà, è costretto s trastullarsi colle apparenze, è propriamente  scettico e si manifesta come l' ultimo esito di ogni dottrina, che   _, metta nel sentimeuto dell'animo proprio i princlpii del sapere . *).   1 II Descartes, adunque, è uu sensista, e a lui si deve tutta la   serie di errori di cui è iutessuta la storia della filosofia moderna ;  egli è l'iniziatore, purtroppo, fortunato del moderno sensismo psi-  cologico, poiché pone come principio della filosofia un fatto, che  come tale non può essere se non un sensibile ^).   Insomma il Locke e il Gondillac sono cartesiani. " Né rileva che  i successori di Locke facciano caso della sensazione sola, e non  del sentimento interiore, imperocché questo e quello convengono  nell'essere forme sensitive, destituite di obbiettività assoluta , *).   \ Il Gioberti, insomma, intendeva parlare di soggettivismo, e di-  COTa sensismo, che è pure una direzione speculativa molto diversa. La  colpa bensì non è propriamente sua, perchè risale al Galluppi ; il  quale nella sua teoria della sensazione (che qui il Gioberti ripete)  aveva con essa confusa la percezione o rappresentazione e la coscienza,  introducendo nel seno stesso di quella le distinzioni che sorgono     ') Introdwi., lìb. 1, c&p. l" (ediE. di Firenze, Poligrafia italiana, 1846)   I, m.   ») Ibid., p. m-12.   3) «... E certameiite la seoteiiEa ; io penso, dunqm sono, equivale a questa:  io sento di oaeere pensante ... e più concisamente : io sento, dunque sono . . .  n pensiero conosciuto per via della liflesaione, ò un meco fatto della coscienia,  cbe appartiene al senso interiore; onde il Cartesianismo che muove da quella,  colloca in un fenomeno della facoltà sensitiva la base della scienza >. Tntrod.,  lib. I, oap. 3" (n, T7 e segg.).   *) Op. àt., n, 78.     n     2&1   invece per cotesti fatti ulteriori della psiche '). Del resto, il Gio-  berti risente presto l' iDcooTeuiente che deriva dal fare un sensista  delio stesso Cartesio, pel quale il fatto della coscienza, invece che  un sensibile (donde, secondo il Gioberti, stesso non può derivarsi  mai l'essere) era una cosa stessa con l'essere, e quindi noD un  semplice principio psicologico '), ma una inscindibile unità del prin-  cipio psicologico e dell' ontol<^Ìco, che se fosse stata fecondata,  avrebbe già fatto procedere di molto la filosofia moderna. Infatti,  quando ai accinge a classificare tutte le scuole filosofiche figliate dal  sensismo cartesiano, comprendendo nella seconda categoria i se-  guaci del lochiamo, egli è costretto a porre &a i caratteri di questo  * il ripudio della ontologia cartesiana, come ripugnante ai principii e  al metodo del Descartes, e troppo simile all'antica, dichiarata dal  francese filosofo insuMciente e buttata fra le ciarpe ; e l'ommis-  sione e lo sfratto implicito e tacito di ogni ontologia , ').   E già da questa medesima classificazione de' sistemi resulta  cbiaro che il nemico preso di mira è precisamente quello stesso  del Rosmini: cioè il soggettivismo, il falso so^ettìvismo, che ri-  pete le sue origini da Cartesio, anzi {ed ecco l'intreccio significan-  tissimo della filosofia eterodossa con la falsa filosofia!) da Lutero.  Nelle cinque categorie, in cui dovrebbesi, secondo il Gioberti, par-  tire tutta la storia della filosofia moderna, così vengono distribuiti  i vai^ indirizzi: nella 1" Cartesio e la sua scuola: nella 2' Locke;  nella 3' Spinoza, i panteisti tedeschi e in parte Giorgio Berheley^;     ') Eppure il Gioberti stesao aveva combattuta questa teorica galluppiaaa,  nella n. 3* della Teorica (II, 319 e segg.) imputando al filosofo di Tropea  < di Bveie considerato come semplice e indivisibile ciù che è ancora composto,  Bocomunando per tal modo elsmenti svariatisaimi con una sola voce >.   *) < Il paicologiamo ed il BcnHÌaino sono identici : l' uno è il Henstsma ap-  plicato al metodo, l'altro è il psicologismo adattato ai principii »- — Introd.,  I. 30 (il, 83 e eegg.)- Gtt- p. 83 e segg. e 3^ e segg. Ha < Cartesio è sen-  sista nei principii e nel metodo * p. 83.   3) Op. cit., voi. Sf p. 85.     .dbyGoosle     252 a. Gentile   nella i* Kant e i sensisti francesi dal Condillac in poi *) ; ' infine  nell'ultima classe si debbono collocare gli scettici assoluti, che  giunsero al dubbio universale, mediante i principii del sensismo,  aiutati da una logica s^^ce ed inesorabile; ... il cui principe è  Davide Hume , *).   CapOTolgimenti, come si vede, ce n'è piti d' uno; e come va che  il Gioberti confonde il fenomenismo del Berkeley con l'idealismo  assoluto di Fichte, dì Schelling e di Hegel, e l'idealismo trascenden-  tale di Kant col sensismo di CondillacPEcco: secondo lui, " l'asso-  luto dei filosofi tedeschi non è l'idea schietta, ma bensì l'idea  mista di elementi sensitivi, e per dir meglio un concetto, un astratto,  un fantasma, frammescolato di elementi ideali , (p. 85); insomma  è un assoluto fantasticato dalla mente umana ; e cosi il Kant con-  verrebbe coi sensisti ' nel dare alla cognizione la proprietà del  senso, facendone una facoltà aubbiettiva, e quindi considerando il  vero, come relativo , (p, 86). — È chiaro che la causa della con-  fosione nel primo e nel secondo caso è la medesima; per Gioberti,  r a priori di Kant e de' suoi successori è falso perchè contraddit-  torio: è posto come a priori, perchè necessario ed universale; e  intanto lo si fa subbiettivo, e quindi particolare all'individuo che  conosce, e come esso contingente.   Questa falsa maniera d' intendere il nuovo soggettivismo, che  cominciava con la teoria della sintesi a priori dal negare definiti-  vamente quello scetticismo, cui fin allora il so^ettivismo era sempre  stato come equivalente, — è un'eredità che il Gioberti raccoglie  dal Rosmini, e rivolge subito, come or ora vedremo, contro di lui.   E già si può dire, che l'avesse raccolta nella Teorica del so-  vrannaturale, quando, a proposito dell'eclettismo francese, aveva     ') E petcbè esclndecne ì materìaliati del aec. XVIII, le cui open, come  ricorda opportunamente il Imnge, precedettero i libri e le dottrine del Con-  dillao?   ') Op. dt, p. 86.      parlato dì un * razionalismo imperfetto , che consente col sensismo  ' nel so^ettivare interamente e parzialmente la conoscenza „ ^),  e meglio altrove, discorrendo dell' egoismo psicologicor cui avreb-  bero appartenuto Cartesio, Reid e Kant, e del quale * l'egoismo  ontologico metafisico di un celebre filosofo tedesco, che im  sima r ente stesso coll'esistenza individuale, sarebbe la nect  conseguenza , *).   I! Gioberti, invero, come il Rosmini, non conosce altn  gettìvismo che il falso antropometrismo individualistico  goreo, il soggettivismo, che il Rosmini combatteva in Em.  Pel soggettivismo, a parer del Oioberti, tot capita, tot senti  donde, secondo il principio di Lutero, tanti cristianesimi  cristàani, e ' tante filosofìe quanti sono i filosofanti, se et  Descartes, rinnovatore della verità subbiettiva, immaginata di  già e da Protagora , ^. Di guisa che è un errore, dice Ìl I^  paragonare la riforma cartesiana a quella socratica ; avendo 8  presentito la teorica delle idee assolute, che venne poscia es]  da Platone, e dovendosi quindi interpetrare il suo vvia^i •  quasi — contempla e studia te stesso nella idea divina.   In breve: la salvezza della scienza è nel platonismo, nella  razione dell'idea dal soggetto, nella oggettività della conos  E si deve anche far forza alla storia e in Socrate trovare PI  se in Socrate si vuol trovare un principio di sana filosofia,  menti del maestro di Platone non si fa che una ripetizione d  tagora, come sono Cartesio e Kant, — il famoso " sofista i  nisberga , !   Questa falsa interpetrazione della storia, in gran parte  fondamentalmente rosminiana, non pone del resto, il Oioberti  bene egli sei creda, fuori del criticismo kantiano, come non ne  escluso il Rosmini. Ed è davvero curioso a vedere il gran     ') NotaXH; n, 329.  *) Nota XVn i n. 338.  ») Introd., I, 3»; H, 76.      Q. Gentik   glìere invano che tutti i filosofi italiani della prima metà del secolo  fanno tra loro, accusandosi TicendeTolmente di kantismo e di  so^ettivismo, intanto che ognun d'essi, senza accoi^erseae, vi  rimane impigliato. Galluppì accusa Rosmini; Testa, Galluppi e  Rosmini; De Grazia, Galluppi e Rosmini egualmente; Gioberti e  Mamiani, Rosmini; e questi, il Gioberti. — Così, il Rosmini era  persuaso che tutta la sua attività filosofica fosse una guerra con-  tinua contro il sensismo e il soggettivismo. Ebbene, vien fuori Ìl  Gioberti a proclamare che ancora il sensismo è la dottrina filo-  sofica predominante in Europa; dacché non tutti i razionalisti si  potesser dire immuni dal comun vizio, avendosi a distinguere uu  razionalismo ontologico e un razionalismo psicologico; ìl secondo  de' quali separa bensì, come non fa il sensismo, l' intelligenza dal  senso, ma a quella non dà altro fondamento che il soggetto, lo  stesso fondamento, in fine, del senso, senza perciò poter conferire  alla cognizione veruna certezza oggettiva. E in questo razionalismo  psicologico o psicologismo, che vogliasi dire, con Kant e Reid e  Stewart, va, secondo il Gioberti, annoverato anche il Rosmini, non  correndo alcun mezzo possibile Ira Io psicologismo e l'ontologi-  smo, che anche lui, il roveretano, rifiuta; sebbene né il filosofo  italiano né i due Scozzesi possano propriamente rientrare nel quadro  della quÌntnplÌG« classificazione del sensismo cartesiano, ossia della  moderna filosofia.  '"~ Oi certo il falso criterio onde il Rosmini aveva delineato una  storia della filosofia, passato al Gioberti, era agevole rivolgerlo  contro lo stesso Rosmini. Sennonché, quel che importa rilevare è  l'esigenza che l'uno e l'altro afiFermavano, ribellandosi a quel  cotale soggettivismo, in cerca di uno stabile e certo oggettivismo.  Il Rosmini, come s' è veduto, vuole introdurre nella cognizione  un elemento necessario ed universale, che sia veramente tale, e dì  cui ammette un intuito costitutivo dell'intelletto, un intuito che,  secondo una critica n^ionevole, devesì interpetrare come una sem-  plice aflfermazìone della universalità e necessità (trascendenza, e  quindi — pare — opposizione all'individuo contingente) AeWa^Hori     della cognìzioDe. E il Gioberti prende la stessa posizione di contro  all'empirismo, pur senza ripetere una critica che era stata fatta,  ma accettandone benal il resultato.   ' Oggi si tiene per certo, egli scrive nell' Introduzione, che il  Toler derivare con Locke i concetti razionali dalla sensazione e  dalla riflessione, ovvero col Condillac e co' suoi seguaci, dalla sen-  sazione sola, è un assunto d'impossibile riuscimento; e che, sì come  il necessario non può nascere dal contingente, né l' oggetto' dal  soggetto (ecco l'unica concezione rosminiana d'oc/petto e soggetto:  oggetto = necessario: soggetto = contìngente), così i sensibili od este-  riori non possono partorire l'intelligibile , •). — Pel Gioberti la  questione stessa dell'origine dell' intelligibile, di cotesta idea, in-  volge una repugnanza; giacché, essendo essa oggetto immediato  ed eterno, come necessario ed universale della cognizione, non ha  nn principio né una genesi. Potevasi senza dubbio osservare al-  l' autore, che appunto la definizione stessa che egli dà della idea,  inchìnde il teorema, che gli avversarj volevan dimostrato.   Comunque ciò sìa, egli ammette bensì un' altra questione, che  è la vera questione della ideologia rosminiana ; la quale è volta a  indiare " se derivando la cognizione dell'Idea da una facoltà spe-  ciale, che dicesi mente o intelletto o ragione, ella è acquisita od in-  genita; cioè, se l'uomo può su^atere, eziandio pure un piccolissimo  spazio di tempo, come spirito pensante, ed esercitare la facoltà cogi-  tativa, senz'avere l'Idea presente; e quindi ne va in cerca e se la  procaccia; ovvero, se ella gli apparisce simultaneamente col primo  esercizio della mente, tantoché il menomo atto pensatìvo e l'Idea  siano inseparabili , *). E tal quistione, che brevemente si può espri-  mere, se l'Idea sia o no innata (nel senso kantiano di forma si-  multanea alla esperienza) ei la risolve affermativamente, come il  Rosmini, dichiarando che a suo avviso ( * per rispetto nostro , )  non si può assegnare altra origine all'Idea, che l'origine medesima  dell' esercizio intellettivo.     «)Iiib. I, oap. 3»j n, 6. *) le     .dbyGoosle   m     266 O. Gentile   Questa apparizione dell'Idea simultanea al primo esercizio della  mente corrisponde per l'appunto a quello che il Rosmini avrebbe  detto propriamente nozione) dell'idea dell'essere. Anche pel Gio-  berti cotesta nozione è la stessa intelligibilità, la evidenza stessa;  anche per lui " non arguisce nulla di subbiettivo, oè risulta dalla  struttura dello spirito umano, secondo i canoni della filosofia cri-  tica , *) ; anche per lui è " l' ometto della cognizione razionale in se  stesso, aggiuntovi però una relazione al nostro conoscimento , *).   L' intuito di cotesta idea è dal Gioberti stabilito con breve di-  samina del procedimento del conoscere, e benché egli non se ne  rimetta al Rosmini, è chiaro che psicologicamente la lacuna, che  egli stesso poi riconobbe in questa parte della sua teorica, devesi  alla grande efficacia esercitata sulla sua mente dallo studio di Ro-  smini ; talché, scrivendo quasi di getto, come fece, l' Introduzione,  non avrà pensato che ci volesse molta discussione a solidare     già muorevasi la mente   iegazione del conoscere.   nella esposizione, del   Ione fece il Massari nel     un'ipotesi, la quale, per l' indirizzo per cui ^  sua, era assolutamente necessaria alla spie  Si accorse di poi del mancamento ; e lo v  resto tanto piaciutali, che AeW Introdtizio  Progresso di I^apoli, quando già l' intrapresa polemica col Rosmini  cominciava a fargli guardare più attentamente ogni parte della  costruzione filosofica, cui aveva posto mano. B al Massari, ai 17  giugno del 42, scriveva: "Ho riletto quel poco che ho detto del-  l'intuito iLviW Introduzione e l'ho trovato ancor più scarso che non  credevo; tanto che la critica che vi ho fatta di non esservi steso  davvantaggio e con nu^giore precisione su questo punto manca  affatto di fondamento , *) ; e a' 20 lugho tornava a scrivergli : * Non     ') < Nozione io chiamo un'idea considerata sotto questa relazione, in quanto  doè ella mi serve, a rendermi note le cose >; Bosuini, Prindpj di acietua mo-  rale, in Optre, ed. Bstelli, TX, 2 n.   ») Inirod., I. 3"; II, 8.   ') Ibid., p. 5.   *) Cart, n, 375. Il MAasÀBi aveva fatto una analisi dell' Introduzione ( la  1* ohe ne faue fatta in Italia) in tie puntate del Frogreeso del i841.    Bosmmi e Gioberti 257   è come vi ho detto che uDa iBcuoa, proreniente dal mio testo del-  l' Introduzione; ODde può parere che l'intuito sia una facoltà mi-  steriosa conforme all'inspirazione dei mistici; laddove no  la cognizioae umana e ordinaria, spogliata però del repli  riflessivo. L'ho definito, credo, nel libro degli i/rrori , '). -  questa definizione dell'intuito corrisponde evidentemente i  trina già esposta del Rosmini, che l'intuito dell'idea si rit  un lavorio riflessivo sulla cognizione ordinaria, mediante  cesso d' astrazione.   Nel Gioberti non s' incontra una teoria compiuta del f  noscitivo, come si trova nel Bosmini. Ma qualche accennc  qua e là, basta a dimostrarci che, sebbene l'autore sia de  che la psicologia, per dirla con la parola sua, non debb  fondamento né propedeutica alla ontologìa, della quale egli  trattare specialmente, tuttavia l' ideologia rosminiana giace  alla sua dottrina. Egli ammette un' ' attività intima e s<  sima, che rampolla dall'unità sostanziale deWanimo, e con  primo raggia intorno a sé le molteplici potenze, donde na  varie modificazioni di esso animo , *); ripetizione, anzi de  d'un punto del rosminianismo, da noi già messo in rilii   L'intelletto, la facoltà dell'intuito secondo il Rosmini,  presso il Gioberti una " energia contemplativa „ che  venir meno, ossia non può cessar d' intuire il suo termine, se  durre,in grazia di quell'unità sostanziale dello spirito, la ce  simultanea dell'esercizio deliamente^); come nel Rosmii     •) Cart, n, 381 e aegg.   ^Infrod., I, 2° (1, 135). Animo dice il Gioberti; per castigatezz  tuna di lingua, lovece di anima, spirito.   ') < Tutte le potenze dell' aaimo amano esseDdo collegate inBieme  dosi a vicenda, è inverosimile il aupporre che l'energia contemplat  eoir meno, «enza che le altre facoltà a proporzione se ne riaentan  cap. 5° (1, 138). Altrove dice che t l'intelletto è ti mezzo, con cui I  prende la manifestazione naturale del verbo ; 1, 2° (1, 196). Ma egli no  a questo propoailo, una terminologia costante.     .dbyGoosle     258 G. Gentile   dell'intelletto vedemmo esser necessario non solo alla costituzione  dell'intelletto, ma anche, per l'unità del soggetto, a tutta la fun-  zione del conoscere.   Né pel Gioberti l' intuito ha un valore diverso da quello indi-  cato nella teoria del filosofo roveretano; come sarà agevole accor-  gersene esaminando con la brevità necessaria la teoria giobertìana  della riflessione.   L'iatuito rosminiano vedemmo essere non vera e propria cogni-  rjone, ma condizione di ogni conoscenza, e però un vero a priori  kantiano, una pura forma dell' intelletto, che come tale distruggeva  l'antica concezione di oggetto opposto e separato dal soggetto,  — avendo dimostrato che il nuovo oggetto non esisteva per sé, fuor  della sintesi, essenzialmente soggettiva, co' dati offerti dal senso ed  elaborati nel soggetto. E il Gioberti scrive: 'Egli è vero che l'in-  tuito diretto della mente non basta a fare la scienza, ma ci vuol  di pili quella ridessione che ho denominata ontologica dall'obbietto  in cui ella si adopera. La quale arreca nel suo oggetto quella di-  stinzione, chiarezza e delineazione mentale, che senza alterarne  r intima natura, lo fanno scendere, per così dire, dalla sua altezza  inaccessibile, e accomodarsi all'umana apprensiva... Se l'intuito  fosse solo, l'uomo assorbito dall'idea non potrebbe conoscerla,  perchè ogni conoscenza importa la compenetrazione del proprio  intuito, e la coscienza di noi medesimi , ; vale a dire la coscienza  dell'intuito e la coscienza del soggetto, che in fondo sono una me-  desima coscienza; dacché, anche pel Gioberti, l'intuito è costitutivo  del soggetto, e non v'ha soggetto senza l'intuizione immanente  dell'Idea. Sicché l' intuito giobertiano neanch'esso fornisce una ef-  fettiva conoscenza, ne è bensì anch'esso la pura condizione, la pura  forma a priori, la quale ha bisogno, come qui dice l' autore, della  riflessione *).   Orbene, che è questa riflessione, e qual'è l'ufficio suo? Essa     *) «La riflesBione pertanto dee accompagnue l'intuito primitivo >; I, 30,  (H 107).         'l,      è come un intuito secODdario, cioè un replicamento cosciente del-  l'atto coatemplativo della Idea; ma, appuoto perchè cosciente, non  è più puro intuito, non è più condizione, ma atto di coscienza: essa è  già coscienza. — La riflessione importa quindi una determinazione  soggettiva e però una modificazione pur soggettiva; poiché l'intuito  è vago e indeterminato, mentre ogni atto di conoscenza è essen-  zialmente determinazione ed unità; elementi che all'intuito non  possono essere aggiunti dall'oggetto suo, che non ha in sé né de-  terminazione, . né principio veruno di determinazione. ' Nel primo  intuito la cognizione è vaga, indeterminata, confusa, si disperge,  si sparpaglia in varie parti, senza che lo spirito possa fermarla,  appropriarsela veramente, e averne distinta coscienza... L'intuito  secondario, cioè la rimessione, chiarifica l'Idea, determinandola; e  la determina, unificandola, cioè comunicandole quella unità finita,  che è propria, non già di essa Idea, ma dello spirito creato , *).   La riflessione, adunque, si deve considerare come una funzione  determinatrìce dell'intuito, o vogliam dire dell'» priori; funzione  fondata sull' unità del soggetto, di quell'attività intima e sempli-  cissima, che dianzi rilevammo. — Ma in che modo avviene la de-  terminazione? " Ciò succede, mediante l'uniOne mirabile dell'Idea  colla parola. La parola ferma e circoscrive l'Idea , ^); unione mira-  bile e ' misteriosa ,, donde s'inizia la conoscenza, come lo era quella  percezione intellettiva, per la quale Rosmini faceva sviluppare l'atto  del conoscere; ma unione necessaria, unione, come s'è visto, senza  la quale non v'ha umana conoscenza^).   E alla percezione intellettiva l'atto prodotto per la riflessione  si riconnette anche per la natura della parola, che si sostituisce  in esso alla sensazione rosminiana. Il Gioberti infatti, definendo la     ») Introd., I, 3°, (II, 11).   «) Op. cit, l. e.   3) iLa parola, easendo il priocipio determinativo dell'Idea à altreai  una condizione neoeBjacia della esistenza e della certezza rlfleasiva» I, 3°;   n, 12.        2d0 0. Gentile   parola, come ogni segno, per un sensibile, osserva: * Se adunque  ella BÌ richiede per ripensare l'Idea, ne segue che il sensibile è neces-  sario per poter riflettere e conoscere distintamente l'intelligibile •).  II cbe consuona con la doppia natura dell'uomo composto di corpo  e d'animo, e annulla quel falso spiritualismo, che vorrebbe con-  siderar gli organi e i sensi, come un accessorio e un accidente  della nostra natura „ . Sulle quali parole è bene cbe meditino quanti  sono che l'intuito giobertiano sogliono appaiare con quello del  Malebranche. Anche il Gioberti, come il Rosmini fa ricorso al sen-  sibile e Io ritiene necessario alla formazione dell'Idea; e il senso  anche lui fa costitutivo dell' oi^anismo unico dello spirito.   Sennonché, sulla natura di questo nuovo sensibile proposto dal  Gioberti solvono varie difficoltà, sulle quali non è pcasibile sor-  volare, volendo fornire una idea non troppo manchevole della sua  teorica della cognizione.   Vedemmo altrove (part. I, cap. 3") come già fin nelle Miscel-  lanee, che sono sì prezioso documento della formazione della mente  del Gioberti, si accettasse e si lodasse la teoria bonaldiana del lin-  ' S^^SS^°- ^^^ 1"' nsll^ Introduzione è detto: ' Parecchi scrittori mo-  derni assai noti, fra' quali il Bonald merita un luogo particolare,  hanno avvertita la necessità del linguaggio per l'esercizio del pen-  siero , *}. Ed è senza dubbio dal Bonald eh' egli ha mutuato la sua  dottrina, che ha, pel modo come sorse, una grave ragione storica.   È noto che l' empirismo inglese e il sensismo francese sì pro-  ponevano di spiegare il linguaggio umano, come una invenzione  dell'uomo, Tommaso Reid per primo, (poiché le profonde intui-  zioni del Vico passarono inosservate), nelle sue Ricerche stdl' in-  tendimento (1763), dimostrò che il linguaggio nel suo più ampio     ') Cfr. Teor. Sovr-, II, 35 < Senaa la contezia di qualche aenaibile, le idee  non aorebbeia acceBsibili alla mente nostra*. Teoria che bÌ conferma e ai de-  fiaiace meglio nella Protoloffia, per la qaale cfr. i Inoghi dUti dallo Spàtbhti.,  nella FUoa. di Oiob., p. 53 n.   *j Introd., nota S' del voi. II, p. 213.     Digitizcdby Google     Bosmini e Qioberti 261   significato è naturale prima che artificiale. Definiva egli Ìl lin-  guaggio, — definizione, ai badi, espressamente citata e accolta dal  nostro Gioberti, '■) — ' tutti i segni onde gli uomini fanno uso per  comunicarsi reciprocamente i loro pensieri, le loro conoscenze, le  loro intenzioni, i loro disegni e i loro desiderj , *}. Pel Reid v' ba  due specie di lingu^gio : un linguaggio naturale, formato da quei  vocaboli, che non hanno un significato convenzionale, ma ne hanno  uno che tutti intendono naturalmente e per istinto; e un linguaggio  artificiale, costituito dei vocaboli non aventi altra significazione se  non quella attribuita loro convenzionalmente dagli uomini. Che vi  sia un lii^uaggio naturale è innegabile: e l'attestala sopravvi-  venza stessa di esso al linguaggio artificiale: le modulazioni della  voce, ì gesti, i tratti del viso o la fisonomia, — mezzi tutti onde  l'uomo esprime naturalmente i pensieri, — sono per l'appunto le tre  classi alle quali riduce il Reid tutti gli elementi di cotesto lin-  guaggio.   Ora è ovvio dedurre, siccome fa appunto il filosofo scozzese,  che il linguaggio artificiale presuppone ÌI naturale, senza di cui  gli uomini non avrebbero potuto intendersi per convenire nei signi-  ficati di quei vocaboli onde resulta Ìl loro linguaggio artificiale.  Di modo che se, come vuole l'empirismo, il linguaggio fosse dovuto  solver per un'invenzione umana, come la scrittura o la stampa,  tutte le nazioni, dice il Beid, sarebbero ancora mute, come i bruti.   Né meno stringente è la critica dal Bonald opposta alla teo-  rica del Gondillac ') nelle sue Eicerche filosofiche. Secondo il Bonald  il linguaggio ci è dato primitivamente con la prima conoscenza;  a causa della necessaria simultaneità della idea con la sua espras-   *) < Le parole sono i segni principkli, ma non i soli Bagni, come sa oiaaouuo;  tntti i sentimeati sodo veri segni deUe cose, secondo la bella e profonda dottrina  di Tommaso Eeid >; Introd., nota l' al voi. II, p. 211.   *) Rech. sur V entendemenf humain, trad. Jouffro;, oliap. IV, sect. 2 in  OtMvres (Paria 1828), H, 88.   ') Combatte la teoria com'era stata formulata da) CoDdiUac; ma tiene por  conto delld OBservazioni di Hobbe» di Locke e di tutti i Bensisti.     Digitizcdby Google     aione (espressione, si noti, anche semplicemente * mentale « )■ S  contro i sostenitori dell'opposta sentenza, osserva che essi comin-  ciano dal supporre, contro ogni autorità ed ogni ragione, l'uomo  in uno stato primitivo bruto e insociale, e a tal grado di barbarie,  da essere perfino privato della facoltà di conoscere e comunicare  i proprj pensieri, per attribuirgli nello stesso stato i pensieri, i sen-  timenti, le affezioni, le intenzioni, i bisogni, Io spirito d' invenzione  e d'industria dell'uomo sociale e civilizzato , ').   Lo critica del Bonald è in fondo identica a quella del Reid.  Si presuppone nell'uomo sfornito tuttavia del linguaggio, cbe gli  tocca inventare, qualità o attitudini necessarie all'invenzione; le  quali non possono non equivalere al possesso del linguaggio che  vien negato, comecché in una forma primordiale e naturalmente  rozza. E questa ingenua teoria del vecchio empirismo che fon-  dava la società io un contratto, la religione su un arbitrio dì  legislatori, e Ìl linguaggio in una invenzione convenzionale, è stata  anche in quest' ultimo campo, sconfitta dalla moderna scienza della  linguistica comparata; la quale se tra Max MuUer e il Witney  discorda intorno alia necessità delle relazioni che intercedono fra  il pensiero e la parola, ha però definitivamente e concordemente  stabilito che il linguaggio è un fatto speciale, primitivo e naturale  dell'uomo, non essendovi alcuna società, per quanto barbara e  selvaggia, che non ne sia fornita; del pari che la sociologia e la  scienza delle religioni comparate hanno provato l' originarietà, cioè  l'apriorismo, del fatto sociale e del religioso.   Ed è appunto merito della scuola teologica francese, come  osserva giustamente il Janet ^), di aver dimostrato contro i filo-  sofi francesi del sec. XVTII la vanità delle teorie intorno all'o-  rigine fattizia e riflessa di tutti i fatti i più importanti dell'uomo  sociale. Al Bonald poi spetta particolarmente la lode per quel che è  del linguaf^io; e a lui specialmente volgeremo l'attenzione, giacché     ') lUeherches phiioaophiquea, ohap. Il, in Oeuvres ( Paria 1858 ) p. 107.  *) La ph&os. de LamtnnaU, p. 18.     Digitizcdby Google     Bosmini e Oioberii 263   egli connette questa teorìa con quella della rivelazione neceasaria  per l'umana conoscenza, siccome fece tra noi il Oiobeiii.   II Bonald, con l' Histoire comparée del Degerando alla mano,  rileva che la filosofia non è riuscita peranco a fissare un punto  fermo, un criterio sicuro di certezza e di verità, anzi per tutti i  sistemi è finita nello scetticismo e nel soggettivismo; e si chiede  quindi se non fosse possibile " trovare nei fatti sociali un fonda-  mento alle dottrine filosofiche piìl solido di quello che s' è cercato  fin qui nelle opinioni personali , ') ; e questo fondamento gli pare  appunto di trovarlo nel linguaggio, che, dimostrato non potersi in-  ventare dagli uomini, deve (non essendovi, secondo lui, altra via)  essere stato comunicato da Dio alla società umana, e in questa  appresa via via dagli individui.   Si direbbe che il criterio del Bonald riesce sottosopra a quello  altrove rilevato dal Lamennais; che questa parola, che possiamo  accettare come saldo fondamento di certezza, data da Dio all'umano  consorzio, è precisamente la rivelazione. Ma quel che v'ha di ori-  ginale nel Bonald, e prova che il Gioberti ne dipende io modo spe-  ciale, è la teoria della parola coma atto o strumento necessario  del pensiero; vale a dire che, dato che il linguaggio, tutto il  linguaggio aia rivelazione divina, il pensiero dì cui il Bonald  dice che la parola è il corpo, è esso stesso tutto una rivelazione,  cioè ha tutto per se stesso un fondamento di certezza obbiettiva o  sovrumana, nel senso di universale. La quale è appunto la teoria  del Gioberti, che ammette bensì una conservazione, ma anche una  alterazione della forraola ( = contenuto della rivelazione, coni' è  contenuto dell' intuito) ; e fa che il pensiero che rimane, anche al-  teratasi la rivelazione, possa tuttavia cogliere il vero. Di guisa  che la rivelazione (l'elemento sensibile della conoscenza) non è ac-  cidentale ed esterno al pensiero, ma necesaario e quindi costitutivo  di esso ; sicché, essendo il pensiero un fatto, cotesto elemento sen-  sibile, ne dipende e gli è strettamente connesso.   *) BecA., p. 42.-     .dbyGoosle     264 O. Gentile   Questa rivelazione, adunque, ha ud valore tutto speciale, in  quanto è qualcosa d' intrìnseco al pensiero stesso, tale perciò che  il ricorrervi non sia per quello un esautorarsi o uà apprendere  dal di fuori, ma bensì uno sviluppare se stesso; laddove, presso il  Ijameanais del Saggio suW Indifferenza, il pensiero infermo per se  medesimo e incapace d' attingere il vero, si dee abbandonare, quasi  per chiederle conforto, alla rivelazione esteriore. Pel Gioberti la  rivelazione va cercata nella vita stessa del pensiero, equivalendo  alla parola, che è tale a sua volta, che senza di essa, come aveva  osservato il Bonald, il pensiero non esisterebbe. Chi rigetta la  rivelazione, viene a rigettare secondo il Gioberti, la parola, ossia  lo strumento necessario alla cognizione riflessiva dell'Idea; epperò  non può attinger questa, senza la quale — lo vedemmo già eoi  Kosmini — il pensiero cessa di essere '■). La necessità dì questo  è pertanto la stessa necessità della rivelazione, considerata unica-  mente per rispetto a quell' ufììcio che dee compiere nel fatto della  conoscenza.   Sennonché, cosi considerata, a che si riduce la rivelazione? Essa  ci deve offrire la parola, ossia i segni delle cose, Ìl dato sensibile  che circoscrive l'idea dell'essere e le dà attuale esistenza di cono-  scere; e, come dice l'autore, ' una successione di sensibili, per cui  essa Idea rivela se medesima all' intuito riflessivo dello spirito  umano, e compie l'intuito diretto, che li porge da sé *).   Non è del nostro tema trattare ampiamente di questo punto  della filosofia del Gioberti, che richiederebbe una troppo lunga di-  samina. E bisognerebbe sovrattutto discuterla, — come in parte  ha fatto, da quel gran maestro che era, lo Spaventa — nelle opere  postume, una delle quali è appunto dedicata alla filosofia della     ') B il QiOBBBTi dice: «Il ripudio assoluto della tradizione religiosa e  Bcientifica si trae dietro neceasariacoente quello della parola. Ora, siccome l'aiuto  della parola è neceaaarìo per conoscere riflessivamente l'Idea, chi lo rifiuta  dee eziandio dismetteie e gittar da sé ogni cognizione ideale. Ha tolta l' Idea,  che rimane? Nulla ».-- /«(roA, I. 3»; II, 51.   ») Op. «(., I, 3"; n, 107.     .dbyGoosle     Sosmini e Gioberti 265   rivelazione. Ma esse furono tutte scritte dopo la polemica col Elo-  amÌDÌ, e sarebbe perciò inopportuno il prenderle come un punto di  partenza, volendo discorrer di quella.   Gì basta notare, che nella stessa Introduzione la teoria della  parola va messa in relazione con le dottrine del Reid e del Bonald,  dalle quali deriva, e co' principj rosminiani già adottati nella Teo-  rica del soEiannaturale ; che deve intendersi {secondo la distinzione  di parola naturale e artificiale, ripetuta dallo stesso Gioberti) '),  come parola naturale, cioè come segno della cosa, o sua rappre-  senlanions, il che corrisponde appuntino alla teoria rosminiana della  sensazione, per la quale si determina e circoscrive l'ente indeter-  minato. Infatti, secondo il Gioberti, la parola artificiale non può  esprimere se non le idee già espresse, e presuppone quindi la pa-  rola naturale, la rappresentazione *).   Ora, se anche pel Gioberti ogni concetto si forma per una de-  terminazione che si fa per la parola dell' essere indeterminato del-  l'intuito, ciò avviene, come s'è visto, per opera della riflessione;  la quale richiamerebbe perciò, secondo s'è pur notato, la percezione  intellettiva del Rosmini. — Ma il Gioberti, come ha mutato la parola,  ha mutato anche, o crede d'aver mutato, il concetto. Alla sua fìlo-   'J 4 La potenza dell'intuito per attuarsi ha d'uopo della parola, cioè del  sensibile! La parola è di due specie: naturale e artificiale. Questo è il lin-  guaggio elle non può eaprimere che le idee già espresse. Il linguaggio del-  l'arte è sempre una traduzione del linguaggio della natura; è verso di esso db  che la scrittura verso In parola artificiale >. Kioi d. Rivela):., Toriao, Botta,  i8o6, p. 89.   ') Meglio potremmo solidare questa interpetrazione discutendo le difficoltà  che fa insorgere la teoria della parola cori com' è esposta uell' Introduzùtne, o  prima facie par che quivi debba intendersi, esaminando la critica fattane dal  Tbsta nelle sue Considerazioni aopra l' InlrodtiziorK aUo st. ddla JHo*. di  V. Q., Piacenza, Del Majno, 1845, part. n, p. 32 e segg. Ma non ist htc locus.  Con la critica del Testa consuona in alcuni punti quella di V. Db Gbaziì,  ne' suoi Discorsi au la logica di Hegel e su la Filos. speculativa { Napoli,  Tip. de' Gemelli, 1350) 2' rass.; e mutuata dal Testa pare l'obbiezione che il  critico calabrese muove all'ipotesi dell'intuito (iTÌ,p. 100) nel Gioberti.        aee O. Gentile   sofìa, che per la spi^azìone della conosceoza ha bisogno del fatto  della rivelazione egli coutrappone la filosofla eterodossa, la quale,  rifìutaodo lo strumento della rivelazione, non può ammettere una  riflessione che rifaccia T intuito e conduca perciò al possesso del-  l'Idea; e deve quindi rinunciare alla Idea, appigliandosi alla per-  cezione del sensibile, il quale può essere l'oggetto del senso esterno,  come dell'interno, ossìa materiale ed estrinseco, o spirituale ed  intrinsepo. Donde, doppia eterodossia, sensismo da una parte e psi-  cologismo dall'altra; e in ambo i casi ' la sostituzione del sensi-  bile all'intelligibile, come principio, onde muove la filosofia , ');  ossia un metodo il quale, come vedemmo, conduce direttamente  al soggettivismo, allo scetticismo, al nullismo, dacché è vano lo  sforzo dei sensisti e de' psicologisti, di trarre dal sensibile l'in-  telligibile.   La filosolia eterodossa, dunque, ammette bensì anch' essa la  riflessione; ma la sua rifiessione si differenzia essenzialmente dalla  riflessione della filosofìa ortodossa, in quanto, non servendosi di  quel mezzo che solo mette in grado di tornare, dopo il primo in-  tuito, fìno al termine di questo, si deve necessariamente fermare  al fatto della mente (per parlare dello psicologismo che c'inte-  ressa) e rimaner quindi semplice riflessione psicologica, in luogo  di pervenire all'Ente intuito immediatamente e farsi, come dovrebbe,  ontologica.   ' Lo strumento, onde lo spirito umano si vale in psicologia,  è la riflessione psicologica, per cui il pensiero si ripiega sovra se  stessO; e afferma, non già la propria sostanza, ma le proprie ope-  razioni solamente. All'incontro nell'ontologia lo strumento è la  contemplazione, la quale si divide in due parti, cioè in uu intuito  primitivo, diretto, immediato, e in un intuito riflesso, che chiamar  si può riflessione contemplativa e ontologica , >). Cosicché la ri-  flessione psicologica è una operazione semplice ; l' ontologica una     ') Introd., I, 3"; II, Bi e segg.  *) Introd., I, 3»; II, 104 e aegg.       Boamini e Gioberti 267   operaziooe duplice; quella si esercita sopra il prodotto soggettivo  di una precedente operazione (l'intuito)-; questa sopra l'oggetto  stesso della operazione precedente, che rifa maturandola.   Si potrebbe dire perciò, che la riflessione ontologica sia la stessa  riflessione psicologica aggiuntavi la ripetizione dell'intuito. Infatti  * nell'ontologia lo spirito, ripensando, si rifa sull'oggetto imme-  diato dell'intuito stesso.. . Ma, egli è vero che nella riflessione  contemplativa •}, la mente rivolgendosi all'oggetto ideale, si ripiega  pure di necessità sull' intuito proprio, che lo apprende direttamente ;  onde il tenor psicologico del rìpensare accompagna sempre l'altro  modo di riflettere; tuttavia queste due operazioni, benché simul-  tanee, sono distinte, perchè hanno il loro termine in uu oggetto di-  verso , *).   Una critica non molto difficile qui può sorgere conti'o questa  dottrina della riflessione ontologica. Se l'intuito lascia uno stato  speciale nella mente, un fatto, tal che sia possibile coglierlo con  la riflessione psicologica, due casi si posson dare: o in esso v'ha  uno specchio fedele dell'oggetto proprio dell'intuito, e allora la  riflessione psicologica è fondamento di una conoscenza oggettiva  per eccellenza, e non soggettiva, come pretende il Gioberti; o non  si riflette affatto (ovvero, che è lo stesso, non si riflette fedelmente)  il termine dell' intuito, e in tal caso questo primo intuito è per-  fettamente inutile.   Il dilemma ci pare senza uscita. La riflessione ontologica del  Gioberti sarebbe davvero un secondo intuito, se potesse traspor-  tare la determinazione sopravvenuta con la parola (dato sensìbile)  dall'interno del soggetto, dove interviene, nello stesso oggetto; il  che è impossibile, perchè secondo la sua teoria la parola è un sen-  sibile.   E perchè dovrebbe potervela trasportare, cotesta determina-     *) Cobi è par detta dal Oìobei-ti la riflesBione ontologica; mentre la psico-  logica è pur detta osservaHva (p. 105).  «) latroduz.. l, 3", II, 104.     G. Qmiile   zionep Perchè, avvenendo la determinazione nella riflessione, es-  sendo questa ontologica, il sensibile, principio della determinazione,  dovrebbe ripensarsi coli' intelligibile, e come questo (poiché si tratta  di un secondo intuito), fuori del soggetto; il che, ripetiamo, è im-  possibile.   Di certo la riflessione ontologica è l' espressione, benché non  esatta, d'una giusta esigenza del pensiero, come or ora vedremo;  ma contrapposta, com'è dal Gioberti, a una riflessione psicologica,  fallisce al suo scopo, non potendo sfuggire alle conseguenze dello  accennato dilemma. Sennonché, il Gioberti ci dice: ' La rifles-  sione psicologica non ha per termine diretto il pensiero, come pen-  siero, ma il pensiero come sensibile intemo, cioè come atto dello  spirito, e quindi non riguarda direttamente l'Intelligibile, che si  congiunge col pensiero e lo illustra. Egli è vero che la riflessione  del psicologo si connette per indiretto coli' Intelligibile ; ma cì6  non prova nulla in favore dei psicologisti; imperocché non ne  partecipa, se non mediante quell'intuito mentale, che, al parer  mio, è il vero e necessario strumento dell' ontologo , •}•   L'equivoco qui è evidente: la riflessione psicologica non coglie  il pensiero come pensiero, cioè in quanto intuisce l'Idea^, ma  lo coglie, secondo Gioberti, come un sensibile intemo ; dunque la  riflessione ontologica non fa altro che cogliere il pensiero come  pensiero.   Ora, se la riflessione psicologica presuppone anch'essa un intuito,  e (poiché, parlando contro il psicologismo, il Gioberti si riferisce  specialmente al Rosmini) un intuito, che, come vedemmo nella  esposizione della teorica rosminiana, è costitutivo del pensiero, é   ») Introi., I, 3» i U, 109.   ') Nella FUoB. iella Uivdaz., il Qioberti scrive : < Una meate aeiiEa idee,  e in igtato di tavola rasa perfetta è una contraddizione. La facoltà con cui  la meate creata afferra questa rivelaiione [la riveUsioae imuaQente, virtuale,  che diventerà attuala pei opera della riflessione; v. ivi, p. 87] che fa, la sua  assensa, è l'intuito»; p. 88 Né pia uè raeao di ci6 che dell'intuito aveva  detto il Rosmini. Rosmini e QvAerii 369   la sua propria essenza, — come può fare a ritornare sovra un  pensiero ehe non siasi già appropriato l'Intelligibile, e Io abbia  ancora fiiori di sé, e sia ancora in atto d'intuirlo? Insomma sì  può concepire un intuito immediato dell'Intelligibile come essenza  del pensiero, che pur lasci il pensiero sempre al puro stato di tcAida  rasa, sempre in atto di guardare l'Intelligibile, senza mai vederìo?  Il pensiero pel Rosmini intanto è pensiero, in quanto ha un  intelletto costituito dall'intuito dell'intelligibile; non può quindi  riflettersi su se stesso, senza trovare in sé non già Ìl semplice atto  astratto dell'intuito, ma sì l'atto concreto, ossia l'atto terminante  nell'Intelligibile: la forma, in una parola, dell'intelletto. E l'equi-  voco propriamente consiste in ciò : nel concepire l' intuito imme-  diato come una pura dualità; dove, al pari della visione corporea,  da cui immaginosamente è desunta, non può essere se non un'unità  sintetica, di soggetto ed oggetto. L' intuito ond' è fornito l' intel-  letto è una nozione, in cui Ìl soggetto e l'oggetto, come nel pro-  dotto della sensazione, sono affatto indistinti. Ora se la nozione  è qualcosa di perfettamente uno, ripiegandosi sovra di essa, lo spi-  rito non può non coglierne il contenuto, che è per l'appunto l'Intel-  ligibile. — SI' equivoco si fa manifesto quando l' autore soggiunge  che questo scambiamento di metodi (psicologico ed ontologico) gli  ' riesce un trovato cosi bello, come l'assunto di chi adoperasse le  dita e le orecchie, per apprender la luce e distinguere ì colori in  essa racchiusi „ (p. 105). Qui sì immaginano la luce e ì colori  come oggetti o segni esterni e indipendenti dell'organismo sensi-  tivo, in che si rappresentano; per modo che a noi, sapendoli lì ad  aspettare di esser da noi sentiti, sia dato scegliere lo strumento  più acconcio alla bisogna. Laddove fìa dal 1834, quando fu pub-  blicato il celebre Manuale di fisiologia di Giovanni Mailer, si sa  da tutti che non v'ha nulla di più falso. Quello che not sentiamo  e diciamo luce e colori, non è se non per la nostra sensazione e nella  nostra sensazione. Ma il Oioberti ignorava questo concetto della  soggettività della sensazione, comecché avesse già appreso dagli  scozzesi quella teoria della percezione esteriore, per la quale ve-     0. Oentile   nivano per sempre seppellite le vecchie idee imniagiiii, che solo  la leggerezza filosofica di Ippolito Taine doveva più tardi esumare  nella sua haldanzosa quanto vana guerriglia contro la filosofia  classica francese in genere, e per questo punto contro il Royer-  Collard >).   Or, come è uno shaglio credere che il colore che diciamo di  vedere con l'occhio, sia fuori dell'occhio, talché se si avesse modo  di riflettere sulla visione, si rifletterebbe sul semplice atto del ve-  derlo, ma non propriamente sul colore; così soltanto un equivoco  può far pensare che nella nozione rosminiana fornita dall' intuito  dell'Intelligibile, non siavi altroché l'atto dell'intuire; di guisa  che la riflessione sovra di essa pervenga soltanto indirettamente  all'oggetto, sul quale cotesto atto si esercita. L'oggetto qui è  una cosa stessa con l' atto, siccome vedemmo altrove discorrendo  dell'intuito; oggetto ed atto sono una cosa sola nell'intuito in-  tellettivo, che è atto insieme e forma dì esso, secondo la teoria  del Rosmini.   E questa è la vera ragione che il Tarditi avrebbe dovuto op-  porre al Gioberti, per dimostrargli infondata, come tentò di fare  nella prima e nella seconda delle sue famose lettere, la distinzione  fra le due riflessioni psicologica ed ontologica *). Le quali si po-   ') Convengo pienamente nella controcritica oppostagli dal Janet nel primo  de' suoi scrìtti en La crke phUoaopMques, Paris, 1865, p. 26 e segg. Li teoria  scczzcBe toRlienda l'inutile intermediario dell'immagine tra l'oggetto sensibile  e il soggetto sensitivo, fece di certo un primo passo verso quell'unità del  tatto della sensazione, che non poteva d'altronde concepirai senza i nuovi prin-  cipj del kantismo, di cui giustamente la psicologia genetica tedesca si con-  sidera come un fedele compimento. — Vedi in proposito gli scritti del  TabÌktino in Giom Napdet. di FUob. e Lett. del 1880 e 81 e del Cm*p-  PELLi, ivi. QnelH del primo bqu pure raccolti nei Saggi fUoeofici, Napoli,  Morano, 1885, pp. 37-128. — Dopo la pubblicazione di quwto votame  il Chiappelli tornò sull'argomento nella Filosofiti delle Scude Italiane, voi.  XXSI (1885), in un art. sulle Attinenze fra il criticiamo kantiano e la pri-  coloffia inglese e tedesca.   ') « Siccome, osservava il Tarditi, noi non possiamo riflettere su ne»aa   Rosmini e Gioberti 271   trebberò ira loro distinguere solamente pel dÌTerso oggetto (e a  questo soltanto s'è appellato come a ragion distintiva in un passo  deìV Introduzione già citato il Gioberti); talché se l'una noa ha,  né può avere un oggetto diverao dall' altra, è chiaro che la distin-  zione non possa più farsi.   n Gioberti, veramente, negava più tardi che la distinzione si  desuma soltanto dall' oggetto ; e voleva che si fondi anche sul  metodo {Errori, I, 151 e segg.); e dava sulla voce al Tarditi, che  ciò non aveva saputo vedere •). Ma come sosteneva la sua sen-  tenza ?   ' La diversità dei metodi in ogni ordine di ricerche consiste . . .  in quella del veicolo, che si dee scegliere per conseguire l'oggetto  ricercato; e la natura del veicolo è determinata da quella dell'og-  getto medesimo, considerata non in sé semplicemente, ma nelle  sue attinenze con le facoltà e le condizioni del cercatore , *). E  più in là: ' Il punto, a cui si vuol giungere, determina l'indirizzo  che si dee tenere; l'intervallo che s'ha da correre, insegna le ope-  razioni da farsi, per superare gli ostacoli e toccare la mèta , ').   Ora^ senza dire dei caratteri differenziali che il Gioberti poi  indica nei due processi che vuol distinti, basta notare che la sua  deduzione avrebbe un valore soltanto nel caso eh' ei avesse dimo-  strato essere realmente distinti i due pretesi oggetti di riflessione,  poiché, a confessione dello stesso Gioberti, la natura del metodo     oggetto se Doa quanto da noi o intuito se ideale, o percepito se reftle; pad  la riflesBÌoDe passare egualmente dall' oggetto atl' intuito, e dn questo a quello;  anzi ta rìfleasioue sull'intuito non puA essero completa, imparziale, quale s'ad-  dice al filosofa, se non coasidera l'intuito, e nel soggetto di cui è atto, e nel-  V oggetto in cui termina, e dal quale Sformalo*; Leti, d'un Sosminiano,  Z\ p. 38 ; e si riferisce alla teorìa della rytesiione filosofica del Rosmini ; cfr.  p. S e segg. Or se si distìngue e separa, come fa il Tarditi, atta da oggetto,  il Gioberti ha cagione. H vero è ohe essi non sono afiatto distinti.   ') Leti, eit, I, 19-20.   •) Errori. I, 153.   3) Op. eit., I, .158.    G. Omtile   è determinata dalla natura dell' oggetto. Contro il Tarditi che  ammetteva un atto di intuire distinto attualmente da un oggetto  intuito, egli aveva ragione; perchè se vi sono due termini di di-  versa natura, noi non possiamo giungere a ciascuno di essi con  un medesimo processo. Ma conviene prima provare quella distin-  zione di atto e di oggetto nell'intuito; la quale è, pift che altro,  presupposta dal nostro autore.   E peccando il suo ragionamento di una siffatta petizion di  principio, né potendosi altrimenti che per astrazione distinguere  r atto dall' oggetto, il Gioberti non può dire nemmeno che la re-  plicazione dell'intuito, cioè la riflessione, si differenzi! per l'oggetto  e pel metodo; poiché il metodo potrebbe esser diverso solo allof  che fosse differente l' ometto. E se il metodo trae i suoi caratteri  specifici dall'oggetto, e se l'oggetto è uno e inscindibile, come  si può distinguere una riflessione psicologica e una riflessione onto-  logica?   Il pensiero non si può riflettere se non sopra di sé, come pensiero;  e siccome è costituito tale dall'intuito dell'essere, che gli dà l'idea  dì questo, la riflessione non può non comprendere direttamente  questa idea dell' essere, che è oggetto dell' intuito.   Che se l'intuito si considera nel suo intimo e profondo signi-  ficato, secondo la critica da noi fattane, cioè io quanto esprime  l'oggettività vera (non la falsa oggettività fantasticata, con la im-  maginaria opposizione, a risolver la quale # ricercato l'intuito),  e però la vera soggettività, vedasi quanta ragione più si abbia di  volere una riflessione che, a differenza della riflessione suU' intuito,  faccia riflettere lo spirito sullo stesso oggetto dell'intuito. — E a  questo punto noi volevamo arrivare. — Perchè Gioberti distingue  una riflessione ontologica dalla riflessione dei psicologisti ? Qnesta,  egli dice, si ferma a un fatto dello spirito ; quella ci conduce fino  allo stesso oggetto ; e quella è però da preferirsi, se si vuole evitare  il soggettivismo. Or si veda che fedele rosminiano è fin nell'afferma-  zione di questa esigenza il Gioberti ! La critica sbagliata Fatta dal  Kosmini delle forme kantiane, ecco che egli la rivolge una seconda     Jìosmini 6 QwberH 27   Tolta contro il Rosmini medesimo. Gioberti, infatti, si accorge (  l'intuito rosminiano è una pura e semplice forma dell'intellet  ne più né meno delle forme di Kant; se ne accorge e gli pare, dìei  l'insegnamento del Itosmini, di vedersi risorgere innanzi il fosco fs  tasma del soggettivismo. Quindi non gli basta un intuito, coi  bastava al Iio3mÌDÌ, onde salvare l'oggettività, cioèl'universal  e la necessità della scienza, e gliene vogliono due, un doppio ìntu  intuito riflesso o secondario, o veramente una riflessione oni  logica. Bisogna davvero che questa Idea stia fuori del soggel  umano, stia da sé, e bisogna cbe si vada sempre fino a lei, ti  per un semplice intuito (potenza o virtualità di conoscere), vi  per un intuito riflesso, reale ed effettivo conoscere.   Ma il guajo è che se l'intuito, l'intuito scempio, sul quale  esercita la " riflessione eunuca , ^) del Rosmini, è un semplice s<  sibilo interno, o meglio, un semplice dato soggettivo (che pel G:  berti quel termine ha questo significato) — opperò individuali  contingente, — non c'è modo di provare che non sia un sempl  dato soggettivo anche lo stesso intuito doppio, che gli si vuol (  stituire. À rigor di logica, infatti, la critica stessa che il Qiobe  muove al Rosmini, si può muovere a lui, e si può continuare  l'infinito contro chi intenda l'oggettività, cioè l'universalitì  necessità delle forme di cognizione, come opposizione al sogge  conoscitore. Giacché l' intuito è sempre la stessa operazione, ed i  plica sempre la medesima relazione tra soggetto ed oggetto,  che si eserciti una sola volta, sia che si eserciti due volte,  riflessione ontologica rifa l'intuito circoscrìvendone l'oggetto  dato sensibile, offerto dalla parola. Ora, se il prìmo^intuito i  era bastato a cogliere l'intelligibile, perchè e come deve potè  cogliere il secondo ? — L'aveva evolto, dirà il Gioberti; ma appui  perciò bisogna ripeterlo, quando si vuol predicare del dato sensil  quella intelligibilità, e formare il concetto. — Ma anche a  v' ha risposta; cioè, l'intuito non è, come s' è visto un precedei   *) Errori, I, 144.  G. Gentile   cronologico della percezione intellettiva, dell'atto (che il Gioberti  dice riflessione) della determinazione dell'Idea, del differenzia-  mento della primitiva identità. E se non precede cronologicamente,  come non deve, né può, poiché non v'ha l'identico senza la diffe-  renza, né l'universale fuori del particolare, né l'uno fuori del vario,  é falso i! concetto d'un replìcamento dell'intuito nella percezione  intellettiva o nella riflessione; perchè il replicaraento presuppor-  rebbe l'intuito come un precedente anche cronologico, oltre che  logico ; con che si tornerebbe al vecchio concetto dell' a priori.   La riflessione ontologica, adunque, non può intendersi come in-  tuito riflesso, cioè come doppio intuito, nonostante l' esigenza che  r Intelligibile aia intuito nell' occasione stessa della percezione sen-  sitiva, oltre che solo; per la semplice ragione che da solo non è mai  intuito, se non come presupposto logico, come un quid trascendente  il fatto della conoscenza. D'altronde, il secondo intuito che si com-  prende in cotesta riflessione ontologica, non è né più né meno che  una ripetizione del primo ; talché, insuMciente il primo, non pub  non essere, e il Gioberti non dice perchè né come non debba es-  sere insufficiente il secondo, E perciò, rifiutato il primo, egli non  aveva nessuna ragione di tenersi contento al secondo, come aveva  avuto torto, a fil di logica, il Rosmini, rifiutando le forme kan-  tiane, a contentarsi di quel suo primo intuito. Ma come l'errore  del Rosmini risguardava la sua interpetrazione di Kant, ma non,  ci pare, la sua teorica, ed anzi era prova, come s' è più volte notato,  delia buona esigenza da lui avvertita di una perfetta universalità  e necessità nel conoscere; così, con la sua teoria della riflessione  ontologica, il Gioberti, se crede a torto di correggere il "Rosmini  e con esso anche il Kant, dimostra anche lui di avere avuto il  giusto concetto dei bisogni essenziali della scienza.   E v' ha di più nel Gioberti. Questi sente più forte una esigenza,  che non si può dire sia stata trascurata dal Rosmini, comecché  in lui non sembrasse pienamente soddisfatta ; vale a dire l' esigenza  dell' unità non pure come compimento della dualità della sintesi,  ma altresì come sua base, fondamento ed inìzio.    Rosmmi e Oioberti 275   Infatti, con la riflessione ontologica 8Ì ritrae la differenza nel  seno stesso delU identità; perchè la parola, principio determina-  tivo, aiceome è una rivelazione dell'Idea, così è strumento di quella  riflessione, che risale fino all'Idea stessa, a guisa d'un quadro, in  cui s' incornicia la vaga Idea sconfinata, tanto per lasciarsi vedere  dal finito spìrito umano. Ma quadro e Idea sono una medesima cosa;  tanto che la parola è detta rivelazione dell'Idea, ed è propria-  mente parola dell' Idea medesima. Sicché la differenza qui scatu-  risce dal fondo stesso dell'identità, dall'Idea; e la funzione dello  spirito, per cui si apprende insieme l' identico e il diverso, è pre-  cisamente la riflessione ontologica, che si rifa dal centro stesso  dell' identico ; laddove, secondo il Gioberti, la riflessione psicologica  non si rifaceva se non dall' atto stesso dell'intuito di cotesto iden-  tico, cioè da un fatto sensibile, epperò da un diverso; il quale, d'al-  tronde, se pure era un identico relativamente all' ordine dei cono-  scibili, non conteneva però in sé il principio della differenza.   Il Gioberti, adunque, senza riuscire a dimostrare l' insufficienza  della riflessione rosminiana, con la critica di questa e col volervi  sostituire una riflessione più compiuta, mirava a porre su più solido  fondamento la oggettività del conoscere, e a giustificare più sicu-  ramente quella vera sintesi a priori che per questa via accettava,  attraverso il Rosmini, da Em. Kant; fondandola su quell'unità indis-  solubile di identico e di diverso, di uno e di moltepUce, di uni-  versale e di particolare, di necessario e di contingente, nella quale  è la vita e la spiegazione del pensiero e del mondo ; unità, del resto,  di cui sentì pure il bisogno Rosmini, come in parte s'è visto e  meglio si vedrà nel capitolo ohe s^ue.   E per conchiudere intanto su questo punto, diremo che la ri-  flessione ontologica non è una operazione differente dalla riflessione  psicologica, che il Gioberti attribuisce al Rosmini; non potendone  differire pel metodo, poiché non ne differisce per l'oggetto, e non  potendo per questo differirne, poiché non esiste quella duplicità di  c^getto, che è presupposta dal Gioberti, e che ne sarebbe condi-  zione necessaria e sufficiente. L'immediatezza dell'intuito, come     .dbyGoosle     378 0. OmHle   forma del conosoere, esclude essa appunto ogni distinzione tra atto  d'intuire e oggetto intuito, siccome distrugge l'opposizione, che  pur presuppone col suo letterale significato, fra soggetto ed oggetto. Della proprietà delle parole. La parola , prima che fosse scrilla,è parlata : la parola parlata fu inventata da Dio,come abbiamo detto di sopra,elascritlurafuun trovatodell'uomo,einspeciedel sacerdozio , secondo l'opinione del Gioberti, La parola artificiale, come espressione dell'Idea, non è già ilVerbo ereatore, m a l'immagine del Verbo, cioè il vero Verbo dellamente umana;e quindiilveromedialoreidealetra lo spirito e l'Idea.Se adunque lo spirito contempla l'Idea a traverso della parola, egli è chiaro, che la parola dee yelare appena e non coprire l'Idea,come terso cristallo corpi sottostanti ; quindi ella dee essere trasparente, e in ciò consiste la sua semplicità e perfezione, Dalla sempli cilà dellaparola nasce la proprietàdellevoci,lapuritàe l'eleganza dei vocaboli ; le quali doli della parola si tra yasano nelle frasi,che esprimono l'unione armonica delle yuci mediante i concetti ; e per via delle frasiriverberano quindi nello stile, e generano la bellezza del discorso. I m perocchè il discorso è bello allora quando le voci,le frasi, e quindi lo stile che ne deriva, sono semplici,proprie, pure ed eleganti. Infatti la parola è semplice, quando vela a p pena ilconcetto,e non lo copre dinanzi all'occhio della mente, nel qual caso la parola è per l'opposto materialé, e oscura.L a parola è propria , se è un ritratto fedele del concetto che esprime ; ed è sempre tale , ogniqualvolta  266 linguaggio ; della precisione dei concetti mediante le dif finizioni ,e della loro partizione mediante le divisioni dell'organismo dei concelti mediante i giudizii ; delle pruove delle verità seconde mediante i raziocinii';.e in fine del processo della mente secondo il lenore obbieltivo delle idee mediante ilmetodo. Ma poichè in tuttequeste operazioni della mente si può cadere inerrore,ogni qual volta non si fa buon uso dei canoni logici e dellaloro applicazione , quindi entra innanzi la critica a giudicar dell'uso che si è fatto dei canoni logicali , mediante il giudicatorio supremo dei principii che sovraslano alle stes. seleggi.Diche noidividiamoluttalamateriadiquesto capitolo in tanti distinti articoli . conserva la suasemplicità. Quando la parola è propria mantiene a capello la corrispondenza perfetta tra l'Idea e il suo segno sensibile, se ella siguilica l' Idea increata, cioè l'Ente ;'e se ella esprime l'idea creata,cioè l'esistente è anche propria , oġniqualvolta conserva la corrispon. denza tra lamimesi e lametessi.Quindi è,che la lingua primitiva, la quale ebbe due parti, l'una divina,e l'altra umana, fu eminentemente propria ; imperocchè la parte divina di quella lingua consisiente nella rivelazione dei verbi originali manteóne,perchè divina,la corrispondenza tra l'Idea e il segno,e la parte umana,consistente nel l'invenzione dei nomi primilivi,mantenne ancora la cor rispondenza tra la mimesi e la metessi , perchè A d a m o pernominare isensibilicoiloroproprii nomi, lidedusse dagl' intelligibili, cioè dalla loro radice melessica. Quindi è,ancora , che nelladivisione delle lingue avvenuta pel fatto diBabelen,on re,che non abbia più o meno perdule e guaste molte pri. milive sue forme ; che non costi di n o m i e verbi anomali, eteroclili, difettivi, e di molte altre irregolarità di linguag gio , sicchè ogni lingua compare una rovinadel primitivo idioma. Quindi è finalmente,che gli scrillori autichiper che erano studiosissimi della proprietà delle voci c dello stile (onde le loro distinzioni dei varii generi di stile,te nué, mezzano, sublime ) perciò sono appellati classici, e sono isoli che abbianobuona scuola,cioè ispirano e pro ducono altri scrittorigrandi.  267 2. Abbiamo detto che dalla proprietà nasce la purità l'cleganza e la bellezza della lingua e dello stile;e quindi del discorso.E infattilavoce proprio nella lingua italiana importa il concelto di identità, cioè della medesimezza di una cosa con seco stessa:importa pureilpossessoche una cosa ha di sè medesima,perchè la cosaposseduta èquasi parte è in certo modo faltura eziandio del possidente. Quindi il vocabolo proprietà è spesso sinonimo di m e desimezia ;cosìl' amor proprio è l'amor di sè; è desso an, cora sinonimo di possessione ; così gli attributi specifici di una cosa,iqualine sono leproprietà,sono la cosa stessa, perchè le qualià e i modi degli esseri sono la sostanza m o dificata,valquantodirelamimesidella metessi.Adunque laproprietàdelparlarealtronon èchelacorrispondenza della mimesi colla melessi del discorso; la quale corrispoc   3. M a se la proprietà del linguaggio è la fonte di tulti i pregi del parlare e dello scrivere, la improprielà del parlare poi è una delle cause principali degli errori ontologici e logici, che producono la declinazionedellafilosofia,como avvertimino nella prima parte di questo corso. L'errore in generale altro non è che lo sviamento dell'intelletto nella cognizione della verità ; e come tale si distingue dall'igno, ranza , la quale non importa la cognizione alterata del vero,ma bensìla privazione assolutadella cognizione,E poichè al vero si oppone il falso; perciò siccome il vero si gnisica, in quanto è desso l'essere, così il falso n o n si goifica, secondo la bella espressione del Tasso, perchè € desso ilnon essere  268 denza costituisce la dialettica del linguaggio, e quindi la improprietà ne è la sofistica. Ora la purità delparlare i m porta la sua pulitezza, la quale è una speciedi proprietà; imperocchè la pulitezza,mostrando la cosa nella sua forma nativa, fa che la cosa sia identica a se stessa, yalquantodire che l'apparenza risponda allasostanza"; ilche importa in altri termini che la cosa abbia possesso di sè medesima. E poichè la politezza importa la scelta di ciò che costiluisce l'orpamento degli oggelti maleriali; cosi nella lingua l'ele ganza è inseparabile dalla purità delle voei.E siccome alla pulitezza si oppone l'immondezza, che illaidisce edeforma gli oggetti, così all'eleganza si oppone la vanità che li al. teraedeformacome sefosseunamaschera straniera:al. treltanto succede nella lingua e nello stile.Dalla stessa fonte della proprietà e semplicità del linguaggio scaturisce la bellezza dello stile e del discorso.Imperocchè quando il lin guaggio vela appena e non appanna l'idea o il concetto, se ne rende allora ilritratto fedele, come abbiamo detto di sopra ; nel quale caso l'idea increata o creata manifesta n a turalmente e senza ostacolo la sua luce diretta o riflessa nella parola . Ora il bello essendo lo splendore dell'intelligibile, sia assoluto,sia relativo, che sirivela a trayerso il sensibile, cosi quando la parola è semplice e propria, è a n cora bella necessariamente ; e quindi la bellezza del di scorso in sè raccoglie tulle le qualilà della parola e dello stile, cioè la semplicila e la propriela , la purità e l'ele ganza. > cio è il nulla c h e n o n h a , n è può a . vere virtù di significare. Ora le cause degli errori sirie ducono a due principali, onde le altre derivano, cioè ally   limitazione dell'uomo , e quindi delle su e facoltà , e a l l' a l terazione della parola,come espressione dell'Idea;ben'in leso però, che anche questa seconda dipende dalla prima , siccome dicemmo nella prima parte di questa Istituzione. Dalla limitazione dell'uomo e delle sue facoltà nacque lo sviamento del libero arbitrio in ordine alla legge, e quindi l'esistenza del male morale ; il quale fu cagione del male intelletsuale, inquanto fucagione del predominio del sen sibilesuil'intelligibilee dellepassioni sullaragione,onde deriva l'alterazione dell' Idea, e quindi l'esistenza del'l e r rore.Ma qualunquesia,diceilGioberti,lacausadellacor ruzione egli è indubitalo, che in origine l'alterarsi dell'Idea è congiunto equasi coetaneo a quellodellaparola;laddove in appresso,e nelcommercio tradizionale,ildisordine tra passa nei pensieri dai segni ; sicchè l'improprietà della parola è la causa, e l'errore èl'effetto. Imperocchè,quando Ja parola è impropria , siccome ella non mantiene più la perfettacorrispondenzatra l'Ideaeilsegnochelaesprime, cosi i concetti ideali sono travisati dai concetti sensibili in. chiusi nella parola, e l'Idea viene adulterala dalla metafora o dalla etimologia . Nel quale caso i concelti ideali si c o r rompono proporzionatamente,se giả , come avvertimmo altrove,una nuovarivelazione, o un magisterioesteriore, organato dall'Idea istessa , ñón impedisce tali corruzioni della parola, serbando incorrolta quellagenuina e originale corrispondenza fral'Ideà eilsuo segno esteriore.Idea gtnerale dell'opera, e tua diritieue in due libri. — La tloria delle religioni appar- tiene a snella della Blotofia. — Si ritolrono alcune obbieiioni in contrario. — Perpe- tuità della Blotofia. — Del metodo critico aegailo dall’ autore nelle rirerebe aloriebe. — Si liepolide ai nemici delle eonpilatìoni. — Del metodo dottrinale, oaaerralo dall' auto- re; perebd egli anteponga la. linloti all’ analisi. — Cenni sopra nn’ opera precedente.— Prorotsione cattolica dell’ autore. — RUpoala a ehi te aoeuta di eiaer troppo ratlolico. •— La moderazione' nelle dottrine non è oggi di moda. — Via {utile e compendiosa, per giungere alla gloria. <—In che senso l’ antere sìa sago del progresso. —Sua pro- trata, intorno alle persone generalmente; agli scritlori risi ed ai morti, in itpeeio. — Di Giorgio Byron. — Dei sentimenti , che mosiero l' auloro a scrirere. — Contro la sella degP Italogalli. — Funesti influssi della Francia. — Della eterodosna moderna in generale, e della filosofia germanica in particolare. — Gl’Italiani debbono filosofare da sé. — Dello stile filosofico. — Importanza della lingua in ordine alle cose. — {.odi ifi An- tonio Cesari. — Contro i cattisi amatori d’idee. — Dei parolai. — Contro la barbarie dello scrirere, che domina in Italia. — Della cbiaretxa, bresild, semplicità, precisione, c purezza del dettalo. — Esempi italiani di elocuzione filosofica perfette. — Del modo, con cui si può inoorar nella lingua. — Scusa dell' autore , intorno alla lingua e allo alile da lui adoperato. — Eaorlazioue ai giorani italiani. — L’Iililà della sera filosofia. — Elsa non dee sparenlare i buoni goreroi, né i buoni principi. — Sua opportunità, Gioberti Inlrud. Voi. I. 21 Digitized by Google   r lG-2 per ristorare la religione. — La Gloa^fia dee cucre collìfaU specialmente dai cbicrici. — Lodi del chiericato italiano. - Del sacerdoiio frnncese ; sua antica dottrina, e suo virtù io ogni tempo. — Del modo, eoo <ui li coltivano le lettere da oleum chierìci franoesi. ~Della parlecipasìonc dei chierici olla vita sociulo» —Della liberti cattolica nel culto delle dottrine. » Che il clero catiolico dee essere emìnenle anche nelle scìen* se profun<’, per sortire picnamt nte rt-netlo del suo o>ini^te/io. — Di certe sette politi* che, che nocciono alla religione. ~ Dei ti elogi laici, che ioondcAO la Francia: loro tracotanza. ^ Al'eanza della filosofia colla religione. La dottrina cattolica é la sola dottrina religiosa, che abbia un valore acientifico. — Come la novità si accordi coli*anti« chità nello cose filosoticlic. — Si concbiude, esortando gl* lioliaui a I. barare le sc cuse ipecuialve dai nuovi barbari. DELLE DOTTBLNE C.4P1T0L0 PU1.M0 Della dcelinaztone delle scienze spcculalive in generale. Cunirapposlo fra- lo sla o fìorcnle delle matetnatiche e fi*ichr, e lo s(|uallure della fihtsofìa ai ili nostri. » Sue cagioni gencr-chc. — Cobsidenuioui a <ju sia propos to sul'o stalo delia filosofia nelle varie parli d'Europa. —D.vario, che corre Ira le duii'ine fiancesi o U’de.-che, nato dalle loro diverse attinenze colla religione. — Di Renalo Descartes. ^ 1 semi'li moderni sono suoi d’srepoli assai piu legiilmi del Malebranche, e di altri antichi cartisiani. Dd panteismo germanico; temperalo dalle tr iduioni religiosa: l*idea «i è oscurata, non eslin a del tutto. ^ Di Emanuele Kant. Perelié t Tedeschi prot<‘Slanti furono io filosofia più a ioni dall' eaipielà, che i Francesi rallo(ici. ^ Dtver* sita d«‘ir ingegno spcculat vo, presso i Francesi e i Tedeschi. — Se ne cerca la causa nella storia, e nelle origÌr>i di queste due nazirni. — Delia tilosofia inglese : sue difie* n’nte dalla francese, e dalli germanica. — Dei fìloSvfi ftaìiaiii del secolo quiiidcciao, c del seguente. — Di Glambaitisla Vico : sue lodi. ~ Epiio{:o d.-I quadro. Della dedinazione degli eludi specidatici, in ordine al soggetto. lufeiiurilà speculaliia e rnoralo dei popoli modcToi, verso gli antichi. — La no-a speciale dciruoQio moJeroo è Ir frivoUzza. — La cagione di questo vizio è la debolezza della faiol.à volihva. — Inlluruza dtl voli re nella cogoiziouv, e oelf ingegno delP uomo. — La modioiriià letteraria dui moderni nasce dalle hggcrizza dei loto animi. — Esempi S 2»S * Digitized by Googic  es»e bi chiude il capitolo. . - Note. Aula prima. Siti diltflanti tpleoJ Jì c Itiili, elle h fanno Ja m.eilri. 71 1 1 ptincipii dal Ufi  Clw il inftoilo El<w>fict> »i J>e di durre dai principi!, e non I metodo. Il ig. Coiaio «.elude la «tiri» delle religioni da quella dtlU Bloiplia. Del cullo reciproco de’ moderni Rfillofi ff.nceii. Di una iKioea Enciclopedia. Sopr. OD* «poitigi. recefllo di Giorgio Djroa. 117 l'i. 1 lit 125 125 129 i6. 13t) 131 132 ii, i6. IM ii, Ai nemici delle wItiglieMf. Sullo lingua e luU' eluguenia francese. Sul primato della Fraocia. L'.terodomia modarna non i fono ancora al «uo fine. Della periiia di Paolo Luigi Cuarier nella lingua a negli icrillori italiani, Paw dal Letiinj; mila lobrielA « ammauralega degli antichi tceitlofi. Sull'uli-iU dei buoni giiirnali «ccletiailici. Pmm del Leibnu «olla libertà cattolica dcKii «eritteri, Querela del tig. Cousin eoutro il clero ffauceee. P«Mu del Leibnii contro i dùaipatori delle antiche dotUine. Sull' apoilaiia lU alconi prelati ruwù Delle cagioni della H>rorma. Che la tinceritA di Renato Denartei nel proretiani cattolico è per lo meno dubbia.- Il Malebranche non è earleeiano intorno al primo principio dellalua filoaoCa. 143 Clia il «ig. Coutin ha ao concetto mollo ineaatio dello Spinci.Mio. 144 Pawo del Courier tuH'iitiulo aotTilo dei moderni. 1^ ^ ; iò 5,  163 rcceoli e ìuliani di una Tolontà forte : Napoleooet e Vittorio Alfieri. — Lodi deli’ Al> fieli. — La fursa della volontà dipende in gran parte dall* educasioae. ^ Cbe co a sia r educatione. — Saa oeceuilA. — Delle varie forme, che prese 1’ educazione, tecoodo il ccM’to dei tempi e la varieii di'! popoli. — Po pubblica presso gli antichi ; qoasi pub- bloa nei basti tempi. » OelP opera dei chierici nell' iostitusione dei giovani. —> L’cdu* catione diveone pnvate, piesso i moderni. —Cagioni di ciò: false teorirlie in politica e IO pedagogia, inglesi e francesi. — Di G angiacomo Rousseau. — Errori del suo Emito. — Delle doUrìne poi tieba snlla liberti dell' ednratione. — Falsili loro. L’e* ducaaioQ^ manca quasi alTatto nello stato presente di Europa. » Difetti dei metodi vi* genti dell* insegnare. L’ias«gnameoto pubblico dee < ssere uno, forte, e dipendente dal* lo stalo. — Frivolezza dell' insegoamenlo cattedratico, quale si usa oggidì nei paesi più civili. » Dei giornali. — Diretti, e danni dei giornali, come per lo piò si scrìvono in Francia. *— Nuocono al'e lettere e al e sciente dalia parte di chi scrive, e di chi leg* ge. — Necessità dell’ iniìtiiuzione pubblica, e di un supremo poto<e educativo. — Quella non lìpugna ai costumi, oè questa alla libertà politica dei moderni. —> Che M»sa sia r iagfgiiu spccuUtivu. — D<2 tla setta dei sofisti moderni, e deg'ì artefici di parole. ^ Quàlìià loto. — Si chiamano a rtssrgoa le prìneipai diti diU’ ingegno sfeeulativo, e con  Pano d«l Leibnii tull’abbierion» morale JcrU onioi moderni. Sulla patria di Napoleone. Pano dfl tig. Cuusin mila balta«lia di Waterloo. Pel gioiliiio, che il tilt. Villeoiain ha recato mll' AlCeii. Sugli errori della pueriiia. ^ Sull* uUbU di tre clasii di gioroali. Soll’aliBio Jei generali. Lodi di alcuni illmiri eruditi fraaceii. Pano del Malebraoche augi’ iugegni friToli. In che modo il genio naiionale poeta imprimere la ma forma nelle icieate «peculatiee. Sull' indola morale, e lugli ulUnii UUmli del Goèlhc.    Diuu. Pag-   SCDU bill' iCTOKI.     Le lodi d'ililia nim sana oggi pericolose per la sua modcslio. —  Sano opportune, e perchè. — Scopo del preienle dilcorsa. —  L'aifluiui di CMO non t per ilcaa Ter» iiigiiiriUD agli tlnnieri.  — L* doUriiu del primalo itili IBO è necetMtfai per rÙHltun-  ziuie delle sci une flloMBclie neita pcniioli.   PASTE nanu.   Dell' Hlonooiia uwlnUi e rdtlin In genere. — Di qidia cbe con.  peti (He uDoni in paiticoUrc — Lt isdice dell' tiatononùi è  neDi virtù creatrice, — L'Italia è anlmMina peraccdiema; rau-  lonomia i la boM della mi* nMggionma. — DeOnitionE del pri-  mato italiano in noiTerale,— La petùxria per It ina poitora è il  centro monte del nondo civile. — Convenienu geogniGehe dell'  lUUa coir India e colla HeMpoUmia. -^-La religione b flprtndpal   / S)ndimeiito.del primato italiano. — II principio calttdieo è Ime-  panbile dal genio narionile d'Italia. — Opinione dei ghibellini  e del flloioll nominali a questo propoaiUi, e aun falsiln. — Del  Hachiavelli , del Sarpi e <li Amalitii ih ìlmcm. — Ln xt» iIiiL-  Irina naiionnle d'Italia i quella dei rufIIì e dei realisti. — ì!,s\iii-   cattolicismo e dall' Italia. — L'Italia è la nniiuuc creatrice: Suo  ing^DO inventivo, c sul) liuiilà delle sue opere. - Essa c pure la  naiione redentrice degli altri popoli, e non puA essere redenta     per open loro. —I papi non (nrono ! caoM della divisione iT ita-  lia, and lì mottnrono benemeriti In ogni tempo ddroniU iu-  liana ed enropea. — ObUeiionl e liipoile. — .Dei don nemici  perpetui dellt penisela. — Fati perpelui e glorie di Roma in ósni  tempo. — L'Italia non dee invidiare alle altre Milani la gran-  dena e la potenia disgiunte dalla gìnitliia. — Vino a qual segno  i coiHiuisU e II dominio temporale dell' antieo imperio romano '  sinno stati legitUini.— Gmdeiie supcnliti della modema BÓma.  — Della PMpapnda c ddle mitiioni. — Puagone del SiTerlo e  dd Boonaparte.— L^Iialia/itaempTB la più co9inopoK(Ìca delle  nanoni. — li auo principato si Tonda Mrratlutto nella religione,  j la quale di sua natura suvrasla a ogui cosa umnoa. — L' Italia tal '   in si lultc le cuii<ii£i<iiii ilei ^un nai limale c politica risorgimento,  \ sema ricorrere «Ilo somniossc iiilcsthie, alle imitaiioai e inva-  j sioni Farcsilere. — Dell' umane ÌUliaoa. — Essa non può uUenersi  colio rivoluiioiii, — [l principio dcU' unità il.iliani è il Pajia; il  quale jiiiii unilìenrc h penisola, mediante una confeclemiinne  ilc'suui principi, — Vanlnggi di una lega ilaliana. — Il governo  folemlivo è connalurale all' llalia, e il pili imturale ili lutti i  goterni. — Danni della centralità cccessita. — La sicoreiia e la  prosperità d'iLalia non sì possono conseguire altrimenti che con  un' alleaniB italica. — 1 lUrcslieri non possono impedire i]uett'  alleanza, e non che opporvisì , debbono deiideratlo. — Semi dell'  autore se entra a iliscorrcrc ili caie dì stato. — L'opinione nasce   Ida pìccoli principii , ma dee essere edncato dai senno della ni-  liane, — Dna province (oprattutlo debbom cooperare a ^TOfjr  l'opim'aue Hi-iriiiatì"imieiiVTlnnii « ti Piwnnnl>. _ ^Bìj^^ )jj \f  Itoma pei popoli, e sua imparzialità fra i pedali ed i prindpi. —  I L'onilA italica sareblie di grande utilità iWti religione cattolica , .   loro'genio. — Deli.i (]d.s;i ili S^ii.iia e luili. — .l[lincnzc c cor-  risponderne delle famiglie regnatrid tugl' incrementi civili dei  popoli. — itrfi^ nnn^^ ^pip rtr il Piemonte, n delle sorti  c he le Mno^reDiral|e ^\]f Ptnuy^fjm. — Delta concordia fra  T'popoli 0 i principi italiani. — D difetto di osa ta la cauta      principale del c)iM:atlinicnla d' Italia. — Errore ili chi .illribuÌKe  tal decadi nHMi lo nib qualità della stirpe o alla religione. — ti'in-   forlunia ilcgl' llaliaiii aiiehe pur quvsta parte iiarque dai fores-  tieri. — Frincipii di risurgiiiienlo nel secalo passala , e rili^nu  cìtIIì (alte dai ptiaeipi ooslrali. — Inlerratte dgfla rivolaiioiKi  rranceM , ora è il tempo opporUum di ripigiUrte. — Necessitai di  ordinare la pubblici opìaione. — Dne modi con cni quesla ai ap-  I>alc9a ; lit parola dei tmi e la alampa. — Della monarehia con-  ullatiia, e del Consiglio civile. — La Btarapa non dee essere  MTva , iiv liceniiusa. — La sala via per evitare amenduc gli  ccccs^ , ilà neir affidarne l'iodlriuo a un caniiglio censorio".  — nella iniportwii* della iiuapa per la civUU. — UtlliU della  signoria indivlH p« riRmnata gli siali. — Si esortai» I prineipi  ilaliani a toDdare l'amona d' Italia.— Del dirello delle rìibnne  nriii lane a leniate in Italia , dorante il secolo scorso. — Decli-   ii.ii e siitcessiva del genio iiaiiunale della penisola. — Iliscre-   iiiiiiii: 111 uiieslo genio da quello dei Francesi. — Critica del galli-  canìsmo. — Di Benigna Bassuel : censura riverente dell' ing^u  e itelle opere di qncslo gran teologo. —1 II sacardoiia primflivo  eUw dna poteri, l'ODO reHgloM e l'alln drile. — Pormola so-  ciale : La («roonui* erta MÌl gli ordini civili, — U ncerdoiio  è il Primo politico. — Ciisto rinnovA a compimenlo il sacerdoiio  primigenio. — Necessità del potere civile nel sacerdoiio cria-  liiino. — ( Lode dei Gesuiti del Paiaguai. — Il polerc civile della  Chiesa non toglie la dislùuione, che corre rra lo «lato civile e il  lacerdoiio. — Dea toma, par mi pam il poleniàTile dal Mce^  doxio, cioè la dillaliaa e failiitralo, canispondenli ai due cfcU  civili delle nazioni. — Legittimiti della dittatura ejerdiala dai  Poniclici del medio evo. — Il ciclo dittatorio Gniscc quando c   |jerioilo della dtilti'i lefulare il'lulia < crKiirops, — Dell'arbì-  tr.ilo, iraliiiso ilal sacerdoitn. — Il l'.ipa c l'unico [iiiocip io dell'   guerra. — La dittatura pontiScale non lurna inulìle in alcun     Icinpo ; MU applicaiiane presenle e foUin. — 11 I^pa è U prin-  cipio dell' anioDe d' lUlia. — Il polcn civile del Mnrdouo non  è contrario ali* ipirìlualiU e HnUU dclb rai indole e del suo  nìtuslerìD. -I Del (HtiiHiiùnm. — Crilict de'snoi prÌDcipii in-  tono tU* cotUluiiom della Cb'ma e al dogma caUolico. — Dei  doveri delle varie ciani dei dUadini, in ordine all'aoioDe d'IU'  lia, -/Danni cbe nascono dalle dottrine esagerate di libertii. —  Esortaiioneagli esuli ilalìaiii. —- Del dcbilo che linririu gl'llnliani   gli adalatoridei pririi'ipi. — l>i^i wihili, -- M ji.il ri/Min i' i!i[licil-  menle srilabilc nelle soeiclà civili. — Due specie iJi palriilalo;  fendala t civile. — U primo è im^nevole, Oioesto e vitupe-  ralo. — 0 secondo pnì euer lodevole e ntik, quando venga ac-  compagnalo da eerte condiuoni. — I cattivi nobili tono la rovina  delle nontrcbie. — Dei chierici secolari. — In che modo essi  pouano partecipare alle cose politiche. — I^i del chicrieala  Italiano. — Perch6 l' episcopato dì alcune province cattoliche sia  stalo Ulvolla per l'addielro men ragguardevole degli altri ordini  derieali. —(Del frati. — Apologia del m(MMchÌ«no. — Suoi  benefiri rÌq)«llo alla drilU etirqiei. — Quando traligna ai miri  rìfonnare, non abolire. — Dd moMchlinwwientalee delPocci-  dcntale. — Como ijueila si poiH rendere fmtluoio al nodro inri-  vilimento. — Danni che nascono dai diìoiirì degeneri. — In cbs  modo irrati possano influire salutarmeate nella politica ecotqM  rare ai progresai civili. — Essi debbono mettere ndl' opinione il  precipuo fondamento della loro vHa. — D colto ddle iciauie e  dèlie lettere in generale, ma i^edalinenie della aiosoBa, ddia po-  litica e dell'istoria si addice al loro minislerìo. — La scienia  ideale i inoiiaslìca [ter ecccllcnia. — Esurlaiionc ai venerandi  alunni dei chiu;lru ilaliaiio. — Della digniu'i clericale. — Gli ec-  ctcsiaslici debbunu guardarsi cautamenle dall' impicciolire o avvi-  lire le co» della rclìgiuiic. — Si uLbiclla che Ì popoli moderni  sono men grandi degli antichi. — Risposta. — Ddla lollerann  cristiana. — Perche nei tempi addietro violala In alcuni paeii-  — Tali viotaiioDÌ non si possono imputare alla Cbieta cattolica. —      Delk àoleeiia, |)ru(1enia e risi:rva clericali: nel dtspularr a nei  conversare. — Si rancluitc moslrando che il risorgimento d'ilalia  I non pai iver luogo , sa non ri rimetlono in onora gl'ingegni pri-  I vileglati, e non «i soUrae rindiiiuo delle cose ri TOlgo degli  j nomini oiediocrì.     nn HL TONO PIIMO.   S&SlOSS   La riflessione ontologica ferma, circoscrive, determina , chia- rifica l’Idea, cioè Dio: ma nella parola si rannicchia, s'incarna, si compie l’ Idea : la parola porge l’idea cosi rannicchiata ed incorni- ciata ed incarnata e compiuta alla riflessione. Qui covano , pare , molte contraddizioni. Se la riflessione, che chiarifica e ferma l'Idea; qual bisogno ch’essa Idea si rannicchi c si restringa nella parola? qual bisogno che la parola compia l’Idea, se la riflessione arreca distinzione, chiarezza, delineazione nella medesima? Se quel che fa la parola, fa la riflessione altresì, una delle due è superflua: am- metter l’una c l'altra, è metter luna in contraddizione dell’altra : supporre cioè che l’una non basti, senza l'altra, a ciò a che basta veramente. Mavia: prendiamol’una e l’altra perdelerminalricidel- l'Idea, cioè di Dio. 11 Gioberti diceva che nell'intuito l’uomo è as- sorbito dall’Idea, non la conosce neppure. Siccome dall'altra parte diceva eziandio, che « lo spirito trova se stesso in Dio e il mon- do in se medesimo »; ne viene che anche la riflessione è in Dio as- sorbita collo spirito : che il mondo lo è pure: e col mondo la pa- rola, parte di esso. In cotale assorbimento dell'uomo, della rifles- sione, della parola ; assorbimento che toglie ogni cognizione , non è assurdo c contraddittorio il dire che la riflessione e la parola , o tulle due insieme, servano a svegliare lo spirito assopito , esse assopite; servano a chiarire e determinare, esse confuse e indeter- minate nella universale confusione ed indeterminazione del Ciclo e della terra, del Creatore c delle creature ? n) Inlrod. li. p. 136-137. b) lìti pillilo rhe li'ga. e) Errori l. p. 201. Digitized by Google  )  55 Cosa sarebbe l'intuito Gioberliano ? a) la visione -di I)io crean- te; cioè della natura divina, dell’atto creativo, de’ termini di code- sto atto. Cos'è la parola? un segno creato b). L’intuito dunque do- vrebbe pure vedere la parola: la parola sarebbe parte della formu- la, intuita per natura da tutti gli uomini; chi* l'Ente creante non può essere veduto senza gli effetti del suo operare. Ma se nell’og- getto dell’intuito è la parola, è la riflessione altresì, come cosa creata anch’essa; se l’Idea col creare illustra c), e quindi deter- mina; illustra la parola altresì e la riflessione. Ecco nuova contrad- dizione e circolo nel dire che la riflessione e la parola servono a delincare all’intuito ciò ch’egli ha ad oggetto delincalo dalla natu- ra: illustrare ciò onde vengono esse illustrate. La quale contraddizione o circolo risulta da molte altre sen- tenze del Giebcrli applicabili al proposito presente. Sentenza sua è. di frequente, che i sensibili sono per sè inconoscibili; e solo per l’intelligibile, cioè per l’Idea, siano conosciuti. « L’apprensione sen- si sitiva non è un elemento intellettivo » </). 11 sensibile non può « essere pensalo altrimenti, che nell’intelligibile » r) « L’intelli- « gibile rischiara appunto i sensibili, perché li produce, come l’En- « te e i sensibili sono illustrali dall' Intelligibile, perché ne deri- « vano, come esistenze » Avca detto prima « l’Eute è altresì « l’Intelligibile, c le esistenze sono i sensibili ». Le creature so- no per sè inintelligibili, nè s’intendono che « in virtù dcU’intcl- g Errori i. p. 56. h) Errori li. p. 141. v) Ivi p. 163. l) Ivi p. 159-160. m) lntrod. ii. p. 14. n) Errori n. p. 45. un vero sensibile >. Errori i. p. 257. g) « Il sensibile è subbiedivo è inconosci- f). « ligibililà assoluta » n bile di sua natura » A): « è per se stesso inconoscibile e sub- ii bieltivo, non intellettuale, nè obbiettivo,. è rispetto alla nostra co- se gnizione un pretto nulla » i). « L'intelligibile (l’Idea, l’Ente) ii inonda lo spirito di un continuo chiarore, e gli rende conosci- li bili tutte le cose » l). Ora « La parola come ogni segno, è un , <i sensibile » m). Dunque per sé inconoscibile-, inintelligibile. Solo l’Idea, l’Intelligibile la rischiara, la illustra, la Ja intelligibile all’uomo. « Tanto è lungi, che la parola provi l'Idea razionale, che anzi que- ll sta dimostra l'autorità di quella. » n). « Questa (la parola) e la a) Dico sarebbe, perché il Gioberti stesso Io distrugge in mille maniere, come vedemmo, e vediamo rontimitinenle. t) Siccome it sensibile appartiene alla categoria delle esistenze, e queste pro- cedono dall'atto creativo, la parola b di tua natura un effetto della c reazione. L’idea -« crea «I segno che l’esprime . Primato, il. p. 15. e) Errori li. p. 352-353. ri) lntrod. n. p, 165. e) Ivi p. 166. f) Ivi p. 562. Qui de» esserci corso errore di stampa, o nella sostituzione deila voce Iati ad esistenti; o nella punteggiatura. Perche l'Eulc non deriva dall'Intelligi- bile come esistenza. Dovrà leggersi, crrdo, il periodo: « I.’ Intelligibile rischiara ap- « punto i sensibili, perché li produce, come l’Ènte; e i sensibili ccc. » Digitized by Google   56 « riflessione stessa ripugnano, se non sono antivenute o guidate da « un lume intellettivo, da cui, (e non dalla parola che per se stcs- « sa 6 un mero sensibile) l’evidenza e la certezza provengono » a). Come pertanto può dirsi che la parola « si richiede per ripensare « l’Idea »; che « il sensibile è necessario per poter riflettere, e « conoscere distintamente l'intelligibile »? b). Una cosa inconosci- bile per sé, non conoscibile che per l’Idea; come potrà servire ad illustrare, a chinrirc l’Idea, da cui riceve lutto il chiarore che pos- siede? L'idea illumina la parola; la parola illumina l’Idea? Non v’ha circolo qui c contraddizione? Che se amiamo trarne Inora qualciin'aitra, il modo non man- ca. Il Gioberti scrive talora, che « l’idea, incarnandosi in una for- * ma sensata, scade sempre dalla propria altezza » c). L’idea dun- que, se s'incarnasse nella parola, veramente scadrebbe secondo quel testo; perderebbe di sua perfezione. Come può stare pertanto che la parola, determini, illustri l'Idea, la compia, cioè la perfezioni? come può stare che l’Idea per compiersi c perfezionarsi s'incarni in un sensibile, che la guasta e la rende imperfetta ? La parola ch’è detta in un luogo dal Gioberti « un sensibile in « cui s'incarna Vintelligihile »; diventa in un altro « una copia mon- « diale, contingente e linita del modello divino, necessario e infi- « nilo, c un individuamenlo dell’idea eterna » d). Siccome questo modello c idea eterna è l'Intelligibile stesso, Dio; quindi la parola è una copia, un individuamenlo di Dio nel quale s’incarna Dio. E notate, che « tante sorti di parole create si trovano, quante sono « le specie della esistenza »; una parola matematica meccanica ed idraulica, che sono i numeri , le figure, i movimenti; una parola fisica, cioè i fenomeni di natura; una parola estetica c sono i ti- pi fantastici; una parola storica, c sono i fatti transitori o perma- nenti degli uomini, gli eventi ed i monumenti; una parola sovran- naturale, e sono gli avvenimenti ffrodigiosi e sensibili; una parola liturgica « ordita di emblemi e simboli; c infine una parola grani- li malicale, parlata c scritta, ma per se stessa arbitraria , c però « diversa dalle specie anteriori, che sono tutte naturali e) la (piale « serve ad esprimere i concetti dell’animo e quindi a tradurre ogni « altro genere di favella » /). Di tutte pertanto le cose create dee dirsi ciò che della parola grammaticale: sono sensibili in cui s'in- carna Iddio; sono altrettanti individuamenti di lui; che lo compio- no, lo determinano, lo fermano, lo circoscrivono, lo illustrano: quan- tunque siffatta incarnazione lo umilii veramente , sconci. a) Errori i. p. 208. b) Inlvofl. u. ii. li. e) Ges. Moti, tv: p. li. d) Prima!-» li. p. 10. e) Anche la parola sovrtwnnfurtile ? fi Ivi. lo abbassi , lo r Digitized by Google   57 Nasce però curiosità di sapere, perchè mai nella parola s’in» carni l'Intelligibile; ina nou « in quanto rispleude aU’intuilo ><: *ib- bene « in quanto riverbera (cioè ridette) sulla riflessione » in quel punto famoso di contatto che lega Dio coll’uomo ? La riflessione, si è detto, che mediante la parola circoscriveva , compiva l’idea o) ; quindi la parola preceder dovrebbe la riflessione. Ma se la parola contiene l’Idea in quanto riflette mila riflessione dell'uomo ; la ri- flessione sarà preceduta alla parola: così la riflessione va innanzi alla parola; e la parola va innauzi alla riflessione nella stesso tem- po. Eccoci di nuovo ucU’uno via uno. Se la dottrina della riflessione determinatrice e illustratrice deU'iuluito fosse vera, dovrebbe dirsi che la riflessione guida per mano l'intuito, lo signoreggia. Or bene di ciò fa le risa il Gio- berti contro i psicologisti: « lo aveva credulo finora che la cecità « sia la causa principale per cui non si scorgouo gli oggetti: ora « siccome l'intuito, non che esser cieco, è la fonte della risiane, e v la riflessione non cede, se non in quanto partecipa alla luce intui- « tira, dovremmo dire, alla stregua dei psicologisti, che tocca al « cieco il guidar per mano, non mica gli altri ciechi, (il che sa- « rebbe già degno di considerazione), ma chi 6 veggente in mo- ie do perfetto; cosa per vero singolarissima ». h) Bene slà. Ma quel- li l’Ontologo, che pone per una parte l'intuito del Sole stesso Eter- no Divino; e immagina dall’altra una riflessione e un inondo di pa- role che sono necessarie a determinare, fermare, ed illustrare il so- le, da che sono esse creale ed illustrate; quegli è che s'introniBtte di far guidare i veggenti perfettissimamcnle da’ ciechi; che si pensa di accendere il sole di mezzogiorno colle tenebre della mezzanotte. 11 Gioberti consuona al Rosmini nel riconoscere la necessità della parola per la riflessione. Differisce però dal medesimo nel- l’asscgnarne la ragione : per dir meglio: il Rosmini ne dà ragione, ('impossibilità di spiegar altrimenti la formazione delle idee astrai- le: il Gioberti non ne porge nessuna, c). Imperocché non sembra- mi prova quel dire che « il punto indivisibile , di cui abbiamo « discorso di sopra, » (il punto che lega Dio e l’uomo combacian- tisi), « non può esser termine del ripiegamento riflessivo, se non ve- « stendo una forma sensibile. E siccome non è sensibile per se stes- ti so, siccome versa in una mera relazione intelligibile, l’unico mo- ti ilo, con cui possa rendersi sensato, consiste nell'incorporazione « mentale d) di un segno, cioè della parola » e). Ma perchè quel o) I.a rbiama perciò . un semplice insinimentn necessario per mettere la ri- flessione in commercio colf intuito »; Errori i. p. 200, « Strumento riflessilo * p. 215. « Semplice segno insidine male » p. 2t9. » stimolo per mi rumineia «I al- « luorsi (l'iiniiiio umano), e il polline ette lo feconda »; Primato, II. p. 15: « occs- • sione, cagione, inslrnnirntale del lero ». Necessità della parola. Bello p. 137. 6) Introd. il. p. 134. e) Rosmini, S. Saggio, sezione V. p. 2. e. 4. a. I. Filo». Polii. Voi. p. 151-153. d) Incorporazione spirituale. c) Errori i. p. 201. Digitized by Google  58 punto, rhY' puro relaziono intelligibile, ohe anzi è la cagnizinne, ro- llio vedemmo , perché « non può esser termine del ripiegamento « riflessivo, se non vestendo una forma sensibile, se non renden- ti dosi sensato, se non incorporandosi in un segno »? Il Gioberti noi dice. Altri osserverà nondimeno che non solo noi dice ma nem- meno può dirlo nel suo sistema: che perciò é impossibile al Gio- berti di provare la necessità della parola. Egli afferma, che « l’uo- « ino nou può meglio nel suo stalo attuale riflettere senza parola, « che favellar senza lingua, vedere senz’occhi, c pensare senza cor- « vello. Senza il linguaggio l'uomo ha ragione; ma non uso di ra- ti gione, ha la riflessione in potenza, non in atto » a). Il che dice essere « applicazione speciale ili una legge generale dello spirito. La qual legge si è, che la riflessione universalmente non si può cser- « citare, se non mediante il concorso del sensibile coirintelligibile » l). Ora di quale dell»* due riflessioni, già distinte da lui, parla il no- stro autore? Dell’ontologica: perchè dell’altra confessa che « il sen- sibile è l’oggetto medesimo dell'alto riflesso, onde la parola non en- ti Ira necessariamente nel suo esercizio, se non in quanto tal ri- ti flessione si connette colla riflessione ontologica; imperocché il sen- " sibilo per essere pensato non ha d’uopo di un altro sensibile, che « lo vesta e lo rappresenti » c). lo nè ammetto nè ripudio tale ra- gione: ma l'ammette il Gioberti certamente. Dunque a sola la ri- flessione ontologica è la parola necessaria. Perché? perchè « in os- ti sa il sensibile non è somministrato daH'oggello dell’operazione « il quale è il stdo intelligibile i d). Sla codesto e falso: è falso che oggetto dell’ ontologica riflessione sia il solo intelligibile, se- condo il Gioberti. Non ci ha egli appreso che « la riflessione on- « tologica, tramezzando fra le due altre operazioni (intuito e rides- ti sione psicologica), abbraccia congiuntamente il soggetto e l 'oggetto « c li contempla con un allo unico? » c); che nella riflessione Oli- ti tologica lo spirito si ripiega sovra di sé in quel punto indivisi- « bile, in cui il soggetto tocca l’oggetto , c abbraccia quindi l’og- « getto medesimo , come intuito dal soggetto? » f). Dunque non è l'intelligibile solo, l’oggetto della riflessione ontologica; ma è il soggetto eziandio, cioè il sensibile, oggetto della psicologica. Ma se questo non ha ili bisogno di sensibile, di parola, per essere ripen- salo; se non n'ha bisogno l’ intelligibile, Dio, intelligibile per se stes- so: come n'avrà bisogno il punto in che si congiungono si legano si toccano si combaciano Dio e l’uomo ? l’nione di due termini, l’uno intelligibile per sé, l’altro per l'intelligibile, unione di' è relazione intelligibile', perchè avrà d'uopo di sensibili, di segni, ad esser og- getto di riflessione ? n’ Krrnri i. p. '20 fi. JThi|I. 201). r\ hi p. ini. di Iti. e Krrori t. p. 136, [) Iti p. 201. ,.  Digitized by Google   59 Che se « prima di credere alla parola, bisogna intenderla » a); la parola a nulla servirà se non in quanto sia già in quel punto, unione, unità, eh e la cognizione. £ se altronde la cognizione dovrà esser vestila della parola , per diventar riflessione ; la veste dovrà insieme essere il vestito, perché riflessione si ottenga, cioè cogni- zione vera , come la chiama il Gioberti. Questa è una di quelle « soluzioni ed avvertenze » di cui non v’ ha « il menomo vesti- li gio » in altri sistemi prima del Giobcrliano li). Il che niuno vorrà negareDella unicertalilà ecientifica dellafarmolu ideale. Aimcoio punto. Prtamiolo. — L* formolo roiionale dee contenere I* organismo degli eie- menti ideali.—Per conoscere questa organizzazione, bisogna riscontrare essa forinola 1 coll albero enciclopedico.^-L’enciclopedia si compone di tre parti , filosofia, fisica e matematica, cko corrispondono alle tre membra della iormola.—Della filosofia in ispe- cicr si stende per tutta la formolo.—Dell* ontologia, psicologia , logica, etica e ma- tematica ; come si connettano coi rari termini di quella. — Tavola rappresentativa deiralbero enciclopedico, conforme alC organismo ideale.—Spiegazione generica del- la tavola. —Dello scienza ideale. —Della teologia rivelata e della filosofia.—Princi- pato universale della prima.—Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Primato dell'ontologia fra le varie discipline filosofiche ; necessario, acciò queste siano in fio- re. —Della teologia universale. . 7 Digitized by Google   Articolo secondo. Delia matematica. — La matematica tiene un lnogo mezzano tra la fi- losofìa e |a fìsica —Insufficienza della filosofia moderna, per dare una teorica soddi- sfacente del tempo c dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell* oggetto loro, mediante la forinola ideale. 14 Articolo terzo. Della logica e (Iella morale. —Queste due scienze hanno ciò di comu- ne, che appartengono al termine medio della formolo. —Della logica in particolare, c delle varie sue parti — Dell* etica in ispccicr. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscontri. — Convenienze, che corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell* impe- rativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre momenti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal fisico, che ne conseguita. —Della pena eterna. 17 Articolo quarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della formolo. — Dei duo cicli generativi. —- Varie sintesi, di Cui si compongono. — Dell' ordine dell* universo. — Del concetto teleologico. — L* idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 26 Articolo quinto. DelCestetica. —Del sublime e del bello, t-Delle varie loro specie, e del modo in cui si connettono colla formolo. —Del inaraviglioso. 29 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesia- no. — Quindi i suoi tizi. — Gli stateti odierni, non hanno veri principii, perché man- cano della cognizione ideale. — 1 difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. —La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei bassi tempi. —Dell* apof- tegma del Machiavelli, che le instituzioni si debbono filirare veto i loro principii. —In che senso sia vero..—Benefici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.— Di Cesare, institufore della tirannide imperiale. — Connessila della licenza colle dottrine di Lutero e del Descartes. — Della idealità delle nazioni. — L* Idea é fonte del diritto. —Attinenze del dovere col diritto, c delle varie specie loro. —Della sovranità. — La sovranità assoluta è 1* Idea. — Della sovranità relativa c ministeriale. — Non si trova in separato nel governo o nel popolo. —La società non è d’ instituzione umana, ma divina. —Cosi anche il potere sovrano. —Due doti essenziali di questo potere , intorno al modo, con cui si tramanda e perpetua di generazione in generazione. — For- inola della politica. —Assurdità del suffragio universale. —La capacità dee,accompa- gnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indi- pendente dai sudditi. —La perfezione della sovranità consisto nell* unioqe del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. — Il sovrano non può mai farsi da sé in nessun ca- so. — Ogni potere sovrano è divino. — Inviolabilità del potere sovrano. — Delle rivolu- zioni, e dello con’rarivoluzioni: che cosa si debba intendere sotto questi nomi. —Laverà rivoluzione, essendo 1* attentato contro una sovranità legittima, è sempre, illecita. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi c anticati. —La mo- narchia é necessaria al di d* oggi alla libortà europea. — L' investitura della sovranità in una famiglia é inviolabile, corno il dominio privato. — Il potere ereditario, c la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all* inviolabilità del potere sovrano. —1 fautori del- la licenza invertono la formula politica. 31 Asticolo settimo. Epilogo. —L* idea divina ó la suprema forinola enciclopedica'. — Universalità dell’ idea divina. — L* ontologismo non é un metodo ipotetico, corno quello dei psicologisti. — Iddio è 1* Intelligibile: é 1* alfa e 1* omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filosofìa. Si  Dtll'a conservazione dellaforinola ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Definizione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocquc in ogni tempo ab- la scienza ideale. —Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi —Del razionali- amo teologico fiorente al di d’oggi. — Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La cri- tica storica dei ra/ionalisti pecca per difetto di canonica. —Il razionalismo confondo insieme i rari ordini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il raziona- lismo è un vero naturalismo, i— Del sovrannaturale : sua definizione. — Necessità di esso, per l’ integrità dell’ Idea. — Possibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordino sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l'Idea della ragione. — Nullità sintetica o filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesi- mo é la religione universale. — Non si può mettere in ischicra cogli altri culti. — Sua singolarità. —Le false religioni non distruggono l’ universalità del Cristianesimo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. -—Si confuta una sentenza del- lo Strausse. — Le false religioni sono lo sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cristianesimo sovrasta, e non Sottostà alla coltura più squisita. — La civiltà moder- na, che lo combatte, è una barbarie attillata Delle prove interne della .rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione dell' Idea, chfe vi è rappresentata. — O- scurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai la- vori sincrctici dell' ingegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspirazione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionali- sti. — L’ ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individuile dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. Dei popoli giapctici : loro divario dai Semiti. — Delle na- zioni madri. — Degl’Israeliti; conservatori dell’Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati -del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed essoterica. — Fondamento natu- rale, o universalità di questa distinzione. — Della ordinazione civile e religiosa degl' Israe- liti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica c tra- dizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa 'distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese essoterica la scienza acroamatica degl' Israeliti. — L’alternativa dcl- racroaraatismo c dclf essoterismo èia sola variazione, che si trovi nella storia dell' Idea rivelata. — Perchè Mosé non abbia insegnata espressamente i’ immortalità degli animi umani. — Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti.’— Falsità del loro metodo nel cer- care 1’ origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina esso- terica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti c i Gentili. — Del fìguralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle iustituzioni mosaichc. — La furinola idea- le e il telegramma , erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl* Israeliti.Dell' alterazione dellaformolo ideale. La barbarie non fu lo stato primitivo dogli uomini.*—La storia delle religioni tion comincia dal sensismo, — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primitiva. —Vicende civili delle nazioni. —Del patriarcato. —- Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto 1’ imperio ieratico. —'I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. —Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. —Il sacerdozio conservò le reliquie dell’ antica dottrina acroamatica ; fondò 1* essoterica. — In che modo la mitologia .é la simbolica potessero esser- opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della fi- losofìa gentilesca.—Riscontri . dell’antico c del nuovo paganesimo. —Vari gradi, per cui passò l' alterazione della forinola ideale', oscurità, confusione, dimezzamento e disorga- nazione.— Cagioni dell’ alteramente : predominio del senso e della fantasia; influenza del linguaggio sull’idea, e dell’ essoterismo sull’ acroamatismo ; dispersione dei popoli, perdita dell’unità universale. — Del culto dei fetissi. Di un doppio moto contrario, re- gressivo e progressivo, delle instituzioni religiose.—Esempi.—Quattro epoche della co- gnizione ideale: intuitiva, immaginativa, sensitiva e oslrattiva.-»-Se nel vario e succes- sivo alterarsi della forinola, si mantengano i suoi tre membri, e come? Tavola delle trasformazioniontologichedellafòrmolaideale, corrispondentiaivaristatipsicolo- gici dello spirito umano. —Dichiarazione della tavola. —Dell’ epoca intuitiva; corno 1' uomo ne sia scaduto. —Il mal morale consisto nella negazione del secondo ciclo crea- tivo.— Dei mezzi sovrannaturali per conservare lo stato intuitivo. —L'essoterismo fu l’oc- casione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fanta- stico c dell’ cinanatismo propri di questa epoca. — Indole poco scientifica dell’ ema- natismo. — Sua forinola. —w Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli cmanatisti. — Della loro dualità primordiale, e delle dualità successive. — Dell’ androginismo , e delle dee madri ; loro connessione coll’ emanati- smo. I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del Kincrctisino emanatistico. — Dei due cicli di tal dottrina: 1’ emanazione. *— Del ciclo remanativo: sua natura. —Corrompe la morale, c introduce il pessimismo. —Delle varie età cosmiche, secondo i miti di molti popoli Gentili. — come 1’ ottimismo c il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli em&ftatisti. —Degli aratori, della teofanie o logofanie permanenti e successive, e delle apoteosi. —Come il sovrintelli- gibile si trovi alterato fra queste favole. —Del politeismo; nato dall’ emanatismo. Sua indole, e sue varie forine. —Tutti i popoli politeisti conservano una reminiscen- za della unità ideale. — Dell’ idolatria : sua natura. — Del panteismo: ò una riforma ieratica dell’ emanatismo. —Il panteismo scientifico non potè essere il primo sistema nella via dell’ errore. — 1/ emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una mede- sima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —Proprietà speciali del panteismo. —Universalità del panteismo nel re* gnu dell’ errore. —Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. —Qual sorta di progresso possa avero Terrore. —Varie forme del panteismo* —Della condizione del sacerdozio i ——  201 Digitized by Google   dopo la rovina dello stato castale. —Dei Misteri, da cui uscì la filosofia laicale.— Dell’ateismo. —Questo sistema non potò essere anteriore al secondo periodo della fi- losofia secolaresca. —Si rigetta l! opinione di un ateismo indico antichissimo —Del sovrintelligibile. —Serbato in parte dai sacerdoti, o perduto affatto da' laici filosofan- ti, salvoclié dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia e della Grecia. —Dei tentati- vi antichi c moderni, per riedificare umanamente il sovrintelligibile. —Si conchiude, accomando brevemente il tenia del secondo libro NOTE. IQS Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell* Io e del Me. Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. 166 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. Del tempo e dello spazio, secondo il processo ontologico. Passi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. Della importanza, che la religione dà alla vita temporale. Degli attributi divini ontologicamente considerati. L Influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell'aziono umana. 172. Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. IL Sull*infinità del mondo. 173 Sugli assiomi di finalità o di causalità. 174 Se l'abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristia- nesimo? Sull’origine della sovranità in alcuni casi particolari. Dell'orgoglio civile. Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. L'idea di Dio non è solamente negativa. bit. Sulla voce rivelazione. Di varie spezie del razionalismo teologico. Dei miracoli posteriori allo stabilimento del Cristianesimo. Passo del Malebranche sull’idealità del Cristianesimo. Passo del Leibniz sulla rivelazione. . Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella risurrezione dei morti. Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esi- stenza degli angeli. I razionalisti confondono la dottrina acroamatica colla essoterica. Sul fatto di Babele. . Del sincretismo dei falsi culli, doma, mito e simbolo zendico, ISci culti barbari l’ Idea è esclusa dalla religione, c non dalla scienza umana. . 32. 33. 1/antropomorfismo e il psicologismo essoterico. 194 Del panteismo di Ulrico Zuinglio. 195 Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del razionalismo teologico. 19ti Sul psicologismo degli eretici. Ib. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fa- talismo.DELLA DECLIAAZIOSE DAGLI SITUI SPECl'LATIV I, I* OHUISE ALL' UGGETTO. Della Idea. — È primitiva, indimostrabile, evidente, e certa per sé stessa. — Necessità della parola . per determinare c ripensare l'Idea. — 1 progressi della cognizione ideale rispondono alla per- fezione dello strumento, con cui si lavora, cioè della parola. — Il linguaggio fu inventato dall' Idea, clic parlò sè stessa. — 1/ evi- denza c la certezza riflessiva abbisognano della parola. — Il sen- sibile è necessario per poter ripensare l’intelligibile. — L'Idea è l’unità organica, la forza motrice, e la legge governatriec del genere umano. — L'Idea è l’anima delle anime, l'anima della società universale. — Ella può oscurarsi, ma non ispegnersi affatto. — Del suo primo oscuramento, e degli effetti, clic ne seguirono. — Perdita dell’ unità ideale , c morte morale del genere umano. — Diversità delle stirpi. — Dell’ instaurazione sovrannaturale dell’ unità primitiva. — Del genere umano secondo l'elezione, sostituito al genere umano, secondo la natura. — La Chiesa è la riordinazionc elettiva c successiva del genere umano. — Vicende storiche della Chiesa. — Colla perdita dell’ unità ideale venne meno al genere umano la sua infallibilità,chepassònellaChiesa.—Quandoil genereumano riacquisterà questo privilegio. — Chi è fuori della Chiesa, è fuori del genere umano. — Composizione organica della Chiesa. — Chiesa c conservatrice e propagalrice dell’ Idea : unisce il prin- cipio della quiete a quello del molo. — Delle forinole definitive della Chiesa. — Della scienza ideale, razionale e rivelata. — Attinenze reciproche di queste due parti. — La scienza razio- nale, o sia la filosofia, si distingue in due grandi epoche, ciascuna delle quali corrisponde a una rivelazione. — Il nesso fra la rivelazione e la filosofia è la tradizione. — I.’ alteramente della tradizione, e quindi della verità, fu nella sua origine una confusione delle lingue. — L* effetto di questa confusione fu il gentilesimo. — L’organizzazione ecclesiastica è la sola via, con cui si possa conservare intatta la tradizione. — Della Chiesa giudaica, c della sua diversità dalla cristiana. — La filosofia gentilesca avea colla rivelazione primitiva una relazione diversa da quella, che corre tra la filosofia cristiana c la rivelazione evan- gelica. — Due tradizioni, religiosa c scientifica. — Due classi di sistemi filosofici; gli uni tradizionali e ortodossi; gli altri anli- tradizionali ed eterodossi. — I primi suddividonsi in progressivi, cregressivi.—Qualitàprincipali,percuii sistemieterodossisi distinguono dagli ortodossi. — La filosofia ortodossa è perpetua. — Vari modi, con cui i sistemi eterodossi possono rompere il filo della tradizione. —Tre.età della filosofia cristiana. —Dell’età moderna.—Delpsicologismo: definizionediesso,edell'onto- logismo, che gli è contrario. — Il psicologismo è l'eterodos- sia moderna delle scienze filosofiche. — Renato Descartes è il suo fondatore ; gran matematico , meschinissimo filosofo. — Paralogismi puerili del suo metodo. — Presunzione intollerabile del suo assunto e delle sue promesse. — Cagioni, per cui il Car- tesianismo invalse, ed ebbe una certa voga. — Due dottrine c due letterature in cospetto P una dell’altra, tra il secolo decimoquiuto c il sedicesimo. — Abusi e disordini, che allora regnavano. — Necessità di una riforma’ cattolica. — Tre riforme eterodosse ; due religiose, la terza filosofica. — Il tedesco Lutero, e l'italiano ocino, autori delle due prime; il francese Descartes, della terza. — Vizi della Scolastica, che prepararono gli errori più moderni. — Analogia del metodo protestante col metodo cartesiano. — Il Descartes non liberò la filosofìa, come oggi si crede, ma la ridusse  WS in scrvilu. —Contraddizioni ridicole della sua dottrina. —Il Descartes non somiglia a Socrate pel metodo, ne a Platone per la teoricadelleideeinnate.—Vizidelpronunziatocartesiano: io pento, dunque tono. — Il sensismo nc è la conseguenza. — Assur- dità del sensismo. — Il predominio del sensismo ha impicciolita — la filosofia moderna. — Danni recati da esso agli studi storici. — La religione è la chiave della storia. — La filosofia nata dal ('.ar- tesianismo si divide in cinque scuole. — Del razionalismo psico- logico diverso dall’ ontologico. — Due classi di filosofi francesi. — Di alcuni eclettici francesi in particolare. — Si annoverano i diversi vizi e inconvenienti dell' eclettismo, e quelli del psicolo- gismo. — Obbiezioni dei psicologisti : risposta. — Del senso ontologico. — L'ontologismo è conforme all’ indole e al processo del Cristianesimo. — llicpilogazioue delle cose dette in questo capitolo. DELLA FOIJIOLA IDEALI. I Che cosa s’intende per forinola ideale. — Metodo, che l’autore si propone di tenere in questa ricerca. — Del Primo psicologico ontologico c filosofico. Il Primo filosofico abbraccia i due altri. — Varie dottrine sul Primo psicologico e ontologico. — Teorica di Antonio Rosmini intorno al concetto dell’ente consideralo, come Primo psicologico : si riduce a quattro capi. — Critica del sistema rosminiano : il Primo filosofico è l’Ente reale. — L'Ente reale è astratto e concreto, generale e particolare, individuale e universale nello stesso tempo. — La filosofia moderna erra spesso, mutando il concreto in astratto. — Vari generi di astrazione c di compo- — sizione. — Il Primo filosofico contiene un giudizio. — Doti spe- ciali di questo giudizio : 1° consta di un solo concetto, che si replica su se stesso ; 2° è obbiettivo, autonomo e divino, vale a dire, che il giudicante è identico al giudicalo. — Il giudizio divino essendo il primo anello della filosofia, questa è una scienza divina e non umana nel suo principio. — Il giudizio divino, con- tenuto nel Primo filosofico , non basta a costituire la forinola ideale. — Ricerca di un altro concetto per compiere la formola. — Della nozione di esistenza : analisi del concetto e della parola. — Egli è impossibile il salire logicamente dal concetto dell’ esis- tenza a quello dell' Ente. — Bisogna adunque discendere dal con- cetto dell' Ente a quello di esistenza.— Necessità di un concetto in- termedio per effettuar questo transito nel processo discensivo. — L’idea di creazione è il legame tra le due altre. — Obbiezioni controdiessa: risposta.—IIprocessopsicologicocorrispondeall’ ^ontologico. — Lo spirito umano è spettatore continuo, diretto e immediato della creazione. — L'idea di creazione contiene un fatto primitivo c divino, che è il primo anello delle scienze fisiche e psicologiche; quindi tutta l’ umana enciclopedia è divina nel suo principio. — Compimento della formola ideale. —- Altro giudizio contenuto in essa formola. — Distinzione c inseparabilità psico- logica dell’Ente e dell’esistente. — Del vero ideale e del fatto ideale.—Obbiezionecontroil nostroprocessoideale:risposta. — Dell’ organismo ideale. — Problemi metafisici, che non si pos- sono risolvere , se non colla nostra formola , e ne confermano la verità. — 1° Del necessario c del contingente. — 2“ Dell’ intelli- gibile. — 3° Dell’ esistenza dei corpi. — Cattivo metodo di molti filosofi nel combattere l’idealismo. — 1° Dell’ individuazione. — !i° Dell’ evidenza c della certezza. — Possibilità del miracolo provata a priori. — Nuove obbiezioni contro la formula ideale : risposta. — 6° Dell’ origine delle idee. — Vari sistemi dei filosofi su questo punto. — Critica della dottrina rosiniuiana, che tulle le idee nascano da quella dell’Ente, per via di generazione. Esposizione sommaria della nostra dottrina sull’origine delle idee : si riduce a tre capi. — Convenienza della nostra dottrina con un pronunzialo del Vico. — 7° Dei giudizi analitici c sinte- tici. — Esposizione della nostra dottrina sulle varie classi di giu- dizi sintetici. — 8° Della natura del raziocinio. — Cenni su altre quislioni, che si attengono alla nostra formola. — L’aver dis- messa o trascurata l’idea di creazione è la causa principale degli orrori filosofici. — Vane promesse ilei moderni eclettici, c flebo- — lezza della filosofia presente. — Per ristorarla, bisogna abolire il psicologismo. — Il Cristianesimo rinnovò la forinola ideale. — Ili santo Agostino : sue lodi : fondò la scienza ideale. — Della scienza ideale cattolica : sue prerogative. — Degli Scolastici : loro difetti. — Del nominalismo e sua influenza sinistra nel rea- lismo. — In che consista il perfetto realismo. — Si critica il principio fondamentale di Cartesio colla scorta della formola ideale. — Di Benedetto Spinoza. — Tre epoche della filosofia te- desca. — L’ontologismo dei panteisti tedeschi è solo apparente. — Critica del loro sistema. — Vizi del panteismo in generale. — Convenienze del panteismo coll' eterodossia religiosa, e in ispecie colle opinioni ilei protestanti, c con quelle degli Ebrei, dopo la divina abrogazione del loro culto. 1 44» prima..  Le sensazioni sono segni delle cose. Passo del Leibniz sul nesso del pensiero colla parola. 279 Sulla base ontologica della veracità. 281 Indivisibilità morale ilei Papa c della Chiesa. 282 Sullamutabilitàdelvero,secondoi panteisti. 283 Sulla universalità logica dell’errore. 285 Passo dello Spinoza sull’ ontologismo. 283 Passo del sig. Cousin sul psicologismo del Descartes. 28(1 Giudizio del Leibniz su Cartesio c sulla sua dottrina. 287 Del valore del Descartes nelle scienze fisiche. 28S Parere di Cartesio sulla speculativa dei matematici. 292 Passo del Mcujot su Cartesio. Ih. Dei furti letterari del Descartes. 293 Esame dello scetticismo cartesiano. 293 Passo dell' Aucillon sullo stile del Descartes. 29!) Della presunzione e dell’ arroganza del Descartes. Sopra una sentenza del Vico. .706 A che e (Trito i capi della Riforma scemassero il sovrin- telligibile rivelalo. 307 Che gl’italiani hanno l’ingegno scultorio. Ib. Divario tra i Sociniani e i moderni razionalisti. Ib. Esamedell’opinionediCartesiointornoalsuorogito. 308 Sul IVo di Lutero. 328 Sul circolo vizioso del Descartes. 329 Esame dell’opinione cartesiana, che Iddio possa mu- tare le essenze delle cose. 333 Vera idea della filosofia socratica c platonica. 314 Sulle idee innate del Descartes. 343 Sopra una sentenza del Thomas. 316 Passo del Leibniz sul Cogito di Cartesio. 317 Il secolo attuale continua il precedente. Ib. Passo dello Stewart sulle sciocchezze dei filosofi. 348 Passo del sig. Cousin sugli studi forti. Ib. Sulla religione di Napoleone. 349 Critica di due opinioni del sig. Jouffroy. 331 Il sig. Cousin non conosce il sistema del Malebranche. 361 Quando nacque la filosofia moderna , secondo il sig. Cousin. 366 Dell’ ontologismo cristiano. 367 Vari passi del Malebranche sulla visione ideale. 369 Si esamina la dottrina del Rosmini sulla visione ideale. 377 Capitolo primo. L’ente ideale del Rosmini è insussis- tente, benché non sia subbiellivo. Capitolo secondo. L’ente ideale del Rosmini è obbiet- tivo c assoluto, benché si distingua da Dio. Tassi di san Bonaventura c di Gersonc sulla visione ideale. 444 Medesimezza del concreto c dell’astratto, dell'indivi- dualeedelgeneralenell’ordinedellecoseassolute. 132 Passi del Malebranche e ilei Leibniz sull’ eloquio ideale.Sulla confusione dell’ essere coll’ esistere. 4556 13. / l’asso del Vico sul divario, che corre fra le voci 4 I I essere ed esistere, e sull’ uso improprio, che ne fa il Descartes. tb. Passi del Descartes, in cui questo filosofo sinonimo l ’ essere coll’ esistere. 437 Sulla voce esistenze adoperata nella formula. 439 Sulle nozioni del necessario, del possibile, del con- tingente, e sui principii, che ne derivano. Ib. Della dualità ideale. 462 Passo del Malebranche sulla impossibilità di di- mostrare l’esistenza dei corpi. 463 Sulle convenienze del sistema cartesiano collo Spi- nozisrno. 464 Passo del Leibniz sullo stesso proposito. 468 Sopra due obbiezioni del Paulus contro il sistema dello Spinoza. Ib. Cenno sulle tradizioni panteistiche dei Rabbini. 471 Di una opinione dell' Hegel tolta dal Leibniz.DELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. Articolo primo. Preambolo. — La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella forinola. — Della logica in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. — Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’ idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell' estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni. — Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. — Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si tramanda  c perpetua di generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filo- sofia.  de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’ ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti.  DELL’ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet-  luazione di esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria : sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore. — L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. — Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’ opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. — Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE. Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio Della importanza, che la religione dà alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati. 190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari. 410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430 Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431 Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti, -toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla religione, e non L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4DELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella  forinola. — Della logica in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. — Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’ idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell' estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni. — Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. — Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si tramanda  c perpetua di generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filo- sofia. de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’ ermeneutica  di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 CAPITOLO SETTIMO. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- luazione di esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ;   Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria : sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore. — L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. — Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’ opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. — Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. Della importanza, che la religione dà alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati. 190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari. 410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430 Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431 Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti, -toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla religione, e non  L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella  forinola. — Della logica in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. — Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’ idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell' estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni. — Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. — Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si tramanda 461 c perpetua di generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filo- sofia. . de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’ ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- luazione di esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ;  Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria : sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore. — L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. — Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’ opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. — Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE. Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio.  Della importanza, che la religione dà alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati. 190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari. 410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430 Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431 Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti, -toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla religione, e non  L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. DELLE CONVENIENZE DELLA FORIOLA IDEALE COLLA RELIGIONE RIVELATA. Scusa dell’ autore. — Il sovrintelligibile e il sovrannaturale sono i due perni della religione. Analisi del primo. Si escludono le false origini, che si possono assegnare al concetto, che Io rap- presenta. — Della sovrintelligenza. — In che consista la natura speciale di questa facolti. — Sua analogia coll’istinto. — Del sen- timento, che l’uomo ha delle sue potenze non esplicate. — Defi- nizione delia sovrintelligenza. — Come il concetto negativo del sovrintelligibile nasca da questa facoltà. — Obbiettività del so- vrintelligibile ; adombrata dalla filosofia orientale. — Analogia del sovrintelligibile col numeno di Emanuele Kant : sbaglio del criticismo. — Dei sovrintelligibili naturali. — Attinenze del so- vrintelligibile cogl’ intelligibili. — Come il sovrintelligibile debba essere riconosciuto e rispettato dalla filosofia. — Dei sovrintelli- gibili rivelati. — Loro importanza, e armonia coi dogmi razio- nali. — I sovrintelligibili della rivelazione hanno un margine indeterminato. — Del sovrannaturale. — In che consista, e sue attinenze colla formula. — Connessione del suo concetto colla magia dei popoli pagani. — Varie spezie di sovrannaturale. — Necessità dell’ idea di sovrannaturale per la filosofia della storia : sua importanza per la filosofia in genere. — Il sovrannaturale appartiene al secondo ciclo creativo : sue relazioni con esso. — Dimostrazione a priori della realtà dell' ordine sovrannaturale. L’ alterazione di quest' ordine costituisce il regresso. — Della    forinola sovrannaturale : sua corrispondenza colla razionale. — Del ciclo cristiano : sua risoluzione. — Della Chiesa ; com' ella sia il perno dell’ incivilimento. — Del sincretismo delle sette cris- tiane eterodosse, e della idolatria rinnovala per opera loro. — Confutazione di un passo del sig. Guizot sull’ unità religiosa. — Della superstizione : in che consista. — Del processo a priori della fede cattolica. — Due cicli rivelativi corrispondenti ai due cicli creativi. — Necessità della fede per ben filosofare. — La fede sola colloca l’uomo nel suo stato naturale. —Ragionevolezza della disciplina cattolica. L’ educazione ideale è impossibile fuori di essa. — Lo scetticismo esclude la vera grandezza, anche umana, dell’ ingegno. — La fede è libera, e in ciò consiste il suo merito.—Tredotidellafedecattolica, utilissimeall'uomoeal filosofo. — Efficacia di questa virtù, per avvalorare l' ingegno on- tologico. — Quanto all’ abito ontologico conferisca la credenza del sovrannaturale. — Tutte le virtù teologali influiscono profit- tevolmente nell’ uomo pensante e operatore. — Della vera misti- cità, e sue differenze dalla falsa. — Empietà dell’ autonomia razionale. — Necessità della fede per la conservazione dei princi- pii ideali. — L’ incredulità moderna è la cagione precipua della debolezza degli animi c degl’ingegni. — Utilità dei misteri in genere per l’abito filosofico. — Si considerano, per questo ris- petto, alcuni misteri in particolare. — Della predestinazione, e della eternità delle pene. Della inviolabilità scientifica della teologia. — Di certi novellini teologi, e della temerità loro. — L’invenzione nelle cose ideali è impossibile. — Della giovinezza perpetua del Cristianesimo cattolico. — Di una certa classe di gementi, che credono morta o moriente la religione : si combat- tono i loro timori. — Della larghezza dell’ Idea cattolica : sua utilità per le scienze in generale. — Necessità della filosofia per far fiorire la teologia, come scienza. La teologia e la filosofia hanno bisogno l’una dell’altra. — Delle cagioni, per cui la teo- logia cattolica c scaduta dal suo antico splendore. — Il clero cat- tolico dee essere un concilio di sapienti. — Dee coltivare special- mente le scienze filosofiche. Dell’ acroamatismo ieratico, ch'egli si dee proporre. — I laici, che coltivano la filosofia, debbono incominciare una nuova era razionale, sotto la sovranità intellet- tiva della Chiesa. La filosofia eterodossa, che regnò finora, è morta per sempre. Si concbiude il capitolo e il primo libro, esortando gl' Italiani a intraprendere l’ instaurazione delle scienze speculative.  Sulla voce essenza. Del sovrintelligibile presso i filosofi eterodossi. Attinenze del sovrannaturale col sovrintelligibile. 16£ Del sovrannaturale iniziale c finale del Cristianesimo. Del sovrannaturale transitorio o continuo. Su alcuni passi del sig. Guizot. Sopra un cenno teologico del sig. Nisard. Sul fatto morale della giustificazione. Sulle varie epoche filosofiche della storia. Delle idee pure.Sul valore teologico dei razionalisti tedeschi. Il decadimento della filosofia prova la verità del cat- tolicismo.Grice: “Italians find it harder than the Germans to conceal their nationalism. Hegel is studied everywhere, but Gioberti is felt to be TOO Italian, and he is. There are not two sentences in Gioberti that do not mention Italy! Hegel could philosophise on being (the absolute being is the King of Prussia) – but philosophers elsewhere took his remarks in a generalized way, not a German way. Unlike with Gioberti, who cannot hide his ‘italianita’. The fact that Mussolini wrote on him did not help. And that, along with Gentile, and the Italian mainstream intelligentsia, the Italian risorgimento is only a stone’s throw away from Fascism!” Grice: “Lorenzo Giusso, whom I like, wrote a bio of Gioberti which I thought the best, it’s in Vita e Pensiero, and in the series, “UOMINI DEL RISORGIMENTO” Gives him sense!” -- Vincenzo Gioberti. Gioberti. Keywords: del bello, estetico, il bello, metessi, implicatura metessica – mimesi – Plato on mimesis and metexis, protologia, ontologismo, statua all’aperto, Milano – nella serie uomini del risorgimento, bruno, gentile. -- Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Gioberti," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia

 

Grice e Gioia – filosofia ad uso de’ giovanetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Piacenza). Filosofo italiano. Grice: “I joked with the maxim, ‘be polite’ – surely it’s difficult to make that universalisable into the conversational categoric imperative (‘be helpful conversationally) – but apparently Italians are less Kantian than I thought!” -- Grice: “I love Gioia; he is like me, an economist when it comes to pragmatics – see my principle of ECONOMY of rational effort; I studied thoroughly his fascinating account about the origin of language, before I ventured with my pritological progressions!” Dopo gli studi nel Collegio Alberoni veste l'abito talare, mantenendo tuttavia un orientamento di pensiero tutt'altro che ortodosso tanto in filosofia, per l'influenza dell'utilitarismo di JBentham, dell'empirismo di  Locke e del sensismo di Condillac, quanto in teologia per l'influenza del pensiero di Giansenio.  Il suo interesse si rivolge ben presto anche alle questioni politiche. Vince il concorso bandito dalla Società di Pubblica Istruzione di Milano sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia", alla quale partecipano 52 concorrenti. La sua dissertazione, in cui sostiene la tesi di un'Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni democratiche e basata su comuni elementi geografici, linguistici, storici e culturali, prefigura, come la maggioranza di quelle presentate, l'unità italiana, benché questa tesi non sia gradita ai francesi che in quel periodo occupano il nord Italia. La notizia del premio ricevuto gli giunge però in carcere. Nel frattempo è stato arrestato con l'accusa di aver celebrato a scopo di lucro più di una messa al giorno, anche se sono in realtà le sue idee politiche giacobine a renderlo inviso all'autorità. Viene scarcerato grazie, forse, alle pressioni di Bonaparte, e ripara a Milano. Il Trattato di Campoformio, con la cessione di Venezia ad Austria da parte della Francia in cambio del riconoscimento austriaco della Repubblica Cisalpina, lo spinge però ben presto a diventare oppositore della Francia.  Dopo aver rinunciato al sacerdozio, si impegna nella professione giornalistica fonda "Il Giornale filosofico politico", stroncato dalla rigida censura austriaca per le posizioni sempre più apertamente patriottiche che Gioja vi sostiene. Dalle colonne del "Giornale Filosofico Politico" scrive una lettera aperta al duca Ferdinando d'Asburgo-Este, in cui denuncia i danni patiti in carcere. Bonaparte viene sconfitto dalle truppe austriache nella Battaglia di Novi Ligure e Gioia viene arrestato nuovamente dagli austriaci, per essere scarcerato in seguito alla vittoria francese a Marengo. Viene nominato storiografo della Repubblica Cisalpina: l'anno successivo pubblica "Sul commercio de' commestibili e caro prezzo del vitto", ispirato dai tumulti per il rincaro del pane, e "Il Nuovo Galateo". Viene rimosso dalla carica per le polemiche seguite alla pubblicazione e alla difesa del suo trattato "Teoria civile e penale del divorzio, ossia necessità, cause, nuova maniera d'organizzarla"  L'apprezzamento per i suoi solidi e realistici studi di economia e di statistica, ai quali sono prevalentemente rivolti il suo interesse e la sua attività, gli valgono però la nomina alla direzione del nascente Ufficio di Statistica: in questa veste inizia una febbrile attività fatta di studi corredati da tabelle, quadri sinottici, raffronti demografici, causa di nuove ed accese polemiche e della rimozione dall'incarico. Tale attività gli rese uno dei primi studiosi ad applicare i concetti di Statistica alla gestione economica dei conti pubblici (ad esempio per le tasse, gabelle, e così via). Grazie alle sue conoscenze statistiche ed economiche elabora concetti fortemente innovativi per l’epoca che ne fanno il precursore del moderno dibattito giuridico in materia di risarcimento del danno alla persona con una concezione che supera la questione patrimoniale.  Notissima in medicina legale la sua regola del calzolaio, che anticipa il concetto di riduzione della capacità lavorativa specifica:  "...un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più che a fare una scarpa; voi gli dovete dare il valore di una fattura di una scarpa e un quarto moltiplicato per il numero dei giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi..".  E ancora, seppur meno noti, concetti come: "Ne' casi d'indebolimento o distruzione di forze industri, considerando il soddisfacimento come uguale al lucro giornaliero diminuito o distrutto, moltiplicato per la rimanente vita utile dell'offeso, noi restiamo molto al di sotto del valore reale, giacché una forza umana può essere riguardata come Mezzo di sussistenza Mezzo di godimento Mezzo di bellezza Mezzo di difesa   Filosofia della Statistica (libro originale) “Rendendo paralitico, per es., l'altrui braccio destro o la mano, voi togliete al musico il mezzo con cui si procura il vitto divertendo gli altri, al proprietario il mezzo con cui si sottrae alla noia divertendo se stesso, alla donna il mezzo con cui gestisce e porge con grazia, a chiunque il mezzo con cui si schernisce da mali eventuali difendendosi".  Si tratta di principi rivoluzionari per l’epoca, forse frutto di quel particolare mix di cultura che deriva dalla sua formazione che inizia da sacerdote e approda a concezioni rivoluzionarie; è il primo che riesce a prefigurare nell’uomo non solo una sorta di macchina che produce reddito, ma anche un soggetto che attraverso il lavoro realizza la propria personalità. In Italia oltre un secolo e mezzo dopo, negli anni ’80 del novecento, in sede giuridica inizierà il dibattito sul superamento del risarcimento del mero danno patrimoniale per tener conto degli aspetti relazionali e dinamici della persona riassunti nel concetto di danno biologico. Sul filone di queste tematiche gli veniva intestata a Pisa un'ssociazione scientifica medico giuridica che raccoglie giuristi, medici legali e assicuratori.  Il "Nuovo Galateo" Testo fondamentale nella storia dei Galatei, il "Nuovo Galateo" di Gioja fu scritto per contribuire alla civilizzazione del popolo della Repubblica Cisalpina. Il testo conosce ben tre edizioni. La prima si sofferma in particolar modo sulla definizione laica di "pulitezza" – cf. Grice, ‘be polite’ -- intesa come ramo della civilizzazione, arte di modellare la persona e le azioni, i sentimenti, i discorsi in modo da rendere gli altri contenti di noi e di loro stessi. È divisa in tre parti: "Pulitezza dell'uomo privato", "Pulitezza dell'uomo cittadino", "Pulitezza dell'uomo di mondo".  Nella seconda edizione, Gioja ridimensiona il concetto di "pulitezza" come l'arte di modellare la persona, le azioni, i sentimenti, i discorsi in modo da procurarsi l'altrui stima ed affezione. La vecchia ripartizione è sostituita da: "Pulitezza Generale", "Pulitezza Particolare", "Pulitezza Speciale". Nella terza edizione risale, a differenza dell'edizioni precedenti, enfatizza l'importanza del concetto di "ragione sociale", considerato dall'autore il fondamento etico del galateo che avrebbe portato felicità e pace sociale mediante le buone maniere. Fu membro della Loggia massonica "Reale Amalia Agusta" di Brescia, che prese il nome dalla moglie del principe Eugenio di Beauharnais, primo Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia. A lui è intestata la loggia N. 1114 di Piacenza all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia. Crollato il dominio napoleonica, Gioja produce le sue opere maggiori: il "Nuovo prospetto delle scienze economiche”; il trattato "Del Merito e delle Ricompense"; "Sulle manifatture nazionali"; "L'ideologia". Gli ultimi tre libri vengono messi all'Indice e il suo fecondo lavoro è interrotto da un nuovo arresto per aver cospirato contro l'Austria partecipando alla setta carbonara dei "Federati".  Dopo quest'ultima peripezia, nonostante i sospetti da parte del governo austriaco, ha finalmente davanti a sé qualche anno di serenità e compone la sua ultima opera, "La filosofia della statistica.” Nel cimitero della Mojazza fra tante ossa ignorate dormono senza fasto di mausoleo le ceneri di Melchiorre Gioia. Prende il suo nome il Liceo Classico di Piacenza. Rosmini, suo avversario in politica come in religione, lo accusò di pretendere di proporre un codice morale, fondato su principi palesemente opportunistici, mentre con disinvoltura richiedeva sussidi e regali dai titolari del potere politico per elogiarne le benemerenze nelle proprie pubblicazioni periodiche, e lo dichiara pubblicamente un "ciarlatano". Altre opera: Del merito e delle ricompense,  2, Filadelfia, s.n., Riflessioni sulla rivoluzione. Scritti politici, Nuovo Galateo, Il Nuovo prospetto delle scienze economiche, Distribuzione delle ricchezze, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Melchiorre Gioia, Produzione delle ricchezze,  2, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Consumo delle ricchezze, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Melchiorre Gioia, Azione governativa sulla produzione, distribuzione, consumo delle ricchezze,  2, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Sulle manifatture nazionali,  Dell'ingiuria, dei danni, del soddisfacimento e relative basi di stima avanti i tribunali civili. L’Ideologia. Filosofia della statistica. Note: Francesca Sofia nel Dizionario Biografico degli Italiani.  Ettore Rota nella Enciclopedia Italiana, Cfr. Solmi, L'idea dell'unità italiana nell'età di Napoleone in Rassegna storica del Risorgimento, Fonte: Francesca Sofia, Dizionario Biografico degli Italiani, rTreccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in.  Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori,Mimesis-Erasmo, Milano-Roma, Ignazio Cantù, Milano, nei tempi antico, di mezzo e moderno: Studiato nelle sue vie; passeggiate storiche, Antonio Saltini, Maria Teresa Salomoni, Stefano Rossi, Via Emilia. Percorsi inusuali fra i comuni dell'antica strada consolare, Il Sole, Barucci, Il pensiero economico di Gioia, Milano, Giuffre, Manlio Paganella, Alle origini dell'unità d'Italia: il progetto politico-costituzionale di Gioia, Milano, Ares,Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Nicola Pionetti, Melchiorre Gioia: il progetto politico per un'Italia unita e repubblicana, Piacenza, EdizioniLir,. Luisa Tasca, Galatei. Buone maniere e cultura borghese nell'Italia dell'Ottocento, Firenze, Le Lettere, Gioia (metropolitana di Milano). Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  MEnciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.  Melchiorre Gioia, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  fare alcun cangiamento senza indebolirla. Egli previene così i suoi lettori contro ogni idea di riforma, e svolge nel loro avimo un timor macchinale contro ogni innovazione delle leggi. In generale tutte le metafore, i paragoni, le parziali analogie,le somiglianze superficiali non possono far breccia che nell'animo del volgo. Agl’occhi del filosofo i paragoni non sono ragioni. Essi possono schiarire una proposizione, provarla mai. Parlare. Abbiamo veduto che le macchine sono utili e necessarie al chimico, i telescopi all'astronomo, i disegni al meccanico, le figure al geometra. Le parole sono forse egualmente utili, egualmente necessarie all'esercizio del pensiero. Tre oggetti simili mi si presentano facilmente allo spirito, dice Condillac. Se passo al quarto, sono obbligato, per maggior facilità, d'immaginare due oggetti da una parte, due dall'altra. Se voglio fissarne sei, fa duopo che li distribuisca due a due, o tre a tre; crescendo questi oggetti, la mia vista si confonde, io non posso più numerarli. Al contrario, se dopo d'averne considerato uno gl’unisco un altro, e a questa unione appongo il nome “due.” Se a questi aggiungo un terzo, ed allanuova unione appongo il nome “tre,” e cosi di seguito, caratterizzando con parole distinte ogni aumento progressivo d'unità, arrivo ad annoverare moltissimi oggetti facilmente. Alla stessa maniera, se ogoi volta che voglio pensare ad una persona, sono costretto a richiamarmi ad una ad una tutte le sue qualità, onde non confonderla con un'altra. Le note tracciate sulle carte di musica rappresentano i suoni che si eseguiscono dagl’istrumenti. Le parole pronunciate o scritte rappresentano le idee che si piagono nel l'animo. 1   mi troverò nel massimo imbarazzo. Siano,a cagione d'esem pio, come segue, le qualità d'una persona: Fisiche: Sesso maschile, anni: 20, capelli biondi, fronte alta, cigli biondi, occhi neri, naso lungo, bocca grande, meoto prominente, marca nera sulla guancia destra, mano sinistra storpia, piede destro zoppo, linguaggio balbettante, accento francese. Morali = Melanconia, dissolutezza, mancanza alle promesse, viltà, abitudine alla menzogoa, jocostanza. Civili = Patria, Rodez in Francia, condizione, awmo gliato, professione, possidente. Se la mia attenzione deve afferrare tutte queste idee alla volta, si troverà insufficiente al bisogno; molto maggiore si farà la difficoltà, se per pensare nel tempo stesso ad altra persona, sono costretto a schierarmi avanti alla mente con egual melodo tutte le qualità che la caratterizzano. Se al contrario chiamo la prima “Pietro”, la seconda “Paolo”, potrò facilmente richiamarmi l'una e l'altra, distinguerle tra di loro, paragonar!e insieme. Queste parole sono poi ancora più necessarie, allorchè si vogliono esprimere le qualità comuni a molti oggetti, a cagione d'esempio, le qualità che si trovano in tutti gli u o miniod in tutti gli animali, il che costituisce le idee astratte, come si disse di sopra, ovvero allorchè si vogliono esprimere gli oggetti creati dalla nostra mente, come le idee di gloria, d'infamia, di virtù, di vizio. Sebbene quando pronuncio le parole “uomo” , animale. non mi si schiarino alla mente tutte le idee elementari che bo unito a queste parole , cionnonostante ne veggo il  140 TEORIA DELLA SENSAZIONE porto, ne seolo le differenze, ne scorgo le somiglianze, alla stessa maniera che sebbene pronunciando i numeri 100,000 e 10,000 non vegga le unità che li compongono, so però che l'uoo sta all'altro come 100 a 10, ovvero come to a 1, e conoscendo la maniera con cui questi dumeri sono stati formali, posso, ogni volta che voglio, separarne le maggiori masse , scendere alle minori, per arrivare alle minime e fipalmente agli elementi. Supponete che per isbaglio qualcuno invece di dire che 1000 è decuplo di100, dica che 100 ė decuplo di 1000. Ben tosto l'abitudine chenoi abbiamo acquistata d'attribuire a queste parole certe relazioni tra di esse, agisce sulloro suono, e cifa scorgere all'istante l'as surdità dell'accennata proposizione. Il linguaggio si è per rap  141 noi come quelle traccie che il piede del viaggiatore imprime sull'arena di un vasto deserto, le quali lo guidano, quand'egli voglia,al punto doode parti. Una parola che nella sua origine e un nome proprio, divenne insensibimente un nome appellativo. Può in conse guenza accadere in forza delle associazioni ideali e sentimen tali che uo nome generaleri chiami uno degli individui ai quali s'applica. Ma lungi che ciò sia necessario alla forza del raziocinio, è sempre una circostanza che tende ad illuderci.Si può paragonare uno spirito che ragiona ad un giudice che deve decidere tra contendenti. Se il giudice non conosce se non le loro relazioni al processo, s' egli ignora i loro pomi, s'egli li designa per lettere dell'alfabeto o pe’no mi fittizi di Tizio, Cajo, Sempronio, egli è quasi necessaria mente imparziale. Cosi in una serie di ragionanenti noi corriamo medo rischio diviolare le regole della logica, allorchè la nostra attenzione si fissa sui semplici segni,e quando l'immaginazione, presentandoci oggetti individuali, non esercita sulnostro giudizio la sua influenza e non viene a sedurci con accidentali associazioni. Le parole facilitano vie maggiormente l'esercizio del pen iero quando il loro suono imita il suono della cosa espressa, come sono le parole belato, cigolio, scricchiolare. Anche le parole tracotante, orgoglioso, baldanzoso. Colle vocali piese rinfiancate dalle acconce consonanti, e colla moltiplicità delle sillabe spirano una cerla audacia di suono analoga all'indole dell'oggelto che esprimono. Anche quando accennano l'uso o la proprietà della cosa indicata; cosi Fieberrinde o scorza della febbre nel linguaggio tedesco, che accenna l'uso e laproprielà di questo vegetabile, é preferibile alla parola Quinquina. Per la stessa ragione le parole cui il nuovo stile indica i mesi nell’anno, hanno più pregi che quelle dell'antico: fiorile ossia il mese de ' fiori, vendemmi a t o r e ossia il mese della vendemmia, sono nomi ben più espressivi che maggio e ottobre. ATTENZIONE ERAZIOCINIO.  Al contrario, allorchè si dà il nome di Pino del Nord al'albero prezioso che tutte le nazioni maritti meriguardano come migliore per le alberature , si fa supporre che questi bei pininon possono crescere s e donne'climi glaciali, mentre trovansi nella Lituania, in altre provincie più meridionali, in quelle stesse i cui fiumi corrono verso il Mar Nero. La parola Gallo d'India rammentando che questo ani male è natio d'America, e ignoto ai Romani , venne uel l'Europa del 16.° secolo, è per più titoli preferibile all'insignificante parola “pollo”. Coquetterie in francese (civetteria) rappresenta al vivo il carattere d'una donna galante, che tiene a bada mille amanti, a guisa d’no gallo che vezzeggia cento galline ad un tempo. Al contrario allorchè gl’antichi chimici ci parlavano del fegalo di zolfo, del butirro d’antimonio dei fiori di zinco. Spingevano il pensiero sopra immagini non applicabili agli oggetti che volevano iudicare. Anche quando le parole serbano tra di esse un cerlo rapporto costante, come leparole quaranta, cinquanta, sessan ta, sellanta, Ollanta, novanta, ciascuna delle quali avendo la stessa desinenza , è formata dalla moltiplicazione del fat. comune dieci, ne'numeri naturali quattro, cinque, sei. Dello stesso ordine progressivo de numeri nalurali. Siano i nomi delle nuove misure Myriametro uoilà di Kilometro unità di Ectometro unità di (2) L'influenza del linguaggio sulle operazioni del pensiero si scorge sulla nazione Chinese. La quale, a fronte delle altre incivilite,  TEORIA DELLA SENSAZIONE 0.01 di metro Centimetro unità di 0.001 di metro Si vede che dalla massima alla minima misura v'è una progressione decrescente che segue la stessa legge, di modo che essendo data una di esse, si possoo ritrovare le prece deotie lesus seguenti. Al contrario leantichemisuredipo sla, lega, lesa, pertica, passo geometrico, passo ordinario, braccio, auna, piede, pollice, linea, punto....non es sendo crescenti o decrescenti nella stessa proporzione, D00 aveodo tra di esse rapportocomune, confondono la memoria (V. p. 80 , 81 ), e colla notizia d'una di esse non si può giungere alla cognizione d'alcun'altra. Dicasi lo stesso delle altre misure e de'pesi puovi ed antichi, calcolati I primi in ragione decupla e costante, i secondi senza nessuna ra gione graduata e regolare. Cesarolti. tore Decimetro unità di 0.1 di metro Metro upità di 10 metri 10,000 metri 1,000 metri Decametro 100 metri unità di diritla,ne avrò ildoppio in questa. Dimando qual è il u nunero de'gettoni che avevo da principio in ciascuoa 6 mano? Qui si banno due condizioni note, o , per parlare « come i malematici, due dati; l'uno, che se fo passare 6 un gellone dalla diritta alla sinistra , ne avrò egual o u u mero in ambe le mani; l'altro che se lo fo passare dalla « sinistra alla diritta, ne avrò il doppio in questa. Ora roi «vedete,che,s'eglièpossibiletrovareilnumero ch'iovi u dimando , ciò non può farsi, se non osservando le relazioni che haono i dati fra loro; e comprendete che tali « relazioni saranno più o meno sensibili, secondo che i dali « saranno espressi in un modo più o meno semplice. quan u do le si toglie un gellone , è eguale a quello che avete u nella sinistra, quando a lei se ne aggiunge uno , esprime « reste il primo dato con molte parole. Dite dunque più ubrevemente:ilnumero dellavostra destra, scemalod'una unità, è uguale a quello della sinistra più un'unilà; ov « vero:ilnumero della destra meno un'unità è uguale a si può dire quasi barbara, sottomessa ai pregiudizi più assurdi, sta zionaria da più secoli, altesa l'imperfezione della sua lingua. Mentre le nostre liogue d'occidente e le più belle d'oriente riproducono lulle leparole con un solo numero di lettere diversamente combinate , nella lingua chinese, quasi ciascuna parola ha il suo segno partico lare; lo studio della scrittura esige quindi un tempo infinito. L'incertezza e l'indeterminazione del senso delle parole passando a vi cenda dal linguaggio orale alla scrittura,dalla scrittura al linguaggio orale, producono una confusione da cui i più dotii possono appena schermirsi colla più grande fatica. Egli è evidente che siffattalingua non è buona che a perpetuare l'infanzia d'un popolo , desaligando seoza 'frutto le forze degli spiriti più distinti, ed offuscando nella loro sorgente ipriini Jampi della ragione. Gioja. Elein, di filosofia. Se voi diceste : il numero che avete nella destra  4. Acciò il discorso faciliti l'esempio del pensiero,è necessario che sia minimo il numero delle parole,invariabile l'oggetto indicato,precisata, ovunque è possibile, la quantità · trarrò l'esempio da Condillac: is Avendo de' gelloni nelle mie mani, se nefo passar uno dalla mano dirilla alla sinistra, ne avrò tanti nell'una quanti nell'altra; e se nefo passar uno dalla sinistra alla « Non si tratta d’indovinare codesto qumero , facendo « delle supposizioni ; bisogna trovarlo ragionando e passando « dal cognito all'incognito per uoa serie di giudizi. 11   quello della sinistra più un'unità ; o infine ancor più bre «vemevle:ladestraweno unoegualeallasinistrapiùuno. pio in questa. Dunque il numero della mia sinistra sce malo d'una unità è la metà di quello della destra accre « sciuto d'una unità; e per conseguenza esprimerete il se « condo dato dicendo : il numero della vostra mano diritta « accresciuto d'una unità è uguale a due volte quello della 6 vostra sioistra scemato d'una unità. « Tradurrete questa espressione in un'altra più sem “ plice , se direte : la destra accresciuta d'un'unità è uguale a due sinistre scemate ciascuna d'uu’unità ; e giungerele “ a questa espressione la più semplice di tutte : la dirilla « più uno uguale a due sinistre meno due. Ecco dunque le « espressioni, alle quali abbiamo ridotti i dati : u Questa sorta d'espressioni chiamasi equazioni in m a «tematica.Sono compostediduemembriuguali.Ladirilla u m e n o u no è il primo membro della prima equazione. La sinistra più uno, il secondo. « Le quantità incognite sono inescolate alle cognite in 6 ciascuno di questi membri. Le cogoite sono meno uno più uno , meno due : le incognite sono la diritla e la sini “ sira, coo cui espriaiete idue numeri che andate cercando. « Finchè le cognite e le incognite sono cosi mescolate w in ogni membro delle equazioni,non è possibile risolvere u ilproblema.Ma nou v'è bisogno d'un grande sforzo du « riflessione per osservare, che se vba un mezzo di traspor “ tare lequantità d'un membro all'altro, senza alterare l'eguaglianza che passa tra loro, possiano, bon lasciando in un membro che una sola delle due incogaite; sepa “ l'arla dalle cognite, colle quali è mescolala. Questo mezzo si preseula da sè stesso; perchè se la « diritlameno uno è uguale alla sinistra più uno, duoque TEORIA DELLA SENSAZIONE Per tal guisa di traduzione in traduzione arriviamo alla più semplice espressione del primo dato. Ora quanto « più abbreviarete il vostro discorso, più si ravvicioeranno « le vostre idee,e quanto più saraono vicine, più vi sarà « facile di conoscere tutte le loro relazioni. Ci resla a traltare il secondo dato come il primo , e bisogna tradurlo u nella più semplice espressione. Per la seconda condizione del problema, s’io fo pas “ sare un geltone dalla sioistra alla diritta, ne avrò il dop « La diritta meno uno uguale alla sinistra più uno. « La dirilta più uno uguale a due sioislre meno due.   ATTENZIONE E 'RAZIOCINIO. 145 « La diritta uguale alla sinistra più due. « La diritta uguale a due sinistre meno tre. « li primo membro di queste due equazioni è laslessa quantità; la dirilta; e vedete che conoscerete questa quan lità, quando conoscerete il valore del secondo membro e dell'altra equazione. Ma ilsecoodo membro « della prima è uguale al secondo della seconda , poiché « sono uguali l'uno é o altro alla stessa quantità espressa “ dalla dritta; duoque potete formare questa terza equa u ziove: « La sinistra più due uguale a due sinistre meno tre. « Due più tre uguale a due sinistre meno una sinistra. « Due più treuguale ad una sinistra. “ Cinque ugualead una sinistra. « Il problema è sciolto. Avete scoperto che il numero de'geltooi che ho nella mano sinistraè cioque.Nelle equa u zioni , la diritta uguale alla sinistra più due , la diritla uguale a due sinistre meno tre, troverete che sette è il nu 6 Inero chc ho vella diritta. Ora questi due numeri cioque 6 e sette,soddisfanno alle coodizioni del problema. quando un problema è così facile,come quello scioltopur 6 ora, essa ne abbisogna maggiormeote, quando iproblemi  66 65 56 dell'una « la diritla jolera sarà uguale alla sinistra più due: e se la “dirittapiùunoèugualeadue sinistremeno due,dun « que la diritta sola sarà uguale a due sinistre meno tre: « Sostituirete dunque alle due prime le due seguenti equa zioni. 6.Allora non vi resta che una incognita, la sinistra, e a ne conoscerele il valore , quando l'avrete separata, vale a » dire,falte passare tutte lecogoite dalla stessa parte. Di - rete dunque Voi vedete sensibilmente in queslo esempio come la asemplicitàdelle espressionifacilitailraciocinio,ecom ú prevdele che se l'analisi ha bisogno di tal linguaggio sono complicati. Così il vantaggio dell'analisi nelle male 6 mati che nasce unicamente dal parlare s s e il linguaggio più semplice. Una leggiera idea dell'algebra basterà per farlo 6 ipleadere. In questa lingua non si ha bisogno di parole. Il più si sprime col seguoto, il meno cou--; iuguaglianza con « siindicaou le quantitá con lellere o citre:Ý , per es., sarà ilnu 6 mero de'geltoni che ho nella destra, e Y quello della sinistra. e   Non sarà fuoridi proposito l'osservare che non alla sola semplicità del linguaggio, come pretende Condillac, sono debitrici dellaloro perfezione l ematematiche, ma anche 1.o alla prudenza de'loro seguaci, la quale consiste nel ritenersi nei limiti delle sensazioni e loro rapporti; 2. all'inva riabilità de’rapporti tra gli oggetti da essi chiamati ad esa m e ; 3.o alla possibilità di sottomettere le loro conclusioni alle verificazioni de'sepsi e degli strumenti. Cominciamo dal 1.°:esistono degli oggetti estesi; ecco la sensazione: gli oggetti estesi possono misurarsi gli uni per gli altri; ecco l'osservazione che produce la geometria. L'es.senza dell'estensione, gli elementi che la compongono, sono indagini che i matematici abbandonano agli oziosi metafisici, e quindi non si espongono ai loro errori. Dite lo stesso delle altre quantità esaminate dai matematici. a Cosi X – 1 = Y to 1, significa che il numero de'gettoni che ho nella destra, scemato d'un'unità è uguale a quelloche ho nella asinistra, accresciuto d'un'unità ,e X41 =2Y -2, significa che il numero della mia destra accresciuto d'un'unità è uguale due volte a quello della mia sinistra diminuito di due vuità. Ï due dati del nostro problema sono dunque rinchiusi in queste equazioni: 5Y. Finalmente da X = Y+ 2, caviamoX = 5 to 2= X = 2 Y - capiamo egnalıneote X = 10  TEORIA DELLA SENSAZIONE 2. « X fo 1 = 2 Y - 2 che diventano, separando l'incogoita del primo membro “Y +2= 2Y - 3 a che diventano successivamente 9 6X uX 2.Y -3. De'due ultimi menibri di queste equazioni facciamo 2Y "2*3=2Y-Y “2of3= Y la matematica non visono circoli più o meno ro tondi, linee più o meno perpendicolari, superficie più o meno quadrate, la misura di tutti i triangoli è uguale alla base moltiplicata per la metà dell'altezza. E quando un rapporto come quello del diametro alla circonferenza, cagion d'esempio, non può essere espresso con esattezza i matematici continuano ad essere esatii, additando la quantità relativa all'uso che se ne debbe fare, e che i seosi più 6X – 1 = Y to 1 66 Y+2 0 7;cda 3  ATTENZIONE E RAZIOCINIO. fini non potrebbero additare con precisione maggiore.I m a tematici non dicono,ilcircolo sirassomiglia al triangolo come un oratore dirà, l'uomo si rassomiglia al lione, e sarà costretto a lunga circonlocuzione per fissare la specie di ras somiglianza ch'egli annunzia, Alla sorpresa deve succedere in ciascuno la persuasione divedere un essere interamente simile a lui, essendo simili le forme e i moti esteriori. Infatti meolre it selvaggio A, a cagione d'esempio, stacca un fratto dal vicino albero, il selvaggio B, che si ricorda d'avere fatto più vollelo stesso, spinto dalla fame, conchiude che A èmosso (1) I tre antecedenti riflessi dimostrano falsa l'asserzione di Condillac, cioè che le matematiche non bando sulle altre scienze altro vantaggio che di possedere una migliore lingua, e che si procure rebbe a queste uguale simplicità e certezza , se si sapesse dar loro de’ segni simili». Languedu Calcul, pag 7,8,218.  Continuazione dello stesso argomento. Anche, le idee matematiche possono essere rese esteriori, cioè visibili, palpabili, misurabili, in una parola sono susceltibili d'essere giudicate dai sensie dagl’istrumenti. Coll'ajuto delle cifre e delle figure tracciale sulla tavolta,o rappresentate da corpi solidi, I concetti matematici compariscono rivestiti di forme visibili per chi ha gli occhi, tangibili per chi ne è privo. L'espressione dei rapporti di quantità è sol tomessa ad una verificazione sensibile, facile, immediata; nissuno ha finora osat o r i gettare il giudizio d'una bilancia, o sospettare l'imparzialità d'una tesa, o la veracità del gra fomeiro. Colla scorta de'principii esposti nell'antecedente sezione, ci sarà agevole cosa il seguire i filosofi nelle congetture con cui spiegarono l'origine delle lingue. Si suppongano due selvaggi A e B che s'incontrano la prima volta. Il primo sentimento che si svolgerà oel loro animo, sarà lasorpresa sempre figlia della novilà. Queste conclusioni si rinforzano in ragione de'movimenti e delle azioni che ciascuno eseguisce, perchè a queste azioni sono associate idee e sentimenti uguali. B intende dunque le azioni di A , leggeodo nel proprio animo e consultando la propria memoria. A intende le azioni di B per gli stessi motivi; si può dire che l'uno è specchio all'altro. B accorgendosi che comprende le azioni di A, conchiude che A comprende le sue. B compresii sentimenti di A,vedeodogli eseguire certe azioni; egli cercherà di far comprendere isuoi, ripetendo le azionistesse: ecco il linguaggio de'gesti. I sentimenti da comunicarsi o riguardano oggetti esterni presenti o lontani, ovvero riguardano gli interni sensi del l'animo. Allorchè l'oggetto è presente, gli occhi direlti verso di esso, il dito che lo accenna, la bacchetta che lo locca, il corpo che si slancia verso di esso o se ne allontana, formano tutto il dizionario della lingua. Questi segni possono essere chiamati indicatori. Allorchè si tratta d'oggetti lontani , per esempio, d'un animale che si riuscì ad uccidere, o d'un altro da cui si fu morsi, il selvaggio ne ripete l'accento, l'urlo, il grido, e ne esprime cogli atteggiamenti delle mani, delle braccia, della testa le forme più rimar che voli. Questi segni possono essere chiamati imitatori. Il rumore prodotto da un torrente che precipita, da un monte che scoscende, dal vento che fischia, TEORIA DELLA SENSAZIONE da uguale sentimento. A porta alla bocca il frutto e lo mastica; B rammentando il piacere che provò mangiandolo, con chiude che A lo prova ugualmente. Ad improvviso rumore A sospende l'operazione del mangiare, alza il capo immota col guardo fisso dal lato donde proviene il romore ed in attodi chi tende l'orecchio; B colpilo dallo stesso rumore e dagl’atti di A, sente sorpresa e timore, e conchiude che A è sorpreso e intimorito. Cessato il rumore, A riprende tranquillamente l'operazione del mangiare. La calma che succede nell'animo di B gli dice che A si è calmato. Dopo questa scoperta, il bisogno reciproco di comunicarsi a vicenda i propri sentimenti sembra naturale, perchè è naturale la reciproca debolezza e comuni i pericoli. I due selvaggi intendendosi reciprocamente, possono sperare un ajuto ne'loro bisogni, un sollievo de loro dolori, una difesa contro gl’assalti delle beslie feroci. ATTENZIONE E RAZIOCINIO. I segni indicatori, imitatori, figurati, divengono triplice canale di comunicazione pe'sentimenti e leidee in forza delle leggi d'associazione. Classificando gli elementi di questo linguaggio secondo la natura de materiali che servono a formarlo, se ne distingueranno tre specie, i gesti, le parole, la scrittura simbolica.La storia antica ricorda spesso l'uso de' simboli anche presso nazioni già uscite dalla barbarie e sopratutto pressole nazioni orientali. Dario essendosi inoltrato nel territorio della Scizia colla sua armata, ricevette dal re degliSciti un messo che, senza parlare, gli  dal tuono che scoppia. Il canto degli uccelli, gli accenti delle passioni sono altretanti suoni che il selvaggio ripete per farne iolendere l'oggetto ad ogni momento di bisogno, accompagnandoli per lopiù coi gesti. Se1 Allorché sitratta di esprimere i propri bisogni, i propri timori, in somma le affezioni che von simostrano ai sensi, il selvaggio ripete dapprima quelle attitudini del corpo che le accompagnano. Per esempio, B vede o d o il luogo ove rimase spaventato, ripeterà i gridi e i moti dello spavento, accid A non siespoogaaldaono cui fu esposto egli stesso. Un sordo e muto volendo indicarci, che fu calpestato da un cavallo, esprime dapprima con ambe le mani ,il moto preci pitoso de'piedi del cavallo, quindi accenna ilproprio corpo che cade sul suolo; posc i a ripete il moto del cavallo, escorre colle mani le varie parti del corpo nelle quali fu calpestato. Dopo i segni esterni che accompaguano gli affetti, il selvaggio, aguisade'sordie muti, cogliela somiglianzache scorge tra i sentimeoti dell'animo e le qualità de'corpi esterni, e si serve di queste per indicare quelli; per es., le passioni vive s'assomigliano alla fiamma, il loro contrasto allatempesta,la loro calma a cielo sereno, l'animo dubbioso a due mani che pesano due corpi. Ecco i gesti simbolici e figurati. La prima specie comprende le azioni e le attitudini del corpo impiegate per imitare le forme e i moti degli oggetti esteriori. La seconda, gli accenti della voce con cui si ripe tono i gridi degli animali, e i suoni che accompagnano il moto degli esseri inanimate. La terza, la pittura che si farà soventi sulla sabbia, sulla corteccia degli alberi, od altro, sia degli oggetti che si vuole indicare, sia delle azioni che vi si riferiscono. I suoni della voce altrondee le articolazioni che gli accompagnano, possono, sia per sè stessi, sia per la loro combinazione, presentare colleidee molteanalogie che non col piscono a prima vista, ma che sono facilmente sentite ed avidamente accolte dalle società che si pregiano di dire molte cose nel ininimo tempo, e colla minima fatica possi bile. Il linguaggio articolato dovette dunque arricchirsi di giorno in giorno. L'invenzione delle parole indicatrici de generi e delle specie,impossibile aspiegarsi agiudizio di Rousseau, sem bra facilissima, giacchè se un albero particolare A in dato luogoe tempo fu iodicato colla parola albero, è cosa natu. rale che la stessa parola venisse applicata ad un albero sia mile , quindi ad un terzo, ad un quarto. Cosicch è si per mancanza d'altra parola che io forza della legge d'aoa. logia (pag. 24 e 25)il nome proprio dovette divenire no me appellativo. Si giunse finalmente a far uso di segoi affatto arbitrari e vi si giunse in due maniere; dapprima per la degenera zione successiva del linguaggio primitivo e imitatore, poscia per convenzioni espresse. dodicipezziilcadavere,e glispedi alle dodici tribù di Israele, intendendo cosi di rendere comune ad esse il suo dolore, e chiamarle alla vendetta. Il suo linguaggio fu inteso e il suo desiderio soddisfatto:la tribù di Beniamino fu sterminata. TEORIA DELLA SENSAZIONR De'gesti non si può fare grande uso nelle tenebre de con persone alquanto distavti;la scritlura simbolica,benchè più perfetta de'gesti e permanente, soggiace agli stessi in convenienti, oltre di essere più difficile: al contrario gli accentidella voce,pronti,facili,variabiliintuttelemaniere, pon tolgono dall'occupazione chi ne fa uso, e lasciano il potere di parlare e diagire; queste ragioni fecero prevalere i suoni articolati. De'dotti laboriosi hanno spiegato come la lingua pri mitiva alterata dal tempo, dallamischianza del popolo, e da diverse altre cause, si trasformò nelle nostre lingue moderne ; presenta un uccello, un sorcio, una rana e cinque freccie; col quale simbolo il re voleva dire che se i Persiani non fuggivano come gli uccelli, non si nascondevanointerracomei sorci, nonsisommer. gevano nell'acqua come le rane, cadrebberovittimedellefrecciedegli Scili Il Levila d'Efraim volendo vendicare la morte della sua sposa, ne fece 151 e come questa alterazione seguendo un corso differente nei differenti paesi, rese le lingue sì dissimili tra di loro. Quanto alle convenzioni che furono fatte,non è neces sario molto schiarimento. Si osserva che le parole non erano segni d'idee e di sentimenti, se non perchè gli uomini ac consentivano a prestar loro lo stesso senso. Allorchè dunque conveone esprimere delle idee nuove, pulla si trovò di più semplice che d'intendersi per scerre loro una parola. Questa convenzione, formata dapprima tra di quelli che avevano più pressante bisogno di designare questa idea, divenne in seguito comune agli altri. Ciascuna arte, ciascuna scieoza presentò le sue parole alla società, e lingue particolari. I segni arbitrari dovettero la loro forza solamente alla doppia abitudine di quelli che gl’impiegano e di quelli a cui si dirigono. Queste azioni, questi segni esteriori, che il ragazzo imita, sono uniti nella mente di quelli che gli servono di modello a dei sentimenti; questi sentimenti lo sono ad alcune idee. I sentimenti e le idee a suoni articolati. Il ragazzo imita dapprima i movimenti, ripete poscia i suoni articolati o le parole, a cagione d'esempio, “padre”, “madre”, “vizio”, “virtù”, “religione”, “demonio”. Il ragazzo non ha bisogno d'inventare i segni artificiali delle idee. Egli gli impara soltanto; ciò che per gl’antichi fu un lungo sforzo di genio, non è per lui che un esercizio meccanico della memoria. Bentosto il ragazzo deve provare un principio di sentimento, ridendo all'altrui riso, piangendo all'altrui pianto, fremendo all'altrui fremilo benchè ne ignori la causa. Ma l'idea, s'ella esiste, essendo sempre la più difficile, la più lontana, la meno interessante a conoscersi, il ragazzo è imitatore come la scimia. Gli altrui moti, i gesti, l'accento, l’aria, il tono, tutti gli attesteriori lo colpiscono nei primi anni della sua vita e d o c cupano la sua attenzione;egli è spinto ad imitare ed arió petere tutto ciò che vede, ed isuoi organi mobili cootrag. gonol'abitudinedimolte azioni,priache ilpensierosia capace di penetrarne lo scopo e d'osservarne il motivo: insginocchiarsi, fare il segno della croce, piegare la fronte, giungere le mani, levarsi il cappello, fuggire nelle tenebre, baciar l'altrui mano, fare inchini. La ripetizione frequente diquesti suoni, gesti, sentimenti gli unisce con stretti nodi e tali che quando i suoni vengono a colpire l'orecchio o si presentano alla memoria, spingono gl’organi motori ai gesti relativi, e il sistema sensibile agl’associati sentimenti. Questa è la cagione per cui esempi ripetuti, antiche abitudini forzano la maggior parte degl’uomini ad ammirare, fremere, tremare, sdegnarsi, passionarsi in tutti imodi al suono delle parole le più insignificanti, le più vaghe, le più vuote d'idee, e che appunto per la violenza dei sentimenti associati si sottraggono alla analisi. Conviene anche osservare che più le parole sono confuse ed oscure, più piacciono e soddisfanno il gusto degli ignoranti. Queste ragioni ci spiegano il motivo per cui le stesse cose fanno impressioni diverse, secondo che sono pronunciate in una lingua o in un'altra. Si osserva, dice Rayoal, che i giudei stabiliti in gran numero alla Giamaica si facevano giuoco d'ingannare i tribunali di giustizia. Un magstrato sospetta che tale disordine potesse provenire da ciò che il suo Testamento, su'di cuido vevano giurare,era tradotta in idioma inglese. E quindi decretato che per l'avenire I Giudei giurer ebbero sul testo ebraico. Dopo questa precauzione gli spergiuri divendero infinitamente più rari. Per simile motivo Augusto lascia sussislere eadem magistratuum vocabula, acciò il popolo romano conchiudesse che sussisteva ancora la repubblica, sussistendo i nomi delle sue magistrature, e il rispetto ma c chioale eccitato negl’animi popolari dalle parole si, fissasse sulle nuove cariche che ritenevano le antiche denominazioni. Trovandosi Leibnizio a Nuremberg seppe che riera in quella città una compagnia di chimici, che col più profondo segreto travagliavano alla ricerca della pietra filosofica. Il desiderio d'entrarvi, gli suggerio l’idea che produce l'effetto bramato. Egli estragge dagli antichi alchimisti una serie di frasi oscure, la cui unione forma una lettera più oscura ancora e non intesada lui stesso. Questa lettera divenne un titolo peressere accolto. Leibnizio, tanto più ammirato quanto meno inteso, fu riconosciuto addetto e segretario della società. Bailly, Éloge de Leibnitz. TEORIA DELLA SENSAZIONE. Il ragazzo o non la verifica che tardi, come l'idea di “padre”, o non la verifica che in parte, come quella di “vizio”, o,non la verifica mai nè può verificarla, come l'idea di “demonio”, “magia”, “angelo”, “fortuna” e simili.   Per eguale ragione, allorchè le idee più belle e più sublimi vengono tradotte in lingua usuale, bassa, plebea, per dono parte di quel pregio che conservano in una lingua antica o straniera. Quella specie di spregio che si attacca agl’usi volgari e quella specie di rispetto che va unito alle lingue morte od estere, sembra comunicarsi all'idea e degra darla a'nostri occhi o sublimarla. L'indeterminazione del linguaggio più in morale e legi slazione ha luogo, cbe nelle arti e nella storia naturale: gli oggetti di queste sono verificabili e misurabili coi sepsie cogli strumenti, quindi le stesse parole risvegliano in tutti presso a poco lestesse idee:al contrario gli oggetti morali non essendo verificabili con eguale precisione, restano nella nebbia della fantasia; le parole, da cui vengono indicati, partecipano della loro oscurità ed incostanza, e per lopiù risvegliano idee diverse nelle diverse teste in ragione delle circostanze in cui furono apprese. Pretendere che le stesse parole (principalmente se trattasi di cose morali) risveglino in tuttele stesseidee, egli è pretendere che quando è mezzo giorno a Milano sia mezzo giorno dappertutto. Nei giardini d'Epicuro la parola “virtù” risvegliava idee ridenti e piacevoli. Sotto i portici di Zenone, idee fosche e melanconiche. “Legge” significa la volontà di tutti per un greco, la volontà d'un solo per un persiano. le indicava per l'addietro un despota sciolto da ogni legge, attualmente quest'idea è più limitata , ed ha diversi significati a Londra, Amsterdam, Copenhague. “Libertà” nella mente del filosofo indica la somma delle azioni non vincolate dalla legge. Nella mente del volgo, la facoltà d'invadere i beni de'ricchi e di far nulla. Il massimo danno dall'indetermina zione delle parole si fa sentire ne'trattati tra, le nazioni, in cui la loro ambiguità diviene,causa o pretesto di guerre, nei codici criminali in cui l'oscurità d'una frase estende l’arbitrio del giudice a danno dell'innocente ne’ contratti, nei codici civili, nelle tariffe daziarie, in cui l'incertezza d'un'espressiooe è fonte di mille liti tra i cittadini, e vessazioni a. Havvi alla China una legge che condanna a morte quegli che non mostra sufficiente rispetto al sovrano. Comparve un giorno nella gazzetta della corte un aneddoto non raccontato con perfetta esaltezza. Il redattore fu arrestato, e i tribunali décisero che mentire nelle gazzette della corte e non mostrare sufficiente rispetto al sovrano. Quindi il redattore fu messo a morte. ATTENZIONE E RAZIOCINIO.“ commercio. La divisione uniforme del regno in dipartimenti, distretti, cantoni, comuni, l'uniformità de' pesi, in isure, monete, gli stessi libri nelle università, la stessa educazione ne’ licei lendono a dare alle parole la stessa significazione, a diminuire le dispute, e quindi una somma noo de. finibile di coilisioni sociali. Oltre l'indeterminazione del linguaggio proveniente dal modo con cui l'impariamo e dalla natura dell'oggetto che esprime, bisogna dire che in ogni lingua non v'ba quasi una parola che rappresenti sola una idea chiaro-distinta da se stessa. Tutte prendono sensidiversi dal posto che occupano nel discorso,dalle parole che le seguono o le precedono, dall'accento, dal gesto, dagli atti che le accompagnano. La medesima parola unita ad alcune ti mostra un dato espelto d'idee,uo altro, se si college con altre. Più avanti, più indietro le ne farà vedere dei diversi. Detta con un tuono asseverante, ha un senso. Con un tuono di meraviglia, un altro. Con irrisione, un terzo. Con interrogazione, un quarto. Cosicchè si potrebbe assomigliare le parole ai colori delle peone d'un colombo, che variano secondo il moto del sole, del colombo, dell'osservatore. Sono quindi quovi, fonti d'errori i diversi sensi che le stesse parole esprimono passando da un ordine di cose ad un altro. Un oratore, dopo avere esaltato i nomi di molti personaggi illustri dell’antichità, si dirige così a'suoi uditori: ingrati che noi siamo! noi cilngniamo della brevita della vita, mentrei è innostro polere di renderci immortali. Egli è evidente che questa argomentazione confonde due maniere di vivere che sono distiolissime e diverse. Lo stesso difetto si fa vedere nella seguente massima di Rousseau. Se la natura ci ha destinati ad essere sani, l'uomo che medita è un'animale depravato. Perchè questa sentenza fosse vera, converrebbe provare che il primo ed unico destino dell'uomo è di essere sano; che la virtù consiste nella sanità, e che la meditazione è in compatibile coi buoni costumi. Allora un dollo sarà un essere depravato come il soldato che espone la sua sanità e la sua vita in difesa della patria. Si potrà dire che ogni ammalato è uno scellerato, un mostro; che un monco è un Sano è qui'addiettivo del corpo, e significa uno stato fisico; depravalo è addiettivo dell'auimo, e significa uno stato morale. animale depravalo, avendoci la natura destinati ad essere sani come ci ha destinati ad avere due braccia. Aliro esempio. Bernardin de Saint Pierre vuole che assolutamente si bandisca l'emulazione dalle scuole pubbliche; e per provare ch'ella è inutile, argomenta così. Analizziamo questo argomento. L’emulazione per imparare la lezione, per fare dei temi, per studiare le scienze è inutile ugualmente che per giocare, bere, mangiare. L'emulazione è dunque da una parte e dell'altra la ripetizione della stessa inutilità, e per conseguenza si devono ritrovare pelll'un caso e nell'altro le medesime cause di questa doppia inutilità. Le funzioni dell'animo non son esse egualmente naturali, egualmente aggradevoli che quelle del corpo? Egualmente naturali? lo rispondo di no, se per naturali inten desi necessarie ed imperiose. Egualmente aggradevoli? Questo è possibile, ma la causa si rifonde   nel piacere d'essere applaudito, ammirato, ricompensato. Quindi l'autore non s'accorge che coi buoni effetti dell'emulazione lepla di provarne l'inutilità. Finalmente l'interesse, la mala fede, le passioni lulle abusano delle parole, perciò, al dire di Parini, il mercante è pronto inventor di lusinghicre fole 6 E liberal di forastieri nomi 6'A merci che non mnaivarcaro imonti.  уоро campagna, come sono necessarie talvolta per farli stu diare? Questa piccolo popolazione ha forse immaginato delle astuzie, e inventati degl’artifizi per allungare gli studi, e per ottenere un tema più difficile? Ho io avuto bisogno nell'infanzia di sorpassare i miei compagni nel bere, mangiare, passeggiare, e per corvi piacere? E perchè è egli slato necessario che imparassi asor passarli ne’miei studi, per trovarci dilello? Non ho iopo. tulo instruirmi a parlare e ragionare senza emulazioni? Le funzioni dell'animo non son esse egualmente naturali, egual mente aggradevoli che quelle nel corpo? Ora l'emulazione è inutile oel bere e nel mangiare, per che queste operazioni sono comandate dal più pressante, dal più imperioso de’ bisogoi, l'amore della vita; ma quantivi e conciliano la santità e la grassezza coll'inerzia e l'ignoranza? Gli scolari temono forse tanto le ricreazioni quanto temono la dieta? Sono mai state necessarie le minacce ed i castighi per condurli al refettorio o farli partire per la Cromwel, per coprire le sue viste atobiziose col manto della religione, aveva dato alla maggior parte de'suoi reg.gimentiinomi dei santi del Testamento Vecchio. Cromwel, dice uno scrittore anonimo di quel tempo, ha ballulo illam buro in tutto il Vecchio Testamento; si può imparare la genealogia del nostro Salvatore dai nomi de'suoi reggimenti. Il commissario di guerra non aveva altra lista che ilprimo ca pitolo di S. Matteo. In tutti itempi, in tutte le religioni,in tuttiipartili,ilfanatismo,ilquale non sipiccò mai diequità, diede a quelli che voleva perdere, non i nowi che merita vano, ma inoai che potevano loro nuocere. Socrate,che depurando le idee superstiziose, le conduceva all'unità di Dio , riceve il titolo d' aleo dai sacerdoti di Cerere: empio chiamavasi presso gli Egiziani chi von adorava un gatto, un bue o un coccodrillo. Si da dai Cartaginesi lo stesso titolo a chi abborriva il sacrifizio delle umane vittime. I romani danno a tutti i cristiani il nome di galilei o giudei, sforzandosi dire uderli odiosi non potendo dimostrarlı irragionevoli. Alla China i nostri missionari che diffondeodo la religione dei galilei diminuiscono il concorso ai tempii de' falsi idoli, e quindi i proventi de' sacerdoti, vengono da questi dipinti come ribelli ed accusati di congiura coutro lo Stato. Le espressioni odiose sono uo'arma troppo favorevole alla calunnia perchè ella non s'affretti a farne uso. Egli è sempre un vantaggio l'avere pronta una parola di sprezzo per caralterizzare i torti che si riaproverano ai propri avversari. Con una di queste parole si prova tutto, si risponde a tutto, si difende la propria opinione, si distrugge l'altrui. APascal, che con tanta sagacità svela nelle sue lettere provinciali la corruzione della morale, e risposto ch'egli era quattordici volte eretico. Gli uomini saggi si guarderaono sempre dalle espressioni dipartito ed esclu sive, e che traggono seco idee accessorie infinitamente variabili e talvolta cootrarie. Essi dirapoo, a cagione d'esempio, questa legge è conforme all'interesse pubblico, e lo prov r'anno svolgendo la somma de’ beni di cui è seconda, ma non diranno, per es., questa legge è conforme al principio della monarchia o della democrazia, giacchè se vi sono delle persone nelle cui teste queste parole risvegliano idee d'approvazione, ve ne sono altre nelle quali succede tulto l'opposto. Quindi se i due partiti si mettono alle prese, la disputa non finirà che colla stanchezza de’ combattenti, e per cominciare TEORIA DELLA SENSAZIONE   ATTENZIONE E RAZIOCINIO. Combinare od inventare. La ninfa della tignuola d'acqua che si trova ne'nostri fiumi, dice Darwin , e la quale s’involge in cerle casucce di paglia, di sabbia, di gusci,s a ben far si che questa sua abi lazione sia alla ad equilibrarsi coll'acqua ; e perciò quando èsoverchiamente pesante, viaggiunge un bocconcello dipa 'gliao dil egno, equando troppoleggiere, un pezzellodi grossa rena.  il vero esame, converrà rinunciare a queste parole appassionate ed esclusive, per calcolare gli effetti della legge in bene e in male. Osservano gli storici che nel corso della guerra del Peloponneso successe taletrambusto nelle idee e ne' principii, che le parole più usuali cambiarono di senso. Si da il nome di dabbenaggine alla buonafede, di destrezza alla duplicità, di debolezza alla prudenza, di pusillanimità alla moderazione, mentre i tratti d'audacia e di violenza passavano per slaoci d'animo forte e di zelo ardente per la causa pubblica. Una tale confusione del linguaggio è forse uno de’ sintomi più caratteristici della depravazione d'un popolo. In altri tempi si può offendere la virtù. Ciò non ostante se ne riconosce ancora la sua autorità, quando le si assegnano de’ limiti. Ma quando si giunge sido a spogliarla del suo nome, ella perde i suoi diritti al trono, e il vizio se ne impadronisce e vi si asside tranquillamente. Per capire ciò che succede allora in una nazione, basta osservare ciò che succede nelle società de’ viziosi e scellerati. I ladri, gl’aggressori , i monetari falsi, i contrabandieri si formano un linguaggio o uo gergo tutto proprio che confonde tutte le idee di vizio e di virtù. Uniti da sentimenti uniformi, volendo vendicarsi dell'opinione pubblica che li rispioge da sè, si compiacciono ad affrontarla. Quindi nel loro dizionario sono escluse tutte le impressioni del rossore, alterati i sentimenti del giusto e dell'ingiusto, associate idee scherzevoli ad atti criminosi e nefandi. Una vespa, continua lo stesso scrittore, ha colla una mosca grossa quasi com'era ella medesima. Posi le ginocchia a terraper meglio osservare, evidiche ellase paròla coda e la tesla da quella parle del corpo a cui sono annesse le ale. Prese ella quindinelle zampe questa porzione di mosca, e s'alza con essa dal terreno circa due piedi, ma un venticello leggiere scuotendo le ale della mosca, fa capovolgere l'animale nell'aria, ed egli scese ancora colla sua preda a terra. Osservai allora distintamenle che colla bocca le taglia primieramente un'ala, e poi l'altra, e quindi fuggi via non più molestata dal vento. Questi due animale lti,che sanno disporre le cose in modo, ossia ritrovare mezzi tali da oltenere il fine bramalo, ci danno le prime idee dell'arte di combinare o invenlare. Duhamel osserva che il felore delle sale degli spedali cresceva, avvicinandosi al soffitto. Egli immaginò quindi uo ventilatore che facendo comunicare questa parte delle sale con l'aria esteriore, caccia laria guasta. La combinazione di Dubamel oon suppone nella disposizione dei mezzi più cognizioni di quelle della tigauola e della vespa. Ma il fine ottenuto essendo molto vantaggioso all'umanità, la combinazione è più pregevole. Il pregio di questa combinazione cresce, se si riflette ch'ella è applicabile ad altri oggetti, a cagione d'esempio, ai vascelli in mare. lo fatti vi sono delle combinazioni saggissime profondissime, e che suppongono infinita destrezza nell'esecuzione. Ma siccome non arrecano alcun vantaggio, non hanno alcun pregio agl’occhi del saggio. Boverick, meccanico d'uva de, strezza e d’upa perseveranza prodigiosa, fabbrica una catena di duecento anelli che col suo catenaccio e la sua chiave pesava circa un terzo di grano. Questa catena e destinata ad iocatenare una pulce. Egli fa una carrozza che s'apriva e si chiudeva a inolla, era tratta da sei cavalli, porta quattro persone e due lacchè, e condolia da un cocchiere, ai piedi del quale sta assiso un cane, e il lutto venne strascioato da una pulce esercitata a questo travaglio. L'invenzione e l'esecuzione di questa macchina puerile fa desiderare che Boverick impiega meglio i suoi talenti. Grice: “”Si suppongano due selvaggi” – exactly my way of proceeding. Gioia has a lot of sense. An engraving’s caption has it: ‘statistico e filosofo’ – And I like the fact that like Socrates he did ‘elementi di filosofia ad uso de’ giovanetti’!” -- Melchiorre Gioia, Melchiorre Gioja. Gioia. Keywords: filosofia ad uso de’ giovanetti, galateo, pulitezza, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gioia” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giorello – il libertino – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano.  – Grice: “I like Giorello: he philosophises on evil and good – the devil wrestles with the angel – but also on Mickey Mouse that he calls ‘topolino’ – “la filosofia del topolino” – and perhaps ore exotically for us Oxonians, on ‘la filosofia di Tex,’ a ‘fiumetto’ of 1948!” –Si laurea a Milano sotto Geymonat). Insegna a Milano. Membro de la Società Italiana di Logica” e de la Societa Italiana di Filosofia della Scienza. Giorello divise i suoi interessi tra lo studio di critica e crescita della conoscenza con particolare riferimento alle discipline fisico-matematiche e l'analisi dei vari modelli di convivenza politica. Dalle sue prime ricerche in filosofia e storia della matematica, i suoi interessi si erano poi ampliati verso le tematiche del cambiamento scientifico e delle relazioni tra scienza, etica e politica. La sua visione politica e di stampo liberal democratico e si ispira, tra gli altri, a Mill.  Si occupa anche di storia della scienza in particolare le dispute novecentesche sul "metodo"e di storia delle matematiche (“Lo spettro e il libertino”). Cura “Sulla libertà” di Mill. Ateo, filosofa in “Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo.” Altre opere: Opere  Filosofia della matematica, Milano, L’nfinito, Milano, UNICOPLI, Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero, Milano, A. Mondadori,  Le ragioni della scienza, Roma-Bari, Laterza,Filosofia della scienza, Milano, Jaca Book, Le stanze della ricerca, Milano, Mazzotta, Europa universitas. sull'impresa scientifica europea, Milano, Feltrinelli, La filosofia della scienza, Milano, R.C.S. libri & grandi opere, Quale Dio per la sinistra? Note su democrazia e violenza, Milano, UNICOPLI, La filosofia della scienza, Roma-Bari, Laterza, “Lo specchio del reame: riflessioni sulla comunicazione: Longo, Epistemologia applicata. Percorsi filosofici, e Milano, CUEM,  I volti del tempo, e Milano, Bompiani, Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito, Milano, Cortina,  Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Milano, Cortina, Dove fede e ragione si incontrano?, con Bruno Forte, Cinisello Balsamo, San Paolo, La libertà della vita, Milano, Cortina,  Il decalogo. I dieci comandamenti commentati dai filosofi, II, Non nominare il nome di Dio invano, Milano, Albo Versorio, Giulio Giorello relatore al convegno internazionale "Science for Peace", Milano, La scienza tra le nuvole. Da Pippo Newton a Mr Fantastic, Milano, Cortina, Kos. Rivista di medicina, cultura e scienze umane,  4: Dio, Patria e Famiglia, Milano, Editrice San Raffaele, Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani,  Il peso politico della Chiesa, Cinisello Balsamo, San Paolo, Viaggio intorno all'Evoluzione, Mascella, Zikkurat Edizioni & Lab, Harsanyi visto da Giorello, Milano, Luiss University press, Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà, Milano, Rizzoli, Ricerca e carità. Due voci a confronto su scienza e solidarietà, Milano, Editrice San Raffaele,  Introduzione a Apostolos Doxiadis e Christos H. Papadimitriou, Logicomix, Parma, Guanda,  Lussuria. La passione della conoscenza, Bologna, Il Mulino,. Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo, Milano, Longanesi,. Il tradimento. In politica, in amore e non solo, Milano, Longanesi,. Premio Nazionale Rhegium Julii Saggistica. La filosofia di Topolino, Parma, Guanda,.  Noi che abbiamo l'animo libero. Quando Amleto incontra Cleopatra, Milano, Longanesi, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   CULTURAAddio a Giulio Giorello, filosofo della scienza e difensore della libertàBy Vincenzo VillarosaPosted on 16 Giugno 2020 È morto all’età di 75 anni il filosofo Giulio Giorello, per le conseguenze dell’influenza da COVID-19, dopo aver trascorso due mesi di degenza in ospedale ed essere stato dimesso alla metà di maggio. Successore del maestro Ludovico Geymonat alla cattedra di Filosofia della Scienza dell’Università Statale di Milano, il 12 giugno scorso il filosofo aveva sposato la compagna Roberta Pelachin. Il Premier Giuseppe Conte lo ha ricordato, in un messaggio sui social, come un pensatore che ha saputo riflettere sui rapporti tra etica, politica e religione.  Nato a Milano nel 1945, Giorello si laureò in Filosofia alla fine degli anni Sessanta e in Matematica, qualche anno dopo, seguendo la tradizione antifascista e marxista del maestro Geymonat e il difficile tentativo di contrastare le divisioni tra pensiero scientifico e umanistico. In seguito, fu docente di Meccanica razionale all’Università di Pavia e poi alla Facoltà di Scienze presso l’Università di Catania, a quella di Scienze naturali all’Università dell’Insubria e, infine, al Politecnico di Milano.  L’accademico milanese fu presidente della SILFS (Società italiana di Logica e Filosofia della scienza), ma i suoi studi spaziavano dalla mitologia all’antropologia e alla psicologia evolutiva fino alla bioetica e alle neuroscienze. Uno tra i più bravi epistemologi italiani, insomma, capace di unire il rigore per gli studi sul metodo della scienza alle riflessioni sull’ambiente sociale e politico nel quale si muove la ricerca scientifica.  Accanto all’attenzione per le discipline fisico-matematiche e all’accrescimento della conoscenza scientifica, Giulio Giorello analizzava le modalità complesse e contraddittorie della convivenza sociale e politica. Sulla scia del pensiero del filosofo John Stuart Mill – di cui aveva curato l’edizione italiana dell’opera Sulla libertà, nel 1981 –, scrisse, in particolare, pagine illuminanti sulla natura, i limiti e la possibile difesa della libertà umana.  La sua instancabile attività di saggista era basata su un’approfondita conoscenza della produzione saggistica e del dibattito internazionale intorno al discorso scientifico. La testimonianza di questa ricchezza culturale è rintracciabile nella preziosa direzione editoriale della collana Scienza e idee per Raffaello Cortina Editore e nella capacità di divulgazione espressa, tra l’altro, nella collaborazione alle pagine culturali del giornale Corriere della Sera.  Tra le opere di saggistica, ricordiamo Filosofia della scienza (Jaca Book, 1992) e due contributi recenti di divulgazione scientifica come La filosofia della scienza nel XX secolo (con Donald Gillies, Laterza, 2010) e La matematica della natura (con Vincenzo Barone, Il Mulino, 2016). Nelle opere Di nessuna chiesa. La libertà del laico (Cortina, 2005) e Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo (Longanesi, 2010), infine, Giorello parlò del valore della laicità in maniera antidogmatica e rispettosa della visione del mondo dei credenti.  La curiosità intellettuale e la personalità liberale del filosofo e matematico milanese si espresse anche nell’interesse sul rapporto tra la cultura definita alta e quella popolare presente, ad esempio, nel mondo dei fumetti. Il suo saggio pop su La filosofia di Topolino (con Ilaria Cozzaglio, Guanda, 2013) ne è una divertente ma non banale rappresentazione.  La perdita di Giorello toglie alla scena italiana e internazionale uno dei più attenti conoscitori dell’articolato cammino della filosofia e del sapere scientifico e, allo stesso tempo, un difensore delle libertà individuali e collettive, senza le quali non è possibile alcun accrescimento e consolidamento del patrimonio culturale dell’umanità.  RELATED TOPICS:FILOSOFIA, LETTERATURA, PRIMA-PAGINA, SOCIETÀIndice 0. Introduzione... p.7 1. Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo... p.11 1.1. Il settenario... p.11 1.2. Il vizio della lussuria... p.12 1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo... p.12 1.2.2. Vizio del corpo... p.13 1.2.3. Vizio dell anima... p.15 1.2.4. I coniugati e la lussuria. «Se non riescono a contenersi si sposino, meglio sposarsi che ardere (I Cor. 7,9)»... p.17 2. La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno... p.19 3. La lussuria come potere nel Canto V dell Inferno... p.31 4. La lussuria come piacere e dolore nel Canto V dell Inferno... p.44 5. La lussuria come filosofia nel Canto V dell Inferno... p.52 6. La lussuria come inganno e come sovversione nel Canto V dell Inferno... p.61 7. La lussuria nel Canto V dell Inferno: conclusione... p.66 Bibliografia... p.70  0. Introduzione Non v è dubbio che fra gli insegnamenti che Dante può riservare agli uomini del terzo millennio ci sia anche quello di puntare su un solo profondo amore al centro di tutta un esistenza, persistente anche oltre la soglia della morte, capace di rinnovare la vita di una persona, di orientarla al meglio. Come afferma Emilio Pasquini nel suo libro Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, la lettura della Divina Commedia dantesca si mostra rilevante anche nel terzo millennio. Ovviamente, un opera di qualche secolo fa rischia di non essere più adatta alle generazioni contemporanee. Ogni epoca conosce tendenze critiche differenti per quanto riguarda la Commedia, ogni generazione [ ] legge il suo Dante 2, e quindi, come lo pone Renzi, siamo prigionieri anche noi del nostro tempo 3. Pasquini segnala che, di tutti gli episodi della Commedia, soprattutto quello di Paolo e Francesca risulta molto interessante per i lettori di oggi 4. L amore-passione che forma il nucleo della storia continua a intrigare. Rappresenta una delle idee riguardanti l uomo tra cui Dante, in un modo meraviglioso, stabilisce legami nei suoi versi. Quelle connessioni creano la celebre feconda ricchezza di Dante, la quale fa sì che tanto all epoca (quando si trattava della fede, della relazione tra Creatore e creatura) quanto oggi (ormai importa la nostra coscienza etica) si scoprono delle idee sorprendenti e chiarificatrici nell opera 5. Accanto a questo, la storia dei due lussuriosi illustra pure la persuasione [di Dante] della presenza, nella vita di ognuno, di un gesto decisivo che sanziona la sorte eterna dell uomo [ ]. Oggi, asserisce Pasquini, una simile prospettiva riguarda (e riguarderà in futuro), su un piano totalmente terreno, le scelte radicali che decidono il corso di un esistenza, le svolte cruciali che imprimono alla vita di un individuo una precisa e irreversibile direzione, decidendo del suo destino in terra 6. 2 Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Paravia, Bruno Mondadori Editori, 2001, pp.257. 3 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.12. 4 Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit., pp.259. 5 Ibidem, pp.269. 6 Ibidem, pp.275. 7  Introduzione Si può aggiungere che, in generale, la ricerca della sapientia mundis del giovane Dante s inserisce perfettamente nella visione contemporanea del mondo, la quale è completamente fissata sull acquisizione di nuove conoscenze e su uno sviluppo personale completo. Parallelamente, si rivela adatto alla società di oggi l avvertimento di Dante adulto che tale ricerca deve essere interrotta quando rischia di condurre non alla magnanimità ma alla folia. 7 D altronde, Inglese segnala che il carattere realistico del poema, dei suoi personaggi e delle sue scene illustra che Dante utilizza il mondo terreno come una metafora dell oltremondo, l altro mondo è reso sensibile e leggibile con le forme del nostro mondo 8. Anche questo aspetto della Commedia fa sì che i lettori di oggi possono capire abbastanza facilmente il mondo sotterraneo evocato dal poeta. La conoscenza del mondo, inoltre, stabilisce il legame tra il commento di Pasquini e quello del filosofo Giulio Giorello, la cui teoria riguardante la lussuria non concorda con la visione cristiana del fenomeno, esposta nel primo capitolo della presente tesi. Ne risulta che la lussuria, dal punto di vista cristiano, si presenta come un fenomeno disprezzabile. Si tratta di una caratteristica umana da combattere e da eliminare. Il filosofo, invece, adotta un punto di vista molto differente nella sua recente monografia Lussuria. La passione della conoscenza 9. Propone un analisi molto originale del vizio, mirata a provocare, nel ventunesimo secolo, una sensazione di liberazione nel lettore della letteratura d ispirazione cristiana sul soggetto. Giorello considera la lussuria non solo come un peccato, ma anche, e in primo luogo, come una libertà: E per ciò [la lussuria] può costituire il nucleo di una società aperta e libertaria, insofferente di qualsiasi costellazione di dogmi stabiliti 10. Anche se il concetto centrale della tesi vi è inquadrato in un contesto quotidiano, universale e laico, non viene trascurato il significato cristiano del termine. L autore approfondisce il concetto di lussuria descrivendo come il desiderio lussurioso può manifestarsi in varie forme: parla della lussuria come potere, come filosofia, come inganno Andando al fondo della nozione di lussuria, stabilisce delle relazioni significative tra vari testi, autori e concetti. 7 Ibidem, pp.271-273. 8 Giorgio Inglese, premessa, in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007, pp.9. 9 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2010. 10 Ibidem, risvolto della sopraccoperta. 8  Introduzione A mio giudizio la lettura del Canto V dell Inferno dantesco nell ottica proposta da Giorello può offrirmi, e con me a tutti i lettori del capolavoro di Dante Alighieri, una lettura fresca e interessante di questi versi già ampiamente commentati. Vorrei dimostrare che le sue idee nuove permettono di attualizzare questa parte del testo dantesco anzi, tutta la Commedia- e di agganciarlo alla società del ventunesimo secolo (cf. Pasquini, cf. supra). Tutte le manifestazioni della lussuria contemplate dal filosofo verranno applicate al Canto V, poiché i suoi ragionamenti permettono di gettare nuova luce sul testo dantesco e di presentarlo a una società diventata quasi completamente laica, nella quale la religione cristiana è diventata un vago ricordo di altri tempi, un fenomeno soltanto latente (cf. supra). Anche nel libro di Giorello l aspetto religioso della lussuria non è quello più importante, ma è sempre presente in modo velato. Ciò significa che predomina la ricchezza rappresentata dalle varie manifestazioni del concetto denominato lussuria, a scapito della visione cristiana del fenomeno, la quale predica la restrizione di questo vizio. Tutto ciò spiega perché i concetti delimitati da Giorello, in combinazione con commenti da parte di Pasquini, mi faranno da filo conduttore per redigere la presente tesi. L accostamento evidenzierà paralleli e complementi interessanti. Dato che il mio scopo è l elaborazione di una nuova analisi della lussuria nel celebre Canto V prendendo come guide alcuni studiosi contemporanei, l aggiunta di pensieri e di ragionamenti provenienti dal libro Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante di Lorenzo Renzi arricchirà ancora l esposizione, tra l altro la parte nella quale si tratta della colpevolezza o dell innocenza di Paolo e Francesca. Renzi, nel suo libro, vuole reagire sia alla retrocessione di Francesca in generale, sia all interesse privilegiato mostrato dai critici per la tirata lirica di Francesca 11. L autore specifica che l episodio di Francesca forma, infatti, una metonimia della Commedia, cioè la parte per il tutto: [ ] drammatizza e presenta in exemplo la palinodia di Dante, il suo abbandono degli errori giovanili, del mondo dell amore terreno e della sua poesia (lo Stil novo), per cominciare l ascensione. Riferendosi a Paolo Valesio, afferma però anche che il personaggio di Francesca si rivela tanto intrigante che la palinodia rischia di diventare il suo contrario, una palinodia della 11 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.12. 9  Introduzione palinodia: una nuova esaltazione dell amore terreno 12. Accanto al riferimento a Valesi il testo di Renzi offre ancora molte informazioni sorprendenti riguardanti altri autori e commentatori. Giorgio Inglese, poi, è il quarto critico principale che sarà evocato. Il suo commento all Inferno mi ha procurato vari elementi chiarificatori, distinguendo, nella Commedia, una struttura e una poesia, per esempio, o puntando sull importanza, nel Canto V, di contrasti forti. Anche lui si mostra un difensore di una dantistica del terzo millennio. La maturità della disciplina ( la quantità [dei studi] è ormai misurabile solo con i mezzi dell elettronica ) non implica però stagnazione, e lo dimostra bene, per quanto riguarda la Commedia, proprio la vitalità del genere commento 13. In ogni capitolo della presente tesi, una nozione filosofica evidenziata nel libro già citato di Giorello si trova alla base delle idee sviluppate nel capitolo relativo. A quei ragionamenti s intrecciano varie riflessioni dalla parte di Pasquini, Renzi, Inglese e alcuni altri commentatori. 12 Ibidem, pp.7-8. 13 Giorgio Inglese, premessa, in Commedia. Inferno di Dante A lighieri, cit., pp.12. 10  1. Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Come capitolo introduttivo presenterò un resoconto generale del paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo, incluso un attenzione particolare per la storia del vizio della lussuria. Baserò questa visione d insieme sul volume I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, pubblicato dalle Edizioni Einaudi nel 2000. 1.1. Il settenario Anzitutto si deve segnalare che il sistema dei vizi capitali non è un invenzione di un individuo. Si tratta piuttosto di una raccolta di idee che si è sviluppata attraverso secoli, continenti e persone diversi; di un enorme enciclopedia nella quale si trova di tutto, un efficace schema classificatorio per parlare [...] del mondo 14. Un topos, per così dire. Una volta che il paradigma aveva ottenuto la sua forma definitiva, ben circoscritta, ha avuto un successo immenso, tanto presso i chierici quanto presso i laici. Si potrebbe dire che, per quanto riguarda l Occidente, la storia medievale di questi sette vizi inizia con gli scritti di tre ecclesiastici: Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano e Gregorio Magno. Cassiano (V secolo), avendo delineato nelle sue opere l insieme delle teorie del suo maestro Pontico sui sette vizi capitali, ha scritto una delle opere più significative per la cultura tanto religiosa quanto laica del Medioevo. Fino al XV secolo, il settenario dei vizi capitali, al quale Cassiano ed Pontico attraverso gli scritti del suo allievo- ha contribuito, ha avuto grande successo. Dante, quindi, ha vissuto in un epoca che accordava molto importanza all idea dei sette vizi capitali. Si deve specificare che tanto Pontico quanto Cassiano distinguono otto vizi capitali, al posto di sette: gola, lussuria, avarizia, tristezza, ira, accidia, vanagloria e superbia (elenco tratto dall opera di Casagrande e Vecchio). Magno, nella sua opera Moralia in Job (fine VI secolo), ne distingue sette; non menziona più l invidia come vizio capitale. Anche Moralia in Job costituisce un opera di notevole importanza per la cultura medievale: è molto più di un 14 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000, pp.xvi. 11  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo commento: esegesi, teologia, etica si mescolano a comporre un disegno di larghissimo respiro 15. Il paradigma dei vizi capitali porta, naturalmente, l impronta dell ambito nel quale è stato lavorato, cioè l impronta della società monastica non solo quella occidentale. Infatti, Cassiano aveva apportato all Occidente conoscenze orientali egiziane, siriane-, adottate dalla cultura monastica orientale, raccolta nell Egitto. Anche il suo maestro, Pontico, aveva imparato molto sui vizi capitali in quel crogiolo culturale che fu Alessandria d Egitto alla fine del IV secolo 16, e nelle sue riflessioni, idee della filosofia occidentale si sono confuse con questa sapienza proveniente dall Oriente. Di più, le idee rappresentate dai sette vizi capitali risalgono, infatti, alle difficoltà proprie alla vita nel monastero: Per i monaci essi rappresentano gli ostacoli da superare lungo il cammino di perfezione al quale si sono votati, in una continua battaglia contro se stessi e contro quel mondo che si sono lasciati alle spalle 17. Detto questo, si può inquadrare la nascita e lo sviluppo del settenario, almeno per quanto riguarda il Medioevo. In quello che segue tratterò più in dettaglio la storia medievale di uno dei vizi capitali, cioè di quello che costituisce il nucleo centrale della mia tesi: la lussuria. 1.2. Il vizio della lussuria 1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo Non solo il cristianesimo ha trattato il desiderio sessuale con diffidenza. Già nella cultura pagana, gli individui si sfidavano da persone che riconoscevano apertamente di sentire tali voglie. La religione cristiana si è adeguata molto abilmente a queste preoccupazioni, riunendole in un vizio capitale chiamato lussuria. Denominando così sentimenti vari e irrequieti, la fede calma, crea ordine nel mondo, nella società, nella vita particolare di ogni persona che si riallaccia alla tradizione cristiana. Diventa molto attraente in questo modo. Lo sviluppo di paradigmi simili contribuisce alla popolarità di una concezione di vita, tanto di visioni di tipo religioso come di concezioni pagani. 15 Ibidem, pp.xi. 16 Ibidem, pp.xii. 17 Ibidem, pp.xv. 12  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Cassiano descrive la lussuria, situandola nell ambito della natura propria agli uomini, come un vizio intrinseco, come un aspetto essenziale della specie umana. Magno monaco e papa-, anzi, pone che essa sarebbe un attività tutto naturale del corpo, che, per di più, sarebbe intento da Dio. Da un punto di vista laico (nel senso di ateistico), si vede apparire, in questo discorso, una concezione molto moderna della sessualità umana. Rimanendo nel contesto cristiano, il papa, sviluppando una tale visione, crea infatti un idea che spiana la via per la lussuria: se forma un desiderio proprio all uomo tanto naturale quanto il bisogno di mangiare e di bere, non si può evocare più niente per intimargli l alt. Ma, a dire il vero, la visione della lussuria divisa in modo più ampio durante i secoli medievali è quella ideata da Agostino. Secondo lui, l elemento chiave che trasforma la sessualità dell uomo in un attività peccaminosa, sarebbe stato il peccato originale. Prima della ribellione di Eva e Adamo contro Dio, i due primi esseri umani sarebbero stati i padroni assoluti dei loro organi sessuali, presenti per rassicurare la procreazione della specie umana. Dopo, invece, come punizione reciproca per la loro disubbidienza a Dio, queste parti dei loro corpi diventano insubordinati, non li possono più controllare. Anzi, sono quegli organi del corpo a poter dominare l anima dell essere umano. Lì si ritrova il primo vero aspetto della pena imposta ad Adamo ed Eva. La seconda è rappresentata da una conseguenza irrimediabile del fatto che si sta parlando dell attività responsabile per la generazione: l uomo trasmette quel peccato di padre in figlio, per l eternità. Per forza, i figli nascono peccatori. Nonostante il fatto che la visione agostiniana della lussuria era molto diffusa durante il Medioevo, si comincia già a rivederla nel XII secolo. Si osserva infatti un processo di desessualizzazione del peccato originale 18. Implica l accettazione della concupiscenza come una delle conseguenze del peccato originale, non come l effetto principale di questo. Tuttavia, la sessualità non viene tolta dall ambito peccaminoso nel quale era stata introdotta: La natura era ormai inevitabilmente corrotta 19. 1.2.2. Vizio del corpo Cassiano attribuisce alla lussuria (denominata, in un primo momento, la fornicazione), tutto come alla gola, lo statuto di vizio carnale, un vizio cioè che implica 18 Ibidem, pp.151. 19 Ivi. 13  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo necessariamente la partecipazione del corpo 20. Rivendica non solo la cooperazione degli organi sessuali, ma pure quella di tutti gli organi legati alle esperienze sensoriali: gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca e le mani. La lussuria, infatti, si presenta come il solo vizio capitale che coinvolge ognuno dei cinque sensi. Nel Medioevo, la collaborazione tanto versatile del corpo umano alla fornicazione approda all idea che questo corpo non solo partecipa allo svolgimento del vizio, ma ne subisce anche le conseguenze. Quelle, naturalmente si tratta di conseguenze di atti peccatori-, non appaiono sotto forme agrevoli: terribili mali di testa che i medici non sanno come curare, progressiva perdita delle forze, vita breve e, su tutto, l immonda malattia che attraverso piaghe ripugnanti e maleodoranti consuma lentamente ma inesorabilmente il corpo, la lebbra 21. Per di più, il debole corpo umano è inestricabilmente connesso con il vizio della fornicazione: senza la presenza di un corpo, non si può manifestare la lussuria. Il vizio rivendica la sussistenza della carne umana per poter apparire. Si tratta quindi di un peccato intrinseco al fisico umano. A dire il vero, la lussuria non tocca a qualsiasi corpo. Si ritrova essenzialmente in fisici maschili. Questo aspetto della fisionomia della fornicazione non deve sorprendere: si parla di un peccato il quale carattere ed essenza sono stati messi a punto negli monasteri abitati da ecclesiastici maschili (fra le altre i padri fondatori del settenario dei vizi 22 : Pontico, Cassiano e Magno). A lungo, le donne non entravano nel discorso sulla fornicazione, tranne come oggetti degli impulsi lussuriosi maschili. Non vengono mai considerate capaci di intervenire come iniziatrici per quanto riguarda questo peccato. La femmina, invece, ritenuta un essere più debole che il maschio, era creduta molto suscettibile delle avance peccatori esibite dal suo corrispondente maschile. Inoltre, l insieme di gioielli, profumi, tenute ecc. (l ornatus, come scrivono Casagrande e Vecchio) che mette l accento sull eleganza femminile si considerava un tutto che serviva essenzialmente a rendere i corpi delle donne ancora più attraenti e, di conseguenza, più sensibili ai suggerimenti lussuriosi dalla parte dei maschi. Peraldo descrive le donne che si vestono e si truccano per andare a ballare tramite una metafora memorabile: [sono 20 Ibidem, pp.152. 21 Ibidem, pp.153. 22 Ibidem, pp.155. 14  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo come] un esercito di soldatesse del Diavolo che si prepara a dare battaglia per strappare a Dio l anima degli uomini 23. Quindi, nonostante il fatto che le donne non possono esibirsi come istigatrici del vizio della lussuria, sono consapevoli degli effetti che hanno i loro fisici sui loro complementi, si avvalgono di queste loro qualità, e così, inconsapevolmente, incitano negli uomini gli impulsi che li portarono ad atti lussuriosi. 1.2.3. Vizio dell anima Fin qui, la lussuria è stata dipinta come un vizio essenzialmente corporale. A dire il vero, la sua origine non è soltanto carnale, ma si trova nell interiorità più profonda dell anima umana. Proprio i monaci abitanti dell ambito nel quale è cresciuta l idea del vizio capitale abbordata- hanno (tra l altro) riconosciuto che il nucleo della fornicazione sarebbe di natura spirituale. Nel vangelo secondo Matteo si può leggere una frase che non lascia adito ad alcun dubbio: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt. 5, 28) 24. Ma questa idea non implica che il corpo non potesse essere lussurioso. Inserisce piuttosto una fase intermedia nell insieme di fasi propri all azione peccaminosa. In primo luogo nascono le idee lussuriose nell anima dell uomo; in seguito si osserva che, da questi pensieri, sorge una specie di corpo virtuale (questa costituisce quindi la tappa alla quale si riferisce nella sentenza evangelica); infine l atto adultero si svolge per quanto riguarda il corpo reale, di carne e ossa. A proposito della nozione di carne, si dovrebbe ancora specificare la differenza, quanto al peccato della lussuria, tra carne e corpo, vale a dire: quando l anima cessa di pensare, immaginare, ricordare, assecondare, ascoltare, in una parola servire il corpo, il corpo cessa di essere carne, oggetto e strumento di quel desiderio eccessivo e disordinato che ha colpito l uomo dopo il peccato originale, per tornare a essere solo corpo, un aggregato di materia che garantisce la vita dell individuo 25. 23 Ibidem, pp.157. 24 Il nuovo testamento, a cura di Giuliano Vigini, revisione di Rinaldo Fabris, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2000, pp.47. 25 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.160. 15  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Si potrebbe dire, dunque, che, riguardo alla fornicazione, non ci entra il corpo umano vero e proprio, ma un suo equivalente virtuale, come l hanno formulato Casagrande e Vecchio. In effetti, già nell ottica agostiniana della lussuria è inclusa l idea che gli impulsi concupiscenti corporali, da soli, non costituiscono sensazioni peccaminose. È precisamente la condiscendenza dell anima alle pulsioni carnali che trasforma queste ultime in impulsi peccatori. In seguito, si deve segnalare, in questo capitolo, il punto di vista piuttosto sorprendente di Pietro Abelardo (XII secolo) sul vizio capitale della lussuria, soprattutto per quanto riguarda la relazione tra anima e corpo. Abelardo sosteneva che tanto la concupiscenza quanto l atto sessuale e i compiacimenti che lo accompagnano avevano fatto parte della natura dell uomo a partire dal peccato originale. Affermava che l elemento vizioso stava solamente nella transigenza dell anima umana al corpo (carne, infatti) corrispondente. Con questa teoria, Abelardo sviluppa, a dire il vero, una concezione molto moderna della sessualità umana. Non per niente le sue asserzioni hanno provocato moltissime reazioni alla sua epoca. La notevole importanza dell anima in quest ambito viene confermata dalle conseguenze che ha il vizio della lussuria non solo per il fisico dell uomo ma anche, e specialmente, per la sua anima immortale. La fornicazione corrompe il corpo umano, lo rende impuro e infangato; ma è ancora molto più dannosa all anima: una volta imbrattata da questo peccato, lo spirito dell essere umano, debilitato e confuso, incoerente, è sull orlo della rovina. Si tratta di un vizio talmente onnicomprensivo che abbraccia tutti i livelli e strati dello spirito; si espande in tutti gli angoli della mente. Il danneggiamento dell anima dalla lussuria si rivela incontestabilmente il più grave nell indebolimento della ragione, componente più nobile e preziosa dello spirito umano. Mina il potere della capacità più eccezionale dell uomo, cioè la potenza di dominare tutti i suoi sentimenti, emozioni e impulsi facendo appello alla ragione. In effetti, non solo la Chiesa si preoccupava dalla decadenza della ragione sotto l influsso di attività sessuali. Prima della tradizione cristiana, un ampia tradizione pagana aveva cercato di offrire uno sfogo a simili preoccupazioni. In questo modo, ha potuto crescere, fra le altre prima in ambito pagano, poi in contesto cristiano-, l idea che l intelligenza concetto concepito come positivo- dovrebbe essere capace di mettere l uomo nella 16  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo possibilità di controllare gli impulsi carnali concepiti come negativi. Dato che gli ultimi avvicinavano l essere umano dall animale, il contrasto tra questi di una parte, e la nobiltà incontestabile della ragione umana d altra parte, si rivelava grandissimo. Se è vero che tale opposizione si presentava palesemente in contesto scientifico, per dirlo così intellettuale, filosofico ecc.-, la sua importanza per la vita quotidiana dell uomo medio è inequivocabile, visto la funzione [della ragione] di garantire la misura, la compostezza, l equilibrio nella vita di ciascun individuo 26. Trasposto in ambito letterario, il dualismo fra la ragione e gli stimoli carnali, e, più in particolare, la follia nella quale può sfociare la vittoria riportata dalla carne alla ragione, s impadronisce dei protagonisti dei romanzi cortesi. Il fenomeno rappresenta il culmine assoluto dell incostanza confusa che può essere provocata in varie misure dalla lussuria. 1.2.4. I coniugati e la lussuria. Se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere (I Cor. 7,9) 27 Tra tutte le persone che non scelgono la castità come cura della lussuria, i coniugati formano un gruppo speciale. Il matrimonio, in effetti, non elimina la lussuria, ma nella misura in cui vieta tutti i rapporti extraconiugali e limita quelli coniugali [a quelli che servono alla procreazione e quelli che sono necessari per soddisfare le sensazioni concupiscenti dei coniughi ed evitare, in questo modo, che commettono il peccato della fornicazione], la contiene e la riduce 28. La storia del concetto di matrimonio, per quanto riguarda il vizio della lussuria, si rivela alquanto complicata. In primo luogo si deve segnalare che la ragione per la quale certi cristiani propendevano per la castità e non per il matrimonio consisteva nel fatto che il matrimonio limitava solamente la lussuria; non poteva escluderla. Ma, allo stesso tempo, questo fatto veniva anche rivendicato dai credenti che volevano proteggersi dalla lussuria: il matrimonio, dopo tutto, delimitava la portata del vizio. Poi, Agostino aggiunge che considera l unione coniugale un bene, certamente inferiore a quello della castità, ma comunque un bene, e questo non solo per la procreazione dei figli 26 Ibidem, pp.167. 27 Il nuovo testamento, cit., pp.603. 28 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.172. 17  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo ma anche per la società naturale che l unione tra i due sessi comporta 29. Di più, pone che Dio avrebbe previsto l unione carnale tra gli uomini e i loro complementi femminili prima del peccato originale, visto che entrambi i sessi erano già dotati di organi sessuali chiaramente visibili e differenti prima che Eva ed Adamo disubbidivano a Dio. Il peccato non sta dunque nel coito [...] ma nell uso che gli uomini [...] ne fanno. 30 Queste idee agostiniane sono state molto diffuse durante tutto il Medioevo. Finalmente, si deve ancora segnalare che il legame stabilito tra il vizio della lussuria e il matrimonio fa sì che il peccato si estende dall essere umano individuale alla comunità intera. Può corrompere tutta una società; non si tratta più di un vizio dannoso alla vita e all anima di una singola persona, a tal punto che minaccia tutta la specie umana. Da questo punto di vista, il peccato occupa una posizione particolare, anzi unica nel settenario dei vizi capitali. 29 Ibidem, pp.173. 30 Ivi. 18  2. La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Nella sua esposizione sulla lussuria come potenza (o impotenza) Giorello asserisce che la lussuria [ ] è mescolanza di tutte le cose del mondo, rotture d ordine, spezzatura 31. Nel caso di Paolo e Francesca, di certo, la lussuria è stata responsabile di una rottura dell ordine quotidiano, anzi, dell ordine del mondo come i due innamorati lo conoscevano. La spezzatura della loro realtà viene causata direttamente dalla potenza (cioè, dalla potenza nel senso filosofico della parola: potenza come volontà) che costituisce una parte essenziale del desiderio lussurioso che sperimentano. Dal momento in cui cedono alla loro volontà lussuriosa, Francesca, consapevolmente, abbandona suo marito, pone fine al suo matrimonio. Nel v. 107 Caìn attende chi a vita ci spense 32 il nome di Gianciotto è taciuto per disprezzo, non certo per femminile riserbo 33. Neanche Paolo può più tornare indietro; la relazione tra lui e suo fratello è irrimediabilmente danneggiata. Il bacio dei due lussuriosi segna un passaggio chiave nella loro storia lussuriosa. Dopo una fase di dubbi e di disperazione, è arrivato il momento in cui decidono di rinunciare a tutto quello che è familiare, e di perdersi in un avventura della quale sanno che gli porterà sia la felicità assoluta sia la perdizione. La tragica combinazione di tenerezza e di rovina è illustrata dal v. 106 Amor condusse noi ad una morte 34 : la prima e l ultima parola del verso si rispondono fonicamente AMOR condusse noi ad una MORte. Inglese chiarisce che, in questo modo, il verso s iscrive nella lunga tradizione di una diffusa paretimologia (Federigo dall Ambra, son. Amor che tutte cose: Amor da savi quasi A! mor si spone ). Per di più, la parola morte, nel Canto V dell Inferno, conclude la serie di proposizioni principali il cui soggetto è Amore 35. In questo senso, la lussuria si presenta come una mescolanza di tutte le cose del mondo: ogni diritto ha il suo rovescio. Di rado, la realtà nella quale vivono gli esseri umani offre una gioia senza che, contemporaneamente, appaia anche qualcosa che tempera questo sentimento. È un dato che si manifesta in modo particolarmente chiaro in situazioni 31 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.23. 32 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, Roma, Carocci editore, 2007, pp.90. 33 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007, pp.90. 34 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.90. 35 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.90. 19  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno lussuriose. Paolo e Francesca propendono non solo per la felicità (lussuriosa) ma anche per l aspetto penoso che essa implica. Da quanto appena enunciato risulta che la dimensione della lussuria identificata come la volontà forma una caratteristica fondamentale del fenomeno. Se manca una forte volontà, non si può parlare di lussuria. È appunto dalla volontà umana che procede il desiderio di qualcosa. Dal testo di Giorello emerge che il desiderio an sich deve, infatti, considerarsi come essenzialmente lussurioso. Nel caso di Paolo e Francesca, si tratta del desiderio dell altro. Dante presta molta attenzione all espressione di tale potenza. È probabilmente una delle più belle manifestazioni dello spirito umano: unica, forte, ma anche tragica. Forse la bellezza risiede, appunto, nella tragicità. Quello che un essere umano può realizzare grazie alla volontà commuove solo quando si mescola con altre caratteristiche come, in questo caso, il tragico. Il desiderio umano, giudicato lussurioso per definizione, è presente nel Canto V non solo nella decisione presa da Paolo e Francesca. Ci troviamo nella prima parte dell Inferno, cioè all inizio del viaggio sotterraneo di Dante personaggio. E siccome Dante parla, infatti, di ognuno di noi, ci troviamo all inizio del viaggio che ogni peccatore potrebbe desiderare, un giorno. Anche lui sperimenta un forte desiderio. Si trova sulla via della perdizione, e vuole ritrovare la retta via. Vuole andare verso la luce divina, è in cerca di una direzione nella sua vita. Questa aspirazione predomina su tutto il suo essere, come il desiderio di Francesca domina su Paolo e vice versa. Inoltre, Giorello pone che la laicizzazione è la lussuria dell emancipazione dalla soggezione alla natura e/o alla divinità emancipazione che costituisce la premessa di una società politica matura 36. Secondo me, l autore suggerisce che l assunto che la laicizzazione sia un processo lussurioso sarebbe ovviamente consono alla visione cristiana della lussuria che la considera un vizio capitale. Classificare la laicizzazione tra le varie forme in cui può manifestarsi la lussuria le conferirebbe lo statuto di un azione peccaminosa. L idea principale che vuol esprimere il filosofo in questa frase, però, è che il desiderio umano di venir liberati dall assoggettamento a un potere superiore si rivela lussurioso, poiché si tratta di un desiderio. Dante personaggio, tuttavia, desidera di esser assorbito completamente dalla luce divina del Dio cristiano. E aspira alla stessa sorte per tutti i suoi contemporanei. L opposizione 36 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.26. 20  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno tra la volontà evocata da Giorello e quella di Dante personaggio illustra il punto di vista del filosofo sulla lussuria. Che il carattere di un fenomeno sia o non sia lussurioso non dipende dalla sua religiosità o laicità. Uno degli aspetti essenziali della lussuria è la forza immensa della potenza umana che fa sì che la lussuria può esistere. Oltre a ciò, l autore menziona che la lussuria istituisce il nesso tra conoscenza e oblio 37. L aspetto della lussuria che è analizzato e commentato in questo capitolo, la potenza, costituisce la forza che spinge un essere umano ad avere curiosità e a cercare risposte alle proprie domande. In questo senso, forma, infatti, l anello che lega l ignoranza e la conoscenza. Dante personaggio vuole conoscere il mondo sotterraneo, e desidera sapere se e come si può salvare. Dalla sua curiosità, quindi dalla sua volontà, sorgerà la comprensione dei fenomeni che vuole capire. Si può pure trasformare la conoscenza in oblio per il tramite della lussuria. Una volta che la conoscenza è ottenuta, è possibile che essa provochi l oblio di altri fatti conosciuti nell essere umano che la ottiene, com è illustrato dall epopea mesopotamica la Saga di Gilgames alla quale si riferisce Giorello. Nel Canto V, tuttavia, si osserva il contrario. Quello che era conosciuto nel passato non è dimenticato, come pone appunto Francesca dopo che Dante le ha chiesto di raccontare come lei e Paolo si sono rivelati i sentimenti amorosi reciproci: E quella a me: Nessun maggior dolore/che ricordarsi del tempo felice/nella miseria: e ciò sa l tuo dottore. Chiaramente, i due lussuriosi si ricordano benissimo quello che sapevano prima del momento in cui la loro volontà di conoscere li ha messi sulla via della perdizione, cioè, prima del momento in cui si baciavano e s appropriavano la conoscenza dell altro. Anzi, in questo passo, Dante autore utilizza letteralmente il verbo conoscere: Ma, s a conoscer la prima radice/del nostro amor tu hai cotanto affetto/dirò come colui che piange e dice 38. Ciò illustra l importanza ardente del significato del termine. Per di più, Giorello pone che la potenza della dea [Venere] è quotidiana [ ], non solo eccezionale 39. Si potrebbe sostenere, quindi, che la caratteristica della lussuria rappresentata da questa volontà incredibilmente potente non si manifesta unicamente in situazioni o momenti eccezionali. Costituisce una forza sempre presente nell essere 37 Ibidem, pp.28. 38 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.91-92. 39 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.35. 21  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno umano, gli appartiene. Non sarebbe capace di liberarsi da essa, se lo volesse. Questo, però, gli è connaturale: si tratta di una parte dello spirito umano troppo essenziale. Senza di essa non sarebbe più un uomo. Per di più, rappresenta un impulso troppo gradevole. All uomo piace infinitamente provare una tale energia dentro di se. Gli dà l idea che potrebbe, infatti, realizzare il progetto che ha in mente, che potrebbe trovare la risposta alla sua domanda. Gli dà il coraggio necessario per dare ascolto ai sentimenti che lo sopraffanno e per arrischiarsi in una ricerca o una situazione che possibilmente finirà male. È questo il momento in cui la volontà lussuriosa, quotidiana, alleggiando, diventa eccezionale. Questo momento speciale si osserva pure nella storia di Paolo e Francesca. Dopo un lungo tempo di voler esser insieme (da solo), arriva quel punto in cui il desiderio di Paolo di sapere come sarebbe di trovarsi nelle braccia della donna amata, diventa troppo forte. La bacia. Un momento riempito in modo molto eccezionale di volontà lussuriosa. Giorello menziona anche che la dea Venere (e quindi la lussuria) può rivelarsi maestra di inganno 40. Certo, nel Canto V, si osservano delle azioni ingannevoli: Francesca tradisce suo marito, Paolo suo fratello. All aspetto ingannevole della lussuria, però, sarà dedicato un altro capitolo della presente tesi. Ciò che colpisce nelle pagine sulla lussuria come potenza in Lussuria. Passione della conoscenza, e che potrebbe dar luogo a una riflessione interessante, è un idea che deduce da un testo di Agostino, Città di Dio. Secondo Giorello si può capire da quest opera che, secondo Agostino, la fiacchezza della nostra volontà (contrapposta alla forza di quella divina) sia ben peggio [ ] di qualsiasi fisica impotentia coeundi 41 perché nell ordine naturale l anima è anteposta al corpo. Agostino descrive la lotta della passione [il corpo] e della volontà [l anima] parlando della lussuria, affermando che esiste almeno l imperfezione della passione nei confronti della pienezza della volontà 42. Ciò pone l accento sul valore più grande della forza mentale che è la volontà dell uomo a paragone del suo corpo fisico. Rileva la preziosità e la versatilità della potenza, la quale è valutata non solo dai fedeli cristiani ma anche da laici. Si potrebbe sostenere, quindi, che si tratta di un punto di vista comune e, di conseguenza, unificatore. L unione d idee 40 Ibidem, pp.36. 41 Ibidem, pp.39-40. 42 Agostino, Città di Dio, Introduzione, traduzione, note e apparati di Luigi Alici, Milano, Bompiani, 2001, pp.684-685. 22  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno cristiane e laiche (nel senso di provenienti dagli antichi) si ritrova, appunto, nella Commedia dantesca. A mio giudizio questa fusione è una delle caratteristiche più meravigliose dell opera. Si rivela in modo splendido nel passo su Paolo e Francesca. La ricchezza del Canto V proviene, tra l altro, dall enumerazione dei nomi di Semiramide, Cleopatra, Tristano, e di tutti gli altri personaggi lussuriosi della mitologia classica menzionati dalla guida di Dante, Virgilio. Inglese spiega che sono donne antiche e cavalieri (v. 71): insomma, l intero mondo del romanzo epico-amoroso, che aveva, di fatto, connesso in un ciclo unico Troianorum Romanorumque gesta et Arturi regis ambages [ avventure ] pulcerrime (Dve I x 2) 43. La loro apparizione conferisce un atmosfera unica all Inferno cristiano. Evocano la grandezza delle storie antiche di alcune coppie famosissime. Risulta dai versi quanto sono care a Dante, tutto come la sua fede. Il ricordo della disperazione, dell amore e della perdizione caratteristico di queste storie si mescola, nel Canto V, ai sentimenti (simili) di Paolo, Francesca e Dante. Per quanto riguarda quella relazione emotiva triangolare tra Dante, Paolo e Francesca, si può segnalare che la sua forza emozionale è ancora aumentata dal fatto che, per Francesca, la visita del pellegrino forma un opportunità unica per confessarsi (dal punto di vista dei colpevolisti di Renzi) o per comunicare e quindi rendere immortale la sua tragica storia d amore (secondo la visione dei giustificazionisti di Renzi, cf. infra). Inglese afferma che gli incontri fra il P. [Dante personaggio] e i dannati si presentano come un momento affatto eccezionale nello svolgersi (che non ha però vero svolgimento) della pena di questi ultimi [ ]: per un motivo superiore ossia, per l edificazione del P. e poi dei viventi che leggeranno il resoconto del viaggio la Provvidenza suscita in alcuni dannati un estremo atto di personalità (v. 84) [ vegnon per l aere, dal voler portate 44 ]. Sul piano poetico, ciò si traduce in una forte drammatizzazione degli episodi: Francesca, per esempio, non avrà mai un altra occasione di confessarsi, di dare forma verbale al proprio tormento 45. 43 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87. 44 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.88. 45 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.89. 23  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Da quello che precede, risulta che un estremo atto di personalità implica una volontà potente, dato che la volontà costituisce una parte essenziale dell essere umano. Si potrebbe dire che, con l ultima frase, Inglese si presenta come un colpevolista, poiché dare forma verbale al proprio tormento può significare dare forma verbale al suo peccato e al modo in cui lo strazio della punizione infernale la tortura. La seconda parte della frase di Inglese, però, potrebbe anche essere interpretata come dare forma verbale al modo in cui entrambi il ricordo del tempo d i dolci sospiri 46 e quello della fine tragica della sua storia d amore la tormentano. Allora, per quanto riguarda Francesca, Inglese si presenterebbe non solo come un colpevolista, ma anche come un giustificazionista. Ritornando alle donne antiche e cavalieri, Renzi asserisce quanto segue: Se ci sarà ancora una critica letteraria dedita a leggere con attenzione i testi, qualcuno noterà, per esempio, che la pietà di Dante per Francesca, primo segno della sua partecipazione emotiva alla storia di Francesca, seguita poi dallo svenimento, era già cominciata al v. 72 e si riferiva alle donne antiche e cavalieri, dunque a tutti quei fantasmi letterari che prima sono definiti peccator carnali. Dunque Dante non solidarizza solo con Francesca. 47 Mentre Virgilio annovera nome dopo nome, Dante personaggio sente come, nel suo cuore, cresce la compassione. Ascoltando la sua guida, diventa sempre più commosso, triste e silenzioso per tutto quell amore disperato, perso. Anche lui ha amato e perso la persona amata. Pasquini pone che non si ha soltanto il dramma cruento dei due giovani amanti riminesi; c è anche il dramma interiore di Dante che si sente personalmente coinvolto in quella tragedia 48. Questo dramma interiore che sperimenta il pellegrino di fronte alla tragedia romagnola si spiega, secondo Pasquini, dall atto d accusa di Beatrice nel Purgatorio (cf. infra). Qualcosa di Francesca ritorna in Dante e nel suo personale traviamento, sotto la spinta del rigoroso atto d accusa cui lo sottopone Beatrice; il che spiega con chiarezza, quasi completandolo, il suo turbamento che non è solo pietà di fronte alla tragedia romagnola. 49 46 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.91. 47 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.11-12. 48 Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit., pp.259. 49 Ibidem, pp.262. 24  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Secondo Pierre-Louis Ginguené (1748-1815), autore di Histoire littéraire d Italie, non è stato il Dante filosofo e teologo che si rivela in altri passi della Commedia che ha scritto l episodio di Paolo e Francesca, ma è stato il Dante innamorato di Beatrice. 50 In questo senso, il Canto V parla da Enea e Didone, Tristano e Isotta, Paolo e Francesca, e pure di Dante stesso. Di conseguenza, tratta anche di ognuno di noi, poiché il passaggio di Dante personaggio attraverso l inferno, il purgatorio e il paradiso celeste rappresenta il viaggio simbolico di ogni peccatore che desidera ritrovare la retta via. Ginguené, per di più, non evidenzia la pietà di Dante, ma nota che la pena in fondo, se non è mite, è la più piccola fra tutte quelle previste dal poeta 51. Renzi spiega come questo non sembra una grande osservazione, ma la riprenderanno, in genere senza conoscersi l uno con l altro, molti critici, da Foscolo [Discorso sul testo della Commedia 52 ] a Teodolinda Barolini [Dante and Cavalcanti (On Making Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its Lyric Context 53 ]. E ci aggiunge: Bruno Nardi [Filosofia dell amore nei rimatori italiani nel Duecento e in altri 54 ], che era l unico che di queste cose se ne intendeva davvero, ha notato che, tra i peccatori nella carne, Dante ha punito i golosi più gravemente dei lussuriosi, invertendo l ordine di San Tommaso 55. Forma un argomento che sostiene la tesi di Ginguené secondo la quale l unico vero autore dell episodio di Francesca sarebbe stato il Dante amante di Beatrice, e certamente non il Dante teologo. Anche per Francesco De Sanctis (in Francesca da Rimini 56 ) e per Benedetto Croce (La poesia di Dante 57 ), segnala Renzi, Dante, come teologo e come cristiano, disapprova i peccati dei lussuriosi. Inglese definisce la pietà di Dante ( pietà mi giunse e fu quasi 50 Pierre-Louis Ginguené, Histoire littéraire d Italie, citato da Lorenzo Renzi in Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.134. 51 Ibidem, pp.135. 52 Ugo Foscolo, Discorso sul testo della Commedia, in Id., Studi su Dante, a cura di Giovanni Da Pozzo, Firenze, Le Monnier, 1979, pp.175-573. 53 Teodolinda Barolini, Dante and Cavalcanti (On Making Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its Lyric Context, in Dante studies, 116, 1998, pp.31-63. 54 Bruno Nardi, Filosofia dell amore nei rimatori italiani nel Duecento e in altri, in Id., Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 1929, pp.1-88, il passo che interessa con i riferimenti a san Tommaso è alle pp.81-82. 55 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.135. 56 Francesco De Sanctis, Francesca da Rimini, in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di Sergio Romagnoli, Torino, Einaudi, 1967, pp.633-652. 57 Benedetto Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1966, pp.73-75. 25  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno smarrito 58 ) un profondo turbamento in cui sono fusi l orrore per il peccato e il dolore per l umanità peccatrice giustamente punita 59. Per De Sanctis e per Croce, da un punto di vista emozionale, invece, Dante non condanna i lussuriosi. Croce sottolinea pure il potere estasiante che ha avuto il libro narrando la storia di Lancillotto e Ginevra sui due peccatori. Asserisce però che Dante, al contrario di altri poeti, riesce a rompere e a superare l incantesimo dolce dell amore. Così, afferma Renzi, il critico italiano è riuscito a ottenere un momento di sovrano equilibrio nella storia della critica [della Commedia], e in particolare dello scontro tra colpevolisti [quelli che considerano Francesca una peccatrice integralmente responsabile delle vicende] e giustificazionisti [quelli che si fanno paladino della donna] 60. D altronde, per quanto riguarda la colpevolezza o l innocenza di Francesca, Inglese segnala che la donna, affermando che Amor, ch al cor gentil ratto s apprende 61, da un punto di vista psicologico si rivela sincera, ma che, nella prospettiva etica del poema, [è] obiettivamente falsa poiché Amore [è] sempre soggetto delle azioni determinanti [ prese costui della bella persona/che mi fu tolta: e l modo ancor m offende./amor, ch a nullo amato amar perdona/mi prese del costui piacer sì forte/che, come vedi, ancor non m abandona./amor condusse noi ad una morte ] 62. Da quest angolatura, infatti, tutte le due ipotesi (tanto quello della colpevolezza quanto quello dell innocenza di Francesca) rientrano nelle possibilità. Si può considerare Amore come il vero colpevole, o giudicare che la donna si è arresa a lui, caso in cui lei si rivela responsabile per le vicende. Secondo Inglese, l aggettivo leggieri che si trova nel v. 75 e paion sì al vento esser leggieri 63 farebbe parte di un idea esclusivamente poetica (e quindi non strutturale) che vuole dimostrare, al lettore, il peso carnale del peccato d amore. Tutto come questo formerebbe un suggerimento puramente poetico, Francesca, nella poesia, vive come anima tormentata dalla passione d amore, mentre dalla struttura è dannata per adulterio incestuoso 64. Quindi, quello che De Sanctis e Croce attribuiscono a Dante teologo e 58 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.87. 59 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87. 60 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.144. 61 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.89. 62 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.89. 63 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.87. 64 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87. 26La storia di Giulio Giorello  In Articoli04-08-2020di Marco Ciardi Dopo la scomparsa di Giulio Giorello, ho letto molti ricordi a lui dedicati. Uno dei migliori è senz’altro quello di Vincenzo Barone, che compare nelle pagine di questo numero di Query . Ringrazio sentitamente Enzo per avere accettato di scriverlo.   image Io vorrei contribuire alla memoria del nostro grande studioso (e amico) sottolineando soltanto uno tra i molti suoi meriti. Giulio era anche un ottimo storico della scienza e delle idee.   Tale merito gli è stato riconosciuto da uno dei maestri del Novecento in questo settore, Paolo Rossi Monti (il cui nome ricorre spesso in questa rubrica e al quale è stato dedicato il primo numero di “Parastoria”, su Query n. 9, ormai otto anni fa). Recensendo uno dei tanti bellissimi libri di Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del Mito (2004), Rossi scriveva: «Giorello è stato, da giovane, allievo di Ludovico Geymonat. Insegna (e si è prevalentemente occupato di) filosofia della scienza. Attualmente è anche Presidente della Società Italiana di logica e filosofia delle scienze. Come il suo libro dimostra, non solo utilizza una grandissima quantità e varietà di testi, ma anche conosce come pochi (e minutamente) la storia e i luoghi dell’Inghilterra e, più ancora, dell’Irlanda. Giorello è del tutto consapevole del fatto che il suo libro è una sorta di labirinto. Dentro quel labirinto (che ha una struttura geometrica) egli conduce (a volte trascina) il lettore. Le avventure di idee hanno la strana (per alcuni insopportabile) caratteristica di essere un po’ avventurose: di portare molto lontano dall’idea che la filosofia abbia il compito di mettere ordine nel mondo, di trasformarlo (come diceva il mio antico maestro Antonio Banfi) in “una linda casetta”. Una parte consistente della filosofia italiana sembra impegnata a confrontare accuratamente fra loro i testi di cinque o sei rispettabili filosofi di lingua inglese, a commentarli, a commentare i risultati del confronto, a polemizzare con gli altri commentatori tentando, nel più dei casi, arzigogolate mediazioni fra tesi contrapposte. Di una cosa non mi pare lecito dubitare: Giulio Giorello non fa parte della vasta, soporifera e innocua schiera degli oscuri e instancabili “roditori accademici”».[1]   L’espressione “roditori accademici” era un rimando a quanto scritto sul tema da Paul K. Feyerabend,[2] un pensatore con cui Rossi ha spesso polemizzato, ma per il quale nutriva profonda stima.[3] E che anche Giorello, non a caso, come ha ricordato Barone, ben conosceva. Sua la prefazione all’edizione italiana di Against method. Outline of an anarchistic theory of knowledge, edito in originale nel 1975, e pubblicato da Feltrinelli nel 1979.[4]   Rossi citava spesso, con orgoglio, che il suo libro che compendiava decenni di ricerche sui rapporti tra scienza e magia, Il tempo dei maghi. Rinascimento e modernità (2006), fosse uscito nella collana “Scienza e idee” diretta da Giorello per Raffello Cortina.[5] Perché sapeva quanto Giulio avesse chiaro cosa significasse fare storia della scienza, come ricordava nell’analisi del libro di Enrico Bellone, Molte nature. Saggio sull’evoluzione culturale (2008): «La parola chiave del processo storico – come nota Giulio Giorello nella brillante prefazione che ha scritto per questo libro – è imprevedibilità. Accade infatti spesso nel presente (ed è accaduto spesso nel passato) che gli scienziati siano stati costretti a “vedere” cose diverse da quelle che avrebbero invece dovuto scorgere sulla base delle proprie credenze personali».[6]   Come ci ha ricordato Barone, Giulio Giorello era laureato sia in filosofia che in matematica. Per questo motivo, come aveva presente Paolo Rossi, Giorello non ha mai pensato che il semplice fatto di essere scienziati equivalga, per coloro che svolgono tale professione, ad una autorizzazione «a parlare di testi che non hanno letto, a prendere posizioni su questioni che non conoscono, ad esprimere opinioni su problemi che non hanno mai avvicinato».[7] Del resto, già oltre un secolo fa il matematico Paul Tannery, uno dei padri fondatori della storia della scienza come disciplina specifica, affermava che «per essere un buono storico non basta essere scienziato. Bisogna prima di tutto volersi dedicare alla storia, cioè averne il gusto; bisogna sviluppare in sé il senso storico che è essenzialmente differente da quello scientifico; bisogna infine acquisire una serie di conoscenze particolari, di ausilio indispensabile per lo storico, che sono invece del tutto inutili allo scienziato che si interessa solo al progresso della scienza».[8] Anche per questo, Giorello era un fautore delle collaborazioni. Come quella (tra le innumervoli) con il fisico Elio Sindoni, che ha portato alla realizzazione dell’affascinante Un mondo di mondi. Alla ricerca della vita intelligente nell’Universo(2016), dove Giulio, nella parte storica di sua competenza, mostra (anche in questo caso) una conoscenza approfondita e raffinata degli argomenti trattati. Mostrando, ad esempio, in nome di quella “imprevedibilità” alla quale si accennava poco fa, come il “romanziere” Jules Verne avesse, sul tema dell'abitabilità dei mondi, idee molto più chiare e precise dello “scienziato” Camille Flammarion.[9]   Del rapporto tra “le due culture” Giorello ha sempre preso il meglio (non dimentichiamo che il celebre testo di Charles P. Snow sull’argomento fu introdotto in Italia dalla prefazione di Ludovico Geymonat). Ed era consapevole del ruolo decisivo della scuola nello sviluppare un processo di apprendimento diverso rispetto a quello tradizionale: «C’è soprattutto da vincere la scommessa circa “l’avvenire delle nostre scuole”, come direbbe Friedrich Nietzsche. Chi guarda attentamente alle grandi svolte del pensiero scientifico e alla stessa innovazione tecnologica non può non constatare come gli aspetti più creativi abbiano travolto qualsiasi steccato disciplinare. Valeva ieri per le dottrine di Copernico o per quelle di Darwin, vale oggi per le frontiere della cosmologia o per quelle della biologia, per non dire dell’informatica e dell’alta tecnologia. Potremmo dilungarci su non pochi esempi di virtuose contaminazioni nelle scienze come nelle lettere. Ma ci limitiamo qui a ricordare che la separazione delle culture è l’effetto più deplorevole dell’atteggiamento che concepisce le acquisizioni dell’avventura umana come entità fisse, sospese nel cielo platonico delle idee.»[10] Perciò Giulio (sempre utilizzando le parole di Paolo Rossi) provava «una invincibile ripugnanza» per «gli elenchi di scoperte e di ritrovamenti tecnici, per le sfilate di risultati eternamente veri e di errori eternamente falsi».[11] Ancora Giorello: «Cosa c’è di meglio per qualsiasi creazione dello spirito umano che venire utilizzata, contestata, magari stravolta in un dibattito (come è appunto quello scientifico), in cui in linea di principio nessuna opinione è immune da critica o revisione? L’ospitalità che la scienza offre a qualsiasi “straniero” (ricordiamoci delle parole di Milton) è di questo tipo. Non c’è miglior rispetto che quello che prende forma nelle modalità del conflitto».[12] Grazie di tutto, Giulio   Note   1) P. Rossi. 2018. A mio non modesto parere. Le recensioni sul “Sole-24 ore”, a cura di R. Bondì e M. Rossi Monti. Bologna: Il Mulino, pp. 224-225. 2) P.K. Feyerabend. 1981. La scienza in una società libera. Feltrinelli: Milano, p. 213. 3) P. Rossi. 1999. Paul K. Feyerabend: un ricordo e una riflessione, in Un altro presente. Saggi sulla storia della filosofia.Bologna: Il Mulino, pp. 161-167. 4) P.K. Feyerabend. 1979. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975). Prefazione di G. Giorello. Milano: Feltrinelli. 5) Cfr. ad esempio, P. Rossi. 2018. A mio non modesto parere, cit., p. 259. 6) Ivi, p. 389. 7) P. Rossi. 1999. Ci sono molti Galilei?in Un altro presente, cit. p. 134. 8) P. Tannery. 1904. De l'histoire générale des sciences, in “Revue de Synthèse”) G. Giorello. 2016. Flammarion, lo “scienziato”, sconfitto da Verne, il romanziere, in Un mondo di mondi. Alla ricerca della vita intelligente nell'Universo. Milano: Raffaello Cortina Editore, pp. 62-68. 10) G. Giorello. 2005. Per una Repubblica delle Scienze e delle Lettere, in Le due culture, a cura di A. Lanni. Venezia: Marsilio, pp. 116-117. 11) P. Rossi. 1967. Considerazioni conclusive, in Atti del Convegno sui problemi metodologici di storia della scienza. Firenze: Barbera, p. 182. 12) G. Giorello. 2005. Per una Repubblica delle Scienze e delle Lettere, cit., p. 118.Grice: “The etymology of libertine ruins it! – or ruins the concept. A slave liberated, being of a low class condition, would be criticized for his excesses of freedom!” Giulio Giorello. Giorello. Keywords: il libertino, implicatura speculativa – specchio e il reame: la communicazione -- “il fantasma e il desiderio” “lo spettro e il libertino” “lo specchio del reame” – “il libertino” “lo scimmione intelligente” lo specchio di Narciso, Bruno, Leopardi-- -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorello” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice e Giorgi – l’implicatura di Bacco – filosofia italiana – filosofia leccese -- Luigi Speranza (Cavallino). Filosofo. Si laurea a Perugia con Givone con “L’estetico” --. studia con Seppilli e Arcangeli Studia etnomusicologia della “Grecìa salentina”, rivalutando i brani in "grico". Altre opere: “Pizzica e rinascita”, La Gazzetta del Mezzogiorno”. Cura “La danza delle spade e la tarantella. Insegna a Lecce. “Le strade che portano al Subasio passando dal Salento” (Ed. Del Grifo, Lecce), “Tarantismo e rinascita: i riti musicali e coreutici della pizzica-pizzica e della tarantella” (Lecce, Argo); “La danza delle spade e la tarantella: saggio musicologico, etnografico e archeologico sui riti di medicina” (Argo, Lecce). “Pizzica-Pizzica, la musica della rinascita. La tarantella del tarantismo e la sua resurrezione: struttura musicale, stato dell'arte e neotarantismo” (Lecce, Pensa MultiMedia); “L'estetica della tarantella: pizzica, mito e ritmo, Congedo Editore, Galatina); “Pizzica e tarantismo: la carne del mito dall'etnomusicologia all'estetica musicale, Galatina, Edit Santoro); “Il tarantismo come mito: dagli errori di De Martino alla rivalutazione del pensiero mitico, Galatina, Congedo); “Il mito del tarantismo: dalla terra del rimorso alla terra della rinascita, Galatina, Congedo); “I poeti del vino, Galatina, Congedo); “La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico, Galatina, Congedo, “La rinascita della pizzica, Galatina, Congedo);  Husserl e la Krisis, 3ª in “Segni e comprensione”, Milano); Il francescanesimo tra idealità e storicità, 3ª in “Segni e comprensione”, Porzincula (S.Maria degli Angeli); “Il canto popolare salentino, in Convegno Di Studi Demologici Salentini, Copertino. F. Noviello e D. Severino, Capone, Cavallino Pierpaolo De Giorgi, Il tarantismo secondo Schneider: nuove prospettive di ricerca, in, Quarant'anni dopo De Martino: il tarantismo, Atti del Convegno, Galatina, La iatromusica carne del mito: la pizzica pizzica tra etnomusicologia ed estetica musicale, in, Mito e tarantismo Pellegrino, Pensa MultiMedia, Lecce, La pizzica pizzica immensa risorsa culturale del Sud, in, Terra salentina: i Sud e le loro arti, materiali del Convegno di Arnesano, La Stamperia, Leverano, Pierpaolo De Giorgi, “Il ritorno di Dioniso” a proposito di un libro diPellegrino, in “Segni e comprensione”, Fra aborigeni e tarantismo, in, Settimana di promozione culturale pugliese C. Minichiello, Pensa MultiMedia, Lecce, Le tradizioni popolari nei disegni di Nino Severino, greco, Copertino, Diario di bordo, in, La czarda e il vento: antologia di autori salentini, G. Conte, Congedo Pierpaolo De Giorgi, Poesia sintetica, in, Il cuore di Amleto: testi, grafiche e fotografie di autori contemporanei salentini e ungheresi, nota introduttiva di G. Conte, traduzioni di F. Baranyi e A. Menenti, Veszprém, Pierpaolo De Giorgi, I fogli, in “L'Immaginazione”; Chiedendo e schiodando, La vita amico è l'arte dell'incontro e Maestà delle volte, in Omaggio al Salento, Torgraf, Galatina, In marcia di pace verso Assisi e Trilogia del molto e ben comunicare, in  Omaggio a Maglie cuore del Salento, Torgraf, Galatina, Fantastica pizzica, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza, Gallipoli, Conte, Lecce, Gheriglio in disegno e preghiera, in, Salentopoesia,  festival nazionale di poesia con musica e danza, Lecce, 5Conte, Lecce,  Isola nel Trasimeno, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza, Monteroni, Conte, Lecce, Pierpaolo De Giorgi, S'è cambiato il mondo? e Leggeri Cieli da Leggere, in Luigi Marzo: mostra di pittura, Spello, catalogo, Spello, Lascio un cielo di luce cinica, in Sulle ali di Pegaso senza mai cadere. Marzo: mostra di pittura, Città della Pieve, Tipografia Pievese, Città della Pieve 1998. Discografia Album Fantastica Pizzica (MCDiscoexpress) Pizzica e Trance (MCDiscoexpress) Pizzica e Rinascita (CDSorriso) Il tempo della taranta: pizzica d'autore (CDDrim) 5Pizzica grica: to paleo cerò (CDPlanet Music Studio) Pizzica e RinascitaRistampa (CDC&M) Taranta Taranta (CDIrma records). La pizzica la taranta e il vino. Il pensiero armonico – Pierpaolo De Giorgi  4 Gennaio 2022   G.B.  Il libro è stato pubblicato la prima volta nel corso del 2010 e dopo undici anni riteniamo particolarmente ricordarlo per la sua attualità culturale. Pierpaolo De Giorgi, peraltro, è socio della nostra ASSOCIAZIONE APSEC e collaboratore di questa nostra rivista.  “La ricerca innovativa e serrata compiuta da Pierpaolo De Giorgi, in tanti anni di impegno nelle acque agitate dell’etnomusicologia e dell’estetica, approda finalmente al porto sicuro dello studio La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico.    Accade allora che scoperte e sorprese, esposte con cura e rigore scientifico, si susseguano qui continuamente e senza soluzione di continuità, offrendo una concezione finalmente reale del tarantismo e della sua musica terapeutica, la pizzica pizzica, come pure del decisivo ruolo simbolico e religioso del vino nella civiltà mediterranea. Sono esperienze direttamente connesse con quelle antecedenti del dio Dioniso, il nume più significativo della Magna Grecia e dei territori da essa influenzati, archetipo dell’adesione entusiastica alla vita, della reciprocità e del dialogo.   Tramite Dioniso, nella musica e nella danza, come pure nel vino e nell’ebbrezza, l’uomo recupera il contatto con le radici più profonde dell’essere, che si manifestano armoniche, duali e complementari. Per questo i simboli della taranta, della pizzica pizzica e del vino sono rimedi psicologici che restituiscono l’armonia perduta e che si pongono come un’efficace risorsa anche oggi, per costruire un nuovo umanesimo. Sono simboli mitici, che collaborano con quelli della festa e del rito, e vengono prodotti da un soggetto collettivo. Devono essere considerati come arte tradizionale, alla stessa stregua dell’arte individuale. Nel delineare i confini di queste concezioni, De Giorgi rimedita il brillante ma non del tutto sufficiente “pensiero meridiano” di Nietzsche, di Camus e di Cassano.   In Puglia, come in gran parte del mediterraneo, “il pensiero armonico” è il pensiero della rinascita e della misura, valori indispensabili anche oggi per un corretto cammino della coscienza verso la comprensione di se stessa e dell’uomo verso la propria natura divina.”  Indice IL PENSIERO ARMONICO E LA RICERCA IN PUGLIA La Puglia e il pensiero armonico Il mare, l’armonia degli opposti e la luce mediterranea Il pensiero armonico come incontro di mythos e di logos Le radici elleniche della tradizione pugliese Archeologia e storia. Etnomusicologia ed estetica della tarantella La ricerca comparativa sui brindisi e le analogie con la pizzica pizzica Il mito e il pensiero armonico del Mediterraneo nella contemporaneità L’ambivalenza del mito e la misura armonica La misura armonica e il cristianesimo Monoteismo e panteismo Noi e i miti del tarantismo e del labirinto. Verso un nuovo umanesimo  I BRINDISI E LA PIZZICA PIZZICA COME SIMBOLI DI RINASCITA I brindisi e la pizzica pizzica come simboli di rinascita in Puglia La festa e il pensiero mitico della rinascita La forza estetica di un’arte speciale del leccese, la pizzica pizzica Pizzica pizzica, tarantella e bellezza L’umanesimo mediterraneo e la bellezza mitica della pizzica pizzica e della tarantella Le civiltà del vino e l’ambiente poetico tradizionale della Puglia I brindisi, la tradizione popolare e il soggetto collettivo La ricerca etnomusicologica ed estetica e i brindisi tradizionali Il ritmo armonico della pizzica pizzica e la gestione delle contraddizioni  – La cumbersazione e i brindisi  IL TEMPO CICLICO, LA RIVOLTA COLLETTIVA E IL PENSIERO ARMONICO TRA ARTE E MITO Il tarantismo come rito di rinascita e il tempo ciclico come attività psichica collettiva di rivolta Nietzsche, l’eterno ritorno e il recupero del pensiero arcaico del Mediterraneo  – Le analogie dello Zarathustra con il tarantismo La vita come conoscenza: grandezza e miseria di Nietzsche.  – L’eterno ritorno dell’identico e l’eterno ritorno dell’analogo Gli errori di De Martino e le intuizioni di Camus. La rivolta come lotta contro il negativo e come affermazione dell’essere e della vita I brindisi, la pizzica pizzica e il rito del tarantismo come affermazioni della vita  – La ierogamia e la rinascita I simboli della rivolta e dell’inversione terapeutica Il ruolo di inversione della pizzica tarantata: mito, ritmo e analogia La pizzica scherma di Torrepaduli e la rivolta mitica I risultati dell’analisi etnomusicologica: la biritmìa simbolica. La pizzica pizzica come analogon della dynamis armonica universale  PENSIERO ARMONICO E SOGGETTO COLLETTIVO Il ritorno al cielo del Sud e i fraintendimenti di Nietzsche. Dioniso e il pensiero armonico L’aióresis dionisiaca e la Processione dei Misteri di Taranto.  – Il mare come simbolo armonico e come terapia L’intenzionalità collettiva: il teatro tragico del tarantismo e la tragedia greca Il tempo ciclico e la Magna Mater: l’evoluzione della coscienza La Grecia e il governo rituale degli archetipi. Pizzica pizzica e labirinto I brindisi tradizionali e la pizzica pizzica come arte tradizionale collettiva L’arte collettiva tradizionale come arte del mito. L’umanesimo della misura   IL SIMPOSIO, I BRINDISI E L’UMANESIMO DELLA MISURA La tradizione pugliese e il simposio greco e magnogreco Il brindisi e il simposio L’ethos del vino come armonia degli opposti La sperimentazione del divino e l’etica della misura Il pensiero armonico, l’agape e il rischio della dismisura La sublimazione del simposio La dismisura e la degenerazione del simposio   L’EMERSIONE DEL PENSIERO ARMONICO DALLA RICERCA E DALLA COMPARAZIONE La danza, le uova e le corna come simboli simposiali di rinascita Il gesto dionisiaco delle corna nelle musiche e nelle danze della rinascita I saperi tradizionali dell’equilibrio mensurale del pensiero armonico: il ritmo e la benedizione La città di Brindisi, l’origine del nome brindisi e il Bacco in Toscana La cena della spillazione Il porto di Brindisi e le corna rituali come simbolo di rinascita. Il brindisi di Dioniso e di Semole come benedizione Indice dei nomi Iconografìa comparativa  Lecce Tarantula. Antropologia simbolo e iniziazione dalla Tradizione alla Contemporaneità Incontri culturaliINCONTRI CULTURALI Tarantula. Antropologia simbolo e iniziazione dalla Tradizione alla Contemporaneità Da Ernesto De Martino ad oggi la Pizzica Salentina, la Taranta e tutto quel mondo che attorno ad essa ruota in maniera spettacolare e folklorico, in realtà nasconde studi e tradizioni che affondano le loro radici in un passato lontano. In una prospettiva più ampia si può dire che in Europa c'è un luogo che da qualche tempo a questa parte ha espresso una incredibile sequenza di suoni, stili, artisti, esperimenti e contaminazioni culturali. Questo luogo è il Salento. La Terra del Rimorso - come la definì Ernesto de Martino - si è trasformata nella Terra dello spettacolo delle tradizioni. Riportando con forza la cultura popolare, l'attenzione per le radici, al centro dell'immaginario giovanile e del consumo pop, il Salento si è rivelata una meta a cui non si può rinunciare. A cinquanta anni dal viaggio della troupe di Ernesto de Martino nel Salento, quei luoghi si sono trasformati in altro, dimenticando l’Oltre. Negli ultimi vent'anni il Salento è stato spettatore della nascita delle dance hall del Sud Sound System, e dell'irruzione sulla scena della pizzica, sottratta da un lato al folklore, dall'altro all'accademia sino poi al più grande world music festival del mondo, la Notte della Taranta. Degli aspetti antropologici dell’argomento e di quelli iniziatici, simbolici ed esoterici se ne occuperanno Maurizio Nocera e Pierpaolo De Giorgi in un incontro dibattito senza precedenti  Mail Presidente Ass. Thorah – piscopo.grazia@libero.it    Biografie relatori   Pierpaolo De Giorgi, laureato in Filosofia, è etnomusicologo, filosofo, musicista e poeta. Ha fondato e guida “I Tamburellisti di Torrepaduli”, con i quali ha suonato in Italia e in tutto il mondo, provocando la nascita-rinascita del genere musicale pizzica. Ha inciso sette dischi, che hanno venduto più di centomila copie, scrivendone i testi poetici e le musiche. Sue liriche sono state tradotte in greco e in ungherese. Assieme al pittore Luigi Marzo, ha pubblicato il noto volume Le strade che portano al Subasio passando dal Salento (Del Grifo 1991). Ha tradotto in italiano La danza delle spade e la tarantella di Marius Schneider (Argo, 1999) e ha pubblicato numerosi volumi di ricerca, tra i quali Tarantismo e rinascita (Argo, 1999), L’estetica della tarantella (Congedo 2004), Pizzica e tarantismo (Edit Santoro, 2005), I poeti del vino (Congedo 2007), Il mito del tarantismo (Congedo, 2008), La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico (Congedo 2010), La rinascita della pizzica: testi, poesia e storia dei Tamburellisti di Torrepaduli. La via della Taranta (Congedo 2012) che riformulano radicalmente le indagini sul tarantismo e sulla tarantella iatromusicale.  Maurizio Nocera - “Maurizio Nocera (classe 1947) … è un eccellente rappresentante di quella genia … di intellettuali militanti, che sono sempre di meno, oggi, in giro. “Impegnato” dalla punta delle (consumate) scarpe fino alla radice dei (pochi) capelli, infaticabile viaggiatore, talent scout, esploratore di mondi diversi, inguaribile sognatore, gran parlatore, insegnante, politologo, promoter culturale, contastorie, indefesso ricercatore e divulgatore di patrie memorie, bibliofilo, collezionista, scrittore, salentino al cento per cento eppure cittadino del mondo, giornalista, poeta, saggista, storico, critico letterario, editore.” (Paolo Vincenti, Io e Maurizio Nocera, in http://spigolaturesalentine.wordpress.co m/2010/07/03/spigolautori-maurizio-nocer a/). Maurizio Nocera è segretario provinciale dell'ANPI di Lecce.Grice: “Giorgi is not an Italian philosopher; he is a Leccese philosopher. You have to be Leccese to be a Leccese philosopher, and only a Leccese philosopher will NOT appropriate TARANTA – as Martino did – misunderstanding it – The idea of Nietzsche on Bacco is all very well, but Giorgi notes that you have to have the Leccese experience to understand all this”. Pierpaolo De Giorgi. Giorgi. Keywords: l’implicatura di Bacco, il ritorno di Dioniso; mito. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorgi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giorgi – fiducia nella fiducia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vernole). Filosofo.  Grice: “Giorgi discovered a phenomenon I often overlooked: meta-trust: ‘la fiducia nella fiducia e, alla Parsons, la fiducia di ego con alter, e alter con ego. Grice: “I love Giorgi, for various reasons; unlike Sir Geoffrey Warnock, or me, who base our Kantian-type morality on trust, Giorgi recognises a very apt distinction between trust and ‘meta-trust’ – fiduccia nella fiduccia: fiduccia nell’altro!” Insegna a Salento. Si laurea a Roma con “il giuridico e il deontico” – Fonda il Centro Studi sul Rischio a Lecce. Studia i sistemi sociali. Altre opera: “Sociologia del diritto” Manuale di diritto del lavoro e legislazione sociale” “Azione e imputazione” “La società”; “Diritto e legittimazione” “Mondi della società” o, con Stefano Magnolo” “Filosofia del diritto” “Futuri passati”  Fiducia è un meccanismo, un dispositivo di riduzione della complessità. Fiducia non è un valore positivo dell'agire o dell'esperienza; non rappresenta una preferenza rispetto al suo opposto, non ha valore morale di preferibilità. Fiducia e sfiducia sono grandezze non convertibili. Dare fiducia ad altri o suscitare fiducia in altri non sono qualità morali, disposizioni buone, né preferibili o migliori in assoluto. Il riscontro della loro preferibilità è la situazione, la conferma della validità dell'orientamento alla fiducia può essere reperita solo nella dimensione temporale, l'accertamento dell'opportunità può essere dato solo dal futuro. La funzione della fiducia, infatti, si dispiega nella tensione fra presente e futuro. In questa tensione si proietta nel presente il dramma dell'incertezza e il rischio del non sapere. Il sapere, infatti, esclude il rischio e rende inutile la fiducia. Il non sapere, invece, impone al singolo, al sistema personale o sociale, la necessità di reperire un dispositivo di assorbimento dell'incertezza che rischia di paralizzare l'agire. Il problema, allora, è il tempo; lo spazio di questo tempo è il presente, una estensione temporale della cui durata ci si rende conto soltanto quando è finita, cioè quando è già diventata un passato. Lo spazio della fiducia è questo. Solo in questo spazio si può avere fiducia. In esso cioè si può costruire, sviluppare, mettere alla prova quella inevitabile avventura che è l'anticipazione delle aspettative dell'altro. Fiducia non è altro che questa anticipazione che orienta l'agire e l'esperire. Ma è un'avventura del presente che anticipa il futuro nella rappresentazione di colui che ha fiducia, perché si serve solo delle risorse di una propria prestazione effettuata in anticipo e costruita su una propria rappresentazione del mondo. Una risorsa esterna, una certezza, renderebbe inutile dare fiducia [...]. La fiducia costituisce una mediazione tra la complessità del mondo e l'attualità dell'esperienza. Una mediazione drammatica, rischiosa, che si sostiene sul sapere di non sapere, che produce da sé le risorse che investe e con le quali si espone al futuro anticipandolo e all'altro rappresentandosi le sue aspettative [...]. Fiducia non è affidamento all'altro. Fiducia non è il racconto dell'altro. Non ci sarebbe il dramma, non ci sarebbe neppure la possibilità di raccontare l'altro, se fiducia avesse a che fare immediatamente con l'altro. Fiducia ha a che fare con la propria rappresentazione dell'altro; essa è affidamento alle proprie aspettative dell'altro. Fiducia è esposizione del sé. Fiducia è abbandono al sé, per questo c'è il rischio, il dramma, la tensione. (R. De Giorgi, Presentazione dell'edizione italiana, in N. Luhmann, La fiducia, Bologna, il Mulino, Riferimenti Bibliografici  - P. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, 1969;* - N. Luhmann, Illuminismo sociologico, Milano, 1983;* - A. Schütz, La fenomenologia del mondo sociale, Bologna, 1974.*La semantica del rischio Decisione razionale e azione sociale  Raffaele De Giorgi Docente di Filosofia del diritto - Università di Lecce  venerdì 22 gennaio 1999 - 17,30 Centro Culturale. Sulla situazione delle scienze sociali  Se si osserva il panorama delle scienze sociali oggi, si può affermare che esse sono alla ricerca di temi attuali riferiti alla società, ma che per questo non dispongono ancora di una struttura teorica adeguata, in particolare non sono pervenute ancora a una adeguata descrizione della società moderna. Le discussioni teoriche vengono effettuate in relazione ad autori, in particolare in relazione a classici. Questo comporta, nel modo di porre i problemi, la presenza di un sovraccarico di vecchie prospettive e l’implicito orientamento ad una società che in virtù del suo ottimismo sul progresso aveva raggiunto i suoi limiti, ma poteva tener presente solo in misura limitata le conseguenze della società moderna e le poteva trattare solo come problemi della distribuzione del benessere. Le acquisizioni alle quali si è pervenuti sono date da un atteggiamento scettico verso l’organizzazione e la razionalità (M. Weber) o da una critica della struttura di classe della società moderna. Di queste acquisizioni vive ancora oggi la discussione teorica.  La società moderna ha reso urgenti problemi completamente diversi: il problema dell’ecologia, il problema delle conseguenze che derivano dalle nuove tecnologie, dalla ricerca biologica e genetica: ma anche il problema delle conseguenze legate a determinate politiche di investimento o quello relativo al rapporto tra uso del denaro per fini speculativi o per fini produttivi. Si tratta solo di alcuni indici degli ambiti problematici con i quali continuamente si confronta la società contemporanea e rispetto ai quali la soglia di attenzione, e quindi di preoccupazione, sembra essere più alta.  Negli anni più recenti è sembrato che la scienza sociale riuscisse ad andare oltre la discussione sui classici: si è elaborato così un orientamento problematico che può essere descritto mediante concetti quali complessità, problemi del controllo e guida, possibilità dell’azione ed altri ancora. Così la società viene descritta dalla prospettiva dell’agire politico e quindi dalla prospettiva della pianificazione, la quale ha davanti a sé campi di realtà altamente complessi, in cui tutte le azioni scatenano “conseguenze perverse” e producono problemi che danno motivo a nuove forme dell’agire. Tuttavia anche questa discussione ha raggiunto in modo incontestabile i suoi limiti, non dispone di potenziale esplicativo dell’agire reale e ripropone ormai solo l’originaria formulazione dei problemi. All’ottimismo del progresso si è sostituita la paura del futuro, all’ansia della pianificazione e del controllo, la rassegnazione verso le conseguenze perverse dell’agire che, non potendo essere previste, vengono rese oggetto di analisi empirica: un motivo ulteriore per considerare il presente con disappunto e per tentare di risolvere mediante il ricorso alla morale ciò che sembrava impossibile risolvere mediante la razionalità.   Non si può affatto prevedere che nel prossimo futuro la scienza sociale riuscirà a colmare il deficit teorico che la caratterizza e a pervenire ad una convincente descrizione della società moderna. E’ possibile però isolare temi speciali, che in questa direzione sono fruttuosi e possono essere utilizzati perché le ricerche si concentrino su di essi. Il tema rischio può costituire un tema cosiffatto. Esso è un tema nuovo rispetto alla discussione sui classici e mantiene considerevole distanza rispetto alle teorie sulla decisione razionale o sulla pianificazione razionale. Esso attualizza la dimensione del tempo, una dimensione centrale per la società moderna da tutte le prospettive. Esso altresì ha particolare riferimento rispetto ai temi che nell’opinione pubblica hanno acquistato un significato considerevole e che, gradualmente, diventano dominanti. Esso ha quindi tutte le chances di fornire un contributo rilevante alla comprensione delle condizioni sociali nelle quali oggi inevitabilmente viviamo e delle quali in un qualunque modo dobbiamo tener conto.  2. Stato della ricerca.  Negli ultimi vent’anni il tema rischio ha stimolato una mole immensa di ricerche ed ha raccolto una letteratura che ormai non è più possibile controllare. Nella letteratura meno recente il tema si è sviluppato prevalentemente sotto la voce: insicurezza. La ricerca però si è concentrata su alcuni punti cruciali e non è pervenuta all’elaborazione di una chiara concettualità teoretica.   Da una parte è dato di trovare ricerche sulla valutazione delle conseguenze prodotte dalle nuove tecnologie; queste ricerche presentano ramificazioni molto concrete: ad esempio la valutazione degli effetti cancerogeni che derivano da alcuni prodotti chimici o la valutazione delle possibilità che si verifichino eventi particolarmente improbabili ed insieme altamente catastrofici. Questa letteratura è orientata nel senso delle teorie della casualità o nel senso della statistica: essa ha prodotto a sua volta altra letteratura che si occupa della posizione e del ruolo degli esperti rispetto alla politica e che di conseguenza individua una perdita di prestigio e di credibilità della scienza e degli esperti nelle diverse tecnologie, qualora questi, sotto la pressione e l’urgenza delle decisioni siano costretti a rendere manifeste le loro insicurezze o le controversie interne alla scienza stessa.   Si tratta di una letteratura e di un insieme di ricerche che tematizzano i problemi della sicurezza rispetto a situazioni di pericolo oggettivo, ma che non riguardano la prospettiva di chi, nell’agire concreto, deve decidere se rischiare o non rischiare e a quali costi.   Accanto a queste ricerche è dato di trovarne altre che sono orientate in misura crescente in senso psicologico e che indagano i modi in cui i singoli si comportano in situazioni di rischio. Risultato di queste ricerche è una distinzione di variabili che influenzano il comportamento, come ad esempio l’influsso della fiducia di sé o del controllo di sé sulla disponibilità di colui che agisce verso il rischio.   Un altro orientamento di ricerca si occupa dei deficit di razionalità e degli “errori” statistici che è possibile individuare nel comportamento decisionale quotidiano. La disponibilità al rischio dipende, secondo queste ricerche, non da ultimo dal modo in cui colui che decide pone il problema col quale deve misurarsi.  Questi orientamenti ai quali si sostiene la ricerca sul rischio permettono di comprendere perché gli esperti che si occupano della percezione e valutazione del rischio e delle strategie del suo trattamento, siano essenzialmente studiosi di scienze naturali, di statistica, di economia (in particolare per i settori relativi alle teorie della scelta razionale, del calcolo dell’utilità, ecc.) o di psicologia. Persino il tema “comunicazione sul rischio” viene trattato da specialisti che hanno questa formazione.  La sociologia si è occupata fino ad ora prevalentemente degli aspetti limitati dei nuovi movimenti che si formano nella società a seguito della accresciuta percezione del rischio. La scienza politica ha manifestato scarsa attenzione per i problemi che derivano dal fatto che le questioni legate al rischio sovraccaricano gli interessi politici. Accanto alla medicina si è stabilizzata un’etica che si occupa dei modi in cui la morale dovrebbe affrontare questioni che sembrano sottrarsi al calcolo razionale.  Nonostante la sua ampiezza, l’attuale ricerca sul rischio non riesce a pervenire a risultati utili sia alla descrizione dell’agire decisionale che alla determinazione di possibilità ulteriori degli stessi ambiti decisionali, perché è legata da vincoli che derivano dal modo stesso in cui il problema del rischio viene tematizzato. Questi vincoli sono definiti dai modelli derivati dalle teorie della decisione razionale e dalle teorie psicologico-individualistiche.   3. Integrazione teorica.  Tanto dal panorama delle ricerche quanto dall’eterogeneità dei diversi approcci scaturisce un considerevole bisogno di integrazione teorica. Le prestazioni innovative che è possibile effettuare in rapporto allo stato attuale della ricerca dipendono dal fatto che si riesca ad elaborare e a rendere disponibile una concettualità teorica capace di rendere possibili questi riferimenti.  Il concetto di rischio è stato definito essenzialmente in relazione agli ambiti della relazione razionale, per così dire, come concetto per la elaborazione dei problemi del calcolo razionale. Da qui derivano considerevoli difficoltà di delimitarne significato e contenuto. Nella letteratura si scambiano e si utilizzano come equivalenti e fungibili con il concetto di rischio formulazioni quali pericolo, danger, hazard, insicurezza e simili. Proprio per questo, sul piano metodologico è necessario mettere in chiaro nel contesto di quali distinzioni il rischio acquista il suo contenuto e significato proprio.  La distinzione tra rischio e sicurezza sembra inutilizzabile. Sicurezza in quanto opposta a rischio, indica solo un posto vuoto che non può certo essere riempito empiricamente. Sicurezza, nello schema rischio-sicurezza, indica solo un concetto riflessivo: esso esibisce solo la posizione dalla quale tutte le decisioni possono essere analizzate dal punto di vista del loro rischio. Sicurezza, in questo senso, universalizza solo la coscienza del rischio; d’altra parte non è un caso se, a partire dal XVII secolo, tematiche della sicurezza e tematiche del rischio si sviluppano insieme.   Per questo sarebbe necessario provare se sia possibile intendere il concetto di rischio utilizzando le prospettive fornite dalla teoria attributiva. Nel generale contesto di una insicurezza rispetto al futuro e di un danno possibile, si potrebbe parlare di rischio quando un qualche danno venga imputato ad una decisione, cioè quando questo danno debba essere trattato come conseguenza di una decisione (o da colui che decide o da altri). Il concetto opposto sarebbe allora il concetto di pericolo, che è applicabile quando danni possibili vengano imputati all’esterno. Una tale concettualizzazione permetterebbe di utilizzare la problematica dell’attribuzione che si è rivelata fruttuosa e saldamente sperimentata. La concettualizzazione proposta dà insieme plausibilità al fatto che nella società moderna la maggiore coscienza del rischio sia correlata all’accrescimento delle possibilità di decisione.  Riferimenti Bibliografici   - Ulrich Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt a.M., 1986;* - Ulrich Beck (Ed.), Politik in der Risikogesellschaft. Essays und Analysen, Frankfurt a.M., 1991; - Vincent T. Covello, J. Mumpower, Environmental Impact Assessment, Technology Assessment, and Risk Analysis, NATO ASI Series, Berlin-Heidelberg, 1985; - Mary Douglas, Come percepiamo il pericolo. Antropologia del rischio, Milano, 1992;* - Mary Douglas, Aaron Wildavsky, Risk and Culture. An Essay on the Selection of Technological and Environmental Dangers, California UP, 1983;* - Adalbert Evers, Helga Nowotny (Eds), Über den Umgang mit Unsicherheit. Die Entdeckung der Gestaltbarkeit von Gesellschaft, Frankfurt a.M., 1987; - Anthony Giddens, The Consequences of Modernity, Stanford UP, 1990;* - Alois Hahn, Willy H. Eirmbter, Rüdiger Jacob, Le Sida: savoir ordinaire et insécurité, «Actes de la recherche en sciences sociales», 104, pp. 81-89, 1994; - Toru Hijikata, Armin Nassehi (Eds), Riskante Strategien. Beiträge zur Soziologie des Risikos, Opladen, 1997; - B.B. Johnson, Vincent A. Covello (Eds), The Social and Cultural Construction of Risk, Dordrecht, 1987; - Franz-Xaver Kaufmann, Sicherheit als soziologisches und sozialpolitisches Problem. Eine Untersuchung zu einer Wertidee hochdifferenzierter Gesellschaften, Stuttgart, 1970; - Roswita Königswieser, Matthias Haller, Peter Maas, Heinz Jarmai (Eds), Risiko-Dialog, Köln, 1996; - Georg Krücken, Risikotransformation. Die politische Regulierung technisch-ökologischer Gefahren in der Risikogesellschaft, Opladen, 1997; - Niklas Luhmann, Sociologia del rischio, Milano, 1996;* - Charles Perrow, Normal Accidents. Living with High-Risk Technologies, New York, 1984; - Aaron Wildavsky, Searching for Safety, New Brunswick-London, 1988. (*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)  Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.Grice: “Giorgi understands trustworthiness perfectly. However, he does not seem to care to provide a moral background for it, which is okay with me, since being trustworthy and expecting others to be trustworthy is what an honest chap does! It’s different with PERJURY, and Giorgi has shed light on the notion of legitimacy – an oath of trustworthiness becomes a LEGAL BOND – not just moral. It is however better to consider the moral trustworthiness as PRIOR conceptually to the legal trustworthiness – even if conceptual priority can go both ways. EPISTEMICALLY, to have a law that condemns perjury may be the best way NOT to have faith in faith (fiducia nella fiducia) but PRESUPPOSE that the other has a moral-legal bond to be trustworthy. The perjury figure in Roman law has to be considered historically, since if there was something the Italians are good at is Roman law!” -- Raffaele De Giorgi. Giorgi. Keywords: fiducia nella fiducia, il giuridico, il deontico, imputazione, azione, fiduzia nella fiducia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorgi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice e Giovanni – la civetta di Minerva – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano.  Grice: “The Italians love ‘divenire’ as in ‘being and becoming’ – but if I say Mary is becoming a princess, ain’t Mary being?” Grice: “I like Giovanni; only in Italy, you write an essay on Marx on cooperation and on Kelsen; and then of course an Italian philosopher HAS to philosophise on Vico: ‘divvenire della ragione,’ Giovanni calls what I would call a critique of conversational reason!” Ha aderito successivamente alla Rosa nel Pugno.  Simpatizzò per la monarchia e l'11 giugno 1946 fu tra coloro che presero parte agli scontri che causarono la strage di via Medina; in seguito avrebbe spiegato la sua partecipazione con queste parole: “Già leggevo Hegel ero monarchico perché credevo all'unita dello Stato.” “Scappai quando la situazione s'incanaglì». Si laurea a Napoli con la tesi “Vico: natura e ius.” Insegna a Bari.  Direttore di “Il Centauro. Rivista di filosofia". Altre saggi: “L'esperienza come oggettivazione: alle origini della scienza”; “Il concetto di classe sociale in Cicerone”; “La borghesia italiana”; “Il concetto di prassi”; “Marx dopo Marx”  (cf. Luigi Speranza, “Grice dopo Grice.” Impilcature: Not Grice! --; “La nottola di Minerva”; -- il guffo di Minerva – la civetta di Minerva -- “Dopo il comunismo”; il comune -- “L'ambigua potenza dell'Europa”; “Da un secolo all'altro: politica e istituzioni” – istituzione istituzionalismo istituismo “La filosofia e l'Europa”; “Sul partito democratico. Aristocrazia, democrazia crazia cratos concetto di potere -- -- Opinioni a confronto”; “A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?” “Elogio della sovranità politica, -- il sovrano – lo stato sovrano – Machiavelli --  Editoriale scientifica, “Le Forme e la storia. Scritti in onore di Giovanni, Napoli, Bibliopolis,  La parabola di Giovanni.  Il dibattito Un saggio di de Giovanni paragona Severino al filosofo del fascismo. Ma a tutte le sue obiezioni è possibile rispondere È Gentile il profeta della civiltà tecnica Ne rende possibile il dominio planetario. Eppure la legge del divenire è eterna di EMANUELE SEVERINO Giovanni Gentile fu assassinato per- ché era la voce più autorevole e con- vincente del fascismo. Ep- pure la sua filosofia è la ne- gazione più radicale di ciò che il fascismo ha inteso essere. Non solo. Essa è tra le forme più potenti — non è esagerato dire la più potente — del pen- siero del nostro tempo. Di tale potenza lo stesso Lenin si era accorto — forse gli assassini di Gen- tile non lo sapevano neppure. Tanto meno lo sa la cultura filosofica oggi dominante, che mai rico- noscerebbe a un italiano un così alto rilievo. Non solo. Contrariamente agli stereotipi che vedono in Gentile un avversario della scienza, l’attuali- smo gentiliano è l’autentica filosofia della civiltà della tecnica: rende possibile il dominio planeta- rio della tecno-scienza, ancora frenato dai valori della tradizione. Altrove ho mostrato il fonda- mento di queste affermazioni. Il recente libro di Biagio de Giovanni Disputa sul divenire. Gentile e Severino (Editoriale Scientifica, 2013) è un grande e suggestivo contributo al loro approfon- dimento — come d’altronde c’era da attendersi dalla statura culturale e sociale dell’autore. Va facendosi largo nel mondo la convinzione che l’uomo non possa mai raggiungere una verità assolutamente innegabile; che, prima o poi, ogni verità siffatta resti travolta da altri modi di pensa- re, da altri costumi, cioè si trasformi, muoia: di- venga. Travolta, anche la certezza che esistano le cose che ci stanno attorno; essa è innegabile solo fino a che esse non vanno distrutte: era innegabi- le solo provvisoriamente. Esser convinti dell’ine- sistenza di ogni verità assoluta è quindi, insieme, esser convinti dell’inesistenza di ogni Essere im- mutabile ed eterno. «Dio è morto», si dice. La negazione di ogni verità assoluta e innega- bile non investe dunque l’esistenza del divenire del mondo. Anzi, proprio perché si fa largo la convinzione che il divenire di ogni cosa e di ogni stato sia assolutamente innegabile (ed eterno), proprio per questo è inevitabile che ci si convinca dell’impossibilità di ogni altro innegabile e di ogni altro eterno. Gentile lo mostra nel modo più rigoroso (mentre il fascismo, come ogni assoluti- smo politico, intendeva essere la configurazione inamovibile dello Stato). Ma è appunto per quell’estremo rigore che de Giovanni rileva, a ragione, l’incolmabile contra- sto tra il pensiero di Gentile e il tema centrale dei miei scritti, l’affermazione cioè che la verità asso- lutamente innegabile esiste e che tutto ciò che esiste (nel presente, nel passato, nel futuro) è eterno, ossia non esiste alcunché che esca dal proprio esser stato nulla e che sia travolto nel nulla. Certo, la più sconcertante delle affermazio- ni. Che però de Giovanni considera fondata con altrettanto rigore. Infatti, mi sembra, egli è inte-ressato al contrasto Gentile-Severino perché vede in ogni forma di contrasto una conferma della propria prospettiva di fondo, per la quale l’esi- stenza umana è, da ultimo, un contrasto insana- bile tra il desiderio dell’uomo, finito, di esser sal- vato dall’Infinito e la problematicità del rapporto finito-Infinito. Quindi, a suo avviso, per quanto rigorose possano essere la posizione filosofica di Gentile e la mia, ci dev’essere in entrambe un vi- zio o più vizi di fondo che non possono venir estirpati. Attraverso una finissima procedura in- terpretativa de Giovanni lo fa capire rivolgendo domande, obiezioni sotto forma di domande. So- prattutto a me. Provo a rispondere ad una soltan- to. In modo adeguato risponderò in altra sede. Ma prima rivolgo anch’io una domanda a de Giovanni. La sua prospettiva — qui sopra richia- mata in modo molto sommario — intende essere una verità assolutamente innegabile o una pro- posta dove non si esclude che la verità innegabile esista da qualche parte? Propendo per la prima alternativa. Mi sembra infatti che anche per de Giovanni l’unica verità indiscutibile sia la «stori- cità» del reale, cioè il divenire che travolge ogni altra presunta verità. La sua distanza da Gentile tende così a vanificarsi nonostante le obiezioni, che a questo punto hanno un carattere subordi- nato. E infatti de Giovanni mi chiede se non ci sia «qualcosa di ineluttabile» «nella condizione mortale dell’uomo», se la morte non sia «la prova inconfutabile», l’«irrefutabile cogenza» che «l’ente uomo nasce dal nulla e va nel nulla» — e anzi, lasciando da parte il domandare, afferma che il mio discorso «si scontra con il fatto che l’uomo muore» (pp. 83-84, corsivo mio). Il conte- sto in cui de Giovanni avanza queste domande- affermazioni è incommensurabilmente lontano dall’ingenuità con cui a volte queste domande mi vengono rivolte. Ma in questa sede può essere opportuno richiamare — ancora una volta — che i miei scritti, ovviamente, non hanno mai negato che l’uomo muoia e come muoia e resti il suo ca- davere, ma hanno sempre negato che la nascita dell’uomo e delle cose sia un venire dal nulla e che la morte sia un andare nel nulla; e lo negano perché mostrano che questo andirivieni non è un «fatto». Provo a chiarire. Che il dolore, l’agonia, la morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia un «fatto» si- gnifica che se ne fa esperienza. Certo: si fa espe- rienza dell’orrore della morte — che è sempre la morte altrui. Ma chi crede che la morte sia un an- dare nel nulla non crede (è impossibile che cre- da) che l’uomo vada nel nulla ma, insieme, conti- nui ad essere un «fatto» che appartiene al conte- nuto dell’esperienza: gli appartenga nello stesso modo in cui gli apparteneva prima di annientar- si. Nell’esperienza rimane il ricordo di coloro che sono andati nel nulla, e il ricordo è un «fatto»; ma non rimane il fatto in cui consisteva il loro es- ser vivi, non si fa più esperienza del loro esser stati vivi. Chi, dunque, crede che la morte sia an nientamento crede che — pur avendo avuto espe- rienza dell’agonia e del cadavere — ciò che è di- ventato niente sia diventato anche qualcosa che non appartiene più all’esperienza, che non è un fatto. Ma allora è impossibile che l’esperienza mostri che sorte abbia avuto ciò che è uscito dall’espe- rienza, e quindi mostri che esso è diventato nien- te. Di questa sorte l’esperienza non può che tace- re. Cioè l’annientamento non può essere un «fat- to». (E se il cadavere viene bruciato e, come si di- ce, «diventa cenere»; allora anch’esso, come tutta la vita passata di chi è morto, esce dall’esperienza —anche se ne rimane il ricordo. Daccapo: che es- so, diventando cenere, sia diventato niente non può essere l’esperienza ad attestarlo). Ci si convince dunque che la morte è annienta- mento non sulla base dell’esperienza, ma sulla ba- se di teorie più o meno consistenti. All’inizio i vivi si fermano atterriti di fronte alle configurazioni orrende della morte dei loro simili e restano col- piti dalla loro assenza; i morti non ritornano, vivi, come invece il sole torna a risplendere al mattino. Anche su questa base, quando si fa avanti la rifles- sione filosofica sul nulla, si pensa che ciò che non ritorna sia diventato niente e si crede di sperimen-tarne l’annientamento. Gentile sta al culmine di tale fede e, con la propria «teoria generale dello spirito», dimostra nel modo più radicale l’impos- sibilità di ogni realtà esterna all’esperienza, sì che l’uscire dall’esperienza è per ciò stesso l’andare nel niente. Ma, appunto, si tratta di una dimostra- zione, di una «teoria», non della constatazione di un fatto. Dunque, la sconcertante affermazione, al cen- tro dei miei scritti, che tutto ciò che esiste è eter- no, non è un «paradosso» che «si scontra» con l’esperienza, cioè «con il fatto che l’uomo muo- re». All’opposto, a scontrasi con l’esperienza sono coloro che — affermando la sua capacità di atte- stare l’annientamento degli uomini e delle cose — vedono in essa ciò che in essa non c’è e non può esserci. Sono molti, moltissimi? Non importa. An- che quando qualcuno ebbe a mostrare che è la Terra a girare attorno al sole e non viceversa, tutti gli altri lo negavano, sconcertati. A questo punto de Giovanni deve mostrare per- ché (una volta escluso lo «scontro con il fatto») non accetta la fondazione che di quella sconcer- tante affermazione ho indicato nei miei scritti. At- tendo. Ma anche tutte le altre sue domande atten- dono la mia risposta.Il tramonto del principe: "Fin dall'inizio della sua attività Biagio de Giovanni ha accompagnato al suo discorso teorico e politico una notevole attività di carattere storico-filosofico. Si può dire, anzi, che per certi versi questi sono tre aspetti di una medesima ricerca che, secondo una tipica 'tradizione' italiana, ha intrecciato, in modo consapevole, filosofia, storiografia e politica. Ma questa è una considerazione preliminare, di carattere generale. Ciò che distingue la posizione di de Giovanni è il modo con cui ha istituito questo intreccio - il suo 'punto di vista' - e i risultati che è riuscito a conseguire." (dalla prefazione di Michele Ciliberto). Con una postfazione sulla storia de "Il centauro" di Dario GentiliBiagio di Giovanni. Giovanni. Keywords: essere/divenire – dall’essere al divenire -- divenire della ragione conversazionale: Vico, Hegel, Marx, nottola di Minerva; monarchia – stato -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giovanni: il divennire della ragione conversazionale” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice e Giovenale – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.  Decimo Giunio Giovenale. He was renowned for his satires in which it is possible to identify a variety of philosophical interests, if not influences.

 

Grice e Giovio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nola). Filosofo italiano. Giovio was the son of Paulino di Nola. From a letter written to him by his father, it appears that he was a keen student of philosophy.

 

Grice e Giraldi – filosofia italiana – filosofia ligure -- Luigi Speranza (Ventimiglia). Filosofo italiano. Grice: “Only a Ligurian philosopher would philosophise on Hegel’s real logic and lobsters!” -- Grice: Grice: “One good thing about Giraldi is that he is from Ventimiglia and moved to Noli – the most charming corners of Italy!” – Grice: “Giraldi calls his position ‘romatnic essentialism;’ having born in Ventmiglia he would, wouldn’t he?”“I like Giraldi; nobody in England would dare write “The son of Peter Pan,” but Giraldi, otherwise known as the author of ‘Essenzialismo,’ did write ‘Il figlio di Pinocchio’”! Il padre di Giovanni Giraldi, originario di Dolceacqua e di estrazione contadina, dopo il servizio militare riuscì la scalata del successo al Casinò di Monte Carlo, affermandosi anche come uomo di grande saggezza e religiosità. La madre invece era originaria di Ventimiglia, dove Giraldi stesso nacque e trascorse la sua infanzia. Sebbene la famiglia fosse benestante, egli soffriva per la grande conflittualità interna, continuamente vessato dalla sorella maggiore che non esitava ad usare violenza nei suoi confronti, mentre la madre non faceva parola con il padre di quanto assisteva. Racconta che in questo periodo riusciva a trovare pace solo in chiesa.  Con una bugia astuta riuscì a scappare di casa, entrando in un collegio, dunque l'anno successivo si trasferì in un altro collegio di Roma, ove tuttavia non riuscì a trovare la tranquillità sperata. Riuscì a compiere studi classici a Roma, iscrivendosi poi all'Università. Non frequenta le lezioni delle materie filosofiche curricolari, ma studia per conto proprio. Tuttavia sigue abbastanza regolarmente le lezioni di Ponzo, anche se non era materia d'esame. Si laurea e presta servizio militare durante la seconda guerra mondiale. Si laurea in filosofia discutendo molto animatamente la tesi con  Spirito, il quale ironizzò sulle sue pretese di "fare una nuova filosofia". Insegna a Milano. Partendo dalla teoria gentiliana, che vede in tutto una “mediazione”, e da quella di Consentino, che sostiene al contrario la totale "immediatezza", afferma che anche l'atto puro, in quanto nuovo e spontaneo, non può che nascere senza alcuna mediazione, quindi è l'equivalente dell'immediatezza, o del sentire puro. Pertanto prova a risolvere le contraddizioni di entrambe le posizioni in una sintesi hegeliana che possa superare sia il “divenirismo,” sia il coscienzialismo antidivenirista. La soluzione è che l'immediatezza sarebbe sostanziata di mediazione, e viceversa.L'immediatezza è così colma di mediazione, perché senza di essa sarebbe cieca e una mediazione senza una immediatezza sarebbe nulla. Inoltre, per avere una identità distinguibile, si dovrebbe avere già dentro di sé quanto necessario per identificarsi e per distinguersi.  In Etica del sentiment, ancorando il principio morale proprio alla sfera sentimentale, si focalizza sul sentimento di libertà e propone nuove argomentazioni alla tesi di derivazione stoica del sentirsi responsabili, pur entro un tutto già dato. In Gnoseologia del Sentimento,  parte proprio dalla posizione del Consentino per ripercorrere gli itinerari di una filosofia dell'essere indiveniente e per affrontare gli aspetti dinamici e volontaristici dell'Io. In Filosofia giuridica espone la concezione di diritto naturale quale sentimento fondamentale giuridico, condizione trascendentale di ogni diritto positive. Pertanto il diritto naturale non sarebbe un codice sovrapponibile ad altri codici, ma la precondizione che permette alle leggi positive di essere leggi e non atti religiosi, estetici, scientifici o di altro tipo. Si occupa anche della riflessione su temi politici. L'opera Storiografia come rettorica tende ad inquadrare l'unitarietà artistica e scientifica della ricostruzione storica, coerentemente con la tesi di Cicerone della historia opus oratorum maxime e con quella aristotelica dell'entimema, in altre parole quel sillogismo retorico che si differenzia da quello della necessità. In Epistemologia invoca una "demitizzazione" anche delle teorie cosmologiche e scientifiche più accreditate (l'evoluzionismo, la teoria del Big Bang, la meccanica quantistica), poiché tenderebbero pure esse a cadere in paralogismi e contraddizioni logiche, nonostante gli apprezzabili sforzi a riferirsi alla filosofia da parte di alcuni notevoli scienziati. Ad esempio nota che anche i migliori epistemologi che irridono il concetto di sostanza, di fatto, riferiscono i dati sperimentali ad una sottintesa sostanza soggiacente. In numerose opere dedicate alla religione, analizzata nelle molteplici forme di spiritualità, avanza la tesi che il proprium della religione sia la soteriologia, quindi non tanto il contenuto di una dottrina, ma la speranza di salvazione dal negativo della vita e della morte. Il principio cardine diventa dunque la speranza, e non più la fede, che viene ricondotta ad un ruolo funzionale alla realizzazione della salvezza.  L'analisi della religiosità tenta perciò di emanciparsi dagli usuali preconcetti filosofici: se alla religione è stato assegnato per oggetto l'uomo immediatamente e Dio mediatamente, alla teologia Dio si dà immediatamente e l'uomo mediatamente. Altresì in Immortalità dell'anima mostra come sia improponibile lo sforzo di svincolare l'unità del Pensiero con la determinazione individualizzata della persona. Il Dizionario di Estetica e Linguistica generale, con alcune integrazioni filologiche presenti in alcune successive pubblicazioni, alcune in Sistematica, si distingue anche per l'attenzione dedicata all'estetica e sulle concezioni dei primitivi "di ieri e di oggi".  La proposta avanzata per una filosofia della scelta e decisione si apre con una riflessione sul dogmatismo e l'agnosticismo, dalle quali l'autore vuole prendere le distanza. Non si considera dogmatico, perché il suo metodo gli consente di aderire ad un'idea solamente dopo la caduta di ogni riserva, ma ciò non lo porta neppure ad approdare ad una concezione scettica né agnostica, in quanto la non possibilità di dimostrare (ad esempio l'immortalità, la vita ultraterrena o l'esistenza di Dio) non equivale ad affermare la loro non esistenza.  Tra le numerose acquisizioni che lo difenderebbero dalle accuse incrociate di scetticismo e agnosticismo enumera la consapevolezza di un patrimonio di verità circa le possibilità di pensiero; la ricchezza dell'atto di conoscenza anche nelle forme meno esplicate; l'emancipazione dalla divisione del conoscere in intuizioni e concetto, sensazione e concetto; la pretestuosità di coloro che esigono una purezza del conoscere senza inquinamenti sentimentali; le aporie di una scienza oggettivante e insieme soggettivante al massimo e dell'arte che, mentre il mondo odierno nega il reale, si riferisce continuamente ad essa, particolarmente nella negazione.  Non potendosi dare una irruzione nel trascendente, è tuttavia possibile affermare la vasta pregnanza del trascendentale, in altre parole di un terreno comune per l'esperienza e il pensiero. Si considera pertanto idealista, nel senso che non esiste pensiero senza pensiero, spirito senza spirito, “ideato” (significato) senza “ideante” (significans). Tuttavia, differentemente dalle posizioni di Gentili, non crede che affatto il pensiero sia liquido, tutt'altro; proprio perché l'idea diventa comune, e in essa il Pensiero trova la sua pace, occorre una verità fondamentalmente ferma, non mobilizzabile. Da questi presupposti sorge così una debita attenzione per la scelta e la decisione.  Distinguendo le scelte apparenti, che sono totalmente arbitrarie, da quelle reali, quando al termine dell'analisi si opera con un atto di buona volontà, una decisione autentica ci si trova di fronte ad un bivio metafisico: impossibilità di afferrare la realtà dei tre nominati reali (Dio, Anima e Mondo) e impossibilità di negarli. Sorge appunto la decisione autentica, cui si arriva solamente secondo una corretta formulazione di intenti e seguendo una fine immanente ad ogni forma di scelta. Aristotelicamente e anche kantianamente la causa finale riveste una primaria importanza. Se ogni uomo sceglie per sé, nessuna scelta avrebbe una portata teoretica di cogenza, ma aprirebbe le vie della libertà vera, dalla quale ne derivano conseguenze radicali e speculazioni abissali a partire da una decisione, che può essere quella dell'anima unica immortale, o quella del pensiero che viene ad essere dopo la materia, o la non esistenza di Dio. Ciò permetterebbe anche di evitare il depauperamento culturale, con una rivitalizzazione delle esperienze antiche.  La decisione personale propende per una concezione dell'anima unitaria, di stampo aristotelico. Se l'immortalità naturale di tomistica memoria è da lui considerata "la più materialistica, e più grezza", preferisce pensare ad una immortalità conseguita, oppure chiesta a Chi può donarla e concessa a chi la chiede. Sul mondo reale fisico resta una indecisione, ma propende verso un residuo di natura mentale, una sorta di noumeno mentale sulla scia di Kant e Galluppi oltre il grande telone dei fenomeni. In questo caso però occorrerebbe rapportarlo ad una mente divina, perché parlare di mondo senza Dio non avrebbe connotazioni filosofiche. Infine, riguardo l'esistenza di Dio, punto in cui la scelta diviene decisione pura, egli tende a negare la validità delle dimostrazioni, pur scorgendo in esse una bella prova della potenza della mente umana. La conclusione non è però la non esistenza di Dio, ma la non dimostrazione della sua esistenza.  Chi ammette l'esistenza di Dio, tuttavia, deve assumere la radicalità di tale affermazione "guardando il mondo dagli occhi di Dio" e non facendo etsi deus non daretur. Chi prendesse la scelta teistica dovrebbe tacersi per sempre e rinunciare ad intenderlo. Giraldi mette in risalto anche la Volontà, definendola potenza fattiva dell'Idea, e constatandone il carattere generativo-spermatico, per collocare in una prospettiva differente il vitalismo dell'élan vital bergsoniano e della Wille di Schopenhauer. Questo permette di pensare l'Idea non solo quale conoscenza filosofica, ma anche negli aspetti attivi, vitali e di sentimento. Ad essere eroicamente divini non sono pertanto solo i pochi giunti al massime vette di autocoscienza teoretica, ma anche gli umili che vivono inconsapevoli della propria dignità divina, folgoranti però di una autocoscienza morale.  Bàrel Dal punto di vista poetico, l'opera principale di Giovanni Giraldi è il Bàrel, iniziato negli anni trenta e sorto dall'ispirazione di un progetto di Papini esposto nell'autobiografia Un uomo finito per un poema apocalittico, mai scritto. Altri spunti furono la lettura di Lord of the World di Robert Hugh Benson e dell'Apocalisse.  Il primo dei tre volumi di cui si compone il Bàrel, terminato in versi nel 1937, fu presentato a Eugenio Giovannetti de Il Giornale d'Italia, che propose come titolo Il Dio Eroico. Gli anni seguenti, segnati dalla Seconda Guerra Mondiale, furono l'occasione per trasporlo in prosa. Questa versione, appena terminata la guerra, fu proposta a vari editori ma che per una serie di sfortunate coincidenzeMondadori non disponeva della carta, e dopo alcuni anni, quando la carta è disponibile, cambia idea sulla pubblicazione; la casa editrice Api di Mazzucchelli nel frattempo fallìl'idea di pubblicazione venne temporaneamente accantonata. Nel frattempo alcuni versi furono pubblicati frammentariamente. Il 1964 fu l'anno del riordino delle due versioni in un unico libro che contenesse sia versi, sia prosa, in uno spiccato pluristilismo sperimentale. La pubblicazione avverrà, in tre libri, tra gli anni sessanta e gli anni settanta sotto lo pseudonimo I. Tanarda e poi in raccolte unitarie successive.  Il tema è insolito e il contenuto, con riferimenti religiosi e culturali di ogni tipo, non è di semplice accessibilità. Se il primo libro può essere collocato in un momento simbolico dell'arte, il secondo è classico e il terzo romantico, nei canoni dell'estetica hegeliana. Nel primo, Apocalisse grande, il protagonista Bàrel sovrappone le passioni alle idee; nel secondo, La cerca di Barel, ritorna in proporzioni umane e nel terzo, La morte degli dèi, scende negli abissi vertiginosi del Pensiero, che la poesia tenta di inseguire. È stato tradotto anche in lingua francese dalla poetessa e latinista Geneviève Immè dell'Pau. Saggi: “Organon Philosophicum”, Ironia, morale, educazione, Gheroni, Torino, “Etica del sentimento”  Filosofia dell'Unicità, Gnoseologia del sentimento, Pergamena, La filosofia giuridica, Filosofia dell'Unicità, Milano “Filosofia della religione”. Filosofia dell'Unicità, Epistemologia. Una nostra riforma della Logica Hegeliana, Pergamena, La Metafisica. Pergamena, Iesous Eléutheros. La liberazione di Gesù: lettera sistematica ai miei figli, Pergamena Dizionario di Estetica, Pergamena Studi successivi anel periodico Sistematica. Res Publica. Educazione civica, Pergamena Res Publica. Teoria dell'Ineguaglianza, Pergamena Nel Pleròma. Da Dio alla Materia, Pergamena Storiografia come rettorica. Autobiografia come filosofia, Pergamena Memoriale Ambrosiano e Memoriale Italico, Pergamena Dio, Pergamena  Estetica della Musica, Pergamena scon Colloquia Edizioni. Meditazioni Hegeliane, Editrice, Meditazioni Platoniche, Pergamena Capitoli sulla Scienza Moderna, Pergamena L'immortalità dell'anima, Pergamena Ricerche filosofiche La filosofia del sentimento di A. Consentino, in Quaderni, Milano, Rabelais e l'educazione del principe, Viola, Milano; ora in Paideia grande. Un mistico bergamasco: Sisto Cucchi, Secomandi, Amiel Morale, Saggiatore, Torino, L'educazione dei ciechi, Armando Roma, Società e Stato da Spedalieri a Marx, Pergamena L'estetica italiana nella prima metà del secolo XX: figure e problemi., Nistri-Lischi, Pisa, Storia della pedagogia, Armando Roma  "le edizioni successive alla X sono state scempiate da interventi dell'Editoreriporta Giraldi in Sistematica). Il pensiero politico tra Ottocento e Novecento, Pergamena, Adolfo Ferrière. Psicologia, attivismo, religione, Armando Roma, Giuseppe Lomabardo Radice tra poesia e pedagogia, Armando Roma, Gentile. Filosofo dell'educazione Pensatore politico Riformatore della Scuola, Armando Roma Raffaello Lambruschini. Armando Roma, Silvio Tissi filosofo dell'ironia, Pergamena Moralistica francese, Pergamena Saggi su Francesco di Sales, il Quietismo, La Rochefoucault, Prevost. Filosofi teoretici e Morali, Pergamena saggi su Condillac, Senancour, Rensi, Hume, Camus, Barié, Galli, Lazzarini, Castelli, Capitini. Gramsci e altri miti, Pergamena Storia della filosofia, Trevisini Milano L'Italia nella dittatura e nella non democrazia, Pergamena Paideia Grande, Pergamena Rabelais, Rosmini, Boncompagni, Gentile. Storia del Liberalismo nel sec. XX, Pergamena Riviste Moltissimi saggi e studi di politica, religione, filosofia, filologia e critica sono stati pubblicati nelle seguenti riviste fondate da Giraldi stesso:  L'Idea Liberale, Sistematica, attiva sino al. Filologia Giovanni Michele Alberto Carrara, De fato et fortuna. Tipografia A. Ronda, Milano,  Studi sul Rinascimento, Pergamena Saggi su: Seneca e la filologia; Petrarca viaggiatore; Leonardo da Vinci scrittore; Le fonti del Pontano lirico; Gli errori di Dante Alighieri in un poema umanistico inedito; Il Rinaldo di T. Tasso; Il T. Tasso corregge il Floridante; Rime inedite di Cecco d'Ascoli. G. M. A. Carrara,  Pergamena, G. M. A. Carrara, Armiranda. Inedito umanistico, Pergamena Commedia inedita, testo latino e traduzione G. M. A. Carrara,  III, De choreis Musarum, Pergamena Testo sistematico latino. Segue un Saggio monografico sull'umanista. G. M. A. Carrara, Sermones objurgatorii, Pergamena Sui tragici greci. Da mio diario filologico, Pergamena Filologia. Teoria e saggi, Pergamena Su Dante con verità, Pergamena Il Manzoni, in Sistematica, Pergamena Gesù, Pergamena Poesia e prosa d'arte Collana dei "Tredici". La Scala, novelle e poesie; Mutarsio, Torino Bàrel. I. Apocalisse grande, La cerca di Bàrel, La morte degli dèi; Pergamena Hendecasyllabi aliaque scripta, Pergamena L'aragosta. Romanzo Ligure, Pergamena Il figlio di Pinocchio, Pergamena Fratelli Frilli,  Il dono delle Muse. Cento novelle, Pergamena Quadri Intemelii, Pergamena Miniature. Codex aureus, Codex recens. Codex quadraticus, Pergamena Cento tavole, alcune con testi latini parzialmente editi in Hendecasyllabi. Il Codex recens presenta soggetti del Bàrel; il Codex aureus è a soggetto libero e vario; il Codex quadraticus comprende le figure degli scacchi. Con rubriche annesse che spiegano tempi, temi, tecniche. Pergamene Musa latina, Pergamena Il ramo d'oro, Pergamena Scritti in Italiano, Latino, Francese, Romanesco, Biblico. Profili di gente nel mio tempo, Pergamena Splendido novellare, Pergamena Cento racconti e novelle. Musis amicus, Pergamena Versi e prose in Latino. Mimì o E tutto è amore, Pergamena Sorridono i gigli. Liriche e restauro filologico di Saffo, Pergamena Tevere amico, Pergamena, Pedagogia e Filosofia esposte nel dialetto Romanesco da un popolano di Trastevere. Paradiso, Pergamena Editrice, Faust mediterraneo, Pergamena Editrice, Atlantidos persis, Pergamena Editrice, François Villon, Il Testamento, traduzione e saggio critico Giovanni Giraldi, Pergamena Editrice, Amitiés françaises, Pergamena Editrice, Nel Sublime, Pergamena Il mio Ponente, Pergamena Letture belle, Pergamena Piero Pastorino, Pinocchio, un figlio nato da una bugia, in La Repubblica, sez. Genova. Docente universitario a Milano di Storia generale della filosofia, è stato ripetutamente consulente all'Accademia di Svezia per il conferimento dei Nobel per la letteratura. Ha al suo attivo un dizionario di estetica e linguistica, una storia della pedagogia e ha scritto novelle raccolte in due volumi. Vive a Noli, di cui è cittadino onorario. Piotr Zygulski, Filosofo liberale, in Termometro Politico. Giraldi4. Pierre-Philippe Druet, Silvio Tissi, filosofo dell'ironia, Revue Philosophique de Louvain,  John Dudley, Sui tragici greci. Dal mio diario filologico, Revue Philosophique de Louvain, Da "Autobiografia come filosofia" (Milano) e pagine integrative in Sistematica, Milano, Pergamena, Angelo Grimaldi, Illuministi inglesi e francesi, in Disegno storico del costituzionalismo moderno, Roma, Armando, Giancarlo Ottaviani, La scuola del Risorgimento. la scuola italiana Roma, Armando, G. Semerano, La favola dell'indo-europeo, Milano, Paravia Bruno Mondadori. Grice: “Giraldi is obsessed with ‘essenza’, which is a coinage by Cicero – essentia, meaning essentially nothing!”  Grice: “Giraldi, who defended Gentile, rightly, as a ‘pensatore politico’ – was obsessed with idealism – his essentialism was supposed to supersede it, but he spends some time analysing the situation in Italy with idealism, ‘a la catedra – but is dead – he refers to Croce, Gentile, and the roots of  idealism in Vico, Sanctis, and Spaventa --.” Giovanni Battista Giraldi. Giovanni Giraldi. Giraldi. Keywords. essenzialismo, essenzialismo romantico, storia della filosofia romana, etica del sentimento, autobiografia come filosofia, mio ponente, filosofia ligure, ‘l’aragosta’ – romanzo ligure -- Riviera di ponente, nel pleroma: da dio alla materia,  gentile, filosofo politico -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giraldi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Girgenti – la metrica del filosofo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Girgenti). Filosofo italiano. Grice: Ritter thinks Girgenti is related to the Velia – and Pareto to the Crotone – so it’s amazing that Bruto never liked those three Greeks of the Athenian embassy seeing that most pre-Platonic philosophy came from Magna Grecia, that is, Italy! Some must have remained in the genes!” -- Grice: “I like Girgenti; obviously Mussolini didn’t!” Grice: “I love Girgenti – he philosophised in verse, not prosa – rhyme being unexistant, it was all about the metre – he talks of ‘amicizia,’ which is none other than Love that unites all things! And then he fell in the Etna!” “Mussolini thought it was rude of the Girgentians to call their land ‘Girgenti,’ so he formulated a self-referential ‘decretto’: “From now on, Girgentians shall be called Agrigentians.’” Peano objected: “Your decree is self-contradictory or invokes a vicious regressus ad infiniutum!” -- filosofo italiano. Siceliota. Nacque da una famiglia antica, nobile e ricca di Girgenti.Come suo padre Metone, che ebbe un ruolo importante nell'allontanamento del tiranno Trasideo, egli partecipò alla vita politica della città, schierandosi dalla parte dei democratici e contribuendo al rovesciamento dell'oligarchia formatasi all'indomani della fine della tirannide, un governo chiamato dei "Mille".  La tradizione gli attribuisce uno spirito severo verso gli aristocratici. Dai suoi nemici fu poi esiliato nel Peloponneso. Tra i suoi discepoli vi fu anche Gorgia.  Successivamente Empedocle abolì anche l'assemblea dei Mille, costituita per la durata di tre anni, sì che non solo appartenne ai ricchi, ma anche a quelli che avevano sentimenti democratici.  Anche Timeo nell'undicesimo e nel dodicesimo libro - spesso infatti fa menzione di lui - dice che Empedocle sembra aver avuto pensieri contrari al suo atteggiamento politico. E cita quel luogo dove appare vanitoso ed egoista. Dice infatti: 'Salve: io tra di voi dio immortale, non più mortale mi aggiro'. Etc. Nel tempo in cui dimorava in Olimpia, era ritenuto degno di maggiore attenzione, sì che di nessun altro nelle conversazioni si faceva una menzione pari a quella di Empedocle. In un tempo posteriore, quando Girgenti era in balìa delle contese civili, si opposero al suo ritorno i discendenti dei suoi nemici; onde si rifugiò nel Peloponneso ed ivi morì. Si iscrisse alla Scuola di Crotone, divenendo allievo di Telauge, il figlio di Pitagora. Seguì la dieta pitagorica e rifiutò i sacrifici cruenti. Secondo la leggenda, dopo una vittoria olimpica alla corsa dei carri, per attenersi all'usanza secondo cui il vincitore doveva sacrificare un bue, ne fece fabbricare uno di mirra, incenso ed aromi, e lo distribuì secondo la tradizione. Secondo altri seguì gli insegnamenti di Brontino e di Epicarpo.  La sua oratoria brillante, la sua conoscenza approfondita della natura, e la reputazione dei suoi poteri meravigliosi, tra cui la guarigione delle malattie, e il poter scongiurare le epidemie, hanno prodotto molti miti e storie che circondano il suo nome. coppiata una pestilenza fra gli abitanti di Selinunte per il fetore derivante dal vicino fiume, sì che essi stessi perivano e le donne soffrivano nel partorire, pensò allora di portare in quel luogo a proprie spese le acque di altri due fiumi di quelli vicini. Con questa mistione le acque divennero dolci. Così cessa la pestilenza e mentre i Selinuntini banchettavano presso il fiume, apparve Empedocle; essi balzarono, gli si prostrarono e lo pregarono come un dio. Volle poi confermare quest'opinione di sé e si lanciò nel fuoco. Si diceva che fosse un mago e capace di controllare le tempeste, e lui stesso, nella sua famosa poesia Le purificazioni sembra avesse affermato di avere miracolosi poteri, compresa la distruzione del male, e il controllo di vento e pioggia.  I sicelioti lo veneravano come profeta e gli attribuivano numerosi miracoli.  Le numerose testimonianze che riguardano la sua biografia sono alquanto discordanti e non consentono di attribuire un'identità precisa alla sua figura. A conferma di ciò sono le numerose leggende sul suo conto. I suoi amici e discepoli raccontano ad esempio che alla morte, essendo amato dagli dèi, fu assunto in cielo. Mentre Eraclide Pontico, Luciano di Samosata e Diogene Laerzio sostengono che si suicidò gettandosi nel cratere dell'Etna. Il vulcano avrebbe eruttato, dopo qualche istante, uno dei suoi famosi sandali di bronzo.In realtà non sappiamo neanche se sia morto in patria o forse nel Peloponneso. Si afferma che visse fino all'età di 109. Una biografia di Empedocle scritta da Xanto, suo contemporaneo, è andata perduta. A Empedocle la tradizione attribuisce numerose opere, fra cui anche alcuni trattati – sulla medicina, sulla politica e sulle guerre persiane – e tragedie. A noi sono giunti però solo frammenti dei due poemi: “Sulla natura” e “Purificazioni”. Di “Sulla natura”, di carattere cosmologico e naturalistico, sono rimasti circa 400 frammenti. Delle “Purificazione”, di carattere teologico e mistico, abbiamo poco meno di un centinaio. Il timore di Girgenti appare fin dalle prime righe di “Sulla natura”.  “O dèi, stornate dalla mia lingua follia di argomenti, e da sante labbra fate sgorgare una limpida sorgente, e a te, musa agognata, o vergine dalle candide braccia, io mi rivolgo. Ciò che spetta agli effimeri ascoltare, tu porta, guidando avanti il carro ben governato dell'amore devoto. Ma non ti turbi il cogliere fiori di nobile gloria fra i mortali con un discorso, ricolmo di santità, che sia ardimentoso; e allora tu giunga leggera alla vetta della saggezza. La filosofia di Empedocle si presenta come un tentativo di combinazione sintetica delle precedenti dottrine ioniche, pitagoriche, eraclitee e parmenidee. Distingue la realtà che ci circonda, mutevole, dagli Quattro elementi primi, immutabili, che la compongono. Chiama tali elementi "radici", non nate ed eternamente uguali  e afferma che sono in tutto solo quattro, associando ognuno di essi a un particolare dio, sulla base di concezioni orfiche e misteriche proprie dei riti iniziatici allora in uso presso la Sicilia. I quattro elementi (e i rispettivi dèi associati) dunque sono:  fuoco (Giove), aria (sua moglie, Era), terra (Edoneo), ed acqua (Nesti). L'unione delle quattro radici (Giove-Era-Edoneo-Nesti) determina la nascita di una cosa. Si tratta perciò dell’ *apparente* nascita di una cosa, dal momento che l'Essere (le quattro radici) non si crea. “Ma un'altra cosa ti dirò: non vi è nascita di nessuna cosa. Solo c'è mescolanza.”  In questo modo, i primi principi si empiono così dell'essenza e del soffio vitale del potere divino. In Empedocle, Amore (Φιλότης) e la «natura divina che tutto unisce e genera la vita. Are, o Marte, e il dio del conflitto. Per Empedocle, l'uomo, essendo di origine divina, raggiunge la vera felicità che quando si riune alla compagnia di Deo. Accanto alle quattro "radici", e motore del loro divenire nei molteplici cose della realtà, si pongono due ulteriori principi: Amore ed Odio (Discordia, Contesa). Amore ha la caratteristica di "legare", "congiungere", "avvincere" («Amore che avvince.” L’Odio ha la qualità di "separare", "dividere" mediante la "contesa".   Così Amore nel suo stato di completezza è lo Sfero, immobile, uguale a se stesso e infinito. Amore è Dio e le quattro "radici" le sue "membra", e quando Odio distrugge lo Sfero, tutte, l'una dopo l'altra, fremevano le membra del dio. Infatti sotto l'azione dell'Odio, presente alla periferia dello Sfero, le quattro radici si separano dallo Sfero perfetto e beante, dando origine al cosmo e alle sue creature viventi. Prima bi-sessuate e poi sotto l'azione determinante di Odio, si differenziano ulteriormente in maschi e non-maschi, e ancora in esseri mostruosi e infine in membra isolate. Alla fine di questo ciclo, Amore riprende l'iniziativa e dalle membra isolate, nascono esseri mostruosi e a loro volta maschi e non-maschi, poi esseri bi-sessuati che finiscono per riunirsi, con le quattro radici che li compongono, nello Sfero. Nelle Purificazioni, sostiene la metempsicosi, affermando l'esistenza di una legge di natura che fa scontare agli uomini le proprie colpe attraverso una serie continua di nascite, tramite cui l'anima, di origine divina, trasmigra da un essere vivente all'altro. In questo poema gli esseri viventi, parti costitutive dello Sfero di Amore divengono dèmoni errando nel cosmo.  “È vaticinio della Necessità, antico decreto degli dèi ed eterno, suggellato da vasti giuramenti: se qualcuno criminosamente contamina le sue mani con un delitto o se qualcuno per la Contes abbia peccato giurando un falso giuramento, i demoni che hanno avuto in sorte una vita longeva, tre volte diecimila stagioni lontano dai beati vadano errando nascendo sotto ogni forma di creatura mortale nel corso del tempo mutando i penosi sentieri della vita. L'impeto dell'etere invero li spinge nel mare, il mare li rigetta sul suolo terrestre, la terra nei raggi del sole splendente, che a sua volta li getta nei vortici dell'etere: ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano. Anch'io sono uno di questi, esule dal dio e vagante per aver dato fiducia alla furente Contesa.” L'Amore non interviene nella storia delle peregrinazioni del demone decaduto? Con ogni probabilità, è l'Amore stesso che ci parla in questo frammento. L'"io" dei due ultimi versi è l'autore del poema. Ma è anche, se andiamo più a fondo, l'Amore. I demoni esiliati lontano dagli dèi saranno allora dei frammenti espulsi dalla massa centrale dell'Amore e condannati a errare tra i corpi cosmici sotto l'influenza separatrice del suo nemico, la Discordia. Quando le parti dell'Amore che sono i demoni si riuniscono nell'unità immobile della sfera, il mondo stesso diviene un essere vivente.  Sotto l'influenza di Amore il mondo stesso si trasforma in dio. Questa concezione conduce al rifiuto assoluto dei sacrifici, poiché in ogni essere vivente vi è un'anima umana, che sta compiendo il suo ciclo di reincarnazione. Se nel corso di questo ciclo l'anima si è comportata secondo giustizia, al termine potrà tornare nella sua condizione divina. Dal che, come Pitagora, anche a Empedocle ripugnano i sacrifici animali e l'alimentazione carnea. “Onde, uccidendoli e nutrendoci delle loro carni, commetteremo ingiustizia ed empietà, come se uccidessimo dei consanguinei; di qui la loro esortazione ad astenersi dagli esseri animali e la loro affermazione che commettono ingiustizia quegli uomini «che arrossano l'altare con il caldo sangue dei beati», ed Empedocle dice in qualche luogo: Non cesserete dall'uccisione che ha un'eco funesta? Non vedete che vi divorate reciprocamente per la cecità della mente?” “Il padre sollevato l'amato figlio, che ha mutato aspetto, lo immola pregando, grande stolto! e sono in imbarazzo coloro che sacrificano l'implorante; ma quello sordo ai clamori dopo averlo immolato prepara l'infausto banchetto nella casa. E allo stesso modo il figlio prendendo il padre e i fanciulli la madre dopo averne strappata la vita mangiano le loro carni.” Rispetto alla sua precedente opera vi sono delle contraddizioni che è stato difficile per i suoi esegeti conciliare. Ad esempio, ad una visione naturalistica del poema Sulla natura si contrappone la teoria della reincarnazione delle Purificazioni: nel primo scritto l'anima è anche detta mortale, mentre è definita immortale nel secondo. C'è chi ha spiegato tali incongruenze con la versatilità di Empedocle, scienziato e profeta al tempo stesso, medico e taumaturgo. C'è invece chi ha ipotizzato una paternità diversa delle due opera. Uno dei busti ritrovati nella Villa dei Papiri a Ercolano, identificato dapprima come Eraclito, solo più recentemente con Empedocle. Lo stile di Empedocle viene lodato dagli antichi. “Dicantur ei quos physikoús Graeci nominant eidem poetae, quoniam Empedocles physicus egregium poema fecerit» «Siano pure detti poeti anche coloro che i greci chiamano fisici, dal momento che il fisico Empedocle scrisse un poema egregio»  (Cicerone, De Oratore 1, 217) «padre della retorica»  (Aristotele fr. 1, 9, 65) Lucrezio (De rerum natura 727 ss.) lo prende addirittura come modello.  Renan lo definisce «uomo di multiforme ingegno, mezzo Newton e mezzo Cagliostro» Gli viene intitolato il Regio Liceo Classico di Girgenti, dove studiarono, fra gli altri, Pirandello e Camilleri.  Secondo le discordanti fonti sulla vita di Empedocle la cronologia andrebbe fissata tra il 484-1 e il 424-1.Cfr. Gabriele Giannantoni, I presocratici. Roma-Bari). Secondo Bignone (“Empedocle”, Torino) Empedocle sarebbe vissuto tra il 492 a.C. e il 432 a.C. Anche Robin ritiene che la sua vita sembra sia scorsa tra il primo decennio del secolo V e il 430 circa. Schiefsky ritiene che Empedocle sia nato nel 490 a.C. e morto nel 430 a.C. Platone, Parmenide, 127 B  Platone, Parmenide, 127 C.  Diogene Laerzio, VIII. 51  Diogene Laerzio, VIII. 73.  Timeo, ap. Diogene Laerzio, VIII. 64, comp. 65, 66.  Aristotele ap. Diogene Laerzio, VIII. 63; cfr. Timeo, ap. Diogene Laerzio, 66, 76.  Diogene Laerzio, VIII, 66, 67.  Mannucci, La cena di Pitagora, Carocci editore. Satiro, ap. Diogene Laerzio, VIII. 78; Timeo, ap. Diogene Laerzio, 67.  Diogene Laerzio, VIII. 60, 70, 69.  Plutarco, de Curios. Princ., Adv. Colote, Plinio, HN XXXVI. 27, e altri.  Così nella letteratura antica, come riferisce Bertrand Russel nella sua Storia della filosofia occidentale, citando un poeta anonimo: «Grande Empedocle che, l'anima ardente, saltò in Etna, ed è stato arrostito intero».  Diogene Laerzio, VIII. 67, 69, 70, 71; Orazio, ad Pison. 464, ecc. Ippoboto riferisce che egli, levatosi, si diresse all'Etna e, giunto ai crateri di fuoco, vi si lanciò e scomparve, volendo confermare la fama che correva intorno a lui, che era diventato dio. Successivamente fu riconosciuta la verità, poiché uno dei suoi calzari fu rilanciato in alto. Infatti, egli era solito usare calzari di bronzo.”  (Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, 8.68-69). Cfr. anche Eraclide Pontico, fr. 83 Wehrli. “E questo tutto abbrustolito chi è? - Empedocle. Si può sapere perché ti gettasti nel cratere dell'Etna? Per un eccesso di malinconia. No: per orgoglio, per sparire dal mondo e farti credere un dio. Ma il fuoco rigettò una scarpa e il trucco fu scoperto. (Luciano di Samosata, I dialoghi). Timeo ci attesta esser lui finito di morte naturale. Dicono alcuni che trovandosi egli in Messina a cagion di una festa sia ivi caduto da un carro, e rottasi la coscia, sia morto. Credono altri che in mare naufragasse: altri che si fosse strangolato da sé. Scinà, Memorie sulla vita e filosofia d'Empedocle gergentino, GERENTI – no GIRGENTI -- ed. Lo Bianco, Palermo – empedocle gergentino -- Apollonio, ap. Diogene Laerzio, VIII. 52, comp. 74, 73.  Wolfgang Haase, 2, Principat; 36, Philosophie, Wissenschaften, Technik 6, Philosophie (Doxographica [Forts.]), ed. Walter de Gruyter, Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Bruno Mondadori). Jori, Empedocle in Dizionario delle opere filosofiche, Milano, Bruno Mondadori. Avverte infatti il Jaeger. Dobbiamo guardarci dal prendere per pura metafora poetica l'espressione della religiosità che lo trattiene dal seguire sino in fondo i predecessori troppo sicuri di sé.” Cardin, Empedocle, in Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani, Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol.1 p.213  D-K 31 B 7.  D-K 31 B 17  Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, In corrispondenza con le quattro primarie anti-tesi del caldo (fuoco), del freddo (aria), dell'asciutto (terra), e dell'umido (acqua). Le quattro radici di Empedocle risultano essere poi i quattro elementi di Aristotele e Tolomeo.  Edoneo  è un appellativo proprio del dio degli inferi Ade, cfr. in tal senso Esiodo Teogonia, 913; o anche inno omerico A Demetra.  Forse si riferisce a Persefone; per una dotta riflessione su questo nome, certamente un teonimo poco conosciuto, si rimanda a Gallavotti in Empedocle, Poema fisico e lustrale, Milano, Mondadori/Lorenzo Valla. Secondo Empedocle (B 62; 63) i due sessi (maschi, non-maschi) furono determinati dalla separazione di creature "di natura integra", che si erano a loro volta evolute da forma di vita più primitive. Un papiro di recente ritrovamento, contenente aforismi di Empedocle, ha consentito tuttavia di integrare le due versioni, portando a ritenerle complementari. Le due opere, quindi, farebbero forse parte di uno stesso trattato o poema filosofico. In tempi più recenti, è stata avanzata l'ipotesi che si tratti di Empedocle gergentino. Tale proposta trova conforto sia nella notizia di Diogene Laerzio in merito alla folta chioma del personaggio sia alla specifica collocazione del bronzo all'interno della villa dove faceva pendant con il bronzo raffigurante Pitagora (inv. 5607), che fu suo maestro» (Museo archeologico Nazionale di Napoli.  “Sulle origini”. Ne conservavamo trecentocinquanta versi.”Martin ha consegnato complessivi settantaquattro esametri dei quali venticinque coincidono con quelli già posseduti.  “Ma da ogni parte è uguale a se stesso, e ovunque senza confini, lo sfero rotondo che gioisce di avvolgente solitudine.»  (Empedocle, D-K 31 B 28, Poema fisico e Lustrale, Milano, Mondadori, 1975.  Tonelli,  Empedocle di Agrigento. Frammenti e testimonianze. “Origini,” “Purificazioni,” con i frammenti del papiro di Strasburgo” (Milano: Bompiani). Bignone, Empedocle. Studio critico, traduzione e commento delle Testimonianze e dei Frammenti, ristampa, Roma, L'Erma di Bretschneider, [Torino: Bocca]. Colli, Empedocle, Pisa, La Goliardica, Traglia, “Studi sulla lingua di Empedocle” Bari, Adriatica, Bodrero, “Il principio dell’amore nella filosofia d’ Empedocle” Roma, G. Bretschneider, La lingua di Empedocle, Bari, Levante, Volpi, Empedocle: i suoi misteri rivelati in una biblioteca, 13 novembre 1996.  Empedocle di Agrigento (PDF), su Università di Milano,1.  Filosofi: Empedocle, scoperto papiro a Strasburgo. Per gli studiosi è l'unica testimonianza diretta, Strasburgo, Adnkronos,  Pigliando il nostro Empedocle a trattar le cose naturali, cui sopra d'oga ' altro in tendea, ebbe egli a sdegno di seguir set ta e maestro. E come egli era franco di animo, e grande d'ingegno; così immagi nò giusta la moda de' tempi, e l' usanza de' filosofi un sistema novello. Questo di vulgato gli acquistò tal fama, ch'emulo ei divenne per gloria e per sapere de' fisici più famosi di sua età Democrito e Anassa gora. I Greci di fatto accolsero con ammi razione i suoi belli poemi; e chi vennero poi ricordarono con onore Empedocle e i pensamenti di lui. Incerta fra tanto, manca, é corrotta è venuta la sua dottrina sino a noi. Man cate per l'ingiuria de' tempi le opere del nostro Gergentino, chi ha voluto conoscer ne lo spirito, è stato costretto di rintrac 6 ciarlo presso gli storici dell'antica filosofia. I quali non ebbero affatto cura di notare il vincolo, con cui destramente iva quegli legando i suoi pensieri. Anzi costoro così disparati li rapportano, che si possan te nere non altrimenti che rottami, da' quali non si pud il disegno ricavar dell'edifizio, cui prima apparteneano. Però eglino non che han male e tortamente fatto conoscere Ja fisica d'Empedocle; ma nè pur bene e dirittamente apprezzare la forza e la virtir della sua mente. Giacchè l'eccellenza de' sistemi è riposta nell' union delle parti, che si rispondon tra loro; e da questo le. game si misura l'ingegno di chi l'hanno inventato. Empedocle inoltre scrisse in versi, e ‘abbellì le sue idee, come fanno i poeti. Per lo che pigliando alcuni letteralmente le finzioni della sua fantasia gli apposero o pinioni assurde e grossolane. Illusi altri dal le immagini poetiche, che per lo più sono equivoche, travidero; e più presto ci tra mandarono le loro illusioni, che i pensa - 7 menti del nostro filosofo. Varie di fatto so. no le forme, sotto cui ci presentano Em pedocle gli antichi e i moderni scrittori. Ora egli è dualista, e ora è scettico: ora pla tonizza ', e or favoleggia: e non ha gnari fu, non so come, anche gridato qual pre cursore di Newton (1 ). Sicchè Empedocle, tra biasimato, lodato, e sfigurato, è stato sempre mal conosciuto, e sempre calunniato. Volendo adunque richiamare in luce la filosofia di lui, ho cercato e raccolto i frammenti de' suoi poemi, che per avvene. tura ci restano, e sparsi qua e là si leg gono presso diversi scrittori. Coll ' ajuto di questi, che sono gli onorati avanzi della sua vera fisica, son ito raccapezzando pri e poi restituendo la sua filosofia, Per chè tra le opinioni, che gli storici appon gono ad Empedocle, ho quelle scelto, che ben s'adattano, e naturalmente si legano colle idee, le quali si traggono da? fram menti di lui, e le altre rigettato, che a queste si disdicono, o ne sono contrarie. Ho fatto in somma ciò, che suol praticara ma 8 si da chi 'voglioso di restaurare un'antica statua o colonna raccoglie e mette insieme que' pezzi,, che tra loro s' incastrano, e ben si connettono. Questo metodo che stimerà diritto chiunque non è privo di senno, deve specialmente poter convenire ad Empedocle. Poichè Aristotile ci atte sta: colui più che altro fisico della sua età, aver detto delle cose, ch' eran tra loro ben legate e concordi (2 ). Ho quin di fatto ogni sforzo per richiamare alla sua purezza e integrità la dottrina del nostro filosofo quando da lui stesso, quando dall' autorità degli antichi scrittori, sempre met. tendo in accordo le idee, che si traggono da questi e da quello. Però non è da ma ravigliare, se con sì fatto accorgimento, ab. bia liberato il nostro fisico di non poche assurdità, e se mi sia venuto fatto d'ab bozzare almeno il vero sistema di lui. La prima origine, e i primi elementi delle cose, sono, per quanto pare, fuori la sfera del nostro intelletto, perchè oltre: passano la sfera de' nostri sentimenti. Pure. i Greci, cominciando da Talete, s' occupa ron tutti in si fatta vana ricerca, e tutti si smarrirono. Alcuni degli Jonici coll'acqua, altri coll' aria, altri col fuoco formaron le cose, e fabbricarono presto l'universo. Non così piacque a Parmenide, e a Pittagora. Costoro, lasciato il mondo materiale, come indegno delle loro meditazioni, si misero per strade diverse in un mondo astratto ed intellettuale. Parmenide spiritualizzò l'u nico elemento degli Jonici; e pose unica, e terna, immutabile sostanza. Uno è tutto, dicea egli, e tutto è uno; sicchè le mu tazioni della materia non altro eran per lui', che modi e semplici apparenze. Pit tagora dal mondo materiale rifuggi alla Geo metria. E se bene questa scienza non fos che un parto della nostra mente; pú re l’ehbe quegli, non si sa come, per lo modello, e 'l vero esemplar dell'universo. Però nella Geometria leggeya i rapporti e le proporzioni, che debbono aver le co se, ch'eran materiali; e vide nell'unità i primi e veri principj de' corpi. Furon gli se 8 b 10 ingegni presi da prima di maraviglia così pel filosofo di Flea, come per quello di Samos; e corsero tutti a ' loro insegnamen ti. Ma stanchi di poi di contemplare un mondo o metafisico, o geometrico, ritor narono naturalmente alla materia; e nac que la filosofia corpuscolare. I primi a far questo ritorno furono Empedocle; Anassagora; Leucippo e Demo crito. Costoro calando dal mondo di Pit tagora alla materia materializzarono le u nità di costui. Atomi chiamarono Leucip po e Democrito i principj delle cose (3 ); particelle simili Anassagora; ed Empedocle col nome li distinse di elementi degli ele menti (4). Ma in verità i loro principi altro non erano, che le unità di Pittago ra fatte materiali, espresse e indicate con vocaboli diversi. Democrito lasciò a suoi atomi l'indi visibilità, di cui le unità di Pittagora eran fornite nello stato suo intellettuale. Questa stessa indivisibilità secondo alcuni, negd al le parti simili Anassagora. Differente dall' uno e dall'altro fu per Aristotile l'opinio. ne d’Empedocle (5 ). Costui cercò nella materia le sue unità, e dividendo e sud dividendo i corpi giunse a quelle moleco le, che più non si potean dividere. Ma dove i sensi mancarono, suppli colla ra gione, e proseguendo la division delle mo. lecole col suo pensiero, s'accorse potersi queste sempre pit di nuovo dividere. Ven ne però affermando che i suoi elementi de gli elementi eran divisibili; ma solo colla mente non gia col fatto. Distinse, così di cendo, le unità di Pittagora dalle sue, ch'eran materiali; e provvida in bel mo do alla durata della natura '. Perchè essen do i principi delle cose incapaci, secondo lui, d'ogni fisica alterazione, quelle deb bono sempre durare come al presente sono: Tennero tutti tre que' fisici non che per cosa assurda, ma impossibile, la crea: zione dal nulla. Ne venne loro in mente, come ad alcuni indi piacque, di supporre la materia nuda d'ogni qualità. Chiama vano essi la materia senza forma, e senza 3 b 2 12 qualità ciò che non è (6): Ciò ch'è, dicea Empedocle, è impossibile venire da quello, che non è (7 ). Ma diverse furon le quali tà, ch ' attribuiron costoro alle loro unità secondo che diversamente riguardò ciascun di essi i corpi e la natura. Anagsagora ebbe le sue particelle non altrimenti che briccioli minutissimi, ma simili in propieta a corpi, ch'eran destinati a formare. E come varj sono i corpi e differenti le lor propietà; così yarie e differenti pose in corrispondenza le qualità delle sue particelle. Per lo che tras portò egli le qualità delle masse a' fram menti di esse, e,e ristandosi alle apparenze ricayò, come suol dirsi, da grande in pic colo. Gli atomi per Democrito erano al contrario tutti della stessa natura; e solo differiyan tra loro per sito, ordine, e fi gura. Idea, che ben si conviene alla sem plicità della natura; la quale con pochi mezzi suol produrre fenomeni, che sono pressochè infiniti, attesa la lor varietà, la lor moltitudine. Empedocle, ciò non o stante, rigettò il pensier di Democrito; e 13 or 1 volendo spiegare la varietà materiale, de? corpi, piglio, com ' egli dovea, e genno consiglio dall'esperienza.. Gli Jonici addensando o rarefacendo acqua, or l'aria, or l'aria insieme e ' l fuoco, diedero forma e qualità a ' cor pi dell'universo. Da questi e dal loro me: todo si dilungo il nostro fisico. Studiava egli i corpi, e separandone le particelle cer cava prima, e raccoglieva poi i loro com. ponenti. Però in luogo di fingere, ritro vava ne' corpi i loro elementi; nè i corpi a capriccio componea alla maniera degli Jo nici, na li analizzava come fanno i chi. niici. Le sue esperienze, furono egli è ve. ro, incerte e imperfette, come si leggono ne' versi di lui. Perchè dirizzandosi per una via non ancora usata nelle fisiche ri. cerche, mancava d'ajuti e di stromenti; massime che la fisica era allora metafisica e bambina. Ma ciò non pertanto que' pri mi e rozzi saggi del nostro Empedocle so no da stimarsi un chiaro testimonio del suo metodo, ch'era tutto pratico e sperimen. 14 tale. Coll'ajuto in fatti delle sue esperien ze agginnse, a giudizio d' Aristotile ', la terra all' aria, all' acqua, al fuoco, e ' l primo stabilì la dottrina de' quattro ele menti (8 ). Quattro, dicea egli, son le radici di ogni cosa: Giove, Giunone, Plu tone e, Nesti, figurando, sotto questi sim, boli il fuoco, la terra, l ' aria,, ee l'acqua '. Per lo che nella sua fisica le unità mate riali eran le parti, che diconsi integranti de quattro elementi; e questi le costituen ti di tutti i corpi, che si trovano in na tura, Sebbene il fisico di Gergenti avesse di stinto l' aria, l'acqua e la terra per le diverse lor qualità '; pure in riguardo al fuoco l'ebbe e' tutte tre, come se state fossero d' unica e medesima natura. Le particelle dell'aria e dell'acqua tendono, secondo lui ', a condensarsi, come fa la terra. E al contrario credea Empedocle es sere propietà del fuoco d'assottigliare, se parare, e levare ogni solidezza alle parti celle dell' aria e dell' acqua. Di fatto fu C 1 15 sua opinione che la luna si condensò a ca gione del fuoco, che da essa si partì, non altrimenti che avviene nell'acqua, quando si riduce in gelo (9 ). E se il fuoco indu. ra i corpi umidi, e vetrifica talvolta i so lidi, ciò accade per Empedocle, perchè scioglie e separa l'aria e l' acqua in quel li dimoranti (10 ). Gli elementi dunque aria e acqua sarebbero stati solidi, se la forza dissolvente del calore portato non l' avesse alla liquidità, che lor si conviene Non conobbe, egli è vero, così pensando, qualunque corpo per via del fuoco poter pigliare, passare, ritornare allo stato soli do, o liquido, o aerifornie; ma giunse a comprendere l'aria e l'acqua dovere al fuoco la loro fluidità. Questa verità, che in tempi più felici avrebbe potuto gene rarne tant' altre, fu allor qual baleno in notte huja, che illumina in un attimo, poi l' oscurità lascia più grande. Tal veri ta o affatto non fu avvertita, o punto non fu ben compresa da’ filosofi d' allora. Ari stotile si lagna d’Empedocle, come di chi e 16 avesse usato de quattro elementi, non al trimenti che fossero stati due; contando quegli per uno i tre, che questi avea real. mente diviso aria, terra, é acqua (11 ). Anzi chi furon dopo (quasi Empedocle non già quattro, nia un solo elemento avesse stabilito nella sua filosofia ) si diedero fal samente a credere il fuoco essere stato te nuto dal nostro fisico per lo principio, da cui ogni cosa veniva, e in cui ogni cosa doveasi risolvere (12 ). Ma comunque ciò, sia, egli è certo, da che. Empedocle manifestò quattro po ter essere gli elementi delle cose, tutti abbracciarono la sua opinione. Di leggieri ciascun' s'avvide l'aria, l'acqua, la terra il fuoco aver gran parte nella composizio ne de' corpi, e ne' cangiamenti più notabi li, che avvengono nel nostro globo e nel la nostra atmosfera '. Di fatto non più a capriccio come prima si solea, s' accrebbe o diminui il numero degli elementi, e tol ta ogn'instabilità tra le scuole, comune fu, e ferma rimase la sentenza de' quattro ele 17 Conta area la dem fial menti. Sicchè su questa dottrina, qual ferma base, venendo assai dopo a posare la moderna fisica; questa Empedocle ricono scere deve', e lui onorare qual suo capo e fondatore. Hanno le scienze, come ogni cosa umana i lor giri, e le loro vicende, che si distinguono da' metodi, dalle opi. nioni, dalle verità, ed eziandio dagli er rori che son dominanti. La fisica nella sua infanzia nise tra gli elementi l' aria, l' acqua, il fuoco, la terra. Questi, non ha guari, ha gia scomposto la chimica. Altri ne sostituiranno i nostri posteri, ch' al presente non si conoscon da noi. Ma niuno negherà la debita lode al nostro fi losofo, che fondo il primo periodo della fisica colla dottrina de' quattro elementi, e regoló i primi debolissimi passi dello spiri to umano nello studio non che vasto ma difficile delle cose naturali. - Più alto senno, e più forza d'in, gogno mostrò Empedocle, quando si mise a cercar le forze, che mettono in movie mento la materia e gli elementi. Si fatta 2, D i leta plaža matukio ered ܐܐ F Table tol fue ele 8 1 ricerca, siccome molto ardua, non era sta. ta sin allora impresa d'alcuno. Anassago ra, attese le sue particelle prive di moto e di vita, non sapendo altro che specola re, ricorse a Dio; e colla forza onnipoten te di lui agitò e sospinse le sue parti si mili, o loro impresse quel moto, che que. ste naturalmente non aveano. Fece costui, come chi a muover la macchina, in luogo di peso, o di molla, cerca la man dell' artefice. Però Aristotilo contro lui si sde gna, e giustamente il rampogna (13 ). Ba sto a Democrito di fornire il moto a' suoi atomi, nè curò di saper come e d'onde quello venisse. Al più facilitò il movimen to immaginando un voto, ove ogni sorta d'atomi avesse potuto agevolmente dime narsi; e particolarmente attribuendo agli atomi del fuoco la figura sferica, come quella, che avesse questi potuto render atti a scorrere e sdrucciolare. Ma Empe docle fu il primo al dir d' Aristotile, che con molto senno in natura conobbe due come cagioni del moto degli ele St & © S forze C 19 menti (14). Una di quelle chiamò amo. re, amicizia, concordia, o l'altra come contraria o lio, inimicizia, lite. L'amore d'Empedocle non è quel del la favola, di Parmenide, d' Esiodo, o d ' altri fabbri di cosmogonia. Era forse per costoro un principio attivo che vivificava 1 universo. Ma questa era un'idea, vaga, generale, e nulla utile alla fisica. Non è così l'amicizia d'Empedocle. La quale è una forza, fornita di particolari propietà, e tanto intriseca alla materia, quanto si stima da noi la sua gravità. In virtù di sì fatto amore le particelle simili tendono a unirsi tra loro, e congiungendosi forma no a mano a mano le masse. Masse che vie più van sempre crescendo; perchè la maggiore sempre ne trae a se la minore, e l'una all'altra infallibilmente s' unisce. Aria, diceva Einpedocle, si aggiunge ud aria, etere a etere, fuoco a fuoco in mo do che il minore al maggiore s’ accoppia. Sospinte del pari dall ' amore le particelle di natura diversa tendono a unirsi tra lo C 2 E ro, e compongono gli aggregati colla loro unione. L'amore in somma unisce la ma teria si fattamente, che se in natura si gnoreggiasse la sua sola forza diverrebbe l' universo unica męssa, unica sfera (15 ). Perchè è propietà peculiare dell ' amicizia di ridurre le cose, che son più, a una so la. La forza quindi per Empedocle simbo leggiata dall' amore, amicizia, e concordia non è se non quella stessa, che oggi da' Chimici si chiama affinità. L'odio, non altrimenti che l'amore, è parimente intriseco agli elementi de' cor pi, ma le qualità d'uno son del tutto op poste a quelle dell'altro. Tende l'inimis cizia a disunir le particelle congiunte; scio gliendo le masse, e scomponendo gli ag gregati. E' singolar propietà di quella ri durre l ' uno in più: tal che se l'universo fosse una sola massa e unica sfera, que sio in forza dell'odio si dovrebbe tutto quan: to sciogliere in minutissimi briccioli. Odio in somma, inimicizia, lite per Empedocle son e valgono forza dissolvente, o 1 tutt'uno 21 repulsiva. Di fatto chiamava egli anche il fuoco inimicizia; perchè questa come quel lo distrugge e separa ogni cosa (16 ). Dą ambidue queste forze tra loro op poste, d'ailinità una, e dissolvente l' al tra, significate dall' amore e dall'odio, il nostro Empedocle ne ricava il moto ne' cor pi. L'amicizia sollecita gli elementi all' u nione tra lor l' avvicina, e nell' avvicinarli tra loro parimente li muove. L'inimicizia all'incontro cospinge le molecole unite, so spintele a poco a poco le stacca, staccate le del pari le muove. Forze adunque so no l'amore, e l'odio del nostro fisico; co me quelle che avvicinando o respingendo gli elementi cagionano lor movimento. Fors ze ch'egualmente son chimiche, conie quel le, che uniscono e separano; compongono e scompongono i corpi in natura. Ma co me furono esse adombrate sotto le forme morali d'amore e odio, di lite e concora dia; sono state mal comprese e capriccio samente interpetrate. Alcuni videro in quel. le due forze la divinità e la materia (17): 22 altri: l'ordine e'l disordine; il bene e ' l male (13 ): chi la luce e le tenebre; chi l' Oromaze e l'Arimanio de' Persiani, o altre cose simili (19). Tanto egli è vero, che il suo linguaggio, come poetico, ha recato ingiu ria a' suoi pensamenti e alla sua filosofia. L'amore e l' odio, siccome dice il no stro fisico, han que signorie; ma alternan ti e separate tra loro. Comincia l'impero dell'odio, quando finisce quiel dell'amore, e declinando la signoria dell' inimicizia, l' amicizia ritorna a' suoi primieri onori. E come una sifatta vicenda non ha mai fi ne; così costante si mantiene il movimen to in natura, e gli elementi in eterno s' uniscono e separano. Esprime egli tal con tin: io e scambievole impero dell'odio e dell' aniore coll'immagine, e somiglianza d'un cerchio, che si revolve. Perché il cerchio la periodi finiti, che all'infinito si posso no rinovare. Ma tolte le voci d'impero e signoria, che son propie della poetica, si potrebbe il pensiero d'Empedocle raſfigura re nella vicenda delle forze, mercè la qua. 23 bene i ebre; chi ni, oabe ero, chei ell'aur Onn '. le i pianeti si'movono. In questi or preva le la forza centripeta e viene a farsi mag. gior la centrifuga; or prevale la centrifu ga, e viene a farsi maggior la centripeta. Sicchè alternativamente prevalendo le due forze centrali, i pianeti s' accostano e dis costano dal sole, e costantemente si mo vono nelle loro orbite ellittiche. Tale dellº amicizia, e inimicizia d'Empedocle. Come gli elementi s' uniscono; comincia a preva ler l' inimicizia, che tende a separar le cose unite. E come gli elementi dividonsi; principia a superar l'amicizia, che tende a unir le separate. Per lo che ambidue sempre operano, e si a vicenda prevalgono, che gli estremi dell'odio occupa l'amore, e l' inimicizia que' dell' amicizia. Giusta questa legge Empedocle fa e ternaniente operar l'amore e l'odio. Così, e ' dice, comanda o il füto, o la necessi tà, o l'antico giuramento degli Dei. Ma il fato del nostro filosofo non è quello de. gli Stoici, o degli Eleatici. Egli null’ al tro indica colla parola necessità, che l'ins etarr Itale ம் care PA umpert 2.  la que 24 tima natura di quelle due forze. Siccome eterna ei reputava la materia, ed eterne le forze, da cui essa era animata; così l ' amore e l'odio volea dover sempre e ne cessariamente operare. Gli elementi secon do lui o son separati, e ſrettolosa corre l ' amicizia a unirli; o sono uniti, e impa ziente va l'inimicizia a separarli. Se per poco lascerebbe l' una o l ' altra di congiun gere le cose separate, o segregar le con giunte, l'amore e l'odio, mutata natura, non sarebbero più nè odio, nè amore. E' quindi pel nostro fisico così necessaria l'e terna vicenda delle due forze, come invin cibile si stima il decreto del fato e della necessità. Il fato adunque nel dizionaria del nostro filosofo altro non significa, che l' intima indole, e l'immutabile natura delle due forze senza più. Però a torto Aristotile riprende lui, come chi avesse introdotto nela la fisica il fato é la necessità (20 ). Posti questi principj va Empedocle squa dernando il suo sistema, qual poeta, qua si collocato su d'un eminenza, di la con 25 ta; ON ie. Sasa templando la natura dichiara agli uomini le sublimi lezioni di sua filosofia. Nulla, egli dice, manca, nulla ridonda nell'us niverso; perchè la quantità della materia nè cresce nè manca. Tutto nasce, tutto muore, tutto in altra forma trasformato ri sorge, L'accozzamento di parti, che son disgiunte, n'è la nascita; e la separazion di quelle, che sono accozzate, n'è la morte, La natura quindi null altro è, che ” se parazione e miscuglio. Essa è eterna; per che l'amore e l'odio sempre fa e disfà, strugge e compone. Mancherà il presente ordine di cose, sorgerà subito un altro. Questo distrutto, di nuovo, e sotto altra, guisa si verrà a formare. Così senz' alcuna fer posa uno in un altro ordine successivamena te, e sempre sarà permutato. Nè per que: sti continui giri si cangia la natura, ne ha od te luogo o confusione, o simmetria. La materia non è stata, nè sarà mai senza moto. La natura è stata sempre qual sempre sarà: cioè amore e odio, separazione e union d' elementi. Cosi parlava Empedocle nel suo d ali 200 € c). och eta, Jade 26 poema sulla natura, o per dir meglio cosi egli smentì anzi tempo chi dopo lui dovean supporre aver lui voluto il caos immagina to sol da' poeti (21 ). Lo stato di confu sione e di caos pel nostro fisico, o non è stato, nè sarà mai, o sempre egli è stato e sarà. La natura quella è ora, ch'è sta ta, e sempre sarà: miscuglio e separazio ne: amicizia e inimicizia: nascita e morte. Passando Empedocle d'una in un ' al tra idea strettamente legava i suoi pensie ri. Siccome la materia è tutta divisa ne' quattro elementi; così i corpi per lui eran composti presso a poco de'medesimi. Ma perchè ciò nulla ostante quelli tra lor son tutti diversi; quindi andava ricercando in che, e.come si differisser tra loro. Tal difie renza ei rinvenne con gran perspicacia nella njaniera diversa, con cui gli elementi com binansi. Però non è nè l'aria, nè l'acqua, nè la terra, nè ' l fuoco che distingue le co se; ma la misurata lor mescolanza; in bre. ve, la proporzione in cui trovansi due o piti di quelli componenti. Rappresentando da € st CL T 1 C 27 c2003 de poeta le sue idee ch'eran fisiche, dicea: i dipintori mischiano colori diversi, e col mi schio di questi van figurando uomini, pian te, fabbriche, uccelli, e anche gli stessi Dei. Non altrimenti fa la natura. Ha el la, come quattro colori, che sono i quat tro elementi, e va coll ' accozzare un poco di questo, di quello, e quell' altro forman do uomini, piante, animali, donne leg giadre, e chiarissimi Dei. Tutto lo studio d'Empedocle era quel di scomporre i corpi, e scomponendoli cercava la ragione, in cui stavan tra loro le parti componenti. Per chè era persuaso, che la loro varietà veni va, ed era tutta riposta nella varia pro porzion degli elementi. Aristotile che am mira un sì bel pensamento da ad Empedo cle il vanto d'aver lui il primo conosciuto una tal verità (22 ). Non si può quindi negare il metodo d’Empedocle, come quel lo, che volea l'analisi de' corpi, esser chi mico; chimiche esser le forze amore e os dio, che inprimean moto alla materia; e chimica esser tutta la sua fisica; perchè tra lai arch nemt 22 نماز کی P.; Det ue opad ando de d 2 28 P ch for pa me pre me an CO fondata sulla proporzion delle parti, che compongono i corpi pressochè infiniti della natura. Può ora essere a chiunque manifesto Empedocle il primo aver delineato il siste. ma dinamico, che oggidi leva tanto rumo re in Alemagna. Pone questo sistema al cune sostanze semplici e primitive, che col le loro diverse combinazioni producono la varietà de'corpi. Questo stesso fece Empe docle ammettendo i primi elementi, e com binandoli in varia e differente lor propor zione, Forze attrattive e repulsive vogliono i Dinamici; ed Empedocle immaginò affini tà e forza dissolvente, o sia odio e amo re. Che se quegli a spiegare gli stati e i volumi de' corpi si fondano sul contrasto e rapporto, in cui si tiene la forza attratti va colla repulsiva; anche Empedocle dicea, che l'inimicizia sta appiattata nelle parti de' corpi pronta a vincer l'amicizia nel tem po opportuno. Ma io non mi maraviglio punto di tal corrispondenza tra Dinamici e il nostro fisico. Gli uomini gireranno sem at c ) in D gi ti 29 pre nella stessa orbita, e torneranno sem pre a riunirsi nelle medesime ipotesi ogni qual volta, che si aggireranno sì oggetti, che illustrar non si possono con osservazio. ni, e co' fatti. Perchè limitate essendo le forze del nostro spirito, limitato sarà del pari il numero delle sue combinazioni. ' I metafisici di fatto sogliono ricondurre sem. pre in iscena più o meno vaghe, più o meno adornate le opinioni medesime. Gli antichi vollero rappresentar l'essenza de' corpi. Però Democrito immagind il sistema atomistico; Empedocle il dinamico. Oggi, che alcuni han pensato di tentar lo stesso, in Francia è risalito in alto il sistema di Democrito, e quel d'Empedocle in Aloma gna. Dobbiamo persuaderci una volta che le scienze s' accrescono non già colle nostre opinioni, che sono semplici fantasmi della nostra mente, ma coll' esservare, ed espri mere co' nostri pensieri i fatti e le consue. tudini della natura. Questo metodo per avventura non era ignoto in quella stagione in Gergenti. An 30 [ a crone l'amico d'Empiedocle, poste giù le ipotesi, fondava la medicina sull'esperien za, e fu capo della setta empirica. Il no stro fisico cercava e stabiliva la varietà de' corpi cercando e stabilendo la proporzion de' lor componenti. Ma i tempi imprimono nel nostro spirito la lor forma, il lor caratte re, le loro opinioni; operando su noi non altrimenti dell' aria la qual si respira. Non è quindi da maravigliare se Empedo cle s'occupò, come allor si facea, su i principi delle cose, e sulla generazion dell' universo. Il romanzo della nascita del mondo era in que' tempi un'introduzione, che si stimava necessaria alla fisica. Niuno affat to potea meritare il titolo di sapiente, se non prima avesse ordito la sua cosmogonia. Quindi i filosofi cominciavano allora i lor poemi dalla creazione del mondo; molto più, che a ciò fare non dovean perdere gran tempo, nè durar molta fatica. Le loro cosmogonie erano un lavoro più di fan tasia, che di ragione. Si fatti lavori me 31. glio che cosmogonie potevan chiamarsi ro manzi, in cui i paragoni tenendo luogo di raziocini affermiare è lo stesso che dimostra re; e le capricciose finzioni si scambiano come opere della natura. Empedocle dun que al par degli altri intese alla formazion dell' universo; svolgendo e dichiarando l' impero della sua inventata amicizia. Diede prima nascita all'etere, indi al fuoco, poi alla terra. Da questa trasse l'acqua, l'a ria, l'atmosfera; indi le piante, gli uomi, ni, e gli animali (23 ). Pose più diligen za e più tempo a formar dalla terra; ma per opera dell'amore il genere umano. Rimescolando gli uomini colle piante, e co gli animali, tenne costoro come unica ma teria, in cui tutti si fossero contenuti qua si in ischizzo, ma senza che distinta aves ser presentato la irma, leggiadria, e ata titudine delle loro membra. Queste a po co a poco ideò egli essersi sviluppate, ed esserne venute fuori delle immagini, prive di noto e di vita, simili alle pitture, ale le statue. Nella terza generazione di poi 32 furon distinti i maschi dalle femmine. Nel. la quarta s' ebbero degli uomini, che na. scono gli uni dagli altri; perché, distinto il sesso, si mosse il carnale appetito (24). Le piante secondo lui fitte restarono in ter ra per trarne l'alimento; e gli animali qua e la si divisero per cercare un abituro con veniente alla loro natura (25 ). Queste co se sconce, incredibili, e simiglianti sognò il nostro fisico, che dovrebbero passarsi sot to silenzio, se non giovasse d'accennarle per dare șin' utile lezione allo spirito uma no. Il quale ardito, com ' egli è, malgrado gli assai folgoranti brillantissimi lumi non che della religione, ma della moderna de parata filosofia, a dì nostri va sempre fi sicando geogonie e cosmogonie. Darwin di fatto adottò gli errori del nostro Empedocle, e certamente da lui ebbe a trarre l'idea della successiva perfezione, e a grado a grado del regno animale. L'uno e l'altro fece nascere i vegetabili prima degli anima li nel tempo e nello stato, che le cose e rano imperfette. Entrambi del pari segna 33 # rono gli animali essersi a poco a poco svie luppati, e aver tratto tratto acquistato quel. la perfezione, di cui oggidi son forniti. Vogliono tutti due, che dal principio i ses si fossero stati confusi si negli animali che negli uomini. Ambidue affermano che l ' universo giunse al grado di sua perfezione, allorchè separati i sessi nacquero gli ani mali gli uni dagli altri. Darwin in somma dice unica essere stata la specie dei fila menti', che diede origine a tutti i corpi, che sono organizzati (26). E parimente fu opinione d'Empedocle, che unica fu la pasta, da cui vennero vegetabili, animac li, uomini, e Dei (27). Tanto egli è ve ro, che i nostri pensatori sempre, o al men per lo più copiano, e s ' arrogano le speculazioni degli antichi. Nella cosmogonia d'Empedocle sicco me a chiunque è maniſesto, non intervie ne, ne opera alcuna cosa la Divinità. Ma così pensando, intendea egli di recarle 0 nore più presto che ingiuria. Avendo egli ' la materia, come allor si pensava, per co 34 I sa vilissima, temeva che la sapienza si fos se bruttata, se avessé preso a ordinare co se, che son del tutto materiali. Per lo che a intendere la formazione dell'universo, lasciata la mente divina, invocò il caso, e commise gli elementi in poter della for: tuna. In sì fatti grossolani sciocchissimi er rori s' imbatte chi stoltamente, e senza una precedente saggia e matura riflessio ne, vuol togliere il supremo artefice dal la fabbrica del mondo. Il caso, fantasti cano essi, siccome racchiude in se tutte le combinazioni possibili ad avvenire; così tra le molte, e assai e infinite, che son mo struose, quelle poche ancora contiene, che son regolari. Infinite, dicea Empedocle, sono state le forme, che ha preso teria ', e senza numero le combinazioni de. gli elementi. Ma queste si son succedute senz' alcuna. posa sin dall'eternità, e forse non han potuto durare perchè prive so no state di regola e simmetria. Dopo tan. te é tante strane vicende, gli elementi in fine, conchiude egli, essersi disposti in la ma 35 quell'ordine, che il mondo ritiene, e da tutti con ragione, s ' ammira. Dal caso a dunque Empedocle formò l'universo. Al caso attribui egli quel, che privativamente è sol propio della sapienza, e dell'infinito potere d'un esser supremo. Da un acci dente sogna egli essersi condotto il presen te ordine, ma dopo lungo, vario, e suc cessivo disordine. Queste idee và Empedocle adornandh colla sua fantasia vivace, e poetica. Figir ra egli mani, piedi, gambe, busti, oc chi, braccia, spalle, teste di animali, di uomini, che tra lor misti é confusi si por tan qua e là únendosi- senza regola, e sen za misura. Ora egli vede petti senza spalı le; teste senza cervici; e fronti prive d' occhi. Or egli osserva piedi congiunti a colli, occhi a spalle, teste å gambe, di ta a fronti, e altre irregolari unioni. Quando immagina egli de' tori in volto u e uomini colla testa di bue; e quando nota nell'uomo l'impronta della pecora ', e in questa quella dell'uomo. Em mano e 2 36 1 1 a i pedocle in somma finge, trasfornia, è com pone mille e mille specie di mostri, che per lui una volta furono, e di quando in quando appariscono. Ma dopo forme si sconce é fuor di natura dispone egli ca guialmente quelle membra nelle proporzio ni, e misure che al presente veggiamo. Che maraviglia è dunque, ei conchiude, che dopo tanta varietà di mostri sieno a sorte venute le belle e ben disposte mac chine degli uomini e degli animali? In tal modo si sforzava il nostro fisico di render credibile ciò ch'è falsissimo; facendo come chi gli occhi s'acceca per meglio e più chiaramente vedere, Ma i suoi sforzi tutti quanti gli tornarono vani. Non cape ne capirà in intelletto umano, che il mondo il quale spira ordine, sapienza, e nia, sia l'opera del cieco, e dello stolto accidente. Ciascuna parte d'un essere forma un sistema; un sistema formano tutte le sue parti; un sistema tutti gli esseri, che tra loro legati corrispondono tutti al gran di fi armo 37 c scuna, segno dell'universo. I moti varj e multi plici de corpi celesti son regolati da poche e semplicissime leggi; le quali nascono e de rivano da unica propietà della materia. Se dunque ogni sistema indica combinazione, e questa suppone disegno e architetto; chi contemplando la fabbrica dell'universo, ch ' è un grande e maraviglioso sistema in cia. e in tutte le sue parti, potrà non ammirar la mente di chi seppe non che idearlo, má farlo? Se il mondo è così per fetto, qual dovrebbe essere, se fosse l'o pera d'un supremo fattore; se l'universo non mostra in ciascuna sua parte, avvegna chè minima, alcun segno o piccolo o lon. tano di casualità; chi senza empietà o stol. tezza, potrà riconoscerlo per opera del ca. so e non della mente d'un Dio? Ma senza più travagliarci a dimostrar cid ch'è chiarissimo; l'esistenza d'un som. mo fattore, oltre all'essere scritta nell' ani. mo nostro, si.legge ne' cieli, e a noi per viene da ogn'angolo della terra. Da che Anassagora disse agli uomini la mente di l 38 SO vina con singolar magistero è giusta leggi invariabili, áver ordinato la materia, niu. no vi fu, che nol consentisse. Il popolo d'Atene alzò allora un tempio a Dio, qual supremo fabbro degli esseri, e onorò quel filosofo del soprannome di mente. Anzi la ragione del volgo ha vinto in cið, e vincerà sempre i lunghi ragionamen ti di qualunque filosofo. Il volgo non lo rigetta con orrore le cavillazioni degli atei, che tentano invano negar l'esistenza d'un eterno fattore, ma poco o nulla cura altresì le speculazioni di que' sapienti, che vogliono dimostrarla. E in vero tal verità alla classe appartiene, attesa la somma evi denza, di quelle che sdegnan le pruove, e che si possono guastar più tosto che ras sodare co' lunghi e sottili raziocinj d'una filosofia illuminata. Empedocle e Democrito sebbene fossero stati superati da Anassagora, perchè non già una mente divina, ma il caso avesser posto, come autor dell'universo; pure son degnissimi d'onore per i loro metodi, o bel 39 osta k.. ** dias li pensamenti nelle fisiche discipline. Poté Democrito per sua particolar virtù concepi re egli il primo un sistema meccanico del mondo, fondato sulle propietà de' corpi, o sulle leggi del niovimento. Valse Empedo. cle per forza di sua mente a immaginare anch'egli il primo un sistema chimico dell' universo, che posando su i quattro elemen ti, è regolato da forze, e sottoposto alle leg. gi dell'affinità. Ambidue tennero in onor l'esperienza, che certo e naturalmente con duce alla scoperta della verità. Se chi do po lor filosofarono, fossero stati poco più sensati; avrebber dovuto mettersi dietro la loro scorta, e collegare insienre i modi chi mici d'Empedocle e i meccanici di Demo: crito. Si sarebbe allora abbreviato il corso degli errori, e anticipato il principio di quella filosofia naturale, che fa tant' onore a ' nioderni. Ma le sette smarrirono i filoso fanti d' allora, e costrinser costoro tanto più a errare, quanto più essi s' attennero alla metafisica, e si scostarono dall'esperi. mentare e asservare. Dovettero scorrer piů Dice? 17 bile su 40 secoli, perchè venisse in grande stato lo studio della natura. S'apparteneva veramen te a'nostri tempi, che congiunte chimica e meccanica avesser portato la fisica a quel grado d'altezza, in cui oggi si trova. Ma è sempre da confessarsi Empedocle e De. mocrito aver gettato i primi semi di que' vantaggi, che cal favore del tenipe la fi. sica ha oggi ottenuto. Le opinioni d’Empedocle sų gli ele menti, e sull'origine delle cose, se non son vere, almeno non sono ingiuriose nè al la sua mente, nè alla sua filosofia. Splen dono tra gli abbacinamenti chiari i lampi d'ingegno, e un metodo sopra ogn' altro riluce, che l'avrebbe guidato alle più bel, se gli errori de' tempi non gliel' avessero contrastato. Ma non è così, quando il nostro filosofo alle cose si rivol ge, che trattan d'Astronomia. I suoi sen timenti su gli astri sono altrettanti assurdi. Empedocle il fisico pare altr' uomo, e tut. to diverso da Empedocle astronomo. Tal differenza, che veramente è notabile, se 1 le scoperte, 41 non m'inganno, nasce da ciò, che la sua fisica si trae in gran parte da' frammenti de' poemi di lui; là dove le sue opinioni astronomiche ci vengon quasi tutte dagli Storici degli antichi filosofi. ' Non senza ra gione quindi si può sospettare, che i suoi pensieri non sono strani e deformi, quan do egli stesso l'annunzia; e al contrario pajono sconci ee mostruosi,, allorchè altri parlano in vece di lui. E ' maggiore tal congettura, qualor si considera que com pilatori essere stati grossissimi delle cose a stronomiche. Costoro affastellano in confu 90 le opinioni de ' filosofi, e o abbreviando le mozzano, o interpolando le allungano, o pure in qualunque altra manieria, senz' alcuno intendimento, ogni cosa deformando's le alterano. Non è quindi duro a com prendersi, gli storici del nostro filosofo, tra per l'imperizia delle cose del cielo, e per l'espressioni di lui, ch'eran tutte fi gurate e poetiche, averne contraffatto la sua astronomia. Non si negan con ciò gli errori, in cui egli per avventura avesse po f 42. tuto cadere. So benissimo l' astronomia dei Greci, sfornita.com'era in que' tempi d ' osservazioni, ridursi, tolto il nascere o trae montar d' alcune stelle, a una raccolta d' antiche tradizioni, o di opinioni bizzarre. Si conviene pure Empedocle aver potuto di: re il movimento del Sole essere stato da prima più lento, che a' suoi tempi non e. ra. Si concede altresi aver lui potuto opi nare l'asse della terra aver pigliato una po sizione all' Eclittica inclinata, che prima non avea: (usanza de' cosmogoni acconciare a lor talento le parti dell'universo, e condur le allo stato, in cui ne' suoi tempi si trora no ). Ma non si può affatto credere, Empe docle aver tenuto i tropici quasi due mura glie, cui giunto il Sole, essere stato stretto a torcere il suo cammino; e aver segnato și fatti circoli non altrimenti che due confi. ni, che impediscono il Sole camminando verso i poli d'oltrepassare il suo termine. Chiamò egli que circoli con linguaggio fi. gurato i confini del Sole; perchè a quel li il Sole giungendo par che il suo cam, 1 43 mino rivolga. In breve intese egli indica re l'obbliquità dell'eclittica, e segnar lo spazio in cui il Sole fornisce l'anquo ap parente suo corso. Giacchè l'anno si com putava allora da’ solstizj, i quali dall'om bre osservar comodamente si possono coll? ajuto dell'ago. Con tali e simili sconcezze si è guastata l ' astronomia d’Empedocle; Però se tra per difetto di memorie di lui, e per ignoranza degli storici, ė, ben diff cile d' indagar ciò ch' Empedocle penso sul. le cose del cielo; è assai più difficile sa per, ciò ch'egli non disse, e a torto a lui appongon gli storici, Temendo gli Ateniesi, che la terra fosse stata un'abitazione mal soda, furon solleciti della sua stabilità. Provvidero e glino alla propią sicurezza, e a quella del genere umano: ma colla sola fantasia a modo del volgo. S'appresentarono la ter ra in forma d'un monte, le cui barbe vanno a profondare e perdersi negli ultimi lontani confini dello spazio. Assegnarono ina sieme alla terra già divenuta nionte il suo f 2 44 co vertice di forma rotonda; e quivi loc:arono ferma sicura l'abitazione degli uomini. A mente dunque di quel popolo il Sole e gli astri non givan mai sotto la terra, che nol poteano; ma spuntavano e tramonta vano girando intorno intorno a quel verti. ce. Questa opinione, che in Atene era un pubblico dogma, non si potea contra star da filosofi senza grave lor danno. Il popolo pigliava alto sdegno di chi osava sen tirne in contrario, e contro lui si scaglia va, come contro chi avesse tentato di som. muover la terra é perdere a capriccio.il genere umano. I filosofi d'allora tra per che adularan la plebe, come chi più che gli altri soglion fuggire i pericoli; o per ehe su ' ciò nulla dissimili dal volgo crede van lo stesso; non mai vi fu alcuno, che avesse ardito negare il monte, le radici, il vertice, e la finta figura della terra. Non cosi fece il nostro filosofo, che molto perito nelle cose naturali, anche da Sici lia si scaglid contro sì fatta sentenza. Ri dea egli del monte, delle radici, del ver 45 tice.e aspramente ripiglio, Xenofane, che avea per immensa la profondità della ter ra (28 ). Chi, dicea Empedocle, tali co se divulgano, o poco veggono, o nulla san. no dell'universo.; Altri e lontani da quelli del volgo fu. rono i sentimenti d' Empedocle intorno al la terra. Fu opinione di lui, che fuoco bruciasse nel centro di questa. I sassi i dirupi, gli scogli, ei riguardò come sco rie, che la virtù di quel fuoco avea in alto levato. L'acque, che sorgon terma li, quelle sono, a suo credere, che sotter ra scorrendo piglian calore dal quel mede simo fuoco (29 ). Empedocle in somma im maginò sin d'allora l'ipotesi del fuoco cen. brale, che Buffon, non è guari, più bel la e vistosa ha richiamato alla luce. Pensavano gli Jonici, che la terra sospinta dal vortice che occupava tutta la sfera, era stata condotta nel centro di ques sta. Ma non sapeano essi comprendere, come quella, sfornita d' appoggio, ben li brata si stesse nel punto di mezzo. Timi 1 46 di quindi i filosofi al par del volgo, ne dilatavan la base, e tormentando i loro ingegni si sforzavan di sostenerla colle ipo: tesi. Talete avvisò la terra restar sospesa nell'aria, non altrimenti che un galleggian te sull'acqua, Democrito e Anassagora ne fecero la base non che larga, ma conca va; aifinchè l' aria quivi sotto racchiusa la potesse sostentar con sodezza. Parmenide credette sostenerla col principio della ra gion sufficiente. La terra a suo pensare stava nel centro, perchè non avea ragio ne, che la portasse per questo più tosto, che per quel verso, Ma il nostro fisico si dilung) da co storo, e con altri principj prese a spiegar sie la stabilita. L'acqua nella cosmogonia di lui s' era separata dalla terra per l'im peto del giro, che questa facea (30 ). Pe. rò la terra nel suo sistema rotaya. Rota va del pari secondo lui il cielo; è altra differenza non pose nella rotazion dell' una e dell' altro, che nella velocità, Minore la yolea nella terra, che stava nel centro; 47 1 rola, ando il cla colo come star galo raal Po maggiore nel cielo, che in giri smisurati si volgea. Da cid appunto egli ne trasse e perchè quella stesse in aria sen za cadere. Se girate, egli dicea, con pre stezza una secchia; l'acqua non cadrà, ancorchè nel girarsi si tenga capovolta (31 ). Tal è nella sfera i La conversion celerissi ma del cielo vince ogni peso e ritiene la terra. Al moto dunque del cielo egli in catenava la posizion della terra nel cen. tro, il suo rotare, e lo starne, Si sihar rì, egli è vero, in quella spiegazione al par degli altri; perchè allor s'ignorava la gravità della terra esser diretta al suo cen. tro. Ma il suo metodo di ridurre più fe nomeni a un solo, e ripescare ne' fatti la ragione di quelli, è molto degno di lode. Dall'esperienza della secchia, che pre stamente si volge, han preso argomento chi son portati per l'antichità, aver co nosciuto il nostro filosofo la forza centrifu. ga, Ma a pensar giusto, ignorandosi allos ra le leggi del moto, niuno ebbe, nè as ver potea l'idea vera e matematica di quel, 1 ajd a $ permas 30, ho murah ento: 48 d he Te la forza. Egli è vero essersi saputo in que' tempi, e da Empedocle essersi ben dimo strato la velocità del girare impedir la ca duta de' gravi. Ma questo era fatto, non forza, e più esempio, che principio. Eran sì lontani Empedocle e gli antichi di cono scer quella forza, che presso loro fu fer ma e costante opinione, i corpi a cagion di circolazione avvicinarsi al centro se pe santi, fuggir dal centro se leggieri (32 ). Ma se'a lui si può contrastare la co gnizion della forza centrifuga, gli si deve certamente quella concedere della rotazion della terra. Opinione era questa comune presso noi ne' tempi greci, e propia in ve rità della nostra Sicilia · Giacchè Ecfanto e Iceta la divulgarono in Siracusa; ma sin da tempi antichissimi Empedocle l' insegno nella nostra Gergenti. Avea il nostro Astronomo il Sole e le Stelle, come se fossero della stessa natura. Opinava egli quello e queste esser di fuo co (33 ). Ma non perciò è da credere, ch ' ei tenesse la luce per eguale o simile al R te te e 1 49 1 fuoco terrestré. Non sapendo egli qual fose se la natura della luce, che per altro è ignota anche a noi, tenea il Sole come una massa ignita, che lanciava nella sua sfera le sottili sue particelle (34). Queste ei credea, che dal Sole si moveano, e pro gressivamente propagandosi giungeano agli occhi. La luce, dicea, va prima nel mez zo, e poi perviene sino a noi (35 ). An ticipava così la scoperta bellissima della pro pagazione della luce, che i Satelliti di Gio ve doveano in tempi avvenire rivelare a Roemero. La vide, egli è vero, coll' in telletto, e senza ridurla a fatto, la lascið nel posto di semplice opinione. Ma nel tempo de' sogni e dell'ipotesi è degna cer to d'ammirazione quella opinione, che coll' andar de' tempi è stata condotta al grado eminente di fisica verità. L'emission della luce fu l'ipotesi, ch' allor tenne Empedocle', e cui oggi s' acco stano chi non vogliono vaneggiar per no velle bizzarie. Questa a dì nostri d ' alcu ni è rigettata, e in que' tempi era ancor مه 50: contrastata. L'ipotesi che il Sole quanti raggi manda, altrettanti ne perde, fece al lora, e ha fatto oggi credere a parecchi, ch ' egli raggi mandando, e raggi perden do sì gradatamente impoverirà di luce, che collo scorrer de' secoli giungerà sino a spe. gnersi. Newton all'incontro dimostra in sensibile essere stata la perdita della luce solare dal principio delle cose sino a noi. Anzi egli quasi sforzandosi d'assicurar la luce alle future generazioni, cerca di sup plir la massa solare con quella delle co mete. Le quali attratte dal Sole, quan do nel suo giro sono vicinissime a lui, e su lui cadendo, colla loro materia vanno a risarcire la perdita diurna delle particel. le solari. Ma Empedocle in un modo, che se non sarà forse il più vero, è certamente assai più ingegnoso, s' industrið provedero alla durata del Sole. Siccome i raggi lan. ciati dal Sole son poi riflessi dalla terra; cosà egli pensd, che quelli dopo la rifles, sion concentrandosi, ritornano al Sole (36). 51 Però questi per riflessione acquista quel, che per enuission perde; e atteso un sì fat to circolo durerà sempre lo splendore del Sole. Empedocle quindi potė ben dire la luce essere al presente una riflessione di quella che fu una volta lanciata dal Sole: Ma i compilatori dell'antica filosofia non capirono i sensi del nostro filosofo. Credette ro essi due essere i Soli d'Empedocle, uno invisibile, visibile l' altro, che collocati in due opposti emisferi si guardavan tra lo ro. La terra, eglino dissero, riflette al se condo i raggi invisibili lanciati dal primo; e quello poi in forma di luce li rimanda alla terra (37). Ecco con quali sconcez ze quegli storici guastarono i divisamenti del nostro filosofo sull' emission della luce. Non meno speziosa fu la difficoltà, che s'oppose a Empedocle ne' suoi tempi contro la succesiva propagazion della luce. Siccome nel tempo che la luce viene a noi, il Sole si move; così l'occhio astretto a seguire la direzion della luce, vedrà il Sole in un punto, in cui fu, e poi non g 52 è più. Empedocle a rispondere, non prese scampo nella prodigiosa velocità della luce, o in qualche sottigliezza, cui i fabbri di si stemi soglion rifuggire. Non è il Sole, ei di cea, ma la terra che in ventiquattro ore si volge: La terra' dunque nel rotare s’im hatte ne' raggi solari, ed essa prolungan doli va a trovare il Sole nel punto, in cui egli sta. Non si potrebbe di certo a di nostri in miglior forma rispondere a chi in quel modo vclesse attaccar l ' emissione e successiva propagazion della luce (38 ). • Empedocle ebbe la Luna come opaca, perchè frapponendosi tra il Sole e la ter ra cagiona l' ecclisse. Plutarco a lui so lo (39), mettendo in non cale tutti gli altri, da il vanto d' aver divolgato la Lu. na essere un corpo privo affatto di luce, che riflette i soli raggi solari. La chiarez za della Luna' ei chiamava non che dolce e bénigna, ma insieme straniera. Una lu ce straniera, dicea Empedocle qual poeta, circola intorno alla 'terra (40). Ma Empe docle ebbe la disgrazia d' aver avuto gua 53 stato ogni suo sentimento. Achille Tazio dall' epiteto di straniera dato alla luce lunare da Empedocle, ricavo, non so come, il medesi mo aver tenuto la Luna qual pezzo svelto dal Sole. Ma buon per noi che ci sia re stato il verso d'Empedocle, che smentisca l'interpetrazione di Tazio (41 ): Anassagora per dare una misura del So le riferì la grandezza di quest' astro al solo Peloponneso. Il nostro filosofo fu il primo, cui venne in pensiero di comparar Sole e Luna tra loro. Egli credea che il Sole fosse stato più della Luna distante dalla terra so pra due volte (42). Ciò non ostante affermo quello essere stato assai più grande di que sta; sebbene ambidue fossero appariti dello stesso diametro (43 ). In somma l'ineguale distanza fu per lui certo argomento della lo ro diversa grandezza. Parrà ad alcuno ciò essere stata cosa di lieve momento; e pure fu un passo, e un avanzamento che allora fece la scienza del cielo. Giacchè niun altro prima d'Empedocle, ed egli fu e il solo e il primo, che insegnò gli astri lontani 54. doverci comparire piccoli più de' vicini. E gli pure fu il primo che pose in confronto tra lor gli astri non solo, ma i loro diame tri. Dopo hui in fatti prima Eudosso misu rò i diametri apparenti della Luna e del Sole; e poi cominciarono i Greci a stabili re i periodi lunisolari, da cui nacque, e s’ avanzò l'astronomia de' medesimi. Si potrebbe quì aggiungere a formar tutto il quadro dell'astronomia del nostro fi losofo, aver lui forse conosciuto che la Luna rotando intorno a se stessa si mova circa la terra. Ma punto non conviene dar a Empe docle una gloria o dubbia o sospetta (44). Basta aver levato a suoi pensieri astronomici quella ruggine, di cui li bruttò l'imperi zia di quegli storici. Appresso l' onorano al cuni qual autore d'un poema sulla sfera in cui si descrive, secondo l'uso de' tem pi il nascere e ' l tramontar d' alcune stel le. Ma i critici illuminati han quello come opera d'ignoto autore e non di lui (45 ). Io non discordo da loro; anzi confesso non essere stato Empedocle intento a osservare, 1 55 1 come si conviene nell' astronomia. In quell' età si costruiva il cielo da' filosofi non si osservava. Era quella la stagione della fan tasia, delle opinioni, e dell'ipotesi, che suol sempre precedere l' altra, che porta seco il raziocinio, l'osservazione, la veri tà. Però non è poca la gloria d’Empedo cle nell' aver conosciuto la ' successiva pro pagazion della luce, la rotazion della ter ra, l'opacità della Luna, è scostandosi dalle volgari stravaganze nell' aver compa rato il primo le masse tra loro della Lu na e del Sole. Se non può egli quindi emulare Timocari e Aristillo, Ipparco e Tolomeo, che nella Greca astronomia fu ron chiarissimi; pure non è da negare lui aver saputo delle cose del cielo assai più che la sua età non portava. Vennero quel. li assai dopo, e in tempi assai più illu minati e felici; e non è maraviglia, che questi fossero stati di quello migliori. Una fiaccola più o meno brilla, quanto più o meno pura è l ' aria, in cui brucia. Dal cielo tornando alla terra non più 56 & troviamo il nostro filosofo, che immagina l' origin delle cose; ma che studia e in terpetra con senno la natura. La prima verità, che c'insegna, non già ragionando ma coll'esperienza, è il peso e la molla dell' aria. Mette egli in opera in difetto di macchine e di strumenti la clessidra, che s'usava allora da' nostri come orolo gio a misurare il tempo. Avea questa la sua figura conica; la base forata a guisa di minutissimo vaglio; e il collo lungo che stringendosi sempre più andava a fi nire in un sottil bucolino. Si tenea allora la clessidra col collo all'ingiù; e l'acqua, di cui era piena, lentamente gocciolando misurava le ore. Questa appunto fu la macchina d'Empedocle, che nelle sue ma ini diventò indice e misura di fisiche verità. Introduce ei da poeta una donzella, che trastullando colla clessidra la vuol en piere d'acqua. Ne tura essa l'orifizio col le dita, e postane la base all' ingiù, cala quella verticalmente in un fonte. Entra allora l'acqua per la base forata; ma per SC ay is ce 9 in C 57 quanto la donzella prema, e travagli, la clessidra non si può mai empiere tutta. Stanca finalmente la verginella, alza le di ta, con cui chiudea quell'orifizio; ed ec co l'acqua che sale, e giunge alla cima. Proposta l' esperienza, Empedocle ne' suoi versi ne soggiunge lo spiegamento. L' aria, dice egli, che sta racchiusa nella cavità della clessidra, colla sua molla, resiste all' acqua, e la ripara di venire all'in su. Ma appena la donzella alza, le dita, l'aria e sce, e però l'acqua non più impedita dall' aria sale, e tutta empie la clessidra. In altro modo ci presenta ei la don zella. Finge egli che questa volti la cles sidra; e allora un altra prova egli ci reca del peso e della molla dell' aria. Chiude es. sa colla mano il bucolin della clessidra, questa piena d'acqua volge colla base all' in giù; affinchè l'acqua tutta fuori si ver si. Ma non senza sua sorpresa s' accorge che l'acqua, lungi di cadere da ’ forellini della base, si ferma: Alza ella quindi la mano con fretta; ed ecco l'acqua goccio h 58 re il a lare, e a poco a poco cadendo tutta fuori versarsi. Dichiarato il primo, ſu agevole a Em pedocle spiegare il secondo esperimento. L' acqua, dicea egli, si sforza d' uscire da' fo. rami della base. Ma l'aria sottoposta si resiste colla sua molla, che venga a vince peso dell' acqua. Subito che la don zella alza la mano, l'aria di sopra preme l'acqua sottoposta; e questa, ajutata dall' aria soprastante, vince ogni restistenza, o vien fuori. Con tali esperienze, delle propietà dell' aria mostrava egli e il peso, e la molla. Ciò nulla ostante furon quelle nell'età d'ap presso poste ingiuriosamente in obblio. Se noti fossero stati al rinascer delle scienze gli esperimenti d ' Empedocle, non si sareb be certo levato tanto grido per l'invenzion del barometro. Ivi il mercurio sta sospeso dalla forza dell'aria, come l'acqua sta so spesa entro la clessidra dalla forza egual. mente dell'aria. Si fatte esperienze, che oggi son volgari, allora erano rade e uti € 59 lissime alla fisica. Smarriti i Greci in que? tempi o dalla lor fantasia, o dalla lor me tafisica, non pigliavan cura nè d ' esperien. ze, nè d'osservazioni; e privi di fatti, co storo eran pur privi di scienza · Ne' versi d'Empedocle quindi il principio si trova, e la nascita dirò così della fisica; perchè ivi si trovano i primi esperimenti. Democrito al par d'Empedocle piglia va anch'egli allora la via de' fatti: sebene ambidue ne fossero stati presto raggiunti dal divino Ippocrate. Sicché questi tre som mi uomini cercarono allor di fondare un epoca novella nella Greca filosofia, sfor zandosi di condurre gl'ingegni a studiar la natura coll' esperienza, e colla osservazio ne. Ma tal metodo, ch'è lento, ostenta to, non potea esser gradito a Greci, che impazienti erano e caldi; e però da pochi fu pregiato ed impreso. Sebbene Empedocle avesse posto ogni studio nello sperimentare; pure fu solo in Sicilia, senza stromenti, nell'infanzia dela la fisica. Ne si creda Democrito, e Ippo h 2 60 crate avergli potuto giovare, essendo e co lui di region lontanissima e questi de tempi d'appresso. Pochi eran quindi i fat, ti, che potea egli raccogliere. I medesimi non gli eran mica bastevoli all' uopo, ch' era assai vasto, e che giusta l'usanza de tempi abbracciava tutta la natura. Di che veniva, ch'egli spesso era costretto a suppli re il difetto de' fatti; e ciò il fece con assai sagacità e senno: cui nercè l'arte inventò del congetturare. Questa non gia che fosse stata da lui ridotta in canoni come si svol presso noi, che in ogni cosa abbondiamo di regole; ma intriseca si tro va, e quasi nascosta ne' suoi ragionamen ti. Anzi io credo non potersi in miglior modo rilevar l'artifizio del suo metodo, che descrivendo l'andamento del suo spi rito; allor quando pigliò ei a comparare i vegetabili agli animali. Furon tanti, e di tal momento i rapporti, con cui egli quel li a questi lego, che giunse a scoprir del, le verita, che son degne non che di ricor, F S a 8 danza, ma di stupore. 62 Il seme, il sesso, la generazione, la nutrizione, la traspirazion de’ vegetabili fu. rono i varii sorprendenti oggetti su cui fil filo s'applicò la sua mente. Da prima avverte. Empedocle comune essere il fine assegnato dalla natura 'e agli animali e a ' vegetabili. Un animale, o una pianta, egli dioe, voglion produrre animali, o piante simili a se (46). Questo fu messo da lui come base delle sue illazioni, e co nie fermo segnale d'un punto, da cui egli partendosi non s' avesse potuto mica smarri re nel proceder più oltre nelle sue nuove scoperte. Soggiunge egli appresso: come l' animale viene dall'uovo, così la pianta dal seme (47). Attesi questi fatti comincia o ' specolando a filosofarvi, e da quelli guidato va con franchezza formando le sue conget ture. Se l'uovo e il seme, egli prosegue, comune hanno il fine, ch' è la produzio ne; debbono l'uno e l'altro colla stessa attitudine, e col medesimo impeto tendere al medesimo fine (48 ). Da sì fatto fine ad ambi comune egli argomenta, come da 62 un indice, comune dover essere la natura del seme e dell' uovo. Ma Empedocle forse à tal indizio si ferma? Nullameno. Egli torna di nuovo a fatti, mette in opera da capo osservazioni; e si sforza rintracciar co. sì la natura dell' uno e dell'altro. Empedocle tirando avanti la sua stes sa traccia, trova e distingue sì nell' uovo che nel seme, non che germe, ma materia che il germe nutrisce. L'animaletto fin, chè non nasce, o la pianticella finchè non abbarbica ', traggono alimento da quella, Non è già, aver lui conosciuto le foglie seminali; o aver lui detto la placenta u terina portar nutrimento all' embrione per via del funicolo umbilicare. Egli non al tro conobbe, che due esser debbano nell' uovo e nel senię le parti principali e muni: il germe e i cotiledoni, che l'ali mento preparano alla pianticella, o all’em. brione, o nel seme, o nell' uovo. Il nostro fisico quindi più non distinse dirò così ani mali da piante. Ebhe egli il seme qual uovo de vegetabili; e chiamò le piante col CO 63 soprannome d ' ovipare (49 ). Ecco avere Em. pedocle svelato agli uomini assai prima d’Ar véo tutto ciò, che nasce', non d ' altro pro venir che dall'uovo. Teofrasto infatti, e A ristotile (50 ) a Empedocle solo attribuiscon la gloria della scoperta di tal verità, e gliela dan come propria. La fatica d ' Arvéo, fu egli è vero, utilissima all'avanzamento del le scienze, e degna di tutta la lode. Ma egli pubblicando di nuovo lo stesso ritrova mento d' Empedocle, null' altro fece che as sodar vie più colle prove ogni cosa nascer dall'uovo. Chi adesso non giudicherà mag. gior l'eccellenza dell'ingegno di chi colla mente va congetturando ciò, che del tutto s’ è ignorato in preterito, e prevede ciò che sarà da scoprirsi in futuro? Il nostro fisico, guidato com' egli era dall' induzione, spinse più oltre i suoi ra gionamenti'. Affermd le piante al par de gli animali dover essere tutte fornite di ses so. Conosciutosi da lui il seme null' altro esser che uovo, come l'uovo si feconda per l' union del maschio colla femina; co $ 64 sì argomentò egli del pari il seme per la mescolanza di que' sessi doversi fecondare. Franco ' quindi e sagace stabili egli il pri mo, ed egli il primo distinse il sesso ma schile e feminile in ogni vegetabile. Non si dubita prima di lui essersi conosciuti ma schi e femine tra ' vegetabili: ma ciò soltan to attribuivasi a palme, fichi, canape, pi stacchi. Però dal nostro fisico prende ori gine il sistema, su cui oggi posa tutta la Botanica. Egli è vero non aver lui allora ne cercato, nè mostrato gli organi genita li nelle piante, come poi han fatto con grande studio i moderni; ma ciò facea e gli sempre col ragionare, e quelli vedea dirò così, coll' intelletto. Nella testa de' grand' uomini, come dotati d'una specie di tatto pella verità, la forza delle con getture si sostituisce talvolta all' evidenza de ' fatti. Facea Empedocle a guisa d'un gran dipintore, che solo abbozza il quadro con poche, ma pennellate maestre; e la scia poi agli altri la cura di compirne il disegno, di colorirlo, e abbellirlo. Arveo 65 definì tutto nascer dall'uovo: Zalunziaski, Millington, Camerario, Vaillant prima, e poi Linnéo mostrarono il sesso nelle piante. Ma costoro tutti quanti assodaron la dottri na, e compiron l'idea tracciata dal nostro Gergentino. In verità non è poca la glo ria che a costui torna nell' aver lui il pri mo schizzato degli originali, che di mano in mano col favore del tempo si van tro vando in natura. Contemplare Empedocle, che conget tura è uno spettacolo degno d'un filosofo. Ora egli scorto dall'analogia supera tutti i suoi contemporanei', e più oltre proce dendo va diritto a trovare altre belle ve rità. Ora privo di fatti, non ostante il vi. gor di sua mente, tentoni cammina incer to tra verità, ed errore. Conobbe egli il sesso sol nelle piante. Ma altro non pote va egli conoscere, attese le poche anzi le rade verità solamente allor note. Quante altre osservazioni, quante altre verita gli mancarono? Ignoto era allora l'antere, e gli stigmi esser gli organi genitali delle pian i 06 cer te, e questi trovarsi ne' fiori. Niun sapea il polline portato da venti aderire allo sti gma per via dell'umore, che in questo si stà. Chi aveva allora osservato la Passiflo ra, la Graziola; e ' l Tulipano, che come agitati d'estro venereo, erranti van cando la polvere, che loro fecondi? Chi s'era accorto, in que' tempi la Valisneria, e l'altre piante acquatiche sul punto de’ loro amori alzar lo stigma dall? acque, per accoglier cupide, e aperte la polvere de' loro maschi? Non è però da recar mara viglia, se nell'ignoranza di tali fatti non seppe Empedocle comprendere, come le pian. te, che fitte stan sulla terra, si potesser congiungere per far la lor generazione a guisa degli animali. Ma tenne egli come cosa non che non dubbia, ma certissima, e l'induzione già gliel' aveva indicato, che il seme per l'unione si feconda della fe mina col maschio. Però egli, posti in cia scuna pianta, come sullo stesso talamo, quasi marito, e moglie, disse tutte le pian. te dover essere ermafrodite (51). Fil que: 67 sto, egli è vero, un errore; perchè in al cune piante i due sessi son del tutto se parati, e distinti. Ma altresì, egli è vero, la più parte delle piante alla classe ap partenersi dell'ermafrodite; oltr'a quelle, che sono androgine, e poligame. Empedocle appresso, il mistero passo a indagare della generazion de’ vegetabili, con quella confrontandola degli animali. Gran cose in prima osò egli dire sul la generazione animalesca. ' Immaginò egli starsi divise ne' liquor seminali de’due ses si particelle analoghe al corpo d'ogni ani male. S'ideò egli queste nella unirsi, e l'embrion formare del corpo or ganizzato (52 ). Il carnale appetito egli ri pose in quelle particelle, che, separato trovandosi nel maschio e nella femina, ten. dono naturalmente a unirsi. Ad abbondan za de' due semi la cagione ei riferisce del parto o doppio, o triplo; e a scarsezza o disordine degli stessi la nascita d'ogni sor ta di mostri. La prole secondo lui al pa dre o alla madre somiglia in proporzione generazione i 2. 68 del più o men prevalere del liquor semi nale quando della femina, quando del ma schio. La ragione inoltre crede lui dare della sterilità delle mule, che all' angustia attribuisce e obbliquita de canali della loro figura (53 ). Varie spiegazioni va in com ma egli fantasticando, che io piglierei ros sore di chiamar sogni, se chi han tratta to della generazione, non avessero sinora sognato al pari di lui. Le molecole orga niche di Buffon, i vermi spermatici di Le wenoek, l'uova di Bonnet e,di Haller, il filamento nervoso di Darwin, non sono clie ipotesi più o meno, false o tutte immagi narie. La fantasia inoltre, che tutte domi le umane, s' avvide Empedocle, poter avere anch'essa una parte nella ge nerazione. Ricordava ei delle donne, che aveaito dato in luce bainbini simili a sta. tue o pitture, cui quelle, essendo gravi. de, aveano a caso fisamente guardato (54 ). Opinò egli quindi la fantasia della femin na, non altrimenti del tornitore sul legro, na cose 69 2oho da ede lidt? po 12.06 maa Potere dar forma, e simiglianza al feto. Non inancan.oggi, chi credono poter più operare l' immaginazione del padre che alle quella della madre. Ma niun disconviene, ato quasi secondo il linguaggio d ' Empedoc!e, che la fantasia o della femmina o del nia schio, giunge talvolta a tratteggiar, dirò cosi, le membra, e la fisonomia della pro le nel ventre della madre. Da si fatte cose, stabilitasi. anzi tem po da Empedocle la famosa analogia tra' vegetabili, e animali, trasse egli, e cona chiuse del tutto eguale a questi duver es sere la generaztone di quelli. Ne men dissimigliante tra loro, disse Empedocle, dover essere la nutrizione de gli uni e degli altri. I vegetabili e gli a nimali dicea il nostro filosofo, gli alimenti scompongono, e quel traggon da éssi, ch' è conveniente e accomodato alla loro na turá (55 ). Ciò egli credea farsi in ambi due per via dell'affinità insieme e de' pori. Dell'affinità cosi egli parlava. Siccome le cose amare all'amare si uniscono, le dol UD Eury 7 Pizze,the is on sullink 70 ei de 1 dis Tec cer ci alle dolci; ogni sinile in somma al suo simile: cosi gli esseri organizzati quel pren dono dagli alimenti, che lor si confa, e può nutrire ciascuna delle propie parti. Chiaro fu eziandio il suo parlare de' po ri. La nutrizione, egli è certo, separarsi e dividersi negli animali, e ne' vegetabili per mezzo de' pori, che son differenti in dia metro (56). Le particelle, dette nutribi li, è certo altresì non potere indistinta mente entrare per qualunque di quelli: ma ciascuna insinuarsi nell' orifizio di que' bucolini, ch'è analogo alla propia gran dezza. Un vino, egli dice, è diverso da un altro, attesa la differenza non che del terreno ma della stirpe (57 ). Ecco come par, che il nostro filosofo avesse voluto vie più assodar la sua opinione della forza dell' affinità, e de' pori, massime su i vegeta bili (ch'è poi propietà d'ogni corpo orga nizzato ) i quali giusta la propia organiz zazione han da quelli preparato gli ali menti, e si rendon capaci di saporé diver so. A senno dunque d'Empedocle la nu se su red nog Ila ti co re со ali 71 Fari trizione si opera tra per l'affinità, e la ti que varia ampiezza de ' pori per canali diversi, ce e va svariatamente, ma sempre in pari re preciproco modo, vigore é aumento porgendo agli organi diversi sien de' vegetabili, sien degli animali Empedocle frattanto, il modo volendo indicare, con cui la nutrizione si sparge e dividesi fra gli organi diversi, abbiam noi veduto essersi rifuggito all' affinità, ch'è certamene un'ipotesi. Ma che maraviglia; se dopo la serie di tanti secoli da questo suo pensare non sono mica iti lontani pa recchi pur tra’ moderni? Grande in verità e diligentissima è stata oggidì la fatica de nostri fisiologi nell'indagare i fenomeni del la nutrizione, Gli hanno essi ridotto a ' fat, ti, o a leggi generali, che son propie e comuni a tutti i corpi organizzati. Nè pu re eglino han trascurato di trovare nella contrattilità organica la forza, con cui gli alimenti son trasportati in canali opportuni non sol negli animali, ma eziandio ne've getabili sino all'alto delle propie foglie. Ma TX, ام د ገን muito 73 con tutto cið o nulla o poco si sono essi avanzati nell'additar la maniera, con cui si fa la nutrizione per gli organi diversi. Non si nega oggi darsi da' più a varii organi, una specie di gusto, cui mercè quel suc chino, e tirino, che a ciascuno in partico lar si conviene. Ma poi tal fatto pensa mento mostra forse esser del tutto falso il ritrovato d'Empedocle? E' troppo vero, cho la natura yince in molte cose, e vincera sempre ogni nostra speculazione e fatica e da filosofi per lo più non si recano, cho sole congetture, ed ipotesi, Fattisi vedere eguali da Empedocle i rapporti degli animali co' vegetabili nel se nie e sesso, nel generarsi e nutrirsi, non re. stava altro a lui che applicarsi sulla tra spirazione comune ad entrambi. Conobbe egli, che gli uni e gli altri per via de' pori similmente traspirano, e quella parte degli alimenti tramandano che loro è su perflua. Alla traspirazione di fatto attribuì costui o il perdersi dagli alberi nella fred da stagione, o il serbarsi quelle foglie, che 1 73 1 dalla natura, non a caso, ma particolar mente sono ordinate al traspirare e al nu trir delle piante. I primi, ei disse, tra spiran molto in estate, e spossati levan le foglie in autunno. I secondi traspiran po co in estate, e robusti ritengon le foglie in inverno. Fondava egli la copia o scarsez za del lor traspirare sull' ineguale diame tro, e contraria posizion de' lor pori. Gli uni a suo giudizio hanno larghi i pori del le radici, angústi quelli de' rami. Gli al tri all'opposto angusti i pori delle radici, larghi quelli de' rami. Però i primi più, succhiando, e men traspirando non levan le foglie. I secondi men succhiando e più traspirando perdon le foglie (58 ). Se una si fatta posizione di pori, che immagind il nostro fisico, fosse stata confermata dalle osservazioni, avrebbe sin d'allora egli sciola to un problema, che non poco fastidio grandissimo stento ha recato a ' moderni. Era rizio comune a quell' età organizzare ad arbitrio gli esseri della natura a fin di. poterne presto dichiarare i fenomeni. Egli k e. 0 1 è vero non esser mancati a di nostri, chi abbian conosciuto e distinto ne' vegetabili non meno di quattro specie di pori (59 ); Ma chi ha potuto, o con qual microscopio potrà mai rinvenire, che a ' pori o larghi o stretti delle radici corrispondano a rove scio quelli de' rami? Pur tuttavia a Empe. docle in parte siam noi debitori della ragio. ne, che mostra il come dagli alberi cadan le foglie. La famosa traspirazione ne' vege tabili, da lui allora scoperta, scioglie og gi a noi con somma nostra ammirazione o senza nostra molta fatica un sì bel pro blema. Ognun vede le foglie cader più pre sto, quando la state è più calda. Ognun pur vede gli alberi robusti più de' deboli più tardi svestirsi di foglie. Anzi ognun vede altresì quegli alberi in inverno rite ner le foglie, che poco traspirano. I 100 derni al più han distinto le foglie, che cadono in pezzi da quelle, che intere si staccano, secondo che l'une o l'altre sono al tronco diversamente attaccate. Costoro 75 di più son giunti a conoscere, che alcuno foglie cadono intere, prima che le nuovo dalle lor gemme si svolgano, e altre ristan no finchè non ispuntin le nuove (60). Da ciò essi han tratto, che quegli alberi, i quali gettan le foglie dopo lo spuntar del le gemme, debbon mostrarsi verdeggianti in inverno. E che all'incontro quegli altri, i quali gettan le foglie pria dello spuntar delle gemme, debbon vedersi nudi nella stege sa stagione (61 ): Che perciò? i nostri fisiologi forse san. no oggi della caduta delle foglie dagli al beri assai più di quel, che ne seppe al. lora il nostro filosofo? Abbian quanto si vo glia convenuto oggi i moderni le foglie tra. spirar più quanto più abbondano di pori. Abbiano quanto si voglia pure costoro af fermata la copia o della traspirazione o de' succhi si travagliar le foglie, e i lor vasi ostruire, che finiscan di vegetare, muoja no, e cadano. Eziandio ne abbiano essi inferito tutti gli alberi dovere perder le fos glie, chi in Autunno, chi in Primavera. Ma k 2 26 de 60 fu NI tal differenza non è se non perchè le fo glie di quelli più, e le foglie di questi meno' traspirano, e l'une servon più, l' altre meno alla nutrizion delle piante? E non è questa la grande scoperta appunto d' Empedocle, e che forma uno de' suoi gran di elogi? Il pigliare i vegetabili e gli animali au mento dal calore, il goder di gioventù, il cadere in malattia, il giungere alla vecchiez za, sono altresì que' tratti di simiglianza perfetta, che il nostro fisico andava a quel. li aggiungendo. Nè lascid ei di notare, che i vegetabili al par degli animali si muv vano, resistano, si raddrizzino (62 ). Gran de com' egli era di mente, e degno d' in. terpetrar la natura, talmente s’ ingegna va di legare il primo con poche o comu ni leggi i due regni, che paion tanto di stanti e discordi tra loro, il vegetabile e l' animale. Gli antichi presero maraviglia di questo specolazioni di lui, e si ne restaron convinti, che si sforzarono aggiungervi qual che cosa del loro, Empedocle aveva già 0 PE C te 77 detto, che il seme senza più è nella ter ra ciò, che il feto nell'utero (63 ) ed egli no procedendo più oltre' non ebbero a schi fo affermare la pianta essere un animale fitto in terra per le radici, e l'animale una pianta, che cammina. I moderni poi non han tralasciato punto di assai profittar de pensamenti d' Empedocle, cui mercè tira ta avanti la traccia e allungati, diciam.co sì, i suoi stessi passi, sono iti scoprendo nuovi rapporti, che agli attimali legan le piante. Le piante dormire come gli anima li; respirare coni'essi; avere i lor muli; pro. pagarsi i polpi al par delle piante; esservi animali (che son quei, che vivono attacca ti alle pietre ) che cercano la luce e vergo essa rivolgonsi, come appunto fanno le pian te: questi e simiglianti sono i grandi ogo getti, su cui i moderni profittando d' Em pedocle si sono fissati. Ciò non ostante 90 no tante, e di tal momento le differen ze, che separano gli animali da' vegetabili, che non è stato possibile di ridurli in tut. to giusta la pretesa d'Empedocle alle me 78 desime leggi. Pare soltanto che nel presen te stato delle nostre cognizioni tutto con corra a dimostrare aver la natura espresso e racchiuso dirò così quasi sotto unica fore mola il gran fenomeno della nuova produ. zione de' corpi organizzati. Questa appun to cercò, e questa rinvenne il nostro fisi co. Perchè distinse il sesso nelle piante, e conobbe il seme non esser altro che uovo: e affermò apertamente le piante, come gli animali, dover essere ovipare. Tali meditazioni d'Empedocle su gli esseri organizzati', in difetto d'oga' altra pruova, basterebbero sole a indicare la for, za, e l'eccellenza del suo intendimento. Dovea egli supplir la mancanza de'  fatti, inventar de' metodi per non ismarrirsi, ras. sodare i suoi pensieri incatenandoli, anti veder congetturando, Operazioni, che vo gliono tutte ostinazione, sagacità; avvedi mento. Tal è la condizione dell' umana natnra, che la nostra mente non può senza stento riflettere, ragionare, scorrer le dub bie vie delle fisiche ricerche. No creda al 7.9 cuno, ch ' ei qual poeta, o cosmogono aves se ravvisato quelle somiglianze tra i vege tabili e gli animali più colla fantasia che colla ragione. La fantasia crea non isco pre; finge non ragiona; abbellisce non in catena; e se talora connette, i suoi lega mi sono immaginari e non reali. Molti fu rono i cosmogoni tra gli antichi, Ma Em. pedocle solamente s' addita come chi com prese in egual modo operarsi la generazio ne negli animali e ne' vegetabili. Fu egli è vero intento a legare questi a quegli esse ri, come suol farsi dalla fantasia, che cor ca e ritrova più le somiglianze delle cose che le lor differenze. Ma ciò avvenne dal metodo, con cui il nostro Gergentino aju tava la sua mente, ch' altro non era, nè esser poteą nella sua età, che quel dell' analogia. La quale, siccome essa suole, argomentando da cose simili, potea soltana to condurlo, a veder somiglianze. Se dun que Empedocle col favor dell' analogia pro pose congetture, che poi si son trovate ve re dalle nostre osservazioni, e ben da dir 80 si ch' egli fu nobile di monte, robusto ne suoi raziocinj, e di gran sentimento nelle cose naturali., Un altro e più vasto teatro s' apre o rą di altre e nuove specolazioni, Empedo cle, posti da parte e vegetabili e bruti, staccò l’ Uomo dagli esseri organizzati, con cui l'avea egli sin allora confuso. Prese costui a considerar l’ Uomo solo e isolato non che in metafisica e morale, ma in pa recchie fisiche scienze. Rivolse ei le sue prime indagini alla fisica dell'Uomo, cui i corpuscolisti con gran cura in quel tema po attendeano. Empedocle, Anagsagora, De mocrito scrissero sulla natura; ebbero tutti tre il soprannome di fisici: e tutti tre ten tarono di svolgere l'economia, giusta cui vive, si muove, si regola la macchina u mana. Fu forse un tale studio sull' uomo che sopra ogn'altro lor distinse dagli altri filosofi. I quali, senza più, aveano fino allora quello riguardato come un soggetto soltanto metafisico, o morale, o politico. Ma ' le fisiche ricerche d'Empedocle 81 sull’ Uomo trapassarono di gran lunga quel le di Democrito e d’Anassagora. Perchè, sagace, com'egli era, si mise in investigazio ni non prima tentate d'altri, e utilissime. Tanti furono i punti di vista, sotto cui e' prese a contemplare il corpo umano; e al trettante può dirsi essere state le scienze, cui diede principio il vigor di sua mente. Egli il primo applicò la chimica ', e sie a nalisi al corpo umano; segnd le prime li nee d'anatomia: fece sforzi se non sempre efficaci, sempre almen generosi a gettare i fondamenti della fisiologia dell' Uomo:: Il sistema d'Empedocle sulla natura fu chimico; così chimiche del pari furono le sue prime ricerche sull'uomo. Comincio egli a esaminar questo nelle sue parti, e quanto più allor si potèa, ne imprese an cora l'analisi. La carne, ei dicea è coma posta di parti eguali di ciascun de' quattro elementi. Di due parti eguali di fuoco e di terra sono formati i nervi, e le unghie son similmente nervi raffreddati dall'aria (64). Otto furon le parti, ch'ei distinse nelle os 1 82 sa: due di terra, altrettante di acqua, e quattro di fuoco (65). Se non si corresse un qualche pericolo di travedere, chi non direbbe aver lui trovato l'ossa abbondare di fuoco, perchè abbondan di fosforo? Ma che che ne sia, non v'ha dubbio, aver lui dato principio con sì fatte analisi a un novello rano di chimica · Ramo, che dopo Empedocle fu del tutto posto in non cale: ma che oggi, attesa la sua grand' utiltà con ardor si coltiva, e che va sempre più smisuratamente crescendo sotto il nome di chimica de corpi organizzati: Erasistrato, Herofilo, Serapione fu ron tra ' Greci, che s ' applicarono con som mo studio all' Anatomia. Ma innanzi a co storo, vinti gli errori della religione e de' tempi, aveano cominciato a coltivarla De mocrito in Abdera, ed Empedocle in Ger genti. Descrive quest'ultimo la spina del dorso, e tienla, come di fatto è, non ' altri menti che la carena del corpo umano (66 ). Distingue egli di più inspirazione da espi razione mostra i canali per cui si re r 83 spira dalle narici (67 ). Ricerca egli inti ne l'organo del sentire, e trapassando il neato uditorio, discopre quella parte dell' udito, che attesa la sua forma torta e spi rale, chiamò egli allora, e chiamasi anco ra la chiocciola (68 ). Questo è il poco a vanzo delle sue cognizioni anatomiche, che per sorte sono arrivate sino a noi. Ma que sto stesso poco mostra il suo gran sapere in questa scienza. Un gran pezzo di capi tello o di bảse', il rottape d ' una colon na, o pilastro, bastan sovente a indicar e la magnificenza di un edificio, e la perizia di un architetto. La sola scoverta della chiocciola dimostra assai meglio, che non fecero ' gli antichi scrittori', essersi il nostro filosofo molto avanzato nelle cose anatomi che. Questa situata in luogo riposto dell' udito non si potea discoprir certamente se non da chi fosse stato molto prima versa - to e perito nelle materie anatomiche. M eno scarse son le notizie delle fun. zioni della vita e de' sensi dell’ Uomo: e che per fortuna ci restano della fisiologia d'Empedocle. 1 84:; Il sangue umano, come ciascun sa, sempre alto, e sempre allo stesso modo co stanțe mantiene il calore. Ippocrate pien di maraviglia l'attribuì a cagione sovrana turale e divina. Empedocle all'opposto eb be il calore, come cosa ingenita e conna turale al sangue medesimo. In cid a lui s'accostarono ne' tempi d'appresso Aristoti le, Galeno, e tanti altri, Ma egli fu il primo, che a formare un sistema, trasse dal calore del sangue, come da prima ca gione, una spiegazione non già vera, ma certo artificiosa, delle funzioni della vita. Le regolate, pulsazioni delle arterie a véano gia indicato al nostro filosofo, che il muove nelle vene. Ma igno ta era a lui ', come ignota fu all'antichi tà,, la circolazione del sangue. Però in ve ce di questa suppose egli in quel fluido un movimento d'oscillazione. Il sangue, ei dicea, occupa parte, e non tutta la ca vità delle vene, e in queste va quello giul $ u continuatamente oscillando (69). La for: che lo stesso agita, era secondo lui il sangue si za 85 calore:. e questo essendo ingenito al san. gue costante ne mantiene e l'oscillazione e il moto. A tal movimento legò il nostro filoso fo la respirazione, altra operazion della vi ta. Quando il sangue, ei dicea, va giù verso il fondo de' vasi, l'aria tosto s ' insi nua ne' sottili prominenti meati delle vene, ed entrando occupa quel vano, che nell' andare si lascia in queste da quello. Ne perciò egli aggiungea l' aria quivị restarsi: perchè il sangue, secondo Empedocle, spin to dal calore, e su tornando, preme dolce mente quella, e fuori la caccia col suo ri tornare (70). Accade, seguiva egli a dire, ciò che nella clessidra si osserva (71 ).." Ivi l' aria respinge l'acqua, o da questa quella è re spinta. Non altrimenti nella respirazione l' aria esce o entra secondo che il sangue si porta o giù o su nelle vene. Però all'an dare o venire del sangue risponde alter nando il venire o andare dell'aria. Ques sta forma, entrando, l ' inspirazione; ilscen. 86. do 'l' espirazione e nell’unal e nell' altra è riposto giusta il suo sistema il respirare d'ognuno. L'aria, che nella respirazione esce ed entra nelle vene toglie al sangue a giu dizio d'Empedocle una porzion di calore. Ciò indusse gli antichi medici, che abbrac ciarono tal sua opinjone, a curar coll'aria fresca e matutina i ' morbi d'eccesivo 'calo re. Il respirar dunque cagionava secondo il nostro filosofo diminuzion di calore. Da ciò anch'egli iuferiva la necessità, che strin. ge gli animali a dormire. Il sonno in fat ti egli diceva; null' altro essere, che dimi nuzion di calore. (72 ). In quella parte quindi di fisiologia d ' Empedocle che riguarda le funzioni vitali, il sonno vien dal respirare, e questo dall' oscillazione del sangue. Sicchè sonno, spirazion, movimento di sangue tra lor son connessi, e tutti quanti a un tempo dal calore provengono. Nel calore in somma e' pose la cagione di vita e di moto. La morte (73 ), egli dicea, è privazion di ca re 87 lore però riguardava sonno come.egli il principio di morte. Giacchè questa, a suo credere, è privazione, e quello diminu zion di calore. Tali principj di medicina, ch'eran teorici, guidavano lui eziandio nel la pratica. A quel piccol' calore., da noi già osservato, che ritenea la donna Ger gentina caduta in asfissia (24) conobbe Empedocle, ch'ella era ancor capace dell' aiuto della medicina. Tanto egli è vero, che la sua pratica era alla sua teorica con corde, e questa per l'andamento naturale del suo spirito era legata tutta e formava un sistema. Ecco in qual povero stato erano allo ra l' anatomia, e la fisiologia, la fisica in breve del corpo umano. Nuda era questa di fatti, e piena d'errori, e d'ipotesi. Ma tale è la condizione delle fisiche discipline: Nascono esse imbecilli, a stento s'accresco no, e vanno non di rado alla verità per la via degli errori. A chi allor poteva vee nire in mente, che l'aria nel respirare' in luogo di toglier calore, ñe porga al san 88 ana? gue e ne porga gran copia? Come potea Empedocle anticipar specolando in que di tante yerità, che suppongono la cognizion di tante altre, e d'un immenso numero di fatti, che allora ignoravansi? Segnd e gli quindi, non v'ha alcun dubbio, po che e imperfette linee di chimica, d' tomia; di fisiologia del corpo umano. Ma tali schizzi, avvegnachè informi, ma co me primi, e originali, son titoli degnissimi di sua gloria, e gli concedono un sublime posto d'onore nella storia delle scienze. Appartiene a nobilissimi ingegni (i quali sono ben pochi ), di mostrare almen da lon tano quelle scienze, ch'al dir di Bacone son da supplirsi, e che del tutto s'igno rano. Empedocle fece ancor di più. Dino to egli la chiniica del corpo umano, analiz zando gli ossi e la carne; accennò l'ana tomia discoprendo la chiocciola; indicò la fisiologia legando al calore, come a un sol fatto, le principali funzioni della vita. Su periore e' quindi al suo secolo non avrebbe certamente lasciato ad altri la gloria d' ac 8 89 crescere queste utili scienze. Ma nol poté, come chi privo fu di stromenti, e di tut. ti que' mezzi non solo opportuni ma ancor necessari a ridurre in effetto i nuovi e và. sti disegni, che a ora a ora a lui sugge riva il suo genio, Ma se non ebbe Empe docle la fortuna di accrescerlo tutte, ebbe quella di stabilir meglio la fisiologia e get tare lui il primo le basi di quell' altra parto d' essa, che riguarda i sensi dell' uomo, Andavano i Corpuscolisti indagando 80 pra d'ogn'altro nella lor fisiologia come i nostri organi avessero potuto sentir gli oga getti che, son fuori di noi. Credevan co storo tutti i corpi venire in ogn’ istante in alterazione, cangiare, ed esalare particel le sottili, e invisibili. Eran queste, sécon do loro, trasportate dall'aria, dall' acqua, dal fuoco su nostri organi, e ivi adatta te eccitavan le sensazioni di que'corpi, da quali esse spiccavansi. Piacque quindi a costoro le sensazioni null' altro essere, che impressioni eccitate negli organi da particel m go le, che si parton dagli oggetti, di cui quel le son, come quasi le immagini. Empedocle intanto non dissenti mica da loro. Ma il suo spirito, come quello che non erane certo, non se ne mostrava del tutto convinto. Messosi costui quindi a esaminare i sensi a uno a uno, adatto a ciascun di loro la sua propia e particolare spiegazione. Fece egli così un'analisi de' sensi e sensazioni più profonda, che sin ' al lora non s'era punto fatta d'alcuno. Ma quel ch'è più aperto egli dimostrò non es ser lui punto ne' suoi pensamenti nè se. guace, nè schiavo delle comuni e dominan ti opinioni. Giacchè egli nel chiarir questo o quel senso ora abbandona i corpuscoli, or recali innanzi, o ora aggiunge agli stes si qualche nuovo argomento. Trattando Empedocle dell' odorato, e del gusto non altro mette in opera, ch'e salazioni, e corpuscoli. Questi, agli dice, trasportati dall'aria s ' acconciano a ' pori del naso, e muovono il sentir dell' odorato. I cani, ei soggiunge, cosi e non altrimenti 91 indagan futando l'orme della fiera, Che se il catarro, dice egli di più, irrigidisce le narici; allora i pori di questo tosto s ' alterano, si respira a stento, e l'odor non si sente (75 ). Tratta egli appresso dell'udito, e la sciati e pori, e corpuscoli, piglia dall'ana tomia il suo nuovo argomento. L'udito, ei dice, nasce dalla battitura dell' aria nel la parte dell'orecchia, la quale a guisa di chiocciola è torta in giro, stando essa so spesa dentro, e come un sonaglio percossa. L'anatomia, ch'era allor grossolana piccol conforto a lui porse nel dichiarare la vista. Conobbe Empedocle un de' tre umori, ch'è l' aqueo, e qualche membra na, senza più, di quelle, che coprono il globo visivo. Però sfornito dell' ajuto dell' anatomia era egli dubbio e incerto. Em pedocle nondimeno giunse a comprendere dover la luce avere gran parte nella visio ne degli occhi. Ma come, e perchè, per quanto si fosse ei travagliato, nol potè af fatto conoscere. 1 m 2 92 Suppone il nostro filosofo entro dell' occhio, non che, acqua, ma luce, che chia ma fuoco nativo. L'una, e l'altra a suo credere, ivi stanno in tal quantità, che per lo più sono ineguali. Così egli distingue gli occhi azzurri da' neri. Iprimi egli af ferma abbondar di fuoco, scarseggiare d ' acqua; là dove i secondi esser poveri di fuoco s ricchissimi d’aequa (76). Però ei soggiunge gli uni mal veggon di notte per difetto di acqua; e gli altri veggon male di giorno per iscarsezza di fuoco (77). Ma sía o poca, ó molta la luce che stanzia nell'occhio, ei la riguarda qual lu me dentro una lanterna. Lo splendore del lume, ei dice., fuori della lanterna si span de, e nella notte ci guida. Così i raggi di luce fuori dell' occhio si spargono,.e ci di mostran gli oggetti. Empedocle talora aga giunge a raggi della luce i corpuscoli. I raggi secondo lui, che dall'occhio si lancia no, prima s' imbattono nelle particelle, che si spiccan da corpi. Poi raggi e corpusco li si congiungono giusta il medesimo: e 93 insiene congiunti si portano all'occhio, e muovono il senso visivo (78). Aristotile disapprova tali pensamenti d'Empedocle. La visione degli ocohi, egli dice, è da riſerirsi solamente all'acqua, e niente al fuoco (79 ). Nella storia dello spirito umano accade sovente, che un er rore un altro ne " caccia, e ' l falso al falso di mano in mano succeda. Aristotile oltrº a ciò rimprovera il nostro filosofo, che dub. bio egli e incerto abbia, fatto cagion del vedere ora i raggi uniti a' corpuscoli, e.o ra i soli corpuscoli (80). Ma in ciò sem bra Aristotile a torto riprendere Empedocle. Non sapea persuadersi il nostro Gergen tino, che totalmente passiva fosse la se de del senso visivo. Non potea egli inol tre comprendere, che niuna parte avesse la luce nel gran magistero del nostro vedere. Incerto restò quindi di se, di sue idee, e delle spiegazioni volgari; ma tale incertez. za o quanto onore a lui reca ! Dubitar del le opinioni, che son false, e in voga, è il primo ma più difficil passo, che si può fare verso del vero. 94 La fisiologia, che va a di nostri spa ziando per tutte le scienze, comunica ezian. dio colla metafisica e colla morale. Quest' unione, ch'è il frutto naturale dell'avan zamento delle scienze, fu dirò così presen tita dal nostro Gergentino. E di fatto sul la sodissima base della fisiologia cercò egli stabilire si l'una, che l' altra. Da che Pittagora, e Parmenide ab bandonarono i priini la testimonianza de' sensi, come ingannevole, i Greci tenzona chi contro la ragione, chi contro i sensi. Questi, è quella vennero quindi in discredito: 6 sorsero intanto i sofisti, e gli scettici. Socrate, Ippocrate', e altri di si mil sorte tentaron conciliar la ragione co ' sensi. Ma vani furono i loro sforzi. Duro la gran lite durante la Greca filosofia. La stessa rinacque al rinascer tra noi delle scienze. Di nuovo si pugnò allor quando contro i sensi, quando contro la ragione; e di nuovo si giunse allo scetticismo. Ma nggi simili dispute sono già state bandite da noi; e si terran lontane, finchè lo studio rono, 95 delle fisiche, e delle Matematiche avrà in Europa stato, e onore. Ne' tempi d'Empedocle la scuola d ' Eléa orgogliosa facea ogni sforzo ad atter rare i sensi, e a inalzar la ragione. Cid ch'è, dicevan gli Eleatici, è unico, eter no, immutabile. E come i sensi ci mostra no il multiplo, il mortale, il mutabile; co sì essi c' ingannano. Però conchiudean co storo la ragione poter sola conoscere cid, che è, ed essa solamente decidere della realtà delle cose. Contro i medesimi entrarono in lizza i corpuscolisti. Questi disdegnando lo sotti. gliezze di quella scuola, fisici com'erano, difesero i sensi, senza annullar la ragione. Anagsagora con sottile avvedimento distinse le particelle simili da ' loro composti; Demo crito gli atomi da' loro aggregati: ed Enia pedocle gli elementi dalle lor combinazioni. Particelle simili, atomi, elementi, dicean costoro, sono eterni, immutabili. Non son tali le combinazioni, gli aggregati, i com posti, che mancano, e cangiano. Questi 96 si conoscon da’sēnsi, quelli dalla ragione. Eglino quindi tolsero ogni contrasto tra' sen si, e ragione: assegnando a questa, e a quelli due provincie del tutto separate, e distinte. I corpi, come composti, operano a senno d'Empedocle, e di Democrito su i nostri organi, che sono del pari composti. Eccitano quelli le nostre sensazioni; ma queste a parer d' entrambi non son tali, che i corpi, La'scuola di Jonia avea tal mente confuso le sensazioni cogli oggetti, che scambiava questi con quelle, e tenea le" une, non altrimenti, che immagini fe delissime degli altri. Non così pensarono i Corpuscolisti. Questi separarono, dirò co si, le sensazioni dagli oggetti, che le ca gionano; è muovono, ed ebbero quelle, come soli, e semplici modi, quali di fatto sono, del nostro sentire. Il bianco o il ne ro, il caldo o il freddo, l'amaro o il dol ce esistono, diceano essi, ne' nostri organi, nelle nostre sensazioni, e non già negli ogo getti. Costoro quindi solean chiamare co 1 97 1. eglia gnizioni, di apparenza, e di opinione, e non gia di verità, e di realtà quelle, che si traggon da' sensi. Ma non perciò credea Empedocle, co me alcuni vogliono, le nostre sensazioni es sere immaginarie. Cangiano queste, vero, secondo che a lui piaeque, come can gia lo stato de' corpi, o come s’ înmuta la disposizione degli organi. Ma vero, e reale è altresì il sentimento, che si desta da' cor pi. Tal' è della sua dottrina, al pari di quella di Newton intorno a colori. Vege giamo ne' corpi o rosso, o giallo. Ma ne i raggi di luce, che percuoton l'occhio, sono o rossi o gialli; ne' rossi ne' gialli so no i corpi, che que' raggi colorano. Il ros ò il giallo è in somma nell'occhio, e nell'impressione, che in esso fanno i rag gi di luce: Così a creder d'Empedocle le sensazioni sono reali. Ma le medesime non rappresentan mai le qualità, che ne' corpi appariscono; null'altro essendo, che altret tanti modi del nostro sentire, Diversa da quella de sensi, credeano SO, n 98. E 1. i corpuscolisti, esser la via, con cui s'ac quista da noi la conoscenza degli elemen ti, o degli atomi. Questi non si poteano secondo loro, come semplici, conoscer da' sensi, che sono composti. Ogni simile, era antico assioma, non si può conoscere, non col suo simile. Però Democrito ed Empedocle, tolta a' sensi la cognizione de' sempliei, la riservarono all'anima. Per questo l'anima, giusta Democrito, era for mata d'atomi; e secondo Empedocle degli elementi, ma uniti alle due forze di amo. re, e di odio. Colla terra, dicea il Ger gentino, veggiamo la terra, r acqua coll' acqua, l ' aria coll' dria, il fuoco col fuo co; e coll' odio e l'amore altresì l' odio, e l'amore: Empedocle portava, dove potea, l'oc chio alla fisica costruzione del corpo uma mo, e dava alle sue opinioni una veduta anatomica. Credetto ei di veder nel cuo. re umano un centro, diciam così, di siste ma; e ivi egli pose la sede dell'anima. Ma come Empedocle in tutto, e sempre 99 era concorde a sestesso, cosi loco quella particolarmente nel sangue, che asperger e bagna il cuore dell' uomo (81 ). Perchè ripostosi da lui il principio e di moto, e di vita nel calore del sangue, li ancor e gli dovea ripor l’anima; Era questa dota ta, a suo credere, di sentimento al pari de' sensi. Ma ambidue ricevevano le loro impressioni: l'anima dagli elementi i sen si dalle combinazioni. L' una acquistava la cognizione delle cose eterne, e immutabili, e gli altri la notizia delle mortali, e mu tabili. I corpi esterni in somma oporavan sulla macchina dell' uomo in due modi di versi: come elementi sull'anima, come com binazioni su i sensi: e quella & questi e ran passivi. Nacque da ciò, che Protagora, lo scoo ' lar di Democrito, portð opinione: l'intel letto altro non esser che la facoltà di sen è nelle sensazioni stare ogni cogni zione, e scienza: Per questo Crizia, qua si accostandosi al nostro filosofo, affermo, pensare esser lo stesso che il sentire tire, e 1 ni 2.' 100 anima stanziarsi nel sangue. Ma Empedo. çle non si fermè quì al par di costoro: passò molto innanzi. A parte dell' anima, che conosce gli elementi, un altra ne sup pose egli entro noi, che è destinata a ver sarsi nella contemplazion delle cose intellet. tuali e divine. Iddio secondo lui, non è una combi nazione a guisa de corpi; ne un unità ma teriale cone son gli elementi. Dio, egli dice, non ha forma nè membra umane; non si può veder cogli occhi, nè toccar col. le mani. Iddio è santa mente, Costui non si può render colle parole, e muove l'uni verso co' suoi veloci pensieri. Iddio in sostan za per lus è mente, e la sua vita è il pensare. Così il nostro filosofo abbandona va la compagnia di Domocrito, e le cose materiali: per tornare a Pittagora, e alle cose, intellettuali. ins. L'anima dunque, destinata da Em. pedocle a conoscer cose spirituali, e divine, dovea essere, e fu per lui altresì senza dubbio spirituale, e divina. Questa proce. 101 dea, secondo che dicevano Empedocle, e i Pittagorici, da Dio, ed era particella del la sostanza divina. Se ne appresentavano essi la ġenerazione sotto varie immagini: or di fiaccola, che tante altre ne accende; or d'idea che tante altre no genera; or di parola, che trasmette à chi ascolta, la ragion di chi parla: o di cose simili, che sarebbe lungo il ridirle: Però paghi que' filosofi di esse agevolmente popolarono il mondo d' innumerabili spiriti, che tutti e. ran partecipi della natura divina. Di questa classe prese dirò così il nos,. stro filosofo le anime spirituali. Le due a: nime, quindi annesse da lui nel corpo dell' uomo forman la primaria base di sua me tafisica dottriną. Una egli sostenne essero immateriale, materiale l' altra, ' quella ese sere immortale ed eterna, e questa mori re insieme col corpo: la primą versarsi in contemplazion di cose intellettuali, e astrat te; e la seconda in cognizione di elemen ti, e di due forze odio, e amore.. Ma non mancherà çerto, cui si fatta 102 opinion di dire anime in ciascun corpo di o gn' uomo semibri del tutto strana, e inde gna della gravità d'un filosofo: Ma chi al tresì avea ' manifestato allora, é chi fin' og. gi ci ha detto cose più vere, o più sapien. ti sull' union dell'anima col corpo, e sul reciproco loro influsso, e commercio? Chi presi di boria, annullato lo spirito, tutto riducono a macchina. Protagora volea, che giudicare, e ragionare fosse la stessa facol. tà del sentire. Ma questa è un'empietà; una mattezza. Tal la dimostrano l' unità del pensiero, e l'attività del ragionare dell' uomo. Taglián costoro, come suol dirsi, non isciolgono il nodo. Chi presi d' entusias mo, annullato dirò così il sistema organi co, tutto l' uomo riducono a spirito. Stahl volea, che l'anima sola operava tutte quan te le funzioni del corpo. Ma questa è u• na falsità, e una follia. Talla dimostra: no i movimenti involontarj, e organici. Vo glion costoro, como suol dirsi, occultare il sol colla rete. Chi poco più 'ragionevoli, pigliata una via di mozzo, vollero.combi. 103 nare ambidue le forze dell'anima, e del corpo. Leibnitz volea un'armonia prestabi lita, cui mercè lo spirito segua ne' pensie ri, voleri i moti del corpo, cui quegli è congiunto: Ma questa è una ciancia, è una fola più complicata della cosa stessa, che si vuole spiegare.. Lo spirito umano in somma ha immaginato tante ipotesi su ciò, tanto più, o meno bizzarre, quanto più o meno son le. teste scaldate di tutti filosofi. Nè vi è inoltre mai stata ipotesi, che tosto non sia stata accolta, e non ab hia avuto assai partigiani: tanto vale quel la specie di prestigio, che la novità ope ra sull’intendimento dell'uomo ! Qual ma raviglia dunque, ch’ Empedocle abbia sup posto in ogni corpo due anime? Non fu egli certo nè tanto delirante, quanto Pro tagora, tutto macchina; nè tanto immagi nario quanto Ştahl, tutto spirito; nè cost fantastico qual Leibnitz tutto armonia pri initiva. Dichiarò egli a. rincontro della falsa dottrina di Protagora, che le idee spirituali non procedono dal sentire. Svi 104 luppò anzi tempo contro Stahl le funzioni de' nostri organi, e quelle della vita con fisiologiche ipotesi non di rado fondate sull' anatomia.. Prevenne Empedocle alla fine l' erroneo sisteina di Leibnitz, e i sensi, dis se, e le sensazioni esser capaci di eccitar nell'anima la ricordanza di ciò, che prinia el!a sa, e poscia., atteso il contatto colla materia, la stessa del tutto dimentica. Non è quindi Empedocle colla ipotesi delle due anime o men ragionevole, o più strano di tutti i filosofanti, che sono stati finora. E ' da confessare che il problema intorno alla reciproca azion dell'anima sul corpo forse appartenga alla classe di quelli, che vincono qualunque intendimento dell' uo-. mo. Però non si sono recate da noi, ne' si recheran per lo innanzi, che ipotesi, e sogni, che il tempo, il quale suol confer mare i soli, e veri giudizi della natura andrà a mano a mano struggendo. Non è già, che queste due anime', che noi leggiamo presso molti degli antichi, e sopra ogn'altro' de' Pittagorici, sieno da 105 na, prendersi secondo la lettera. Intendean co storo distinguere il sensibile e l'intellettuale: due maniere di facoltà, che sono entro l' uomo. Ma adombrarono essi, come ' era u sanza d'allora, sotto vive impagini quelle facoltà, o, diciam cosi, fecero le medesime divenire persona. Empedocle di fatto secon do la testimonianza di Sesto Empirico d ' ambidue quelle facoltà compose la sola ra. gione. Questa, egli dice; è in parte uma in parte divina, e porta il nome di retta ragione (82 ). Perchè questa corrego ge gli errori de'sensi, e può sola discer nere il vero dal falso. Tanto egli è vero che le due anime d'Empedocle, non rape presentavano, che la facoltà sensibile e la facoltà intellettuale, e ambidue faceano u. na cosa sola. Chi potrà or tolerare Empedocle cole locato tra la classe de' filosofi scettici (83). Egli non mai affermd essere inutile, o va« na la testimonianza de' sensi. Apzi i sensi, egli disse, mostrarci i rapporti, che han. no i corpi, e tra loro, e coll' individuo d'. 106 ognuno. I sensi, egli disse del pari, sve. gliare nelle intellettuali facoltà le idee spi rituali, e, astratte. Al più al più diffida va Empedocle de' giudizi de' sensi, che so vente sogliono esser fallaci, o ingannevoli. Però egli volle, che i medesimi fossero sta. ti guidati unicamente dalla retta ragione. Questa potea solo a sentimento di lui discer nére il falso dal vero. Forse, dicea ai suoi tempi Cicerone parlando d'Empedocle, costui ci acceca, e ci priva de' sensi; allor quan do egli crede, che non fosse in essi gran forza per giudicar di cose, che sieno sot toposte agli stessi (84)? Par, egli è vero, Empedocle degli e lementi trattando, quali esseri semplici, ga gliardamente scatenarsi contro de'sensi. Par lui scatenarsi altresi contro gli stessi, allor ehé, dirizzandosi al suo amico Pausania, e con lui trattando dell'amore e dell' odio, ambidue forze immutabili, gli avverte a non fidarsi.de' sensi, e a guardar le cose non già cogli occhi del corpo, ma con que' della mente. Pare eziandio finalmente, giue 107 sta cid, che., Cicerone ine dice, lui andare in furia, contro i medesimi gridando: niuna cosa poter noi nè veder, nè sentir, ne.co noscere (85 ): Ma altri, che questi 'argomenti ci vo gliono a definire come scettico il nostro fi losofo. Chi è intento a esperienze e ad a nalisi; chi cerca con somina cura de' fat ti; chi da questi tenta d'investigare l'ope razioni della natura sotto la guida dell' a nalogia: certamente non sa, nè può esse re scettico. I fisici potranno non prender cura di cose spirituali, e astratte; ma non mai l'esistenza negar di que' corpi, le cui propietà con ardore cercano, e la cui in dole con diligenza studiano. L' espres sioni quindi di quelle parole, non v'è dubbio ' dover valutarsi secondo e il pen sare, e il parlare di quella stagione. Si chiamava allora pero, e ciò che è; quel ch' è eterno, e immutabile, o sia quello, che sotto i sensi non cade: Però Empedo cle a ragione parlando di elementi, e di farze, come quelli, che sono eterni e im 0 2. 108 1 mutabili, rigettd affatto i sensi: @ niuna cosa noi, disse, mercè loro potere o ve dere, o sentire, o conoscere. Fra tanto, chi il crederebbe? che nel volersi definire il carattere, o la dottrina d'uno stesso soggetto, si passi anche da' gran filosofi da uno all' altro estremo del tutto contrario. Anche i grandi uomini tal. volta precipitano i loro giudizi, e nel pre: cipitarli ·traveggono. E' cosa da farci stor: dire il sapere, che la dove alcuni filosofi dichiaravano scettico Empedocle; altri all! opposto avessero lui materialista definito, Aristotile, e altri con lui tacciano di ma: terialismo il nostro Gergentino. Nel siste ma d'Empedocle il pensare, dico Aristoti le, lo stesso val che il sentire; ogni nostra cogaizione viene dalle sensazioni: e con que: ste quella s' accresce (86). Ma questo stesso è altresì una calunnia. Passivi sono, 4. senno d'Empedocle, i nostri sepsi; pas siva è parimenté una di quelle due ani me, ch'egli suppone materiale entro noi. Pero la nostra scienza, disse egli, accre. 109 scersi colle nostre sensazioni. Ma dall' una anima e dall'altra, dalle facoltà cioè sen. sibile, e intellettuale, si forma, come a lui piacque, quella ragiono, che noi già abbiamo osservato. Questa, secondo 'lui, pesa, compara, giudica: in breve ragiona. Due sono i principj, giusta gli avanzi di sua filosofia, cui mercè la ragione rettifica i giudizi de' sensi. Primo: il nulla viene unicamente dal nulla. Secondo: il simile si può solamente conoscer col simile. La ra gione quindi secondo lui, riferisce le sens sazioni a tali, e ad altri principj (se pur altri ne avesse ammesso costui ), o coll' ajuto di questi quella ci mostra il roro. @ il falso. Poteva, cio posto, tal essere lui, qual co lo dipinge Aristotile, un materia. lista? Chi ammette principi di conoscere; di giudicare, assoluti, non ricavati da' sen. si, eterni, immutabili non può affatto cre dere, che il pensare lo stesso sia che il sentire, nè punto può essere imputato co stui di materialismo. Non v'è uomo, quanto si voglia grana. de, che non abbia i suoi nei; e anche i gran genj sono soggetti sovente a censure. Si dice d’Empedocle in metafisica non essere stato lui originale. Convien forse ora smen tire tal voce? Nulla meno. Si bisogna esse re ingenuo; nè l'amor di colui, ehe si loda dee sì impaniarci, che ci debba far supera: re l'amore del.vero. Si confessi pure Em. pedocle, al par de' corpuscolisti, in metafi sica non essere stato mai originale. Empe docle qnal allievo de' pitta gorici, e degli e leatici non seppe abbandonar punto le idee da lui apprese in ambidue quelle scuole. La stessa venerazione egli ritenne, che ave van costoro verso i principj astratti, Si diparti egli sol da' medesimi (e co si avvicinossi alle scuole contrarie ' ) nel non aver lui rigettato del tutto la testimonian za de sensi. Egli in que' dì si sforzo di sedare colla sua nuova dottrina l'accesa pu gna di que', che litigavano chi contro del, la ragione, chi contro de' sensi. Combind egli, e mirabilmente congiunse i sensi cola la ragione, a questa, e a quelli assegno 111 - uffizj, e diritti separati e distinti: e sen za nulla scemare dalla realtà di nostre sen sazioni, gran forza, e autorità diede a prin. cipj generali; e astratti: Tutti i corpusco listi furono in quella stagione eziandio, chi più, chi meno concordi al nostro filosofo; e tutti egualmente in metafica tennero le parti di conciliatori tra i due partiti allor dominanti. Tal'è la natura dello spirito u mano. Fatica egli senza stancarsi, e riflet te anche sino al cavillo, quando è sospin to dall'ardor del partito, e dall' amor del sistema ! Ma poi stanco ei di meditare, o pugnare, cerca la quiete, e 'l riposo; e componendo insieme le opinioni contrarie si lusinga d'aver trovato gia il vero. Avven ne allora in somma ciò, che la storia filo sofica ci presenta a ogni passo. Sempre dall'urto. di due opposti sistemi n' è il ter zo spuntato, che li ha conciliato, giunto. Anzi quando molti in contrasto so no i sistemi; allora è appunto, che sorgon gli ecclettici, che scegliendo opinioni, or da un partigiano, orda un altro, tutti con accozzano i partiti tra loro, e li riducono & uno. Sarebbe tempo ora mai di volgerci dalla metafisica alla morale d'Empedocle. Ma portatesi assai più avanti da lui le sue ricerche, e le sue vedute sull'anima, di storna noi pure per ora d'imprender tal via. La fisica (abbiam noi osservato espo nendo la dottrina d’Empedocle ), essere stata quella scienza, in cui ei sopra ognº altro si distinse, e cui mercè alto ha so nato, e sonerà eternamente il nome di lui. Mà nello studio della natura quello, che più l'allettava, e cui principalmente egli intendeva, era la contemplazione de' corpi organizzati. Riferi egli da prima (sic. come abbiam noi pure os servato ), gli a. nimali a ' vegetabili, e da questi portando le sue specolazioni sull' uomo giunse sino alla metafisica. Dall' uomo poi tornò Em pedocle ad ambidue quegli oggetti quasi al le sue considerazioni primjere,e domesti che · Ando egli indagando, se i vegetabili fossero stati provveduti di gentimento, e se 113 gli animali e vegetabili fossero stati tutti due al par dell'uomo forniti di anima. Si fatta investigazione non fu punto difficile al nostro filosofo, come chi piglia va l'analogia per sua guida. I corpi non organizzati, egli dicea, nulla hañ di comu ne co' vegetabili; perd se quelli son privi di senso, questi all'incontro nę debbono esser partecipi. I vegetabili all'opposto, ei sogglungea, molto aver di comune cogli a nimali (87 ). Ambidue han tra loro comu. ni le primarie funzioni vitali: son dotati di sesso, si nutriscono, crescono, traspira ban gioventù, han yeochiezza, han no indozzamenti, malattie, sanità, nasco no, muojono. Però se gli animali son for niti di sentimento, anche i vegetabili in ciò debbono essere a quelli compagni. Fu quindi sua opinione essere gli alberi, 6 le piante capaci di tristezza, di gaudio, di voluttà, di dolore, di desiderio, di sde gno; e di ogn'altro animalesco appetito (88). Anzi spingendo egli più oltre la forza di sua analogia, posti eguali i fisici rapporti > P 114 1 tra l'uomo, e gli animali, e tra questi e i vegetabili, fu di parere, che l' avere un'anima materiale non fosse un privilegio sol conceduto all' umana natura, ma comu ne eziandio a tutti quanti i corpi organiz zati. Anima quindi, e sentimento egli die de, non che agli animali; ma anima e sentimento altresì a ' vegetabili, e a ogni sorte d'erbe, e di piante (89 ). Anima e sentimento diede Empedocle a ' vegetabili ! fiori che si rattristano; erbe che si adirano; pianto, che ' o si rallegra no o piangono ! Quanti, non che qual fan. tastico piglieranno il nostro filosofo, ma ne rideranno ancora al sentirlo? Ma non rideranno certo, chi più sag. gi e più istrutti, non ignorano punto, che anche i Democriti, gli Anassagori, i Pla toni abbracciaron si fatta sentenza (90 ). La quale non è già, che faccia a lui ono re, perchè, abbia in cið avuto e compagni, e seguaci così solenni filosofi. Ciò sarebbe un argomento d'autorità, che nulla, o po co conchiuderebbe in suo pro: perchè filo-, 115 sofi ' ancor di gran nome stan sottoposti a errori grossolani, e massicci. E' che la co sa non è in se stessa sì strana; come a pri ma vista apparisce. L'anima materiale da que' gran filosofi negli animali, e vegetabi li ammesza, in sostanza altro non era, che la fisica sensibilità de' moderni. Questa vole van costoro, che fosse ne' vegetabili tal qua le tra gli animali si trova: In virtù di que sta ', credevan gli stessi, i vegetabili al par degli animali ésser capaci d'amore, odio, e d'ogn' altro animalesco appetito. Empe docle in breve, e que gran filosofi ebbero e uomini, e bruti, e vegetabili come do tati di senso, e la fisica lor sensibilità chia marono anima. Chi adesso potrà dirittaa mente riprendere Empedocle? Di poi non vi sono a di nostri de ' fi siologisti famosi, che nelle piante trovano senso d' umido, di secco, di caldo, di fred do, di luce, di tenebre; perchè non po che di quelle chiudono o aprono i loro pe tali atteso il freddo o il caldo, il secco o l' umido, il lune o lo scuro? Non vi soa P 2 116 no del pari quelli, che veggon nelle pian. te, chi il senso del tatto, come nella sen sitiva; chi quel dell' amore, come nella valisneria, chi una specie di gusto nell'e. stremità d'ogni radice, cui mercè questa sceglio, e trae quella nutrizione, che si con. viene a ciascuna? Non son finalmente o Darwin e le Metherie, che van cercando, é credono d'aver già trovato ne' vegetabili e senso, o sensorio? Qual assurdo egli è dunque, se Empedocle, che ne' suoi con cetti abbracciava tutta la natura, abbia u. nito insieme tutti i corpi organizzati per via della fisica sensibilità, che credea essere a quelli comtine? La natura, non v'è dub bio, aver distinto, e separato il vegetabile dall' anirnale con differenze, e caratteri ben contrassegnati, e rivissimi. Ma l' estendere la sensibilità dagli animali sino alle piante è una idea grande, bella, e degna di un sommo filosofo. Non v'è, chi a prima vi sta non ne debba restar preso, e non bra mi trovar vera quella, che vera sin ora non è. 117 Ma comunque ciò sia, una cosa ' solit è verissima, Empedocle aver riguardato i corpi organici in un aspetto diverso di quel, che fece Pittagora, o i filosofi prima di lui. Costoro non ebbero nè pure in pen siero di considerar le piante, di bruti, come dotati di sentimento, e di anima, Empedocle fu il primo, almen tra pittagori ci, a pensare in tal modo. Egli fu, cho ebbe e uomini, e bruti, e piante, quali esseri congiunti tra loro dalla sensibilità, come quasi comune strettissimo vincolo, o che suppose in tutti un' anima materiala egualmente. Però egli fu anche il primo, che strinse l'uomo colle piante, o co ' brus ti ad alquanti sognati doveri, che nasco Ro da quella ideata parentela, con cui e gli legò quello con questi. Ecco ora come chiaro si vede su qual base vada a poggiar la morale d'Empedo cle. Sulla fisica fondo ei la sua, metafisia ca, e su quella fondd egli ancora gran parte di quest'altra scienza. Con si fatte vedute costui pubblico due gran poemi sul. Ii8 la natura il primo, e gulle purgazioni il secondo. In questo Empedocle stabilì la sua etiça; in quello la fisica: ma fece precede re il primo al secondo, come argomento pri mario della sua raffinata morale. La morale d'Empedocle fu in verità nel suo fondo la stessa di Pittagora. Pu re lni citano gli antichi scrittori, come chi. avesse alterato la prima antica dottrina di quel sommo filosofo, e i tempi di lui ad ditano come la seconda epoca del pittago ricisino. Ma ciò avvenne, perchè Empedo cle, aggiustata la morale di Pittagora a suo modo, e conforme al suo fisico pensa rė gi scostò al quanto dagl' insegnamenti di lui. La colpa degli spiriti; una diversa maniera di metémpsicosi: l'astinenza di qualche sorta di cibo, furono in tutto le gran novità, ch'egli introdusse nel corpo della morale di quello. Tra queste come principale, e primaria è da reputarsi l'o pinion della colpa degli spiriti. Non d ' al tra fonte, che da questa, qual prima ca. il.119 gione, il nostro filosofo fece dipendere la metempsicosi e le purificazioni, che sono i due çardini della morale pittagorica. Fu opinione d'Empedocle, che varj spiriti, mentre menavano yita beata, avesser pec: cato. Però a cagion di delitto, si credet te da lui, quelli, scacciati dal cielo, e pri vi degli onori divini, essere stati così astret ti ad espiare i lor falli. Esuli, erranti, ra minghi, egli diceva, vanno lungi dal cie lo per trenta mila anni, e pagan vagando il fio meritato del propio loro delitto. L' etere quindi, e' soggiungea, precipita gli spiriti nel mare, il mare sulla terra gli sbalza, la terra gli sospinge nell'aria, l ' aria sino all' etere gl' inalza. A quelli sų giù sospinti perciò, e quà e la circolando risospinti, oyunque era d'uopo in mare, in aria, in terra vivere in miseria e in lutto. Tali spiriti, secondo che piacque a costui, andavan successivamente informan do varj corpi, e questi appunto erano le infelici anime degli uomini. Queste quindi 120 ta stavano in pena delle lor colpe racchius e ne' corpi; i corpi eran le prigioni delle ani me, e la matempsicosi, di cui Empedocle formo il primo cardine di sua morale, giu ata il parer del medesimo, era una pena delle stesse, ch'aveano prima fallato. Di si fatta reità delle anime che ragion fa della metempsicosi, non si trova vestigio alcuno presso que' filosofi, che furono in nanti d ' Empedocle. Questa per la prima volta si legge ne' versi di lui. Ai suoi tem pi fu, che la medesima divenne comune, o volgare: e Platono dopo fu quello, che l' abbelli sopra ogn' altro. Pero da Empe docle comincia una nuova età del pittago ricismo; perchè da lui comincia l'opinione della fallenza delle anime, qual base e ra gione della trasmigrazion delle stesse. Egli è vero, la metempsicosi, comu ne a pittagorici, essere stata antichissima presso gli Egizi (91 ). Non si dubita ne anche aver costoro diviso in più periodi il tempo della trasmigrazion dalle anime, assegnato a ciascuno la durata di tre mila 121 anni. In ogni periodo, credeano i medesi mi ogni anima, informato prima solamen te il corpo di un uomo, andar poi tratto tratto passando non più ne' corpi d' altri uomini, ma di qualunque animale,. che abita o l' aria, o il mare, o la terra. E' vero altresì tal dottrina essere stata dall' Egitto portata da Pittagora presso de' Gre ci (92 ). Non si dubita nè pure i Greci filosofi coll' andar del tempo averla molto alterata. Altri restrinsero la metempsicosi ai soli corpi umani, altri pari agli Egizj ľ1°. estesero dagli uomini ai bruti. Vi fu pa. rimente, chi disse que periodi esseri tre, chi dieci, chi nove. Nè mancavan di quei, che ridussėro la durata d'ogni periodo da tre mila a soli mille anni. Empedocle fra tanto afferind il nume ro di que' periodi esser dieci, e la durata di ciascuno di tre mila anni. Ma l ' anime secondo lui migravano in ognuno di que' periodi in ogni sola volta nel corpo d'un uomo, e in tutto il resto a ' finire il cir colo di ciascun degli stessi, andavano mion 122 1 che ne' bruti, ma eziandio nelle piante. Fui fanciullo, dicea Empedocle, fui don zella, augello, albero, pesce. Chi è or, che non vegga esser questa un altra delle alterazioni recate da costui alla metempsi cosi di Pittagora, e degli Egiziani? Questi la voleano solamente negli uomini, o ne' bruti. Empedocle agli uomini, e a ' bruti aggiunse la trasmigrazione ancor nelle pian te (93 ): Ma non si creda mica, che tale ag giunta d'Empedocle alla dottrina della me tempsicosi di Pittagora, e degli Egiziani, fosse stata in lui l'opera del capriccio, o del caso. Sarebbe cid indegno di un nuo vo, ' e original pensatore. Chi si risovviene del fisico sistema del primo, conosce che si dovea far certamente quest' alterazione notabile alla metempsicosi del secondo, Gia si sa aver avuto Empedocle le piante, al par degli animali, dotate di sentimento, o d'anima materiale. Ma non così aveano pensato nè Pittagora, nè gli Egiziani. Pero quegli fece passar le anime e dagli uomi 1 123 ni, e da bruti alle piante, e questi cre dean, che le anime migrassero dagli uo mini nel corpo solamente de' bruti. Le a mirne in somma in forza del sistema d ' Em. pedocle, dovean circolare informando tutti que' corpi, che in qualunque maniera fos. sero stati organizzati. Ecco le due novità recate dal nostro filosofo alla morale di Pittagora, ma novi tà ben legate tra loro qual cagione ad ef fetto. Alla colpa delle anime aggiunse Em. pedocle la metempsicosi, come al delitto va compagna la pena. Ma quel ch'è più, a questa e a quella unite insieme andò egli pure legando la demonologia: articolo fon damentale della teologia de' pagani. i Vedea egli quasi ingeniti all' uomo i semi si della virtù, che del vizio. Allor si pensava lo spirito ' tendere naturalmente à cose spirituali ed eterne, e la materia al le materiali e caduche. Credette ei quin di i semi della virtù nascer nell' uomo dall' anima, e gli altri del vizio nascere in lui della materia. Ma l'anima, a suo pre q 2 12-1 dere, chiusa nel corpo, restava contamina. ta dalla materia, e. però era sospinta assai più verso il male, che il bene. Oimè, di cea egli, come è misero, come. è infelice il genere umano. A quali guai, a qua li pianti non è ei sottoposto Queste due tendenze dell'uonio al be: ne, e, al mal fare raffigurò Empedocle, giu. sta il costume di quell'età, sotto le imma gini di due opposti genj. Due, egli disse, sono i genj, che quali direttori delle azio ni degli uomini, accompagnano ciascun uo « mo in tutto il corso della vita d ' ognuno di loro. Buono è l'uno, l'altro è malva gio. Il primo guida, o conforta lui alla virtù; il secondo spinge e conduce il me desimo al vizio (94). Ma ambidue questi genj non indicavano, che questa stessa dop pia tendenza. Pure tutto il volgo allora venne nel credere, che ciascun uomo dal nascere al morire fosse' stato realmente as. sistito da un genio buono, e da un altro malvagio. Tanto egli è vero, che le im magini, sotto cui adombravano gli antichi 125 > filosofi le loro specolazioni, fossero state ca gioni di superstizione, e di errori. L'uomo non solo ha tendenze al be ne e al male, ma è capace altresì d' ope. rar l' uno, o l'altro. Quante virtù, e quanti vizi di fatto ei mette in pratica ! Ma questi stessi ebbe la bizzaria Empedoc cle di designare sotto la figura di genj. Singolari, non cho speciosi furono i nomi, con cui egli distinse i demoni, che rap presentavano i vizi, ' e le sfrenate passioni degli uomini, De nomi di Chtonia, d' He liope, d ' Asafia, di Nemerte, o di parec shi altri ne sjamo debitori a Plutarco (95). Singolari eziandio, non che speciosi, esser dovettero i nomi, con cui distinse lo stesso l'opposta classe di genj, che rappresenta vano le virtù, e le passioni imbrigliate de gli uomini, Mą il tempo, che rode ogni cosa, non ha fatto quelli pervenir sino a noi. Pure è sfuggita da sifatta ingiuria la nominazione, con cui Empedocle appel 10. le virtù, felice prodotto, delle regolate passioni. I pittagorici furono usi chiamare 126 il mondo spelonca, ed Empedocle, qual pittagorico, chiamò le virtù, e passioni virtuose ' potestà conducitrici delle anime: quasi giunte nel mondo, come in un an tro (96 ). Il popolo, che in ogni cosa vede portenti, e finge de' genj, accolse quasi revelazione venuta dal cielo, la de monologia del nostro filosofo. Gli antichi scrittori, pari al volgo, non compresero nè pure il vero intentimento di lui. Que sti però dipinsero Empedocle, come chi avesse popilato l'intero universo di demo nj, e attribuito a virtù de' genj ogni ope razion di natura. Ma questa stessa dottrina de' genj fu il fondamento della magia, e teurgia fa mosa d'Empeclocle. Questa, in que' tempi cra un metodo di purificar le anime col favore degli Dei benefici, che dovean con dir quelle all'unione con Dio. Gli Dei bendici non eran che virtù astratte deifi. cate da lui: è nella pratica delle sante o pere era riposto tutto il culto di quelli. Credea egli, non poter le anime ritornare 1 27 agli onori divini, da cui erat cadute, che coll' ajuto di quegli Dei, perchè credeva altreşi non potersi quelle inalzare a Dio, che coll' esercizio delle sante virtù. La teur gia in somma d'Empedocle fu un retto, e diritto nietodo di purificar le anime colle opere buone. Sembra cosa veramente incredibile che uomini abbandonati al debile filo della pro pia imbecille ragione, e privi di qualunque superior lume di rivelazione divina, avessero potuto architettare un piano di quasi per fetta morale. Non fu gia la metempsicosi quella, che giusta i pittagorici avesse po tuto purificar le anime. Questa non era purificazione e virtù, ma pena dovuta al. delitto. Questa non si poteva in alcuna an corchè menomisssima parte, o abbreviare, o alterare. Esser questa un decreto divis no, essere un santo giuramento si spaccia va a tutti da Empedocle. Ciascun anima avvegnachè virtuosa, e purissima (così és. si pensavano ) non potea unirsi a Dio, se non compiti i periodi, e il tempo tutto di esilin. 128 Le purificazioni altro cardine della mo rale d’Empedocle eran propiamente, secon do tutti i Pittagorici, le sule, che a poco a poco lavavan le anime, e toglievan loro in quel tempo, che informavano i corpi umani, ogni macchia, di cui le medesime potevano essere dalla materia bruttate. Pur gate poi le sozzure, e finiti i periodi tut ti del bando, allora era, che le anime già nette, secondo che allar si credeva, fos sero agli antichi onori tornate, e alla vita divina... I sagri riti poi, lo studio delle scien ze, la pratica della virtù erano i tre mo di di purificazione inventati all' uopo da que' sommi filosofi. Sembra à prima vista o superfluo o inutile essere stato il primo di questi mo di, e tutti gli augusti riti, e quelle ceri-, monie solenni, che si metteano in opera al lor da Teurgici. Ma si poteva scuotere, e infiammare altrimenti l'immaginazione de gli uomini, affinchè questa si fosse resa docile agl' insegnamenti della virtù? L'110 { 129 - mo materiale si solleva dal mondo materia le merce cose eziandio materiali. Le ceri. monie, ei riti sono i soli, che colle san. te immagini níuovono i sensi, e astraendo li dalle cose impure alle pure gli inalza no. I riti sono il verace linguaggio de sen si, che efficacemente parlando destano la fantasia. A questa è sol conceduto ' creare tra il mondo materiale l'altro spirituale: Disadatto pure si crederà forse essere stato lo studio delle scienze a purificar le anime. Ma non è egli questo, che aliena lo spirito: dai vizi, che l'introduce alle co se intelligibili; e che sveglia in lui le idee immateriali e celesti? Non è egli vero al tresì l'anima, esercitata nelle cose dell' in telletto, districarsi da' fantasmi del corpo, e. dalle false opinioni del volgo? Era certa mente un ridicolo sogno quello de pittago rici, che collo studio delle severe discipli ne fosse tornata alle nostr' anime la mé. moria delle cose divine. Ma certamente all' opposto è un dogma incontrastabile,. che tanto più la nostra mente si allontana dal r 130 > la materia e dagli appetiti carnali, quan to più la medesima s' aggira sulla contem. plazione o de' principj delle cose, o delle matematiche, o elogn'altra scienza. Ma in verità e uso di riti, e studio di scienze, e ogni qualunque altra cosa, che avessero potuto specolare gli antichi, sa rebbe lor tornata inutile, ne sarebbe mai giunta a purificar nè meno da lungi le a nime, se a tutto ciò non avessero costoro accoppiato del pari la pratica della virtù. Questo in fine dovea essere il bersaglio, cui dovean dirizzarsi que' grandi filosofi: o questo l'ultimo e principal metodo di pu rificazione. Non si può infatti ne pure ideare quanto studio avessero posto costoro ad astenersi da ogni ancorchè minimo fal lo. Tutti quanti (tranne il loro raffinato orgoglio, e la loro squisita 'boria e super bia ) furono del tutto.virtuosi. Di e nota te si recavan essi sopra se stessi, scrupo losamente ogni lor fatto esaminando, e c gni movimento del propio loro cuore. In estimabile era la diligenza, ch' essi adope 131 rzano a nettar d'ogni ruggine l'animo lo ro, e a far bene ogni cosa. Tutta la vita į medesimi spendevano in contemplare oggetti spirituali, e. in praticar virtù, e que pre cetti, che si leggono scritti ne' versi dorati. Si crederebbe quì finito il lavoro della loro morale, Pure come eglino avevano que sta diviso in due parti, così alla purifica zione aggiunsero altresì la perfezione (97 ). Non bastò a Pittagora l' essersi lusingato, che l'anima, mercè la prima si fosse e mondata da vizi, e separata dalla materia, e liberata quasi dal vincolo, che la ren deva prigione. Volle di più immaginarsi, che l' anima, mercè la seconda già prima purificata, si fosse poi inalzata a Dio, o ripigliati gli antichi abiti, e forma, si fos se confusa colla divinità medesima. Le ar nine in somma, che secondo Pittagora ed Empedocle, erano di loro natura divi ne, ma contaminate dalla colpa e mate ria ', dovean prima purificarsi, e poi sì per fezionarsi, che fossero state degne di tor nare a Dio, e agli onori primieri. Però l' 132 immacolato, e innocente viver d'Empedo cle obbligo lui a spacciarsi qual Dio, e a promettere ai puri, e perfetti la Divinità come premio. Sin quì Empedocle, e Pittagora furon d'accordo, e quegli fece uno con questo. L' essere stata comune l ' opinione tra loro nel principio, da cui la purificazione, e perfezione avesse avuto sua origine, non fece punto discrepar l'uno dall'altro, Cre deano ambidue le anime tutte degli uomi ni, e tutti gli spiriti altresì formare uni ca, e sola famiglia con Dio. Là poi, ove i sistemi loro non furon punto d'accordo si fatti filosofi furon del tutto discordi. Em. pedocle, altrimenti che Pittagora, riguardo uomini, bruti, piante come unica famiglia. Non è più quindi da far sorpresa, se si ve de ora entrare in iscena una terza novità d'Empedocle, come riforma alla moral di Pittagora. Se si vuol prestar fede ad Aristotile ad Aristosseno, e Teofrasto, Pittagora e i Pittagorici della prima età uccidevano, ec. 133 cettine i bovi destinati ai lavori, ogni sor ta d'animali, e tranne i loro cuori e ma trici ne mangiavan le carni: s ' astenevan solamente da' pesci. Empedocle all'incontro fu il primo che proibì affatto qualunque uso di carne; e riputò sacrilegio l'uccidere quale che si fosse animale. Non veggo, dicea egli, perchè alcuni animali debbano serbarsi in vita, e altri all'incontro si pog sano uccidere. Una è la legge per tutti, é questa è pubblica per tutta la terra. Vedeva costui in tutti gli esseri organiz zati, facendone un sol corpo morale, quasi unica é sola farniglia, Perd non sapeva egli scorgere differenza notabile tra uomini, e bruti. Smanioso egli quindi si scaglia con tro chi avesse sagrificato in que' tempi vit. time agli Dei, che' attesa la metempsicosi, potevano per lo più esser uomini sottom bra di bruti. Cessate, gridava Empedocle, o crudeli, di fare strage, e lordarvi di san gue: Pazzo il padre, che sotto altra sem. bianza scanna il propio figliuolo, e vane preghiere disperge all'aria e al vento. Stol i 134 ti non veggono, che divorando le fumanti sanguinose carni di animali le menbra pa. rimente divorano de' lor padri, figliuoli, o congiunti. Si riderebbe oggi la presente età del: la severità d'Empedocle, e si reputerà cer tamente stravagante la sua pietà verso i bruti. Ma ad altro, e più nobil fine ten devan le idee del nostro filosofo. L'uomo è in mezzo a' suoi simili, e l' amore è il principale anello, che dee le garlo cogli altri. L'amor verso i simili è il principale dovere di un uomo di società: e la pieta n'è la base. Ma questa non si potrà avere giammai, se non campeggia e dilatasi sopra tutti gli oggetti, che circon dano lui. Se l'uomo deve avere pietà ver 80 gli uomini, uop' è non che estenderla, mia cominciarla da' bruti. Qualor ' si eser-: citasse ferocia contro i medesimi, agevol mente il reo costume l'andrebbe portando ancor contro gli uomini. Anche tra noi, se non può recarsi a effetto sì fatta proibizio. ne di scannar gli animali, sempre egli 1 135 vero, che debbasi tener come parte di e ducazione gentile, quella d'insinuare ne gli animi ancor teneri de' giovani la pietà verso i bruti. Non son dunque da ripren, dersi, così tentoni, gli antichi filosofi per quegli insegnamenti, che oggi, mutate le usa nze, ci sembrano stolti. La proibizio. ne ch' Empedocle diede a' suoi scolari d ' uccidere gli animali, e cibarsene, ebbe in mira non sol di non essere crudeli, e feroci cogli altri; ma di dispor loro ad amarsi l ' un l'altro a vicenda, e nelle disgrazie scam. bievolmente aiutarsi. Egli non senza sotti le avvedimento si sforzò così in persona de? suoi compatriotti svegliare allora in tutta la generazione degli uomini quell'attitudine, che porta loro a prender parte nell' altrui traversie: attitudine, che di sua natura è debole, languida, spesso sopita, e quasi sempre soffogata, ed estinta. Però Empc docle a ingentilir gli animi umani, e rasla dolcire i costumi degli uomini, volle che questi non si avessero bruttato le mani del sangue, né avessero mangiato le carni de' 136 bruti. Chi è beniguo co ' bruti non può certo negare agli uoinini amore, pietà, cor tesia, frattellanza. Pittagora nulla conse guente a' suoi stabiliti principj della metem psicosi, trascurando quasi tutti gli anima li, ſecesi soltanto scrupolo, e proibi, che si fosse recata alcuna ingiuria alle piante, che non fossero state nocevoli. Ma Empe docle fece molto più, e' meglio assai di Pittagora. Egli dotate prima quelle di sen timento, proibi poi che si fosse fatto loro del male: ailinchè non si fossero avvezza ti gli uomini ad offendere esseri forniti di sensi e di organi. Fu in somma intendi mento di lui in tutte le maniere, quasi tirando tutte le linee a un centro, stabili re tra gli uomini fratellanza e amicizia Però fu, sollecito ei d ' ordinare, che oltre agli animali, si avesse avuto compassione sin anche alle stesse piante.. Sarebbe stata finalmente non che man. chevole, ma mulla la morale d'Empedocle, s' egli non avesse presentato o un premio, una pena agli osservanti, o violatori de' 737 ciò, precetti da lui stabiliti. La speranza del premio, e il timor della pena, interni po. tentissimi stimoli dell'animo umano, inco raggiano i buoni a operar la. virtù, spa ventano i mali a praticare il vizio. E' ben ragionevole quindi, ch ' Empe docle avesse pigliato una via come stabili re e premio', e pena, sì alla virtù, che al vizio: e il fece appunto combinando al par de pittagorici, colla dottrina della metempsicosi. Il tempo di tre mila anni di ciascuno de' dieci periodi di essa non era destinato da Empedocle a far cir colare sempre le anime da un corpo in un altro. Le anime in ogni giro di tre mila anni informavano secondo lui e vegetabili, e bruti. Di poi andavano esse in ultimo E luogo ad avvivare il corpo di un uomo. questo finalmente morto, passavan quelle ad abitare un luogo o di gaudio o di lutto secondochè le medesime avessero o bene, o male operato. Quivi doveano esse restare, finchè finito avessero il primo periodo di tre mila anni. Dovean le medesime torna. S 138 To appresso a cominciare il secondo di al tri tre mila anni, passando tratto tratto ne corpi: d' altri bruti, di altre piante, o finalmente di altri uomini. Così successiva mente doveano esse fare in tutto il corso degli interi dieci periodi: e cosi le medesi mo doveano essere o premiato, o punite in ciascuno di essi. Ma al finire di tutti i dieci circoli quelle anime, ch'eran tenaci ne' vizi, giusta Empedocle, bandite dal cie. lo, eran dannate in mezzo alle tenebre, e in un continuo lutto, o un eterno suppli zio. Le altre poi, che virtuose al compir di quo' circoli si fossero trovate belle e det. te secondo lui, si portavano all'etere puro, e collocate in mezzo alla luce, sedcano in vi a mensa coi forti Danai, in eterno go dimiento, nell' unione con Dio. Tutto ciò si raccoglie da ' versi d ' Empedocle. Così pur si pensava da' pittagorici di Sicilia; nè al trimenti si canto da Pindaro nelle sue odi dirette a Gerone, e Terone (98 ). Ecco tutto, il quadro compito della intera mora le d'Empedocle. 139 Egli è senz' alcun dubbio, essere stata questa assai raffinata, e, molto diversa da quella del volgo. E ' cosa da recar mara. viglia l'osservare, com ' essa in tempi assai caliginosi, fosse stata tanto bene architetta ta, cosi brillante, e del tutto diretta a ri. pulire il costume, a liberar l'uonio, quan to più s' avesse potuto dai vizi, e a nobi litar l'anima e la mente di lui. Cid nulla ostante ella ha eziandio i suoi gran difetti. L'essere stata la stessa riservata ai soli sapienti, e ai soli iniziati ne fu il principale. Quel sistema d'Etica, che non è fatto per tutti gli uomini, non può esser giusto, santo, verace. Tutti quan. ti gli uomini sono astretti agli stessi doveri, e a una sola virtù, Si può considerare, & gli è certo, la scuola pittagorica, qual.ce nobio, é i pittagorici quali religiosi dell' antica Grecia. Ma l'orgoglio guastava le loro azioni, rendea yane le loro fatiche, avvelenava ogni loro virtù. Pure è sem pre da reputarsi degno di lode il nostro filosofo, che osservantissimo de' precetti pit § 2 110 tagorici non ebbe difficoltà di manifestarli, e divolgarli nel suo poema delle parilica zioni per solo e semplice amore di onestà, e di virtù, Empedocle, tranne la super bia, radice infetta dell' operare d'ogni an tico filosofo, è da celebrarsi, come quel lo, che ornato di cortesia, amante degli uomini, e virtuoso, avesse aspirato sempre a perfezionar molto se stesso. Ma gli onori, che si rendono a' tra passati; le lodi, di cui s' onora la memo ria de gran genj, non possono nè recar loro diletto, che più non sono, nè tocca re il lor cenere, che affatto è privo di senso. Tutti i loro elogi, come quelli, che eccitano l'orgoglio e la vanità de' viventi, noi guardano e a noi son diretti. Siam noi, che dagli omaggi, che si tributano a quelli, prendiamo speranza di poter forse nieritare la stessa gloria, e acquistar la fa na stessa presso le generazioni avvenire. Del nome d'Empedocle fu una volta ne è oggi, e ne sarà sempre piena la ter,. La filosofia di lui fu tenuta assai in 141 pregio presso tutta l'antichità tra Greci e Latini (99). Quella occupa tal sublime posto di onore nella storia delle scienze, ch' Empedocle si può dir, che appartenga a tutte le più colte nazioni. La Sicilia fra tanto è la sola che a giusta ragione lui vanta: qual suo. Felice quel suolo, beato quel clima, cho dà il natale a' grandi uomini ! La memoria e la fama loro è un fecondissimo germe, che in ogni età ne desta l' emulazione, e ne riproduce il sapere. Tal dovrebbe essere a noi il dolce nome d'Empedocle, caro alla yirtù, caro alle lettere. Anatomia, fisiologia, chimica de cor pi organizzati possono lui chiamare padre inventore. L' essersi ridotta la materia a quattro elementi; l' essersi trovate due for ze in natura di repulsione, di affinità; 1" essersi intrapreso il metodo di fisiche espe. rienze, la terra n'è a lui debitrice. La scoperta della chiocciola; della successiva propagazion della luce; del peso e della molla dell' aria; del nutrirsi, del traspira* e 142 re, dell'essere ovipare le pianto al par de gli animali son cose tutte propie di lui. Divolgati appena sì fatti suoi ritrovamenti, tosto si rese celebre il suo nome in tutta la Grecia, ed egli uno de' concorrenti di venne tra Anassagora e Democrito, La gloria d'Empedocle, che in gran parte è ancor nostra, ci dee infiammare a battere lo stesso sentiero. La Sicilia è la stessa oggi, ch'era allora ai tempi d'Em pedocle. Ella in ogn'angolo, e in tutta quanta la sua superficie presenta a' nostri occhi oggetti sempre degni di nostre filoso fiche ricerche. Piante d'ogni sorte, acque d'ogni specie ', minerali d'ogni genere, e i più distinti volcani esistono nel nostro suolo. Il Fisico, il Chinico, il Botanico lo storico naturale trova ovunque ampia materia d'appagar le sue brame. E ' no stra somma vergogna il vedere oggi, che vengan tra noi gli stranieri a insegnare a noi le cose nostre. Si saran forse cam. biati il cielo, il clima, la terra, che un di furono ne' tempi de' nostri antichi filo 1 143 sofi? 0 pur saran venuti meno gli inge gni tra noi? Non sono eglino i Siciliani dotati ancora o d' acume nello specolare, e di prontezza nel riflettere, e di pre stezza nell' eseguire, che loro hanno in o gni tempo distinto? La Sicilia una volta e. mula della Grecia in ogni genere di colo tura non potrà anche a di ‘ nostri con correre e gareggiar nelle scienze colle più polite nazioni? Si pigli dunque orgoglio dell' aggiustata idea di nostra antica grandezza. Questo, scossa l'inerzia, ci sarà di stimo. lo ad una nuova carriera da imprendere. La fatica è l'unica via, che conduce al sa pere, e questa ci porta, certamente alla fama. Si desti quindi in ciascuno di noi la virtuosa imitazione d’Empedocle, e si co minci la grand'opera con ardore e franchez za. Un felice evento coronerà allora ogni nostro travaglio: la posterità ricorderà noi collo stesso onore, con cui pieni d'ammi razione noi ricordiamo Empedocle. Empedocle non che fu eccellente filo sofo: ma fu del pari profondo politico. Si 144 ciliani, non andate quà là ad apprender ta pini da questo e da quello ordini civili, e fogge di governo. Guardate i maestosi avanzi delle nostre antiche città;specchia. tevi su li nostri passati famosi legislatori; richiamate alla memoria i fatti chiarissimi, non che della nostra Greca Sicilia, ma del la vita d'Empedocle. Così tratto tratto di verrete atti a maneggiar le cose pubbliche, e ben presto vi sarà tra voi politica non cabala, libertà non licenza '. Empedocle, convinti un dì i nobili di Gergenti di peculato, atterrò ivi la lor si gnoria: Non è disdicevole quindi l'imma ginarcelo, ch'egli colla stessa voce gli ota timati così riprenda di nostra età. Finito è il tempo, in cui usurpata un ingiusta franchigia de' pubblici dazj, generosi offri vate al Re il denaro del popolo, a fine e di ottener da quello nuove insopportabi li prerogative, e di stringer questo vie più nuove insoffribili catene. Finito è il tempo in cui macchinando l'esenzion delle taglie, scaricavate gran parte del pubblico con 145 peso sulle città immediatamente al Re sotto poste a fine di disertar qrieste, e di rau nare schiavi in gran copia nelle terre a voi immediatamente soggette. Finito è il tem po, in cui voi assumendo la voce e qualità di nazione, che non avevate, minacciosi vi rivolgevate contro del trono per non paga re, e taglieggiare il popolo ogni tre anni. Già il Principe si è congiunto col popolo. ' Gia la voce del Re, ch'è quella dell'ins tera nazione, è divenuta oggi più imperio, sa insieme e sicura. Essa ha già rivelato il grande arcano del vostro tirannico impe ro essere stato riposto nell'aver voi voluto fin'ora poco o nulla soffrire de’ dazj, e far li tutti a carico andare della povera gen te. Chi di voi potrà or tolerare con ani mo tranquillo tra vecchi debitori dello sta to non altri nonni leggersi che i vostri, e de' vostri antenati? Chi sarà tanto scelleras to, che rivelando il falso, voglia occulta re l'immensa estensione de' suoi ricchi fon di; affinchè a danno del meschino e del povero, pagasse egli quanto meno si possa 2 t 140 Chi sarà cosi ribaldo, che voglia sgravar d ' imposta la terra, unica e sola sorgente di ricchezza in Sicilia, per istrappare con mano rapace qualche misero tozzo dalla bocca faa melica dello stanco e affannato agricoltore? Şe cið han fatto i vostri maggiori, sono essi stati i più tristi nemici, anzi i più crudeli tiranni dell' infelice Sicilia. Si appartiene ora a voi lavar le macchie di quelli, e onorar voi stessi, contribuendo alla pubblica feli cità col pagarsi prontamente da voi a pro porzione della vostra opulenza, Ma Empedocle dovrebbero avere ezian dio qual modello non che i nobili, chi presi del fantasma di democrazia vo lessero condurre a sfrenatezza la plebe. Quante altre cose possiamo noi idearci a ver potuto lui dire, a costoro ! Egli poten do in Gergenti stabilire un governo collo cato tutto nella potestà del popolo, af fatto nol volle. A' popolari uni costui gli ottimati in quella città; e teniperò così gli uni cogli altri. L'equilibrio de' poteri, con cui s'amministrano le cose pubbliche, è la ma 147 solida base, su cui dee riposare, volendo si e florido e durevole, il presente gover no. L'equilibrio morale, non altrimenti che il fisico, viene da contrarietà ed egua glianza di forze. Il popolo ' non deve mai essere. -oppresso, ma all'incontro non dee ne pure essere costui un oppressore. Se la sua forza sbilancia, lo stato andrà tutto a soqquadro, e ruinerà senza meno. La ven detta piglierà allora il nome di forza, di senno il delirio, di libertà la licenza. I poteri legislativo, giudiziario, esecutivo si debbono a vicenda venerazione e rispetto; tutti debbono riunirsi, e cospirare a un sol centro: e se per caso ne sia uno avvalla dee tosto corrersi con mano presta a rialzarlo. Quanto è difficile mantenere og gi in Sicilia un sl fatto equilibrio ! Appe na vi basterebbe un Empedocle. Egli ad assodar vie più la novella for ma di governo stabilita da lui nella sua patria, ebbe in fin l' accorgimento di pian. tarla sulla pubblica coltura, e sul pub blico civile costume. Qual sublime lezio to, t 2 148 è un sogno, zione ella è questa da adottarsi da' nostri legislatori d'oggidi, se vogliono eternare, più che si può, il presente governo stabi lito di fresco. Un impero assoluto si può fondare tra selvaggi e tra barbari, e vien prosperando in mezzo a gente corrotta. Ma è un delirio il pretender fer mo un governo costituzionale senza nè col tura nè costume per base. Nello stato, in cui è il nostro suolo, non potrà certamente portare la novella libera costituzione senza che fosse prima quello preparato e divelto. Voglia Iddio che i nostri, posti giù l'e goismo, le false massime, gl ' impeti, glodj imprendessero a imitare Empedocle, e i nostri antichi felicissimi tempi. Ma se i Siciliani tutti debbon trarre qualche utile insegnamento dal nostro filo sofo; i Gergentini massime ne dovrebbero emular la virtù. La patria de' grand ' uomi ni è quella su cui sfolgora, riflette e va a concentrarsi, la gloria di loro. Si dovreb bero ricordare i Gergentini, ch ' essi prin cipalmente a Empedocle son debitori d'esa 149 ser tanto chiari, e così famosi nella nostra sicola storia. Si dovrebbero eglino pur ri cordare, che vicino a que' tempi, che vis sita oggi lo straniero, e sopra lo stesso suo. lo, che calcano i Gergentini 'medesimi, det tò allora Empedocle a Gorgia l'eleganti, avvegnachè prime lezioni di Rettorica. Gli stessi quindi a ripigliare in loro l'antico u sato splendore dovrebbero richiamare tra loro e le fisiche e le matematiche discipli ne, e ogn'altra amena e polita lettera tura. Allor si potranno i Gergentini glo riare a ragione d' aver prodotto, e dato la culla a Empedocle. Così eglino saran vera mente degni concittadini di lui. Ne altri menti si potranno lusingare gli stessi di far risorger tra loro il verace spirito d' Empe docle, e di poter quivi dire allo straniero. Dell' eccelsa sua mente i sacri versi Cantansi d'ogn'intorno, e vi s'impara Si dotte invenzioni, e si preclare Che credibil non par, ch'egli d'umana Progenie fosse. 1 PRUOVE E ANNOTAZIONI A L LA TERZA MEMORIA.  153 PRUOVE E ANNOTAZIONI A L I A TERZA MEMORIA. > Il n'est pas ) Freret raffigura l'attrazione e re pulsione di Newton nell'amore e odio d ' Empedocle. E però dice besoin d'un long discours pour montrer que le fond du systeme Newtonien, dé pouillé de l'appareil et du détail de ses cal. culs se réduit a celui d ' Empedocle, Hi stoire de l'Académie Royale Des Inscripti ons et belles lettres T. 18 Memoires p. 102. (2 ) Και γαρ ονπερ οιηθαη λεγειν αν τις μα. λιστα ομολογουμένως αυτω. Εμπεδοκλης και TYTO TAUTO TETOVIE „ Empedocle, di cui al cuno potrebbe portare opinione aver, detto sopra di ogn'altro cose tra loro e a se stes so concordi; egli cadde nel medesimo in 60veniente Arist. Metaph. 1. 3 cap. 4 il • 54 πος και 8το! O (3 ) Arist. de Coelo 1.3 cap. 4 Λευκίπι και Δημοκρίτος Αβδερίτης φασι είναι τα πρωτα μεγεθη πληθ. μεν απαρα και μεγεθα δε αδιαιρετα τροπον γαρ τινα παντα τα οντα ποικσιν αριθμους και εξ αριθ. μων • και γαρ ει μη σαφως δηλεσιν ομως τετο βελονται λεγαν, Leucippo e Democri to dicono le prime grandezze essere infini te di numero, ma indivisibili. Essi in cer to modo fanno gli esseri o numeri, o da' numeri. E se ben non lo mostrano chiu ro; pure questo vogliono dire. » (4) Εμπεδοκλης περι ελαχιστα εφη προ των τεσσαρων στοιχειων θραυσματα ελαχιστα οιονα στοιχεία προ των στοιχεων ομοιομερη και Empe docle prima de' quattro elementi supponeva de minimi bricioli, ch'erano non altrimen ti che gli elementi degli elementi, e par ti simili Stob. Εcl. Phys. 1. 1 p. 33. Ε più chiaramente Plutarco de Pl. Ph. dice οιονα στοιχεια των στοιχείων »και elementi degli elementi. (5 ) Ει δε στήσεται που διαλυσις ητοι ατος μον εσται το σωμα εν ω ισταται η διαίρετον μεν ι 155 8 μεν του διαι εθησομενον εδε ποτε καθαπερ εoικεν Εμπεδοκλης βελεσθαι λέγειν. » Se lo scioglinzento delle parti si fermerà in qual che luogo, domando: o il corpo in củi ri starà è indivisibile, o è divisibile; ma in alcun tempo mai non si potrà dividere, co me pare ch ' Empedocle abbia voluto dire, Arist. de Coelo l. 3. cap. 6. Sicchè Empe docle ammettea la divisibilità col pensiero non già col fatto. (6) Era un assioma presso gli antichi εκ τε μη οντος μηδεν γινεσθαι nulla farse da ciò che non è, Presso i Greci dev significava ciò ch ' esiste e il under ciò che non è. Epicuro talvolta piglia il des per corpo e il under per yoto. Ma diverso era il significato dell' del ov. Empedocle ed Anassago ra chiamavano Oy la materia dotata di qualità sensibili. E Democrito ed Epicuro la materia fornita di figura. Al contrario i primi due indicavano col un oy la mate ria priva di qualità, e i secondi la mates. ria senza figura. Di fatto Aristotile de GV e 156 gener. et corrupt. 1. 1 cap. 3 dice εστι γη το ον, το δε μη ον υλη της γης και πυρος ωσαύτως. L Latini tradussero il δεν per res o corpus il jend Ev per nihil o vacuum. E come non aveano parole corrisponden ti all' oy e' un or; cosi l'indicarono colle stesse parole res et nihil. E ' nato da ciò un equivoco nell' intendere i Greci. Questi non solo dissero nulla farsi da nulla; ia tal volta alcuni di loro pensarono niuna cosa, che ha qualità, poter venire dalla materia priva di qualità. (8) Απαντα γαρ κακείνος (Σμκεδοκλής ) ταυτα ομολογήσας, ότι εκ τε μη ιοντος αμηχα • γον εστι γενεσθαι και Concedendo Empedocle tutte le cose medesime,.e che sia impossi bile venire un essere fornito di qualità de ciò, che ne è privo je Arist. de Xenophane Zenone et Gorgia. (8) Εμπεδοκλης δε τα τετταρα προς τους ειρημενοις γην προσθας τεταρτον και Empedoclc disse esser quattro gli elementi, aggiungen do la terra per quarto a’tre già detti Aristot. Metaph. 1. 1 cap. 3. 157 (9 ) Σεληνην δε φησι συστηναι καθ' εαυτην εκ τα απολειφθεντος αερος υπο τα πυρος • τατον γαρ παγηναι καθαπερ την χαλαζαν. La lu πα, dice Empedocle, essersi condensata da se a cagione dall'aria, che fu abbando nata dal fuoco; perciocchè questa 'si con densò a guisa di grandine Euseb. Praep. Evang. I. 1. cap. 5. Lo stesso dice Plut. de Pl. Ph. Origen. Phylosoph. etc. (10) I sassi e gli scogli sulla terra so no stati giusta Empedocle formati dalla forza del fuoco. Plut. de primo frigid. Ne per altra ragione credea il nostro filosofo, chę i cieli siensi formati in guisa di çri stallo, che per l'azione del fuoco. Plut. de Plac. Philos. (11 ) Ως εν υλης « δ λεγομενα στοιχα τετταρα πρωτος (Εμπεδοκλης ), απεν. και μεν χρηται γε τετταρσιν αλλ ως δυσιν ουσι μονοις. πυρι μεν καθ' αυτο τοις δε αντικειμένοις ως Em. μια φυσα γη τε και αερι και υδατι, pedocle fu il prinio che affermò quattro ese ser gli elementi nella materia. Nondime no di questi non fu egli uso come se fos 158 } νω sero ' quattro, ma due soli. Mette il fuoco per se ', e' come al fuoco opposte l'acqua, ' la terra, l'aria, quasi avessero. queste uni ca natura.,, Aristot. Metaph. 1. 1 cap. 4. (12 ) Origen. Phylosoph. cap. 3. Clem. Alex. Strom. (13 ) Αναξαγορας μηχανη χρηται τω προς την κοσμοπίλαν » Anassagora usa della mente nella sua cosmogonia non altrimen ti che d'una macchina Arist. Metaph. 1. 1 Cap. 4. (14 ) Πολλαχου γουν αυτω (Εκπεδοκλα ) η μεν φιλια διακρινει το δε νεικος συγκρινα • μεν γαρ ε ! ς τα στοιχεία διαστήται το παν υπο τ8 14κας τότε το πυρ «ς συγκρίνεται και των αλλων στοιχων εκαστον, οταν δε παντα υπο της φιλιας συνιωσιν ας το εν αναγκαίον εξ εκαστε τα μορια διακρίνεσθαι παλιν. Εμπεδοκλης μεν 89 παρα τ8ς προτερον πρωτος ταυτην την ατίας διελων εισενεγκεν ου μιαν ποιήσας την της κινη σεως αρχη, αλλ' έτερας τε και εναντιας. Non di rado presso d'Empedocle l'amicizia sepa ra; e l'inimicizia unisce. Imperocchè quan. do per l'inimicizia l'universo si scioglie ne • OTULY 159 gli elementi; allora il fuoco si unisce, e al par del fuoco, ciascuno degli altri elemen ii. Quando poi per via dell ' amicizia tutti gli elementi si uniscono; allora è di ne cessità che le parti di ciascun elemento si separino. Però Empedocle fu il primo, che superiore agli altri più antichi di lui, divi dendo questa causa, intro lusse non un solo, ma piii e contrarj principj di movimento: l'anticizia cioè e l' inimicizia Arist. Me taph, I. i cap. 4. L ' vero che qui Aristo tile cerca di cogliere in assurdo il nostro Empedocle"; perchè cerca di mostrare che l' amicizia talvolta separa, e l'inimicizia ta lora unisce. Ma ciò non di meno confes sa che giusta Empedocle l'amicizia e l'ini. micizia eran due principj di moto. E in ciò loda il n'ostro filosofo, e l ' inalza so pra tutti que' ch'erano stati prima di lui. (15 ) Molti sono i versi d' Empedocle che lo pruovano, che noi rapporteremo ne' fram menti di lui. Ma Aristotile lo dice chia. rissimo. Es un evný to vemos ev Tols peyuceo σιν, εν αν ην απαντα ως φησιν (Εμπεδοκλης ) 160,, Se non fosse l ' inimicizia inerente alle cose, tutte queste non farebbero che uno come dice lo stesso Empedocle,, Aristot. Metaph. 1. 3. cap. 4. Simplicio inoltre de Coelo l. 1 Com. 29,, rapporta che giusta Empedocle è propietà dell'amicizia ridurre tutto in una sfera lovely o zipov (16 ) (Εμπεδοκλης ) το μεν πυρ κκκος καιλο. μενον προσαγορευων και Empedocle chiamo il fuoco lité perniciosa Plut. de primo fri gido. E lo stesso Plutarco ne soggiunge la ragione: Giacchè il fuoco ha la facoltà di dividere e separare. (17 ) Clem. Alexand. ad gentes cap. 5. (18 ) Aristot. Metaphys. 1. 1 cap. 4. (19) Plut. de Isid. et Osirid. Wolf. de Manich. ante Man. S. 30 Bayle Dict. Art. Xenoph. (20 ) Aristotile" riferendo l. 3 taph. l'opinione d'Empedocle sul circolo pe renne delle cose in virtù delle due forze amicizia e inimicizia si lagna del nostro filosofo, che introduce la necessità senza recare alcima cagione della necessità ws ay. 1 cap. 4 Me. 161 αγκαιον μεν ον μεταβαλλεινκαι αιτίαν δ ' εξ ενο αγκής εδεμιαν δηλοι. (21 ) Brukero T. 1 p. 2 1. 2 cap. 10 Sect. 2. de discipulis Pythagorae. Moshem. nelle note a Cudwort. (22) Αρχη η φυσις μαλλον της υλης. εγί άχου δηπου αυτη και Εμπεδοκλης περίπιπτα αγομενος υπ' αυτης της αληθεας, και την εσι. αν, και την φυσιν αναγκαζεται φαναι τον λογον ειναι: οιον οστουν αποδιδους τι εστιν. ετε γάρ εν τι των στοιχεων λεγει αυτο ατε δυο ή τρια ατε παντα αλλα λογος της μιξεως αυτων etc. Il principio delle cose è più presto la nä tura che la materia delle cose.. Empedocle tirato dalla forza stessa della verità spesso è costretto di confessare che la sostanza e la natura altro non sia che la ragione o proporzione: ' come fa allorchè ei dice coså šia.l osso. Poichè dice che l'osso non cen ga da questo o du quel elemento', nè da due elementi, nè da tre, nè da tutti, ma dalla ragione in cui questi nell' osso si stan. no ec. is Arist. de par. Animae l. 1. cap. E poi lo stesso Aristotile soggiunge che 1 362 2 i filosofi prima d Empedocle non fecerd lo stesso perchè non soleano definire ciò che fosse la cosa astion de to. pen en San τ8ς προγενέστερες επί τον τροπον τέτον, το τι ην αναι, και το ορισασθαι την ασιαν εκ OTI My •:- (23) Plut. de Plac. 1. ì cap. 6 Gal. Hist. Ph. (24) Plut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 19 Gal. ibid. (25) Plut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 19 Arist. de Resp. cap. 14 etc. Credea Em pedocle che gli animali, subito che nacque ro dalla terra, si divisero e portarono in luoghi convenienti al loro temperamento. Que' che abbondavan di fuoco o nell' ac qua o nell'aria. Gli altri ch'erano più gravi, abitarono la terra ec. (26) Darwin Zoonomia. Vol. 3 Sez, 39 cap. 4 ediz. di Milano, (27) La massa tutta del seme, che noz mostrava alcuna forma, o figura chiama va Empedocle. 8ioques che potrebbe significa. re tutta la natura organica secondo Simpl. 163 1 de Phy. aud. 1, 2. Com. 68 pag. 134 ediz. di Aldo: (28 ) Aristotile l. 2 de Coelo cap. 8 par lando dell opinione di Xenofane che credea la terra infinita estendere sino alſ infinito le sue radici, soggiunge do xakt.Eptidoxing ετως επεπλήξεν Per lo che Empedoche co si lo sferzò, e soggiunge i versi d' Empe docle, che noi rapporteremo 'ne' frammenti di lui. (29) Ταυτι δε τα εμφανη κρημνες και σκο: πελες και πετρας και Εμπεδοκλης μεν υπο τα πυ ρος οιεται το εν βαθει της γης εσταται και ανε χεσθαι. Empedocle è d'opinione che que sti sassi, questi scogli, questi dirupi, che sono agli occhi di tutti, sieno stati inalza ti dal fuoco che sta nelle profondità dela la terra „ Plut. de primo frigido, Quare quaedam aquae caleant", quae dam etiam ferveant in tantum, ut non pog sint esse usui nisi aut in aperto evanuere, aut mixtura frigidae intepuere, plures causae redduntur. Empedocles existimat ignibus, quos multis locis terrà opertos tegit, aquam ! X 2 164 calescere, si subjecti sunt solo per quod aquis transcursus est. Facere solemus dracones et miliaria, et complures formas, in quibus gere tenui fistulas struimus per declive cir. cumdatas; ut saepe eundem ignem ambiens aqua per tantum fluat spatii quantum ef. ficiendo calori sat est. Frigida itaque in trat, effluit calida. Idem sub terra Em. pedocles existimat fieri. Seneca Quest. Nat. i. 3. (3ο) Την γην εξ ης αγαν περίσφεγγομενης τη ρυμη της περιφοράς αναβλυσαι το υδωρ la terra, da cui, come fu condensata, per l'impeto della girazione spicciò l' ac qμα 15 Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 2 cap. 6. (31 ). Οτι δε μενα (γη ) ζητεσι την αιτίαν και λέγεσιν οι μεν τυτον τον τρόπον, οτι το πλα τος και το μεγεθος αυτης αιτιον, οι δε ωσ: περ Εμπεδοκλης την τε κραγε φοραν κυκλω περιθεασαν και θαττον φερομενην την της γης φοραν κωλυειν καθαπερ το εν τοις κυαθοις υ δωρ και και γαρ τατο κυκλω το κυαθε φερομείς πολλάκις κατω τα χαλκά γινομενον ομως ου φερεται κατω πεφυκος φερεσθαι δια την αυτην 165 Citidy, 99 Alcuni cercano il perchè la ter ra stia ferma nel mezzo, e dicono esserne cagione la sua grandezza e larghezza, Al tri poi, siccome Empedocle, son di pare re, che il cielo girando più velocemente del. la terra sia la cagione, per cui la terra non cada nello stesso modo, che avviene allac qua nel calice. Poichè seben questo si giri e stia col fondo su, e il labro all' in giù; pure l' acqua, che di sua natura tende al basso, non cache per la ragione medesima della girazione,, Arist. de Coelo l. 2 cap. 13. (32 ) Plut. de fac. in orbe Lunae, (33 ) Plut. de Pl. Ph. 1, 2. cap. 13 Laert. in Emp. (34 ) Arist. de anima 1, 2 cap. 2. (35) Καθαπερ Εμπεδοκλής φησιν, αφικνειο σθαι προτερον το απο τα ηλιο φως ας το μετα ξυ πριν προς την οψιν, η επί την γην, δοξα δ ' ευλογως συμβαινειν Empedocle dice che la luce, la quale viene dal Sole prinra giunge nel mezzo, e poi all'occhio ed aļla terra. Il che pare che accada con buona ragio ne » s. Arist. de sensų et sensili cap. 6. 166 tor. (36 ) Empedocle in prima avea il Sole per una gran massa ignita' non già per una rijlessione di un altro sole šíecome attesta Laerz, in Emp. Era in secondo opinione di Empedocle che il simile si va sempre ad u nire al suo simile. Però venne a lui na turale il dire che la luce lanciata dal So. le, dopo d' essersi riflettuta sulla terra, nasse di nuovo ad unirsi al Sole, e poi di nuovo movendosi da quest' astro, tornasse a risplendere. Per altro Plutarco stesso aper. tamente dice de Pyth. orac.. che la luce del Sole secondo Empedocle risplende di nuovo αυθις ανταυγαν • (37 ) Plut. de Pl. Ph. Gal. Hist. Ph. Stobeo Ecl. Phys. e tunti altri, appongono ad Empedocle l' opinione di due Soli, che si riguardavano, de quali l'uno mandava rag gi invisibili e l'altra visibili ec. (38) Empédocle, sans recourir á l’in stanatneité de cette émission ou á sa pro digieuse velocité disoit que cette objection se roit vraie, si le soleil lui même étoit en mouvement; mais que la terre tournant au 167 tour de son axe, venoit au devant, du ra yon, et voyoit l'astre dans sa prolonga tion. On ne répondroit pas mieux aujourd hui a cette objection, si quelqu'un la pro posoit contre la propagation successive de la lumière et son emission. Montucla. Hist. des Mathematiques Tom. 1 P. i lib. 3 pag. 142. (39) Απολείπεται τοινυν το τα Εμπεδοκλεος ανακλάσει τιγί τα ηλια προς την σεληνην γεγες; σθαι τον ενταύθα φωτος οιον απ' αυτης οθεν 80's. Jequor de deep porn Resta dunque co me vera la sentenza d'Empedocle. Però la luce lunare non è nè calda nè assai splen. Plut. de fac in orb. Lunae. (40 ) Est - il rien de plus juste que ce vers, dont voici la traduction litterale de Greg en latin circulare circa terram yolvitur a lienum lumen dit- il en parlant de lo lu ne? Achille Tatius en tire une preuve qu' Empedocle a regardé cette planéte comme un morceau détaché du soleil. Il n'a pas conçu que cet alienum lumen vouloit dire lumière empruntée, ce qui est très-confor me a la verité. Montucla Hist. des Math. dida,, 168 Tom. 1 p. 1 1. 3 pag. 111. (41 ) Isag. in Arat. (42 ). Empedocles plus duplo lunam dia stare censet a terra quam a sole. Galen. Hist. Ph. Plut. de Pl. Ph. (4.3 ) Και τον μεν ήλιον φησι πυρος αθροισο μα μεγα και σεληνης μαζω » Empedocle di. ce il Sole essere una gran massa di fuoco più grande della Luna Laert. in Emp. (44) Plutarco de ' fac. in orbe Lunae, afferma che la Luna al dir d'Empedocle giraya a simiglianza d'una ruota: Ora in que' tempi si esprimea la rùvoluzione d'un corpo intorno al propio asse sotto la figura ra d'una rủota, Cosi di fatto indicarono Seleuco d'Eritrea, Heraclide di Ponto, Eco fanto di Siracusa, il movimento della tere ra intorno al propio asse. Per altro i Pit tagorici sapeano che la Luna girando in torno alla terra çi presenta sempre lo stes so emisfero. Il che come ciascun sa non può aver luogo, se la Luna girando intor no la terra ſon rotasse intorno al propio asse: Sicché è da credersi cl’Empedocle non 169 ou esse ignorato questo movimento della Lu na. Ma come Plutarco non ne fa che un sol cenno, che può essere equivoco; cosi io non ho creduto di doverlo affermare come sicura opinione d'Empedocle. (45) Fabricio Bibl. Graeca T. (46) Arist. de plant. 1. cap. (47 ) Arist. nel med. luogo. (48) Arist. nel med, luogo. (49 ) Τα δε σπερματα παντων εχ τινα τροφην εν αυτός και συναποτίκτεται τη αρχή καθαπερ εν τοις ωοίς. η και κακως Εμπεδοκλης αρήκε φασκων ωοτοκαν μακρα δενδρα Ogni semè contiene in sè qualche cosa d' alimen to uñitaniente al principio che genera, sic come è nell' uovo. Per lo che Empedocle disse bene che gli eccelsi alberi sono ovipa ri Theofrasto 1. i cap. ' 7 de Caus. Plant. Και τατο καλως λεγει Εμπεδοκλης ποιησάς: Ούτω δ ' ωοτοκεί μικρα δενδρα πρωτον ελαίας •. Το τε γαρ ωον κυημα εστι, και εκ τινος αυτα γίγνεται το ζωον, το δε λοιπον, τροφη τα σπερ ματος, και εκ μερες γιγνεται το φύομενον, το δε λοιπον τροφη γιγνεται το βλαστω και τη y 170 pión en xpern » Questo ben disse Emperor cle affermando, che i piccoli alberi ezian dio sono ovipari. Poichè da una parte dell' uovo nasce l'animale, e dal resto si fa la nutrizione di questo. Nello stesso modo ac cade nel seme. Da una parte si formá la pianticella, ed il resto serve per nutrirla Arist. de Gen. anim. l. i cap. 23. (50) Arist, de Gen. anim. I. 1 cap. 18 & lib. cap. 6. Theofrasto 1. i cap. z de Caus. Plant. Indi è che Malpighi aper: tamente dice Plantarum ova esse semina vetus est Empedoclis dogma. Anat. Plant. pag. 92 * 93. In questi ultimi tempi Young è stato il primo a dire che le piante ven gono, dal seme. Rozier journ. de Phys. Auril. 1789 p. 241 e Bonnet Deur. v. 5 p. 256 ha dimostrato l'analogia del seme coll' uovo. (51) ο δε μαλιστα και κυρίως εστι ζη = τητεoν εν ταυτη τη επίσημη τετο οστιν » όπερ ειπεν Εμπεδοκλής ηγουν α ευρίσκεται εν τοις φύτοις γενος θηλυ και γένος αρρεν και ει εστιν ειδος κεκραμενον εκ τετων των δυο γενών και Cio 171 she in questa scienza sia sopra d'ogn' al tro, e propiamente da ricercare, lo disse Em pedocle: cioè se nelle piante si ritrovi il sesso maschile e feminile, e se questi due sessi sien in quelle mischiati ed uniti,, Arist. de Pl. 1. cap. 2. Per lo che è da ripu. ţarsi particolar opinione d'Empedocle, quel, la del sesso nelle piante, e che queste fos sero state ermafrodite. Si legga lo stesso Aristotile de Pl. I. i cap. 1. Haaly 005 - λομεν ζητειν πότερον ευρισκονται ταυτα τα δυο γενή κεκραμενα εν τοις φυτοις ως απεν Εμπε doxninis:,, Dobbiamo ricercare se i dųe ses si nelle piante sien mischiati, come vuole Empedocle. » (52) Empedocles quidem divulsa esse so bolis membra aiebat, ut in faeminae alia alia in maris semine continerentur, atquo inde oriri animalibus venerei complexus ap.. petentiam, dum partes illae inter se di stractae conjungi atque uniri concupiscunt. Galen. de semine 1., 2. cap. 3. Si legga parimente Aristot. de Gener, ànim. l, i cap. 18, 172 (53) Plutarco de plac. Ph. 1. 5 cap. & 10 12 Arist. de Gener. anim. 1. 2 cap. 8. (54) Εμπεδοκλης τη κατα συλληψιν φαντα. σια της γυναικος μορφουσθαι τα βρεφη και πολ: λακις γαρ εικονων και αδριαντων ηρασθησαν γυναίκες και ομοία τετοις απετέκον. » Empe docle dice che dalla fantasia della donna piglia forma îl feto. Poichè spesso le don ne hanno la lor prole partorito simile a statue o. a immagini, che hanno amato Plut. de Pl. Ph. I. 5 ' cap. 12, (55 ) Plut. de Pl. Ph. 1. 5. cap. 27. (56 ) Tutta la dottrina d Empedocle, siccome in appresso diremo, era fondata su i pori, e sugli effluvj, che si spiccano secondo lui da' corpi, o per quelli s'intro ducono, (57 ) Plut. de Pl. Ph. I. 5. cap. 26. (58) Frondes amittere quibus aestatis ca. lor humorem ahsumpserit; semper fronde re quae majorem succi copiain habent, ut laurum, oleam, palmam 4 Hist. Ph. Gal. Lo stesso dice Plut. de Pl. Ph. l. 5 cap. 26. 173 Plutarco Symp. 1. 2. Si propone la questione, perchè l' ellera conserva le fo glie, e gli altri alberi le perdono. Ei ri sponde con Empedocle per la disposizione de* pori. Perche τοις δε φυλλoφoυσιν εκ έστι για μανοτητα των αγω και στενότητα των κάτω πι:,, ρων, οταν οι μεν επίπεμπωσιν οι δε φυλαττω σιν, αλλ' ολίγον αθρουν λαβόντες εκχέωσιν ωσ. περ εν αγδηροις τισιν ουχ ομαλοις » » A quel le piante, le cui foglie cadono į alimen to on basta a cagion della rarità de? pori superiori, e della strettezza degl inferiori. Poichè per questi pori s’ introduce poco ali mento, e per quelli molto se ne dissipa. Indi è che quel poco che hanno ritratto tosto lo perdono. Avyiene ciò che suole ac cadere negli attignitoi, che sono inegual mente forați. (59) Flore française troisieme edition par MM. de La Marck et Decandolle T. pag. 67. (60 ) Floré française ibid. pag. 86. (61 ) Flore francaise ibid. pag. 108 (62) Plut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 26 Gal. Hist. Ph. 3 174 (63) Galeno Hist. Ph. Plut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 26. (64) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 22 Gal. Hist. Ph. (65) Plut. ' nel med. luogo. (66) Gal. Hist. Ph. Plat. de Pl. Ph. (67 ) Ρlut. de ΡΙ.. Ρh. 1. 4 cap. 22. (68 ) Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 16 Gal. Hist. Ph. (69 ) Arist. de Respirat. cap. z (70 ) Arist. 'de Respirat. cap. 7 Gal. Hist. Ph. (71) Arist, de, Resp. cap. 7 Plut. de PI. Ph. 1. 4 cap. 22. (72 ) Pluit. de ΡΙ. Ρh. 1. 5 cap. 24. (73 ) Plut. nel med. luogo. Gal. Hist. Ph. (74) Si vegga la niemoria seconda sulla Vita d ' Eimpedocle T. 1 pag. 132. (75) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 4 Cap. 17 • (76) Τα μεν γλαυκα πυρωδη καθαπερ Εμ. πεδοκλής φησι τα δε μελανoμματα πλεον υδατος εχιν η πυρος. » Che gli occhi az zurri, come dice Empedocle, abbondano di fuoco, ed i rieri abbiano più d ' acqua che 175 di fuoco, Arist. de gener. An 1. 5 cap. i. (77 ) Τα μεν ημερας εκ οξυ βλεπεις τα γλαυκα. δι ενδιαν υδατος. θατερα δε νυκτωρ δι ενδααν πυρός και che gli occhi azzurri non veggano bene di giorno per difetto d' ac qua, ed i neri di notte per difetto di fuo: εο, Arist. de Gen. an. 1. 5 cap. 1. (78) Gal. Ηist. Ph. Ρlut. de P. Ph. 1. 4 Cap, 13. (79 ) Ειπερ μη πυρος την οψιν θετεον αλλ' υδατος πασαν,, Perclie la visione non e d ' attribuirsi al fuoco, ma tutta all'acqua » Arist. de Gen. anim. 1..5. cap. (80 ) Arist. de sensu et sénsili l. 1.cap. 2. (81 ) Empedocles animum esse censet cor di suffusum sanguinem. ' Cic. Tusc. quaest. 1. 1 cap. 9 e Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 5. Εν τη τα αιματος συστασε. (82 ) Αλλοι δε ήσαν οι λεγοντες κατα Εμ " πεδοκλεα πριτηριον αγαι της αληθεας και τας αισθησεις αλλα τον ορθον λογον και τα δε ορθα λογα τον μεν τίνα θαον υπαρχειν τον δε αν - θρωπινον. ων τον μεν θαον ανεξοισθον ειναι. τον δε ανθρωπινον εξοισθαν. Ci sono stao 1 O 176 ti alcuni, che han dettò con Empedocle esé sere il criterio della verità non già i sensi, ma la retta ragione. Questa poi essere in parte umana e in parte divina: la prima potersi da noi manifestare, e l'altra nòi, Sext: Emp. adv. Log. 1. 7 p. 396. (83 ) Hụezio Debolezza dello spiritous mano.. (84) Furere tibi Empedocles videtur: at mihi dignissimum rebus iis ', de quibus lo quitur sonum fundere. Num. ergo is ex. caecat nos, aut orbat sensibus, si parum magnam vim censet in iis esse ad ea, quae sub eos subjecta sunt, judicanda? Cic. Lu cullus c. 23. (85) Empedocles quidem, ut interdum mi hi furere videatur, abstrusa esse omnia, ni hil nos sentire, nihil cernere, nihil omni quale sit, posse reperire. Cic. Lucullus c. 5, (86 ) Αρχαίοι το φρονων και το αισθανεσθαι ταυτον αναι φασιν ωσπερ και Εμπεδοκλης (δη 01.,, Gli antichi, come disse Empedocle, vogliono che sia lo stesso sentire, che ra 177 € 2. gionare. Arist. de anima, l. 3. cap. 3. (87 ) Arist. de Plant...1. 11. cap. 1 (88 ) Αναξαγορας μεν και Εμπεδοκλης επί θυμια ταυτα κινεισθαι λεγουσιν αισθανεσθαι τε και λυπεισθαι » Anassagora ed Empedo cle dicono che le piante sien mosse da de. siderio, da tristezza, e da voluttà, Arist, de P1. 1. 1 Cap 1. (89 ) Αναξαγοράς δε και ο Δημοκρίτος και ο Εμπεδοκλής και νουν και γνωσιν εχεις απον τα φυτα Anässagora, Democrito, ed Em pedocle dissero le piante esser fornite di men te e di cognizione », Arist. de Pl. l. 1 cap. 1. Ρlut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 26. (90) Arist. de.ΡΙ. 1. 1 cap. 1 Ρlut. de P. Ph. 1. 5 cap. 26. (91) Πρωτοι δε και τονδε τον λογον Αιγυ πτιοι ασι αποντές, ως ανθρωπα ψυχη αθα γατος εστι. τα σωματος δε καταφθινοντος ες αλλο ζωον αια γενομενον εσδυεται. επεαν δε περιελθη παντα τα χερσαια και τα θαλασσια και τα πτηνα, αυτις ες ανθρωπό σωμα γινομες γον εσβυνειν. την περιαλησιν δε αυτή γίνεσθαι εν τρισχιλίοισι ετεσι. Sono gli Egizi i pri Z 178 ηι. mi che dicono l'anima essere immortale; ma che 'morto il corpo va questa sempre informando un altro animale; dimodochè dopo d' esser passata per tutti gli animali o terrestri, o marini, o aerei torna di nuo ro ad informare il corpo d'un uomo. Que sto giro compie l anima in tre mila an Herod. Euterp. 1. 2 cap. 123. (92 ) Τατω λογω ασι οι Ελληνων εχρησαντο οι μεν προτερον οι δε υστερον, ως ιδιω εωυτων εοντι. των εγω αδως τα ονοματα και γραφω. Tra Greci alcuni prima alcuni dopo han divulgato' la metempsicosi degli Egizi come opinione propria. E di quelli non vo. glio scrivere i nomi; ancorche mi sieno, co Herod. 1. 2 cap. 123. (93 ) Sext. Emp. adν.. Math. 1. 8. (94) Ου γαρ ωσ. ο Μεγανδρος φησιν απαντι δαιμων ανδρι συμπαράστατα ' ευθυς γενομεγω μυσταγωγος τα βιε αγαθος, αλλα μαλλον ως Εμπεδοκλης διτται τιγες εκαστον ημων γενομες γον παραλαμβαγεσι και καταρχoνται μοίραι κα! d'alluoves.,, Non è da credere come dice Menandro, che a ciascun di noi, come ea gniti, 170 gli nasce, assista un genio buono condut tor di tutta la vita, ma piuttosto è da te nersi l'opinione d'Empedocle, il quale di che ciascuno di noi dal punto della na scita è preso e governato da due genj e da due. fati Plut. de anim. tranquill. E sog giunge lo stesso Plutarco che co' nomi de gen; si esprimono σπερματα των παθων i se mi, delle passioni. (95 ) Plut. de animi tranq. (96) Αφ ων οίμαι ορμώμενοι και οι πυθα: γορεοι και μετα τατος Πλατων αντρον και στην λαιον τον κοσμον απεφηναντο. παρα τε γαρ Εμπεδοκλα αι ψυχοπομποι δυναμας λεγεσιν Ηλυθομεν τοδ ' υπ' αντρον υποστεγον E da queste cose, siccome io stino i Pittagorici, e Platone dopo costoro, pre sero occasione di chiamar questo mondo an tro e spelonca. Poichè presso Empedocle le potestà conducitrici delle anime dicono: che siano finalmente giunte sotto quest' aniro coperto; Porph. de Ant. Nymph. p. 9 ed. Van - Goens. (97 ) Clem, Αlex. Strom. 1. 2. Stob. Εcl. 180 Eth. cap. 3. Jambl. Portrep. cap. g Hierocl. in Com. Scheffer de Secta Italica. (98) Pindaro nella prima ode olimpica dirizzata a Gerone; dopo: d' aver descritto il supplizio di Tantalo, che chiama atau λαμον βιον εμποσομοχθον vita priva do gni ajuto e perpetuamente laboriosa » 'sog giunge „ questo supplizio forma il quarto dopo d' averne sofferto altri tre » Mesta Tpl. ων τεταρτον πονον. Non si puo comprendere a prima vista, come questo quarto suppli zio fosse stato perpetuo. Ma ciò è intera mente dichiarato nella seconda ode. olim pica diretta a Terone Gergentino. Quivi e gli dice: que', che dopo d'esser dimorati tre volte nella terra e nell'inferno ocou do ετολμησαν ες τρις εκατερωθι μειγαντες: seppero contener ľanimo loro nella pratica della virtil, arriveranno per la via di Giove al la regia di Saturno, dove laure dell' O. ceano spirano dolcemente attorno le isole fortunate, e splendono i fiori d'oro. vede quindi dal confronto di queste due o. di, che la metempsicosi giusta Pindaro con Si 181 sisteva in tre articoli: iº che l'anima del lo stesso uomo informava tre volte corpi u mani, che ' v'era un intervallo tra la morte e'l rinascimento in cui i giusti go deano di felicità, e i malvagi eran puni ti, 3º che le anime perseveranti nella giu stizia per tutto il corso delle tre vite umia ne, andavano poi. cogli eroi nell'impero di Saturno; e quelle, che s' erano mac chiate di colpe in quello stesso tempo, an davano in fine a soffrire un supplizio eter πο: απαλαμον βιον εμπεδoμοχθον. Gli sco liasti stessi di Pindaro, non altriinenti che noi abbiamo fatto ', lo dichiarano: uno di essi dice υπεραγαν μεχρι τριτης μετεμψυχοσέως Ev 8 %a740015 Tols peeport „ sostennero (le a nime ) sino alla terza metempsicosi nell' uno e nell'altro luogo cioè a dire nel la terra e nell' inferno. Ora trina di Pindaro pare che allora fosse sta ta conosciuta da' soli sapienti. Poichè dopo che il poeir avea esposta la triplice trasmi grazione soggiunge lo tengo sotto il mio gomito e dentro la faretra delle sette vo: questa dot 182 lanti, il cui fischio si sente dal solo sa piente. Ma la moltitudine ha lisogno d' interpetri ες δε το παν ερμηνεων χατιζα. Η saggio è colui che conosce la natura, gli altri, che įmparano da lui, sono loquaci nxo Root Taivajaworick e come i corvi inutilmente gracchiano. Per lo che pare, che Pindaro s'astenea di parlar chiaramente per non ri velare al volgo il dogma pittagorico della metempsicosi, ed opponea la furgawcola o loquacità del profano al silenzio del pit tagorico. (99) Tutti gli antichi fanno onorata men zione della filosofia d'Empedocle. Lascian do stare Aristotile e Teofrasto, noi sappia. mo da Laerzio l. 10 Sect. 25 ch' Herma co l'epicureo la espose in 24 libri moto - λικων περι Εμπεδοκλεας: Τra Iatini poί α parte di Lucrezio e di Cicerone, che ne fan sommi elogi, siano avvertiti da Cicerone me. desinio che si era stato un Sallustio, il quale area trattato la filosofia d'Empedocle nel la stessa guisa, che avea fatto Lucrezio per quella di Epicuro. Tria per quanto si rac 183 coglie dalle parole di Cicerone quell' auto re non era riuscito cosi bene, come Lucre. zio. Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt multis luminibus ingenii: multae tamen ar. tis. Sed cum veneris, virum te putabo, si Sallustji Empedoclea legeris; hominem non putabo, cioè a dire se potrai sostener ne la lettura ti 'stimerò invitto e paziente. ma privo di senso. Cic. Ep. ad Q.fr. 1. 2. Non che Plutarco ne' tempi d'appres. 80, ma tutti gli scrittori ecclesiastici ricor dano con lode Empedocle ed i suoi pensu. menti. Vi ha un luogo di Temistio nell orazione 12 all' Imperator Gioviano, in cui egli loda quest' imperadore per la lege ge da esso lui stabilita circa la libertà del la religione. In questo luogo ei dice agar σθαι μεν εν και τις αλλες το νομο προσηκ4 τον θαοτατον Αυτοκρατορα και μαλιστα δε οίς ουκ εφιασι μονον την ελευθερίαν, αλλα και τις θεσμες εξηγείται και φαυλοτερον Εμπεδοκλεας και Ma All Excave te Teals. Varia è stata l' interpetrazione di piu autori intorno a que ste parole, e principalmente per l'Empe 184 parere che docle, di cui fa menzione Temistio. Al cuni hanno sognato un altro Empedocle di verso e posteriore al nostro. Petavio, non si sa come, crede, che sotto il nome d' Empeclocle abbia quegli voluto significare G. C. Petit è di per Empedocle s'inten la un cinico chiamato Peregrino. Nè marican di quei, che credono essere stato rcfurrito in quel luogo S. Policarpo marti re. Iru biti gl'inteipetri Casaubono in not. ad M. Anton, pas 87 è stato a giudizio di Fabricio Bibl. Graec. T. 8 p. 56, corui che meglio l'hi interpetrato. AgarIsi Mesy XV x2. Toń andy (ita malo quam tos are 285, quod tamen ferri potest, nec' senten tiae, quam volumus, repugnat ), 78 roles.po: σηκ ή τον θιοτατον Αυτοκρατορα μαλιστα δε οίς (idest τετων vel εκεινων οις ) εκ εφιησι porgy etc., Degnissimo è l ' imperadore di ammirazione e di venerazione non che per le cose, che in quella legge si contengono, ma sopra di ogn'altro e per la libertà del la religione, e perchè spiega quelle leggi, che sono state da Dio dettate, con perizia 185 non minore di quella, per · Giove, che non fece quell'antico Empedocle., Di che si vede, ch'era tanta e tale la stima, in cui allora si tenea il nostro filosofo, che ad esso si comparava l ' Imperadore Gioviniano, allorchè si volea lodare. Abulfarage presso gli Arabi, secondo che dice Fabric. Bibl. Graec. T. 1 p. 474 loda Empedocle, come chi avea ottimamen te conosciuto gli attributi divini. Finalmente la filosofia d'Empedocle è stata vinovata da Campanella, da Magna. no o Maignano. Fahr. Bib. Graec. nel me desimo luogo. Per lo che si vede chiarissimo quanto male Orazio conoscea il nostro filosofo; allorchè disse. Ep. 12 !. 1 v. 20. Empedocles; an Stertinii deliret acumen. a a  187 MEMORIA QUARTA Su i Franmenti delle opere di Empedocle Gergentino. ROM nico è l' oggetto di questa ultima mes moria: presentare a un colpo d'occhio tute ti accozzati gli avanzi delle opere d'Empe. docle. Egli ne detò molte, e quasi tutte, com'era usanza in que' di, le scrisse in versi.. Pure niun poema di lui è venuto sino à noi, e pochi sono i frammenti, che di questi ci restano L'inno ad Apollo, e 'l poema de' Persiani, furono, lui morto, bruciati. Il poema sulla sfera si reputa oggi opera d'incerto autore, Del suo discorso sulla medicina non ce n ' è restato nè anche vestigio: anzi ignorasi, se questo fosse stato scritto in versi secon do Laerzio, o pure in prosa secondo Sui da. I frammenti in somma delle opere d' Empedocle, che da noi si conoscono, ri guardano e fan parte di due famosi poe e non sia. a, a 2 188 ni: l' uno sulle purgazioni, l'altro sulla natura. Il primo fu intitolato a Gergen tini; il secondo a Pausania il medico el amico di lui. La raccolta quindi de' fram menti de' versi d' Empedocle, di cui qui si parla, appartiene soltanto a questi due gran poemi. Piü Eruditi, e tuti di gran nome assai prima, e in varj tempi praticaron lo stesso. Errico Stefano no pubblicò il pri mo non pochi nel suo Ibro della poesia fi. losofica. Giovanni Alberto Fabricio prese appresso il pensiero d'ampliar la raccolta di Stefano; e giusta il Mosenio quegli mol to l'accrebbe. Ma ogni fatica di lui, co me attesta il Reimaro, tornò vana; perchè morto Fabricio si perderono i suoi origina li,, e il pubblico non potè coglierne il frut. to. Van - Goens di poi nell'edizione, ch ' ei fece del libro della Groita delle Ninfe di Porfirio, manifestò aver già raunato più di trecento versi d'Empedocle, e promiso al più presto di recarli in luce. Avea, se condo ch' attesta egli stesso, tratto gran pro 189 1 da' manoscritti che si conservano nella libre ria di Leyden, e invitato tutti i dotti ad aiutarlo in si fatio travaglio. Ma punto non si sa, se abbia o nò costui pubblica to la raccolta de' versi del nostro filosofo, giusta la promessa di lui nel 1765 sotto titolo di raccolta Empedoclea. E' sempre una singolar disgrazia il non potere profittar delle fatiche degli uomini grandi. Le nostre librerie een prive non che di manoscritti, ma scarseggiano ancora di libri. Non ci è venuto fatto di ritroe' vare in esse nè pure lo stesso Errico Ste fano della poesia filosofica. Però, mancan. ti gli aiuti, si è ito sù giù rifrustando an tichi scrittori per cogliere or uno or due e di rado o sei, o dieci' o più versi di Emperlocle, che sparsi si leggono in que sto, e in quell'altro. Fatica assai penosa, e ' tanto più dura, quanto ha obbligato a durar quello stento, che farebbe chi il pri mo si mettesse ad imprenderla, senza la spe. ranza di poter acquistare la gloria debita a chi il primo l'avesse intrapreso. Unico 190 > conforto ne fu un Simplicio dell'edizione d' Aldo, trovato nella libreria de' PP. Tea tini di Palermo (giacchè questi ne' suoi co. mentari d ' Aristotile rapporta molti versi d ' Empedocle ). Da questo libro furon tratti non pochi de' versi d ' Empedocle, che si tro van messi insieme. in quest'ultima parte. Ma il medesimo disgraziatamente fu ruba. to in quella libreria. Però non fu conco duto di potersi più riscontrare i versi rac colti col testo; e si è dovuto, congetturan, do quasi tentoni, quando supplir qualche parola a caso tralasciata, quando correg gere alcuni versi, che per la prima volta erano stati o male lètti, o falsamente scrit ti. Si è detto tutto ciò non perchè s' am. bisca lode di questa qualunque siesi fati ca; ma perchè se ne abbia anticipato come patimento. In altri paesi d'Europa la race colta de' versi d' Empedocle o gia è stata egregiamente recata in pubblico; o se non è stata ancor fatta, si potrà certamente fare e più abbondante, e più corretta, e più dotta, che non è questa. Non è quin 191 di la stessa da considerarsi come un ope. ra perfetta, o degna degli sguardi de' Dot ti. Si desidera soltanto, che si tenga la medesima, come un annotazione, con cui si provano i pensamenti d' Empedocle espo sti nella terza Memoria. Ma comunque ciò sia egli è certo, che i versi d'Empedocle smentiscono coloro, che portano opinione lui essere stato o di niú no o di poco valore in poetica. Si fondan costoro sopra Plutarco (1 ), il quale dice Empedocle avere ornato col metro i suoi discorsi per evitare l'umiltà della prosa. Ma non si accorgono aver loro o mal inte so o sinistramente interpetrato Plutarco, il quale pretese sol definire, che sia stata di dascalica la maniera poetica del nostro fie losofo. Questa, come quella, ehe tratta e di filosofia, e di precetti sdegna le finzio. ni e l'invenzione, in cui il pregio, il bel lo, e la natura consiste d'ogni poesia. Per rò quegli disse, ch'Empedocle avea preso (1 ) De Aud. Poet. 192 dalla poesia, senza più, e la pompa, e il meiro. Questo stesso avea già gran tempo prima annunziato Aristotilo, che fu non che savio ma di gran sentimento nelle co se poetiche. Egli, a distinguer la poesia d' Omero da quella d'Empedocle, affermò i uno e l'altro, tranne il metro, nulla tra loro aver di comune. Perché Omero era un Poeta, com’ei diee, ed Empedocle un fisiologo (1 ). Ma se Empedocle, qual didascalico, non merita é nome e lode, che si convie ne a poeta, non si pao negare aver lui necupato in que' dì il primo luogo tra di dascalici, Aristotile di fatto non seppe in miglior modo contrassegnare la differenza tra la vera poesia e la didascalica, che comparando tra loro il più gran poeta e il più eccellente didascalico; Omero ed Em pedocle. Nè altrimenti si pensò ne ' tempi d' appresso. Cicerone chiama egregio il poe (1 ) De Poet. cap. 1. 793 ma d'Empedocle sulla natura (1 ). Anzi mettendo egli a confronto i versi di Par menide, di Xenofane, e d' Empedocle, che furon tutti tre poeti didascalici, dice aper tamente, che più belli ed eleganti erano i versi del nostro filosofo (2 ). Che se poi mancasse ogn'altro argomento ad apprez zare il merito di lui, sarebbe certamente bastevole il sapere i poemi d'Empedocle es sersi cantati ne' pubblici giuochi di Grecia. Ognun sa, che questa, piena allora di gu sto, e severa nel gindicare, non concedea tali onori se non a soli grandiuomini. Nel resto ciascuno su cið, o del raffinamento del la poetica d'Empedocle, ne può da ise giu dicare. Il solo leggere i frammenti, che ci sono restati, basta a far che chiunque ne resti persuaso e convinto. Il dialetto de' Siciliani e de' Pittagorici era comune; e questo appunto era il Dori co. Pure Empedocle avvegnache fosse stato (1 ) Lib. 1 de Orat. (2 ) Acad. Quaest. l. 4. Ъь 194 o Siciliano e Pittagorico, non mise in opera, che il dialetto Jonico, coine quello, ch'era tra Greci poeti il più polito e gentile. Fu inoltre la musa d? Empedocle dolcissima. E. gli ne' suoi versi non sol si servì di quel dialetto, ma nel farli scelse le parole più dolci e sonore. Platone, parlando d ' Era clito, d'Empedocle, dice che le muse di quello eran più dure, e le altre di questo più molli (1 ) ancorchè l' uno e l'altro aves sero usato il dialetto medesimo degli Jonj Plutarco stesso poi non lascia di notare, che gli epiteti apposti da Empedocle non erano, come per lo più esser ' sogliono ne' poeti, di puro ornamento, ma esprimeano la natura delle cose (2 ). Ne cita egli di fatto l'aggiunto dato da Empedocle a Ve. nere qual datrice di vita; il sempre verdeg: giante dato all'alloro; l'abbondante di san gue adattato al fegato: e altri simiglianti. Anzi il medesimo Plutarco da a Empedocle (1 ) Plut. in Sophista. (2 ) Plut. Sympos. l. 6 Erotic. 195 il vanto d' aver meglio e più: destramento usato d'aleuni epiteti d'Omero (1): Ne reca ' egli in pruova l'aggiunto d'agglome rator di nubi, che questi attribuisce a Gio ve, e quegli all' aria, e l'altro di difena SOF del corpo, che Omero dà allo seudo, ed Empedocle all'anima. Ma perchè più dilungarci in rapporta: re antichi testimonj su cið? I franımenti stessi d ' Empedocle chiaro ci mostrano l' éc cellenza della sua poesia. Basta dirsi aver lui tenuto Omero per modello nelle sue o pere poetiche. Le voci, le frasi, le me taforé, la giacitura delle parole, le desi nenze de' versi son le medesime in quello, che in questo. Si può quindi dir con ra gione l'apparenza de' suoi versi, e la sein bianza de' suoi poemi essere stata tutta di Omero. Oltre che riluce in lui una viva cità nelle immagini, e una novità sin" nel le stesse parole. Moltissimi sugi epitéti ed espressivi e leggiadri non si trovano in al (1 ) Plut. Symp, l. 6. bb 2 196 cun altro poeta: 1. pesci, per tacer d i tant altri, " sono chiamati da lui quando nutriti, quando abitatori dell'acqua; gli uccelli cimbe volanti; gli Dei ' di lunghissi. mi secoli. Anzi Aristotile nella sua poeti ca indica come una metafora assai bella, e allora nuova, quella con cui Empedocle esprime la vecchiaja; chiamandola l'occa. so della vita. Chiunque poi legge nelle sue opere la descrizione della natura; " che qual pittore con quattro colori, fa tutte le co se con quattro elementi; o l' altra della visione, che comparata a una lucerna, fa le sue funzioni; o quella della clessidra, o cose simiglianti ', non gli potrà certo ne gare il pregio, che si conviene a vaga e bella fantasia. Per lo che da' framinenti d' Empedocle si prende quel diletto, che pigliar si suole guardando i rottami d'una qualche nostra Greca Sicola anticaglia. Nel mettersi insieme si fatti frammen, ti si sono in prima distinti i versi, che appartengono al poema della natura, da. quelli, che fan parte dell'altro sulle pur 197 1 lande prezi Foce cck que nal elle gazioni. Ciò non è riuscito punto difficile, Perchè il primo tratta di cose fisiche, e 'l secondo di cose morali. In quello d'ordi nario, perchè diretto al colo Pausania i verbi si trovano in singolare. In questo all'oppesto perchè indirizzato ' a Gergenti ni, i verbi si leggono in plurale. Perd e dalla sintassi e dalla materia è stato age vole il se parare i frammenti d'un poema da quelli dell'altro. Si sa oltr'a ciò il poema d'Empedo cle sulla natura esser. diviso in tre libri. Molti stenti ha costato il congetturare qua li sieno stati trà versi, che ci restano, quel li che appartengono o al primo, o al se condo, o al terzo, In çiò fare è stato di mestieri ricercare se per avventura gli scrit tori, che ne riferiscono i frammenti, aba biano citato il libro. Talora d' alcuni ver si, che certamente si sa dalla testimonian za degli scrittori doversi collocare in uno de' tre libri, si è rilevata la materia, che in ciascuno di essi trattavasi dal no stro Gergentino, Stabilita poi la materia la ni che ung en. he da ur. 198 stato ben facile il riferire allo stesso li bro tutti que' frammenti, che si versano sullo stesso soggetto. Ma non di rado con frontando i frammenti tra loro si è trova to, che alcuni finiscono con versi, che son principio di altri. Con tale studio quindi e simigliante artifizio si è cercato di collo care o prima, o dopo alcuni frammenti, che sono dello stesso libro. Nel resto sarà meglio il tutto giustificato nelle note, e l' ordine con cui sono rapportati i frammen ti, e l'autore, da cui sono stati ricavati e l'intelligenza, con cui sono stati interpe trati '. Fra tanto se questo qualunque siesi lavoro non sarà stimato degno di lode, po trà almeno, meritare, nell' emenda de dete ti il perdono del pubblico. RACCOLTA D E FRAMM ENTI. 200 ΠΕΡΙ ΦΥΣΕΩΣ βιβλ. α. Παυσανία συ δε κλυθι δαίφρονος Αγχίτου υιε (1 ). Εστί αναγκης χρημα θεων σφραγισμα παλαιον Αϊδιον πλατεεσσι κατεσφραγισμενον ορκοις (2 ) Τεσσαρα των παντων ριζωματα πρωτον ακους Ζευς αργής, ηρητε φερεσβιος η αίσθωγευς Νηστις θ' ' δακρυοις τεγγα κρενωμα βρoταον Των δε συνερχομενων εξ εσχατων ιστατο νακος (3 ) Διπλ' ερεω: τοτε γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων τοτε δ ' αυ διεφυ πλέον εξ ενος ειναι Δοιη δε θνητων γενεσις δοιη και απολαψις Την μεν γαρ παντων συνοδος τικτατ’ ολεκτιτε Ηδε παλιν διαφυαμενών θρυφθασα γε δρυπτα Και ταυτ αλλασσοντα διαμπερες εποτε λήγα 201 DELLA NATURA Lib. I. Pausania figliuol del saggio Anchito Tu ciò, ch ' io dico, attentamente ascolta E' volere del Fato, è degli Dei Decreto antico, che ab eterno fue Segnato con solenni giuramenti. Il bianco Giove, la vital Giunone, E Pluto, e Nesti, che piangendo irriga I canali dell'uom, son d'ogni cosa, Odimi in prima, le quattro radici. Ma come quelli tra di lor s'accozzano Dall' ultimo confin sorge la lite. Dųe son le cose, ch' a narrarti io prendo: Ora l'uno dal più risulta, ed ora Nasce dall' uno il più: cosa mortale Doppio ha nascimento, e doppia ha morte. Genera, e strugge l ' union del tutto; E questa sciolta, torna pur di nuovo CC 20 2 Αλλοτε μεν φιλοτητί συνερχομεν ’ ας εν απαντα Αλλοτε αυ διχα παντα φορεμενα νακεος εχθα Εισοκες αν συμφωντα το παν υπενερθε γενητα. Ουτως η μεν εν εκ πλεογων μεμαθηκε φυέσθαι Η δε παλιν διαφυγτος ενος πλεον εκτελεθεσ: Τη μεν γίγνονται τε και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε διαλλασσονται διαμπερες αποτε ληγει Ταυτη α εν εασσιν ακινητα κατα κυκλoν. Αλλ' αγέ μυθον κλυθι - μεθη γαρ τοι φρεγας αυξ Ως γαρ και πριν ειπα πιφασκων πειρατα μυθων Διπλ’ ερεω: τοτε μεν γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων τοτε δ' αυ διεφυ πλεον εξ ενος αναι Πυρ και υδωρ και γαια και κερος απλετον υψος Νικοστ' αλομενον διχα των αταλαντον εκαστον Και φιλοτης εν τοισιν ιση μηκοστε πλατοστε Την συν νω δερκε μη δ ' ομμασιν ησο τεθηπως Ητις και θνητοισι νομιζεται εμφυτος αρθροίς Tητε φιλαφρονεας ιδ ' ομοιϊα εργα τελεσι Γιθοσυνην καλεοντες επωνυμον ιδ " αφροδιτην Την στις μετ ' οτοίσιν ελίσσομενην δεδαηκε. Θνητος ανηρ συ δ' ακ8ε λογων στoλoν εκ απατηλον Ταυτα γαρ ισα τε παντα και ηλικα γενναν εατσι Τιμης δ' αλλης αλλο μεδα παρα δ ' ήθος εκαστω Εν δε μερά κρατεεσι περίπλομενοιο χρονοιο. Και προς τους ατ' αρ' επιγιγεται δ ' απολήγα 203 Ogni cosa, ch' è nata, a separarsi. Tutto alterna cosť, e così dura Eternamente: ed ora in un si accozza Per la virtù dell' amicizia, ed ora Per l'odio della lite si sparpaglia, Standosi in aria, finchè non si unisca, Cosi l'uno dal più nascer costuma. Cosi dall' un già nato il più rinasce. Entrambi han vita; ma la lor durata Non è mai stabil. Perchè l' uno e l'altro Alterna, e l'alternar non ha mai fine Sopra di un cerchio eternamente gira. Ma tu il mio parlare attento ascolta, Che lo spesso sentire, e risentire La mente aguzza. Come pria ti dissi Raccogliendo la somma del discorso Due son le cose, ch'a 'narrarti io prendo. Ora l'uno dal più si forma, ed ora Nasce dall' uno il piii; ch'è terra, e fuoco, και ed aria d'un'immensa altezza, Oltre di questi, che tra lor son pari, Havi lite dannosa, ed amicizia, Ch'ha per lungo, e per largo egual misura.?' u colla mente la contempla. Invano Ed acqua, CC 2 304 Η Ειτε γαρ εφθαροντο διαμπερες εκετ ’ αν καισαν. Τατο δ ' επαυξησε το παν τι κε; και ποθεν ελθον; Πη δε κεν απολοιτο επει των δ ' δεν ερημον; Αλλ ' αυτ ’ εστιν ταυτα διαλληλων δε θεοντα Γινεται αλλοτε αλλα διηνεκες αιεν ομοια (4). 205 Stupidi gli occhi sopra dessa fisi. Questa d'ogni mortal nelle giunture Si vuole innata, e chi n'han senso in mente Fanno, comº essa fa, opre leggiadre. Di Venere col nome o d'allegrezza La chiamano, sebben finor niuno Seppe indicare dentro a quali cose Si aggirasse involuta. O tu niortale, Ascolta i detti, che non son fallaci: L'amicizia, e la lite sono eguali, Hanno la stessa età, l' origin stessa Sol con diverso onor l ' una sull'altra Impera, e piglia, com'è lor costume, Il comando a vicenda al fin del tempo, Scritto a ciascuna dal voler del fato. Nulla viene oltr' a ciò, ch' ancor non è Nulla di quel, che è, desser finisce; Se pur finisse., riaver non mai Potrebbe in alcun tempo l'esistenza. Doy ' andrebbe a perir, se non v'ha luogo Di ciò solingo, ch'al presente esiste? E se quel', che non è, ora venisse D ' onde verrebbe? e che? come potrebbe Accrescer questo tutto, s' egli è tutto?? 206 ! 3. • Επι νεικος μεν ενερτατον ικετο βενθος Δινης εν δε μεση φιλοτης στροφαλιγγα γένηται Εν τη δη ταδε παντα συνερχεται εν μονον είναι Ουκ αφαρ αλλα θελυμμα συνισταμεν αλλοθεν αλλο Των δε μισγομενων χειτ' εθνεα μυρια θνητων Πολλα δ' αμικτ ’ εστηκε κερασσαμένoίσιν εναλλαξ Οσσ ' ετι νεικος ερυκς μεταρσίον • 8 γαρ αμεμτώς Το παν εξέστηκεν επ ' εσχατα τερματα κυκλα Αλλα τα μεν τ ' εμιμνε μελεων τα δε τ ’ εξεβεβηκεν Οσσον δ ' αιεν υπεκπροθεει τοσον αιεν επηει Η επιφρων φιλοτης αμεμπτως αμβροτος ορμη Αιψα δε θνητ’ εφυοντο τα πριν μαθον αθανατ’ είναι Ζωρα δε τα πριν ακρητα διαλλαξαντα κελευθες Των δε τε μισγομενων χειτ' εθνεα μυρία θνητων EΠαγτ οιαις ιδεησιν αρηροτα θαυμα ιδεθαι (5) 207 Sempre dunque le cose son le stesse, Si mischian, si separano, a vicenda Movendosi tra lor, e nascon sempre Novelle forme, ma tra lor simili. Avea la lite già toccato il fine Ultimo del girar, quando amicizia Del cerchio, in cui si volge, al centro arriva. Tutte le cose allor vanno ad unirsi Per fare l'un; ma a poco a poco il fanno, Base a base di quà di là giungendo. Dagli elementi, che tra lor si mischiano Razza infinita di mortali nasce. Ma in mezzo a que', che s'accozzar, vi furo Altri, che ' ncontro senzı alcun miscuglio Restaron puri; perchè lite ancora In alto li tenea Piena di colpa Ella com'è, voleva il tutto scisso Sull' estremo confin del cerchio trarre. Però de' membri, alcuni fuor spuntaro, Ed altri nò. Ma quanto innanzi corre Sempre la lite, tanto sempre è pronta L ' amicizia a venir saggia, divina, Nuda di colpe, d' immortale forza > 208 Σ Η δε χθων τατοισιν ιση συνεχυρσε μαλιστα Ηφαιστω τ ' ομβρωτε και αθερι παμφανοωντι Κυπριδος ορμησθεισα τελειοις εν λιμενεσσιν Ειτ ' ολίγον μειζων ειτα πλεον εστιν ελασσων Ίων αιματ’ εγένοντο και αλλης ειδεα σαρκος (6). Η δε χθων επικαιρος εν ευτυκτοις χοανοισι Τα δυο των οκτω μερεων λαχε νηστιδος αιγλης Τεσσαρα δ ' ηφαιστοιο. Τα δ ' οστεα λευκα γένοντο Αρμογιης κολλησιν αρηροτα θεσπεσιηθεν (7 ). 209 E nascer ecco, e divenir nascendo Della morte alla falee sottoposti Que', che prima sapean esserne immuni, E mutando sentier trovarsi misti Que', che puri eran pria senza miscuglio. Formasi in somma dalle cose miste Un numero infinito di mortali, Che d'ogni specie son, d'ogni figura, Si, ch'a vederli è certo maraviglia. Ne'porti estremi della bella Dea Giunse la Terra là dov' ogni cosa Or di massa crescendo, ed or mancando Il più meno si fa, e 'l meno più. Ivi la Terra in parte egual s'avvenne All' aria trasparente, al fuoco, all'acqua, E da tale union indi formossi Qualunque specie di carne, e di sangue. Quando la terra era d'amor sospinta In pevere ben salde a sorte trasse Dell'otto parti, d' acqua chiara due, Quattro di fuoco: e per divin volere Col glutin d'armonia tutte s'uniro: dd διο Βελιον μεν θερμoν οραν και λαμπρον απαντη Αμβροτα γ οσσ ' εδεται και αργέτι δευεται αυγη Ομβρον δ ' εν πασι νιφρεντα τε ριγηλοντε Εν δ ' αιης προρεεσι θελυμγα τε και στερεωμα. Εν δε κοτω διαμορφα και αν διχα παντα πελονται Συν δ εβη εν φιλοτητι και αλληλοισι ποθκται. Εκ τετων γαρ παντ' ην οσσα τε εστι και εσται Δενδρατο βεβλαστηκε και ανερες ηδε γυναικες Θηρεστ’ οιωνοίτε και υδατο θρεμμονες ιχθυς Και τι θεοι δολιχαιωνες τιμησι Φεριστοι και Αυτα γαρ εστι ταυτα δι αλληλων θεοντα Γινεται αλλείωτα (8 ), 1 911 E l'ossa bianche furon tosto fatte. Da per tutto si vede il Sol, che desta Calore, e lancia della luce i raggi, E quegli ancor, che senza morte sono, Quasi da fame o pur da sete spinti, L'aria ricercar bianco splendente. Puossi ovunque veder l'acqua; che in neve: Talòr si muta, e facilmente gela: o pur la terra, da cui vengon fuori Le salde cose. Quando impera lira Tutto è biforme, ed ogni cosa è scissa, Ma regnando amicizia il tutto corre Pronto ad unirsi, e l'una all' altra cosa Per interno desir s'abbraccia, e stringe. Tutto viene da quelli, e per l'amore, Ciò, che fu, cid, che è, ciò che sard, Germogliaro cosi alberi, e piante Nacquero maschi, e donne, e fiere, e uccelli, E pesci ancor, che son d'acqua nutriti; O pur gli Dei di secoli lunghissimi Chiari per gl' inni, e per gli onor prestanti. Sempre in somma le cose soil le stesse, Sempre tra loro han moto, e cangian forma. d d 2 212 Ως δ ' oπoταν γραφεες αναθηματα ποικιλλωσιν Ανερεσ αμφί τεχνης υπο μη τινος δεδαωτες Οιτ ' επει καιν μαρψωσι πολυχροα φαρμακα χερσι Αρμονια μιξαντε τα μιν πλεω αλλα και ελασσω. Εκ των αδεα πασ' εναλίγκιά πορσυνέσι Δενδρεάτε κτιζοντες και ανερας nde γυναίκας Θηρας τ’ οιωνες τε και υδατο θρέμμονες ιχθυς Και τε θεες δολιχαιωνας τιμησι φεριςτες Ουτω μη σ ' απατα φρενα ως νυ κεν αλλοθεν «να Θνητων οσσα γε δηλα γεγαασιν εσπετα πηγήν. ταυτ ' ισθί θεα παρα μυθον ακουσας (9 Αλλα τορώς Εν δε μερα κρατεεσι περίπλομενοίο κυκλοίο Χα, φθιγει ας αλληλα και αυξεται εν μέρει αισης Αυτα γαρ εστι ταυτα οι αλληλων δε θεοντα Γιγοντα ανθρωποιτε και αλλων εθνέα θνητων: Αλλοτε μεν φιλοτητα συνερχομεν ασ ενα κοσμου 213 Qual dipintor nell'arte sua perito Sa' i quadri variar, che la pietate Del tempio alle colonne, appende in dono A santi numi. Egli con man piglian do Ora più, ora men di questo, è quello Colore, insiem con ' armonia li vmischia, E poi con essi va pingendo immagini Che son del tutto simili agli oggetti: Uomini, donne, fiere, uccelli, e piante;. Ed i pesci, che son đ 0 pur gli Dii di secoli lunghissimi Chiari per glinni, e per gli onor prestanti; Cosi la mente certo non s'inganna Dº ogni nato mortal qualora dice Esserne fonte sol quegli elementi. Tu.ciò, che ho detto, tieni pur per fermo. Di tutto il nascer sai, fuorchè di Dio, Sul quale il mio parlar non è diretto. acqua nutriti Or l'amicizia, ed or la lite impera Del cerchio intorno rivolgendo i passi, E luña e l'altra, come vuole il fatoo Manca a vicenda, ed a vicenda sorge. Sempre le stesse son, sempre alternando 214 Αλλοτε δ ' αυ διχ' εκάστα φορεμενα νικεος εχθα Εισοκεν αν συμφωντα το παν υπεγερθα γενηται. Ουτως η μεν εν εκ πλεονων μεμαθηκε φνεσθαι Η δε πάλιν διαφωντος ενος πλεον εκτελεθεσι. Τη μεν γίνονται και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε τα διαλλάσσοντα διαμπερές δαμα λογια Ταυτη αιεν εασσιν ακινητα κατα κυκλος (1ο). Σ Τεσσαρα των παντων ριζωματα πρωτον ακα! Πυρ και υδωρ και γαιαν η αιθερος απλετον υψος Εκ γαρ των οσατ' ην οσατ ' εσσεται οσσα τ ' εσσι(11 Αυταρ επε μεγα νεικος ενι μελεεσσιν ετρέφθασε Ες τίμαστ' ανορεσε τελιoμενοιο χρονοιο Ο σφιν αμοιβαιος πλατεος παρεληλατο ορκα (12 ) 15 Si muovono. Deil' uom la razza nasce, Tant' altre razze di mortali han vita. Talor per amicizia in ordin bello Tutto si unisce; ma talor per stizza Di lite il tutto si separa, è stassi Sospeso in alto, finchè non s'unisca. Cosi l'uno dal più nascer costuma. Così dall' un già nato il più rinasce. Entrambi han vita, ma la lor durata Non è mai stabil. Perchè l'uno, e l' altro Alterna, e l'alternar non ha mai fine Sopra d'un cerchio eternamente gira. Quattro, figliuol d'Anchito, in prima ascolta Son radici di tutto: il fuoco, e l'acqua, La terra, e l ' aer d'un immensa altezza; Perchè da questi sol viene, e deriva Ciò, che fu ', ciò, che è, ciò, che sard. Dopo, che lite, la gran lite ascosa Era stata ne' membri, il tempo scorso, Agli onori salt. Perchè l'impero Alternar si dovea, com'era scritto Con solenne, ed eterno giuramento. 256 Αρτια μεν γαρ αυτα εαυτων παντα μερέσσιν Ηλεκτωρτε Χθωντε και κρανος ηδε θαλασσα Οσσα Φιν εν θνητοίσιν αποπλ.αχθεκτα πεφυκέν. Ως δ ' αυτως οσα κρασιν' επαρκεα μαλλον εασσιν Αλληλοις εστερνται ομοιωθεντ' αφροδιτη. Εχθρα πλειστον επ', αλληλων διεχεσι μαλιστα Γεννητε κρασατε και αδεσιν εκμακτρισι Παντη συγγίγεσθαι αηθεα και μαλα λυγρα Νακεσ γεννηθεντα οτι σφισι γεννας οργα (13 ),. Αλλο δε τοι ερεω • φυσις αδενος εστιν απαντων Θνητων εδε τις ολομενα θανατοιο τελευτη Αλλα μογον μιξις τε διαλλαξις τε μιγεντων Εστι. φυσις δε βρoτοις ονομαζεται ανθρωποισι (14) Οι δ ' οτε δε κατα φωτα μιγεν φως αιθερι κυρα Η κατα θηρων αγροτέρων γενος και κατα θαμνων Ηε κατα οιωνων τοτε μεν τα δε φασι γενεσθαι 217 Tutto è perfetto, perchè tutto ha pari Íl numer delle parti, che il compone. Tal è la Terra, il Sole, il Cielo, il Marc E tutto quel, che tra mortali errando Miste ha le parti giusta sua natura. Ciò, che ridonda poi al lor miscuglio Da Venere s ' unisce al suo simile, Giacchè le cose simiglianti forte S'aman tra lor. Na spesso le divide L'inimicizia. Nascon quindi mostri Strani assai per la stirpe., e per la tempra, E per le forme, ch' hanno in loro impresse; Perchè la lite li produce allora Ch' appetiscon le cose il generare. Un altra cosa a dichiararti io prendo: Nulla ha natura, nè mortale ha morte, Che danno arrechi. Perch' è sol miscuglio, E delle cose miste è scioglimento Ciò, che natura gli uomini chiamaro. Quando a caso nell'aria s'imbatte Il miscuglio, che fa dell' uom la razza, O quella degli uccelli, o delle piante, 218 Ευτε ο αποκριθωσι τα δ ' αυ δυσδαιμονα ποτμαν Ειναι καλεσιν (15 ). Βιβλ. β. Νυν δ ' αγε πως ανδρωντε πολυκλαυτωντε γυναικων Εννυχιες ορπηκας ανήγαγε κρίνομενον πυρ Των δε κλυθ'.8 γαρ μυθος αποσκοπος εδ' αδας μων Ουλοφυες μεν πρωτα τυποι χθονος εξανατελλον Αμφοτερων υδατοστε και αδεος αι σαν εχοντες τετ' ανέπεμπε θελον προς ομοίον ευεσθα Ουτε τυπω μελεων ερατον δεμας εμφαινοντες Ουτ’ ενοπην ετ ' αυ επιχωριον ανδρασι, ηουν (16 ) Πυρ μεν Πολλα μεν αμφιπροσωπα και αμφιστερνα φυέσθαι Βεγενη ανδροπρωρα τα δ ' εμπαλιν εξανατέλλας Ανδροφυη βεκρανα μεμιγμεγα τη μεν υπ ανδρων Τη γυναικοφυη σκιεροις ήσκημενα γυιοις (17). 219 O de' bruti selvaggi, allor si dice Che nascon essi; e quando si discioglie Il miscuglio di lor, ch' han trista morte, Lib. II. Come nel separarsi il fuoco trasse De' maschi i germi oscuri, e delle donne, Che piungon molto, odimi, che 'l dire Rozzo non è, nè fuor sen va del segno. Perfetti in prima dalla terra i tipi Spuntaron tutti. Ma siccome il fuoco Su n'esulò il suo simil -bramando, Restaron quelli sol umide forme, e l'immago per lor parti aventi. Però nel tipo de' lor membri ancora Non mostravan ľamabili fattezze Del corpo, non ancor l'organ di voce, Nè la natia degli uomini favella. L'acqua, Nascon de' mostri con due facce, o petti.. Bovi son questi con umano volto, Comini quelli con bovina testa, D'opachi membri son forniti, e tutti e e 2 2 20 Η μεν πολλαι κορσαι αγαυχενες εβλαστησαν Οφθαλμοι δε επλασθησαν γαρ πτωχοί μετωπων (18 Βραχιονες γυμνοι χωρίς μορφονται γε. ωμων (19). Τατον μεν βρoτεων μελεων αριδαιαστον ογκον • Αλλοτε μεν φιλοτητα συνερχομεν' ας εν απαντα Για το σωμα λελογχε βια θαλέθοντος εν ακμή. Αλλοτε δ ' αυτε κακησι διατμηθοντ ’ εριδεσσιν Πλαζεται ανδιχο εκαστα περι ρηγμινι βιοιο. Ως αυτως θαμνοισι και ιχθυσιν, υδρομελαθροις Θηρσιτ’ οραμελεεσσιν ιδε πτεροβασμισι κυμβας (20 Σδε δ αναπνα παντα και εκπγ: πασι λιφαιμο ! Σαρμων συριγγες πυματον κατα σωμα τετανται Και σφιν επιστομίοις πυκνοις τετρηντα αλοξι Ριγων εσχατα τερθρα διαμπερες. ωστε φαγον μεν Σ 221 L'han di maschio, e di donna insiem confusi Sorsero teste senz' aver cervici. Privi di fronte furon fatti gli occhi. Nude le braccia senza spalle fatte, I membri umani giaccion tutti in massa Bella, e vistosa. Per anior talvolta S' uniscono tra loro, e corpo a caso Nel fior si forma della verde etate. All'opposto talor spiccansi i membri Per trista lite, e quà e là d' intorno Alla spiaggia di vita erran divisi. Apvien ciò pure agli alberi, alle fiere Che montanine son, a pesci ancora Abitator dell acqua, ed agli uccelli Che solcan l ' aria coll ' alate cimbe Ecco nel respirar come da tutti L' aer dentro si tira, é fuor si manda, Delle vene i canali si propagano Agli estremi del corpo, e metton capo Delle nari ne' solchi, in cui le punte 2 2 2 Σ Kευθαν αιθερι δ ευπορίαν διο οισι τετμησθαι Ενδεν επαθ οποτ.ν μεν επαίζη τερεν αμα Αιθαρ παφλαζων καταϊσσεται οίδματι μαργω. Ευτε δ ' αναθρησκ 4 πμλιν εκπν: 1. ωσπερ οταν πας Κλεψυδρας παιζοσα δι ευποτρος καλκoιο Ευτε μεν αυλα πορθμον επ' ευκαδα χερι θισα Εις υ2τος βαπτητι τερεν δεις αργυφεοιο Ουδε γ' ες αγγος ετ’ ομβρος εσέρχεται αλλα μιν εργ ! Αερος όγκος εσωθι πεσων επί τρηματα πυκνα Σισοκ α τ οστεγασι πυκνον ρέον. αυταρ επάτα Πνευματος ελλειποντος εσέρχεται αισιμων υδωρ. Ως γ' αυτως οθ' υδωρ μεν εχω κατα βενθεα καλκα Πορθμα χωσθέντος βρoτεί » χροι ηδε πορο! ο Αιθήρ δ' εκτος εσω λελιημενος ομβρον ερυκα Αμφι πυλας ισθμοιο δυσηχεος ακρα κρατύνων Εισοκε χέρι μεθ, τοτε δ' αυ παλιν εμπαλιν και πριν Πνεύματος εμπίπτοντος υπεκθι αισιμον υδωρ - Ως δ' αυτως τερέν αιμα κλαδισσομενον δια γυιων Οπποτέ μεν παλινoρσον επαιν5 μυχονδε Θατερον ευθυ, ρεμα κατερχεται οι ματι θυον Ευτε δ' αναθρων Α4 παλίν ειπν.4 ισον οπισσα (21). 223 Hanno sturate, Ma di sangue in parte Sono que tubi, e non del tutto pienii. Però calando giù s'occulta il sangue, E lascia all ' aer libera ed apertit Dell'entrata lu vir per le bouciucce. Avvien cosi, che quando il sangue molle In gil si lancii nell'interno, tosto L'aria, che ferve, con sue vacue bolle Entra con furia. E quando poi balzando Ritorna il sangue, torna fuor di nuovo Uscendo l'aria. Guarda quà donzella Intenta a trastullare colla clessidra Di facil bronzo, ch'al martello regge. Empier d'acqua la vuol: perciò ne tura Colla sua bella man prima la bocca Dell'orifizio, e quindi per la base Di spessi forellin tutta bucata L'immerge in mezzo della limpid' acqua. in questa intanto dentro non penétra Perché l'aria racchiusa nella clessidra Sovrastando a' forami con la molla L ' acqua preme, sospinge, ed allontana. Che se appena riapre la donzella Il già chiuso orifizio, di repente Ως δ ' οτε τις προοδον νοεων ωπλίσσάτο λυχνον Χειμεριην δια νυκτα πυρος σέλας αιθομελοιο 225 L'aria sen fugge; e come questa manca L'acqua fatale, che presiede all' ore, Ch'entrar pria non potea, entra nel vaso. La clessidra è già piena: or la donzella In altra guisa guarda là, che gioca. Ella con man turandone la bocca Dalla base forata vuol che cada L' acqua fatale, di cui quella è zeppa. Ma cupido d ' entrar laer di fuori Quasi forte confin l ' acqua ritiene Intorno á forellini gorgogliante. Se quella poi leva la mano, allora All'opposto di pria laer di sopra Cadendo all ' acqua ý giù la manda, è questa Per gli forami della base gronda. Tal è del sangue, che colante scorre Per le membra. Se presto si ritira Affollandosi in dentro, allor di colpo Schiumosa l' aria con vigor rientra. Poi quel ratto s' avanza, e questa fuori Esce coil passo egual retrocedendo. Come d'inwerno per l'oscura notte Chi prende a viaggiar prima prepara - ff 226 Αγας παντοίων ανεμων λαμπτηρας αμοργός Οιτ ' ανεμων μεν πνευμα διασκιανασι αεντων Φως δ ' εξω διαθρωσκον οσον ταγαωτερον ηεν Λαμπεσκεν κατα βηλον αταρεσι ακτινεσσιν. Ως δε τον εν μηνιγξιν εεργμενον ωγυγίον πυρ Λεπτησιν οθονησιν εχευατο κακλοπα κερης Αι δ ' υδατος μεν βενθος απεστεγον αμφινααντος Πυρ δ ' εξω διαθρωσκον οσον τανάωτερον Μεν (22) U Βιβλ. και Ου τοσε τι θεος εστιν και τοτε και τοδε Ουκ έστιν πελασθαι εν οφθαλμοίσιν εφικτος Ημετέροις η χέρσι λαβαν υπερτε μέγιστη Πειθες ανθρώποισιν αμαξιτος ας φρεγα πιπτα. Ου μεν γαρ βροτεη κεφαλη κατα γυια κεκασθα Οι μεν απαι γωτων γε δυο κλαδοι ασσεσιν (227 Lampade,.e lume di un ardente fiamma, E poi li mette dentro una lanterna, Che da venti difenda la fiammella; Perchè di questi come van spirando Disperge il soffio. Ma di fuor si lancia La luce, intanto, e quanto più si estende, Tanto illumina più presso la struda Corai di notte vincitor non vinti; Cosi il naturale antico fuoco, Che la pupilla circolure irradia, Stassi dell' occhio in le membrane chiuso Sottili al par di vel, che dall ' umore, Il quale in copia dall' intorno scorre Tutto il difendon. Ma di là movendo Quanto più lungi puà fuori sį spande. Lib. III: 1 Nè questo, o quello, nè quell' altro è Dio, A noi cogli occhi non è mai concesso Di poterlo veder, nè colle mani Di poterlo trattar: che della mente Esser suole la via grande, e comune, Per cui persuasion entra nell' uomo. 228 Οι ποσες και θοα γουνα παι μηδεα λαχνηεντα Αλλα Φρην ιερη και αθεσφατος επλετο μενον, Φροντισι κοσμον άπαντα καταϊσσεσα θοησιν (23 ) ΠΕΡΙ ΦΥΣΕΩΣ. Ει δ ' αγε νυν λεξω πρωθ ηλιον αρχην Εξ ων δη εγενοντο τα νυν εσoρωμεγα παντα Ταράτε και ποντος πολυκυμων ηδ' υγρος αηρ Τιταν η δ αθηρ σφιγγων περί κυκλoν απαντα (24) 229 Iddio non è di mortal capo ornato, Che su membri s'estolle. A lui sul dorso Non spiegansi i due rami. Egli non have Ginocchia, che al cammin ci fan veloci. Egli piedi non ha, nè quelle parti Che vergogna, e lanugine ricopre. E mente sol, è sacra mente Iddio, Ch'esprimer non si può da nostra lingua: In un istante tutta la natura Col veloce pensier ricerca, e scorre. DELLA NATURA. V B R SI Che non si sa a quale de tre Libri appartengono. Dirotti in prima co' mięi versi d' onde Ebbe origine il Sole, e d'onde ogn'altro Che noi veggiam; l ' ondoso mar, la terra L'aria, che nel suo sen chiude, e raccoglie Ogni umido vapor, la luce, e letere Che tutto cinge, e tutto intorno avvolge. 23ο Πως και δενδρεα μακρα και ειναλιοί καμασκνες (25 ) Ειπερ, απαρονα γης τε βαθη και δαψιλος αθηρ Ως δια πολλων δη γλωσσης ρηθεντα ματαιως Εκκέχυται στοματων ολιγον τε παντος ιδόντων (26) Ουδε τι τα παντος κεγεον πελα ουδε περισσον (27 ) Ως γλυκυ μεν γλυκυ μαρπτε πικρον δ ' επι πικρον Ορέσες οξυ ο επ ' οξυ εβη θερμον δ εποχευετο θερμος (28): Γνους οτι παντων « σιν απορροια οσσ ' εγένοντο (29) Kευθεα θηριων μελεων μυκτηρσιν ερευνων (3ο) Ούτω γαρ συνεχυρσε θεων τοτε πολλακι δ ' αλ λος (31). 23 In qual maniera furon pria formati E gli arbor alti, ed į marini pesci. Per la lingua di molti invan discorre La terra, e l ' Eter non dver con fine Quella nelle radici e questo in alto. Ciò la bocca di color si sparge per Che nulla, o poco sanno, e guardan lungi Colla veduta corta d'una spanna » Vacuo non c'è, e nulla pur ridonda; U Dolce a dolce s' unisce, ed all' amaro Corre l'amaro, e l'aspro all aspro vanne, E verso il caldo si conduce il caldo. Ogni corpo, ch ' esiste, il dei sapere, Vibra lungi da se parti vaganti, Fiutando indaga le ferine tane, Tale in quel punto s’intoppò correndo Ma in altra guisa per lo più s' avviene 233 οπη συγεκυρσεν απαντα (35). Η δ ' αυ φλοξ ιλααρα μινυνθαδικαις τυχε γαιης (33 ) Κυπρίοδος εν παλαμης πλασέως τοιηστε τυχοντα (34 ) Τη δε μεν ιοτητι τυχης πεφρονήκεν απαντα (35 ) (Και καθ' οσον μεν αρμοτατα συγκυρσε πεσοντα(36) Αλλα οπως αν τυχη (37 ) ΓIαντα γαρ εξακης πελειζετο γυια θεσιο (38) Και δα παρ’ ο δη καλαν έστιν ακουσαι (39) Ενθ' ουτ' ηελιοιο διειδετο ωκεα γυια (40) Αρμογιης πυκίγως κρυφα εστηρικτα (41 ) Σφαιρος κυκλοτερης μοί1 περίγ 19 εκων (42 ) 237 Dove ogni cosa s' imbatte i Fiamma lunare s' incont Insiem con Terra, che Nelle man di Ciprigna cost Col parer di fortuna al tutto intese In quanto a caso s'accordar tra loro Nell'incontrarsi Ma come sorte volle Tutte di mano in man le membra scosse Furon del Dio Ciò, che è bello convien, che si ripeta Le pronte membra non vedeano il Sole Salde in occulto d' armonia fur fatte In tonda sfera stretto quasi il tuttó 234 Αυξα δε χθων μεν σφετέρος γενος αθερα δ ', αι: θηρ (43 ). Κατα το μαζων εμιγνυτο δαιμονι δαμων (44). Αιθηρ μακρησι κατα χθονα δυετο ριζας (45 ). Οινος απο φλοιου πελεται σαπεν εν ξυλω υδωρ (46) Αλλα διεσπασθαι μελεως φυσις ή μεν εν ανδρος Η γ ' εν γυναικος (47 ). Μηνος εν ογδοατα δεκάτη που επλετο λευκον (48) Ως δ ' οτ’ οπος γαλα λευκών εγομφώσει και εδη - σεν (49). Ουτω δε ωοτοκει μικρα δενδρα πρωτον ελαιας (5ο ) Νυκτα δε γαια τιθησιν υφισταμενη φαεισσι (51 ) 235 Lieto dell'unità solingo gode: > Aria ad aria s ' aggiunge, e terra a terra; Il minore al maggior spirto s' unisce: Della terra le barbe aer penetra; L'acqua scomposta sotto la corteccia Vino diventa, Della prole le membra stan dis ise Parte nel maschio, e parte nella femina, Al giorno dieci dell' ottaro mese Nelle poppe si forma il bianco latte. Come gaglio rappiglia il bianco latte, Cosi da prima partoriscon l'uovo Gli arbor non alti della verde uliva Luce impedendo fa la terra notte. an 2 236 Ήλιος οξυβελης ηδε ιλαϊρα σεληνη (52 ). απέσκεδασε.αυγας Ες γαμαν καθυπερθεν απεσκιφωσε δε γαιης Τοσσον οσοντ ’ ευρος γλαυκωσιδος επλετο μηνης (53. Гщи ру тар уцау апожариву детi * Uдор Ηερι δε ηερα διον ατάρ πυρι πυρ αιδηλον Στοργην δε,στοργη κακος δε τε νεικεί λυγρω (54). Παντα γαρ ισθι φρονησιν εχαν και σωματος αισαν(53 Λιματος εν πελαγεσι τετραμμενα αντιθρωντος Τη τε νοημα μαλιστα κικλεσκεται ανθρωποισιν Αιμα γαρ ανθρωπους περι καρδιον εστι νοημα (56). Προς παρεον γαρ μητες αεξεται ανθρωποισι (57 ). οθεν σφισιν ας Και το φρογαν αλλοια παριστατα (58 ). 1. 237 Dolce è la Luna, e durdeggiante il Sole. Disperge i raggi sulla Terra, e sopra Tant è la luce, che le fura, quanto Il disco è largo della glauca Luna. Terra veggiam con terra, acqua con acqua, Aer divin con aere, e lucente Fuoco con fuoco, e con amore ' amore, E veggian lite con dannosa lite. Uomini, bruti e piante ben lo sai Han tutii mente, e parte di ragione, Stassi la mente dove più ridonda II sangue, che su giù sempre si muove, Perchè dal sangue, che circonda il core Il pensiero nell' uom sua forza prende; Il pensare dell' uom cresce e al presente Però il pensare sempre a lui diverse Mostra le cose. 238 Ενδ ' εχυθη καθαροισι τα δε τελετουσι γυναικες Ψυχεος αντιασαντα (59 ). Νηπιοι και γαρ σφιν δολιχοφρονες ασι μεριμνα Οι δε γενεσθαι παρος εκ εον ελπιζασιν Ητοι καταθνησκαν τε και εξολλυσθαι απαντη (6ο ), Αλλα κακοίς μεν καρτα πελ4 κρατ€8 σιν απιστών, Ως δε παρ' η ιετερης κελεται πιστωματα μεσης Γναθη διατμεζεντα ενι σπλαγχνοισι λογοιο (61 ) Ταυτα τριχες και φυλλα και οιωνων πτερα πυκνα Και λεπίδες γιγνονται επί στιβαροισι μελεσσιν (62 ) αυταρ ελικος οξυβελας νωτοισι δ ' ακανθι επιπεφρικασι (63 ). Της δαφνης των φυλλων απο παμπαν εχεσθαι (64) 239 Col solito calor si forma il maschio Ma se l'utero poi s'affredda a caso La famina ne vien. Stolti non lungi col pensier veggendo Prendon lusinga di poter esistere Ciò, che innanzi non fu, o quel, ch'esiste Potersi in tutto struggere, e perire. Il malvagio non crede, e non cedendo Alla forza del ver, trionfo meni, Ma cosi detta, e vuole, che tu creda La nostra musa. Tu dentro l'interno I detti scissi, ne penétra il senso. Della stessa natura sono i peli, Degli arbori le frondi, e degli uugelli Le fulte piume, o pur le squame sparse De' pesci sopra la ben soda carne. Ed il riccio marin, a cui le spine Acute gli si arricciano sul dorso, Dalle foglie d' allor la man ritieni 240 Τετο μεν εν κογχασι θαλασσονομοις βαρυνωτοις Και μην κηρυκαντε λιθορρινων χελυωντε Ενθ οψε χθονα χρωτος υπερτατα ναιεταεσαν (65) Βυσσω δε γλαυκης κροκο καταμισγεται (66). Φυλος αμουσον άγουσα πολυστερεων καμασκηνων(67 κορυφας ετεράς ετεραισι προσαπτων Μυθων μητε λεγαν ατραπον μιαν (68). Νυκτος ερκμαιης αλαωπιδος (69). Αλφιτον υδατι κολλησας (7ο). θαλλαν Καρπων αφθονιισι κατ ηερα παντ εγιαυτον (71 ). Ουδε τις ην κανοισιν Αρης θεος, ουδε Κυδοιμος Ουδε Ζευς Βασιλευς, ονδε Κρονος, ουδε Ποσειδων Αλλα Κπρις Βασιλαα. 241 Del mar le conche di pesante dorso, Il murice riguarda, e le testuggini Che son coperte di petrose scaglie: Bene in questi aninai veder tu puoi Come del corpo sta la terrợ in cima. Si mischia al bisso il fior del croco azzurro. La goffa turba de' fecondi pesci Guidando Somma a sonima giungendo del discorso Per diversi sentier prender cammino Della solinga tenebrosa notte Coll acqua unendo la farina d'orzo. Germoglian ricchi di lor frutta in tutte Le stagioni dell'anno in mezzo all' aria. Marte non han qual Nume, nè Minerva Del tumulto guerriero eccitatrice: A Nettuno, a Saturno, Giove il rege hh ) 242 Την οιν' ευσεβεεσσιν αγαλμασιν ιλασκονται Γραπτοις δε ζωοισι, μυροισι τε δαδαλεοδμοις, Σμυρνης τ' ακρητου θυσιαις λιβανου τε θυωσους Ξουθων τε σπονδας μελιτων ριπτοντες ες ουδας (72 Στανωποι μεν γαρ παλαμαι κατα για κέχυνται Πολλα δε σαλεμπη α τατ ’ αμβλυνεσι μεριμνας Παυρον δε ζωησι βια μερος αθροισαντος Ωκυμοροι καπνοίo δικην αρθεντες απεπταν. Αυτο μονον πασθεντες οτω προσεκυρσεν εκαστος Παντος ελαυνομενοι και το δε ολον ευχεται ευρειν Ουτως ατ’ επιδερκτα τα δ' ανδρασιν ετ ' επακιστα Ουτε νοω περιληπτα (73). ή και συ 80 επα ωο " ελιασθης Πευσεαι.ε πλεον γε βροτάη μητις ορωρε (74). 243 Negano omaggio; e prestan solo il culto A Venere Regina, che sdegnata Placan con santi simulacri, e pinti Animali, e con mille odor, che l'arte Ingegnosa travaglia, o co' profumi Di pura mirra, e d'incenso spirante Soave odore, e fanle sagrifizio Sopra la terra il biondo miel spargendo. In parte angusta delle membra è sparsa La nostra mente. Abbonda pur la cispa Ch' ottenebra il pensier, e ne' viventi Poch'è la porzioni di vital forza, Che qual fumo sen fugge, allorchè morte Di repente ei fura. E quindi ognuno, D' ogni parte sospinto, sol di quello, Cui per sorte s' avvien, resta sicuro. Altero intanto di trovar presume Tutto, e saper ciò, che non puossi ancora Nè veder, nè sentir, nè colla mente Comprendere dall ' uom. Giacchè vagando in guisa tal ti scosti Prendi consiglio da ragion; che l'uomo hh 2 244 Αλλα θεοι των μεν μανιην αποτρεψατε γλωσσης Εκ δ ' οσιων στοματων, καθαρην οχετευσατε πηγην Και σε πολυμνηστη λευκο λενε παρθενε μεσα Αντομαι ων θεμις εστιν εφημερoισιν ακ84ν Πεμπε παρ' ευσεβιης ελασσ' ευημιoν αρμα Μηδε σεγ ευδοξοιο βιησεται ανθεα τιμης Προς θνατων αγελεσθαι εφ ω ' οσιη πλεον απον Θαρσα και τοτε δη σοφιης επ ακροισι θοαζη Αλλα γαρ αθρεα πας παλαμη πη δηλον εκαστον Μητε τιν οψιν εχων πιστει πλεον η κατ’ ακτην Η ακοην εριδαπών υπερ τρανωματα γλωσσης Μητε τι των αλλων οποση πορος εστι νοησαι Γυιων πιστην ερυκε γορα θ ' η δηλον εκαστον (75). 245 Col suo saper più oltre non s'inalza. Dalla lor lingua, santi numi, tale Furor cacciate, e dalle vostre bocche La purissima vena in lor sgorgate. Te Verginella bianchibraccia musa, Cui più corteggian disiosi amanti, Te prego attente a porgermi l'orecchie A fin di quello udir, che lice all ' uomo, E come te non pungerà la gloria Fiori a coglier d'onor presso i mortali, Perciò più cose ti potrò svelare. Ma agitando i destrier docili al freno Porta da Religion lontano il carro. Prendi fidanzı: andrai ratta a sedere Di sapienza allor sull’ alta cima. Colla ragion contempla il tutto, e vedi Ciascuna cosa chiarų si, che certa Ti si dimostri. Ne maggior la fede Presta al senso di vista, che all' udito; Nè all'orecchio, che raccoglie i suoni Credi più della lingua, che discopre Le cose. Nè all'una più, ch' all'altra Credi di quelle vie, per cui ci viene 246 Πεση Φαρμακα και οσσα γεγασι κακών και γηραος αλκας ετα μενω σοι εγω κρανεω ταδε παντα. Παυσις δ ' ακαματων ανεμων μενος οιτ' επι γαιαν Ορνόμενοι πνοιαισι καταφθινυθουσιν αρουραν Και παλιν ην και εθελησθα παλιντονα πνευματ' επαξές Θησεις δ ' εξ ομβροια κελαινα καιριον αυχμον Ανθρωποις θησας δε εξ αυχι8οίο θεραου Ρευματα δενδρεοθρεπτα τα δ' εν θερι αησαντα Αξας δ ' εξ αΐδαο καταφθίμενου μενος ανδρος (76). 247 La notizia de' corpi, ed il pensare. De' sensi in somma poni giù la fede: Ti sia guida ragion, onde discerna In ogni cosa chiaramente il vero. Quanti i rimedi fugator de' morbi, Come vecchiezza si conforti, udrai. Che tutto a te io solamente suelo, De' venti infaticabili frenare L'ira saprai; che con furor piombando Sopra la terra, col soffiare, i campi Guastano tutti; o pur se n'hai piacere Concitar li potrai, se son tranquilli. Saprai d'inverno tra procelle scure Produr di state il lucido sereno, O pur nel fitto della secca state Produr le piogge, che nutriscon gli alberi, E del caldo l'ardor tempran movendo Aure soavi. Giungerà tua forza Sin dall'inferno a richiamar gli estinti. 248 ΠΕΡΙ ΚΑΘΑΡΜΩΝ. Ω Φιλοι οι μεγα αστυ κατα ζανθου Ακραγαντος Ναιετ ακρην πολεως αγαθων μεληδεμονες εργων χαιρετ. εγω δ υμιν θεος αμβροτος ουκ ετι θνητος ΓΙωλευμα μετα πασι τετιμένος ωσπερ εοικε Ταινίας τε περιστεπτος στεφεσιν τε θαλαιης Τοισιν αμ’ ευτ ’ αν ικωμα ες αστεα τηλεθοωντα Ανδρασι ηδε γυναιξι σεβιζομαι. οι δ ' αμ' εποντα Μυριοί εξερεοντες σπη προς κερδος αναρπος Οι μεν μαντοσυνεών κεχρημενοι οι δε τι νουσων Παντοίων επυθοντο κλύειν ευηκέα βαξιν (77). Αλλα τι τοις δ ' επικειμ' ωσει μέγα χρημα τι πραση σών Ει θνητων περιειμι πολυφθορεων ανθρωπων; (78 ). 249. DELLE PURGAZIONI. Salvete, o miei diletti, abitatori Dell' alta rocca, e della gran cittate, Che del biondo Acragante bagnan l’acque. Salvete, o cari, cui virtute è cura. Immortale sori Dio, nè qual mortale Sto più tra voi, d'onor, siccom'è giusto, Pieno fra tutti. Allorchè cinto il capo Di larghe bende, e di festanti serti Io porto il piè sulle città fiorenti, Corrono, e maschi, e donne a darmi culto. E mille, e mille, che là van col passo Dove dritto il sentier li mena al lucro, Ali s'affollan d'intorno nel cammino: E mi seguono ancor quelli, che intenti Stansi a svelar dell'avvenir gli arcani, Ed altri, che saper bramano l'arte Sagace di guarir qualunque morbo. Ma perchè mi dilungo tali cose Nel riferire, quasichè d'eccelse Gesta pur si trattasse, se vincendo Ogni mortal, sopra di lor m’inalzo? ii 25ο Σ Εστι δε αναγκης χρημα θεων ψηφισμα παλαιον Ευτε τις αμπλακιησι φονω φιλα γυια μιανη Δαιμονες οιτε μακραιωνος λελογχασι βιοιο Τρις μιν μυριας ωρας απο μακαρων αλαλησθαι Την και εγω νυν αμι φυγας θεοθεν και αλήτις Νακεί μαινομεγω πισυνoς (79). Αιθεριων μεν γαρ σφε μενος ποντον δε διωκεα Ποντος δ ' ες χθονος ουδας ανεπτυσε γαιαδες αυ γας Ηελία ακαμαντος οδ ' αιθερος εμβαλε δινας Αλλος δ ' εξ αλλε δεχεται στυγερσι δε παντες (8ο αγα λοιμωγατε και σκοτος ηλεσκέσις (81). 251 be E ' volere del fato, è degli Dei Decreto antico, che s'alcun peccando Di quegli spirti, che sortiron vita Lunghissima, lordò le proprie mini Quasi di sangue, sia costui cacciato Lungi dall' alte sedi, in cui beata Vivon, vita gli Dei, e vada errante In репа del fallir tapino in terra, Finché ritorni primavera ai campi Tre volte dieci mila; ed un di questi Io son, ch' ora dal Ciel men vo lontano Vagando quà, e là esul ramigo, Solo in poter di furibonda lite. } L'aria gli spirti, che falliro, caccia In mar con forza, il mar li getta in terra, La terra li rigetta su lanciando Del sole infaticabile ne' raggi, D ' aria nel turbo il sole infin gli scaglia. L'un dopo l'altro van cosi girando, E tutti traggan pien di duolo i giorni. Van per gli prati, e per lo scuro erranti ii 2 252 Ενθα φόνoστε κοτοστε και αλλων εθνεα κηρων (82 ) Κλαυσα τε και κοκυσα ιδων ασυγηθεα χωρον (83 ) Ω πoπoι η δειλον θνητων γενος ω δυσανολβον Οιων εξ εριδων εκ τε στoναγων εγεγεσθε (84). Εξ οιης τιμης και οι μηκεος ολβα (85). Εκ μεν γαρ ζωων ετιθεα νεκρα «δε' αμκβων (86) Σαρκων αλλογνωτί περιστελλασα χιτωνε Και μεταμπεχασα τας ψυχας (87). Ηλυθομεν του ' νπ ' αντρον υποστεγον (88). Ηδη γαρ ποτ' εγω γενομενην κεροστε κορητε Θαμνοστ’ οιωνοστε και εν αλι ελλοπος ιχθυς (89). Εν θηρσι δε λεοντες οραλεχεες χαμαιεύναι Γιγονται σαν ναι εγι δενδρεσιν ηύκομοισιν (go ). 253 Ivi la stragge, e l'ira, ivi tant' altri Mali hanno sede. Insolito abitar vedendo piansi. Ah ! La razza mortal quant' è meschina ! Quanto infelice ! Quali affanni, e liti Siete nati a soffrir ! Da quale onor son misero caduto, Da qual grandezza di felicitate, Da vita a morte son, forma mutando L'alme involgendo, e quasi ricoprendo Della straniera veste delle carni. inIn quest'antro coperto al fin siam giunti. Fanciullo io fui un di, donzella, uccello, Albero, e senza voce in mar fui pesce, Qual sopra ogn'animal s'alza il Leone Giacente in terra, abitator de monti 254 Εν9 ' ησαν χθονιητε και Ηλιοπη ταναίτις Δηρίς θ ' αιματοεσσα και αρμονίη ιμερωπις Καλλιστω τ’ αισχρητε θοωσατε Δαναητε Νημερτης τεροεσσα. μελαγκαρπος Ασαφια (91 ) Ξεινων αιδοιοι λίμενες κακοτητος απαροι (92). 2 φιλοι οιδα μεν εν οτ ' αληθαη παρα μυθους, Oυς εγω εξερεω, μαλα δ' αργαλειτε τετυκται Ανδρωση και δυσζηλος επι φρενα πιστέος ορμη (93) Ουκ αν ανηρ τοιαυτα σοφος Φρεσι μαιτεύσατο Ως όφρα μεν τε βιωσι το δε βιοτον καλεσιν Τοφρα μεν εν εστι και σφι παρα δειγα και εσθλα Πριν δε παγασαι βροτοι λυθεντες τ ’ εδεν αρ' εισιν(94 Αλλα το μεν παντων νομημον δια τ’ ευρυμέδοντος 255 Tal su gli arbor fronduti il lauro eccelle. Chtonia gº era là con Eliope Di larghi occhi, e la cruenta Deri Con armonia, piena d'amor, nel volto. Vera del par Thoòsa, e Deinèa E la turpe Callisto, e insiem l'amabile Nemerte, ed Asafia, che il tutto oscura O Gergentini di mal fürè ignari Degno porto d'onor degli stranieri. Io, mici cari, so ben ', che nel mio dire Stassi la verità dentro nascosa, Ala della fe la forza l'uom travaglia E pena, e dispiacer gli reca in mente. Saggio non v'è, che possa con sua mente Pensar, che l'uomo mentre vive questa, Che chiaman vita, esista solo, e colga E beni, e mali; si che l'uomo nulla Sia prima il nascimento, e dopo morte. Ma questa legge pubblicata a tutti 156 '. Αιθερος ηνεκεός τετατα δια τ ' απλέτε αυγης (95). Ου παυσεσθε Φονοιο δυσηχεος'; 8κ εσoρατε Αλληλες δαπτόντες ακηδεμησι νοοιο;. Μορφήν δ ' αλλαξαντα πατηρ φιλον υιόν αερας Σφαζα επευχομενος μεγα νηπιος και οι δε πορευντα Λισσομενοι θυοντες οδ ' ανηκοστος ομοκλεων Σφαξας εν μεγαροισι κακης αλεγυνατο δαχτα Ως δ ' αυτως πατερ' υιος ελων και μητερα παιδες Θυμoν απορραισαγτα. φιλας κατα σαρκας εδεσι (96) 4. Oιμοι οτ’ και προσθεν με διωλεσε νηλεές ημας Πριν σχετλι’ εργα περι χειλεσι μητισασθα ! (97 ) 257 Dell' aria si distende per l'immenso Splendore, e l'alta region dell Etere Che per lunghezza, e per larghezza è vasto.? Ancor si sparge per le vostre mani IL sangue gorgogliante degli animai? Ah non vedete colla mente piena Di sprezzo, che sbranandovi, a vicenda Vi diorate? E che mutata forma Il padre alzando il suo caro figliuolo Lo scanna, e pazzo grandi cose prega Tutti color, che sacrifizj fanno, Sen van supplici orando; ma quest'altro Nell'atto di scannar gridi mandando D' udirsi indegni, in segno di minaccia Malvagio in casa desinar prepara. Cosi talora avvien, che danno morte Il figlio al padre, ed alla madre i figli, E questa, e quel fucendo privi d'anima Le care in cibo ne trangugian carni. Perchè crudele il di ah non mi spense Prima, ch'avessi fatto il gran peccato D' appor tal cibo sopra le mie labbra ! kk 558 Ταυρων δ ' ακρίτοισι φονοις και δευετο βωμος Αλλα μυσος τετ ' εσκεν εν ανθρωποισι μεγιστον Θυμoν απορρασαντας εεδμεναι ηϊα γυια (98 ). Τοι γαρ τοι χαλεπησιν αλυοντες καιστησιν Ου ποτε δαλαιων αγιων λεωφησετε θυμον (99). Ολβιος ος θαων πραπιδων εκτησατο πλετον Διαλος δω σκοτοεσσα θεων περι δοξα μεμπλε (ιοο) Εις δε τελος μαντάστε και να τοπολοι και 1ητροι Και προμοι ανθρωποισιν επιχθονίοισι πίλονται Ενθεν αναβλαστασιν θεοι τιμηση φεριστοι (101 ). Αθανατους αλλοισιν ομεστιοι αυτοτραπεζοι Ανδρομεων αχεων αποκληροι εοντες απειροι (102). 259 Non macchiava l'altar sangue innocente De’ tori un di. Ma sommo allor misfatto Dagli uomin si credea privar dell' anima Gli animai, e divorarne i membri in cibo. Chi dalla colpa, che da se molesta, E ' tormentato, non avrà nell' animo Mai requie al suo misero dolore. Felice è quegli, che possiede i beni Della mente divina, ed infelice E' quel, che male degli Di pensando Ne porta tenebrosa opinione. 7 I vati infine, ed i cantor degl' inni I medici, ed i forti capitani, Che de' terrestri uomini son guida Ivi rinascon Dü d'onor prestanti. Nella stessa magion, a mensa stessa Stando cogli altri Dii, d'ogni vicenda D'ogni umarło dolor futti già privi. kk 2 16ο Ην δε τις.ν κανοισιν ανηρ περιωσια αθως Ος δη μηκιστον τραπιδων έκτησατο πλετον Παντοίων τε μάλιστα σοφων επικράνος έργων Οπποτε γαρ πασησι ορεξατο πραπιδεσσι Ραγε των οντων παντων λευσεσκεν εκαστα Και τε δεκ ' ανθρωπων και τ' ακoσιν αιωνεσσι (103) ΕΠΙΓΡΑΜΜΑΤΑ Περι Ακρωνος • Ακρον ιατρον Ακρων ακραγαντινον πατρος ακρου Κρυπτα κρημνος ακρος πατριδος ακροτατης Τιγες δε το δευτερον στιχον ουτω προφέρονται Ακροτατης κορυφής τυμβως ακρος κατεχα (104) 261 5 Tra quelli o'era l' uom sopra d'ogn ' altro Eccelso nel saper, che della mente L' altissimo tesor chiudea.nel seno. Egli pieno d'amor tutti indagava De' sapienti i fatti, e le scoperte Dotte di lor. E quando del suo spirto Ogni forza intendeva, ad una ad una Tutte schierate le cose reali In dieci o venti secoli abbracciando Rapidamente col pensier vedea. EPIGRAMMI INTORNO AD ACRONE. L'alto di gran saper medico Acrone, Nato dun alto padre in Agrigento Alta, rupe tien alta per sepolcro Della sua patria posto in alta cima. Alcuni leggono così il secondo verso Alta tomba ritien sull' alta cima аба. Περι Παυσαγικς Παυσαγι: ιητρον επωνυμον Αγχίτου υιον Φωτ’ Ασκλεπιαδης πατρις εθρεψε Γελα Ος πολλούς μογεροίσι μαρανομένους κεματοισι Φωτας ατέστρεψαν Φερσεφονης αδυτων (1ο5).. Δειλοί πανδειλοι κυαμας απο χειρος, εχεσθαι, Ισον τοι κυαμες τρωγειν κεφαλασθα τοκων (106 ) Ναν μα τον αμετερας σοφίας ευρoντα τετρακτην Παγον αεγνας φυσεως ριζωμα τ' εχεσαν (107). 263 Di Pausania. Il medico che nomasi Pausania E' d' Anchito figliuol', è discendente Degli Asclepiadi, ed ha per patria Gela, Che lo nutri. Costui molti languenti I'er penosi malor dalle segrete Di Persefone stanze a forza trasse. Versi d' incerto Autore attribuiti da alcuni ad Empedocle. Scostate, o miseri, del tutto in felici Dalle fave la mun: mangiar di queste Egli è privare i genitor del capo. Giuro per quel, che nella nostra scuola Scoperse il qucttro, che racchiude il forte, E la radice eterna di natura. ANNOTAZIONI ALLA R A O COITA D E FRAMMENTI. ANNOTAZIONI ALLA RACCOLTA D E FRA MM EN TI. (1 ) Questo verso si trova presso Laerz. 1. 8 in Emp. Egli dice ny de o lavraylas spwjeevas αυτε, ω δη και τα περι φυσεως προσπεφωνηκεν Pausania era amato da Empedocle, e que sti gli intitolò il suo poema sulla ' natura E siccome questo verso forma la dedica; cosi si è collocato il primo. La frase per quanto pare è Omerica come si può vedere Iliad. 11 V. 450 Iliad. 1: V. 451. (2 ) Presso Simplicio de Phys. aud. l. 8 p. 272 ediz. d'Aldo. Perchè questi due ver si si suppongono dagli altri, che li seguono, si son collocati prima. Per altro Plut. de exil. afferma che cosi cominciava la filosofia d'Empedocle. (3 ) IL 2. 3 verso son rapportati da Laerz. 11 2 263 che se 1. 8 in Emp. I primi tre da Sext. Emp. adv: Phys. 1. ģ, da Plut. de Pl. Ph. l. 1 cap. Tutti quattro poi da Stobeo Ecl. Phys. 1. i p. 26. Questi si sono premessi per la ragio ne ch'esprimono i quattro elementi, che sono base di tutta la filosofia d'Empedocle. Si conviene da tutti che sotto Giove è in: dicato il fuoco, e da Nesti l'acqua, condo Vossio de Idol. 1. 2. cap. 7 e Fabricio nelle note à Sesto Empirico deriva da yalay fluere. Vi è solo un disparere tra gli Scitiori per gli due simboli. Giunone e Plutone. Pois chè secondo Cic. de Nat. Deor. l. 2.cap. 26 Plut. l. 1. cap. 3. de Pl. Ph. Macrob. Satur. l i cap. 15, da Giunone è espressa l'aria; ed al contrario giusta Athen. Apol. 22. Achill. Tazio in Arat. Laert. I. 8 in Emp. Stobeo Ecl. Phys. 1. i Heracl. Allegaz, Omeriche,p. 443., -sotto il simbolo di Giunone è indicata la terra. E però per questi Plutone era la• ria, e per quelli la terra. Aïd oyeus in luogo di aïdris Om. 11. 20 V. 61. Esiod. Theog. v. 913. Hpn epoßios Omer. Hyinn. in matr. o. mnium '. Nella traduzione si è formato GIOTATO 2 per tmesi. 269 9 col. (4 ) Di questi versi il 7 e l'8 sono riferi ti da Laerz. in Emp. I. 8. Stobeo Ecl. Phys. 1. 1 p: 26. Dal 10 sino al 15 si trovano presso · Arist. Natur. Auscult. l. 8 cap. 1. Il. 22 presso Ciem. Alex. Strom. I. 5., ed il 21 e 22 presso Plut. Amat. Tutti poi eccetto il g e'l 10 sono rapportati da Simplicio de Phys. Aud. I. 1 p. 34 ediz. d'Aldo. Siccliè si è supplito il 10 con Aristotile, e'l lo stesso Simplicio come si vedrà alla (10 ). Questi versi che sono al numero di 36 fan parte del primo libro della natura. Poichè lo stesso Simplicio dice chiaramente sy 7pUTW TO φυσικών.99 και nel primo libro delle cose fisiche I versi 3, 4, 5 pajono d ' essere un'imi, täzione d'Omero. II. 6.v., 146, e 149. Il 5 portá P&T Th, ma si è cangiato in.dpuntu come più confacente al senso. Nel 6 in luo go di xdcepecei dinge si è posto 8T0T€ anges.co me Omero. Il. -10. V. 164. Nel z la paro la Qiaotati amicizia non significa in verità che ainore, siccome fa Omero. Il. 6 v. 161 c in quasi tutta l'ariade che dice QLXOTNTO felgympia rab. Dal 7 al 12 sembra di essere una sem 270 * plice imitazione d' Esiodo nella Theog. Poichè Empedocle mette in contrasto l'amore e lo dio come Esiodo fa colla notte e'l giorno. Ne’ versi 6, 13 e 32 si trova la parola ' deau Trepes. collocata nello stesso modo che suol fa re Opiero. Il. 10 v. 325 e 331. II. 12 v. 398. II. 19 v. 272. Odys. 4 V. 209. Odys. 7. v. 96. Odys. 10 v. 38. Odys.. 14 v. 11. Sicchè pare che l'orecchio d Empedocle era educato al suono de' versi Omerici, Nel verso 14 aloy Euroly alla maniera d'Omero. Il. 1 v. 290. Nel 16 reipata pewIwon siccome 0. mero παρατα τεχνης. Nel 20 1 ’ αταλαντον co me Il. 15 v. 302. Nel 21 è da dirsi che intanto, l'amicizia sia di lunghezza e larghez za eguale, in quanto i corpi possono risulta re da parti eguali de quattro elementi. Al meno questa interpetrazione pare più confa cente al suo sistema; se non si vuole abbrac ciare quella, che deriva dal pittagoricismo, per cui il numero quattro era il più perfetto. Nel 22 100. TEINTWS per attonito e Omerico. II. 4 v. 246. Nel 24 cina poves's dovrebbe esser nominativo giusta la Grammatica. Na si v. 271 lasciato in accusativo; perchè gli Attici alcuna, volta, coře si vede presso Aristof. in avibus, sogliono usare l'accusativo in luogo del nomi nativo. L'epye texti si trova spesso in Omero e in Esiodo: cosi Odys. 7 V. 272.Esiod. Theog. V, 89. Il 25 è simile a quello dell' Iliad. 9 v. 558, e pile d'ogni altro ad Esiod. Theog. v. 595. Nel 27 laratnaon è d ' Omero. II. 1 v. 526. Nel 30 il Trepiadojevolo è pari mente adattato al tempo e all'anno presso Omero'. Odys. iv. 16 ed Esiod. Opera v. ' 384. Nel 31 si osserva l'id atoange in fi. ne del verso come in Omero. Il. 6 v. 149. (5) I versi 12 e 13 si trovano presso Arist, Poet. cap. 25, e Ateneo lib. 10 p. 424. Tutti poi sono rapportati da Simplicio de Phys. aud. 1. i'p. 7 d' Aldo. Essi sono stati posti nel primo libro del poema; perchè Simplicio li riferice come quelli che precedeano altri, che da lui sono notati per versi del primo lix bro προ τετων των επων • Nel verso 7 è 11 si è scritto a Jey.TTW5 in luogo di queuent Ews come si legge in Sims plicio. Nel 10 si trova vtsupper feri ch'è d' 272 Omero II. 9 V. 502, Nell'ultimo, si ha l espressione Jaunese idiogui ch ' è comune presso Omero ed Esiodo: cosi Il. 18 v. 83. Odys. 13 v. 108. De scụto Herc. v. 140 ', ed in tanti altri lunghi dell' uno e dell'altro poe ta. Teocrito nell' Idyl.. 17 v. 77. non è dif ficile che avesse imitato Empedocle, dicendo egli εθνεα μυρια φωτων α εinmiglianzα di quel che dice il nostro poeta nel 8 verso e nel 14, (6 ).Simplic. de. Phys. aud. I. 1 p. 7. Quer sti versi sono quegli stessi innanzi a' quali di ce Simplicio ch' erun collocati quelli della na: ta (5 )..... L' epiteto Truji Payowymi è Omerico. II. 8 v. 320 e 435. Orfeo nell'inno all' etere, chiama l ' etere dotepo@ eyzes (7 ) I primi tre' versi sono presso Arist. de anima li i càp. 7, e tutti presso Simp. de Phys. aud. I. 2 p. 66 Aldo. Simplicio af ferma che appartengano al primo libro d' Em. pedocle λεγει εν πρωτω. Ε come sono dello stesso tenore della nota (6); cosi si sono si tuati vicino a quelli. Nel 1 verso επικαιρος in luogo di επίκρανος 273 è d'Omero. II. 1 v. 572, e il v. 572, e il xoayolai é ' Esiod. Theog. v. 865. Nel 3 l’ oGTEL deuxa è parimente d ' Esiod. Theog. v. 540, e 557 e d'Omero. Il. 24 v. 793. (8 ) I primi due versi si trovano presso Plut. de primo frigid., e il 7, 8, 9 presso Arist. de gen. et corrupt. Tutti presso Simpl. de Phys aud. l. 1 p. 8, e nella pag. 34 sono pre ceduti da due seguenti versi. 1 እእእ. αγε των δ * οαρων προτερων επί μαρτυρα δερκεί Ει τι και εν προτερoισι λιποξυλον επλετο μορφη • 1 Di questi due versi non si sa che voglia dire quel Altofurov legno pingue: Perchè pa-. re ch? Empedocle voglia rapportarsi a' prece: denti colloquj dove forse v'era qualche for. ma Altrotuloy. Si è cercato di sostituire Action Yugov, ma neppure s intende. Però si sono trascurati nel testo questi due versi. Nel 3 verso si legge presso Plut. Svopa EVTA xep ply a negyté, ch? è spiegato tenebroso, ed crribile. Ma come non si sa ď' onde poss m m 274 sa derivare played soy si è sostituito plyndor, che più si conviene all'acqua. Indi è che si è scritto VIOOEYTA,xoh pigns.ovte. E' vero che il vero so diventa spondaico; ma gli epiteti dell' ac qua sono più confacenti alla sua natura, e corrispondono più all'intendimento d'Empedo cle, che in questi versi vuol dare i caratteri di ciascuno dei quattro elementi, siccome at testa Simplicio de Phys. aud. - p. 7. Nel 4 προρε8σι θελυμνα τη luogo di προθελυμνα. It' 9 vi 537. Il 5 verso è simile a quello d. Omero. Il. 18 v. 511, ilil 7 al v. 70. Il. e al. v. 38 d' Esiod. Theog., e l'8 al v. 163 Odys. 15. Nel 9, e 10 l ' epiteto de' pesci υδατοθρεμμονες, e quello degli Dei δο. arxay wres sono tutti due propj d'Empedocle; giacchè non si leggono presso altro poeta. Il Tlpenoi Ospirtoi pare che sia preso dal v. 494 1 11. 9 • (9 ) Simplic. de Phys. aud. 1. 1 p. 34. Egli li rapporta dopo quelli della nota (8) e dice, che Empedocle li soggiunge in esempio. Non v'è quindi dubbio, che debbono essere collocati nel primo libro, e dopo di quelli. Vi 275 si trovano alcuni versi ripetuti alla maniera Omerica, e nel g versa ľws YÜ XEV come nel v. 749 Il. 11, e nel v. 11 della Theog. d' Esiod. Nel 10 si e mutato l'acheta in fore, e nell' 11 vi si troνα μυθον ακεσας nel miodo stesso d'Omero II. 7 v. 54. Odys. 2 z v: 560, (19 ) Simplic. de Phys. aud. l. 1. Costui, dopo d' avere rapportato i versi delle note (8) • (9 ) 80ggiunge και ολιγον δε προελθων αυθις Çnti. Però si son collocati dopo, e come ap partenenti al primo libro. Il 7 di questi ver si è quello stesso, ch ' è stato inserito da 9 nes versi della notą (4). (11) Il 2 verso si trova presso Plut. net lib. de adulat. et amici discrimine: il terzo presso Aristot. Metaph. 1. 3. cap. 4.- Tutti tre presso Clem. Alex. Strom. I. 6. Il secondo verso, si rapporta d'alcuni ne: pos nilov ufos, ma Empedocle nel 19 della nota (4) dice c7 NETOV, e per altro pare più armonioso ed Omerico. Questi versi, come quel li, che indicano i quattro clementi ', non si possono collocare che nel primo libro. m m 2 276 ! (12 ) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4. Simplic. de Phys. ' aud. 1. 6 p. 272. Plutaroo nel lib. de Reip. geć. praecept. vi allude dicen da τιμας ονομαζω κατ' Εμπεδοκλεα. Questi ver si non possono appartenere, che al primo li bro; perchè in esso dichiara Empedocle le due forze amicizia e lite. (13 ) Simp. 1. i de Phys. aud. p. 34. La parola aprice del primo versa può significare pari di numero, perfetto, ed adatto. Si è tradotta pari; perciocchè si è trovato che i corpi, di cui Empedocle enumera le parti de gli elementi, da cui quelli son composti, non sono che di numero pari. Cosi l'ossa di oi to parti nota (7 ), la carne di parti eguali de quattro elementi nota (6 ) et.. (14 ) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 1, e De Xenoph. Gorg., at Zenon. Plut. de Pl. Ph. l. 1 e adv. Golot. Si sono collocati nel primo libro perchè Plutarco dice chiaramente de Pl. Ph. l. i λεγα δε ετως και των πρώτων φυσικών και Anno de Tol spaced è modo turto ď Omero II. 1 v. 797. Odys. 11 V. 453. Odys. 10 2: 7 V. 495 ec. L'a.JavaTolo TEMBUTn è d' Esiod. in Scuto Herc., ' e nell'ultimo verso Bpomois "QvIpomolol è maniera greca che spesso si tra, va presso Omero ed Esiodo che dicono Bpotox ardpa. Il Duris nel principio come opposto a 76 deutn pare che indicasse la nascita. Ma co me in fine significa natura si è lasciato cob. la sua propia significazione di natura. (15 ) Plut. adv. Colot. Questi versi, come si vede dalla materia, sono una continuazio ne di que' della nota antecedente. Si sospetta che questi versi fossero sta ti alterati da qualche copista. Vi si osserva ows per uomo in genere neutro, che suol esa sere presso i Greci di genere maschile. (16 ) Simpl. de Phys. aud. 1, 2, pag. 85 Aldo. E siccome queg!i dice « TOTO'S AS T8 Εμπεδοκλεας εν τω δευτερη των φυσικών προ της ανδριων και γυναικιων σωμάτων διαρθρωσεως TAUTU TC ETn, Empedocle nel secondo libro delle cose fisiche canta questi versi prima di parlare della formazione e articolazione de' corpi de maschi e delle femine Non vi ha 278 quindi alcun dubbio, che questi versi fan par te del secondo libro, e che il soggetto di que. sto libro si versa sulla nascita degli uomini, e de' corpi de' maschi e delle femine. Però è, che tutti i versi che riguardano la formazio ne degli uomini, e de' loro membri, e delle parti del corpo umano e loro funzioni sono stati da noi posti nel secondo libro. IL 3 verso è un'imitazione d'Omero nel v. 157 dell' Iliad. 4, 810Quais secondo Simpli cio esprime la massa tutta, del seme, che an cora' non indicava la forma de' membri. (17 ) Aeliano de Nat. anim. I. 16 cap. 29. Le forme descritte in questi versi sono ricor date da tutti gli antichi scrittori come singo lari. Cosi Arist. Nat. ausc. l. 2. cap. 8. Es se non poterono durare, perchè non eran tra loro convenienti. Di quando in quando ne na. sconto de' simili, e questi sono i mostri.: (18) Simpl. de coelo 1. 2. Arist. de coel. 1. 3 cap. 2. De Gen. I. i cap. i8. Isaac. Tzetze in Comm. ad Lycophr. Epi vax65 • (19 ) Simpl. de coelo l. 2. (20 ) Simpl. de Phys. aud. 1. 8 p. 258 279 Aldo. Nel terzo verso si è spiegato pngjely! al la maniera d'Omero Il. 1. v. 437. Nel 6 e nel 7 - sono da notarsi ud poplene Opols, opsta μελεσσι, € πτεροβαμμoσι κυμβας clie sono ma niere originali d' Empedocle. (21 ) Aristot. de respir. cap. 7. Questo è il più bel frammento d'Empedocle, e forse l ' avanzo più, venerando dell'antica fisica, in cui non solo si spiegà da Empedocle il modo a suo credere del nostro respirare, ma si di mostra eziandio il peso, e la molla dell' a. ria. Egli è stato tradotto per quanto si può letteralmente, e solamente si è ito aggiungen. do talora la forma della clessidra, senza di che non si avrebbe potuto chiaramente com prendere Il coros del 4 verso corrisponde al cruor de’latini. Il. 16 y. 162. Chi si conosce – Omero può accorgersi come va adattando Em. pedocle tutte le parole e frasi d'Omero nel 5. sino all ': 8 verso. Lo stesso WTTEL OTAY Trays è ď Omero nel v. 362 Il. 15.. L'EPOMBAEOS, che Omero applica ail' acqua'. Ili 16 v. 174, Empedocle l'adatta alla duttilità del bronzo 200 Verso. It all'acqua, nel 9 TEPEY Ejedes dell' 11 è d' 0. mero Il. 14 v. 406. L'autap ETHTU nel 15 è forma parimente Omerica Il. 11 V. 304 Odys. l. 9 v. 371 ec. L'ayrilor ud wp nel 16 si trova applicato al giorno in Oniero, e qui che non può esser fatale se non per che nella clessidra è destinata a notare le ore che scorrono. Nel 18 verso Bpotew Xpor presso Esiod. Opera è preso per umano corpo, qui per la mano. Nel 20 ilil duonysos è applica to alla guerra. Il. v. 395 ec. Da Empedocle si acconcia al gorgogliamento dell'acqua (22 ) Arist. de sensu et sensili lib. i cap. Nel 2 verso σελας πυρος αθομενοιo e d ' Omero. Il. 9 v. 559. Il. 10 v.. 246. II. 11 v. 219. II. 6 v. 282 ec. Il 24uepiny νυκτα e simile all' αμβροσιην δια νυκτα d' O mero. Il. 2. v. 57. Nel 3 si trova apopg85 ch'e' una metafora, quasi che le lanterne di fendendo il lume da venti se li succhiassero; giacchè quopges vuol dire succhianti. Il mayo Town dyepewr Odys. 5 v. 293 e 304. Nel 4 verso il divanid ve si aeyrwy si trova in Omero Il. 5 v. 526. Nel 5 ci ha un epiteto de' 2. Nel dia 282 indomiti; per raggi ch ' è molto ardito UTCpert chè non sono vinti dalla notte. La stessa pa rola walioruto nel i verso per preparare è Omerica. Il. il v. 86 '. In quanto poi alla costruzione delle lanterne è da dirsi, che for se allora erano di corno trasparente. (23 ) Il i e gli ultimi due versi presso Giov. Tzetze Chil. 5 p. 382. Il 2 presso Theod. de Curat. Graec. l. 1. IlIl 22,, 3, e 4 pres SO Clem. Aless. Strom. 1. 5. Dal 5 sino all ' ultimo presso lo stesso Giov. Tzetze Chil. 13 p. 476. Gli ultimi due versi sono anche rap portati da Chalcid. in Tim. Pl. Essi sono sta ti tutti disposti nell' ordine, in cui sono no tati, che sembra non esser disconveniente, e fanno certamente parte del lib. 3. Poichè Tzetze nella Chil. 7 p. 382 nel rapportarli soggiunge Εμπεδοκλης τω τιτω των φυσικων δεικ: VUOY TIS ' N. sold togey το θεα κατ' επ'ος ετω λεγων. 9, Empedocle nel terzo libro delle cose fisiche. volendo indicare quale sia la sostanza di Dio dice cosi Il pendea nel senso in cui qui lo pigliu Empedocle è comune ad Omero nell' Odissea n n. 282 o ad Esiodo nella Theng. (24) Clem. Alex. Strom. 1. 5. Il. 1 ver so manca d'un piede, e si potrebbe compiere leggenda Ει ο αγε τοι μεν εγω λεξω. Vi si os serva poi la stessa maniera d Oniero nell ' ap porre degli epiteti al mare, all'aria, aile tere. (25) Athen. Dipnosoph. 1. 8 p. 334. Il devd pece pecupce è d'Omero. Il. 9 v. 537. Lo stesso Athen. nel medesimo luogo attesta che tutti i pesci da Empedocle furon chiamati zce paglves. (26 ) Aristot. 1. 2 de coelo cap. 8 e De Xenoph. Zenon, et Gorg. Gli ultimi due versi presso Clem. Aless. Strom. 1. 6. (27 ) Plut. de Pl. Ph. I. i cap. 18. Theo dort. de mater. et mundo Serm. 4 p. 1080. (28) Plut. Symp. l. 4 quaest. 1. Macro bio Saturn. l. 7 p. 521. E siccome in Plut. si leggono alterati; cosi sono stati correlti con Macrobio. (29 ) Plut. quaest. Nat. p. 916. (30 ) Plut. quaest. Nat. p. 917, et de Curiosit. Alcuni leggono Keuuata, altri rappese. (283 ra, ma si è sostituito xeu-ged, che pare più acconcio al senso dell'autore (31 ) Arist. Nat. Auscult. 1.? cap. 4, e De Part, Anim. I. i cap. 1, Simpl. I. Phys. (32 ) Simpl. de Phys. and. I. 2 p. 73. (33 ) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 23. L' epiteto de incepa come dice ' Hesichio' è propio d' Empedocle.; ed il polyurgadins d'Omero II. 1 v. 352, (34) Simpl. l. 2 de Phys. aud. p. 74 Aldo. (35) Simpl. 1. 2 nel med. luog. (36) Simpl. 1., nel med. luog. (37) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 73. (38 ) Simpl. l. 8 de Ph. aud. p. 272. (39 ) Plut. in l. non posse suaviter vivi jut. xta epicuri decreta. (40 ) Simpl. de Ph. aud. l. 8 p. 272. (41 ) Simpl. nel med. luog. (42 ) Simpl. nel med. luog. (43) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 6. (44) Simpl. de coelo Com. 21. p. 88. (45 ) Arist. de Gener. et Corrupt. 1. i cap. 6. La frase zgova dupsyo, presso Omero Il. 6 y. 411. nn 2 284 (46) Plut. quaest. Nat. p. 916. (47 ) Arist. de Gener. anim. 1..1 cap. 18. (48) Arist. de Gener. anim. I. 4 cap. 1. (49) Plut. nel lib. de Amic. multitud. (50) Arist. de Gener. anim. 1. i cap. 23. Alcuni leggono μακρα δενδρεα. (51 ) Plut. quaest. Platon. p. 1006.4. (52 ) Plut. de fac. in orbe lunae dove in luogo d' ožupeans è da leggersi očußeans e in vece di naiyo Iraupe come si è rapportato nel. la nota (35). (53) Plut. de fac. in orbe lunae. Questi versi sono stati corretti da Xilandro. (54) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4 de anim, 1. i cap. 2. Sesto Emp. adv. Gram. l. i cap. 13 e adv. Log. l. 7 Chalc. in Tim. cap. 21 p. 131. Pare che in questi versi Empedocle abbia imitato Omera Il. 13 v. 31, e Il. 16 v. 215. Il tip apo ndoy Omerico. Il. 2 v. 455. L'epiteto della lite rugpw, che da Omero si adatta alla vecchiaja, e talora alla ferita ec. è situato in fine del verso come in Omero II. 5 v. 153, e Il. 10. v. 79. Il. 16 v. 393 ec. 285 3. (55 ) Sext. Emp. adv. logic. l. - 8 p. 512. (56) Stobéo Ecl. Plys. l. 1 p. 131. L' última verso è anche rapportato da Chalcid. in Tim. Pl. p. 29,, ed è un imitazione di quello d' Esiodo nella Theog. 7 spe pezy 750" T δες, περι δε εστι νοημα • (57 ) Aristot. de anima 1. 3 сар. (58) Aristot. de anima" nel med. luog. (59 ) Aristot. de Gener. 1. i cap. 13. (60) Plut. adv. Colot. (61 ) Clem. Alex. Strom. l. 5 Theodor. de curat. aegritud. Ethnic. Acciaolus Theod, interpres I. i contra Graecos. (62 ) Arist. Meteorol. l. 4 cap. 9, atspao TURVO è d ' Omero. Il. 11 y. 454, e otißola pous pedeerol è d ' Esiodo opera v. 148. (63 ) Plut. Symp. 1. i cap. 3. Deve lege gersi andyl. (64 ) Plut. Symp. 1. 3. quaest. 1. (65) Plut. Symp. I.,1 quaest. 2, e nel lib. de fac. in orbe lunae. (66) Put. de Orac defectu. Per finire il verso si è supplito nella traduzione artos. (67 ) Plut. Simp. I.? quaest. 10, 286. (68) Plut. de Orac. defect: (69) Plut. Simp. 1. 8 quaest. 3. (70) Arist. Poet. cap. 25 c Meteor. l. 4. 71) Theophr. de Caus. Plant. 1. i cap. 14. (72 ) Athen. Dipnosoph. l. 8 p. 365. Que sti versi si son collocati come appartenenti al poema 'della natura; perchè parlano di Ve nere, che indica l'amicizia. Vi si trova il Soydan codpots parola composta da Empedocle, che non si legge in altro poeta. Si dee lege gere Κυπρις nel testo, e non Kπρις. (73 ) Sesto Emp. adv. Log. 1.? Gli ul. timi due versi sono anche rapportati da Plut. nel 1. de áud. Peet. Nel 2 yerso Scalig. legge suve ETEITA, ed Erric. Stef. dely ETECL; ma ne' MSS. si trova SaneM.T, Si è quindi conservata, come sta ne' MSS., e si è ritratta da dep @ os che più s' adatta al senso dell'autore. Questi versi unitamente agli altri delle note (24) e (75 ) sono riferiti da Sesto Emp. come quelli, che con poche interruzioni si suc vedono. E come Empedocle si dirizza ad un solo, ch'è Pausania;' cosi tutti fan parte del 287 Chil. 1, pra poema sulla natura, (74) Sesto Emp. adv. Log. l. 2 (75 ) Sesto Emp. nel med. luog. (70) Laerz. in Emp. 1. 8. Joan. Tzetze I versi 3, 4, 5 sono anche pres. so Clen). Alex. Strom. 1. 6. Nel 5 si legge d' alcuni παλιγτιτα c d' altri παλιντινα; mα da Casaub. si vuole raditova, e fondasi so Suida. Nell'ultimo verso è da notare che il sanare gl' infermi si esprime, presso gli an tichi avastne dall'inferno. Plut. in amat. Horaz. l. 2 Sat. 1 V. 82. (77 ) Laerz. l. 8 in Emp. I versi 3 € 4 si trovano presso Sesto Emp. adv. Gramm. 1. i cap. 13, e presso Philost. Vit. Apoll. Se condo Laerzio cosi Empedocle avea dato prin. cipio al suo poema delle purgazioni cvcpzopese νός των καθαρμων φησίν. (78) Sesto Emp. adv. Gram. I. 1 e Laerz. in Emp. 1. ' 8. Sesto Empirico mette questi due versi dopo quelli della nota (77 ) e soge. giunge nas nary. Sicchè icon c'è dubbio che appartengano alle purgazioni. (79) Plut. de exil. I. 2, e l'ultimo meza 288 zo verso è presso Hierocle in aur. carm., il quale lo ' rapporta unitamente al penultimo ως Εμπεδοκλης Φυσι ο Πυθαγοραος • (80) I primi tre versi presso Plut. nel lib. de vit. aere alieno, e tutti quattro presso lo stesso Plut. de Isid. et Osir., e presso Eusebio. (81 ) Hierocl. in aur. carm. (82) Hierocl. in aur. carm. (83 ) Clem. Alex. Strom. 1. 3. (84) Clem. Alex. Strom. I. 3 0 70xO1 peegee herdos Il. 1 v. 254. (85) Clem. ' Alex, Strom. I. 3. (86) Clem. Alex. nel med. luog. (87 ) Stob. Ecl. Phys. 1. i. (88 ) Porph. de Antr. Nymph. Ediz. di Van - Gcens p. 9. (89 ) Clem. " Alex. Strom. 1. 5 Origen, Phy losophumera. Phil. in V. Apoll. Athen. Dipn. In luogo di do7Os, che è un epiteto dato da Esiodo e da Poeti Greci al pesce, presso d' al.cuni si legge eurupos. A prima vista pare che l' epiteto ignito non abbia luogo; mu ove si voglia riflettere che giusta Empedocle, gli ani mali molto caldi cercarono l'acqua, ed ivi 289 soggiornarono, si può comprendere in qual senso abbia potuto adattare al pesce l ' epiteto Europos. (90) Eliano de Nat. anim. I. 12 cap. 7. Questi versi appartengono al poema delle pur gazioni. Perchè Eliano nel rapportarli soggiun ge λεγει δε και Εμπεδοκλης την αριστην αναι με: τοικησιν την τα ανθρωπου ει μεν ας ζωον η ληξις αυτην μεταγαγα λεοντα γινεσθαι και δε ας φυτον dadyny. » Empedocle dice che ottima sia da stimarsi la trasmigrazione dell'uomo, se do vendo passare in un bruto la sorte lo porta nel corpo del leone, e se in una pianta lo porta nell' alloro L' epiteto ηύκομοισιν Ο. mnerico. (91 ) Plut. de animi tranquill. L'epiteto έροέσσα e d' Esiodo che dice Θαλιη εροεσσα και ma non s' intende quello di μελαγκαρπος che vuol dire produttrice di frutti neri che Empe docle adatta ad Asafia o sia al genio dell' oscurità. Giovanni Tzetze Chil. 12 dice Ecco πεδοκλης προ παντωντε φιλοσοφος ο μέγας • γα γαρ την ασαφα αν μελαγκορον υπαρχαν ως κελαινωπας τον θυμον ο Σοφοκλης που λεγα 25 * Ο Ο 290 SO • Empedocle filosofo, grande sopra d'ogn'al tro, chiama Asafia o sia l'oscurità di nera pupilla conie Sofocle dice l'animo di nero via In sostanza poi vuol qui indicare Em pedocle quello che noi diciamo animo cupo, che tutto è coperto, e tutto fa con riserva. (92 ) Diod. Sic. Bibl. Hist. 1. 13 p. 204. (93) Clem. Alex. Strom. 1. 5. (94) Plut. adv. Colot. L'ultimo verso è stato corretto da Giov. Clerc. Bibl. Choisie Tom. 1. (95) Arist. Rhet. l. i cap. 13. Si son collocati in questo poema delle purgazioni; perchè Aristotile dice che riguardano la proi bizione d uccidere gli animali. xoy ws EyeTedo κλης λεγα περι τε μη κτιγαν το εμψυχσν. τετο γαρ τισι μεν δικαιον τισι δε και δικαιον. » Co me dice Empedocle parlando della proibizione d' uccidere qualunque animale. Poichè que sto non può essere giusto per alcuni e per al tri nò L' epiteto supurtedortos é d' Omero e quello d'atletoy è d ' Esiodo. (98 ) Sesto Empir. adv. Phys. I. 9 p. 580. Plut. de Superst. Nel 5 verso l'entBTT05 si 291 è tradotto per indegno d'essere udito come půs letterale. Na potrebbe avere due altri sensi cioè: da non essere compreso, o pure come colui, che è pieno di Qyaxer 116 che vuol dire contumacia, o inobbedienza; perchè senza di ciò non si ritrae un senso che sembra ragio nevole. Nel 6 a legurato d'apra è d' Omero nell' Odys. 13 v. 23. (97 ) Porphyr. de non necandis ad epulan dum animalibus l. 2 pag. 137 ediz. di Lio ne 0285dic epga per scelleraggini è d'Omero Odys. 14 v. 83. (98 ) Porphyr. de non necandis ad epul. anim. I. 2 pag. 131. Il primo verso somiglia a quello ď Omero Il. 24 v. 69. Alcuni leg, gono appatolor in luogo d ' cxpitolob. (99 ) Clem. Alex. exhortat. ad gentes. Awe Q10ste Odys. 11 v. 460. (100 ) Clem. Alex. Strom. I. 5. (101 ) Clem. Alex. Strom. I. 4 Bpotol o pu. re ardpes sain horlon. Il. 1 v. 266, e 273. (102 ) Clem. Alex, Strom. 1. 5. Questi due versi sono stati corrotti. Nel primo verso Sca. ligero legge fyte TPUDEGcus in luogo d' AUTOTA. OO 2 292 che non FIG. In verità questa seconda maniera cor risponde meglio all'opertio. Nel secondo leg ge Ευγιες ανδρειων αχεων αποκηροι ατειρεις. dla ad altri è piaciuto all' aydpelwy di sostituire l' and pouleur ch'è più adatto e pie Omerico; all' електро! ľ Anouampor ch'è anche più ragione vole; ed in fine all ατειρείς I'' ατηρείς si sa donde possa derivare. Si potrebbe dire più presto artelpon. Vi sono poi di quei che in luogo di amewn leggong amoywy; dimodochè spiegano coi forti achivi. (103 ) I primi due versi sono presso Laerz. 1. 8 in Emp., e tutti si leggono presso Janibl. de Vit. Pyth. p. 54. Questi versi si sono col locati nel poenia delle purgazioni; perchè in questo poema Empedocle dichiara la morale pittagorica. (104) Presso Suida voce Axpwr e Laerz. I. 8. in Emp. Questo epigramma, come dicono e Suida e Laerzio, è diretto a punzecchiare Acrone, che domanda a la grazia di ergere un gran monumento a suo padre in un luo. go alto della città di Gergenti. Empedocle va scherzando.col nome di Acrone e la parola 293 acron che in Greco significa alto e altezza. Ma questo scherzo non si può rendere nel no stro linguaggio. (105) Laerz. in Emp. I. 8 & Towvoploy indi ca nome conveniente alla cosa. Perchè liquo gavin in greco può significare che fa cessar i mali, e i dolori. Perciò Empedocle scherza col nome del suo amico. (106) Questi due versi s' attribuiscono dit Aulo Gellio Noct. Att. 1. 4 cap. 11 ad Em pedocle, e da altri ad Orfeo. Ma in verità so no della scuola pittagorica. Si legga Didym. 1. 2. Geoponicon cap. 35. Varii sono i sen timenti degli Scrittori sulla proibizione, che facea la scuola Pittagorica, di mangiar del le fuve. Secondo alcuni, perchè non sono sa lutari, e secondo altri perchè sono simili agli organi della generazione. Di fatto Gellio dice che l'astinenza delle fave era un simbolo, eon cui si volea indicare da Empedocle l'a ' stinenza delle cose veneree. (107 ) Questi versi esprimono il giuramen to che si facea nella scuola Pittagorica. Si leggono presso Jambl, de vit. Pyth. p. 125, 294 Ma non semhrano d'esser d'Empedocle cosi perchè non corrispondono allo stile del nostro poeta, come ancora perchè vi si osserva il dia. letto dor ico, che non mai egii usò ne' suoi poemi. ROMA BIBLIOTECA 295 Note mancanti nel Tomo I. pag. 67. MEMORIA SECONDA. (121 ) Απηρεν ασ Κροτωνα της Ιταλίας και κακοι τομές θες τοις Ιταλιωταις εδοξασθη συν τοις μας θεματας και οι περι τας τριακοσίες οντες ωκoνoμαν αριστα τα πολιτικα ωστε σχεδον αριστοκρατίας αναι την πολιτααν και Pittagora si porto in Cro tona d'Italia; ed ivi dando leggi agľ Italias ni fu egli in onore unitamente a' suoi disce poli. Trecento de' quali amministravano otti mamente le cose politiche, si che quella re pubblica era di posta a governo di ottimati, Laerz. in Pythag. (122 ) La persecuzione della scuola pitta gorica nacque da ciò, giusta Jamblico nella Vita di Pittagora cap. 35, che i pittagorici allontanavano il popolo dalle magistrature, e da' pubblici consigli, e voleano essi soli, come sapienti, regolar le cose pubbliche.Grice: “If people call William of Ockham, Surrey, Occam, I shall call Empedocles of Agrigentum Agrigentum, or Agrigento simpliciter in the vulgar.” Vide “Italic Griceians”While in the New World, ‘Grecian philosophy’ is believed to have happened ‘in Greece,’ Grice was amused that ‘most happened in Italy!’ Empedocle da Girgenti – Keywords: Girgenti -- Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Empedocle," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Girgenti – la parola che non s’incatena – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Palermo). Filosofo italiano. Grice: “I love Girgenti for many reasons! For one, he has edited Boezio ‘as he is’! – then he has elaborated on Socratic irony, a concept that needs some elucidation, if ever one did! Also, he has edited the ‘logica retorica’ of Cicero, which is welcome!”Frequenta gli studi classici a Palermo, sotto Brighina, Franchina, Armetta, Mirabelli e Puglisi) e poi si è trasferito a Milano sotto Bontadini, Bausola, Melchiorre e Giussani. Si laurea sotto Reale con “Platonismo e Cristianesimo in San Giustino Martire” – Studia “Porfirio tra henologia e ontologia riproponendo la questione degli universali come origine del "pensiero forte". Insegna a Milano I suoi studi sono concentrati sul rapporto tra filosofia greco-romana e Cristianesimo, e in particolare nell'influenza che il platonismo ha esercitato sui Padri della Chiesa. Per analizzare questo tema, applica due categorie ermeneutiche: la "storia del’effetto" e la "fusione dell’orizzonte”. Secondo la storia dell’effeto, la Patristica latina deve essere considerata una fase importante della storia del platonismo antico, che fa da tramite rispetto alla filosofia medioevale. Secondo la fusione dell’orizzonte, il rapporto tra platonismo e Cristianesimo deve essere analizzato superando due opposte posizioni: la "praeparatio evangelica" di Eusebio di Cesarea, secondo cui la filosofia pre-cristiana sarebbe stata di per sé una preparazione al Cristianesimo e la "Ellenizzazione del cristianesimo" di Adolf von Harnack, secondo cui nell'incontro con la filosofia, il Cristianesimo avrebbe smarrito la vocazione originaria (e dovrebbe pertanto “de-“ellenizzarsi, de-filosofarsi). Una posizione mediana potrebbe contribuire a superare le rigidità del cristianesimo cattolico e le chiusure del cristianesimo protestante non-cattolico. Saggi: “Porfirio: catalogo ragionato” (Vita e Pensiero, Milano); “Giustino Martire, il primo cristiano platonico” Vita e Pensiero, Milano); “Porfirio, Vita e Pensiero, Milano); Porfirio, Laterza, Roma-Bari; “Platone, G. Girgenti, Rusconi, Milano, Incontri con Gadamer, G. Girgenti, Bompiani, Milano “Platone” G. Girgenti, Bompiani, Milano; Atene e Gerusalemme. Una fusione di orizzonti, Il Prato, Padova; Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, libro-intervista con Sossio Giametta, Mursia, Milano. G. Giorello, Corriere della Sera, 1ºScheda biografica, curriculum e  nel sito dell'Università Vita-Salute San Raffaele, su unisr. Selezione di pubblicazioni  Porfirio negli ultimi cinquant’anni. Bibliografia sistematica e ragionata della letteratura primaria e secondaria riguardante il pensiero porfiriano e i suoi influssi storici, presentazione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, Porfirio, Isagoge, prefazione, introduzione, traduzione e apparati di G. Girgenti, testo greco a fronte, versione latina di Severino Boezio in appendice, Rusconi, Milano, nuova edizione Bompiani, Giustino Martire, il primo cristiano platonico. Con in appendice “Atti del Martirio di San Giustino”. Presentazione di C. Moreschini, Vita e Pensiero, Milano, Giustino, Apologie. Prima Apologia per i Cristiani ad Antonino il Pio. Seconda Apologia per i Cristiani al Senato Romano. Prologo al “Dialogo con Trifone”, introduzione, traduzione e apparati di G. Girgenti, testo greco a fronte, Rusconi, Milano, Aristotele, Poetica, introduzione, traduzione, note e sommari analitici di D. Pesce, revisione del testo, aggiornamento bibliografico, parole chiave e indici di G. Girgenti, testo greco a fronte, Rusconi, Milano, Porfirio, Sentenze sugli intellegibili, prefazione, introduzione, traduzione e apparati di G. Girgenti, con in appendice la versione latina di Marsilio Ficino, Rusconi, Milano. G. Girgenti, Il pensiero forte di Porfirio. Mediazione tra henologia platonica e ontologia aristotelica, introduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano,  Porfirio, Storia della Filosofia (frammenti), a cura di A. R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano, Introduzione a Porfirio, “I filosofi”, Laterza, Roma-Bari, La nuova interpretazione di Platone. Un dialogo di Hans-Georg Gadamer con la Scuola di Tubinga e Milano e altri studiosi (Tubinga), introduzione di H.G. Gadamer, prefazione, traduzione e note di G. Girgenti, Rusconi, Milano, nuova edizione ampliata: Platone tra oralità e scrittura, Bompiani, Milano, Porfirio, Vita di Pitagora, monografia introduttiva e analisi filologica, traduzione e note di A. R. Sodano, saggio preliminare e interpretazione filosofica, notizia biografica, parole chiave e indici di G. Girgenti, in appendice la versione araba di Ibn Abi Usabi’a, testo greco e arabo a fronte, Rusconi, Milano, J. Patocka, Socrate. Lezioni di filosofia antica, introduzione, apparati e bibliografia di G. Girgenti, traduzione di M. Cajtham l, testo ceco a fronte, Rusconi, Milano,  nuova edizione: Bompiani, Milano, K. Wojtyla, Persona e Atto, a cura di G. Reale e T. Styczen, revisione della traduzione italiana e apparati a cura di G. Girgenti e P. Mikulska, testo polacco a fronte, Rusconi, Milano, nuova edizione: Bompiani, Milano, Struttura dell’anima dell’anima secondo Agostino e presupposti neoplatonici, in: Autori vari, Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, Donzelli, Roma, Der Begriff der Verantwortung in der Welt der Antike und des Christentums, in K. Götz – J. Seifert (Hg.), Verantwortung in Wirtschaft und Gesellschaft, Rainer Hampp Verlag, München;   J. Seifert, Ritornare a Platone. La fenomenologia realista come riforma critica della dottrina platonica delle idee, in appendice un testo inedito su Platone di A. Reinach, prefazione e traduzione di G. Girgenti, Vita e Pensiero, Milano, Autori vari, Incontri con Hans-Georg Gadamer, edizione italiana a cura di G. Girgenti, Bompiani, Milano, Porfirio nel vegetarianesimo antico, “Bollettino Filosofico: Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria”, Due fonti neoplatoniche indirette di Cusano: Porfirio e Giamblico, in AA. VV., Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien Beiträge eines deutsch-italienischen Symposions in der Villa Vigoni vom (Veröffentlichungen des Grabmann-Instituts, Bd. 48), hrsg von Martin Thurner, Akademie Verlag Berlin, Plotino, Enneadi, traduzione di R. Radice. Saggio introduttivo, prefazioni e note di commento di G. Reale. Porfirio, Vita di Plotino, a cura di G. Girgenti, “I Meridiani. Classici dello Spirito”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano  K. Wojtyla, Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, a cura di G. Reale e T. Styczen, apparati e indici di G. Girgenti, Bompiani, Milano 2003.    Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi.    Commentaria in Porphyrium a se translatum (editio secunda). Boethius   Georg Schepps Samuel Brandt   University of Leipzig   European Social Fund Saxony   Gregory Crane   Jouve OCR-ed, corrected and encoded the text   Greta Franzini   Project Manager (University of Leipzig)   Simona Stoyanova   Project Assistant (University of Leipzig)   Bruce Robertson Technical Advisor (Mount Allison University)   Uvius Fonticola   Technical Advisor (Ludwig Maximilians University Munich)   University of Leipzig   stoa0058.stoa007.opp-lat3.xml Available under a Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International License   2014 University of Leipzig   Germany   Georg Schepps   Samuel Brandt   Boethius    Vienna   Leipzig   Tempsky   Freytag    1906     48    Internet Archive    The following text is encoded in accordance with EpiDoc standards and with the CTS/CITE Architecture.   Latin     p. 46     Secundus hic arreptae expositionis labor nostrae seriem translationis expediet, in qua quidem uereor ne subierim fidi interpretis culpam, cum uerhum uerbo expressum comparatum- que reddiderim, cuius incepti ratio est quod in his scriptis in quibus rerum cognitio quaeritur, non luculentae orationis  lepos, sed incorrupta ueritas exprimenda est. quocirca mul- tum profecisse uideor, si philosophiae libris Latina oratione compositis per integerrimae translationis sinceritatem nihil in Graecorum litteris amplius desideretur, et quoniam humanis animis excellentissimum bonum philosophiae comparatum est,  ANICII. MALLII. SEVERINI. BOECII. IN YSAGOGAS PORPHIRII. A SE TRANSLATA EDITIONIS SECVNDĘ LIBER PRIMVS INCIPIT-  P; BOETII EXPOSITIO SCDA IN YSAGOG. E; BOETII COMMENTA IN ISAGOGAS  G; INCIP COMENTV BOETII, in isagogis porphirii; Expos Scda  L;  COMENTV BOECII IN ISAGOGAS  R;   inscriptione carent CFHNS (nisi quod in FH recens quaedam est), item e codd. Isagogen tantum a Boethio translatam continentibus   ΛΣ ; ISAGOGAE PORPHYRII TRANSLATAE DE GRECO IN LATINVM A VICTORINO ORATORE  (sic)   ΓΦ ; INCIP LIBER YSAGOGARVM (HΥS-  \ ) POR- PHYRII (I  pro  Y  Π )  AII ,- Icipidt isagoge porphyrii  (m. poster.)   Ψ;   de titulo operis cf. Prolegomena   6 fidi—reddiderim] cf. Horat. Ars poet. 133. 11—13] cf. Cic. Acad. post. I 3,12.   6 fędi  C  foedi  Hm1N  infidi  FGm1  7 uerbo] e uerbo  N  8 incoepti  CEGHPRS  10 corrupta  Em1Sm1  incorruptae  Em2  (e  in mg. add. sed del .)  Lm1  11 uidebor  brm  13 graecis  Lm2   ut uia et filo quodam procedat oratio, ex animae ipsius effi- cientiis ordiendum est. triplex omnino animae uis in uegetandis corporibus deprehenditur, quarum una quidem uitam corpori subministrat, ut nascendo crescat alendoque subsistat, alia uero sentiendi iudicium praebet, tertia ui mentis et ratione  subnixa est. quarum quidem primae id officium est, ut creandis, nutriendis alendisque corporibus praesto sit, nullum uero rati- onis praestet sensusue iudicium. haec autem est herbarum atque arborum et quicquid terrae radicitus adfixum tenetur, secunda uero composita atque coniuncta est ac primam sibi  sumens et in partem constituens uarium de rebus capere potest ac multiforme iudicium. omne enim animal quod sensu uiget, idem et nascitur et nutritur et alitur, sensus uero diuersi sunt et usque ad quinarium numerum crescunt, itaque quicquid tantum alitur, non etiam sentit, quicquid uero sentire  potest, ei prima quoque animae uis, nascendi scilicet atque nutriendi, probatur esse subiecta. quibus uero sensus adest, non tantum eas rerum capiunt formas quibus sensibili corpore feriuntur praesente, sed abscedente quoque sensu sensibili- busque sepositis cognitarum sensu formarum imagines tenent  memoriamque conficiunt, et prout quodque animal ualet, lon- gius breuiusque custodit, sed eas imaginationes confusas atque ineuidentes sumunt, ut nihil ex earum coniunctione ac compo-  1 uia et filo quodam]  CEm2H  (uia  fort. ras. ex  uiae), uiae et filo quodam  N  uiae  (s. l. R)  ex filo quodam  EmIGPR edd . uiae ( ex  uia  S ) ex quodam filo  LS  uiae ( s. l . filo  m1 ) quodam  F  ratio  CEmIGLRS  ex] ab  Hm1NP  efficienti  Em1 efficientis  Fa. c . 3 post uitam  add . solum  CFHP  solam  N  corporis  GNRL a.r.Sa.r . 5 rationis  FGRS  6 procreandis  CHNP  7 nutriendisque ( om . alendis)  EL  sit  s. l. Gm2Nm2  9 terra  CN  10 ac] ad  FSm1  at  LSm2  et  G  11 rebus] quibus  GRS  de rebus de quibus  L  12 poterit  E post iudicium  add . capit  E (sed del.) L, s. l. m2 in HRS  13 et nutritur om.  CHP, s. l . nutritur  (om. et) Lm2  14 ita  CHR  16 poterit  E  quoque prima  FGm2H  19 praesente ante feriuntur  FHN praesentes  CHm1N  abscedente]  Em2FGHmINESa.r . absente  CEm1Hm2LPSp.r . 20 re- positis  GR  22 imagines  FHN  23  ante  sumunt add. sic  brm   sitione efficere possint, atque idcirco meminisse quidem possunt, nec aeque omnia, admissa uero obliuione memoriam recolli- gere ac reuocare non possunt, futuri uero his nulla cognitio est. sed uis animae tertia, quae secum priores alendi ac sen-  tiendi trahit hisque uelut famulis atque oboedientibus utitur, eadem tota in ratione constituta est eaque uel in rerum prae- sentium firmissima conceptione uel in absentium intellegentia uel in ignotarum inquisitione uersatur. haec tantum humano generi praesto est, quae non solum sensus iraaginationesque  perfectas et non inconditas capit, sed etiam pleno actu intel- legentiae quod imaginatio suggessit, explicat atque confirmat, itaque, ut dictum est, huic diuinae naturae non ea tantum cognitione sufficiunt quae subiecta sensibus comprehendit, uerum etiam et insensibilibus imaginatione concepta et absen-  tibus rebus nomina indere potest et quod intellegentiae ratione comprehendit, uocabulorura quoque positionibus aperit, illud quoque ei naturae proprium est, ut per ea quae sibi nota sunt ignota uestiget et non solum unum quodque an sit, sed quid sit etiam et quale sit nec non cur sit, optet agnoscere, quam  triplicis animae uim sola, ut dictum est, hominum natura sor- tita est. cuius animae uis intellegentiae motibus non caret, quia in his quattuor propriae uim rationis exercet, aut enim aliquid an sit inquirit aut si esse constiterit, quid sit addubitat, quodsi etiam utriusque scientiam ratione possidet, quale sit  2 admissa]  CR  amissa  EFGm1NP  amissam  Gm2LS, ras. et s. l. ex  admissam  H  memoriam  om. FGR, s. l. Sm2 , memoria  H  3 hiis  F ,  sic saepe  cogitatio  CNm2  4 animae uis  CEL  5 ante trahit  add . uires  brm  6 ea  CHm1N  est  ante constituta  CEGS , om. R 7 con- tentione  EGm1Sm1  contemplatione  R, m2 in GLS  8 in  s. l. Gm1PmS ,  del. Lm2  ignotorum  Hm1N  9 imaginationes  EN  11 conformat  Gm2Pm2  13 cognitione] in cognitione  FHNP  14 et] ex  Em1HN  sensibilibus  CEm1Hp. c. Nm2  sensibus  Ha. c. Nm1   ante  imaginatione  add . sibi  E (del. m2) NPSm2  imaginatione] in agnitione  Gm1Sm1  agnitione  Gm2R  post concepta add. nomina  Hm1, idem post  rebus  s. l. m2  17 sint  E  19 optat  LR  22 quia] qua  Gm1  atque  EHm1Pm1  24 scientiam  post  ratione  E  sententiam  Hm1  pos- sedit  FRS   unum quodque uestigat atque in eo cetera accidentium momenta perquirit, quibus cognitis cur ita sit quaeritur et ratione nihilo minus uestigatur.   Cum igitur hic actus sit humani animi, ut semper aut in <rerum> praesentium comprehensione aut in absentium intel-  p. 47  legentia aut in ignotarum inquisitione | atque inuentione uer- setur, duo sunt in quibus omnem operam uis animae ratio- cinantis inpendit, unum quidem, ut rerum naturas certa inqui- sitionis ratione cognoscat, alterum uero, ut ad scientiam prius ueniat quod post grauitas moralis exerceat, quibus inquirendis  permulta esse necesse est, quae uestigantem animum a recti itinere non minimum progressione deducant, ut in multis euenit Epicuro, qui atomis mundum consistere putat et honestum uoluptate metitur, hoc autem idcirco huic atque aliis accidisse manifestum est, quoniam per imperitiam disputandi quicquid  ratiocinatione comprehenderant, hoc in res quoque ipsas euenire arbitrabantur, hic uero magnus est error; neque enim sese ut in numeris, ita etiam in ratiocinationibus habet, in numeris enim quicquid in digitis recte computantis euenerit, id sine dubio in res quoque ipsas necesse est euenire, ut si ex calculo  centum esse contigerit, centum quoque res illi numero sub- iectas esse necesse est. hoc uero non aeque in disputatione seruatur; neque enim quicquid sermonum decursus inuenerit,  4 aut  om. CNR, s. l. Gm2Sm2  5 rerum  add. edd. post  praesentium,  ante Brandt; cf. p. 137, 6  6 ignotorum  Gm2Hm1Lm2N ante  in- uentione  s. l. in Hm2  8 inpendat  FPSa.c . naturam  FHm1N  certa inquisitionis]  Gm2H  certae inquisitionis  FNP  inquisitionis certa CELm2 , om. certa  Gm1Lm1RS (fort. recte)  10 quod] eius quod r exer- cet  Hm1  12 minimum ante non  E  minime  FSm1  diducant  FGm2  13 atbomis  plerique codd . consistere in  mg. Hm2 constare  CFP, post er . ł consistere  C  honestam  Em1P  honestatem  F  14 uoluptate om.  F uoluptatera  CEHm2  (te* m1)  LNR, add . corporis  L (del. m2) R, s. l. Gm2, ante  uol.  edd . mentitur  CEGHPRSm1  hoc] haec  H  16 racione  CN  comprehenderent  m1   in EHN  17 nero] ergo  H  maximus  E  error est  CFHNP post  sese  add .  res FR ,  s. l. Pm2  19 digitos  CEFN   id natura quoque fixura tenetur, quare necesse erat eos falli qui abiecta scientia disputandi de rerum natura perquirerent, nisi enim prius ad scientiam uenerit quae ratiocinatio ueram teneat disputandi semitam, quae ueri similem, et agnoscere quae  fida, quae possit esse suspecta, rerum incorrupta ueritas ex ratiocinatione non potest inueniri. cum igitur ueteres saepe multis lapsi erroribus falsa quaedam et sibimet contraria in disputatione colligerent atque id fieri inpossibile uideretur, ut de eadem re contraria conclusione facta utraque essent uera quae  sibi dissentiens ratiocinatio conclusisset, cuique ratiocinationi credi oporteret, esset ambiguum, uisum est prius disputationis ipsius ueram atque integram considerare naturam, qua cognita tum illud quoque quod per disputationem inueniretur, an uere comprehensum esset, posset intellegi, hinc igitur profecta est  logicae peritia disciplinae, quae disputandi modos atque ipsas ratiocinationes internoscendi uias parat, ut quae ratiocinatio nunc quidem falsa, nunc autem uera sit, quae uero semper falsa, quae numquam falsa, possit agnosci, huius autem uis duplex esse perpenditur, una quidem in inueniendo, altera in  iudicando. quod Marcus etiam Tullius in eo libro cui Topica titulus est, euidenter expressit dicens; Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat partes, unam inue- niendi, alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem uidetur, Aristoteles fuit. Stoici  20 Tullius] Top. 2, 6 s.   1  ante  natura  add . in  HLSpr, s. l. Pm2  3 post nisi  add . quis  r  prius enim  E  4 disputandi  om. GRS ad ueri  similem  s. l . ał que ueri se similem agnouerit  Hm2  et agnoscere]  FSm1  ( om . et) et agnouerit  EGLPRSm2 ( om . et) edd. ut ex hoc delectia rationum que- amus agnoscere  Hm1, s. l . ał et agnouerint quae fida et reliqua  m2  ut ex diligentia rationum queamus ( ex  quaeramus  C ) agnoscere  CN  7 et sibimet] sibimet  C  sibi et  EGRS  9  post re s. l . si  Cm1?  10 cuique)  CHm1N  cuiue  cett . 13 tunc  FHNPm1R post  an  add . id R,  s. l. Gm2Lm2, 2 litt. er. C  15 ipsis ratiotinationibus  Hm2  16 ante internoscendi add. et  brm  uiam  CFHN  19 inneniendi et iudicandi ( om . in)  Hm2  24 quidem uidetur]  FHNPCic . uidetur quidem GRS quidem  om. CEL   autem in altera elaborauerunt; iudicandi enim uias diligenter persecuti sunt ea scientia quam  διαλεκτικήν appellant, inueniendi artem, quae  τοπική  dicitur quaeque ad usum potior erat et ordine naturae certe prior, totam reliquerunt, nos autem  quoniam in utraque summa utilitas est et utram- que, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prima est, ordiemur, cum igitur tantus huius considera- tionis fructus sit, danda est huic tam sollertissimae disci- plinae tota mentis intentio, ut primis firmati in disputandi  ueritate uestigiis facile ad rerum ipsarum certam comprehen- sionem uenire possimus.   Et quoniam qui sit ortus logicae disciplinae praediximus, reliquum uidetur adiungere, an omnino pars quaedam sit philosophiae an ut quibusdam placet, supellex atque instru-  mentum, per quod philosophia cognitionem rerum naturamque deprehendat, cuius quidem rei has e contrario uideo esse sen- tentias. hi enim qui partem philosophiae putant logicam con- siderationem, his fere argumentis utuntur, dicentes philoso- phiam indubitanter habere partes speculatiuam atque actiuam.  de hac tertia rationali quaeritur an sit in parte ponenda, sed eam quoque partem esse philosophiae non potest dubitari, nam sicut de naturalibus ceterisque sub speculatiua positis solius philosophiae uestigatio est itemque de moralibus ac  2 uias]  ENPCic.p, om. cett. codd ., uiam  brm  ea scientia]  Pm1Cic . eam scientiam  EPm2  edd. eam scilicet scientiam  CN  artem et scientiam FSm2  scientiam  GHLRSm1  3  διαλεκτικήν ] Cic. dialecticen  CFGHL- NPm2RS  dialecticam  E dialectica  Pm1   τοπική ]  Cic . topice  Gm2LNS  topica  CEFGm1HPR  4 quaeque] quae et  Cic . 5 prior] prior est  GLa.c.RS  6 in—est et]  CN Cic., s. l. Pm2, om. cett. codd., Boethius etiam in comment. in Cic. Top. lib. I p. 1047 D haec uerba respicit  8 prima] prior  Cic . ordiemur]  EHm1NCic . ordiamur  CGHm2LPRS  ordinamus  F  13 quid  FHm1NPp.c . quod  a.c . 14  ante reliquum  add . esse  GHP  pars sit quaedam  GN  quaedam pars sit  L  18 hii  EHL  20  ante  habere  add . duas  L m 1860  21  post  rationali  add . uel orationali  EFGH (del. m2) RS (del. mS)  id est logica  L  ( s. l. m2) edd. ad  an  s. l . si  Cm2  24 inuestigatio  L   reliquis quae sub actiuam partem cadunt, sola philosophia perpendit, ita quoque de hac parte tractatus, id est de his quae logicae subiecta sunt, sola philosophia iudicat. quodsi speculatiua atque actiua idcirco philosophiae partes sunt, quia  de his philosophia sola pertractat, propter eandem causam erit logica philosophiae pars, quoniam philosophiae soli haec dis- putandi materia subiecta est. iam uero inquiunt : cum in his tribus philosophia uersetur cumque actiuam et speculatiuam consideratio|nem subiecta discernant, quod illa de rerum naturis,  p. 48   haec de moribus quaerit, non dubium est quin logica disci- plina a naturali atque morali suae materiae proprietate di- stincta sit. est enim logicae tractatus de propositionibus atque syllogismis et ceteris huiusmodi, quod neque ea quae non de oratione, sed de rebus speculatur neque actiua pars, quae de  moribus inuigilat, aeque praestare potest, quodsi in his tribus, id est speculatiua, actiua atque rationali, philosophia consistit, quae proprio triplicique a se fine disiuncta sunt, cum specula- tiua et actiua philosophia partes esse dicuntur, non dubium est quin rationalis quoque philosophia pars esse conuincatur.  qui uero non partem, sed philosophiae instrumentum putant, haec fere afferant argumenta, non esse inquiunt similem logicae finem speculatiuae atque actiuae partis extremo, utraque enim illarum ad suum proprium terminum spectat, ut speculatiua  2 tractat  Ep.r.FR, m2 in GLP  3 diiudicat  CHm2  5 sola philo- sophia  CFN  pertractet  Em1  tractat  Hm1  7 iam] tam  R  ita  FL  9 sublectas discernat  Em2  10 dubium non est  CEL  non est dubium  F  11 a  om. LS, s. l. Gm2Pm2, postea add. R  disiuncta (iunc  in ras. m1? )  R  12 est enim] etenim  GLRS post  tractatus add. est  LR, s. l. Pm2  14 orationibus  E ratione  Lm1, add . est  L  17 sint  Rm1, ex  sit  Sm2  cumque  H  (q.  er .)  Lm2N  18 et] atque  EFNP philosophiae  pbr  dicantur  Lm2N  non est dubium  EFHNP  21 haec—argumenta  del. G  asserunt ( ss in ras. m1? )  C  similem  om. GR, post  finem  s. l. Sm2, ad  similem  s. l.  ł proprium  Pm2  22  ante  speculatiuae  add . sed  R, s. l. Gm2Lm2  extremum E (u  ex a uel  o  m2 )  GL  (um  ex am m2 )  Pm2RSm1  23 proprium suum  C  ut] ita ut  brm   quidem rerum cognitionem, actiua uero mores atque instituta perficiat, neque altera refertur ad alteram, logicae uero finis esse non potest absolutus, sed quodammodo cum reliquis duabus partibus colligatus atque constrictus est. quid enim est in logica disciplina quod suo merito debeat optari, nisi  quod propter inuestigationem rerum huius effectio artis inuenta est? scire enim quemadmodum argumentatio concludatur uel quae uera sit, quae ueri similis, ad hoc scilicet tendit, ut uel ad rerum cognitionem referatur haec scientia rationum uel ad inuenienda ea quae in exercitium moralitatis adducta beatitu-  dinem pariunt. atque ideo quoniam speculatiuae atque actiuae suus certusque finis est, logicae autem ad duas reliquas partes refertur extremum, manifestum est non eam esse philosophiae partem, sed potius instrumentum, sunt uero plura quae ex alterutra parte dicantur, quorum nos ea quae dicta sunt  strictim notasse sufficiat. Hanc litem uero tali ratione dis- cernimus. nihil quippe dicimus impedire, ut eadem logica partis uice simul instrumentique fungatur officio, quoniam enim ipsa suum retinet finem isque finis a sola philosophia, consideratur, pars philosophiae esse ponenda est, quoniam uero finis ille  logicae quem sola speculatur philosophia, ad alias eius partes suam operam pollicetur, instrumentum esse philosophiae non negamus; est autem finis logicae inuentio iudiciumque rati- onum. quod scilicet non esse mirum uidebitur, quod eadem pars, eadem quoddam ponitur instrumentum, si ad partes  corporis animum reducamus, quibus et fit aliquid, ut his quasi quibusdam instrumentis utamur, et in toto tamen corpore par- tium obtinent locum, manus enim ad tractandum, oculi ad  1 rerum]  Em2H(in mg. m1?) Lm2 edd., post  cognitionem  add . rerum  s. l. Pm2Sm2, add . naturalium rerum  F, s. l. Gm2, om. cett . 2ad alteram] de altera  Em2 3 non potest esse  FGN  4 est  om. C  5 aptari  FGm1Hm1Pm2R  6 affectio  EFHLm2Pm1Bm1  8 intendit  F  9 rationum scientia  CLP  10 mortalitatis  bm  11 parant  Ea.c . pariant  Hm1  15 alterutra] utraque  EP, add. post  alterutra  H, del. m2 ante  dicta  add . supra  EP, s. l. Lm2  18 enim] nero  CFHN  21 ei  F  24 uidetur  Em1FGm2LNPm2  28 optineant  Fp.c.S   uidendum, ceteraeque corporis partes proprium quoddam uidentur habere officium, quod tamen si ad totius utilitatem corporis referatur, instrumenta quaedam corporis esse deprehenduntur quae etiam partes esse nullus abnuerit, ita quoque logica  disciplina pars quidem philosophiae est, quoniam eius philo- sophia sola magistra est, supellex uero, quod per eam inqui- sita philosophiae ueritas uestigatur.   Sed quoniam, quantum mihi quoque breuitas succincta largita est, ortum logicae et quid ipsa logica esset explicui,  nunc de eo nobis libro pauca dicenda sunt quem in praesens sumpsimus exponendum, titulo enim proponit Porphyrius intro- ductionem se in Aristotelis Praedicamenta conscribere, quid uero ualeat haec introductio uel ad quid lectoris animum praeparet, breuiter explicabo. Aristoteles enim librum qui De  decem praedicamentis inscribitur hac intentione composuit, ut infinitas rerum diuersitates quae sub scientiam cadere non possent, paucitate generum comprehenderet, atque ita quod per incomprehensibilem multitudinem sub disciplinam uenire non poterat, per generum, ut dictum est, paucitatem animo  fieret scientiaeque subiectum. decem igitur genera rerum esse omnium considerauit, id est unam substantiam et accidentia nouem, quae sunt qualitas, quantitas, relatio, ubi, quando, facere et pati, situs, habere, quae quoniam genera essent su- prema et quibus nullum aliud superponi genus posset, omnem  necesse est multitudinem rerum horum decem generum spe-  1 quoddam] quod  Em1  (aliquod  m2 )  G  2 utilitatem  post  corporis EG, ante  totius  L  4 quas  FSm2  5 quidem post philosophiae  H  quaedam  L  6 uero] uero est  L  8 quoque  om. L  quidem  edd . ueritas  Cm1N  succincta]  CNPSm2  sua mora  EFGHR  sua mota  Sm1  succincta suam moram  L  9 ortum  om . L et de ortu CNF quod  CF  est  G  explicaui  CELm2PRS  11 titulum  CHm1N  13 lectoris  s. l. Gm2, post  animum  CN, post  praeparet  H. om. E  14 paret  EFGNRS  15 scribitur  EGRSm1  17 ita quod  s. l. Gm2  (itaque m1)  Rm2  quod ( om . ita)  s. l. Sm2  20 decem] in decem  C  23 et  om. FLNP  situm habere  CRa.c . situm esse habere  Gm1S  24 genus superponi  H  possit  Ea.c.FGm1NPRS  25 ante horum add. per  s, l. Pm2, ante  species  CFLR. s. l. Gm2Sm2   cies inueniri. quae quidem genera a se omnibus differentiis distributa sunt nec quicquam uidentur habere commune nisi  p 49  tantum nomen, quoniam omnia | esse praedicantur. quippe sub- stantia est, qualitas est, quantitas est, et de aliis omnibus ‘est’ uerbum communiter praedicatur, sed non est eorum  communis una substantia uel natura, sed tantum nomen. itaque decem genera ab Aristotele reperta omnibus a se differentiis distributa sunt. sed quae aliquibus differentiis disiunguntur, necesse est ut habeant proprium quiddam quod ea in singu- larem solitariamque uindicet formam. non est autem idem  proprium quod accidens. accidentia enim et uenire et abesse possunt, propria ita sunt insita, ut absque his quorum sunt propria, esse non possint. quae cum ita sint cumque Aristo- teles decem rerum genera repperisset, quae uel intellegendo mens caperet uel loquendo disputator efferret - quicquid  enim intellectu capimus, id ad alterum sermone uulgamus —, euenit ut ad horum decem praedicamentorum intellegentiam quinque harum rerum tractatus incurreret, scilicet generis, speciei, differentiae, proprii, accidentis. generis quidem, quoniam oportet ante praediscere quid sit genus, ut decem illa quae  Aristoteles ceteris anteposuit rebus, genera esse possimus agnoscere, speciei uero cognitio plurimum ualet, ut quae cuiusque generis sit species, possit agnosci. si enim quid sit species intellegimus, nihil impediti errore turbamur. fieri enim potest, ut per speciei inscientiam saepe quantitatis species in  relatione ponamus et cuiuslibet primi generis species alteri cui-  4 omnibus aliis  FHLN  9 quoddam  S  10 uendicet  HLP  uindicent  ( ent  in ras.) S  constituat CN 11 euenire  FGm2R  (om. et) abire  NP  12 propria ita] propria enim ita  H  proprietates  EGm1S propria uero ita  edd . insitae  EGm1S  14 uel  om. FP  16 cupimus  E  alterutrum  FPm2S  19  ante accidentis  add . atque  FHNP  et  L  21 inter- posuit  m1 in EGS  superposuit  Em2NP  praeposuit  FGm2  possemus  FN  22 cognitio  post  ualet  LP  24 impedito  (uel  in- ) Ca.c.EGm1HNS  impedit  R  turbari  CS  25 inscitiam  F  26 cuilibet] cuiuslibet  Gm1N,a.r. in EFS   libet generi subdamus atque ita fiat permixta rerum atque indiscreta confusio; quod ne accidat, quae sit natura speciei ante noscendum est. nec uero in hoc tantum prodest speciei cognoscenda natura, ne priorum generum species inuicem per-  mutemus, uerum etiam ut in eodem quolibet genere proximas species generi nouerimus eligere, ut ne substantiae mox animal dicamus esse speciem potius quam corpus aut corporis homi- nem potius quam animatum corpus, at uero differentiarum scientia in his maximum retinet locum, qui enim omnino  qualitatem a substantia uel cetera a se genera distare cogno- scimus, nisi eorum differentias uiderimus? quomodo autem discernere eorum differentias possumus, si quid ipsa sit diffe- rentia nesciamus? nec hunc solum nobis inscientia differentiae offundit errorem, uerum etiam specierum quoque tollit omne  iudicium. nam omnes species differentiae informant, ignorata differentia species quoque necesse est ignorari, quomodo uero fieri potest, ut quamlibet differentiam possimus agnoscere, si omnino quae sit nominis huius significatio nesciamus? iam nero proprii tantus usus est, ut Aristoteles quoque singulorum  praedicamentorum propria perquisiuerit. quae propria esse quis deprehenderit, antequam quid omnino sit proprium discat? nec in his tantum propriis haec cognitio ualet quae singulis nomi- nibus efferuntur, ut hominis risibile, uerum etiam in his quae in locum definitionis adhibentur, omnia enim propria rem subrectam  quodam termino descriptionis includunt, quod suo quoque loco  25 suo loco] lib. IV c. 15 s.   1 generis  Gm1REa.r.Sa.r . fiet  CH  fit  N  permixtio  FHm2LNP  4 primorum  FNP  5 in om.  CERS, s. l. Gm2  6  ante  generi  add . cuilibet  brm  7 aut—corpus om.  E, s. l. Gm2Sm2  8 corpus  om. FP ,  del. Hm2  9 qui] quomodo  Ep.c.HPp.c.R  11 nouerimus  R  quo- modo—ignorari  (16) in inf. mg. Em2  autem] nero  E(m2)  14 offundit]  E (m2) Pm1  obfundit  Hm2  diffundit  Gm1  effundit  cett.; cf. p. 159,16  15 informant differentiae  brm  16 quomodo] qui  FNP  uero om.  G  18 huius nominis  FNP  20 perquisierit  R  quis esse  FR  21 deprehen- derit in  ras. E  deprehenderet  Np.c . deprehendet ( ex  -it)  P  22 proprii  Gm2N post  singulis  add . tantum  FHLNP  24 subiecto  EGm1RS   oportunius commemorabo, accidentis quoque cognitio quantum afferat, quis dubitare queat, cum uideat inter decem praedica- menta nouem accidentis naturas? quae quomodo accidentia esse putabimus, si omnino quid sit accidens ignoremus, cum praesertim nec differentiarum nec proprii scientia nota sit, nisi  accidentis naturam firmissima consideratione teneamus? fieri enim potest, ut differentiae loco uel proprii per inscientiam accidens apponatur, quod esse uitiosissimum etiam definitiones probant, quae cum ipsae ex differentiis constent et fiant unius cuiusque definitiones propriae, accidens tamen non uidentur  admittere. Cum igitur Aristoteles rerum genera collegisset, quae nimirum diuersas sub se species continerent, quae species nuraquam diuersae forent, nisi differentiis segregarentur, cum- que omnia in substantiam atque accidens, accidens uero in alia nouem praedicamenta soluisset cumque aliquorum praedi-  camentorum fere sit propria persecutus, de his ipsis quidem praedicamentis docuit, quid uero esset genus, quid species, quid differentia, quid illud accidens, de quo nunc dicendum est, uel quid proprium, uelut nota praeteriit, ne igitur ad Praedicamenta Aristotelis uenientes, quid significaret unum  p. 50  quodque eorum quae superius dicta sunt ignora|rent, hunc librum Porphyrius de earum quinque rerum cognitione per- scripsit, quo perspecto et considerato quid unum quodque eorum quae supra praeposuit designaret, facilior intellectus ea quae ab Aristotele proponerentur addisceret.   Haec quidem intentio est huius libri, quem Porphyrius ad introductionem Praedicamentorum se conscripsisse ipsa, ut  1 opportunius  NR post  accidentis  add . teneri  L ,  post  naturas  (3) tenere  HN  3 quonam modo  FHLNP  5 tota  EN, m1 in GPS  6 te- nemus  C  7 insciciarn  FN  11  ante  rerum  add . decem  cod. Monac. 4621 brm, recte?  15 nouem om.  S edd., s. l. Em2Gm2  16 fere  om. EFGS, er. H  18 nunc  om. GRS  est dicendum  CL  21. 24 eo- rum  delendum esse coni. Engelhrecht  23 quo] ut  CHLNP  inspecto  FNP perfecto EGm1  24 eorum]  cod. Monac. 4621 ( om . quae),  om. codd. nostri  proposuit FP proposui  H  posuit  NR  25 ab  om. ENR praeponerentur  CHm2NR  27 ipse  L  ita  F   dictum est, tituli inscriptione signauit, sed licet ad hoc unum huius libri referatur intentio, non tamen simplex eius utilitas est, uerum multiplex et in maxima quaeque diffusa est. quam idem Porphyrius in principio huius libri commemorat dicens;    Cum sit necessarium, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum doctri- nam, nosse quid genus sit et quid differentia quid- que species et quid proprium et quid apcidens, et ad definitionum adsignationem et omnino ad ea  quae in diuisione uel demonstratione sunt, utili hac istarum rerum speculatione, compendiosam tibi traditionem faciens temptabo breuiter uelut introductionis modo ea quae ab antiquis dicta sunt adgredi altioribus quidem quaestionibus  abstinens, simpliciores uero mediocriter coniec- tan s.    Utilitas huius libri quadrifariam spargitur, namque ad illud etiam ad quod eius dirigitur intentio, magno legentibus usui  5—16] Porph. p. 1, 3—9 (Boeth. p. 25, 2—9 Busse).   2 eius utilitas est]  FGm2 (in mg. add.) HP  utilitas eius est  in mg. add. Em2  est eius utilitas  s. l. add. Lm2  eius est utilitas  N, om, RS;  est tamen simplex eius utilitas  C  3 uerum  in mg. Em2  sed  GLS  sed et  R  multiplex et  in mg. Em2, s. l. Sm2  est  er. uid. E  5  ante  Cura  add . PROLOGVS  RS, de inscript. codicum Isagogen tantum con- tinent. cf. ad initium libri  Chrysaori]  G chrisaori  EHNPa.c .  Γ  ( s. l . menanti)  Ώμ2ΣΦ  chrysaoni S chrisarori ( uel  cris-  uel  chriss-,1  CFLPp.c .  R lATl m1 *!  (-oui) ante et add. te  C (er.)   FLNA (del.)   Σ ,  s. l . scil, te  E  6  ante praedicamentorum  add . X  Δ  7 sit genus  L A  et  om .  Φ  quidue  N  8  pr .  et s. l. E, om .  A  9 diffinitionem  Em1 \ m2 ,  in  -nes,  hoc in  -num  mut. F  10 in] ad  FHP ,  ante  in  er . ad  uid. C diuisionem  Ca.r.FHNP T a.r . A a.r . Q  uel] et  N  et ad  FHP  uel in  ΔΣΦ  demonstrationem  Ca.r . (-ne  ras. ex  -ne  ut uid .)  FHNP F a.r. A a.r .(b  utili]  edd . utilia  codd . 11 hac]  HP ,  s. l. Sm2  hanc  CLNΤ ΛΙIΣΦ ,  del .  Δ ,  om .  EFGRS  speculationem  CEa.r.Hm2L A a.r .  ΑΦ ,  in  -num corr.  Σ compendiosa  ras. ex  -sa  C A  12 traditione ( uel  -cione)  CLΝ Φ ,  ras. ex  -nem  HT A  14 altioribus] ab altioribus  A  17 quadrifaria  S ante  ad  add . et  EGP ,  s. l. L  18 etiam  om . G   est et ad cetera, quae cum extra intentionem sint, non tamen minor ex his legentibus utilitas comparatur, est enim per hoc corpusculum et praedicamentorum facilis cognitio et defini- tionum integra adsignatio et diuisionum recta perspectio et demonstrationum ueracissima conclusio, quae res quanto diffi-  ciles atque arduae sunt, tanto perspicaciorem studiosioremque animum lectoris expectant. dicendum uero est quod in omni- bus libris euenit. nam primum si quae sit intentio cognoscatur, quanta quoque utilitas inde prouenire possit expenditur et licet extra multa, ut fit, huiusmodi librum sequantur, tamen  illam proxime utilitatem uidetur habere, ad quod eius refertur intentio, ipso libro quem sumpsimus exponente, cum eius intentio sit ad Praedicamenta intellectum facilem comparandi, non dubium quin haec eius principalis probetur utilitas, licet non minores sint comites definitio, diuisio ac demonstratio,  quorum nobis quaedam hic principia suggeruntur, sensus uero totus huiusmodi est : ‘cum sit, inquit, utilis generis, speciei, differentiae, proprii accidentisque cognitio ad Praedicamenta Aristotelis eiusque doctrinam, ad definitionum etiam adsigna- tionem, ad diuisionem et demonstrationem, quae sit harum  rerum utilis überrimaque cognitio, compendiosam, inquit, tra-  2 utilitas legentibus  FHP  3 opusculum  CEp.r.FGm2HLN, recte ? cf. p. 149, 3  4 integra  om. ER, s. l. Gm2Sm2  recta] perfecta  CFGm2- Hm1N  8  post  libris  add . his  HNP  hoc  R ,  s. l ,  sed exters. G  sit] est  H  9 id est  (add. Lm2)  perpenditur  Em2Lm2  10  ante huius- modi  add . in  CE (del.) G (del. m2) N  librum]  LPm2RSm2, om. Hm1 , libros  FGm1Sm1, s. l. Hm2 , libro  CE (del.) Gm2NPm1  sequntur ( uel  sec-)  R, m1 in EGS  11 uidentur  FH  ad quod] aliquod  Cm1  ad quam  FGm2Pm2  eius] eorum  FGm2HPm1  12  ante ipso  add . ut  (s. l. est Lm2)  in hoc  CFHLNP, s. l . ut in  Em2  hoc  Gm2  ex- ponendum  CE (dum  in er . te?)  FHLNP  ( ex  -dus  m1  exponere  m2 )  Sm1 post  cum  s. l . enim  Hm2  13 praeparandi  H 14  ante  dubium  add . est  FHNP ,  s. l. Gm2, post s. l. L  15 minoris  CGm1N  16 nobis  om. C  hic quaedam  C  principalia  NSm1  17 huiusmodi totus  EG  19 eamque  Hm1Sm1  20 ad  om. C, s. l. Gm2 , et  FHN  et ad  P  et] ac  H, om. CFNP , et ad  edd . demonstrationemque CN demonstrationum- que  FP  quae] quia  Lm2R, om. CFNP  21 traditione  ras. ex  -nē  H   ditionem faciens ea quae ab antiquis large ac diffuse dicta sunt, temptabo breuiter aperire’, neque enim esset compendiosa, nisi totum opus breuitate constringeret et quoniam intro- ductionem scribebat, ‘altiores, inquit, quaestiones sponte refn-  giam, simpliciores uero mediocriter coniectabo’, id est sim- pliciorum quaestionum obscuritates habita in eis quadam coniecturae ratiocinatione tractabo. Tota quidem sententia huiusce prooemii talis est, quae et utilitate überrima et facilitate incipientis animo blandiatur, sed dicendum uidetur  quidnam celet amplius altitudo sermonum, necessarium in Latino sermone, sicut in Graeco  άναγκαΐον , plura significat, diuersa enim significatione Marcus Tullius dicit necessarium suum esse aliquem atque nos, cum nobis necessarium esse dicimus ad forum descendere, qua in uoce quaedam utilitas  significatur. alia quoque significatio est qua dicimus solem necessarium esse moueri, id est necesse esse, et illa quidem prima significatio praetermittenda est, omnino enim ab eo necessario quod hic Porphyrius ponit aliena est. hae uero duae huiusmodi sunt, ut inter se certare uideantur quae huius loci  obtineat significationem, in quo dicit Porphyrius; Cum sit necessarium, Chrysaori; namque, ut dictum est, neces-  12 Marcus Tullius] cf. infra apparatum.   2 enim  om. E  3 corpus  HNPm1  4 refugio  EGR  5 simplicium  Gm2LPm2  6 eas  EFGm1HNSm1  7  ad  quidem  s. l.  autem  Gm2  8 prohemii  EPS  uberrima <sit>  Brandt  9 animum  EGLm2Pm2R  uidetur  om. ERS, s. l. Gm2  11 ΑΝΑ Γ ΑΙΟΝ  uel  ANAKAION  uel sim. codd . ANA IT CION ł ANAKAION  C  12 etenim F  ad  Marcus Tullius  in mg . Marcus enim tullius pro fundanio inquit descripsistine eius neces- sarium id est adiutorem danium ( leg . fundanium)  add. Hm2, ex Mario Victorino De defin., Boeth. p. 906 B, haustum, Cic. IV 3 p. 236 frg. 6 Mueller  13 aliquod  C  aliquid  Hm1NPm2  nos]  Hm1Pp.e.Sm1  nostrum  cett.; an nostrum est  scribendum ? ante cum  add . ut  EG (del. m2) HLm2P  uel  F  nos  Hm2  14 dicamus  L 16  post , esse] esset  F  est  Hm1LNP  18 uero  om .  N  ergo  F  21 Chrysaori]  CEm1  chrisaori  uel eris-  uel  crys-  uel  crisar-  uel sim. cett . necessarium] harum  E  ( s. l . duarum necessitatum  m2 )  Gm1S  necessarium harum  F   sarium et utilitatem significat et necessitatem, uidentur autem huic loco utraque congruere, nam et summe utile est ad ea  p. 51  quae superius dicta sunt, de genere et specie | et ceteris disputare, et summa est necessitas, quia nisi sint haec ante praecognita, illa ad quae ista praeparantur, non possunt cognosci, nam  neque praeter generis uel speciei cognitionem praedicamenta discuntur nec definitio genus relinquit et differentiam, et in ceteris quam sit utilis iste tractatus, cum de diuisione et demonstratione disputabitur, apparebit, sed quamquam necesse sit haec quinque de quibus hic disputandum est, prius ad  cognitionem uenire quam ea quibus illa praeparantur, non tamen ea significatione hic a Porphyrio positum est qua neces- sitatem significari uellet ac non potius utilitatem, ipsa enim oratio contextusque sermonum id clarissima intellegentiae ratione significat, neque enim quisquam ita utitur ratione, ut  aliquam necessitatem referri dicat ad aliud, necessitas enim per se est, utilitas uero semper ad id quod utile est refertur, ut hic quoque, ait enim Cum sit necessarium, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamen- torum doctrinam, si igitur hoc necessarium utile intel-  legamus et id nomine ipso uertamus dicentes : cum sit utile. Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamen-  1 et  om. R, del. CGm2 significans  R ante  necessitatem  add . altera  R, s. l. Gm2  4 necessitas est  E  quia  om. NS  sint  post  haec  F, post  praecognita  H  5 agnosci  CN  post cognosci  add . quae  (om. E)  praedicamenta dicuntur  CEGL (in sup. mg. m2)  PR cognitiones  (del. et s. l . quae  add. m2) praedicamentarum (rum  del. m2 ) dicuntur  S  nam—discuntur  om. GRS, in sup. mg. Lm2  nam—cognitionem  in mg. Em1?, reliqua om . 7 nec] sed istis cognitis nec  C  sed nec  S  neque  N  10 sit] erit  Em2GLm1RS  13 significare  FN  15 utatur  Sm1  oratione  CHm1N  16 aliud] aliquid  CHm1N  17  post  se  add . quiddam  CFHPN, s. l. Em2Lm2 , quidem  edd . quod] ad quod  NP defertur  Gm1Lm1RS  18 enim  om . C Chrysaori]  eaedem fere quae   p. 147, set 149, 21 in codd. scripturae  19 et] te et  L  20  post   doctrinam add . nosse quid genus sit  C  nosse quid sit genus et cetera  in mg. Lm2  22 Chrysaori]  ut 18  et  om .  EFGS  te et  L  doctri- nam praedicamentorum  C   torum doctrinam, nosse quid genus sit et cetera, recte se habebit ordo sermonum; sin uero id ad ‘necesse’ permutetur atque dicamus : cum sit necesse, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum doctrinam, nosse quid  genus sit et cetera, rectae intellegentiae sermonum ordo non conuenit. quocirca hic diutius immorandum non est. quamquam enim sit summa necessitas his ignoratis non posse ad ea ad quae hic tractatus intenditur perueniri, non tamen de necessi- tate hic dictum est necessarium, sed potius de utilitate.    Nunc uero, licet idem superius dictum sit, tamen breuiter  quid ad praedicamenta generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis prosit agnitio, disputemus. Aristoteles enim in Praedicamentis decem genera constituit rerum quae de cunctis aliis praedicarentur, ut quicquid ad significationem  uenire posset, id si integram significationem teneret, cuilibet eorum subiceretur generi de quibus Aristoteles tractat in eo libro qui De decem praedicamentis inscribitur, hoc ipsum uero referri ad aliquid uelut ad genus tale est, quale si quis spe- ciem supponat generi, hoc uero neque praeter cognitionem  speciei ullo modo fieri potest nec uero ipsae species quid sint uel cuius magis sint possunt perspici nisi earum differentiae cognoscantur, sed differentiarum natura incognita, quae unius  1 recte—sermonum] recte intellegentiae sermonum ordo conuenit  CLP   (ex 5)  2 uero] autem  C  3 atque] itaque  FN  ut  CLH (in ras.)  Chry- saori]  ut p .  150, 18  4 est] sit  GLRS  nosse—sit om.  EH  5 ordo  ante  sermonum  E  7  post  his  s. l.  quinque  Lm2   pr. (sic)  ad  om. G ,  in mg. Em1?  8 tractatus hic  H  intendit  L  peruenire  Lm1S  9  ante  hic  add . solummodo  F  10 nunc] nam  F  11 quod  EN  12 possit  Lm2  cognitio  R  15 possit  Fa.c.LS 16 Aristoteles  delend. esse coni. Brandt  eo  om. E  17 De  om. NS , de  s. l. Lm2  uero  s. l. Gm2 18  post , ad  om. GRS, s. l. Em2Lm2P  qui  S  19 neque  er .  L  nec  N   post  cognitionem  add. generis neque praeter cognitio- nem  CFHP   (in mg. m2)  generis nec  E   (s. l. m1?)N, s. l. generis et  Lm2  20 nullo  Lm2  neque  F  21 magis] modi  CEm2  (in aliis m1)  Hm1Pp.c. (corr. m1?)  modo  N  possint  S  possumus  Gm1Lm2  possemus  m1  possimus  E  perspici] scire  EGm1 (sciri  m2 )  L  agnosci  RS   cuiusque speciei sint differentiae, modis omnibus ignorabitur, quare sciendum est quoniam, si de generibus Aristoteles tractat in Praedicamentis, et generum natura cognoscenda est, cuius cognitionem speciei quoque comitatur agnitio, sed hoc cognito, quid sit differentia non potest ignorari, quamquam  in eodem libro plura sint ad quae nisi maximam peritiam et generis et speciei et differentiae lector attulerit, nullus omnino intellectus patebit, ut cum ipse Aristoteles dicit : diuersorum generum et non subalternatim positorum diuersae secundum species et differentiae sunt, quod his ignoratis  intellegi inpossibile est. sed idem Aristoteles proprium unius cuiusque praedicamenti diligentissima inquisitione uestigat, ut cum substantiae proprium post multa dicit esse quod idem numero contrariorum susceptibile sit, uel rursus quantitatis, quod in ea sola aequale atque inaequale  dicatur, qualitatis etiam, quod per eam simile et dis- simile aliud alii esse proponimus, et in ceteris eodem modo, ut quae sit proprietas contrarii, quae secundum relationem oppositionis, quae priuationis et habitus, quae affirmationis et  8—10] Aristot. Categ. c. 3, p. l b , 16 s. 13 s.] ibid. c. 5, p. 4 a , 10 s. 15 s. (dicatur)] ibid. c. 6, p. 6 a , 26 s. 16 s.] ibid. c. 8, p. 11 a , 15—19. 18 (quae sit)—153, 1 (negationis)] ibid. c. 10.   1 sit differentia  S  5 non potest  s. l. Gm2 quamquam] cum  F  6 et generis—differentiae post attulerit  E  8 pateat  EGLRS  dicit]  Brandt dicat  codd. edd.; cf. 13. p. 154, 14. 21. 153, 2. 6  10  post  secundum  add . se  EGL (del.) ES, er. uid. H  et om.  CN, del. Lm2, er. uid. H; cf. Aristot. Cat. c. 3   τών Ιτέρων γενών καί μή ΰπ’ αλληλα   τεταγμένων ετεροι τω εΤδεε κο· αϊ διαοοραί   et Boethii interpretat. In Categ. Arist. p. 177 A (om. se)  quid  GRS  11 possibile  EG  ( post  est  signum interrogat.) RS  propria  FHNP  14  ante  numero  s. l.  cum  E  15 aequum  Em1FGLm1RS; cf. p. 153, 17  atque] aut N 16 dicitur FHLm2P  et dissimile]  F  uel dissimile  s. l. Em2  aut dissimile  s. l .  Gm2Pm1? ,  om. cett.; cf. Aristot. Cat. c . 9 Τ ών μέν ouv είρημένων  — τό  ομοιον χα) άνο'μοιον  —  αοτήν   et Boethii interpretat, p. 259 A  (simile et dissimile,) 17 aliis  DGPm1RS ( s  in ras); cf. Aristot, ibid .  έτέρω ,  Boeth. ibid . alteri 18  post  relationem  add . contrarii  Em1, del. et s. l . ut sapientia stulticiae  m2   negationis, in quibus ita tractat tamquam iam peritis scienti- busque quae sit proprietatis natura; quam si quis ignorat, frustra ea quae de his disputantur adgreditur. iam uero illud manifestum est, quod accidens maximum praedicamentorum  obtineat locum, quod proprio nomine nouem praedicamenta circumdat.   Et ad praedicamenta quidem quanta sit huius libri utilitas ex his manifestum est. quod uero ait et ad definitionum adsignationem, facile cognosci potest, si prius substantiae  rationum diuisio fiat, substantiae ratio alia quidem in descrip- tione ponitur, alia uero in definitione, sed ea quae in descrip- tione est, pro|prietatem quandam colligit eius rei cuius sub-  p. 52  stantiae rationem prodit, ac non modo proprietate id quod monstrat informat, uerum etiam ipsa fit proprium, quod in  definitionem quoque uenire necesse est; si quis enim quan- titatis rationem reddere uelit, dicat licebit; quantitas est secundum quam aequale atque inaequale dicitur, sicut igitur proprietatem quidem quantitatis in ratione posuit quantitatis et ipsa tota ratio ipsius quantitatis propria est, ita descriptio et  proprietatem colligit et propria fit ipsa descriptio, definitio uero ipsa quidem propria non colligit, sed ipsa quoque fit propria, definitio namque substantiam monstrat, genus differen- tiis iungit et ea quae per se sunt communia atque multorum in unum redigens uni speciei quam definit reddit aequalia.  ita igitur ad descriptionem utilis est proprii cognitio, quoniam sola proprietas in descriptione colligitur et ipsa fit propria sicut definitio quoque, ad definitionem uero genus, quod primum  1 ita  om. RS, s. l. m2 in EGL  tamquam iam] quasi  C  5 optinet  FHm1LmSN  obtineat  ante  praedicamentorum  E  7 libri huius  CGLRS ;  cf. p. 155, 14. 17. 156, 8  utilitas]  brm  intentio  codd . 10  post  substantiae  add . uero  F, s. l . enim  Lm2  16  ante dicat  s. l . sc. ut  Lm2  20 proprietates  CFHNP  ipsa] ita  G  22 nam qui  Gm2Lm1  (namque qui  m2 )  S  26 proprietas sola  CLP  sola proprietas sola  FGm1S  27 ad sicut  s. l . ł sic  Em2  uero  s. l .  Hm2  quod  om .  F  quidem  R   ponitur, et species, ad quam genus illud aptatur, et differentiae, quibus iunctis cum genere species definitur, sed si cui haec pressiora quam expositionis modus postulat uidebuntur, eum hoc scire conuenit, nos, ut in prima editione dictum est, hanc expositionem nostro reseruasse iudicio, ut ad intellegentiam  simplicem huius libri editio prima sufficiat, ad interiorem uero speculationem confirmatis paene iam scientia nec in singulis uocabulis rerum haerentibus haec posterior colloquatur.   Ad diuisionem uero faciendam tam hic liber est utilis, ut praeter earum scientiam rerum de quibus in hac libri serie  disputatur, casu fiat potius quam ratione partitio, hoc autem manifestum erit, si diuisionem ipsam diuidamus, id est si nomen ipsum diuisionis in ea quae significat partiamur, est namque diuisio generis in species, ut cum dicimus ‘coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud uero medium’, rursus diuisio est,  quotiens uox plura significans aperitur et quam multa sint quae ab ea significantur ostenditur, ut si quis dicat ‘nomen canis plura significat, et hunc, latrabilem quadrupedem que et caeleste sidus et marinam bestiam’, quae omnia a se definitione disiuncta sunt, diuidi autem dicitur et quotiens totum in  partes proprias separatur, ut cum dicimus ‘domus aliud sunt fundamenta, aliud parietes, aliud tectum’, et haec quidem triplex diuisio secundum se partitio nuncupatur, est autem  4] in prima editione nihil eiusmodi. 1  post  ponitur  add . utile est  CN, post  species  s. l . utilis est  Lm2  et species—aptatur  in mg. Em2Gm2  illud genus  C  3 eum  om. E ,  s. l. Gm2 , ei  R  4 uti  FGLRSm1  5 reseruasse]  CPm2 edd . reser- uare  E ( -re  in ras .)  FGm2HNPm1 (ante  reseruare  add .  se m1, del. m2)  reseruantes  Gm1S  seruantes  Lm1  seruare  m2  reseruantes sumus  R  8 colloquatur]  m1 in GLS  eloquatur  CEm2 (in ras.) HN  collocatur  Em1R ,  m2 in GLS edd . loquatur  FP  9 utilis est  LP  10 rerum  om. E  12  post . si  om. EG, s. l. Sm2  13  ante  partiamur  s. l . si  E  partia- tur  Gm1  14 aliud est]  CEp.c.R edd . aliud esse  Ea.c.GHLPS  esse aliud  FN  15 rursum  CEGNPm1R  est  s. l. Sm2 , ante diuisio  FHNP ,  et ante  rursus  et post  diuisio  R  16 quam] quod  EG a.c . (quae  p.c .)  LRS  sunt  CFLNPa.c . 18 quadripedemque  Sm1  20 distincta  FHm1NP  23 partitio] separatio  EGLm1Pm1RS   alia quae secundum accidens dicitur, ea quoque fit tripliciter, aut cum accidens in subiecta diuidimus, ut cum dico ‘bonorum alia sunt in animo, alia in corpore’, uel rursus cum subiectum in accidentia, ut ‘corporum alia sunt alba, alia nigra, alia  medii coloris’, rursus cum accidens in accidentia separamus, ut cum dicimus ‘liquentium alia sunt alba, alia nigra, alia medii coloris’, et rursus ‘alborum alia sunt dura, alia liquentia, quaedam mollia’, cum igitur ita omnis sit diuisio aut secundum se aut per accidens, utraque uero partitio tripliciter fiat cum-  que in superiore secundum se triplici partitione sit una diui- sionis forma genus in species separare, id neque praeter generum scientiam fieri ullo modo potest neque uero praeter differentiarum, quas necesse est in specierum diuisione sumi, manifestum est igitur, quanta utilitas huius libri ad hanc  diuisionem sit quae primo aditu genus ac species et differentias tractat, secunda uero ea diuisio quae est secundum se in uocis significantias, nec haec quidem ab huius libri utilitate discreta est. uno enim modo cognosci poterit, utrum uox cuius diui- sionem facere quaerimus, aequiuoca esse uideatur an genus,  si ea quae significat definiantur, et si ea quae sub communi nomine sunt, definitione clauduntur, species esse necesse est, et illud commune eorum genus, quodsi illa quae proposita  3 sunt alia  H  uel] aut  brm  rursum  FS  4 corporalium  Ca.c.Hm1N  5 rursum  F  6 liquentia  Ea.c.Gm1  8 fit  G  sit  ante omnis  F ,  post  diuisio N 9 accidentia  S  10 superiori  Sm2  11 sepa- rare  om. EN  12 possit  Em2 uero  om. C post   praeter s. l . scientiam  Sm2  16 ea  del. L, er. uid. P ante  quae  add . est  N   (om. post  quae]  P (er. uid.)  secundum—significantias]  FHN  uocis  post  significantias  C  se  et  in  om cett . 18 uno] nullo  F  quo  m2 in HLP  enim] quidem  N  20 si] nisi  FLm2Pm2  significant  CNPm2  et  (om.  si, ) in ros. Hm2  si et  RS  (et  s. l. m2 ) si  om. EL, s. l. Gm2Pm2 , etenim  L (ex et m2) Pm1  communi nomine]  CEm2 (in ras.) FHNP  (nomine  s. l. m2 ) communione cett. 21 sunt del. L, s. l.  Pm2 ante  definitione  add . una  FHL (del. m2) R, s. l. Em2Pm2  diffinitione  s. l. Gm2  claudantur  EGLRS  22 earum  ES post  genus  s. l . necesse est  Gm2  praeposita  EGPS   uox designat, non possunt una definitione concludi, nemo dubitat quin illa uox sit aequiuoca neque ita sit communis his de quibus praedicatur ut genus, quandoquidem ea quae sub se posita significat, secundum commune nomen non possunt una definitione comprehendi, si igitur ex definitione manifestum  fit quid genus sit, quid uero nomen aequiuocum, definitio uero per genera differentiasque discurrit, quisquamne dubitare potest aeque in hac diuisionis forma plurimum huius libri auctoritatem ualere? illa uero secundum se diuisio quae est totius in partes, quemadmodum discernitur ac non potius  p. 53  generis in species diuisio esse putabitur, nisi sint genus |et species et differentiae earumque uis ante disciplinae ratione tractata? cur enim non quisquam dicat domus species potius esse quam partes fundamenta, parietes et tectum? sed cum occurrit generis nomen in una quaque specie totum posse con-  gruere, totius uero in una quaque parte sua nomen conuenire non posse, manifestum fit aliam diuisionem esse generis in species, aliam totius in partes, conuenire autem nomen generis singulis speciebus ostenditur per id, quod et homo et equus singuli animalia nuncupantur, neque tectum uero neque parietes aut  fundamenta singillatim domus nomine appellari solent, sed  1 concludi  om ., nemo—comprehendi  (5)   in inf. mg. Gm1?  nemo—ita sit  in ras. Em2  2 uox—communis] uox non (non  er. L, om. S ) sit communis  Gm1 uel 2 Lm1Sm1, post  uox  add . sit aequiuoca neque (non,  sed del. G ) ita ( om. G  etiam  S )  s. l. Gm2 uel alia Sm2, in mg. Lm2  3  ante  his  add . de  E (er.) G (del. m2) ES his s. l. Lm2  4  post  posita  s. l. sunt Hm2  non possunt] definiri ( uel  diff-j (-ri  ex  -re  Cm2 ) non possunt ( add . neq.  Cm1, er. et  una  add. m2 ) nec  CFN  6 fit]  H  est  C  sit  cett . 8 aeque] etiam  CFHm1NPSm1  9 auctorem  GR  utilitatem  Lm2 10 discernetur  Hm2 (fort. recte)  discernatur  N  ac] et  FHNP  11 esse  om. R, ante  diuisio  FN  sit  FSm1  sunt  G  et] ac  R  12 earum quauis  ELR, m2 in GHPS , earum quis  Fm1  quamuis ( om . earum,)  m2 ;  cf. p. 157, 3  13 quisque  CFHR  esse potius  FNR  14 dum  F  15 quaque  om. FN  17 sit  ELRm1  (est  m2 )  S  19 id  om .  RS, s. l. Em2Gm2  singula  CEa.r. (ut uid.) GLPm1  singularis  Sa.c . singu- laque  R  20 aut] ac  FHLNP  neque  S  21 singulatim  CNR  appel- lari] nuncupari  FHLNP   cum fuerint iunctae partes, tunc recte totius nomen excipiunt, de ea uero diuisione quae secundum accidens fit, nullus ignorat quin incognito accidenti incognitaque ui generis ac differen- tiarum facile euenire possit, ut accidens ita in subiecta soluatur  quasi genus in species, et postremo omnem hunc ordinem partitionis foedissime permiscebit inscientia.   Et quoniam quid hic liber ad diuisionem prosit osten- dimus, nunc.de demonstratione dicemus, ne per ardua atque difficilia haereat qui in tanta hac disciplina uigilantissimo in-  genio et sollertissimo labore sudauerit. fit enim demonstratio, id est alicuius quaesitae rei certa rationis collectio, ex ante cognitis naturaliter, ex conuenientibus, ex primis, ex causa, ex neces- sariis, ex per se inhaerentibus, sed genera speciebus propriis priora naturaliter sunt; ex generibus enim species fluunt, item  species sub se positis uel speciebus uel indiuiduis priores naturaliter esse manifestum est. quae uero priora sunt, ea et praenoscuntur et notiora sunt sequentibus naturaliter, duobus enim modis primum aliquid et notum dicitur, secundum nos scilicet et secundum naturam, nobis enim illa magis cognita  sunt quae sunt proxima, ut indiuidua, dehinc species, postremo genera, at uero natura conuerso modo ea sunt magis cognita quae nobis minime proxima, atque ideo quamlibet se longius  1 tunc  er. C  accipiunt  F  3 incognita  m1 in GRS  accidente  CN  accidentia,  del . a  EGm2Rm2  accidenti—differentiarum  in mg .,  ante facile  add . ea accidentia,  sed del. E  incognitaque—differentia- rum  om. GR  cognitaque  (sic) ut generis ac differentiarum  Sm1, del. m2  4 soluamus  FHNP  5 postremum  HP  hunc  ante omnem  L, post  ordinem  R  6 inscitia  FHN  7 quid hic liber)  FGm1NP  quid liber hic  Em2HL hic quid liber  Gm2  liber quid hic  Em1R  liber hic quid S; quid ad diuisionem hic liber  C  8 ne—haereat] rem perarduam atque difficilem illi etiam  FN ; ne  et  - in  in difficil ** ia  et  hereat  in ras. C  9 hereat  s. l. Sm2  etiam  m1  tota  CFN  11 alicuius  om. CL  13 priora propriis  C  15  pr . uel  om. L, del. Pm2  19 enim] uero  N  21 natura]  Ea.c.GR  naturae  Ep.c.FHLPS  secundum naturam  CN; cf. Boeth .  Post. Analyt. Aristot. interpret. lib. I c. II p. 714 B  non enim idem est natura prius et ad nos prius neque notius natura et nobis notius. 22 quantumlibet  Em2  quantolibet  Pm2   a nobis genera protulerint, tanto magis erunt lucida et natura- liter nota, differentiae uero substantiales illae sunt quas per se inesse his rebus quae demonstrantur agnoscimus, praecedere autem debet generum ac differentiarum cognitio, ut in una quaque disciplina quae sint eius rei quae demonstratur con-  uenientia principia, possit intellegi, necessaria uero esse ea ipsa quae genera et differentias dicimus, nullus dubitat qui speciem sine genere et differentia intellegit essq non posse, genera uero et differentiae sunt causae specierum. idcirco enim species sunt, quia genera earum et differentiae sunt quae in  syllogismis posita demonstratiuis non rei solum, uerum con- clusionis etiam causae sunt, quod postremi Resolutorii locu- pletius dicent.    Cum igitur perutile sit et definitione quodlibet illud circum- scribere et diuisione dissoluere et demonstrationibus comprobare,  haec autem praeter earum rerum scientiam de quibus in hoc libro disputabitur, neque intellegi neque exerceri ualeant, quis umquam poterit dubitare quin hic liber maximum totius logicae adiumentum sit, praeter quem cetera quae in ea magnam uim tenent, nullum doctrinae aditum praebent?   Sed meminit Porphyrina introductionem aese conscribere neque ultra quam institutionis modus est, formam tractatus egreditur, ait enim ‘se altiorum quaestionum nodis abstinere,  1 protulerunt  FLR  praetulerint  N  2 substantiales] substantiae uel  E  3 inesse  post  rebus  C  esse,  del . in  E  4 in  om. C, s. l. Sm2  6 possint  Hm1P  7  ante  genera add. et  LP  8 intellegit  in mg .  Cm2, post  esse  in ras. N  9 causae sunt  FHL  sunt  om. R  causa  G  11 demonstrantibus  EFGLPm1RS; cf. Boeth. ibid. c. VI p. 718 D  de- monstratiuus syllogismus 12 postremis  L  in ( s. l .) postremis  Pm2 postremo  EFGPm1RS  resolutoriis  L  resolutarii  F  resoluturi  RS  resoluituri  G  resolutius ac  E 13 dicemus  EGLPm1RS  15 demon- stratione  N  16 in  om. FGPR, s. l. Hm2S  17 ualeant]  m2 in EHLS  ualent  CEm1F  (n  del .)  GHm1NP  (n  in ras .)  RSm1  22 nec  N  23 egre- ditur]  CF (aegr-)  HNPm1  aggreditur  L  egredi  EGRS  aggredi  Pm2  altioribus  FN  nodis  om .  Cm1Sm1 modis  FNRa.c., s. l. Cm2, in mg. Sm2   simplices uero mediocri coniectura perstringere’, quae uero sint altiores quaestiones quas se differre promittit, ita proponit : Mox, inquit, de generibus ac speciebus illud quidem, siue subsistunt siue in solis nudisque intellectibus  posita sunt siue subsistentia corporalia sunt an incor- poralia et utrum separata a sensibilibus an in sensi- bilibus posita et circa ea constantia, dicere recusabo, altissimum enim est huiusmodi negotium et maioris egens inquisitionis.    Altiores,. inquit, quaestiones praetereo, ne eis intempestiue lectoris animo ingestis initia eius priraitiasque perturbem, sed ne omnino faceret neglegentem, ut nihil praeterquam quod ipse dixisset, lector amplius putaret occultum, id ipsum cuius exequi quaestionem se differre promisit, addidit, ut de his  minime obscure penitusque tractando nec le|ctori quicquam  p. 54  obscuritatis offunderet et tamen scientia roboratus quid quaeri iure posset agnosceret, sunt autem quaestiones quas sese reti-  3—9] Porph. p. 1, 9—14 (Boeth, p. 25, 10—14). 8 altissimum— negotium] Abaelardus, Epistolae, Opp. I p. 5 ed. Cousin.   1 simpliciores  L  praestringere  G  perscribere  CFN  2 sunt  N  3 inquit  om .  Ω  ac] et  ΗΝ Ω   post  quidem  add . quod  EG (del.) Sm2  quae  m1  4 subsistant  L  nudisque] nudis purisqne  Ω ;  Porph. p. 1, 10   έν μο'να'.ς ψιλοΐς έπινοίαϊς  5 substantia  Em1  sunt  ante corporalia  Σ ,  post  incorporalia  Δ  sint  LR A m2 ,  ras .  ex  sunt II 6 separat  R  a sensibilibus  om. Gm1 (s. l. m2) Sm1 (cf. proxima), ras. ex  ab insensi- bilibus  \ m2; om .  Porph. p. 1,12  ab  CEa.r . A m1 A m1  an in sensibilibus posita et]  FG  (posita  s. l. m2 )  LR Ψ  an in sensibilibus (a sensibilibus  m2 ) et  S  an ipsis sensibilibus (posita  om .) iuncta  (in mg.)  et ( om . II)  Γ ,  s. l .  Π m2 et ( cetera om .)  CEHPm1 h m1  (s. l. an et in sensi- bilibus posita  m2 )  A m1  ( in mg . an sensibilibus iuncta  m2 )  Φ  an  (cet. om.)   NPm2   Σ  7 consistentia  CHF A m1  8 enim—negotium]  FHLP Q  ( sed  est enim  A )  Abaelard . negotium  ante  est  CEGRS  enim est negotium huius modo  (sic)   N; Porph. p. 1, 13   βαθύτατης οϊοης τής τοιοΰτης   πραγματείας  10  ante  eis  add . in,  sed del. E  11 primitiaque  R  per- turbent  FN  12 neglegentiam  Gm1P  praeter  (s. l.)  quam  C  praeter id quam  L  13 putasset  C  14 exequi quaestionem] exeeutionem ( uel  eis-)  EGHm1LRS  15 penitus  Em1FG  ne  L  16 effunderet  Ca.c.EGLNR  infunderet  Cp.c.FS ;  cf. p. 145, 14  17 possit  C a.c. Fa.c . se  N   cere promittit, et perutiles et secretae et temptatae quidem a doctis uiris nec a pluribus dissolutae, quarum prima est huius- modi. omne quod intellegit animus aut id quod est in rerum natura constitutum, intellectu concipit et sibimet ratione de- scribit aut id quod non est, uacua sibi imaginatione depingit.  ergo intellectus generis et ceterorum cuiusmodi sit quaeritur, utrumne ita intellegamus species et genera ut ea quae sunt et ex quibus uerum capimus intellectum, an nosmet ipsi nos ludimus, cum ea quae non sunt, animi nobis cassa cogitatione formamus, quod si esse quidem constiterit et ab his quae  sunt, intellectum concipi dixerimus, tunc alia maior ac diffi- cilior quaestio dubitationem parit, cum discernendi atque intel- legendi generis ipsius naturam summa difficultas ostenditur, nam quoniam omne quod est, aut corporeum aut incorporeum esse necesse est, genus et species in aliquo horum esse opor-  tebit. quale erit igitur id quod genus dicitur, utrumne cor- poreum an uero incorporeum? neque enim quid sit diligenter intenditur, nisi in quo horum poni debeat agnoscatur, sed neque cura haec soluta fuerit quaestio, omne excludetur ambi- guum. subest enim aliquid quod, si incorporalia esse genus  ac species dicantur, obsideat intellegentiam atque detineat exsolui postulans, utrum circa corpora ipsa subsistant an et praeter corpora subsistentiae incorporales esse uideantur. duae quippe incorporeorum formae sunt, ut alia praeter corpora esse  1 promisit  C  2 doctissimis  P  4 statutum  L  discribit  E  5 id  s. l. C  8 capiamus  C  ipsi nos] ipsos  FR  ipsos **  (-os  ex  i  m2 )  S  ipsi  Hm1  nos  s. l. m2  9 eludimus  Hm2  cogitatione] imaginatione  F  11 intellectu  ras. ex  -tu  E  ac] et  R  12 parat  FHm1PRS  discer- nendae atque intellegendae.. naturae  EFGHNRS  13 natura  L  osten- datur  N  16 utrum  FHm1NP  17 an] aut  ex  ut  F  uero  om. N  19 excluditur  Cm2GHp.c.LPRS  20 aliquid quod] alia quae (que  N )  FN  aliud ( ex  aliquid] quod  E  esse  post  species  FHL ,  om. N  21 ac] et  H  intellegentiam atque] animum intelligentiamqne  F  intellegen- tiamque  N  22 ipsa corpora  EFGHN  et om.  CFHLN (fort. recte) ,  del. Pm2  23 subsistentia  Ca.c.Gm2L  substantiae  Cp.c.FN (s. l . ł subsistentes) incorporalia  Gm2L   possint et separata a corporibus in sua incorporalitate perdurent, ut deus, mens, anima, alia uero cum sint incorporea, tamen praeter corpora esse non possint, ut linea nel superficies uel numerus uel singulae qualitates, quas tametsi incorporeas esse  pronuntiamus, quod tribus spatiis minime distendantur, tamen ita in corporibus sunt, ut ab his diuelli nequeant aut separari aut, si a corporibus separata sint, nullo modo permaneant, quas licet quaestiones arduum sit ipso interim Porphyrio renuente dissoluere, tamen adgrediar, ut nec anxium lectoris  animum relinquam nec ipse in his quae praeter muneris sus- cepti seriem sunt, tempus operamque consumam, primum quidem pauca sub quaestionis ambiguitate proponam, post uero eundem dubitationis nodum absoluere atque explicare temptabo. Genera et species aut sunt atque subsistunt aut  intellectu et sola cogitatione formantur, sed genera et species esse non possunt, hoc autem ex his intellegitur, omne enim quod commune est uno tempore pluribus, id unum esse non poterit; multorum enim est quod commune est, praesertim cum una eademque res in multis uno tempore tota sit.  quantaecumque enim sunt species, in omnibus genus unum est, non quod de eo singulae species quasi partes aliquas carpant, sed singulae uno tempore totum genus habent, quo fit ut totum genus in pluribus singulis uno tempore positum unum esse non possit; neque enim fieri potest ut, cum in  pluribus totum uno sit tempore, in semet ipso sit unum  1 a  om. CS, s. l. Em2  corporalitate  ELS  3 possunt  ELNPR  4 tamenetsi  Ca.c . (tam  ras. ex  tam)  L  tam si  Em1  tamensi  GRS  5 quod] eo quod  L  tamen  om. G tam N  6 uti  EGLPa.r.RS  ante diuelli add. aut  Hm1, del. m2  7 a  om. ERS ,  s. l. Gm2  separatae  ex  -ta  H  8 quaestiones licet  FHLPN  9 rennuente  Ca.r.Ga.c.LNS ut] ita ut  R  13 dubietatis  L  exsoluere  CF  14 atque] et  EGLPRS  15 solo ( s. l. Pm2 ) et  FHNP  17 uno tempore pluribus] multorum uno tempore  N  18 est ( s. l. m2 ) enim  G  19 tota sit] transit  F 20 est unum  Fm2H  21 non,  s. l . quod  S , ut non  CHm1N  22 carpunt  RS  capiant  F  participant  Nm1  habeant  Hm2Lm2P  24 possunt  F  possint  S  enim  om. FN. del. L  25 unoque  Gm2  sit uno  FHN  tempore  in mg. Gm2   numero, quod si ita est, unum quiddam genus esse non poterit, quo fit ut omnino nihil sit; omne enim quod est, idcirco est, quia unum est. et de specie idem conuenit dici, quodsi est quidem genus ac species, sed multiplex neque unum numero, non erit ultimum genus, sed habebit aliud super-  positum genus, quod illam multiplicitatem unius sui nominis uocabulo includat, ut enim plura animalia, quoniam habent quiddam simile, eadem tamen non sunt, idcirco eorum genera perquiruntur, ita quoque quoniam genus, quod in pluribus est atque ideo multiplex, habet sui similitudinem, quod genus est,  non est uero unum, quoniam in pluribus est, eius generis quoque genus aliud quaerendum est, cumque fuerit inuentum, eadem ratione quae superius dicta est, rursus genus tertium uestigatur. itaque in infinitum ratio procedat necesse est, cum nullus disciplinae terminus occurrat, quodsi unum quiddam  numero genus est, commune multorum esse non poterit, una enim res si communis est, aut partibus communis est et non iam tota communis, sed partes eius propriae singulorum, aut in usus habentium etiam per tempora transit, ut sit commune  p. 55  ut seruus communis uel equus, aut uno ] tempore omnibus  commune fit, non tamen ut eorum quibus commune est, sub- stantiam constituat, ut est theatrum uel spectaculum aliquod, quod spectantibus omnibus commune est. genus uero secundum nullum horum modum commune esse speciebus potest; nara  1 numero] in numero  NR  quoddam  FS  quodque  N  quidem  R  5  ad  ultimum  s. l . maximum  E  super se (se  s. l. G ) positum  GR  6 sui]  LP edd . ui  cett . ( post  nominis  F ) hominis  R  7 uocabulo]  HLP edd., om. cett . concludat  H  concludit  Lm1  includat  m2  includit  R  12 requirendum  F  perquirendum  N  13 ratio  Hm1N  tertium genus  CL  14 nestigabitur  FH nestigabit  N  15 quodsi] quod  NR  quiddam] quoddem  (sic) R  17 si communis] sic omnis  F quae com- munis  CN  si  om. R   post post , communis est  add . ut puteus et (uel  H ) fons  CHNP (del. m2) ,  in mg. E, s. l. Lm2  18 proprie  CFLNR   post  singulorum  add . sunt  HP ,  s. l. Lm2 ,  post  sunt  s. l . ut puteus et fons  Pm2  19 habent  G  etiam om.  FNP  iam  LS  21 sit  NP  ( ras. ex  fit) est  R   ita commune esse debet, ut et totum sit in singulis et uno tempore et eorum quorum commune est, constituere ualeat et formare substantiam, quocirca si neque unum est, quoniam commune est, neque multa, quoniam eius quoque multitudinis  genus aliud inquirendum est, uidebitur genus omnino non esse, idemque de ceteris intellegendum est. quodsi tantum intel- lectibus genera et species ceteraque capiuntur, cum omnis intellectus aut ex re fiat subiecta, ut sese res habet aut ut sese res non habet nam ex nullo subiecto fieri intellectus  non potest —, si generis et speciei ceterorumque intellectus ex re subiecta ueniat, ita ut sese res ipsa habet quae intel- legitur, iam non tantum in intellectu posita sunt, sed in rerum etiam ueritate consistunt, et rursus quaerendum est quae sit eorum natura, quod superior quaestio uestigabat. quodsi ex re  quidem generis ceterorumque sumitur intellectus neque ita ut sese res habet quae intellectui subiecta est, uanum necesse est esse intellectum qui ex re quidem sumitur, non tamen ita ut sese res habet; id est enim falsum quod aliter atque res est intellegitur, sic igitur, quoniam genus ac species nec sunt  nec cum intelleguntur, uerus eorum est intellectus, non est ambiguum quin omnis haec sit deponenda de his quinque pro- positis disputandi cura, quandoquidem neque de ea re quae sit  1 sit]  s. l. Lm1? brm, om. cett . 2  post  tempore add. sit  Np, s. l .  Em2  3 conformare  N  substantias  FHNP   ante  si add. et  Hm1 ,  del. m2 ad  quoniam  s. l . quod  Hm2  4 multiplex  m2 in CEGP,Lm1  8 habeat  N  aut—habet  in mg. Gm2  ut  s. l. Lm2Sm2 9 habeat  N ,  post add . nanus est intellectus (Intellectus otn.  brm ) qui de nullo subiecto capitur  in mg. Lm2, s. l. Rm1?   brm  intellectus  post  potest  C  11 ipsa res  HLN  12  pr . in  om. ENR ,  s. l. F  13 etiam  om. CL  14 uestigabit  Lm2  inuestigabat  F  17 esse  post  intellectum  F ,  post  uanniu  N ,  om .  R  18 enim falsum est  CKNP  est  om .  H ,  er .  L  enim  om. R  19 si  CNPS, m1 in   GHL , nec  R  igitur—intelleguntur  om . R quoniam om.  CN  ac] et  S  neque  FHN  quae  Sm1  20 neque  FH  cum  om. GLPS s. l. add. E, sed del . uerus] nec uerus  GLR  earum  HN  est eorum  CL  non] neque  N  22 fit  Lm2   neque de ea de qua uerum aliquid intellegi proferriue possit, inquiritur.  Haec quidem est ad praesens de propositis quaestio; quam nos Alexandro consentientes hac ratiocinatione soluemus. non enim necesse esse dicimus omnem intellectum qui ex  subiecto quidem fit, non tamen ut sese ipsum subiectum habet, falsum et uacuum uideri. in his enim solis falsa opinio ac non potius intellegentia est quae per compositionem fiunt. si enim quis componat atque coniungat intellectu id quod natura iungi non patitur, illud falsum esse nullus ignorat, ut si quis  equum atque hominem iungat imaginatione atque effigiet Cen- taurum. quodsi hoc per diuisionem et per abstractionem fiat, non quidem ita res sese habet, ut intellectus est, intellectus tamen ille minime falsus est; sunt enim plura quae in aliis esse suum habent, ex quibus aut omnino separari non possunt  aut, si separata fuerint, nulla ratione subsistunt. atque ut hoc nobis in peruagato exemplo manifestum sit, linea in corpore quidem est aliquid et id quod est, corpori debet, hoc est esse suum per corpus retinet, quod docetur ita : si enim separata sit a corpore, non subsistit; quis enim umquam sensu ullo  separatam a corpore lineam cepit? sed animus cum confusas res permixtasque in se a sensibus cepit, eas propria ui et  4 Alexandro] testimonia Simplicii in Categ. Aristot. p. 50 a , 45 ss., Dexippi p. 50 b  15—31 (= p. 45, 12—28 Busse), Dauidis p. 51 b , 10 ss. (Brandis) adfert Prantl,  Gesch. d. Logik im Abendlande  I 623 n. 24.   6 sit  CEFH (ex  fit ) NPR ante  ut  add . ita  FN ,  s. l. Gm2Pm2 habeat  FHm1NP  7  post  uideri  add . ut si quis dicat lineam esse cum longitudine sine latitudine non est omnino falsum  F  8 compositionem] conjunctionem  EGLPRS, recte?  9 quisquam  HP quisque  N  ponat  H  intellectu] in intellectu  F  id  om. N  10 patiatur  NR  11  pr . atque] aut  N efficiet  L ( c  ex  g  m2)  efficiat  CF  effigiat  Sa.c . 12 haec  E   ad  abstractionera  s. l . ł (??)positionem  Lm2  ł abscisionem  Pm2  fit  R  13 ita  post  res  C, om. R  14 ille] ipse  R  16 ut  s. l. Cm2, del. Lm2 ,  post  hoc  F  17  ad  peruagato  s. l . ł uulgato  Pm2  18 hoc  om. F  est  om. ELS, s. l. Gm2 , et  F  19  ante  docetur  add . et  CHNP, in mg. Lm2  20 a  om. ERS, s. l. Gm2  21 anima  Em1Gm1Pm2Sm1  22  post  permixtasque  add . corporibus  brm  capit  C  eas  in mg. Hm2   cogitatione distinguit, omnes enim huiusmodi res incorporeas in corporibus esse suum habentes sensus cum ipsis nobis corporibus tradit, at nero animus, cui potestas est et disiuncta componere et composita resoluere, quae a sensibus confusa et  corporibus coniuncta traduntur, ita distinguit, ut incorpoream naturam per se ac sine corporibus in quibus est concreta, specnletur et uideat. diuersae enim proprietates sunt incorpo- reorum corporibus permixtorum, etsi separentur a corpore, genera ergo et species ceteraque uel in incorporeis rebus uel  in his quae sunt corporea, reperiuntur. et si ea in rebus incor- poreis inuenit animus, habet ilico incorporeum generis intel- lectum, si uero corporalium rerum genera speciesque perspexerit, aufert, ut solet, a corporibus incorporeorum naturam et solam puramque ut in se ipsa forma est contuetur, ita haec cum  accipit animus permixta corporibus, incorporalia diuidens spe- culatur atque considerat, nemo ergo dicat falso nos lineam cogitare, quoniam ita eam mente capimus quasi praeter corpora sit, cum praeter corpora esse non possit, non enim omnis qui ex subiectis rebus capitur intellectus aliter quam sese ipsae  res habent, falsas esse putandus est, sed, ut superius dictum  20 superius] p. 164, 8.   2 corpore  EGLRS  3 at nero  om. C  animi ( om . cui)  R  et  om. GRS, s. l. Lm2 post  disiuncta  add . ut equum et hominem quae iungi non patitur natura,  post  composita  add . ut corpus et lineam et  (sic)  disiungi natura non patitur R 4 a  s.l. m2 in EGLS  5  ante  incorpoream  add . in  FLNS  7 et] ut  S  sunt proprietates  CLR , add. ut equum et cetera R 8  ante  corporibus add. et C etiamsi  R  et,  s. l. si Cm2F separarentur  F (ra s. l.) R  separantur  Lm1N  9 ergo  om. FN, del. Lm2 , uero  H, s. l. Lm2 corporeis  Cm1GHLPa.c.R  10 incorporeis] corporeis  Cm1  11 animus inuenit  FHNP  post ilico add . ibi  F, s. l. Gm2 ,  add . quo  E, sed del . 12 incorporalium  Em1  speciesque] et species esse  F prospexerit  HR  14  ante  haec  add . et  H (del. m2) N, s. l. Cm2  animus cum accipit  F  15 accepit  Pm1S  animus  accipit C  post incorporalia  add . ea  CHm2LPN  diuisa  Gm2  16 desiderat  Em1Ga.c . falso  ante  dicat F  falsam   CGm1Lm1  ( post  nosl  NRS  17 capiamus  Cm2N  19 sese om.  F  ipsae  om .  H ,  s. l. Em2 , ipsa  F   est, ille quidem qui hoc in compositione facit falsus est, ut cum  p. 56  hominem atque equum | iungens putat esse Centaurum, qui uero id in diuisionibus et abstractionibus assumptionibusque ab his rebus in quibus sunt efficit, non modo falsus non est, uerura etiam solus id quod in proprietate uerum est inuenire potest.  sunt igitur huiusmodi res in corporalibus atque in sensibilibus, intelleguntur autem praeter sensibilia, ut eorum natura per- spici et proprietas ualeat comprehendi, quocirca cum genera et species cogitantur, tunc ex singulis in quibus sunt eorum similitudo colligitur ut ex singulis hominibus inter se dissi-  milibus humanitatis similitudo, quae similitudo cogitata animo ueraciterque perspecta fit species; quarum specierum rursus diuersarum similitudo considerata, quae nisi in ipsis speciebus aut in earum indiuiduis esse non potest, efficit genus, itaque haec sunt quidem in singularibus, cogitantur uero uniuersalia  nihilque aliud species esse putanda est nisi cogitatio collecta ex indiuiduorum dissimilium numero substantiali similitudine, genus uero cogitatio collecta ex specierum similitudine, sed haec similitudo cum in singularibus est, fit sensibilis, cum in uniuersalibus, fit intellegibilis, eodemque modo cum sensibilis  est, in singularibus permanet, cum intellegitur, fit uniuersalis. subsistunt ergo circa sensibilia, intelleguntur autem praeter corpora, neque enim interclusum est ut duae res eodem in subiecto sint ratione diuersae, ut linea curua atque caua, quae  1 cõpositionem  GHR  facit  post  hoc  H  2 quia  Gm1R  quod  Sm2  3 id  om. N, s. l. Em2H ,  post  diuisionibus  F assumptionibus  Em1Gm1P  atque assumptionibus  CL  5  post  solus  add . intellectus  F , scil, intellectas  s. l. Lm2  6 corporibus  FHN   post  sensibilibus  add . rebus  CHLNP  8  ante  genera  add . et  CFS ; et species et genera  R  11  post pr . simili- tudo  add . colligitur  N , scil, colligitur  s. l. Hm2Sm2  cognita  Cm1F  cognita uel cogitata  N  12 ueraciter  Lm2N  perfecta  Em1NP  sit  FN  13 in  om. C  14 earum]  Pp.c. (corr. m1?)  eorum  cett . 17 substantiarum  R  18 collecta cogitatio  Cm1LP  22 autem] tamen  R  23 eadem  Em1Gm1Ha.c . eidem  Gm2Lm1  fin eodem  m2 )  PR e * dem  (sic) S  in  ante  subiecto  s. l., post  eodem  er. uid. C, om. EGLPRS  24 sint  om. L concaua Cm2N  cauata  Lm1   res cum diuersis definitionibus terminentur diuersusque earum intellectus sit, semper tamen in eodem subiecto reperiuntur; eadem enim linea caua, eadem curua est. ita quoque generibus et speciebus, id est singularitati et uniuersalitati, unum quidem  subiectum est, sed alio modo uniuersale est, cum cogitatur, alio singulare, cum sentitur in rebus his in quibus esse suum habet. His igitur terminatis omnis, ut arbitror, quaestio dissoluta est. ipsa enim genera et species subsistunt quidem alio modo, intelleguntur uero alio, et sunt incorporalia, sed  sensibilibus iuncta subsistunt in sensibilibus, intelleguntur uero ut per semet ipsa subsistentia ac non in aliis esse suum habentia, sed Plato genera et species ceteraque non modo intellegi uniuersalia, uerum etiam esse atque praeter corpora subsistere putat, Aristoteles uero intellegi quidem incorporalia  atque uniuersalia, sed subsistere in sensibilibus putat; quorum diiudicare sententias aptum esse non duxi, altioris enim est philosophiae, idcirco uero studiosius Aristotelis sententiam executi sumus, non quod eam maxime probaremus, sed quod hic liber ad Praedicamenta conscriptus est, quorum Aristoteles  est auctor.   Illud uero quemadmodum de his ac de propo- sitis probabiliter antiqui tractauerunt et horum ma- xime Peripatetici, tibi nunc temptabo monstrare.    Praetermissis his quaestionibus quas altiores esse praedixit,  21—23] Porph. p. 1, 14—16 (Boeth. p. 25, 14—16).   1 earum]  HPp.c.(corr. m1?)  eorum  cett . 3 enim  om. LP  quippe  P, s. l. Lm2  concaua  Cm2N  eadcmque  FLRS  6  post  singulare  add . est  R, s. l. Sm2  9  post , alio] alio modo  LR  10  post  uero  s. l . praeter corpora  Pm2  11 subsistentia  in ras. E  substantia  GSm1  13  ante  esse  s. l . ea  E  praeter  s. l. Cm2  15  ante  sensibilibus  add . ipsis  G  16 dixi  Lp.c.Sa.c . 17 uero  s. l. Cm2  20 auctor est  CLP  est  om. G  21  ante lemma  ISTORIA  add. S, sic  ( uel  HIST-)  ante omnia paene lemmata uero] autem  Σ  post, de  om. E  22 pro- babiliter]  λογιχώτίρον   Porph. p. 1, 15  tractauerint  Cp c . GH X m1  23 monstrare (demonstrare  N ) temptabo  FLN  24  ante  Praetermissis  add . EXPOSITIO S,  sic paene ubique ante explicat, lemmatum  Missis  Sm1   exoptat mediocrem introductorii operis tractatum, sed ne haec ipsa sibi harum quaestionum omissio uitio daretur, apposuit quemadmodum de propositis tractaturus est, ex quorumque hoc opus auctoritate subnixus adgrediatur, ante denuntiat, cum mediocritatem quidem tractatus promittit detracta obscuri-  tatis difficultate, animum lectoris inuitat, ut uero adquiescat ac sileat ad id quod dicturus est, Peripateticorum auctoritate confirmat, atque ideo ait de his, id est de generibus et spe- ciebus, de quibus superiores intulerat quaestiones, ac de pro- positis, id est de differentiis, propriis atque accidentibus,  sese probabiliter disputaturum, probabiliter autem ait ‘ueri similiter’, quod Graeci  λογικώς  uel  Ινδόξως  dicunt, saepe enim et apud Aristotelem  λογικώς  ‘ueri similiter’ ac ‘probabi- liter’ dictum inuenimus et apud Boethum et apud Alexan- drum. Porphyrius quoque ipse in multis hac significatione hoc  usus est uerbo, quod nos scilicet in translatione, quod ait  λογικώς , ita interpretari ut ‘rationabiliter’ diceremus omisimus, longe enim melior ac uerior significatio ea uisa est, ut pro- babiliter sese dicere promitteret, id est non praeter opini- onem ingredientium atque lectorum, quod introductionis est  proprium, nam cum ab imperitorum hominum mentibus doc- trinae secretum altioris abhorreat, talis esse introductio debet,  p. 57  ut praeter opinionem ingredijentium non sit. atque ideo melius  1 haec  om. S  2 harum que  LS  horumque  Gm1  quaestionum] insti- tutionum  Gm1Lm1RS  omissi  Em1  omisso Lm1Sm1 amissio  F  3 est  s. l. Em2 , esset  Gm1  ex] et  FHN ,  s. l. (om . ex)  Em2  quo- rum  FHN  4 subnisus  EGm1Sm1  aggreditur  EGLPRS  8 et] ac  R  10 de]  R, om. cett . 11  post  ait  add . id est  C  12  λογιχώς  uel  ένδόξως ]  edd., ante   λογιχώς   add . uel  CGLPR ;  ΛΟΓ ΙΚΟΟ  uel  ΛΩΓΙ-  ΚΩΟ   uel alia sim. codd .; ΕΝ ΔΩ ΧΟΝ  C, sim. Η  endo ΧΩ Ο  E ΕΝ ΑΟΓΩ Ο  S, alia uarie cett . 13 et  om. GR  est  S   λογιχώς ]  S ,  in cett. eadem   fere quae 12  14 Boethum]  b  boetum  p  boethon  Em2GNS   (recte?)  boeton  CEm1PR  boethion  F  bethon  H boetoton  Lm1  boeten  m2  Boethum (-tium  m)rm  16 uerbo usus est  CEGLRS  17  λογιχώς ]  item ut   13 ,  λογικώτερον   edd . 19 se  L  *mitteret,  s. l . pro  Cm2  23 ingredientium opinionem  C  non  ante  praeter  CEG  ( corr. m2 )  L  atque ideo] ergo  Gm1  (atque ita  m2 )  LPm1RS  melius probabiliter quam om.  R, s. l. Gm2Sm2   probabiliter quam rationabiliter, ut nobis uidetur, inter- pretati sumus, antiquos autem ait de eisdem disputasse rebus, sed <se< eorum illum maxime tractatum insequi quem Peri- patetici Aristotele duce reliquerint, ut tota disputatio ad  Praedicamenta conneniat.    2 eisdem]  E  (eis  in ras .) hisdem  cett . disputasse  post  rebus  C ,  ante de eisdem  L , disputare  N  3 se  post  illum  add .  brm ,  post  sed  Brandt  sequi  CEm2HN  4 reliquerint]  Gm1HPp.r . relinquerint  FSm1P a.r . relinquerent.  R a. r.Sm2  reliquerunt  CEGmSLNRp.r . EXPLICIT (CΟΜ- MENTARIORV  add .  C , COMENTORVM  add. F , COMTV PLOLOGI,  sic, add . S) LIB. I. INCIPIT (LIB.  add. F ) II.(INCIPIT.  om. R ) CEFGPRS  ( uariis cum scripturis compendiisque), subscriptio deest in HLN     Quaeri in expositionum principiis solet, cur unum quodque ceteris in disputationis ordine praeponatur, uelut nunc in genere dubitari potest, cur genus speciei, differentiae, pro- prio accidentique praetulerit; de eo enim primitus tractat,  respondebimus itaque iure factum uideri; omne enim quod uniuersale est, intra semet ipsum cetera concludit, ipsum uero non clauditur, maioris itaque meriti est ac principalis naturae quod ita cetera cohercet, ut ipsum naturae magnitudine nequeat ab aliis contineri, genus igitur et species intra se  positas habet et earum differentias propriaque, nihilo minus etiam accidentia, atque ita de genere inchoandum fuit, quod cetera naturae suae magnitudine cohercet et continet, praeterea illa semper priora putanda sunt quae si auferat quis, cetera perimuntur, illa posteriora quibus positis ea quae ceterorum  substantiam perficiunt, consequuntur, ut in genere et ceteris, nam si animal auferas, quod est hominis genus, homo quoque, quod species est, et rationale, quod differentia, et risibile, quod proprium, et grammaticum, quod accidens, non manebit et  2 ante Quaeri  codd. et p exhibent idem lemma (sine inscript.) quod p. 171,10 habent, om. brm expositione  CGm1L  expositionis  S  prin- cipii  CGm1L  3 dispositionis  N  5 praetulerat  C tractat  in ras .,  s. l . scil, conamur  Em2  tractare  Em1Sm1  6 respondemus  F  8 clu- ditur (i  ex  e  m2 )  S  naturae] naturae suae  F  10 igitur] itaque  C  et  om .  CN  11 etiam minus  HS  12 etiam  om. R  etiam et  C  ita] idcirco  CE (in ras.) HLm2NP  ideo  F  inchoandum fuit] erat incho- andum  FHNP  13  ante cetera add . et  L  natura suae magnitudinis  FHN  coerceat et contineat  Lm2  14 priora] propria  LS  aufert  Ca.c . 19  ante  proprium  add . est  P, s. l. Lm2   post  gram- maticum  add . esse  FHP, s. l. Em2 post  accidens add.  est FP ,  ante N   interemptum genus cuncta consumit, si uero hominem esse constituas uel grammaticum uel rationale uel risibile, animal quoque esse necesse est. siue enim homo est, animal est, siue rationale, siue risibile, siue grammaticum, ab animalis  substantia non recedit, sublato igitur genere et cetera con- sumuntur, positis ceteris sequitur genus; prior est igitur natura generis, posterior ceterorum, iure est igitur in dispu- tatione praepositura.   Sed quoniam generis nomen multa significat hoc - est  enim quod ait : Videtur autem neque genus neque spe- cies simpliciter dici; ubi enim non est simplex dictio, illic multiplex significatio est —, prius huius nominis significationes discernit ac separat, ut de qua significatione generis tractaturus est, sub oculis ponat, sed cum neque genus neque species  neque differentia nec proprium nec accidens significatione simplici sint, cur de his tantum duobus, genere inquam ac specie, dixit non simpliciter dici, cum proprium, differentia atque accidens ipsa quoque sint significatione multiplici? dicen- dum est quoniam longitudinem uitans tantum speciem nomi-  nauit eamque idcirco, ne solum genus significationis esse multi- plicis putaretur, enumerat autem primam quidem generis signi- ficationem hoc modo;    Genus enim dicitur et aliquorum quodammodo se habentium ad unum aliquid et ad seinuicem collectio,  10 s.] Porph. p. 1, 18 (Boeth. p. 26, 1). 23—p. 172. 5] Porph. p. 1, 18—23 (Boeth. p. 26, 1—8).   1 esse  om. P  2  post  grammaticum  add . esse  FHP ,  s. l. Em2  3 esse  post est Gm2L ,  om. EGmIRS, post  esse  add . constituas  EP ,  s. l. Lm2 alt . est] sit  FHNP  5 et om.  FHNR  consummantur  S  9 enim est  L  10 ante Videtur  add . INCIPIT  Δ  DE GENERE  ΓΔΛΠ2Φ  Incipit diffinicio generis  Ψ   m. post., om. cett . autem  om. HN  12 est significatio  C  13 tractatus  R  14 est] sit  P  oculos  HN  neque genus  om. C  15  pr . nec  FHP  neque proprium neque  N  16 simplicia  G (a  add. m1 uel 2) LSm2  ac] et C 17 non] nec  G  18 atque om. C  19 est om.  G  20 solem  Gm1  21 quidem  om. C  24 ad] et ad  S  aliquod  EN P IIS  aliquem  in ras .  Cm2 ,  fort . aliquid  m1   secundum quam significationem Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis habentium aliquo modo ad inuicem eam quae ab illo est cognationem secundum diuisio- nem ab aliis generibus dictae.|   p. 58  Una, inquit, generis significatio est quae in multitudinem uenit a quolibet uno principium trahens, ad quem scilicet ita illa multitudo coniuncta est, ut ad se inuicem per eiusdem unius principium copulata sit, ut cum Romanorum dicitur genus; multitudo enim Romanorum ab uno Romulo uocabulum  trahens et ipsi Romulo et ad se inuicem quasi quadam nominis hereditate coniuncta est. eadem enim quae a Romulo societas descendit, Romanos inter se omnes uno generis nomine deuin- cit et colligat, uidetur autem secuisse hanc generis signifi- cationem in duas partes, cum copulatiuam coniunctionem  admiscuit dicens; genus dicitur et aliquorum quodam- modo se habentium ad unum aliquid et ad se inuicem collectio, tamquam et illud genus dicatur ad unum se aliquo modo habere et hoc rursus genus dicatur, quod ad se inuicem unius generis significatione coniuncti sint. hoc uero minime;  eadem enim a quolibet uno propagata societas et ad illum qui princeps est generis, totam multitudinem refert et ipsam  1 significationem] diffinitionem  Φ  romanura  Cm1G  2 scilicet  om. Porph. p. 1, 20  3  ante  inuicem  add . se  L   (s. l. m2) brm Busse; cf. p. 173, 12  4 eam quae] eamque  CR  5 dictae]  Hm1Lm2R \ m2 W  dictam  cett.; cf. p. 173, 14 et Porph. p. 1, 23 ( τού πλήθοος_ )  κεκλιμένοι»  7 uno  om. FGRS, s. l. Em2 , unum  H; cf. 21 ad  quem  s. l . ał quod  Lm2  8 est coniuncta  F  9 dicitur—Romanorum  in mg. E, s. l. Gm2, uerba  multitudo enim Romanorum  del. Lm2  11  post  trahens  add . sit  E (del.) G (del. m2), s. l. Lm2  12 ea  E (ras. ex eadem ) FHN  ab  CEH  14 colligit  CFPm2RS  alligat  L  16 genus  om .  H, s. l. N  dicitur]  edd., om. H  dici  cett. (s. l. N)  17 ad] et ad  S  aliquod  N  18 collectionem  FH  aliquo modo  om. EGRS 19 rursus  post  genus  C  rursum  S  dicatur—generis  om. GRSm1  dicatur unius generis  s. l. m2 20 coniunctiua  EGR  coniuncta  Sm2  sint]  NS  sunt  CFHLP ,  om. EGR post  minime  add . est  LPm2  22 refert—multitudinem  om. EGSm1, s. l. m2 (sed  praefert )   inter se multitudinem uno generis nomine conectit et continet. quocirca non est putandus diuisionem fecisse, sed omne quic- quid in hac generis significatione intellegendum fuit, aperuisse. ordo autem uerborum ita sese habet — qui est hyperbaton  intellegendus —: ‘genus enim dicitur et aliquorum ad unum se aliquo modo habentium collectio et ad se inuicem aliquo modo habentium’ — rursus ‘collectio’ subaudienda; est enim zeugma —, cuius significationis adiecit exemplum : secundum quam significationem Romanorum dicitur genus ab  unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis rursus habitudine habentium aliquo modo ad inuicem cognationem, eam scilicet quae ab illo est, id est Romulo, secundum diuisionem ab aliis generibus dictae, scilicet multitudinis. haec enim multitudo aliquo  modo ad unum et ad se inuicem habens genus dicta est, ut ab aliis discerneretur, ut Romanorum genus ab Atheniensium ceterorumque separatur, ut sit integer uerborum ordo : ‘genus enim dicitur et aliquorum collectio ad unum se quodammodo habentium et ad se inuicem, secundum quam significationem  Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis secundum diuisionem ab aliis generibus dictae, habentium scilicet hominum aliquo modo ad inuicem eam quae ab illo est, id est Romulo, cognatio-  1 nomine]  EGLRS uinculo  CFHN  nomine uel uinculo P 4 se  FHNP  qui  om. ER, s. l. Gm2Sm2  6  pr . sese  L  7  ante collectio  s. l . et ( ut uid .)  C  subaudiendo  N ,  post  sub.  add . est  LR, ante s. l. Pm2  8 zeuma EFGHPS  14 dictam  EGm1Lm1PSm2  haec enim multitudo  om .  ERS, s. l. Gm2  aliquo modo  om .  FP, ante add . et  C, post add . se  P (del. m1?), s. l. Gm2H  15  post  unum  s. l . aliquid  Gm2 post  habens  add . cognationem  Pm2 edd . 17 separetur  Fa.c.N  separaretur  CFp.c.HLm1  sit] sic  H  (sit  post  uerborum,)  P  (sit  post  ordo,) sic sit  F ; integer sit  C ; ordo uerborum,  post repet . sit  N  18 collectio  om. E  20 ab] ad  F  habitudinem  F ,  post repetit uerba post . aliquo— exemplum  (6—8) G  22 dictam  CEGm1Lm1Sm2 post  habentium  add . se  Lm2P  23 id est  om. S, in quo post  cognationem locus p. 172, 4—13 secundum—deuincit et collegit  (sic) repetitus (5  dicta est,  12  ea  script.)   nem.’ Atque haec hactenus; nunc de secunda generis signi- ficatione dicendum est.   Dicitur autem et aliter rursus genus, quod est unius cuiusque generationis principium uel ab eo qui genuit uel a loco in quo quis genitus est. sic enim  Orestem quidem dicimus a Tantalo habere genus, Hyllum autem ab Hercule, et rursus Pindarum qui- dem Thebanum esse genere, Platonem uero Athenien- sem; etenim patria principium est unius cuiusque generationis, quemadmodum et pater. haec autem uide-  tur promptissima esse significatio; Romani enim sunt qui ex genere descendunt Romuli, et Cecropidae, qui a Cecrope, et horum proximi.    Quattuor omnino sunt principia quae unum quodque prin- cipaliter efficiunt. est enim una causa quae effectiua dicitur,  uelut pater filii, est alia quae materialis, uelut lapides domus, tertia forma, uelut hominis rationabilitas, quarta, quam ob rem, uelut pugnae uictoria. duae uero sunt quae per accidens unius  3—13] Porph. p. 1, 23—2, 7 (Boeth. p. 26, 8—16).   4 generationis  om .  A ,  in ras. C  quae  Gm1 ll m1  5 a loco] ab eo loco  CEGLRS;   Porph. p. 2, 1   άπ6 τού τόποα  sic  ex  si  Cm2  enim  in ras. Cm2  6 oresthē  C  oresten  LN ΣΝΑΣΦ  horestem  FH T  dicemus S genus habere  F  7 Hyllum]  Gm1  yllum  m2  illum ( ad quod  s. l . tan- talum  A m2 )  cett . autem  om. G  8  ante  Thebanum  add . dicimus  2  9 principium]  Porph. p. 2,4   αρχή τις ;  cf. infra p. 178, 17  10 et]  Ν Ψ   (er. uid.) brm, s. l .  Δ ,  om. cett. Busse; Porph. p. 2, 5   καί   om. codd. quidam (habet M) ;  cf. p. 176, 1  11 esse  om. H  sunt  om. EFG- ΗΝS ΑΑΣ ,  s. l. Lm2 ,  in mg .  U m2  dicuntur  edd.; Porph. p. 2, 6   λέγονται ;  cf. p. 176, 7  12 cecropides  Σ  13 a Cecrope] cecropis  Ea.c . (a cecropis  p.c .)  G  (cae-  m1  ci-  m2 )  R  ex genere descendunt cecropis  LS ΑΑΣ ,  s. l. Em2  ( om . cecropis),  fort. ex p. 176, 8 ;  Porph. Κ εκροπίδαι ol άπό Κέκροπος  eorum  HL A ,  in ras .  2  14 efficiunt principaliter  H  16 filii] et filius  Em1FGLPRS post  materialis  add . dicitur  FPR  17  ante  forma  add . a  R, s. l. Sm2, ras. in   E uelut *  (i  er .)  C  quam]  NS, om. R , quae  cett., fort. recte  ob rem  s. l. Rm2  18 pugnae uictoria]  N  pugna uictoriae  cett . duo  CNP  accidentes  Ea.c.GHm1  ( in mg . ał accidentialiter  m2 )  Lm1RSm2  accidentis  m1   cuiusque dicuntur esse principia, locus scilicet ac tempus. quoniam enim omne quod nascitur uel fit, in loco ac tempore est, quicquid loco uel tempore natum factumue fuerit, eum locum uel id tempus accidenter dicitur habere principium.  horum omnium in hac secunda generis significatione duo quae- dam ex alterutris assumit, quae ad significationem generis uidebuntur accommoda, ex his quidem quae principalia sunt, effectiuum, | ex his uero quae accidentia, locum. ait enim ‘genus  p. 59  dicitur et a quo quis genitus est’, quod est effectiua princi-  palium causa, ‘et in quo quis loco est procreatus’, quae est accidens causa principii. itaque haec secunda significatio duo continet, eum a quo quis procreatus est, et locum in quo quis editus, ut exempla quoque demonstrant. Orestem enim dicimus a Tantalo genus ducere; Tantalus quippe Pelopem,  Pelops Atreum, Atreus Agamemnonem, Agamemnon genuit Orestem. itaque a procreatione genus hoc dictum est. at uero Pindarum dicimus esse Thebanum, scilicet quoniam Thebis editus tale generis nomen accepit. sed quoniam diuersum est illud, a quo quis procreatus est, locusque in quo quis editus,  uidetur diuersa esse generis significatio procreantis et loci, quam in secunda scilicet parte enumerans unam fecit. sed ne uideretur duplex, per similitudinem coniunxit dicens : etenim patria principium est unius cuiusque generationis,  2 uel  in ras. E  et  C  3 quicquid  ex quo quid  Cm2, ante add . et  F, post add . enim  L  4 accidentaliter  CLN  accidentialiter  EGPSm2; cf. indicem Meiseri  5 ex alterutris duo quaedam  FP  6 consumit  S  sunt  Cm1H  sumit  Cm2, s. l. N  generis significationem  H  7 uidebantur  LPRS  uideantur  EG  accommodata  R  post quidem  add . causis  codd., om. unus F, del. Hm2  8  ante  effectiuum  add . sumit  H  accidentalia  N  9 dici CFNP  et  om. C, s. l. Lm2  quisque  CGRS  10 loco procreatus est  L  procreatus est loco  N  quod  GKS  13 editus] editus est  FHNP post  quoque  add . ipsa  FHP, s. l. Lm2  oresten  LN ,  item 16  14 pelopen  E  15 agamemnonen  EG  (-men) 17 quoniam] quia  FHN ante  Thebis  s. l. a Hm2?  18 editus] editus est  CL  accipit  C  est  om. G  19  pr.  quisque  R  editus] editus est  NP  (est  s. l. m2 ) 22  post  uideretur  add . tamen  EP, s. l. Lm2  adiunxit  FN  23 patria  s. l. Cm2, in mg. F  generati  Em1  generis  RSm1   quemadmodum et pater. sed quoniam in significationibus euenit fere, ut sit aliquid quod intellectui significatae rei pro- pinquius esse uideatur, quoniam duas generis apposuit signi- ficationes, multitudinis scilicet et procreantis, cui generis nomen conuenientius aptetur, iudicat atque discernit dicens  hanc esse promptissimam generis significationem quae a procreante deducta sit; hi enim maxime Cecropidae sunt qui a Cecrope descendunt, hi Romani, qui a Romulo. quae cum ita sint, confundi rursus generis significationes uidentur. si enim hi sunt maxime Romani qui a Romulo originem trahunt,  et haec significatio illa est quae a procreante deducitur, ubi est reliqua, quam primam quoque enumerauit, quae est ‘mul- titudinis ad unum et ad se inuicem quodammodo se habentium collectio’? sed acutius intuentibus plurimae admodum diffe- rentiae sunt. aliud est enim a quolibet primo procreante genus  ducere, aliud unum genus esse plurimorum. illud enim et per rectam sanguinis lineam fieri potest et non in multa diffundi, ut si per unicos familia descendat, huic enim aptabitur secunda illa generis significatio, quae a procreante deducitur; prima uero illa non nisi in multitudine consistit. illud quoque  est, quod prima procreationis principium non requirit, sed, ut ipse ait, sufficit aliquo modo se habere ad id unde huiusmodi generis principium sumitur, secunda uero significatio nullam uim nisi procreante sortitur. item in illa primae significationis multitudine huius secundae particularitas continetur, ut in  2 fere] saepe  C (ante  euenit ) LNPm2S  intellectu  G  signi- ficandae  FRSm2  propinquis  F  propinquus  Gm1PR  propinquum  N  3 quoniamque  Em2HLm2P, post  quoniam  add . qui  Sm1, del. m2  4 generi  EGH  (s  er .) 6 esse  om. G  7 ducta  R  cecropides  R  8 Cecrope] cecropede  FR  (-ide)  post Romulo  add . descendunt  N  9 significationes generis  C  11 ducitur  Lm1  15 est  s. l. F, post  enim  CL  enim  om. N  aliquolibet ( om . a)  G  16 deducere  CLm1  et  om. N  18 si  s. l. Lm2, del. Sm2 per—descendat] puer unicus familiam distendat  Cm1FHN  aptatur  N  21 est] est intellegendum C  primae  Hm2  24 <a> procreante  Engelbrecht  prima  EGHLm1RS   Romanorum genere Scipiadarum genus; nam cum sint Romani, Scipiadae sunt. quoniam enim ad Romulum et ad ceteros Romanos secundum Romuli habitudinem iuncti sunt, Romani sunt, Scipiadae uero dicuntur ad secundam generis significa-  tionem, quia eorum familiae Scipio et sanguinis principium fuit.    Et prius quidem appellatum est genus unius cuius- que generationis principium, dehinc etiam multitudo eorum qui sunt ab uno principio, ut a Romulo; namque  diuidentes et ab aliis separantes dicebamus omnem illam collectionem esse Romanorum genus.    Sensus facilis et expeditus, si tamen ambiguitas una sol- uatur. cum enim prius multitudinis significationem retulerit ad generis nomen, post autem ad procreationis initium, nunc  contrario modo illam prius a se enumeratam significationem dicere uidetur quae est procreationis, illam uero posteriorem quae est multitudinis; quod contrarium uideri potest, si quis ad ordinem superius digestae disputationis aspexerit. sed hic non de se loquitur, sed de humani consuetudine sermonis, in  quo prius eam significationem generis fuisse dicit quae a procreante sit tracta, accedente uero aetate loquendi usu nomen generis etiam ad multitudinem habentem se quodam- modo ad aliquem fuisse translatum, hoc uero idcirco, quoniam  7—11] Porph. p. 2, 7—10 (Boeth. p. 26, 16—19).   1 nam] natura  CFL  2 scipiades  HNP ante pr.  ad  add . et  FHNP ,  s. l. Em2Lm2 post, ad om. L  4 scipiades  N  5 quia] quod  E  et  om. NP, s. l. Cm2  8 generationis  in ras. Cm2  generis  PR  9 nam- que ( sic etiam B Bussii )]  om .  ΛΦ , add.  Hm2 \ m2  nam  2  quam  edd. Busse; Porph. p. 2, 8   το πλήθ-ος—δ  10  post  aliis  add . generibus  F ,  s. l. Lm2  11 collationem  Λ  collectionem  post  esse  HP ; romanorum esse collectionem  F  12  post  facilis  s. l . est  Lm2Pm2  facile ( om . et)  FN  expeditur  FNPa.c . 13 retulerat  F  retulit  R  14  post , ad  om. FHNR, s. l. Sm2  post nunc  s. l . autem  Lm2  15 prius] posterius  CLm2NP  numeratam  N  16  post  uidetur  add . priorem  CGLNP  18 perspexerit  C  21 loquendique  CN  et  (s. l. m1?)  loquendi  H  23  ante  hoc  s. l . dicit  Lm1?, post  idcirco  in mg . dixit  Pm2   superius dixerat : haec enim uidetur promptissima esse significatio, ut ab hac, id est secunda, quam promptissimam significationem esse dixit, illa quoque nuncupata uideretur, quae est multitudinis. prius enim genus inter homines appel- latum est quod quis a generante deduceret, post autem factum  est, ut per loquendi usum etiam multitudinis ad aliquem  p. 60 quodammo|do se habentis genus diceretur propter diuisionem scilicet gentium, ut esset inter eas nominis societatisque discretio.   His igitur expletis uenit ad tertium genus quod inter philosophos tractatur cuiusque ad dialecticam facultatem multus  usus est. horum quippe generum historia magis uel poesis tractat exordium, tertium uero genus apud philosophos con- sideratur. de quo hoc modo loquitur :    Aliter autem rursus genus dicitur cui supponitur species, ad horum fortasse similitudinem dictum. et-  enim principium quoddam est huiusmodi genus earum quae sub ipso sunt specierum, uidetur etiam multi- tudinem continere omnem quae sub eo est.    Duplicem significationem generis supra posuit, nunc tertiam monstrare contendit, hanc autem ad superiorum similitudinem  1 superius] p. 174, 10. 14—18] Porph. p. 2, 10—13 (Boeth. p. 26, 19—23).   1 enim] autem  p. 174 , 10 2 secundum  GR  a  (s. l.)  secunda  E  5 quis  Cm2  prius  m1  7 duceretur  Cm1  diuisiones  EFHLm2NP  8 esset] est  (s. l.)  et  E  has  FH  9 expeditis  N  ad  om. F  10 cuius  CF  multus  post  usus  Lm1R , multum  G  11 poesi  Cm1  13 hoc]  2 litt. er. C  14 genus  ante  rursus  Λ ,  post  dicitur  Φ  cui—genus  (16) om. N, quod indicatur uoce  usque  addita  (dicitur usque earum);  sic  ( saepe etiam  usque ad)  paene constanter in N aliisque codd. ubi mediae lemmatum partes omissae sunt  15 ab.. similitudine  GL \ m2 \Z  16 eorum  A m2 A  earum—specierum]  Porph. p. 2, 12   τών δφ’ lauto  17 ipso  om .  h m1  se  m2Lp.c. \HA>  sunt add.  Gm2 \ m2  uideturque  brm Busse; Porph .  xai SoxeT xai  etiam] enim  F autem  Δ  18 omnem]  2  ( h m1 ß m1 ) omnium  CEGLPRS h m2 U m2  earum  FHN, s. l. post omnium  Lm2  sub eo est]  PA m1 AU m1 ST  est  Φ  sub eo (ipso  F \ m2  se  Lm2 ) sunt (est  E, s. l. G ) specierum  EFGHLNPp.c . (sunt eo sub  a.c .)  RS \ m2 U m2  sunt sub eo specierum  C; cf. Porph. p. 2,12 s . 19 pro- posuit  edd . 20 superiorem  FLm1Pm1   dictam esse arbitratur. superius autem dictae significationes sunt una quidem, cum nomen generis quadam principii anti- quitate ad se iunctam multitudinem contineret, alia uero, cum genus ab uno quoque procreante duceretur, quod eorum  quae procreantur principium est. cum igitur sint superius duae generis propositae significationes, tertium nunc addit de quo inter philosophos sermo est, illud scilicet cui sup- ponitur species, quod idcirco genus uocatum esse sub opinionis credit ambiguo, quoniam habet aliquam similitudinem supe-  riorum. nam sicut illud genus quod ad multitudinem dicitur, uno suo nomine multitudinem claudit, ita etiam genus plurimas species cohercet et continet. item ut genus illud quod secun- dum procreationem dicitur, principium quoddam est eorum quae ab ipso procreantur, ita genus speciebus suis est prin-  cipium. ergo quoniam utrisque est simile, idcirco nomen quoque generis etiam in hac significatione a superioribus mutuatum esse ueri simile est.    Tripliciter igitur cum genus dicatur, de tertio apud philosophos sermo est; quod etiam describentes adsi-  18—p. 180, 3] Porph. p. 2, 14—17 (Boeth. p. 26, 24—27, 2).   1 dictam esse arbitratur] ut dictum est  GRS  autem  om. C, s. l. Lm2, del. Pm2  dictae] duae  Lm1, ante  sunt  s. l . dictae  m2 , duae  ex  dictae  H (ras.) Sm2, ante  dictae  s. l. Pm2, ante  sunt  edd., post R  2 quidem  om. C  cum  in mg. Cm2  quae  m1N  quadam  om. EFG  quandam  H  qua  RSm1  antiquitatem  H  3 ad se iunctam]  CLm2  ad se et adiunctam  HN  ad se iniunctam  Sm1  ab uno quoque iniunctam  R  adiunctam  cett.; cf. p. 177, 2  continet  Cm1 (corr. in mg. m2) Nm2  aliam  G  4 deduceretur  E  5 qui  P  6 tertiam  et  qua  F  7  post  scilicet  add . genus  F, s. l. Sm2  8  ante  opinionis  add . suae  N, post CHLP, s. l. Em1?, in mg. Sm2  se  m1  9 creditur  Ca.r.FR  10 a multitudine  Ep.c.FHN  11 suo] sub  C  (nomine sub uno)  FHNPm2 ,  ex suo  EL  ita  in mg. Cm2, s. l. Nm2  13 est] esse  EGLm2RS  14  post  suis  add . constat  FHN, post genus  s. l. Em2  est]  CLm1P  esse  cett . 15 idcirco] id  C  nomen  post  generis  FHNP, post  quoque  L  16 in hac etiam  FHN  hanc significationem  CP  18 cum genus—sit  (p. 180, 2) om. N  dicitur  S A m1 /AS  19 etiam] etiam et  R   gnauerunt genus esse dicentes quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit praedicatur, ut animal.    Iure tertium genus philosophi ad disputationem sumunt; hoc enim solum est quod substantiam monstrat, cetera uero  aut unde quid existat aut quemadmodum a ceteris hominibus in unam quasi populi formam diuidatur ostendunt. nam illud quod multitudinem continet genus, illius multitudinis quam continet substantiam non demonstrat, sed tantum uno nomine collectionem populi facit, ut ab alterius generis populo segre-  getur. item illud quod secundum procreationem dictum est, non rei procreatae substantiam monstrat, sed tantum quod eius fuerit procreationis initium. at uero genus id cui sup- ponitur species, ad speciem accommodatum speciei substantiam informat. et quia inter philosophos haec maxima est quaestio,  quid unum quodque sit — tunc enim unum quodque scire uidemur, quando quid sit agnoscimus —, idcirco reiectis ceteris de hoc genere quam maxime apud philosophos sermo est, quod etiam describentes adsignauerunt ea descrip- tione quam subter annexuit. diligenter uero ait describentes,  non definientes; definitio enim fit ex genere, genus autem aliud genus habere non poterit. idque obscurius est quam ut primo aditu dictum pateat. fieri autem potest ut res quae  1 esse  ante  genus  Pm1, post  dicentes  Σ  et  om. F  2 differentiis  R  quid]  iterum  quod  P  praedicetur  Γ  3 ut animal  om .  ΑΣ  5 est solum enim  CN  enim est solum  FP  6 existit  E  (it  in ras .)  GLPS  existet  Sm1  extitit  HN  <multitudo> a  Brandt  7 una... forma  EGRS  diuidantur  G  ostendit  EGLPm1S  8 multitudinis] multi- tudinem  G  12 procreantis  Nm1  13 atque  G  14 ad speciem  om. N  ad differentiam  Cm2FLm1Pm2 edd . 15 quaestio est  FHN  16 unum  om. EGRS  enim] etenim  FN  quodque unum  G  17 uidemur] debemus  E (in ras.) GPm1RS, post  uidemur  add . uel debemus  Hm1   del. m2 post  reiectis  add . quia non demonstrant substantiam  L  temptatis temporum  Sm1, del. m2  19  post  quod  add . genus  EPm1, del. m2  20 ait  ex  aut  Em1  addit  m2NP  addidit  F  21 ex] de  H  23 dictum  om. FH dictu  GLS  autem] enim  FNP   alii genus sit, alii generi supponatur, non quasi genus, sed tamquam species sub alio collocata. unde non in eo quod genus est, supponi alicui potest, sed cum supponitur, ilico species fit. quae cum ita sint, ostenditur genus ipsum in eo  quod genus est, genus habere non posse. si igitur uoluisset genus definitione concludere, nullo modo potuisset; genus enim aliud quod ei posset praeponere, non haberet, atque idcirco descriptionem ait esse factam, non definitionem. descriptio uero est, ut in priore uolumine dictum est, ex proprietatibus infor-  matio quaedam rei et tamquam coloribus quibusdam depictio, cum enim plu|ra in unum conuenerint, ita ut omnia simul rei  p. 61  cui applicantur aequentur, nisi ex genere uel differentiis haec collectio fiat, descriptio nuncupatur. est igitur descriptio generis haec : genus est quod de pluribus et differen-  tibus specie in eo quod quid sit praedicatur. tria haec requiruntur in genere, ut de pluribus praedicetur, ut de specie differentibus, ut in eo quod quid sit. de qua re quoniam ipse posterius latius disputat, nos breuiter huius rei intellegentiam significemus exemplo. sit enim nobis in forma generis animal.  id de aliquibus sine dubio praedicatur, homine scilicet, equo, boue et ceteris. sed haec plura sunt. animal igitur de pluribus praedicatur, homo uero, equus atque bos talia sunt, ut a se discrepent, nec qualibet mediocri re, sed tota specie, id est tota forma suae substantiae. de quibus dicitur animal; homo  enim et equus et bos animalia nuncupantur. praedicatur ergo animal de pluribus specie differentibus. sed quonam modo fit  9 in priore uolumine] cf. p. 42, 8—43, 6 potius quam p. 153, 10 ss.; cf. Proleg. adn. 7.   1 genere  G post  supponatur  add . sed cum (alii  add. P ) subponi- tur ( uel  sup-)  CFHN, s. l. Pm2  non—potest  (3) del. E  2 col- locatur  CFHNPm2  non] enim  EF  7 ei (eius  HN ) aliud quod  HNPm1RS  possit  EGS  9 priori  LN  ex  om. GHS, s. l. Em2Lm2  11 plurima  L  plura  post  unum  C  16  post . ut  om. FG  18 late  E (in ras.) FHP, ecte ? 19 exemplo] hoc modo  CLP  20 prae- dicetur  CEGPm1RS ante  equo  add . et  FHLN, er. P  21 boue] et boue  L  et  er. uid. C  22 a] ad  Lm1S  23 mediocri re] medio- critate  H 24 forma tota  E (del. tota) G  26 fit  om. G   haec praedicatio? non enim quicquid interrogaueris, mox ani- mal respondetur : non enim si quantus sit homo interrogaueris, ‘animal’ respondebitur, ut opinor; hoc enim ad quantitatem pertinet, non ad substantiam. item si ‘qualis’ interroges, ne huic quidem responsio conuenit animalis, ceterisque omnibus inter-  rogationibus hanc animalis responsionem ineptam atque inu- tilem semper esse reperies, nisi ei tantum apta est quae quid sit interroget. interrogantibus enim nobis quid sit homo, quid sit equus, quid sit bos, ‘animalia’ respondebitur. ita nomen animalis ad interrogationem ‘quid sit’ de homine, equo atque  boue ac de ceteris praedicatur, unde fit ut animal praedicetur de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit. et quo- niam generis haec definitio est, animal hominis, equi, bouis genus esse necesse est. omne autem genus aliud est quod in semet ipso atque in re intellegitur, aliud quod alterius prae-  dicatione. sua enim proprietas ipsum esse constituit, ad alte- rum relatio genus facit, ut ipsum animal, si eius substantiam quaeras, dicam substantiam esse animatam atque sensibilem. haec igitur definitio rem monstrat per se sicut est, non tam- quam referatur ad aliud. at uero cum dicimus animal genus  esse, non, ut arbitror, tunc de re ipsa hoc dicimus, sed de ea relatione qua potest animal ad ceterorum quae sibi subiecta  2 non] num  FHN  rogaueris  Cm1GS  3  ante  animal  add . mox  F respondetur  F  ut] non  FHN  4  post  qualis  add . sit  FHNP, s. l. Em2, s. l . homo sit  Lm2 interroges]  Em1Lm1P  roges  cett . nec  CG  haec  CSm2  id  m1  hic  FN  5 interrogantibus  EG  6 ineptam]  CFHNPp.c.Lm2  idiotam  E (s. l. i . inertem  m2) GLm1 (s. l.  inpro- priam  m1?) Pa.c.S Hilgard  idiotam uel ineptam  R  idiotae  Engelbrecht  7 nisi] ni  C  8 interrogat  Em2HN  enim] autem  F post . quid] quidque  R  9 sit  om. E  animal  C  item  EGLm1PRS  11 ac] et  R  13  ante bouis  add . atque  FHNP  14 genus autem  C  15  ante  alterius  add . ad  CEm2HN  praedicationem  Em1PSm1 edd., post add . refertur  Pm2 edd . 18 dicas  Lm2  21 esse  om. EGRS, s. l. Lm2  re  om. EGR, s. l. Sm2 post  hoc  add . nomen  C, s. l .  Em2Pm2, ante FHNS  de  del. L, s. l. Pm2  22 relatione  in ras .  E  ratione  GLPm1R   sunt praedicationem referri. itaque character est quidam ac forma generis in eo quod referri praedicatione ad eas res potest, quae cum sint plures et specie differentes, in earum tamen substantia praedicatur.    Huius autem definitionis rationem per exempla subiecit dicens :    Eorum enim quae praedicantur, alia quidem de uno dicuntur solo, sicut indiuidua ut Socrates et hic et hoc, alia uero de pluribus, quemadmodum genera et  species et differentiae et propria et accidentia com- muniter, sed non proprie alicui. est autem genus qui- dem ut animal, species uero ut homo, differentia autem ut rationale, proprium ut risibile, accidens ut album, nigrum, sedere.    Omnium quae praedicantur quolibet modo, facit Porphyrius diuisionem idcirco, ut ab reliquis omnibus praedicationem generis seiungat ac separet, hoc modo. omnium, inquit, quae praedicantur, alia de singularitate, alia de pluralitate dicuntur.  7—14] Porph. p. 2, 17—22 (Boeth. p. 27, 2—7).   1  post  itaque  add . ut  P, s. l. Lm2 est  om. R, post  generis  F  quiddam  Ea.r.G  quidem  CNPm1  2 praedicatione  post  res  C  3 eo- rum  CGNS, m1 in ELP  4 tantum  E  substantiam  NR , -a  ex  -a  CS; cf. p. 187, 11. 18  5 autem  om. C, in mg. Lm2  8 indiuiduum  C  indibus ( s. l . indiuidua  Em2 ) diabus (a,  ex  e  E )  EG  ut Socrates— hoc  om. CLNP ,—risibile  (13) om. E (in mg . sicut socrates et hic et hoc)  GH  ut] sicut  Em2 (in mg.) RS ΑΣ  et hic et hec et hoc  F  9 uero  om. CFLNPR  autem  Σ  quemadmodum—risibile  (13) om. CL  ( sed uerba  est autem  11 —sedere 14  exhibet p. 184 , 14)  NP  ut genera, om. reliqua usque  accidens (13)  F  10 differentia  Sm1   m1  pro- prium  Γ  11 sed] et  ΛΣ  proprie]  L (p. 184, 14) R Ψ  propria  ΓΑΑΠ  ( ras. ex  -ae)  2  (a  in ras .)  Φ  ( post  alicui);  Porph. p. 2, 20   ιδίως est— risibile  om. R  est—sedere  (14) om. S  12 uero  s. l .  Δ m2 Φ m2  13  ante  accidens  add . ut  CL  ut] id est  CLm2P  uel  E  et  R; Porph. 2,22   otov  14  ante  nigrum  add.  et  R  16 a  LPS  17  post separet  add . et  (F)  id facit  FHN, s. l. Em2  18  pr . alia] alia quidem  FHN  alia de singularitate  om. G, s. l. Em2, post  pluralitate  CLm1 post . alia] alia uero  FHNS  dicuntur] praedicantur  post singularitate  FHN   de singularitate uero, inquit, praedicantur quaecumque unum quodlibet habent subiectum de quo dici possint, ut ea quibus singula subiecta sunt indiuidua, ut Socrates, Plato, ut hoc album quod in hac proposita niue est, ut hoc scamnum in quo nunc sedemus, non omne scamnum – hoc enim uniuersale  est —, sed hoc quod nunc suppositum est, nec album quod in niue est — uniuersale est enim album et nix —, sed hoc album quod in hac niue nunc esse conspicitur; hoc enim non potest de quolibet alio albo praedicari quod in hac niue est, quia ad singularitatem deductum est atque ad indiuiduam  formam constrictum est indiuidui participatione. alia uero sunt quae de pluribus praedicantur, ut genera, species, differentiae et propria et accidentia communiter,  p. 62  sed non proprie alicui. | genera quidem de pluribus praedi- cantur speciebus suis, species uero de pluribus praedicantur  indiuiduis; homo enim, quod est animalis species, plures sub se homines habet de quibus appellari possit. item equus, qui sub animali est loco speciei, plurimos habet indiuiduos equos de quibus praedicetur. differentia uero ipsa quoque de pluri- bus speciebus dici potest, ut rationale de homine ac de deo  corporibusque caelestibus, quae, sicut Platoni placet, animata sunt et ratione uigentia. proprium item etsi de una specie praedicatur, de multis tamen indiuiduis dicitur, quae sub conuenienti specie collocantur, ut risibile de Platone, Socrate et ceteris indiuiduis quae homini supponuntur. accidens etiam  1 uero  om. FHN  2 possunt  CLm1  3  ante Plato  add . ut  FH, s. l. Lm2  et  N edd . 4 quod] ut  F  ut] et  N  6 sed] sed et  F  7 niui  Gm2Sm1 enim est  FL  8 niui  Sm1, item 9  9 hac] alia  EFGR (a.c.ut uid.  ac  p.c.) Sm1  10  post , ad  om. GHLR, s. l. Em2Nm2 , in  FSm2  14 propriae  FGa.c.Sm1  propria  CHLN post  alicui  uerba lemmatis p. 183, 11—14  est autem—sedere  add. L  15 plurimis  FN  16  post  indiuiduis  add . suis  CFHP  17 qui] quod  FHN  19 praedicatur  FHN  20 potest dici  E  21 quae  om. R, s. l. Sm2 q.  er. N  22 item] autem  Lm2P  specie  om. C  23 tamen  ante  de  H  25  post  indiuiduis  add . dicitur  CLP, s. l. Hm2  hominibus  EG  homini *   ( b. ? er.) L  supponantur  Em1GS  supponuntur  ante homini  C   de multis dicitur; album enim et nigrum de multis omnino dici potest quae a se genere specieque seiuncta sunt. sedere etiam de multis dicitur; homo enim sedet, simia sedet, aues quoque, quorum species longe diuersae sunt. accidens autem  quoniam communiter accidens esse potest et proprie alicui, idcirco determinauit dicens et accidentia communiter, sed non proprie alicui. quae enim proprie alicui accidunt, indi- uidua fiunt et de uno tantum ualentia praedicari, ea quae communiter accipiuntur, de pluribus dici queunt. ut enim de  niue dictum est, illud album quod in hac subiecta niue est, non est communiter accidens, sed proprie huic niui quae oculis ostensionique subiecta est. itaque ex eo quod commu- niter praedicari poterat — de multis enim album dici potest, ut albus homo, albus equus, alba nix —, factum est, ut de  una tantum niue praedicari illud album possit cuius partici- patione ipsum quoque factum est singulare. omnino autem omnia genera uel species uel differentiae uel propria uel acci- dentia, si per semet ipsa speculemur in eo quod genera uel species uel differentiae uel propria uel accidentia sunt, mani-  festum est quoniam de pluribus praedicantur. at si ea in his speculemur in quibus sunt, ut secundum subiecta eorum formam et substantiam metiamur, euenit ut ex pluralitate praedicationis ad singularitatem uideantur adduci. animal enim,  3 enim  om. C  et  (s. l. m2)  enim  L  sedit  CN  simia]  post  sedet  FH  et simia  R  aues] auis  N  set et aues  F  sedet auis  H  4 quo- que  om. FN , uero  L  quarum  Lm1 post  sunt  s. l . sedent  Pm2  scil, sedent  Sm2  5  ante  communiter  add . et  FHN, s. l. Em2Pm2  7 propria  HN pr . alicui  om. GLR  quae  s. l. Sm2  cum  E (s. l. m2)FH  enim proprie  s. l. Em2Sm2  propria  N accidunt ali- cui  E  8 ea quae] et quae  E  ea quidem quae  N  eademque cum  P  et cum  F  cum  H  9 queunt  om. Em1G, s. l. Sm2  possunt  E m2 Pm1  (potest  m2 )  R  10 niui  Sm1  niue est subiecta  HL  niui  Sm1  nunc  G  12 ostensione  GRS  ita *  (q.  er .)  C  ita quoque  Sm2, ad  itaque  s. l . quoque  Hm2  15 niui  GSm1  17 differentias  CE  (s  in er . e?)  GL  20 quoniam] quod  G  21 ut] et  FN subiectam  CEGH a.r.Lm1PSm2  22 substantiamque ( om . et)  FHNP  metiantur  E  mentiamur  Ca.r.Sa.c . eueniet  HN  pluritate  Gm1P   quod genus est, de pluribus praedicatur, sed cum hoc animal in Socrate consideramus — Socrates enim animal est —, ipsum animal fit indiuiduum, quoniam Socrates est indiuiduus ac singularis. item homo de pluribus quidem hominibus praedi- catur, sed si illam humanitatem quae in Socrate est indiuiduo  consideremus, fit indiuidua, quoniam Socrates ipse indiuiduus est ac singularis. item differentia ut rationale de pluribus dici potest, sed in Socrate indiuidua est. risibile etiam cum de pluribus hominibus praedicetur, in Socrate fit unicum. communiter quoque accidens, ut album, cum de pluribus  dici possit, in uno quoque singulari perspectum indiuiduum est. Fieri autem potuit commodior diuisio hoc modo. eorum quae dicuntur, alia quidem ad singularitatem praedicantur, alia ad pluralitatem, eorum uero quae de pluribus praedicantur, alia secundum substantiam praedicantur, alia secundum acci-  dens. eorum quae secundum substantiam praedicantur, alia in eo quod quid sit dicuntur, alia in eo quod quale sit, in eo quod quid sit quidem, genus ac species, in eo quod quale sit, differentia. item eorum quae in eo quod quid sit praedi- cantur, alia de speciebus praedicantur pluribus, alia minime;  de speciebus pluribus praedicantur genera, de nullis uero species. eorum autem quae secundum accidens praedicantur, alia quidem sunt quae de pluribus praedicantur, ut accidentia,  1 plurimis  R  5 si  s. l. Lm2Sm2  quae  et  est  om. F  est— indiuidua  in mg. Cm2  7 est  post  singularis  E  9 hominibus  om. FN praedicatur  CEGL (ante  hominibus) Pm1RS dici possit  N  in Socrate  om. ER  unica  Em1GS unicam  Lm1  unita  R  10 cum  s. l. Em2Sm2  11 possit dici  E  singulari] singulari corpore  CFHN perspectum]  CE (in ras.) FH, m2 in LPS  perspecta  Lm1 a.c . (perfecta  m1p.c .) R  perfectam  Pm1Sm1  profecto ( alt . o  in ras .)  N  profecto perfecta  G  in- diuidua  EGLm1RS  12  ante  eorum  add . ut  GRS, del. EL  13 dicun- tur] praedicantur  Pm2  praedicantur] dicuntur  L  ( ex  dicantur  m2 )  P  14 plurimis  R  praedicantur] dicuntur  N  17  pr . quod—differentia  (19) in ras. Em2 post , in eo—differentia  (19) om. GR  19 iterum  FN  20 pluribus (plurimis  H ) praedicantur  FHN  21  post  speciebus  add . quidem  FHNP  pluribus  om. GRS, s. l. Lm2, post  praedicantur  Em1Fm1 23  post  pluribus  add . speciebus  CFHN, s. l. Em2   alia quae de uno tantum, ut propria. Posset autem fieri etiam huiusmodi diuisio. eorum quae praedicantur, alia de singulis praedicantur, alia de pluribus. eorum quae de plu- ribus, alia in eo quod quid sit, alia in eo quod quale sit  praedicantur. eorum quae in eo quod quid sit, alia de diffe- rentibus specie dicuntur, ut genera, alia minime, ut species, eorum autem quae in eo quod quale sit de pluribus prae- dicantur, alia quidem de differentibus specie praedicantur, ut differentiae et accidentia, alia de una tantum specie, ut propria.  eorum uero quae de differentibus specie in eo quod quale sit praedicantur, alia quidem in substantia praedicantur, ut diffe- rentiae, alia in communiter euenientibus, ut accidentia. et per hanc diuisionem quinque harum rerum definitiones colligi possunt hoc modo. genus est quod | de pluribus specie differen-  p. 63   tibus in eo quod quid sit praedicatur. species est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur. differentia est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit in substantia praedicatur. proprium est quod de una tantum specie in eo quod quale sit non in sub-  stantia praedicatur. accidens est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit non in substantia praedicatur.  1 quae  om. FN  una  C (s. l. add . specie ) FHN  possit  FRS  potest  N  2 etiam  om. LP  4  post pr . sit  add . praedicantur  CFHNP, s.l. Lm2  6 specie] speciebus  Ea.r.FLNPS  7 autem  in mg. E, s. l. Lm2  9 accidentia et differentiae  C post  accidentia  add . communiter  Pm2   edd . 10 uero  om. GRS, in mg. Em2Lm2  quae  in mg. Em2  de differentibus specie  om. GLRS, in mg . de specie differentibus  Em2  de  om . C 11 substantiam  RSa.r . 12 conuenientibus  Pm2  13 de- finitiones] diuisiones  FHm1  14 specie differentibus  hic F, post quid sit  (15) cett.; cf. proxima et p. 193, 1  15 est] autem  E  18 substan- tiam  R  proprium—praedicatur  (20)] om. GR, in mg. Em2  proprium (uero  s. l. add. Lm2 ) est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod quale ait (sit  s. l. Lm2 ) non in substantia praedicatur  LPm2  non in substantiam praedicatur  Sm1, del. m2, in sup. mg . ( ante  non  inse- renda )  haec proprium est quod de pluribus specie minime differentibus,  deinde pauca uerba, quorum extremum  <praedi>cat<ur>,  cum mg. abscisa, sequuntur uerba  accidens est  (20) —praedicatur  (21) ,  m2  20  ante  specie  add . et  CE (del.) GLP    Et nos quidem has diuisiones fecimus, ut omnia a semet ipsis separaremus, Porphyrio uero alia fuit intentio. non enim omnia nunc a semet ipsis disiungere festinabat, sed tantum ut cetera a generis forma et proprietate separaret. idcirco diuisit quidem omnia quae praedicantur aut in ea quae de  singulis praedicantur, aut in ea quae de pluribus, ea uero quae de pluribus praedicantur, aut genera esse dixit aut species aut cetera, horumque exempla subiciens adiungit :    Ab his ergo quae de uno solo praedicantur, diffe- runt genera eo quod de pluribus adsignata praedi-  centur, ab his autem quae de pluribus, ab speciebus quidem, quoniam species etsi de pluribus praedican- tur, sed non de differentibus specie, sed numero; homo enim cum sit species, de Socrate et Platone praedicatur, qui non specie differunt a se inuicem,  sed numero, animal uero cum genus sit, de homine et boue et equo praedicatur, qui differunt a se inui- cem et specie quoque, non numero solo. a proprio uero differt genus, quoniam proprium quidem de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur et de his  quae sub una specie sunt indiuiduis, quemadmodum  9—p. 189, 16] Porph. p. 2, 22—3, 14 (Boeth. p. 27, 8—28, 7).   2 separemus  GNRm1Sm1  porphirii  Lm1  fuit alia  CN  4 forma generis  H  separet  NPa.c.Sm1 ante  idcirco  add . hic  FRS  5 diuisit  s. l. Em2  separauit  m1  quidem  s. l. R, ante  diuisit  L  6 praedicarentur  FHLm2Pm2  plurimis  Em1Lm2  uero] autem  C  7 plurimis  FGm2N  praedicarentur  FHLm2  8 horum  F  9 Ab  om. GHP, s. l. ER  ergo] uero  H  praedicarentur  N  10 prae- dicantur  Em1GLm2PRSm2 Busse  11 ab his—accidens  (p. 189, 14) ]  Ω ,  om. cett., sed in S particulae lemmatis plerumque  HISTORIA  (cf. ad p. 167, 21) inscriptae uariis locis expositionis p. 189, 17—193, 16 insertae sunt, item particulae quaedam in L; quorum locorum lectiones hic pro- ponentur post . ab]  Ω   (etiam B Bussii)  a  edd. Busse  12  post  quidem  add . differunt genera  Γ  praedicatur  ΛΣ  13 sed non] sed  om .  Σ  non tamen  H m2 ‘i’  14 Platone] de platone  A  16 sit genus  Σ  17 boue] de boue  Γ  18 et om.  ΓΦ  non]  Porph. p. 3, 1   aX\’ οΰχί  solum  edd. cum Porph .  τώ άριθ·μώ μόνον  20 hiis  Φ  21 una  om. Porph. p. 3, 3   risibile de homine solo et de particularibus homini- bus, genus autem non de una specie praedicatur, sed de pluribus et differentibus specie. a differentia uero et ab his quae communiter sunt accidentibus differt  genus, quoniam etsi de pluribus et differentibus spe- cie praedicantur differentiae et communiter acciden- tia, sed non in eo quod quid sit praedicantur, sed in eo quod quale quid sit. interrogantibus enim nobis illud de quo praedicantur haec, non in eo quod quid  sit dicimus praedicari, sed magis in eo quod quale sit. interroganti enim qualis est homo, dicimus ratio- nalis, et in eo quod qualis est coruus, dicimus quo- niam niger. est autem rationale quidem differentia, nigrum uero accidens. quando autem quid est homo  interrogamur, animal respondemus; erat autem homi- nis genus animal.    Nunc genus a ceteris omnibus quae quolibet modo praedi-  3 specie  s. l .  Γ ,  om. optimi codd. Porph. p. 3,5, delend. uid. Bussio  5  locum  quoniam—animal  (16) post  genus  p. 193, 18 add. LS  etiamsi  LS sΠ*ΙΓ  specie differentibus  ΛΣ ;  Porph. p. 3, 6   διαφερόντων τψ ειόει  6 differentia  Lm2S  7 sed non]  Δ  ( ad  sed  s. l . id est tamen  m1? )  Π  ( ad  sed  s. l . uel tamen  m1? )  A Busse  tamen non  LS ΤΣΦ  non tamen  Ψ   edd.; Porph. p. 3, 8   άλλ’ οόκ ,  cf. supra p. 188, 13, infra 190, 12  7 sit  om. L  sed in eo quod quale quid sit]  codd. cum Porph. p. 3, 8 codicib. Lm2Mm2   άλλ’ έν τψ όποιον τ£ έστιν ,  delend. uid. Bussio  8 quid  om. S Φ  interrogantibus—sit  (11) om .  Φ  ad interrogantibus  s. l . uel interrogati  Δ  nobis]  LS A m2 Ii   (del. m2) Busse  nos  A m1 (enim  post  nos,)  Ψ ,  om .  ΓΔ2  ( decst   Φ );  Porph. p. 3, 8   έρωτησάντων γάρ ήμών  uel  τινών   codd . 9  post  illud  s. l . quomodo  (m1?)  uel de quo  (m2)   Δ  haec  s. l. Lm2  10  post  quale  add . quid  Π (del. m2)   Ψ m Busse, om .  LS VM pbr, om. etiam p. 194, 7 (cf. p. 195, 4. 196, 8. 15) , aliquid  s. l .  Λ  ( deest   Φ );  Porph. p. 3, 10   έν τψ ποιόν τί έατιν  11 interroganti]  ΑΣ a.r . Ψ  interrogantibus  S interrogati  cett.; Porph. p, 3, 10   έν γάρ τψ έρωταν  12. dicimus]  Π m2 ΣΨ ,  om .  Φ , dicitur  cett.; Porph. p. 3, 11   οομέν  14 autem  om. N  quid est] quidem  FN  qui  Gm1, s. l . est  m2  quod est  L 15 interrogamus  P A ,  m1 in   EGR Z  interrogemus  S  erat]  RS, m1 in Ρ ΔΛ , est  1  erit  cett.; Porph. p. 3, 13   vjv  genus ho- minis  Σ   cantur separare contendit hoc modo. quoniam enim genus de pluribus praedicatur, statim differt ab his quidem quae de uno tantum praedicantur quaeque unum quodlibet habent indiui- duum ac singulare sublectum; sed haec differentia generis ab his quae de uno praedicantur, communis ei est cum ceteris,  id est specie, differentia, proprio atque accidenti idcirco, quo- niam ipsa quoque de pluribus praedicantur. horum igitur sin- gulorum differentias a genere colligit, ut solum intellegendum genus quale sit sub animi deducat aspectum, dicens : ab his autem quae de pluribus praedicantur, differt genus,  ab speciebus quidem primum, quoniam species etsi de pluribus praedicantur, non tamen de differentibus specie, sed numero. species enim sub se plurimas species habere non poterit, alioquin genus, non species appellaretur.  p. 64  si enim genus est quod de pluribus specie | differentibus in eo  quod quid sit praedicatur, cum species de pluribus dicatur et in eo quod quid sit, huic si adiciatur ut de specie differenti- bus praedicetur, speciei forma transit in generis; id quoque exemplo intellegi fas est. homo enim praedicatur de Socrate, Platone et ceteris quae a se non specie disiuncta  sunt, sicut homo atque equus, sed numero : quod quidem habet dubitationem quid sit hoc quod dicitur numero differre. numero enim differre aliquid uidebitur quotiens numerus a  2 quidem  om. CHN  qui  G, ex  quae  Lm2  3  post praedicantur  add . ut socrates et hic et hoc  H  quae  CN  5 uno] uno solo  LS  est ei  L  est  om. CEHN  6  post  specie  add . et  FHP, s. l. Lm2  accidente  Lm2Pm1N  9 aspectum deducat  E  ab]  CL (s. l.) NSm2, om. cett . 10 autem] enim  P post  pluribus  add . id est ( add . specie,  sed   del. E ) ab his quae ( haec s. l. E ) de pluribus  Em2GPRS  11 a  R  primum  om. S, s. l. Lm2; deest p. 188, 12  12 praedicatur  S  non tamen] sed non  S  de  om. FHNP  15 plurimis  Em2GPRS  16 plurimis EGR  dicatur] praedicetur  C  praedicatur  edd . 19 fas est] placet  HNPm1 post  enim  s. l . cum sit species  Em2Pm2 (ex p. 188,14)  quod est species  Lm2  20 et ceteris  del. E  qui  Ep. c . disiuncta ( ad quod s. l . differunt)—equus  del. E  21  post  equus  add . uel bos  LP  23 differre  (in mg. H) post  aliquid  FHLN  aliquis  GS  quoties (-cies)  EPRS   numero differt, ut grex boum qui fortasse continet triginta boues, differt numero ab alio boum grege, si centum in se contineat boues; in eo enim quod grex est, non differunt, in eo quod boues, ne eo quidem : numero igitur differunt,  quod illi plures, illi uero sunt pauciores. quomodo igitur So- crates et Plato specie non differunt, sed numero, cum et So- crates unus sit et Plato unus, unitas uero numero ab unitate non differat? sed ita intellegendum quod dictum est numero differentibus, id est in numerando differentibus, hoc est  dum numerantur differentibus. cum enim dicimus ‘hic Socrates est, hic Plato’, duas fecimus unitates, ac si digito tangamus dicentes ‘hic unus est’ de Socrate, rursus de Platone ‘hic unus est’, non eadem unitas in Socrate numerata est quae in Pla- tone. alioquin posset fieri ut secundo tacto Socrate Plato  etiam monstraretur. quod non fit. nisi enim tetigeris Socratem uel mente uel digito itemque tetigeris Platonem, non facies duos, dum numerantur. ergo differunt quae sunt numero dif- ferentia. cum igitur species de numero differentibus, non de specie praedicetur, genus de pluribus et differentibus specie  dicitur, ut de boue, de equo et de ceteris quae a se specie inuicem differunt, non numero solo. tribus enim modis unum quodque uel differre ab aliquo dicitur uel alicui idem esse,  3 continet  EGLRS  differt  C, add . neque  CP, s. l. Hm2, s. l . nec  Lm2  4 ne—differunt]  H  ( post  quidem  del . haec  m2 )  N  igitur  om. EG  nec in eo  (recte?)  quidem differunt. Igitur numero differunt  L non nisi quidem numero. Igitur differunt numero  F  non nisi (eo  add. S, sed del .) quidem numero differunt  RS  Numero igitur (Igitur numero  C ) differunt,  cet .  om. CP  5 quomodo] quo  R  igitur] uero  C  6 specie—Plato  om. F  7  pr . unum  PS  8 differt  CEm2NPR post  intellegendum  add . est  CL  10 dum] cum  F  12  ante  rursus  s. l . et  S  14 possit  FLRS  posset fieri  in mg. Cm2 ut] in  Cm2Em2G  tactu socrates  Em1G  15  ante  etiam  add . et ( sed  et  in  etiam  del. uid. E )  EG demonstraretur  LP  19 speciebus  CFHN post  genus  s. l . quoque  Lm2  et  om. Em1  ( s. l . et de  m2 )  R  specie differentibus  EF  20  pr . de  om. CL  et  om. FH  de  s. l. Em2Lm2  ceterisque quae  F inuicem specie  FN   genere, specie, numero. quaecumque igitur genere eadem sunt, non necesse est eadem esse specie, ut si eadem sint genere, differant specie. si uero eadem sint specie, genere quoque eadem esse necesse est, ut cum homo atque equus idem sint genere — uterque enim animal nuncupatur —, differunt specie,  quoniam alia est hominis species, alia equi. Socrates uero atque Plato cum idem sint specie, idem quoque sunt genere; utrique enim et sub hominis et sub animalis praedicatione ponuntur. si quid uero uel genere uel specie idem sit, non necesse est idem esse numero, quod si idem sit numero, idem et specie  et genere esse necesse est; ut Socrates et Plato, cum et genere animalis et specie hominis idem sint, numero tamen reperiun- tur esse disiuncti. gladius uero atque ensis idem sunt numero, nihil enim omnino aliud est ensis quam gladius, sed nec specie diuersi sunt, utrumque enim gladius est, nec genere,  utrumque enim instrumentum est, quod est gladii genus. quoniam igitur homo, bos atque equus, de quibus animal praedicatur, specie differunt, numero ergo etiam eos differre necesse est. idcirco hoc plus habet genus ab specie, quod de specie differentibus praedicatur. nam si integram generis defi-  nitionem demus, dabimus hoc modo : genus est quod de plu-  1  ante  genere  add . id est  P, s. l. Hm2Lm2  genere—esse specie  om. EGRS numero] et numero  C  2 esse  post  specie  C, ante  eadem  FH  ut si—differant specie  om. FHNPm1 ,  in mg. add., sed del. m2  genere—eadem sint  om. C  3 sunt  F  4 est] esse ( idem ante necesse )  GSm1  sunt  EFGKHm1NRSm1  5 animalia  FHN  nuncupantur  FHNS  differentia  Hm1N  6 species  om. FG, ante  est  C  7 uterqne  EGLPRS, recte?  8 et  om. CP  sub hominis et  om. GLRS, s. l. Em2Pm2 post , sub  om. C  ponitur  Lm2Sm2  9 sit] sint  S  sunt  Fm1 (in mg . est m2) Nm1  10 quod si—necesse est  post  disiuncti  (13) transpos. et 13  enim  pro  uero  scr. brm 12 tamen] tantum  CLm1  15 diuersi *   (s er.) ,  om , sunt  C  est gladius  FN  16  ad  instrumentum  s. l . bellicum  Em2  17 bos  ante  homo  EG  atque bos  post  equus  FN  18 ergo  om. FHNP, del. Cm1? Lm1? Sm2  etiam  s. l. Lm1?  19  ante  id- circo  add . et  F, s. l. Sm2  ab specie  om. EGLS  a  R  de] a  R  ab  CEGLS  20  post  specie  s. l . quidem  L  definitionem ( uel  diff-) generis  FHNP  21 dabimus  om. EG  ( add . dicimus  post  modo)  RS, s. l. Lm2, post  modo  C   ribus specie et numero differentibus in eo quod quid sit prae- dicatur, at uero speciei sic : species est quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. A proprio uero differt genus, quoniam proprium quidem  de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur et de his quae sub una specie sunt indiuiduis. proprium semper uni speciei adesse potest neque eam relinquit nec transit ad aliam, atque idcirco proprium nuncupatum est, ut risibile hominis; itaque et de ea specie cuius est proprium  praedicatur et de his indiuiduis quae sub illa sunt specie, ut risibile de homine dicitur et de Socrate et Platone et ceteris quae sub hominis nomine continentur. genus uero non de una tantum specie, ut dictum est, sed de pluribus. differt igitur genus a proprio eo quod de pluribus speciebus praedi-  catur, cum proprium de una tantum de qua dicitur appelletur et de his quae sub illa sunt indiuiduis. A differentia uero et ab his quae communiter sunt accidentibus differt genus. differentiae atque accidentis discrepantiam a genere una separatione concludit. omnino enim quia haec in  eo quod quid sit minime praedicantur, eo ipso segregantur a genere; nam in ceteris quidem propinqua sunt generi, nam et  1 specie—differentibus] specie non (non  Lm2 s. l. et R  et  cum cett. P ) numero solo (solo  s. l. Lm2, om. P ) differentibus  LPR  2 plurimis  S  3 in—sit  om. HN  4 proprium] prius  S  proprium—praedicatur] pro- prium praedicatur et de una sola specie  C  quidem—est proprium  om .  G, s. l. Em2  quidem  om. etiam S  6  post  proprium  add . uero  N  enim  brm  7 uni  om. GS, post speciei  E (s. l. m2) HR  9  post  hominis  add . est  edd . 11 et] ut  RS  de  om. FN, s. l. Pm2  Platone] de platone  G  et ceteris] ceterisque  FHNP  12 qui  Em2  13 ut  s. l. Hm2Pm2  de  om. N  plurimis  CEm1GNR, add . et differentibus specie  S, in mg. Pm2  ( om . specie) 14 praedicetur  Lm2P  15  post  tantum  s. l . specie  Lm2  appellatur  FHm1NR  17 sunt accidentibus] accidunt  HN  18 genus]  cf. ad p. 189, 5; post locum p. 189, 5—16   uerba  Quare—praedicantur  p. 194, 20 s. add. L  discrepantia  FL  19 separatione  del. et s. l . diffinitione  Em2, post  separatione  add . uel definitione  Hm1, del. m2  20 sint  Em2HN  21 in]  CL (s. l. m2) N, om. cett .   de pluribus praedicantur et de specie differentibus, sed non  p. 65  in eo quod quid sit. si quis enim | interroget : qualis est homo? respondetur rationalis, quod est differentia; si quis : qualis est coruus? dicitur niger, quod est accidens. si autem interroges : quid est homo? animal respondebitur, quod est genus. quod  uero ait : haec non in eo quod quid sit dicimus praedi- cari, sed magis in eo quod quale sit, hoc magis quaesti- oni occurrit huiusmodi. Aristoteles enim differentias in sub- stantia putat oportere praedicari. quod autem in substantia praedicatur, hoc rem de qua praedicatur, non quale sit, sed  quid sit ostendit. unde non uidetur differentia in eo quod quale sit praedicari, sed potius in eo quod quid sit. sed sol- uitur hoc modo. differentia enim ita substantiam demonstrat, ut circa substantiam qualitatem determinet, id est substanti- alem proferat qualitatem. quod ergo dictum est magis, tale  est tamquam si diceret : uidetur quidem substantiam significare atque idcirco in eo quod quid sit praedicari, sed magis illud est uerius, quia tametsi substantiam monstret, tamen in eo quod quale sit praedicatur.   Quare de pluribus praedicari diuidit genus ab his  quae de uno solo eorum quae sunt indiuidua praedi- cantur, differentibus uero specie separat ab his quae  20—p. 195, 5| Porph. p. 3, 14—19 (Boeth. p. 28, 7—13).   1 plurimis  FH  3 respondebitur  R rationabilis  N  quis  om. R, post s. l . scil.  (om. brm)  interroget  Hm2brm post , est  om. HN  4 dicetur  FHN  interrogetis  N  9 autem] uero  FHN  10 qualis  Cm2FHP  16 tamquam] ac  F  20  uerba  Quare—praedicantur  (21) et p. 193, 18 et hic  ( hic om . praedicatur)  habet L, eadem iam ante lemma add. S  predicari  ex  preditur  Pm2  genus diuidit  hic L  hiis  F  21 sola  F  eorum—accidentibus ( p.195, 3 )]  Ω ,  in sup. mg . non sunt indiuidua  (21) — accidentibus  add. Lm2? dicuntur ut indiuidua quae de una solummodo substantia dicuntur  R, om. cett. codd . eorum quae sunt indiuidua  om. p. 193, 18 L  eorum  om. L (hic)   A  22  ante  differentibus  add . de  ΓΛΦ ; differentibus—quibus praedicantur  (195, 5) post  colligamus  p. 196,1 inseruit S, itaque uerba quae  (195, 3) —quibus praedicantur  (195, 5) et illic et hic  habet separatur  Φ ,  in mg . genus  add .  Γ   sicut species praedicantur uel sicut propria; in eo autem quod quid sit praedicari diuidit a differentiis et communiter accidentibus, quae non in eo quod quid sit, sed in eo quod quale sit uel quodammodo se  habens praedicantur de quibus praedicantur.    Tria esse diximus quae significationem hanc tertiam generis informarent, id est de pluribus praedicari, de specie differenti- bus et in eo quod quid sit. quae singulae partes genus a ceteris quae quomodolibet praedicantur distribuunt ac secer-  nunt, quod ipse breuiter colligens dicit; id enim quod de pluribus praedicatur, genus ab his diuidit quae de uno tan- tum praedicantur indiuiduo. indiuiduum autem pluribus dici- tur modis. dicitur indiuiduum quod omnino secari non potest, ut unitas uel mens; dicitur indiuiduum quod ob soliditatem  diuidi nequit, ut adamans; dicitur indiuiduum cuius praedicatio in reliqua similia non conuenit, ut Socrates : nam cum illi sint ceteri homines similes, non conuenit proprietas et praedi- catio Socratis in ceteris. ergo ab his quae de uno tantum praedicantur, genus differt eo quod de pluribus praedicatur.  restant igitur quattuor, species et proprium, differentia et acci-  6 diximus] p. 181, 15.   2 diuiditur  Φ ,  s. l . genus  add. Lm2  differentibus  S  3  ante  quae  add . et  CEGP  quae  om. R  non  om. S (hic)  quod] quia  R  4  post . sit]  Σ  est  cett; cf. p. 196, 8  quodammodo  in ras. Em2  quod ad modum  CG  quemadmodum  LP  quod a modo  R  quomodo  Ψ   edd. Busse ;  Porph. p. 3, 19   πώς ;  cf. supra p. 128, 10  5 praedicantur  om .  ΓΦ   ante  de quibus  add . de his  S  ( ad p. 194, 22 ) ab his  Σ  his  A  hiis  Φ  de quibus praedicantur]  S (ad p. 194, 22)   ΓΛ  (de  s. l .)  2Φ ,  om. cett . 7 informant  FHm1N post,  de]  Hm2LPm2, om, CEGNRS , sed  FHm1Pm1; cf. p. 181, 16  8 et  om. R  9 quolibet modo  CL  (modo  s. l. m2 ) N quo *** libet (libe  er. uid .)  F  praedicatur  GPm1  10 col- ligens breuiter  EGS  12 dicitur pluribus  C  13 non potest secari  CFN  14 indiuiduum—dicitur  (15) om. G  15 adamas  HLm1P  (-as  ras. ex  -ans), amans  R  18 ceteros  NP  20 igitur] ergo  FP dif- ferentiae  EHa.c.NP, ante add . et  H, s. l. Lm2   dens, quorum a genere differentias colligamus. singulis igitur differentiis ab his rebus segregabitur genus. ea quidem dif- ferentia qua de specie differentibus genus dicitur, separat ab his quae sicut species praedicantur uel sicut propria. species enim omnino de nulla specie dicitur, proprium uero de una  tantum specie praedicatur atque ideo non de specie differenti- bus. item genus a differentia et accidenti differt, quod in eo quod quid sit praedicatur; illa enim in eo quod quale sit appellantur, ut dictum est. itaque genus quidem ab his quae de uno praedicantur differt in quantitate praedicationis, ab  speciebus uero et proprio in subiectorum natura, quoniam genus de specie differentibus dicitur, proprium uero et species minime. item genus in qualitate praedicationis a differentia accidentique diuiditur. qualitas enim praedicationis quaedam est uel in eo quod quid sit uel in eo quod quale sit praedicari.   Nihil igitur neque superfluum neque minus con- tinet generis dicta descriptio.    Omnis descriptio uel definitio debet ei quod definitur aequari. si enim definitio definito non sit aequalis et si quidem maior sit, etiam quaedam alia continebit et non necesse est ut semper  definiti substantiam monstret; si minor, ad omnem definitionem  16 s.] Porph. p. 3, 19 s. (Boeth. p. 28, 13 s.)   1 quarum  Cm1Lm1 colligamus  ante  differentias  C  colligemus (e  ex  i)  H; cf. ad p. 194, 22  2 ea quidem—dicitur  om. S  3  post  differentibus  add . praedicari  edd . separat ab his]  FLm1R  dum separat ab his  S differt ab his  CN  differt  (s. l. Em2)  ab (a  L ) specie et proprio  HP ,  s. l. Lm2 (seperat—propria  [4] del. Lm2, om. P), s. l . et ab his  add .  Hm2, om. EG  separatur ab his  edd.; cf. p. 194, 20  4 praedicantur  post  propria  H  5 nulla] nulla alia  LS  8 enim] uero  FHN  10 a  LNR  13 ab  FHP  (b  er .) 15 praedicare  GR  16 Nihil  ex  Nil  Pm1? pr . neque  om .  ΛΛΠΣΨ   Porph. p. 3, 19 Busse, del .  Γ m2  17 genus  F  dicta  om. E, s. l .  Σ ,  post  descriptio  G locus Porph. p. 3, 19 s. plenior est (cf .  τής έννοιας ,  quod deest ap. Boeth.)  18 Omnis descriptio  in mg. Em2 (in contextu ras.), om. GR, s. l. Sm2 post  Omnis  add . enim  L, s. l. Sm2, post  debet  C (er.) EGR  19 definito  om. FPS  et  om. CFN  21 definitio ( uel  diff)  Ca.r.N post  si  s. l . sit  L  definitio  C  definiti ( uel  diff-)  Em2HN   substantiae non peruenit. omnia enim quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, ut animal de homine, minora uero de maioribus minime; nemo enim uere dicere potest ‘omne animal homo est’. atque idcirco si sibi praedicatio conuertenda est,  aequalis oportebit sit. id autem fieri potest, si neque super- fluum quicquam habet neque di|minutum, ut in ea ipsa generis  p. 66  descriptione. dictum est enim esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, quae descriptio cum genere conuerti potest, ut dicamus quicquid  de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, id esse genus. quodsi conuerti potest, ut ait, nec plus neque minus continet generis facta descriptio.    1 substantiam  CEm2  4  pr . est  om. C  5 oporteat  EGHL  ( a del .)  PRS ante  sit  add . ut  E (in ras. m2) FLNPR, s. l. Cm2Hm2  6 habeat  R  diminutiuum  Em1  7 enim est  G  esse  s. l. Em2L, post  genus  Pm2  8 praedicatur  Em2FNa.c . 9  post  ut  s. l . si  Lm2  quicquid] quod  EGLm1RS  10 praedicatur  Em2 11 conuerti potest] * (ñ  er .) con- uertitur  C  conuertitur. est  F  conuerti (non  del .) potest  S neque— neque  FLm2P  nec—nec  HLm1  neque—nec  N  12 continet  s. l. Nm2   Sm2, om. F, post  generis  CEGL  facta] dicta  p. 196, 17  ANICII MANLII (MALLII  G ) SEVERINI BOETII V. C. ET I LL  EXCONS. ORD. PATRICII IN ISAGOGAS (YSAGOG.  E ) PORPHYRII ID EST INTRODVCTIONEM (introductiones  C ) A SE TRANSLATAS EDITI- ONIS SECVNDAE COMMENTARIVS SECVNDVS EXPLIC. (commen- tum in secdo lib. explic.  C, post  PORPHYRII  add . SCDE EXPOSITIO- NIS LIB. II. EXPLICIT  E ) INCIPIT LIBER TERTIVS  C  ( pleraque litt. minusc. scr .)  GE  ( uariis cum scripturis compendiisque ); sede trans- lationis comtarius expł incip lib IΙI.  L ; EXPL COMMENTARIVS. II. INCIPIT LIB TERTIVS. S; EXPLIC COMENTORV LIBER SCDS. INCIPIT TERTIVS N·, EXPLICIT LIBER SECDS. INCIPIT LIBER TERTIVS (TERCIVS LIBER  P )  FP ; INCIPIT LIBER TERTIVS  R ;  subscriptio deest in H     Superior de genere disputatio uideatur forsitan omnem etiam speciei consumpsisse tractatum. nam cum genus ad aliquid praedicetur, id est ad speciem, cognosci natura generis non potest, si speciei quae sit intellegentia nesciatur. sed  quoniam diuersa est in suis naturis eorum consideratio atque discretio, diuersa in permixtis, idcirco sicut singula in prooemio proposuit, ita diuidere cuncta persequitur. ac primum post generis disputationem de specie tractat. de qua quidem dubitari potest. si enim haec fuit ratio praeponendi generis  reliquis omnibus, quod naturae suae magnitudine cetera con- tineret, non aequum erat speciem differentiae in ordine trac- tatus anteponere, quod differentia speciem contineret, cura praesertim differentiae ipsas species informent. prius autem est quod informat quam id quod eius informatione perficitur.  posterior igitur est species a differentia, prius igitur de dif- ferentia tractandum fuit. etenim prooemio etiam consentiret, in quo eum ordinem collocauit quem naturalis ordo suggessit, dicens utile esse nosse quid genus sit et quid differentia. huic respondendum est quaestioni, quoniam omnia quaecumque  19 dicens] p. 147, 5. 7. 148, 17.   2 uidetur  CGHL, ras. ex  uideatur  PS  3 sumpsisse  CHN  5 ne- scitur  FHm1  7 mixtis  Fa.c.Lm1  8 posuit  H  diuidere  ante  ita  G, post  cuncta  CLP , diuise  HNa.c . prosequitur  Gm1PR  10 pro- ponendi  CFNR  genus  R  12 nonne  Em2FHPSm2 ante aequum  add . et  HP, s. l. Em2  speciei differentiam  EFHLm2P; cf. p. 239, 9  13 obtineret  CLm1 14 ipsae  CNP  est  s. l. Gm2Lm2  15 informet  E  16 post  Em1GLm1RS  igitur] ergo  C  a  om. CRS, er. L  17 ut enim  N  ut  CH  etiam  om. CF  18  post  quo  add . prius  CN  eam ordine  CFN quam  CFN  19  post  dicens  add . ubi ait  E  20  ante  huic  add . sed  E   ad aliquid praedicantur, substantiam semper ex oppositis sumunt. ut igitur non potest esse pater, nisi sit filius, nec filius, nisi praecedat pater, alteriusque nomen pendet ex altero, ita etiam in genere ac specie uidere licet. species quippe nisi  generis non est rursusque genus esse non potest, nisi referatur ad speciem; nec uero substantiae quaedam aut res absolutae esse putandae sunt genus ac species, ut superius quoque dictum est, sed quicquid illud est quod in naturae proprietate consistat, id tunc fit genus ac species, cum uel ad inferiora  uel ad superiora referatur. quorum ergo relatio alterutrum constituit, eorum continens factus est iure tractatus :   De specie igitur inchoans ait hoc modo.    Species autem dicitur quidem et de unius cuiusque forma, secundum quam dictum est : ‘primum quidem  species digna imperio’. dicitur autem species et ea quae est sub adsignato genere, secundum quam sole- mus dicere hominem quidem speciem animalis, cum sit genus animal, album autem coloris speciem, trian- gulum uero figurae speciem.    Sicut generis supra significationes distinxit aequiuocas, ita idem in specie facit dicens non esse speciei simplicem signi- ficationem. et ponit quidem duas, longe autem plures esse  7 superius] cf. p. 158, 3 ss. 180, 23 ss. 13—19] Porph. p. 3, 21— 4,4 (Boeth. p. 28, 15—21). 20 supra] p. 171, 9 ss.   1 positis  Gm1Sm1  3 nomen] non  Ea.c.Ga.c . 4 uideri  EP  8 in  om. R 9 consistit  CLNPSm2  constat  Em1  tum  R  ac] et  H  10 referuntur  FLm1  referantur  NS  refertur  Pm2R  11 continuus  CN  12  ante  De  add . sed  CH ,  m1 in LRS , si  E  de  ex  sed  Sm2  sed  del. Lm2Rm2  13  ante  Species  inscriptio  DE SPECIE (EXPLICIT DE GENERE. INCIPIT DE SPECIE  Ψ )  additur in   11  et  om. L  14 primum]  G edd . primi  L  primis  Sm1  priami  cett. Busse; Porph. p. 4, 1   πρώτον piv είδος άξιον τυραννίδος   (Eurip. Aeol. frg. 15, 2 N.) ;  cf . quemlibet illum  infra p. 200, 22  15  post  digna  add . est  HNPR AAΦ ,  s. l. LSm2, edd. Busse; om. Porph. post et ras., s. l . etiam  Γ  17 qui- dem  om. N, post add . esse  FR, s. l. L , esse  post  speciem  s. l. Pm2  cum—animal  om. S  18 autem  om. Ε   ΑΣ  20 ita  om. HN   manifestum est, quas idcirco praeteriit, ne lectoris animum prolixitate confunderet. dicit autem primum quidem speciem uocari unius cuiusque formam, quae ex accidentium congre-  p. 67  gatione perficitur. cautissime autem dictum est unius|cuius- que, hoc enim secundum accidens dicitur. quae enim uni  cuique indiuiduo forma est, ea non ex substantiali quadam forma species, sed ex accidentibus uenit. alia est enim sub- stantialis formae species quae humanitas nuncupatur, eaque non est quasi supposita animali, sed tamquam ipsa qualitas substantiam monstrans; haec enim et ab hac diuersa est quae  unius cuiusque corpori accidenter insita est, et ab ea quae genus deducit in partes. postremumque plura sunt quae cum eadem sint, diuersis tamen modis ad aliud atque aliud relata intelleguntur, ut hanc ipsam humanitatem in eo quod ipsa est si perspexeris, species est eaque substantialem determinat  qualitatem; si sub animali eam intellegendo locaueris, deducit animalis in sese participationem separaturque a ceteris ani- malibus ac fit generis species. quodsi unius cuiusque proprie- tatem consideres, id est quam uirilis uultus, quam firmus incessus ceteraque quibus indiuidua conformantur et quodam-  modo depinguntur, haec est accidens species secundum quam dicimus quemlibet illum imperio esse aptum propter formae  1 praeterit  CEGLPR  2 primo  FHNP  3 formam]  CN figuram  cett  5 haec  GL  ( s. l. add . species  m2 )  RSm1  uni  om. EGRS  6 ea  om. HN  7  ante species (specie  H )  add . ac  CHN  ex  om. CH  8 forma,  s. l . species  (m. 2) E pr . quae] sed quae  E  eaque] ea quae  EFGH   Lm1Sm2  9  post  sed  add . est  brm, post  qualitas  S  11 unius cuiusque corpori]  CNPm2R  in  (s. l. Lm2)  unius cuiusque (in  add. Lm1, del. m2 ) corpore ( ex  -ri  Lm2 )  FHLPm1  unius cuiusque (in  s. l. Sm2 ) corpore  EGS  accidentaliter  CLm2P  sita  FHLm1  si ita  Na.c . ea] hac  F  12 postremoque  CNPm2 (recte?)  postremo quoque  Rm1  postremum quae Rm2S  postremum  H  13 sunt  FH post  atque  add . ad  CHR  14 in- telligantur  LRm1  15 si  post humanitatem  FHN  respexeris  N  eaque]  Cm1N  ea quae  cett . determinet  R  16 eam  om. GPRS (recte?) ,  s. l. Em2  17 se  Lm1N  18 species generis  C  20 informantur  LPm2  21 accidentalis  Lm2Pm2  22 quamlibet  FLm1  quodlibet  Sm2  illum  om. CHLNP  illud  RS   eximiam dignitatem. huic aliam adiungit speciei significationem, id est eam quam supponimus generi. nos uero triplicem speciei significationem esse subicimus, unam quidem substantiae quali- tatem, aliam cuiuslibet indiuidui propriam formam, tertiam  de qua nunc loquitur, quae sub genere collocatur. creden- dum uero est propter obscuritatem eius quam nos adie- cimus, quia nimirum altiorem atque eruditiorem quaereret intellectum, ea tacita praetermissaque ceteras edidisse. cuius quidem speciei haec exempla subiecit, ut hominem quidem  animalis speciem, album autem coloris, triangulum uero figurae; haec enim omnia species nuncupantur eorum quae sunt genera, animal quidem hominis, albi autem color, trianguli figura.    Quodsi etiam genus adsignantes speciei meminimus dicentes quod de pluribus et differentibus specie in  eo quod quid sit praedicatur, et speciem dicimus id quod sub genere est.    Dudum cum generis descriptionem adsignaret, in generis definitione speciei nomen iniecit dicens id esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid ait prae-  dicaretur, ut scilicet per speciei nomen definiret genus. nunc uero cum speciem definire contendat, generis utitur nuncupatione dicens speciem esse quae sub genere ponatur.  13—16] Porph. p. 4, 4—7 (Boeth. p. 28, 21—23). 18 (dicens)—20] p. 180, 1 s.   3 subiecimus  CLN  substantialem  FLm2Bm2  4 indiuiduam  G  5 collocatur (-catur  in ras. m2) E  colligatur  GLm2  (colligitur  m1 ) Rm1s  6 est] est quod  EPRS  7 quia] quae  CN  quaerit  C  quaeret  Hm1N  8 praetermissa quae  Em1Sa.c . praetermissa  Rm1  dedisse  Gm1  edidisset  R, ante  edid.  add . ipsum  r  9 ut] et  EGLm1Ra.c.S  11 eorum quae]  CFHN  earum quae  EGR  earumque  LPS  12 trianguli figura]  Lm1  figura trianguli  Pm2  forma trianguli  HNPm1  trianguli forma  cett.; fort , trianguli >uero>;  cf. 10. 199, 19  13 Quodsi] Quid sit  FPm1  (Quod sit  m2 ) Quod  CL  Sic  Λ2  signantes  F  14 et  om. F, s. l. R  15 sit  om. ERS  praedicatur—quid sit  (19) om. N  id  s. l. Hm2  16 quod sub assignato genere ponitur (est  p )  edd., Porph. p. 4, 6   το όπό τό άποοοθ-έν γένος  19 et differentibus  p. 180, 1  20 genus definiret  C  21 nunc] nam  Cm1   cui quidem dicto illa quaestio iure uidetur opponi. omnis enim definitio rem declarare debet quam definitio concludit, eamque apertiorem reddere quam suo nomine monstrabatur. ex notioribus igitur fieri oportet definitionem quam res illa sit quae definitur. cum igitur per speciei nomen describeret  uel definiret genus, abusus est uocabulo speciei uelut notiore quam generis atque ita ex notioribus descripsit genus. nunc uero cum speciem uellet termino descriptionis includere, generis utitur nomine rerumque conuertit notionem, ut in generis quidem sit notius speciei uocabulum, in speciei autem descrip-  tione sit notius generis, quod fieri nequit. si enim generis uocabulum notius est quam speciei, in definitione generis speciei nomine uti non debuit. quodsi speciei nomen facilius intellegitur quam generis, in definitione speciei nomen generis non fuit apponendum. cui quaestioni occurrit dicens :   Nosse autem oportet <quod>, quoniam et genus ali- cuius est genus et species alicuius est species, idcirco necesse est et in utrorumque rationibus ntrisque uti.    Omnia quaecumque ad aliquid praedicantur, ex his de quibus praedicantur, substantiam sortiuntur; quodsi definitio unius  cuiusque substantiae proprietatem debet ostendere, iure ex alterutro fit descriptio in his quae inuicem referuntur. ergo quoniam genus speciei genus est et substantiam suam et  16—18] Porph. p. 4, 7—9 (Boeth. p. 28, 23—29, 1).   2  post , definitione ( uel  diff-)  CHNPm2  claudit  C  nec concludit  F  3 monstrabat  E  (-bat  ex  -batur?  m2 )  R  5 sit] est  FHN  6 notiorem  FR  8 uelit  FHNPm1  9 conuertit] uidetur conuertere  CHLm2P  genere  R  10  post  quidem  add . descriptione  CFHLN, in mg. Em2, fort. recte  autem] quidem  C  uero  FHNP  11 sit  om. G pr . genus  FH  16 autem  om. Porph . quod  add. edd.; Porph. p. 4, 7   είϊέναι χρή   ότι, έπεί χτλ . 17  pr . est  om. FN, s. l .  Λ ,  ante  alicuius  Σ  idcirco in utrisque necesse est utrorumque rationibus uti  Σ  18 et] hoc  N om .  FPSA S  neutrorumque  Em1  utrasque  Em1  utriusque  Λ  20  post  definitio  add . uel descriptio  CFHNP, s. l. Em2Lm2  22  ante  inuicem  add . ad  CL, s. l. Pm2 , ad se  F, s. l. Rm2  23  ante  substantiam  add . in  FHm1, del. m2 post , et  om. F, s. l. Hm2Sm2   uocabulum genus ab specie sumit, in definitione generis speciei nomen est aduocandum, quoniam uero species id quod est sumit ex genere, nomen generis in speciei descriptione non fuit relinquendum. quoniam uero diuersae sunt specierum  qualitates — aliae enim sunt species, quae et genera esse possunt, aliae, quae in sola speciei | permanent proprietate neque  p. 68  in naturam generis transeunt —, idcirco multiplicem speciei definitionem dedit dicens :    Adsignant ergo et sic speciem : species est quod  ponitur sub genere et de quo genus in eo quod quid sit praedicatur. amplius autem sic quoque : species est quod de pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. sed haec quidem adsignatio specialissimae est et quae solum species est, aliae  uero erunt etiam non specialissimarum.    Tribus speciem definitionibus informauit, quarum quidem duae omni speciei conueniunt omnesque quae quolibet modo species appellantur, sua conclusione determinant, tertia uero non ita. cum enim duae sint specierum formae, una quidem,  cum species alicuius aliquando etiam alterius genus esse potest, altera, cum tantum species est neque in formam generis  9—15] Porph. p. 4, 9—14 (Boeth. p. 29, 2—7).   1 genus  om. H generis  FLS  ab  om. F a NR, s. l. Hm2  specie  s. l .  Hm2  species  F  definitionem ( uel  diff-)  FGHP  2  pr . est] fuit  Lm2  ( post  aduocandum)  Pm2  3 descriptione] definitione ( uel  diff-)  CFHLm2N  diffinicione uel descripcione  P  4 relinquendum] omittendum  FHN  uero  post  sunt  H  8 reddit  FN  9 ergo] uero  PLm2  autem  Σ  et er.  Λ  speciem sic  F  quae  CNR h m1  (quo  m2 )  ΛΣ 10 quo]  EGHLm2Pm1   >  qua  cett . 11 amplius—praedicatur  (13) om. L  12 et  om .  S  ac  EGRS 13  post  praedicatur  add . ut homo equs  (sic)  bos et asinus et cetera  C  14 specialissimae]  ΧΨρ (-me) specialissima  cett. codd. brm ;  Porph. p. 4, 12   aΰτη μέν ή άπόδοσις τού εΐδιχωχάτου άν εΐη  et  om .  FHR, s. l. Pm2, del. Sm2  sola  C  17 omnis  G  18 determinan- tur  Hm2  19  post  ita  s. l . est  Hm2  sint  om. Em1  sunt  CEm2GR   ante  specierum  add . species  Cm1, del. m2  20  post cum  s. l . sit  Lm2 ,  post  aliquando  EP   (del. m1?), post  species  s. l . scil. sit  N   transit, priores quidem duae, illa scilicet in qua dictum est id esse speciem quod sub genere ponitur, et rursus in qua dictum est id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, omni speciei conueniunt. id enim tantum hae definitiones monstrant quod sub genere ponitur. nam et ea  quae dicit id esse speciem quod sub genere ponitur. eam uim significat speciei qua refertur ad genus, et ea quae dicit id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, eam rursus significat speciei formam quam retinet ex generis praedicatione. idem est autem et poni sub genere et de eo  praedicari genus, sicut idem est supponi generi et ei genus praeponi. quodsi omnis species sub genere collocatur, mani- festum est omnem speciem hoc ambitu descriptionis includi. sed tertia definitio de ea tantum specie loquitur quae numquam genus est et quae solum species restat. haec autem species ea  est quae de differentibus specie minime praedicatur. nam si id habet genus plus ab specie, quod de differentibus specie praedicatur, si qua species praedicetur quidem de subiectis, sed non de specie differentibus, ea solum erit superioris generis species, subiectorum uero non erit genus. igitur praedicatio  ea quam species habet ad subiecta, si talis sit, ut de differen- tibus specie non praedicetur, distinguit eam ab his speciebus  2 ponitur—genere  (5) om. N  rursum  CR  3 quo]  Schepss  qua codd. et edd.; cf. p. 203, 10  4 praedicaretur  EGLRS  praedicetur  edd . 5 ponuntur  Cm2HN  6 speciem  om. Sm1  species  m2G post  eam  add . tantum  FHNP, s. l. Lm2  7 qua]  CNP  quae  cett . 8 quo]  p Schepss  qua  codd. brm; cf. 3  genus  s. l. Em2, ante add . species  G  praedicetur  FHLm2NP  praedicaretur  S  9 speciei  om. C  10 est  post  autem  E (s. l. m2) R  supponi EFGHLRS 11 generi] genere  CGm1  12 omnes  (sed  collocatur ) ELN  13  post  est  add . autem  CEGL (del. m2) S (del. m2)  15 est  om. EGS, ante  genus  ΗR , fit  L  per- stat  E ( pers  in ras.) HNa.c . 17 habet  ante  plus  FH, post N,  plus  post  habet  L  a  RS  18 si qua species  om. N praedicetur  om. N  praedicatur  Em1HSm2 post  subiectis  add . Species uero differentibus numero  N  19 de  om. N  21 de—non] non differentibus specie  N  22  ante  distinguit  add . sed hanc terciam,  sed del. E, post add . enim,  sed del. RS   quae genera esse possunt et monstrat eam solum speciem esse nec generis praedicationem tenere. illa igitur tertia de- scriptio speciei quae magis species ac specialissima dicitur, definitur hoc modo : species est quod de pluribus numero  differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut homo; praedicatur enim de Cicerone ac Demosthene et ceteris qui a se, ut dictum est, non specie, sed numero discrepant.  Ex tribus igitur definitionibus duae quidem et specialis- simis et non specialissimis aptae sunt, haec uero tertia solam  ultimam speciem claudit. ut autem id apertius liqueat, rem paulo altius orditur eamque congruis inlustrat exemplis :    Planum autem erit quod dicitur hoc modo. in uno quoque praedicamento sunt quaedam generalissima et rursus alia specialissima et inter generalissima et  specialissima sunt alia. est autem generalissimum quidem super quod nullum ultra aliud sit superueniens genus, specialissimum autem, post quod non erit alia inferior species, inter generalissimum autem et spe- cialissimum et genera et species sunt eadem, ad aliud  7 ut dictum est] p. 188, 13 ss. 12—p. 206, 18] Porph. p. 4, 14— 5,1 (Boeth. p. 29, 7—30, 2).   1 et  (s. l. m2)  monstrabat  S  monstratque  FHNP  solam  Sm2  3 speciei] solum species est  N  speciei—species ac] quae  (s. l. m2)  solum * species magisque  (in ras.)  species  H  4 hoc modo  in mg. Hm2   ante  species  add . Dicitur enim  FHP  et differentibus numero  p. 203, 12  6 Cicerone] socrate  N post  ac  add . de  R  8 duae—claudit]  C (om. pr . et)  E (in ras. m2) FH (solum)  LNP  duabus quidem et specialis- simas et non specialissimas species claudit  GR  una quidem et specialis- simam et non specialis ultimam speciem claudit  Sm1, del. et in mg. corr. m2  (apte sunt  post  duae quidem,) 10 id  om. LR  rem  om. EGS, s. l. Pm2, post  orditur  Lm2  12 in uno quoque—solum species  (p. 206, 17) ]  RS Q ,  om. cett . 14 rursum  Γ  et inter—alia  om. RS 15 sunt  om .  T m1, in mg.  scil. sunt ut corpus  m2 , est  ut uid .  Δ  16 super— ultra] ultra quod nullum  RS  ultra nullum  ΓΦ  17 specialissima  R  quod] quam  RS  18 autem  om .  Γ  19  ante  et genera  add . alia  p  alia sunt quae  brm; Porph. p. 4, 19   άλλα, α ν,α'ι  γένη   quidem et ad aliud sumpta. Sit autem in uno prae- dicamento manifestum quod dicitur. substantia est quidem et ipsa genus. sub hac autem est corpus, sub corpore uero animatum corpus, sub quo animal, sub animali uero rationale animal, sub quo homo, sub ho-  p. 69  mine uero Socrates et Plato et qui|sunt particulares homines. sed horum substantia quidem generalissi- mum est et quod genus sit solum, homo uero specia- lissimum et quod species solum sit, corpus uero species quidem est substantiae. genus uero corporis animati;  et animatum corpus species quidem est corporis, genus uero animalis. animal autem species quidem est cor- poris animati, genus uero animalis rationalis, sed rationale animal species quidem est animalis, genus autem hominis, homo uero species quidem est rationalis  animalis, non autem etiam genus particularium homi- num, sed solum species. et omne quod ante indiuidua proximum est, species erit solum, non etiam genus.    Praediximus ab Aristotele decem praedicamenta esse dis-  19 Praediximus] p. 151, 12.   1 quidem  post  eadem  R 5  ad  om .  Λ ,  s. l. R T  uno] uno quoque  R A  (quoque  er .)  Φ ,  ad uno  s. l . isto  A m2  2 est quidem]  R ΓΦ  est quiddam ( repet , est  S )  cett . 3 est  post  corpus  S, om .  Φ  5 uero]  RST iI   (s. l. m2)   Φ ,  om .  ΛΛΣΊ   Busse; Porph. p. 4. 23   δέ  6 uero]  codd. nostri, om. Busse; Porph. p. 4, 24   δέ   post , et  om. RS  7 eorum  RS  generalissimum]  codd. PQ (non L) Bussii edd . genera- lissima  codd. nostri; Porph. p. 4, 25   τό γινικώτατον  8 uero  om. R  9  ante  et  add . est  2   pr . specie  R  10 est  om .  2 ,  s. l .  Δ  11 et] sed et  brm, recte ut uid.; Porph. p. 4, 27   αλλά καί  est  om. R  12 animal autem] rursus animal  brm; Porph. p. 4, 28   κάλιν δέ to ζώον  13 uero] ΓΔ   (s. l. m2)   Π*!' ,  om. cett . animalis]  Δ   (s. l. m2)   ΣΊ ’ ( post  ratio- nalis).  om. cett.; Porph. p. 4, 29   γένος δέ τού λογικού ζώου  14 animal— est  om. R  15 autem] uero  RS  16 autem  del .  h m2 genus etiam  R  17 et  om. CEGP  indiuiduum  F  18 est  s. l. E  erit  CGR  solum species erit  LS  erit solum species  E  solum species est  CR  solum speciem non etiam genus esse liquet  G  19 Praedicimus  R, add.  etiam  L   posita, quae idcirco praedicamenta uocauerit, quoniam de ceteris omnibus praedicantur. quicquid uero de alio praedicatur, si non potuerit praedicatio conuerti, maior est res illa quae praedicatur ab ea de qua praedicatur. itaque haec praedicamenta  maxima rerum omnium, quoniam de omnibus praedicantur, ostensa sunt. in uno quoque igitur horum praedicamentorum quaedam generalissima sunt genera et est longa series spe- cierum atque a maximo decursus ad minima. et illa quidem quae de ceteris praedicantur ut genera neque ullis aliis sup-  ponuntur ut species, generalissima genera nuncupantur, idcirco quia his nullum aliud superponitur genus, infima uero quae de nullis speciebus dicuntur, specialissimae species appellantur, idcirco quoniam integrum cuiuslibet rei uocabulum illa sus- cipiunt quae pura inmixtaque in ea de qua quaeritur proprie-  tate sunt constituta. at quoniam species id quod species est ex eo habet nomen, quia supponitur generi, ipsa erit simplex species, si ita generi supponatur, ut nullis aliis differentiis praeponatur ut genus. species enim quae sic supponitur alii, ut alii praeponatur, non est simplex species, sed habet quan-  dam generis admixtionem, illa uero species quae ita supponitur generi, ut minime speciebus aliis praeponatur, illa solum spe- cies simplexque est species atque idcirco et maxime species et specialissima nuncupatur. inter genera igitur quae sunt generalissima et species quae specialissimae sunt, in medio  1 uocauit  Lp.c.P  dicuntur  N  3 poterit  CNSm1  res  om. E, sed   ras ., ratio  R  4  post , praedicatur] dicitur  HNP  5 maxime  Em1G a.c . 7 quaedam] quae  CFHN  genera  om. CN, ante  sunt  F  et  om .  CHN  8 maximis  CFHNPm2  11 quia] quoniam  HN  14 inper- mixtaque  Em2HPm2  intermixtaque  NPm1  de qua  s. l. Sm2  de quo  R  quae  E (ex alia uoce) N  15 at] ut  CFN  quod] quoniam  E  16 nomen  om. FN  quia] quoniam  F  17 aliis  om. C  18  ante  alii  add . generi  CL (del. m2), post s. l. P  19 simplex  om. GRS, s. l .  Em2Lm2  22 atque idcirco maxime (-ma  H ) species est (est  om. H )  in mg. Hm1?, s. l. Lm2 ante  species  add . est  P, post C, s. l. Lm2  24 specialissima  EGSm1  sunt  om. EG, s. l. Pm2, post  quae  L   sunt quaedam quae superioribus quidem collata species sunt, inferioribus uero genera. haec subalterna genera nuncupantur, quod ita sunt genera, ut alterum sub altero collocetur. quod igitur genus solum est, id dicitur generalissimum genus, quae uero ita sunt genera, ut esse species possint, uel ita species,  ut sint genera nonnumquam, subalterna genera uel species appellantur. quod uero ita est species, ut alii genus esse non possit, specialissima species dicitur.   His igitur cognitis sumamus praedicamenti unius exem- plum, ut ab eo in ceteris quoque praedicamentis atque in  ceteris speciebus in uno filo atque ordine quid eueniat possit agnosci. substantia igitur generalissimum genus est; haec enim de cunctis aliis praedicatur. ac primum huius species duae, corporeum, incorporeum; nam et quod corporeum est, substantia dicitur et item quod incorporeum est, substantia  praedicatur. sub corporeo uero animatum atque inanimatum corpus ponitur, sub animato corpore animal ponitur; nam si sensibile adicias animato corpori, animal facis, reliqua uero pars, id est species, continet animatum insensibile corpus. sub animali autem rationale atque inrationale, sub rationali homo  atque deus; nam si rationali mortale subieceris, hominem feceris, si inmortale, deum, deum uero corporeum; hunc enim mundum ueteres deum uocabant et Iouis eum appellatione  1 quidem  om. EG  collata]  FHm1NPm2  collatae  Cm2EGHm2  ( add . e,  sed exters .)  Lm2  collocata  Pm1 collocatae  Cm1Lm1RS (in ras.)  sunt species  CLR  2 haec] et  C  nominantur  FHNP  3 alterutrum  Ea.r.Pm1  alterutro  Pm2  5 ita  s. l. Em2Lm2, ante  ut  C  6 ut sint—est species  (7) s. l. Em2  9 igitur] ergo  E  11  ante  in  add . ut  Lm2Pm2  uno quoque  Em2H  (quoq.  del. m1 ?)  PRS quod  Ea.c .  GLm2Pm1R  14 duae  om. HN  sunt  add. C,s.l. Pm2, ante  duae  L post pr . corporeum  add . et  C, s. l. Pm2 , atque  FHN  15  ante post . substantia  add . et  ES (del) , ex  R  17 sub animato—ponitur  om. R post . poni- tur] collocatur  FHNP  18 adicies  RS  19 inanimatum  Cm1Lm2NPm2S  (in  s. l. minus cert .),  post add . et  s. l. Pm2  20  post  rationali  add . autem  L  22 feceris  om. GRS, s. l. Em2 , scil. fecisti ( ante  hominem)  s. l. Sm2  constituis  L post  uero  s. l . dico  Lm2, post  corporeum  Sm2  23 deum ueteres  LN   dignati sunt deumque solem ceteraque caelestia corpora, quae animata esse cum Plato, tum plurimus doctorum chorus arbitratus est. sub homine uero indiuidui singularesque homines ut Plato, Cato, Cicero et ceteri, quorum numerum pluralitas  infinita non recipit. cuius rei subiecta descriptio sub oculos ponat exemplum. |    substantia  p. 70  corporea | incorporea corpus animatum | inanimatum animatum corpus sensibile | insensibile animal rationale | inrationale rationale animal mortale | inmortale homo Plato | Cicero Cato    Superius posita descriptio omnem ordinem a generalissimo us- que ad indiuidua praedicationis ostendit. in qua quidem substantia generalissimum dicitur genus, quoniam praeposita est omnibus,  nulli uero ipsa supponitur, et solum genus propter eandem scilicet causam, homo autem species solum, quoniam Plato,  1 dignati sunt] designauerunt  Em2  deum quoque  HLm2P  2 cum] tum  Em2F  platone  Lm2PSm1  tunc  CGLSm1  4 cato  om. C, ante  plato  L , tito  N  5 oculis  CFP  6 ponit  Lm1 figuram supra de- pictam exhibent P (est altera de duabus ipsa quoque a m1 facta, prior minus dilucida est), nisi quod ad pr . animal  add . sensibile  et  rationale  post post . animal  pos., et E, in quo ordo nominum  cato plato cicero  est, simillima est in G, sed extrema pars  homo—Cicero  deest, et in H, nomina tamen  socrates plato cicero  sunt; in S uoces mediae tantum  substantia—homo  extant, sub uoce homo unum nomen est  FVLCO GONCŁ,  (explicare non potuimus); figura deest in CFLNR, in F post ponat exemplum  est  SVBSTANTIA 8 ad  om. H, s. l. Em2  indiuiduum  FLN  in qua] et  E  10 uero] ergo  H   Cato et Cicero, quibus est ipsa praeposita, non differunt specie, sed numero tantum. corporeum uero, quod secundum a sub- stantia collocatur, et species esse probatur et genus, substantiae species, genus animati. at uero animatum genus est animalis, corporei species. est enim animatum genus sensibilis, animatum  uero sensibile animal est; ipsum igitur animatum propter pro- priam differentiam, quod est sensibile, recte genus esse dicitur animalis. animal uero rationalis genus est et rationale mor- talis. cumque rationale mortale nihil sit aliud nisi homo, rationale fit animalis species, hominis genus. homo uero ipse  Platonis, Catonis, Ciceronis non erit, ut dictum est, genus, sed est solum species. nec solum differentiae rationalis species est homo, uerum etiam Platonis et Catonis ceterorumque species appellatur, propter diuersam scilicet causam. nam rationalis idcirco est species, quoniam rationale per mortale  atque inmortale diuiditur, cum sit homo mortale. idem nero homo species est Platonis atque ceterorum; forma enim eorum omnium homo erit substantialis atque ultima similitudo. est autem communis omnium regula eas esse species specialis- simas quae supra sola indiuidua collocantur, ut homo, equus,  coruus — sed non auis; auium enim multae sunt species, sed hae tantum species esse dicuntur —, quorum subiecta ita sibi sunt consimilia, ut substantialem differentiam habere non possint. in omni autem hac dispositione priora genera cum inferioribus coniunguntur, ut posteriores efficiant species; nam  1 Cato] tito  N  et  om. P, s. l. Lm2  5 corporis  FN  enim] autem  CLSm2  6 ipsum  post  igitur  FL (s. l. m2), om. EGRS  propter] praeter  H  7 quae  ER  8  post  rationale  add . est genus  R, s. l . scil. genus  L  11 Catonis  om. CLN  titonis  N ante  Ciceronis  add . et  CFHP  12 species est solum  C  13 catonis et platonis  CL  platonis titonis  N  15  post  rationalis  add . homo  G  16 homo  om. EGLS  17 atque] et  C  eorum enim  E  18 erit] est  FHNP  19  ante  om- nium  add . et  R post  regula  add . est  EG  esse  ante  eas  FNS   (s. l. m2), om. EGR  21 enim] uero  CEGLRS 22 haec  Gm1NR  hee  P  species  om. E  quarum  Em2FSm2  sibi  om. R  24 dis- putatione  F  25 iunguntur  CLm1  coniungantur  m2  efficiunt  Fa.c.Sm1  efficiat  m2   ut sit corpus substantia, cum corporalitate coniungitur et est substantia corporea corpus. item ut sit animatum, corporeum atque substantia animato copulatur et est animatum substantia corporea habens animam. item ut sit sensibile, eidem tria illa  superiora iunguntur. nam quod est sensibile, tantum est, quantum substantia corporea animata retinens sensum, quod totum animal est. item superiora omnia rationi iuncta effi- ciunt rationale postremumque hominem superiora omnia nihilo minus terminant; est enim homo substantia corporea, animata,  sensibilis, rationalis, mortalis. nos uero definitionem hominis reddimus dicentes animal rationale, mortale, in animali scilicet includentes et substantiam et corporeum et animatum atque sensibile. et in ceteris quidem speciebus atque generibus ad hunc modum uel genera diuiduntur uel species describuntur.  Quemadmodum igitur substantia, cum suprema sit, eo quod nihil sit supra eam, genus erat generalis- simum, sic et homo, cum sit species post quam non sit alia species neque aliquid eorum quae possunt diuidi, sed solum indiuiduorum| — indiuiduum enim est  p. 71   Socrates et Plato —, species erit sola et ultima species  15—p. 212, 18] Porph. p. 5, 1—16 (Boeth. p. 30, 2—20).   4 eadem  H  idem  ex  eidem  Lm2  6 retinet  CN  habens  L  7 ratio- nali  Pm2  coniuncta  HL  efficiuntur  Ea.r.GS  8 postremoque  CHNP (recte?)  postremum (-mo  L ) uero  LS  11  inter mortale  et  in animali  add . quia animal includit[ur] in se et substantiam et corporeum et animatum atque sensibile  R  12 atque] et  H  14 describuntur] dis- tribuuntur  FN  15 cum]  R (sed ante breuis ras.)   fi  quae cum  cett . (quae  del. et in mg. scr . parentesis  5 m2 ); an quae  scribend .? suprema  om. S  summa  G  16 eo quod] et  A a.c . nihil] nullum  N SA  sit  om. F, s. l .  Λ , est  post  eam  Λ2  erat]  RSm1  erit  m2F  sit  P  est  cett. codd .  edd. Busse; Porph. p. 5, 2   ήν  17 sic et—species dicitur  (p. 212, 15) ]  RS Q ,  om. cett . et] etiam  RS ΤΦ ,  glossa ut uid. ad  et  in   Π  18 alia] aliqua  RS; add . inferior  ΔΛΠΣ*Ρ   Busse, post  species  Γ ,  om. RS Φ   edd. Porph. p. 5, 3 aliud  R  19  post  diuidi  add . in species  edd., recte ut uid., etiam Bussio placet; Porph. p. 5, 3 χών χέμνεοΟαι ουναμένων εις είδη   post  indiuiduorum  add . species  R  20  post  Plato  add . et hoc album  brm, fort. recte; Porph. p. 5, 4   xat χοοχι χό λεοχόν  solum  R  solam  S   et, ut dictum est, specialissima. quae uero sunt in medio, eorum quidem quae supra ipsa sunt, erunt species, eorum uero quae post ipsa sunt, genera. quare haec quidem habent duas habitudines, eam quae est ad superiora, secundum quam species ipsorum esse  dicuntur, et eam quae est ad posteriora, secundum quam genera ipsorum esse dicuntur. extrema uero unam habent habitudinem. nam et generalissimum ad ea quidem quae posteriora sunt, habet habitudinem, cum genus sit omnium id quod est supremum, eam  uero quae est ad superiora, non habet, cum sit supre- mum et primum principium, specialissimum autem unam habet habitudinem, eam quae est ad superiora, quorum est species, eam uero quae est ad posteriora, non diuersam habet, sed etiam indiuiduorum species  dicitur, sed species quidem indiuiduorum uelut ea continens, species autem superiorum, uelut quae ab eis contineatur.    2 ipsa  om. R, post  sunt  Γ species erunt  RS; Porph. p. 5, 6   είη αν εϊδη  3 uero—sunt  om. S, s. l . autem quae sunt sub se erunt  m2  uero] autem  RSm2 V<]?}   fort. recte  post ipsa] sub ipsis  R  4 duas habent  ΔΛ2   Busse; Porph. p. 5, 7   έχει Sio σχέσεις  habentes  S  7 dicuntur esse  R  extremae (-me)  Sm1 h m1 A2 m2 b 8 habent unam  Δ  et generalissimum] id quod generalissimum est  RS; Porph. p. 5, 9   το τε γάρ γενιχώτατον  9 habet] habet unam  Δ  10 genus  post  omnium  R, post  sit  S Σ  id] hic  R  ea  R  11  post  uero  add . habitudi- nem  Γ  non habet  hic om., post  principium  add . non habet habitudi- nem  R, add . et (ut diximus) supra quod non est aliud superueniens genus  edd. cum Porph. p. 5,12  12  ante  specialissimum  add . et  brm   Busse, fort. recte, om. codd. (etiam LPQ Bussii); Porph. p. 5, 12   «ύ τί> είδιχώτατον δέ  specialissimam  R T m1  specialissima  S  autem] etiam  brm  13 eam  om. RS  14 posteriora] inferiora  RS 511 ,  recte ? 15 non diuersam]  Sm1 edd . quorum diuersam  A m1  non ( del. uel om . diuersam,)  Sm2 A m2   et cett. Busse; Porph. p. 5, 14 oi% άλλοίαν  species dicitur—indiuiduorum  om. FHN , sed—indiuiduorum  om. CT  16 qui- dem  om .  Σ ,  post add . dicitur  edd.; codd. quidam Porph. p. 5,15   λέγεται  eam  N  17  post continens  add . est  Σ  autem] uero  L  18 his  NR  illis  F  contineantur  CEm2H  continetur  N Ω  ( sed corr .  K m2 ,  ex  -entur  II m2 )   Ex proportione speciei nomen et generis ostendit. nam ut genus, quoniam non habet genus supra se, generalissimum genus dicitur, ut substantia, ita species, quoniam non habet sub se speciem, sed indiuidua, specialissima species dicitur,  ut homo. quid est autem species non habere? his praeesse quae neque in dissimilia diuidi possunt, ut genera diuiduntur, neque in similia secantur, ut species. quae uero inter genera generalissima speciesque specialissimas constituta sunt, ea et species et genera nuncupantur, quoniam et ipsa aliis suppo-  nuntur et his alia subiciuntur, quorum uel in dissimilia uel in similia possit esse partitio. cumque duae sint habitudines et quasi comparationes oppositae, quae in omnibus generibus speciebusque uersentur, una quidem quae ad superiora respi- ciat, ut specierum, quae suis generibus supponuntur, alia  uero quae ad inferiora, ut generum, cum speciebus propriis praeponuntur, generalissima quidem genera unam tantum reti- nent habitudinem, eam scilicet quae inferiora complectitur, illam uero quae ad praeposita comparatur, non habent. gene- ralissimum enim genus nulli supponitur. item species specia-  lissima unam possidet habitudinem, per quam scilicet ad sola genera comparatur, illam uero quae ad inferiora committitur, non habet; nullis enim speciebus ipsa praeponitur. at uero quae subalterna sunt genera, utraque habitudine funguntur.  1 propositione  FPm1  et  om. N, del. Sm2 , etiam  FL  2 super  F  se  om. CN, s, l. Lm2  4 species specialissima  FHN  5 speciem  Lm2 post  habere  add . nisi ( ex 2 al. litt. m2 )  L  hoc est  N  id est  R, inseruit   Pm1?  6 possint  ESm2  7  ante  neque  add . sed  P, del. m1?, s. l· Lm2  quae—constituta] specialissimae constitutae,  cet. om. EGRS  8 ea et] illae (illa  L ) uero  EGLRS  9 et  om. FP  quoniam] quae  EGLm1R subponantur  S  10 subiciantur  S pr . uel  om. EGR, s. l. Lm2  uel in similia  om. EGRS  11 possint  EGLm1S  possunt  R  paratio  Cm1  partitiones  EGLa.r.RS  cumque—comparationes  om. EGRS, in mg. Lm2  duo  Cm1  sunt  NPa.c . 12 subpositae  CHm1Lm1N, om. F  13 uersantur  EGL  16 una  Cm1  retinent  ante  tantum  H  retinet  R  habent  N  18 illam—comparatur  (21) om. S habet  G, m1 in CEH  19 genus enim  H  nullis  F  23 quae] illa quae  F  utramque habitudinem  G   nam et illam possident quae ad superiora respicit, quoniam quae subalterna sunt, habent superpositum genus, et illam quae de inferioribus praedicatur; habent enim subalterna genera suppositas species, ut corporeum ad substantiam quidem eam retinet habitudinem qua potest poni sub genere, ad ani-  matum uero eam qua potest de specie praedicari. specialis- simae uero species licet ipsae indiuiduis praeponantur, tamen praepositi habitudinem non habebunt, idcirco quoniam illa quae speciei ultimae supponuntur, talia sunt, ut quantum ad substantiam unum quiddam sint non habentia substantialem  differentiam, sed accidentibus efficitur, ut numero saltem distare uideantur, ut paene dici possit et pluribus praeesse speciem et quodammodo nulli omnino esse praepositam. nam cum species substantiam monstret unam, quae omnium indi- uiduorum sub specie positorum substantia sit, quodammodo  nulli praeposita est, si ad substantiam quis uelit aspicere. at si accidentia quis consideret, plures de quibus praedicetur species fiunt, non substantiae diuersitate, sed accidentium multitudine. itaque fit ut genus quidem semper plurimas sub  1  ad  illam  et  quae  s. l . ał illud  et  ał quod  L  ad  om. CGHLPS  quoniam quae] quantum que  S  2  post  sunt  add . genera  P, s. l. Lm2  3 praedicantur  Hm1Sm1  4 superpositas  Hm1  5 qu * a (i  er .)  C  poni potest  E  6 quae  EHm1LPN specie] speciebus  R  7 prae- ponuntur  Hm1Pm1  8 subpositi  E  habent  EP  habebit  Gm2  9 ul- tima  EGLm1S  ad substantiam] substantia  F  10 quidem  GLm2S  non] nec  FHLm2NP habentia]  Em2  habentes  CEm1GL  (es  ex al. litt. m2 )  PS  habentem  R  habent  FHN  11  post  sed  s. l . scii, ex  Hm1?  accidentibus  del. et s. l . ał accidentalem  Hm2 uel al ., acci- dentalem,  s. l . ał accidentibus  Lm1, s. l . Nam accidentibus  m2  saltim  Lm2NPR  12 possint  EFGLRS  et] nec  F, m1 in HLN  13 species  EGL  ( es in er . em?  m2 )  Pm1RS  esse  om. FHN  praepositae  EGLRSm2 (-tum  m1 ) nam cum—praeposita est  (16) in sup. mg. Lm2  14 monstraret  HPm1  monstrat  RS unam, quae]  S  unaque  CFHNP  ( ras. ex  -que) unam quamque  EGR  unam *  L 15 substantiae  GLR  sit  s. l. ante  substantia  Pm2, om. EGLR , est  S ante  quodammodo add.  fit HN, post  nulli  C, om . est (16)  CHN  16 ad  om. EGPRS  17 ac  GR  praedicatur  EGLRS   se habeat species; de differentibus enim specie praedicatur, differentia uero nisi pluralitati non conuenit. at uero species etiam uni aliquando indiuiduo praeesse potest. si enim unus, ut perhibetur, est phoenix, phoenicis species de uno tantum  indiuiduo praedicatur; solis etiam species unum solem intel- legitur habere subiectum. ita nullam multitudinem | species  p. 72  per se continet, cum etiam si unum sit tantum indiuiduum, speciei tamen non pereat intellectus; quibusdam enim suis quasi similibus partibus praeest. ut si aeris uirgulam diuidas,  secundum id quod aes dicitur, idem et partes esse intellegitur et totum. idcirco dictum est speciem, licet sit indiuiduis praeposita, unam tamen habitudinem possidere, unam scilicet qua species est. quoniam enim praepositis subditur, species nuncupatur, et est superiorum species tamquam subiecta  inferiorum quoque species, idcirco quoniam eorum substantiam monstrat. speciem uero substantiam nuncupamus, nec ita est species substantia indiuiduorum, quemadmodum speciei genus; illud enim pars substantiae est, ut animalis homo. reliquae enim partes rationale sunt atque mortale, homo uero Socratis  atque Ciceronis tota substantia est; nulla enim additur dif- ferentia substantialis ad hominem, ut Socrates fiat aut Cicero,  1 de differentibus enim] quod de differentibus  CL  2 ni  C  4 est  post  unus  FHP, post  phoenix  N  5 solem]  EGPpr  solum  cett. codd .  bm; cf. p. 218. 3. 219, 17 . 7 cum  om. S  ut  CFN  tantum  om .  ENRS; cf.p. 219,11 post indiuiduum  add . unius generis  G  8 tamen  om. C  perit  Sm2, add . sensus et  F  9  post  uirgulam  add . in partes suas (suas partes  P ) id est (id est  om. F ) aeneas particulas (particulas  om. F , aeneas uirgulas,  sed del. L )  CFHLN, in mg. Pm2  10 in- telliguntur  H  12 possidet  FN  unam] illam  L  eam unam  F  13  ante  qua  s. l . in  Sm2  14 nuncupatur] nominatur  FHN  16 demonstrat CEGLP  est  om. S, post  species  in ras. N , esset  F  17 substantia (ia  ex  ie  F )  ante  species  FNa.c.RS, post  indiuiduorum  C  18 ani- malis homo]  EGLm1  homo animalis  Sm2P  animal hominis  CLm2Sm1  hominis animal  FH  (inis  in ras. m2 et post  animal  2 litt. er .)  NR  19 etenim  R  sunt  om. EGR post  mortale  add . adduntur ( om. N ) animali ad diffiniendam substantiam hominis  N edd . uero  om. CFGLRS   sicut additur animali rationale atque mortale, ut homo integra definitione claudatur. idcirco igitur species specialissima tantum species est atque hanc solam possidet habitudinem ad superiora quidem, quoniam ab his continetur, ad inferiora uero, quoniam eorum substantiam format et continet.   Determinant ergo generalissimum ita, quod cum genus sit, non est species, et rursus, supra quod non erit aliud superueniens genus, specialissimum uero, quod cum sit species, non est genus et quod cum sit species, numquam diuiditur in species et quod de  pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. ea uero quae in medio sunt extremorum, subalterna uocant genera et species, et unum quodque ipsorum speciem esse et genus ponunt, ad aliud qui- dem et ad aliud sumpta. ea uero quae sunt ante spe-  cialissima usque ad generalissimum ascendentia, et genera dicuntur et species et subalterna genera, ut Agamemnon Atrides et Pelopides et Tantalides et ultimum Iouis.    Posteaquam naturam generum ac specierum diuersitatemque  monstrauit, eorum ordinem definitionis descriptionisque com- memorat. ac primum quidem generalissimi generis terminum  6-19] Porph. p. 5, 17—6, 3 (Boeth. p. 30, 21—31, 7).   1 rationalis atque mortalis  N  3 possidet] optinet  P  6  post  deter- minant  add . philosophi  C  ergo  om. CN  enim  EGLm1 <t> p.c.;   Porph. p. 5, 17   τοίνον  ita  om. CGHP, s. l. Em2 A m2  quod] quoniam  S  7 sit genus  NR  et rursus—genera ut  (17) ]  LRS ii ,  om. cett . rursum  S  8 erit]  LRS T est  cett.; Porph. p. 5, 18   οΰχ αν ειη  9  pr . quod] quae  S h a.c . post. quod—et quod  (10) om. L  10 diuidatur  S  11 et] et de  L  13 uocant]  Λ2Φ  uocantur  cett. edd. Busse; Porph. p. 5, 21   χολοΰσι 14 ipso eorum  S  speciem]  Brandt  species  codd. Busse  ponunt]  A m2 U m2 ,  e coni. scr. Busse , ponuntur  T m1  possunt  m2   cum   cett .; species esse potest et genus  edd.; Porph. p. 5, 22   xal έχαοτον αδτών είδος είναι xal γένος τίθενται  17  post , et  om. R  ut  om. FS  18 et  om. CEG pelides  F post . et  om. C  19 ultimo  F  20 Post ** quam  CL  diuersitatem  GLm1R , -que  in ras. E, er. P   inducit, id esse generalissimum genus quod cum ipsum genus sit, non habet superpositum genus, hoc est speciem non esse, et rursus, supra quod non erit aliud superueniens genus. si enim haberet aliud genus, minime ipsum generalissimum  uocaretur. specialissima uero species hoc modo : quod cum sit species, non est genus, ex opposito, quoniam opposita ex oppo- sitis describuntur interdum. nam quoniam praepositio opposita est suppositioni, genus autem praeponitur, species uero sup- ponitur, si idcirco erit primum genus, quia ita superponitur,  ut minime supponatur, idcirco erit ultima species, quia ita supponitur, ut praeponi non possit, oppositorum igitur recte ex oppositis facta est definitio. Est alia rursus descriptio : quod cum sit species, numquam diuidatur in species, id est genus esse non possit. si enim omne genus specierum  genus est, si quid non diuiditur in species, genus esse non poterit. Est rursus alia definitio : quod de pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. de qua definitione saepe est superius demonstratum. nunc  18 saepe superius] p. 188, 12. 190, 11 ss. 203, 11. 205, 4.   1 inducit]  RSm1  indicit  Em1  indicat  GLa.c.  dicit  CEm2FHLp.c.   NPSm2  inducit dicens  brm  indicat dicens  p  id  om. EGRS, s. l. Lm2  3 non  om. EGRS, s. l. Lm2  superueniens  om. EGRS, s. l. Lm2  si—genus  om. EGRS, in mg. sup. Lm2  5 uocetur  EGLm1Sm2; post   inlatus est locus p. 219,14—220, 3  quoniam ridere—exemplam  in EGL,  quoniam irridere  (sic) —praedicatur  p. 219, 15 (qui locus tamen infra quoque extat) in S  specialissima—idcirco erit  (10) in ras. C post  modo  add.  describitur  edd.  6 opposito] opposita  F  opposito est  H; post   add.  Quia sicut genus (genus  in mg. F ) generalissimum est cui non aliud genus superponitur, ita et species specialissima nuncupatur, cui alia species non subponitur (superponitur  F ) et utrumque ex opposito dicitur alterius sicut pater ex opposito dicitur filii  F, in inf, mg. cum nota  d(esunt) h(aec)  Hm1?  opposita  om. EGR, s. l. Sm2  7 quoniam  om. EN  9 si  er. E  sed  La.c, Pm2  11  ante  ut  add.  rursus  RS  ut praeponi non possit] ut minime praeponatur  CFHN (in mg. add. m2)  oppositorum  om. EGLRS  recte  om. C  13 quod]  Lm1 edd.  quae  cett.   ante  numquam  add.  quae  CGHm1, del. m2  diuiditur  CLRSm1  14 est  om. C  possit] posse  CFN  potest  edd . 16 potest  EGLRS  Est] et  FHNS  et  om. N   illud attendendum est. si, ut paulo superius dictum est, speciei unum indiuiduum potest esse subiectum, ut phoenici atomum suum, ut soli corpus hoc lucidum, ut mundo uel lunae, quorum species singulis suis indiuiduis superponuntur, qui conuenit dicere speciem esse quae de pluribus numero differentibus in  eo quod quid sit praedicatur? sunt enim quaedam quae de numero differentibus minime dicuntur, ut phoenix, sol, luna, mundus. sed de his illa ratio est de qua etiam superius pauca reddidimus, quae paululum inflexa commodissime nodum quae- p. 73  stionis absoluit. | omnia enim quae sub speciebus specialissimis  sunt, siue infinita sint siue finito numero constituta siue ad singularitatem deducantur, dum est aliquod indiuiduum, semper species permanebit neque indiuiduorum deminutione, dum quodlibet unum maneat, species consumitur. ut enim dictum est, tametsi plura sint indiuidua, substantiales differentias non  habebunt. id uero in genere dici non conuenit, quod his praeest quae substantiali a se differentia disgregata sunt; praeest enim speciebus quae diuersis differentiis informantur.  1 paulo superius. 8 superius] p. 215, 2 ss.   1 est  om. G, s. l. Lm1  si, ut] sicut  FGPSm1  sic  La.c. supra  RS  3 suam  S  solis  F  mundi  FR, add.  hoc inane spacium  s. l.   Lm2, post  lunae  in mg.  et hoc immane spacium quod uidemus  P  quo- rum] quae  Lm1  4 indiuiduis  om. EGRS post superponuntur  add . quod si ita est ut species de uno quolibet indiuiduo praedicetur (praedicatur  P ) ut de phoenice (phe-  P )  P edd.  qui] quomodo  Hm2LP  6 praedicetur  L  8 mundus  om. EGRS, s. l. Lm2  illa his  EG  ratio est  om. EG  9 paulum  N  inplexa ( uel  im-) EHm1LP  nodum  ras. ex  modum  EN  10 sub] suis  EGS  in suis  R  specialissima  GPm1RS  11 sint] sunt  CHa.c.Lm1R  finita  CHm2N  12 deducuntur  Lm2R  adducuntur  P, add.  ut fenix uel sol  R  aliquid  FL  semper—deminutione  om. EGRS, in mg. Lm2  semper s. l.  Pm1?, post species  N, om. L (m2)  13 deminutione]  C  diminutione  cett.  dum  om. S  si  EGLm1R  14  ante consumitur  add.  non  EGL   (del. m2) RS  ut] quod  EGLRS  15 tamenetsi  G  tamen si  RS  sunt  F ante  substantiales  add.  si  G, s. l. Sm2, ras. in E  16 id uero  om. EG  quod  L  idcirco id  R  id circo  Sm1 , circo  del. m2  18  ante  speciebus  s. l.  genus  E   si igitur earum una perierit et ad unitatem speciei reducta sit ratio, genus esse non poterit, quia de differentibus specie praedicatur. non ita in speciebus. si enim omnium indiuidu- orum natura consumpta sit et ad unius singularitatem indi-  uidui superpositae speciei praedicatio peruenerit, est tamen species ac permanet. talia enim sunt illa quae pereunt ac desunt, quale est id quod permansit et subiacet. quod uero dicimus de pluribus numero differentibus speciem praedicari, duobus id recte explicabitur modis, uno quidem, quia multo  plures sunt species quae de numerosis indiuiduis praedicantur, quam hae quibus unum tantum indiuiduum uidetur esse sup- positum, dehinc hoc, quia multa secundum potestatem dicuntur, cum actu non semper ita sint, ut risibilis homo dicitur, etiamsi minime rideat, quoniam ridere potest. ita igitur species  de numero differentibus praedicatur; nihilo enim minus phoenix de pluribus phoenicibus praedicaretur, si plures essent, quam nunc, quando unus esse perhibetur. item solis species de hoc uno sole quem nouimus, nunc dicitur, at si animo plures soles et cogitatione fingantur, nihilo minus de pluribus solibus  indiuiduis nomen solis quam de hoc uno praedicabitur. idcirco igitur species de pluribus numero differentibus dicitur praedicari, cum sint aliquae quae de singulis indiuiduis appellentur. Illa uero quae subalterna uocantur ita definiri queunt : subalternum  1 eorum  EFGLm1RS  redacta  EGLPm2RS edd.  2 de  om. E  3 si enim] nam si  EGLRS  5 suppositae  LNR  superposita  S  uene- rit  EGLRS  6 alia  EGLa.c.RS ante  sunt  s. l.  non  E  7 quale] quam  EGLa.c.RS  et] ac  CFHNP  8 de numero pluribus  Ca.c.  numero de pluribus  p.c.  9 excusatur  EGLRS  quidem uno  EG  multo  om. FN, s. l. H  11 hae  om. ER  hee  C  eae  H  ea  N ante  qui- bus  add.  e  CR, er. uid. E  tantum  om. S  suppositum esse  RS  12 dehinc] deinde  EGLRS  hoc  om. FHNS  13 semper  om. CFH  14 etiamsi—praedicatur  om. F de loco  quoniam ridere  eqs. in EGLS   cf. ad p. 217 , 5 igitur] etiam  E  15 nihil  EGLPRS  16 phoenicibus  om. F 17 ita (a  in ras. m2) E  hoc  om. S, post  uno  F  18 ac  EGR ante  animo  s. l.  in  Pm2  19 cogitationes  Ca.c.F ante  de  add.  enim  EG  20 praedicatur  EGLRS  22 appellantur  FHN   genus est quod et genus esse poterit et species, ad eumque modum est ut in familiis, quae procreant et procreantur, ut etiam subiectum monstrat exemplum : ut Agamemnon Atri- des et Pelopides et Tantalides et ultimum Iouis. Atreus enim Pelopis filius tamquam eiusdem species quasi  Agamemnonis genus est. item Agamemnon Pelopides et Tan- talides, cum Pelops ad Tantalum comparatus Tantalusque ad Iouem quasi species itemque Tantalus ad Pelopem, Pelops ad Atreum tamquam genera esse uideantur, cum Iuppiter ueluti sit horum generalissimum genus.   Sed in familiis quidem plerumque ad unum redu- cuntur principium, uerbi gratia ad Iouem, in generibus autem et speciebus non se sic habet. neque enim est commune unum genus omnium ens nec omnia eiusdem generis sunt secundum unum supremum genus, quem-  admodum dicit Aristoteles. sed sint posita, quemad-  11-221, 7] Porph. p. 6, 3—11 (Boeth. p. 31, 7—17). 16 Ari- stoteles] Metaph. II, 3, p. 998 b , 22.   1 et  om. RS  et genus  om. EG  ad—ut]  CG ( ut  om.) Hm2  ad eumque  ( et ad eum  N)  modum sunt ut  Hm1N  ad eumque  ( eum que *   L  eundem  Pm2 ) modum qui  (s. l. Lm2, part. in ras. Pm2)  est  (s. l. Pm2)   LP  ad eum modum qui est  EFR  ad eum  ( eum  del. m2, post  que eu  er.)  modum,  in ras. quae est  m2 S  4 et Tantalides—Iouis]  Lm2Pm2   (om.  et Tantalides ) R edd., post  species  (5) Lm1S, om. cett.  5 quasi] quae si  Sm1, del. m2, ante add.  et  F, s. l. Pm2 , est  R  6 Agamem- nonis] tamen his  ( is  R) EGLm1R  tamen non his  Sm1, del. m2  genus est  del. Sm2  est  om. P ante  Pelopides  add.  non  E  atrides non  ( non  del. m2) L  7 comparatus]  ( s  in ras. m2) H comparatur  ( cõ- ) cett  Tantalusque] ut tantalus quae  G  8 idemque  CP  idem  N  9 Atreum] creontum  EG  creontem  Lm1  tareontum  S  tamquam] quasi  EGLR  quae  S  uelut  HP  11 reducuntur  ante  ad  N, post  reducuntur  add.  omnes  L, s. l. Pm2;  reducunt  coni. Busse; cf. p. 224, 19  reduci;  Porph.   p. 6, 3   άναγουοι  12 ad  om. EGRS A  13 speciebus] in speciebus  R  sic se  ΝΣ  habetur  EG  neque—dicerentur  (p. 221, 5) ]  RS Q ,  om.   cett.  enim  om. R  14 neque  Busse  15 sunt generis  Γ  16 sunt  \ m2 2 ;  Porph. p. 6, 6   χείοθ·ω  quemadmodum  om. S, add.  dictum est  edd., idem post  Praedicamentis  h m2 W m2   (cf. p. 224, 19); om. Porph. p. 6, 7   modum in Praedicamentis, prima decem genera quasi prima decem principia; uel si omnia quis entia uocet, aequiuoce, inquit, nuncupabit, non uniuoce. si enim unum esset commune omnium genus ens, uniuoce  entia dicerentur; cum uero decem sint prima, com- munio secundum nomen est solum, non etiam secun- dum rationem, quae secundum nomen est.    Cum de subalternis generibus diceret, familiae cuiusdam posuit exemplum, quae ab Agamemnone peruenit ad Iouem,  quem quidem pro numinis reuerentia ultimum posuit. quantum enim ad ueteres theologos, refertur Iuppiter ad Saturnum, Saturnus ad Caelum, Caelus uero ad antiquissimum Ophionem ducitur, cuius Ophionis nullum principium est. ne igitur quod in familiis est, id in rebus quoque esse credatur, ut res omnes  possint ad unum sui nominis redire principium, idcirco deter- minat hoc in generibus ac speciebus esse non posse; neque enim sicut familiae cuiuslibet, ita etiam omnium rerum unum esse principium potest. fuere enim qui hac opinione tenerentur, ut rerum omnium quae sunt unum putarent esse genus quod  ens nuncupant, | tractum ab eo quod dicimus ‘est’; omnia enim  p. 74   3 inquit] sententia, non uerba Aristotelis.   1 quasi  in ras.   Σ  sic  A m1  sicut  Ψ  2 prima  om.   Γ ,  post  decem  Π  2 uocat  A m1 II  3 nuncupauit  S, in ras. ex  -bit  Γ  4 genus omnium  Busse  entia uniuoce  R post  uniuoce  add.  omnia  edd. cum Porph.   p. 6, 9   πάντα  5 uero] autem  Γ  enim  ΔΔΣΦ ;  Porph. p. 6, 10   δέ sunt  FH  prima] principia  Lm1  prima genera  m2P  (genera  s. l. m2 ), prima principia  N ΓΣ  7  ante  rationem ( ante  nomen  E )  add.  definitionis ( uel  diff-)  ELRS Q ,  om. Porph. p. 6, 11  quam  E post  est  add . solum  CHN  8 Cum] Quoniam  CLm1NS  Quoniam  (del. m2)  cum  H  di- cens  CLm1N  dicit  in ras. S  cuius  Pm1  cuiusque  F  eiusdem  R  9 ponit  Sm2  ab  om. F, s. l. Gm2  10 nominis  EGLS  nomini  R  11 ad ueteres] aduertere  Sm1  aduertisse  CEFGLm2P  aduertit se  R referantur  Hm1N  12 caelium ( uel  ce-)  LPm2RS  zethum  F  zechum  N  Caelus] Hm2  caelius ( uel ce-)  LPm2Sm2  celium  R  caelum  CEGHm1Pm1Sm1  zetus  F  zehus  N  othionem  F  ( sed ophionis) 14 esse ( Pm2  est  m1 ) quoque  FHNP  15  ante  sui  exters. uid.  proprii  E  17 familia  H 19 ut] et  Fa.c.S  ut et  N  20 est] esse  S   sunt et de omnibus esse praedicatur. itaque et substantia est et qualitas est itemque quantitas ceteraque esse dicuntur; nec de his aliquid tractaretur, nisi haec quae praedicamenta dicun- tur, esse constaret. quae cum ita sint, ultimum omnium genus ens esse posuerunt, scilicet quod de omnibus praedicaretur.  ab eo autem quod dicimus ‘est’ participium inflectentes Graeco quidem sermone  Sv  Latine ens appellauerunt. sed Aristoteles sapientissimus rerum cognitor reclamat huic sententiae nec ad unum res omnes putat duci posse primordium, sed decem esse genera in rebus, quae cum a semet ipsis diuersa sint,  tum ad nullum commune principium reducantur. haec autem decem genera statuit substantiam, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, facere, pati, habere. quod uero occurrebat quoniam de his omnibus esse praedicaretur — omnia enim quae superius enumerata sunt genera, esse dicuntur —,  ita discussit ac reppulit dicens non omne commune nomen communem etiam formare substantiam nec ex eo debere genus esse commune arbitrari, quod de aliquibus nomen commune praedicaretur. quibus enim definitio communis nominis con- uenit, illa communis nominis iure species iudicabuntur et  communi illo uocabulo uniuoce praedicantur, quibus uero non conuenit, uox his communis tantum est, nulla uero substantia. id autem manifestius declaratur exemplis hoc modo. animal hominis atque equi genus esse praedicamus; demus igitur  1  post.  et  om. EGRS, s. l. Lm2  2 cetera  C  3 de] in  GLm1RS  5 esse  om. EGRS, s. l. Lm2  6 autem  s. l. L  enim  C  est] esse  FS  principium  EG, m1 in LPS  inflectentes  post  quidem  N  7 quidem  ante  Graeco  R ante  sermone  add.  de  P, s. l. L post  Latine add. autem  FHN, s. l. Pm2  8 prudentissimus  FNP  rerum] principiorum EGLm1Pm1RS  9 omnes  ante  res  C, om. EGRS, s. l. Lm2  dici  FGm1Pm2  10 ad  FHNRm1 ipso  Em1GPm1S  ipsa  FHN  ipsos  Rm1  sunt  CLm1R edd.  11 reducuntur  EFGLm2RPm1S  15 nu- merata  CEGL  innumerata  S  16 repulit  CEFHRP  17 eo debere] eodem uere (e re  add. S )  EGSm1  18  post  arbitrari  add.  debet  E  19 praedicatur  E  praedicetur  FHNP  nominis communis  FN  22 his uox  FHNP  23 manifestis  FLp.c.  24 praedicatur  S  dicamus  CHN   animalis definitionem, quae est substantia animata sensibilis; hanc si ad hominem reducamus, erit homo substantia animata sensibilis, nec ulla falsitate definitio maculatur. rursus si ad equum, erit equus substantia animata sensibilis; id quoque  uerum est. conuenit igitur haec definitio et animali, quod commune est homini atque equo, et eidem equo atque homini, quae species ponuntur animalis. ex quo fit ut homo atque equus utraque animalia uniuoce nuncupentur. at si quis hominem pictum hominemque uiuum communi animalis nomine nuncu-  pauerit, definiat si libet animal hoc modo, substantiam ani- matam esse atque sensibilem. sed haec definitio ei quidem homini qui uiuus est conuenit, ei uero qui pictus est, minime; neque enim est animata substantia. igitur homini uiuo atque picto, quibus communis nominis definitio, id est animalis,  non potest conuenire, non est animal commune genus, sed tantum commune uocabulum diciturque hoc nomen animalis in uiuo homine atque picto non genus, sed uox plura signi- ficans; uox autem plura significans aequiuoca nuncupatur, sicut uox ea quae genus ostendit, uniuoca dicitur. itaque id quod  dicitur ens, etsi de omnibus dicitur praedicamentis, quoniam tamen nulla eius definitio inueniri potest quae omnibus prae- dicamentis possit aptari, idcirco non dicitur uniuoce de prae- dicamentis, id est ut genus, sed aequiuoce, id est ut uox plura significans. Conuincitur etiam hac quoque ratione id  quod dicimus, ens praedicamentorum genus esse non posse.  2 hanc] uel hanc  E  3 facultate  Em1  4 equus] equi  CFPm2  5 definitio ( uel  diff-) haec  FHN  6 homini] et homini  CNP  atque] et,  FHNPR  eidem]  CEm2FH a.r.NPR  idem  Em1GHp.r.Lm1S  eadem  Lm2brm  ea eidem  p  8 animalis  EGLa.c.  una uoce  E  nun- cupantur  C  nominentur  FHN  9 uiuum] uerum  EGLm1PRS 10 si libet] scilicet  CHm1N  animal  om. E  12 uero]  FHP, om. S , quidem  cett.  13 est  post substantia  LP  16 dicitur quae  Em1Sm1  dicitur quod  LSm2  dicitur quia  CFN  17 genus] genus est  FN  uox—significans  om.   CEGP, s. l. Lm2Sm2  18 autem] enim  RS ante  aequiuoca  add. quae  CEGP  nuncupantur  GS  19 ita  ELm1  23 id est  om. CFN  ut genus  om. F  24 quoque  om. N   unius enim rei duo genera esse non possunt, nisi alterum alteri subiciatur, ut hominis genus est animal atque animatum, cum animal animato uelut species supponatur. at si duo sint sibimet ita aequalia, ut numquam alterum alteri supponatur, haec utraque eiusdem speciei genera esse non possunt. ens  igitur atque unum neutrum neutri supponitur; neque enim unius dicere possumus genus ens nec eius quod dicimus ens, unum. nam quod dicimus ens, unum est et quod unum dicitur, ens est; genus autem et species sibi minime conuertuntur. si igitur praedicatur ens de omnibus praedicamentis, praedicatur  etiam unum. nam substantia unum est, qualitas unum est, quantitas unum est ceteraque ad hunc modum. si igitur, quoniam esse de omnibus praedicatur, omnium genus erit, et unum, quoniam de omnibus praedicatur, erit omnium genus. sed unum atque ens, ut demonstratum est, minime alterum  alteri praeponitur; duo igitur aequalia singulorum praedica- mentorum genera sunt, quod fieri non potest. cum haec igitur ita sint, id Porphyrius determinauit dicens non ita in rebus, ut in familiis omnia ad unum principium posse reduci nec omnium rerum commune esse genus posse, ut Aristoteli pla-  cet; sed sint posita, inquit, quemadmodum in Praedi-  p. 75  camentis dictum est, prima decem ge|nera quasi decem prima principia, scilicet ut nulla interim ratio perquiratur, sed auctoritati Aristotelis concedentes haec decem genera nulli  3 ac  R  sint  post  aequalia  pos. RS, repet. FL (s. l. m2) P  4 sibi- metque  ( quae  F) FLm2Pm1  ita  s. l. Lm2  5  ante  haec  add . aequa  C ,  sed del . eidem  Pm2  eius  S  6 neutris  Em1  8  pr . unum  post  nec,  om .  post  ens  H  dicitur  om. S dicimus  Rbrm  13 esse] ens  Lm2P   post  omnibus  add . his  CP, in mg. Hm2, add . praedicamentis  (s. l. m2)  his  L post  erit  add . ens  CHN  et unum—omnium genus  om. R  15 sed] si  in ras. Em2 ut  om. FH  16 praeponi  FH  17 hoc  Ea.c. edd . 18 sit  edd . 19 deduci  LS  duci  Em1  20 genus  ante esse  CFN, post  posse  S  poterit  F  21 sint]  FHm1  sunt  cett . 23 prima  om. N, post  principia  R  ut  om. EGS  24 auctoritate  Em1Hm1  ad auctoritatem  FN  accedentes  CFNS   alii generi esse credamus subiecta, quae si quis entia nuncupat, aequiuoce nuncupabit, non uniuoce; neque enim una eorum omnium secundum commune nomen definitio poterit adhiberi. quae res facit, ut non uniuoce de his aliquid praedicetur. si  enim uniuoce praedicaretur, genus esset eorum commune nomen quod de omnibus praedicaretur; at si genus esset, definitio generis conueniret in species. quod quia non fit, com- mune his id quod dicimus ens, uocabulum est uocis signi- ficatione, non ratione substantiae.    Decem quidem generalissima sunt, specialissima uero in numero quidem quodam sunt, non tamen infi- nito, indiuidua autem quae sunt post specialissima, infinita sunt. quapropter usque ad specialissima a generalissimis descendentem iubet Plato quiescere,  descendere autem per media diuidentem specificis differentiis; infinita, inquit, relinquenda sunt; neque enim horum posse fieri disciplinam.    10—17] Porph. p. 6, 11—16 (Boeth. p. 31, 17—32, 1). 14 Plato] Phileb. p. 16 C. Polit, p. 262 A—C. Sophist. p. 266 A. B adfert Busse.   1 entia nuncupat]  ERS  (-pet), etiam entia nuncupat  N  ab ens entia nuncupat (-pet  Lm2 )  CGL  etiam nuncupat (nuncupat  post  ens  P ) ab ens entia  HP entia nuncupat ens  F  2 nuncupabit (-uit  FHN )  post  uniuoce  FHNP , nuntiauit  S  unam—definitionem ( uel  diff-) poterit adhibere  FHN  3 nomen  ex  non  Em2G  5 esse  Hm1, add . ens  s. l .  L, ante  esset  P  eorum  om. CN, post  commune  L  6 nomen  in   mg. Hm2, del. Lm2  ens  CH(in mg.) Lm2  ( s. l. ante  eorum)  N  7 con- uenerit  Em1  8 his  om. GS  10 sunt  om. S  11 in numero  om .  Δ  quodam] quaedam  Pm1  sunt  om., post  indiuidua  add . est  S  tam  C  infinito]  Fp. c . (finito  a.c .)  Hm2S TNtt p.c . Φ  in infinito  Hm1N W a.c . indefinito  C  ( ras. ex  -tio) EGL a.c . (in indefinito  et  ał definito  corr. m1 )  PR kIPV  (in  er .) 12 indiuidua—quiescere)  LRS Q ,  om. cett . 13 sunt infinita  LRS Busse; cf. p. 226, 22  a  om. R  15  ante  descendere  post  usque  (cf. ad p. 178, 14) add.  ad id  CHP  diuidentem per me- dia  Γ  16  ante  infinita  add . indiuidua uero  Δ ,  sed del., post add . uero  ΓΦ  17 enim  s. l. L, del .  Γ  horum]  N ii  ( ante add . et  ΛΦ ,  er. uid .  Γ ,  post add . indiuiduorum  Γ ) eorum  cett.; Porph. p. 6, 16   τούτων  disciplina  Cm1   Quoniam specierum nosse naturam ad sectionem generum pertinet quoniamque scientia infinita esse non potest — nullus enim intellectus infinita circumdat —, idcirco de multitudine generum, specierum atque indiuiduorum rectissima ratione persequitur dicens supremorum generum numerum notum —  decem enim praedicamenta ab Aristotele esse reperta quae rebus omnibus generis loco praeferenda sint —, species uero multo plures esse quam genera. nam cum decem suprema sint genera cumque uni generi non una, sed multae species supponantur proximaeque species supremis generibus subalterna  sint genera usque dum ad ultimas species descendatur, nimirum unius generis multas species esse necesse est utrobique dif- fusas, specialissimas uero multo plures esse quam subalterna, quoniam per multitudinem generum subalternorum ad specia- lissimas descenditur species. quas multo plures esse quam  genera subalterna hoc maxime ostenditur, quod inferiores sunt; semper enim genera in plura subiecta diuiduntur. decem uero generum species multo plures quam unius existere manifestum est, uerum tamen etsi plures sunt, certo tamen numero con- tinentur; quem facile si quis discutiat omniumque generum  species persequatur, possit agnoscere. indiuidua uero quae sub una quaque sunt specie, infinita sunt uel quod tam multa  1 generis  EGLRS, recte?  2 scienti  GRS scienti alicui  Lm2  5 su- premorum] supra horum  EG, m1 in LPS ante  numerum  add . esse FHNP, post  notum  L  6  post  reperta  s. l . commemorat  Em2  7 gene- ris  om. R, post  loco  L , generum  S  sunt  CFH   (ras. corr.) NPRSm2  8 nam cum—genera  om. EGRS  9 sunt  FLP (ras. corr.)  11 sint  post  genera  C  sunt  F  13 subalternas  FH (s in ras. m2) N, ante  sub.  add . genera  PS, s. l. Lm2  16 hoc] in hoc  F  inferiora  FHm1Lm2NP  17 semper enim genera]  FHN  semper si genera  Cm1  semper enim sub- alterna (genera subalterna  P )  Cm2 (part. in mg.) P  et semper subalterna genera  RS  et  (om. G)  semper subalterna  EGL  plurima  N  18 ge- neris  G  unius] generis unius  R  species unius generis  Lm1  19 sint  L  compraehenduntur  L  21 prosequatur  NR 22 species  G  specie  ante  sunt  FHLNR  tam]  FHN  ea  EGLPRS  tam ea  C   sunt diuersisque locis posita, ut scientia numeroque includi comprehendique non possint, uel quod in generatione et cor- ruptione posita nunc quidem incipiunt esse, nunc uero desinunt. atque idcirco suprema quidem genera et subalterna et species  eas quae specialissimae nuncupantur, quoniam finitae sunt numero, potest scientiae terminus includere, indiuidua uero nullo modo. idcirco igitur Plato a magis generibus usque ad magis species id est specialissimas praecipiebat facere secti- onem; per ea enim quae finita essent numero, iubebat descen-  dere diuidentem, ubi autem ad indiuidua ueniretur, standum esse suadebat, ne, quod natura non ferret, infinita colligeret. ita uero genera in species diuidi comprobabat, ut specificis differentiis soluerentur. de specificis autem differentiis melius in eo titulo ubi de differentia disputatur, ac largius disseremus.  hic enim hoc tantum dixisse sufficiat, eas esse specificas dif- ferentias quibus species informantur, ut rationale uel mortale hominis. cum igitur diuidimus animal, rationali atque inratio- nali, mortali inmortalique separamus. <hoc ergo> ceteraque genera talibus differentiis quae subiectas species informent,  Plato censuit esse diuidenda usque dum ad specialissima  13 de specificis—disputatur] lib. IV c. 8.   1 sint  EFGHp.r . ( ex  sunt)  LPRS  numeroque]  FHN  in unum  EGLm1  (numero  m2 )  RS  numeroque in unum  CP  concludi  LS  3 uero)  ex  quidem uero  P recepit Brandt , quidem  CEGLRS, om. FHN; cf. p. 223, 12  5 easque ( om . quae,)  LR specialissime  GS  7 igitur  om. C  magis a  EGLPRS  usque ad magis species]  FHN  magis  om. C quam a speciebus  cett . 8 id est] e  ut uid. er. C  specialissimas]  CFHN  a ( add. L ) specialissimis  cett.; cf. p. 225, 13  9 essent] sunt  FN  10 diuidentem] diuisionem  EGHm1  (diuisorem  m2 )  Lm1PRS  11 nec  HN  12 comprobat  ELm1  (probabat  m2 )  R  ut  et  soluerentur  om .  EGPm1 (s. l. m2) RS post  ut  add . in  edd . 13 autem  om. EGLPm1  (uero  m2 )  RS  14 de  om. FG  differentiis  CS a.c . 16 rationabile  E  uel  om. ERS  et  Lm1  17  ante  rationali  et  inrationali  add . in  Em2 rationale atque inrationale ( uel  irr-)  EGN p.c.RS  18 mortali  om .  N  mortale  EGLPS inmortaleque  EGNp.c.PRS ; mortale  (sic)  ac  (s. l.)  inmortali  L  18 hoc ergo  add. Brandt , cetera <quo>que  Engelbrecht  separabimus  FHN  separauimus  R  19 informant  Fa.c.Lm1NR   ueniretur, dehinc consistere nec infinita sequi, quoniam indi- uiduorum numquam esset nec disciplina nec numerus.    Descendentibus igitur ad specialissima necesse est diuidentem per multitudinem ire, ascendentibus uero ad generalissima necesse est colligere multi-   p. 76 tu|dinem. collectiuum enim multorum in unam natu- ram species est et magis id quod genus est, particularia uero et singularia e contrario in multitudinem semper diuidunt quod unum est; participatione enim speciei plures homines unus, particularibus autem unus et  communis plures; diuisiuum est enim semper quod singulare est, collectiuum autem et adunatiuum quod commune est.    Diuidere est in multitudinem quod unum fuerat ante dis- soluere, omnisque diuisio e contrario compositionem coniunc-  tionemque meditatur. quod enim, cum sit unum, dispertiendo diuiditur, id ipsum ex pluribus rursus partibus adunando componitur. ut igitur superius dictum est, indiuiduorum qui- dem similitudinem species colligunt, specierum uero genera : similitudo uero nihil est aliud nisi quaedam unitas qualitatis.  ergo substantialem similitudinem indiuiduorum species colli- gere manifestum est, substantialem uero similitudinem spe- cierum genera contrahunt et ad se ipsa reducunt. rursus  3—13] Porph. p. 6, 16—23 (Boeth. p. 32, 1—8). 9 participa- tione—11 plures] Abaelardus, Theolog. christ., II p. 486 ed. Cousin. 18 superius] p. 166, 8 ss.   3  ante  igitur  add . illis  L  necesse—singulare est  (12) om. N  4 ire  ante  per  L T  ascendentibus—plures  (11) ]  Ω ,  om. cett . 6  post  multitudinem  excidisse  in unum  coni. Busse  ( cum Porph. p. 6, 18   e’:; εν ),  add. edd . 8 e contrario—semper]  Γ   edd. cum Porph. p. 6, 20  semper in multitudinem e contrario  cett. codd. Busse  9 est unum  Φ 10 unus, unus autem et communis particularibus plures  Abaelard . 11 commune  P a.c . communes  Φ  enim post  est FS Φ ,  om. CELR ,  ante  est  cett . 12 est  om. E  14 est] enim  C  est enim  L  in  om. G ,  s. l. Lm2  15  post  dissoluere  add . est  C  17 plurimis  F  19 uero] ergo  CEGLm1RS  20 nisi] ni  C   generis adunationem differentiae in species distribuunt, spe- cieique adunationem in singulares indiuiduasque personas accidentia partiuntur. cum igitur haec ita sint, necesse est semper cum a genere descendis ad speciem, diuidendo semper  facere multitudinem, cum uero ab speciebus ascendis ad genera, componendo colligere et plura quae in specierum differentiis fuerant similitudine qualitatis adunare. in speciebus etiam idem considerari potest. ut enim ipsae indiuidua, quae sunt infinita, una similitudine substantiali colligunt. ita indiuidua  speciem propria infinitate distribuunt. omnia enim indi- uidua disgregatiua sunt et diuisiua, species uero et genera collectiua, species quidem indiuiduorum collectiua atque adu- natiua, specierum uero genera, ut ita dicendum sit : genus quidem species distribuunt et species ab indiuiduis in multi-  tudinem deducuntur, rursus autem genus quidem multas species colligit, species autem particularem singularemque multitudinem ad singularitatis deducit unitatem. igitur plus genus adunatiuum est quam species. species namque sola indiuidua colligit, genus uero tam species quam ipsarum quo-  que specierum indiuiduas contrahit singularesque personas. sed in hoc conuenienti utitur exemplo dicens quoniam partici- patione speciei, id est hominis, Cato, Plato et Cicero pluresque reliqui homines unus, id est milia hominum  1  post  generis  s. l . ergo  E  species] specie  G  speciem  Lm1  2  ante  indiuiduasque  s. l . in  Hm2  3 haec igitur  LNP  4 species  ELm2R  5 a  ELS  ad ( tamen  speciebus)  G  6 et  om .  EGLPRS  plures  EFGLPm1RS  quae  ante  fuerant  EGLPRS  7 fuerint  S  simili- tudinum (-nem  Pm2 ) qualitates ( ex  -tis  Pm2) EFGLPRS ante  adunare  add . et  EGLPR  8 poterit  Lm2 ante  ipsae  add . species  N, post in mg. Cm1?  ipsae]  Cm2H  ipsa  cett . 9 unam similitudinem substantialem  EFGLRS  10 propriam infinite ( uel  -tae, -tate  H ) EGHLPRS  12  post  adunatiua  add . est  CGH   (in mg. m1?) Lm2 NPm2  13 specierum uero genera  s. l. Hm2  14 distribuit  EGRS  15 ducuntur  EGHN  17 ducit  HN  19 cum species tum  N 20 indiuidua  EGHLPRS  21 participationi  G  23  post  unus  add . est  Hm2   in eo quod sunt homines, unus homo est; at uero unus homo, qui specialis est, si ad hominum multitudinem qui sub ipso sunt consideretur, plures fiunt. ita et plures homines in spe- ciali homine unus est et specialis unus in pluribus infinitus. sic igitur quod singulare quidem est, diuisiuum est, quod  uero commune, quoniam multorum unum est, ut genus ac species, collectiuum atque adunatiuum.   Adsignato autem genere et specie, quid est utrumque, et genere quidem uno, speciebus uero pluribus — semper enim in plures species diuisio  generisest —, genus quidem semper de specie prae- dicatur et omnia superiora de inferioribus, species autem neque de proximo sibi genere neque de supe- rioribus; neque enim conuertitur. oportet autem aut aequa de aequis praedicari, ut hinnibile de  equo, aut maiora de minoribus, ut animal de homine, minora uero de maioribus minime; neque enim ani- mal dices esse hominem, quemadmodum hominem dices esse animal. de quibus autem species prae-  8-231, 19] Porph. p. 6, 24—7, 21 (Boeth. p. 32, 9—33, 4).   1 est. ut  et 3  fiunt, ita  r  2  pr . qui] quamuis  FNm1 post . quae  EPR  3 et] ut  Cm1  4 unus est] unum est ał  (haec del. m2)  unus est  C post . unus] unus est  LS  infinitis  CLm1  diffinitus  R  5 quidem  om. FN  diuisum  Em1  diuisuum  N  quod] quia quod,  s. l . est  G  6 uero commune]  FS  commune uero  Cm1  ( post  uero  add . est  m2 )  HN  commune est uero  LPm2R  commune est numero  EGPm1  ac] et  R  ad  Em2GLPm1  8 Assignati  Pm1  quid est]  FHPm2 \ m1  quide  CNRS  quid sit  Π m2 xV   edd . quod est  cett. Busse; cf . sunt  p. 236, 14  9 utrum- que—uno]  CEGHPm1  (quidem  ex  quodem)  RS h m2 W m2 xP  utrumqae quodque sit genus unum (unum genus  N )  FN & m1 AZΦ  utrumque et (et  om .  L Π ) cum (cumque  Π ) sit genus unum  LPm2 il m1  utrumque unum  Γ  species uero plurimae  FLNPm2 TΔ m1 Λ2Φ ;  ad utrumque— pluribus  cf. Porph. p. 7, 1  11 genus—indiuiduis  (p. 231, 16) ]  RS Q ,  om. cett . speciebus  R  14 autem]  Porph. p. 7, 4   γάρ  15 aut]  RS  edd.,  om .  Ω   Busse; Porph. p. 7, 4   ή aequis] aequo  R  ignibile  R  17 uero] autem  S post  minime  add . praedicantur  Γ  18. 19  utroque loco  dices]  RS  dicis  Ω   edd. Busse; Porph. p. 7, 7   ειποις άν   dicatur, de his necessario et speciei genus prae- dicabitur et generis genus usque ad generalissi- mum; si enim uerum est Socratem hominem dicere, hominem autem animal, animal uero substantiam,|  uerum est et Socratem animal dicere atque sub-  p. 77  stantiam. semper igitur superioribus de infe- rioribus praedicatis species quidem de indiuiduo praedicabitur, genus autem et de specie et de indi- uiduo, generalissimum autem et de genere et de  generibus, si plura sint media et subalterna, et de specie et de indiuiduo. dicitur enim generalis- simum quidem de omnibus sub se generibus spe- ciebusque et de indiuiduis, genus autem quod ante specialissimum est, de omnibus specialissimis et  de indiuiduis, solum autem species de omnibus indiuiduis, indiuiduum autem de uno solo parti- culari. indiuiduum autem dicitur Socrates et hoc album et hic ueniens, ut Sophronisci filius, si solus ei sit Socrates filius.    Breuiter quaecumque superius dicta sunt commemorat hoc modo. cum, inquit, adsignauerimus quid sit genus et quid species, cumque suis ea definitionibus comprehenderimus docuerimusque unum genus semper in plurimas species solui,  2 generalissima  Sm2  (specialissimum  m1 )  ΓΛΛ  3 enim] autem  S  4 autem] uero  Λ  uero] autem  Δ  5 et Socratem animal]  A m2 A m2  ( om . et,)  Ψ  hominem et (et  om ,  AA ) animal  Α m1 Α m1 Φ  et hominem ani- mal  RS Σ  et ( om .  II ) socratem et (et  om .  Γ ) hominem ( del .  Γ m2 ) et ( om .  T ) animal  ΓΠ ;  cf. Porph. p. 7, 11 6  igitur]  RS  enim  Ω ;  Porph. p. 7, 12   οΰν superioribus] superiora  RS TA a.c . 7 praedicantur  RS VA a.c . species] et species  R  indiuiduo]  cod. Q. Bussii brm  indiuiduis  RS Q  ( ante add.  eius  Σ );  Porph,. p. 7, 13   τοΰ άτο’μοο  10 sunt  RS m2   p.c  subalterna] de subalternis  A  11 enim] autem  S  13 et de  om. R  de  om. S  14 de]  Ω   cum Porph. p. 7, 17  et de  RS  15  pr . de  om. S post . de] et de  R  17 autem] enim  N TAΛΣ ;  Porph. p. 7, 19   ie  18 album] aliud  T m1  (et illud  m2 )  A m1  ut] et  Ν ΤΑ m2 ΑΣ  19 socrates sit  CEGLPRS; Porph. p. 7, 21   εΤη Σινγ,ράτης  20 quae  FHN  21 et  om. R   illud, inquit, adiungimus quoniam omnia superiora de inferio- ribus praedicantur, inferiora uero de superioribus minime. et ea quae sunt utilia de praedicationis modo rite pertractat. ostendit autem genus in plurimas species semper solui ad- signata generis definitione. quod enim de pluribus rebus specie  iffdiertenbus in eo quod quid sit praedicaretur, esse definiuit genus. nihil autem sunt plurimae res specie differentes nisi plurimae species; de quibus autem praedicatur genus, in ea ipsa dissoluitur. ostensum est igitur ex definitionis adsigna- tione unius generis esse species plures. quae cum ita sint,  genus quidem de specie praedicatur, species uero de indiuiduis omniaque superiora de inferioribus, inferiora de superioribus nullo modo. id quare eueniat paucis absoluam. quae superiora sunt, substantialiter ea genera esse praediximus, qua uero sunt genera, ampliora sunt quam una quaeque species. neque enim  in plurima diuideretur genus, nisi ab una quaque specie maius existeret. id cum ita sit, nomen generis toti conuenit speciei; non enim coaequatur solum speciei generis magnitudo, uerum etiam speciem superuadit. idcirco igitur omnis homo animal est, quoniam intra animalis uocabulum et homo et  cetera continentur. at uero nullus dixerit : omne animal homo est; non enim peruenit ad totum animal hominis nomen, quia, cum sit minus, nullo modo generis uocabulo coaequatur. itaque quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, quae minora, non conuertuntur, ut de maioribus praedicentur. at uero si  qua sint aequalia, ea secundum naturae parilitatem conuerti necesse est, ut hinnibile atque equus, quoniam ita sibimet  1 quoniam] quod  S  2 uero  om. ES  4  ante genus  add . unum  FHNPR, in mg. Cm2, recte?  5 definitio ( uel  diff-)  Ea.c.GLPm1S  6 esse] et esse  R  definiuit] designauit  Sm1  10  ante  esse  add . semper  FHNP  13 id cur  HN  idcirco  F  14 ea  add. Em2  quae  L  ( s. l.  illa)  PS  15 quaque  E  quoque  S  17 toti] totum non  R  18  post  enim  repet . non  R  21 cetera] cicero  F  cetera animalia  G  23 itemque  Lm1S  24  post post . quae  s. l . uero  Hm2  26 sunt  FHLN  pari- tatem  EGLp.c.RS  27 ignibile  R  ita] si  ita H   coaequantur, ut neque equus non sit hinnibilis neque quod sit hinnibile, non sit equus. fit ergo ut omne hinnibile equus sit et omnis equus hinnibilis. quae cum ita sint, ea quae superiora sunt, non modo de sibi proximis inferioribus prae-  dicantur, uerum etiam de inferiorum inferioribus. nam si illud recipitur, ut ea quae superiora sunt, de inferioribus praedi- centur, inferiorum inferiora superioribus multo magis infe- riora sunt, uelut substantia praedicatur de animali, quod est inferius; sed animali inferius est homo, praedicabitur  igitur etiam substantia de homine. rursus Socrates inferius est homine, praedicabitur igitur substantia de Socrate. ita- que species quidem de indiuiduis praedicantur, genera uero et de speciebus et de indiuiduis. quod conuerti non po- test; nam neque indiuidua de speciebus aut generibus prae-  dicantur nec species de generibus. ita fit ut genus quod est generalissimum, de omnibus subalternis generibus praedi- cari et de speciebus et de indiuiduis possit. de ipso nihil. ultimum uero genus id est quod ante specialissimas species collocatur et de solis speciebus specialissimis dici potest,  species uero de indiuiduis, ut dictum est, indiuidua autem de singulis praedicantur, ut Socrates et Plato, eaque maxime sunt  1 non  om. brm post  sit (si  R )  add . nisi  CH (s. l. m2) LNPS  ni  R inhinnibilis  EG  nec  FN  quid  CF  2  pr . sit  om. S post . sit] est  CEGLm1RS ; non sit  om. brm; post add . nisi  CLNPRS ,  s. l. Hm2  ergo  om. H  enim  F  sit equus  FHNP  3 hinnibile  N, post hinn.  add . sit  L, ante P  4 sunt  om. S, ante  superiora  EGP  sibi  om. H  5 si  om. S, s. l. Hm1?  8 uelut  om. LS  ut  C  9  pr .  est s. l. Lm2   post . est  s. l. Gm2  praedicatur  CELm2RS  10 etiam  om. FG  11  ante  de  add . et  EGLR  ita  R  13 de speciebus]  hic desinit cod. F  14 aut] ac  R  15 itaque  CHNP  quod est] quidem  CP  quidem est  R  16  post  praedicari  add . potest  L (s. l.) m1  possit  m2 N  17 possit  om. N  potest  L post  ipso  add . uero  HNPR, s. l. Cm2Lm2  18 uero] autem  L  id est]  CHm2NS  id est autem est  Hm1  id autem est  EGLa.c . (id est autem  ut uid. p.c .)  RP  ante  om. EGR, s. l. Pm1?  19 collocat  EGR  et  om. HN  20  post  uero  add . quae  post  indiuiduis  add . dici potest  R  autem] enim  Lm1  21 ea quae maximae  G   p. 78  indiuidua quae sub ostensionem | indicationemque digiti cadunt, ut hoc scamnum, hic ueniens atque quae ex aliqua proprie accidentium designantur nota, ut, si quis Socratem significa- tione uelit ostendere, non dicat ‘Socrates’, ne sit alius qui forte hoc nomine nuncupetur, sed dicat ‘Sophronisci filius’,  si unicus Sophronisco fuit. indiuidua enim maxime ostendi queunt, si uel tacito nomine sensui ipsi oculorum digito tac- tuue monstrentur, uel ex aliquo accidenti significentur uel nomine proprio, si solus illud adeptus est nomen, uel ex parentibus, si illorum est unicus filius, uel ex quolibet alio  accidenti singularitas demonstratur, eo quod ad esse unam praedicationem habeat eiusque dictio non transeat ad alterum, sicut generis quidem ad species, specierum uero ad indiuidua.   Indiuidua ergo dicuntur huiusmodi, quoniam ex proprietatibus consistit unum quodque eorum,  quarum collectio numquam in alio eadem erit. Socratis enim proprietates numquam in alio quolibet erunt  14—p. 235, 4] Porph. p. 7, 21—27 (Boeth. p. 33, 4—10).   1 ostensione  EGPS  ostentationem  HN  indicationeque  EGPS  indaga- tionemque  N  2  ante  hic (is  ex  hic  E )  add . ut  CEGR  et  L  atque quae]  Hm2LNP  atque  EGHm1  atque ea quae  S eaque quae  CR  propria  CH  proprietate  R  4 qui  post  forte  HP  5 forte  ante  alius  N  6 Sophronisci  LNRS; cf . ei  p. 231, 19  7 quaeant  R  si uel  ex  siue  Lm2  sensu  GL  ( ante add . siue)  P  ( ras. ex  -sui)  R  ipso  Cm1LPm1R  tactuque  H  tactu uel  R  8 monstrantur  R  accidenti significentur uel  om. EGR  accidente  N ante  uel  add . id est  CH   (del. m2) Lm2NP  9 nomine  om. EGR ,  post  proprio  S  illud  om .  S, del. Lm2  10  post  uel  add . si  HR, s. l. Lm2  11 demonstretur  S  eo quod  in ras. Cm2  eaque  H  (que  add. m2, post er . quod)  N  ea quae  P; post quod  add . accidentia  in mg. Cm2  de  (s. l.)  accidenti  in con -  textu , ał eo quod accidentia  in mg. L  ad esse unam] unam ad sese  C  ad sese unam  HN  ad se unam  L (s. l. et in mg . de se  a.c.) P  12 habeat]  EGHm2Lp.c.PRS  habet  Cm1Hm1La.c.N  habeant  Cm2L   in mg . dictio] praedicatio  CNSp.c . transit  CHNR  13 species]  m2 in CH (in mg.) P, La.c . specierum  cett . 16 quarum—pluribus  (p. 235, 3) ]  R il ,  om. cett . quarum]  Π m2 Ψ  quorum  cett . in alio  post  eadem  s. l .  \ m2  in alium  R, post  alio  add . quolibet  2   particularium, hae uero quae sunt hominis, dico autem eius qui est communis, proprietates erunt eaedem in pluribus, magis autem in omnibus particu- laribus hominibus in eo quod homines sunt.    Quoniam superius indiuiduum appellauit, huius nominis rationem conatur ostendere. ea enim sola diuiduntur quae pluribus communia sunt; his enim unum quodque diuiditur quorum est commune quorumque naturam ac similitudinem continet. illa uero in quae commune diuiditur, communi  natura participant proprietasque communis rei his quibus com- munis est conuenit. at uero indiuiduorum proprietas nulli communis est. Socratis enim proprietas, si fuit caluus, simus, propenso aluo ceterisque corporis lineamentis aut morum institutione aut forma uocis, non conueniebat in alterum; hae  enim proprietates quae ex accidentibus ei obuenerant eiusque formam figuramque coniunxerant, in nullum alium conueniebant. cuius autem proprietates in nullum alium conueniunt, eius proprietates nulli poterunt esse communes, cuius autem pro- prietas nulli communis est, nihil est quod eius proprietate  participet. quod uero tale est, ut proprietate eius nihil parti-  1  post  particularium  add . eaedem  edd .  cum Porph. p. 7, 24  haec  Δ  eae  Φ   post hominis  s. l . proprietates  Δ  dico—communis  om. R  2 proprietates  er .  Λ  proprietatis  Γ  3 eadem  Δ m1 2   pr . in] et in  Γ   post . in] et in  ΓΛ m2 Φ  omnibus  om. S  4 in  om .  Φ   post  sunt  add . continentur  (ex p. 236, 7) R  6 ostendere conatur  C  7 <in> his  brm  quodque unum  Cm1  quibus  EGLPRS edd . 10 participan- tur  R post . communi ( om . est)  Gm1  11 proprietas  om. E proprietates  Gm1  12 caluus, simus] caluissimus  EGHm1  (caluus uel simus  m2 )  Lm1PR  13 perpenso  ESp.c . albo  Em1  (caluitio  m2 )  G  uentre  N  cor- poris  linea del., sed lin. er., s. l . corruptus  Hm2  liniamentis  CEG   LNPm2S  14  post  institutione  add . probatus  EP, s. l. Lm2 uocis]  Cm1EGPRS  uocisue sono  Cm2HLm2  (uocis uel sonus  m1 )  N  con- ueniebant  EGm1Hm1P  haec  G  16 in nullo alio  EGHLm1PS  17 cuius—conueniunt  om. EGLRS  cuius] eius  P  autem] uero  N  ita- que  P  in nullum—eius  om. P post  eius  add . itaque  N  igitur  L  18 poterant  EGL  potuerunt  ex  poterunt  P  potuerant  R  autem  om. LS  19 proprietatem  EGLRS proprietate *  (s  er .)  H  20 proprietatem  EGH   LPRS  nihil] nulli  Lm2P  participat  ER   cipet, diuidi in ea quae non participant, non potest; recte igitur haec quorum proprietas in alium non conuenit, indi- uidua nuncupantur. at uero hominis proprietas, id est spe- cialis, conuenit et in Socratem et in Platonem et in ceteros, quorum proprietates ex accidentibus uenientes in quemlibet  alium singularem nulla ratione conueniunt.   Continetur igitur indiuiduum quidem sub spe- cie, species autem sub genere. totum enim quiddam est genus, indiuiduum autem pars, species uero et totum et pars, sed pars quidem alterius, totum autem non alterius, sed aliis; partibus enim totum est.   De genere quidem et specie et quid generalissimum et quid specialissimum et quae genera eadem et spe- cies sunt, quae etiam indiuidua, et quot modis genus et species dicitur, sufficienter dictum est.   Hic retractat omnia breuiter quae supra latius absoluit dicens indiuiduum ab specie contineri, species uero ipsas a genere, huiusque causam reddens ait : omne enim genus totum est, indiuiduum pars. totum enim genus in eo quod genus est, continet, tametsi species esse potest; totum enim non  ut genus species est, sed ut ea quae supponitur generi. genus igitur in eo quod genus est, totum est speciebus, semper enim continet eas. at uero indiuiduum pars semper est, num-  7—15] Porph. p. 7, 27—8, 6 (Boeth. p. 33, 10—17).   2 proprietates  Em1NR  conueniunt  N  4  pr . et  om. C secund . in  om. S tert . in  om. HNP  5 uenientes ex accidentibus  C  ex accidente  (om . uenientes ) EGLm1RS  7 Continetur  om. R (cf. ad p. 235, 4)  con- tinentur  A m2 K m1 Z  quidem  om .  Φ  est quidem  Δ  8 totum—indi- uidua  (14) ]  R Q ,  om. cett . 9 pars—uero] pars est species autem  Δ  10  pr . totum] totum est  ΛΦ 11 sed in aliis, in partibus  edd. cum Porph. p. 8, 2  12 quod  ΛΣ  13 et quid specialissimum  om .  A  quod  A2  14 sint. R ΓΛΙIΣ;   cf. p. 237, 15  quod  GS  tot  Pm1  modis  om. S  15 dicatur  N ΥΔΛΠΦΨ ,  s. l. add .  Σ ;  cf. p. 237, 19  16 Hic  om. NR, s. l. Hm2  17 teneri  C  ipsas  om. E  ipsa  Cm1  18 huiusce  Lm2  19 pars  om. E  genus enim  Cm1 (ante  genus  s. l . totum  m2) HN  20 totum] tum  Hm1  tunc  Ν  enim] autem  S  23 est  ante  semper  CN  pars  post  est  LS   quam enim ipsum aliquid sua proprietate concludit. species uero et totum est et pars, pars quidem generis, totum uero indiuiduis. et cum pars est, ad singularitatem refertur, cum totum, ad pluralitatem. quoniam enim unum genus pluribus  5 speciebus superest, una quaelibet species pars est generis, id est unius, quoniam autem species pluribus indiuiduis | praeest,  p. 79  non est uni indiuiduo totum, sed plurimis. idcirco enim totum dicitur, quia plura continet et cohercet. nam ut pars sit ali- quid, una ipsa unius pars esse poterit, ut uero totum sit,  unum ipsum unius totum esse non poterit. idcirco alterius quidem pars est species, aliis uero totum.    Et de genere quidem et specie dictum est et quid sit gene- ralissimum genus, quoniam id cui nullum aliud superponitur genus, et quid specialissima species, quoniam ea cui species  nulla supponitur, et quae genera eadem sunt, eadem et species, scilicet subalterna quibus aliquid superponitur, aliquid uero supponitur, quae etiam indiuidua, ea scilicet quorum pro- prietates alteri nequeunt conuenire, et quot modis genus uel species dicitur, genus quidem aut in multitudine aut in pro-  creatione aut in participatione substantiae, species uero aut ex figura aut ex generis suppositione, sufficienter dictum est. quibus absolutis modum uoluminis terminabo, ut quarti area libri differentiae reseruetur.    2  ante post . pars  add . et  C ,  post er . que  L  totum  in mg. Cm2 uero  om. HN  autem  C (in mg. add. m2) L  quidem  S  3 indiuidui  Cm1NS  et] sed  CHN post post . cum  add . uero  R  4 quoniam] quod  L  7 plu- ribus  HLm2NS  9 unum ipsum  brm  12 Et] sed  in er . et  Lm2  specie] de specie  EG  13  post  id  add . est  P, s. l. Em2  14 quod  C specialissimum ( om . species,]  HN  nulla species  NR  15 superponitur  (ras. corr. E)  nulla  EG eadem  s. l. Lm2  16 supponitur  HR  aliquid uero supponitur  om. ENR, in mg. Cm2  17 ea om.  EGLPRS  18 non queunt  G  quod  Em1GN  quod quot  R  20 aut in partici- patione  s. l. Gm2 post substantiae  add . aut ex figura  S  consistit  edd . uero aut] autem  N  21 figura] genere  S  ex  om. E est  om. S  22  post  area  s. l . ubi discutiamus ea  Em2  23  ante subscriptionem initium libri IV usque ad p. 239, 6  iniecta  scriptum, post subscrip -  tionem E  ANICII MANLII (MALLII  G ) SEVERINI BOETII (BOECII  G ) V. C. ET I LL . EXCONS (EXC.  E ) ORD. PATRICII IN ISAGOGEN (YSAGOGAS  E ) PORPHYRII (PORPHIRII  E ) ID EST INTRODVCTIONE A SE TRANSLATAE (ID  eqs. om ., SCDAE  E ) EDITIONIS LIB. III. EXPL. INCIP. LIB. IIII.  EG ; EXPLICIT LIBER TERTIVS. (LIB. IIII. EXPLICIT  L ) INCIPIT (LIBER  add. LS ) QVAR- TVS  L   (add. mS)   NPRS (uariis cum. compendiis) ; LIBER QVARTVS  C; subscriptio deest in H     De differentia disputanti non aeque illud debet occur- rere quod in generis specieique tractatu de collocationis ordine quaerebatur. illic enim meminimus inquisitum, cur esset omni-  bus praepositum genus, ut id primum ad disputationem ueniret, cur post genus species esset iniecta, nunc uero superuacuum est dicere, cur post speciem differentia sumpta sit, cum illud iam fuerit inquisitum, cur non ante speciem collocata sit. quodsi mirum uidebatur speciem differentiae in disputationis  loco fuisse praepositam, quod differentia continentior et magis amplior esset specie, quid est quod possit quisque mirari, si eandem differentiam ante proprium atque accidens collocauerit, cum proprium unius semper sit speciei, ut posterius demon- strabitur, accidens uero exteriorem quandam ostendat naturam  nec omnino in substantia praedicetur, differentia uero utrumque contineat, et de pluribus speciebus et in substantia praedicari? sed haec hactenus, nunc ad ipsa Porphyrii uerba ueniamus.    Differentia nero communiter et proprie et magis  3 quod—inquisitum] p. 170, 2 ss. 198, 10 ss. 18—p. 240, 13] Porph. p. 8, 8—17 (Boeth. p. 33, 18—34, 7).   2 De differentia] Differentiae  E  Differentia  G  Differentiam  La.c . disputanti] in disputando  CEGLm1N  non aeque illud] non illud quoque  C  3 quod] ut  HN  collationis  Cm1HN  4 quaerebatur]  hic desinit cod. S  11  ante  specie  add . ea  EG  ab  HL  est quod  om. GR  ( post  quid  add .interrgatiue)  s. l. Lm2 , sit  Em1  sit quod  m2 an  quisquam?  ad  quisque  add . iure possit  Em2  12  post  eandem  add . iure  E, s. l. Lm2  13 sit unius speciei semper  C  unius sit semper speciei  R  unius semper speciei sit  N  15 substantiam  NR  16 substantiam  Em1  18  ante  Differentia  inscriptio  DE ( om .  Ψ ) DIF- FERENTIA  additur in   2  et magis proprie  in mg. Cm2?   proprie dicitur. communiter quidem differre alterum ab altero dicitur, quod alteritate quadam differt quo- cumque modo uel a se ipso uel ab alio. differt enim Socrates a Platone alteritate et ipse a se uel puero uel iam uiro et faciente aliquid uel quiescente et  semper in aliquo modo habendi alteritatibus. proprie autem differre alterum ab altero dicitur, quando inse- parabili accidenti ab altero differt. inseparabile uero accidens est ut nasi curuitas, caecitas oculorum, cicatrix, cum ex uulnere obcalluerit. magis proprie  differre alterum ab altero dicitur, quando specifica differentia distiterit, quemadmodum homo ab equo  p. 80  specifica differentia differt rationali qualitate. |    Tribus modis aliud ab alio distare praediximus, genere. specie, numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales  quasdam differentias alia res distat ab alia aut secundum accidentes. nam quae genere uel specie distant, substantia- libus quibusdam differentiis disgregata sunt, idcirco quoniam genera et species quibusdam differentiis informantur. nam quod homo ab arbore genere distat, animalis sensibilis qua-  litas in eo differentiam facit. addita enim sensibilis qualitas  14 praediximus] p. 191, 21.   1 dicitur]  λεγέσ&ω   Porph. p. 8, 8; cf . nuncupatur  infra p. 241, 18  communiter—distiterit  (12) ]  R Q ,  om. cett . 2 ab  om .  A , s. l .  Γ  3 ipso  om. R  4  pr . a  om. R X  puero] a puero  ΣΦ  5 uiro] a uiro  Φ  et]  R T  uel  cett.; Porph. p. 8, 11 χοιί  aliquod  S  6 habendi] habendi se  Φ ;  Porph. p. 8, 12   τού πώς εχειν  7 ab  om .  ΔΛΣ  quandam  R  8 accidente  R ;  post add . alterum  edd. cum Porph. p. 8, 13  ab  om .  Σ  10 coaluerit  Σ m2 post proprie  add . autem  ΓΔ   (fort. recte)  uero  Φ ;  Porph. p. 8, 15   hi  11 ab  om .  ΛΣ  12 destiterit  TX m1 AZ  quem- admodum—differt  del. Lm1?  13 differentia  om. Ν Σ   ante  rationali  add . id est  CEGL, s. l .  Hm2 A m1?  rationabili  CEGLPR  14 ab]  LP, om. cett . 17 accidens  CEm2 accidentales  Lm2  18 disgregata— quibusdam  om. N, s. l. R  19  post  quibusdam  add . substantialibus  Hm2 edd.,recte? ad  informantur  s. l.  disregantur  N  21 ea  Hm1Lm2NP   animato animal facit, eidem detracta facit animatum atque insensibile, quod uirgulta sunt. igitur homo atque arbor genere differunt — utraque enim sub animalis genere poni non possunt —, differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius ex  propositis tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. illa uero quae specie distant manifestum est quod ipsa quoque differentiis substantialibus discrepant, ut homo atque equus differentiis substantialibus discrepant, rationabilitate atque inrationabilitate. ea uero quae indiuidua sunt et solo  numero discrepant, solis accidentibus distant. haec autem sunt uel separabilia uel inseparabilia, separabilia quidem, ut moueri, dormire; distat enim alius ab alio, quod ille somno prematur, bic uigilet. distat item inseparabilibus accidentibus, quod hic staturae sit longioris, hic minimae. Quae cum ita sint, in ter-  narium numerum has differentiarum diuersitates Porphyrius colligit hisque ipse nomina quibus post utatur, apponit dicens : omnis differentia uel communiter uel proprie uel magis proprie nuncupatur, communiter quidem eam dif- ferentiam sumens quae quodlibet accidens monstret, quae in  quadam alteritate consistit, ut si Plato a Socrate differat, quod ille sedeat, hic ambulet, uel quod ille sit senex, hic  5 ut dictnm est] p. 208, 17 ss.   1 eiusdem  E  et idem  G  eadem  L  inanimatum  L , in-  er. EP; cf. p. 208, 14 ss . 2  post  arbor  add . quae  H   (linea del., sed lin. er.) L (del. m1) N  3 animali ( om . genere)  N  4  ante  differentia  add . sed ex  E  nam  brm, post s. l . igitur  Pm2  5 praepositis  CLm1N positis  Em1, s. l . homine et arbore  Lm2Em2  6 distant specie  C  quod  om. CHN  7 dis- crepare  CHN  ut—discrepant  om. EGL, s. l. R  8 discrepant  om. C  9  post  inrationabilitate  add . distant  L  10 sunt  add. Lm2, in mg. Pm2  13 distant  Hm1Pm2  distet  L  distat enim  E  14 sit  om. R, ante staturae  HN  staturae sit  post  longioris  L  minimae]  Ppr  minime  cett. codd. bm  16 isque  EG ipsis  C  post utatur] postulatur  EGR  17 propria  Ca.c.L  18 propria  L  differentiam eam  HNP  a differentia  (om. eam) E  19  ad  sumens  s. l . exordium  Em2  monstraret  EGLm1  (demonstraret  m2 )  R  20 ut si] uti  EGLm1  (uti si  m2 )  R  a  om. CGR, s. l. Lm1?Pm2  differt  ex  -rat  E  21 sit  om. C  est  EGL (s. l.) R   iuuenis. a se ipso etiam saepe aliquis differre potest, ut si nunc quidem faciat aliquid, cum ante quieuerit, uel si nunc adulescens iam factus sit, cum prius tenera uixisset infantia. communes autem differentiae nuncupatae sunt, quoniam nullius propriae esse possunt differentiae, sed separabilia accidentia  sola significant. nam et stare et sedere et facere aliquid ac non facere multorum atque adeo omnium et separabilia esse accidentia manifestum est. quibus si qui differunt, communibus differentiis distare dicuntur. praeterea puerum esse atque adule- scentem uel senem, ea quoque separabilia sunt accidentia. nam  ex pueritia ad adulescentiam atque hinc ad senectutem, ab hac denique ad decrepitam usque aetatem naturae ipsius necessitate progredimur. illud forsitan sit dubitabile de unius cuiusque forma corporis, an ullo modo separari queat. sed ea quoque est separabilis, nullius enim diuturna ac stabilis forma per-  durat. idcirco nec peregrinus pater relictum domi puerum, si adulescentem redux uiderit, possit agnoscere; forma enim semper quae ante fuerat, permutatur atque ipsa alteritas qua distamus ab altero, semper diuersa est. Constat igitur hanc communem differentiam separabilibus maxime accidentibus  applicari, propria uero est quae inseparabilia significat acci- dentia. ea huiusmodi sunt, ut si quis caecis nascatur oculis, si quis incuruo naso; dum enim adest nasus atque oculi, ille caecus, ille erit semper incuruus. atque haec per naturam. sunt uero alia quae per accidens corporibus fiunt, ut si cui uulnus  1  post  differre  add . quidem  L  2 cum ante  in mg. Cm2  nunc si  C  3 iam  er. L, post  nunc  N  5 proprie  CL  sed]  CLm2NP ,  om. EG , et  R  quae  HLm1  separabiles  E, post add . enim  Lm1, del. m2  6  pr . et  om. P  ac] et  HNP  7 ideo  EGL post  omnium  add-  sunt  edd . et  om. H  esse  om. G, post  accidentia  EL ; separabilium esse accidentium  N  8 si  om . N quid  EG  qua  R  9 discuntur  E 10  ante  separabilia  add . ueraciter  R  14 eo  Lm1  15 est separabilis] est separabilis forma  PR separabilis forma est  EGL  nullius—per- durat  om. GR, in mg. Cm2, s. l. Pm2  ac stabilis] et stabilis  C  ( ut uid .)  N  ac stabili  P  estimabilis  E  18 alteritas ipsa  EG  19 altera  EGLm2R  22 nascetur  Em1  24  ante  erit  add . etiam  R  semper  om. C   inflictum cicatrice fuerit obductum, haec si obcalluerit, pro- priam differentiam facit; distabit enim alter ab altero, quod hic cicatricem habeat, ille uero minime. postremoque in his omnibus uel separabilibus accidentibus uel inseparabilibus alia  sunt naturaliter accidentia, alia extrinsecus, naturaliter quidem ut pueritia uel iuuentus et totius conformatio corporis, sic caeci oculi et curuitas nasi. et superiora quidem exempla separabilis accidentis per naturam sunt, posteriora uero inse- parabilis. item extrinsecus uel ambulare uel currere; id enim  non natura, sed sola affert uoluntas, natura uero posse tan- tum dedit, non etiam facere. atque haec sunt separabilis acci- dentis extrinsecus uenientis exempla, illa uero inseparabilis, ut si qua cicatrix obducta uulneri obcalluerit. Magis propriae autem differentiae praedicantur, quae non accidens, sed sub-  stantiam formant, ut hominis rationabilitas; differt enim homo a ceteris, quod rationalis est uel quod mortalis. | hae sunt  p. 81  igitur magis propriae, quae monstrant unius cuiusque sub- stantiam. nam si illae quidem idcirco communes dicuntur, quia separabiles atque omnium sunt, aliae autem propriae,  quoniam separari non possunt, quamuis sint in accidentium numero, illae iuro magis propriae praedicantur, quae non modo a subiecto separari non possunt, uerum subiecti ipsius speciem substantiamque perficiunt. ex his igitur tribus differentiarum diuersitatibus, id est communibus, propriis ac magis propriis,  fiunt secundum genus uel speciem uel numerum discrepantiae. nam ex communibus et propriis secundum numerum distantiae nascuntur, ex magis propriis uero secundum genus ac speciem.  1  ante cicatrice  add . si  H  6 uel  om. C  formatio  HNPm2  sic]  HPm1  (et si  m2 )  Rm1  (sieque  m2 ) si  EGLm1  (sique  m2 ) tum  CN  9  post  currere  add . sunt  E  10 uoluptas  L  11 at  Em1  atqui  m2 separabilis sunt  C  13 uulneris  Lm2P  autem propriae  La.c.R  14 substantia  Cm1  15 informant  Pm2, recte?  16 a  om. HN  rationa- bilis  EGLPR post  mortalis  add . est  C  hae]  Hp.r.L  haec  cett . sunt igitur] enim sunt  H  20 quoniam] quod  R  22 ab  G post  ipsius  add . suis  Em1, del. m2  23 tribus igitur  CG  24 ac  s. l. Em2 , et  CR    Uniuersaliter ergo omnis differentia alteratum facit cuilibet adueniens, sed ea quae est communiter et proprie, alteratum facit, illa autem quae est magis proprie, aliud. differentiarum enim aliae quidem alte- ratum faciunt, aliae uero aliud. illae quidem quae  faciunt aliud, specificae uocantur, illae uero quae alteratum, simpliciter differentiae. animali enim dif- ferentia adueniens rationalis aliud fecit et speciem animalis fecit, illa uero quae est mouendi, alteratum solum a quiescente fecit; quare haec quidem aliud,  illa uero alteratum solum fecit.    Omnis differentia alterius ab altero distantiam facit. sed haec uel est communis et continens uel cum quodam proprio et magis proprio differentiarum modo. quare quicquid qualibet ratione ab alio diuersum est, alteratum esse dicitur. si uero  accesserit illi diuersitati ut etiam specifica quadam differentia sit diuersum, non alteratum solum, uerum etiam aliud esse praedicatur. alteratio igitur continens est, aliud uero intra alterationis spatium continetur; nam et quod aliud est, alte- ratum est, sed non omne quod alteratum est, aliud dici potest.  itaque si accidentibus aliquibus fuerit facta diuersitas, alteratum  1—11] Porph. p. 8, 17—9, 2 (Boeth. p. 34, 7—15).   1 ergo] uero  CEGR; Porph. p. 8, 17   osv  alterum  E h m2 A  2 sed ea—quiescente fecit  (10) ]  Ω ,  om. cett . ea quae est  eqs. ]  cum cod. A Porph. p. 8, 18, cett.   α: μέν—κοιοϋσιν, a: 81 άλλο  3 alterum  Δ ,  item 4  autem] uero  ΔΣΦ  7 altera  Φ*  enim] autem  A a.c . 8 ratio- nale  2  facit  ΓΣΦ   item 9; Porph. p. 9, 1   ίποίησεν  et speciem animalis fecit  om. codd. quidam Porph., deleri uult Busse  10 faci(??)  ΓΔ m2 ΣΦ  qua * ( (??)  ? er.)  re *   C  qua in re (si  add. GLm1, s. l . siqui- dem  m2 )  EGL  11 ille  Gm1  illae  Δ  solum  om. EG, s. l. Cm2 , solum modo  P  fecit]  ΔΛ ,  om. P,  facit  cett.; Porph. p. 9, 2   έποίηοιν  13 uel est]  L  uel ex  EG  est uel  N, om . est  CR, om . uel  HP   (ante  est  add . quidem )  communi  EG continenti  E ( -ti * ) G  cum  om. N, s. l. Em2  eo  m1  14 proprio] proximo  GR, post  proprio  add . uel ma- ximo  P  18 inter  Gm1  19 nam et]  Hm1NR  igitur et  EG  igitur omne  ( et  add. C) CHm2L  21 erit  HN   quidem effectum est, quoniam quidem quolibet modo uel ex quibuslibet differentiis considerata diuersitas alterationem facit intellegi, aliud uero non fit, nisi substantiali differentia alterum ab altero fuerit dissociatum. itaque communes et propriae  differentiae, quoniam accidentium, ut dictum est, sunt, solum efficiunt alteratum, aliud uero minime, magis propriae autem, quoniam substantiam tenent et in subiecti forma praedicantur, non modo alteratum, quod est commune uel substantiali uel accidenti differentiae, sed etiam aliud faciunt, quod ea sola  retinet differentia quae substantiam continet formamque sub- iecti. atque hae quidem differentiae quae faciunt aliud, speci- ficae nuncupantur idcirco, quod ipsae efficiunt speciem; quam cum substantialibus differentiis informauerint, faciunt ab aliis ita esse diuersam, ut non alterata solum sit, uerum etiam  tota alia praedicetur. itaque fit huiusmodi diuisio, differentiarum ut aliae alteratum faciant, aliae nero aliud. et illae quidem quae faciunt alteratum, simpliciter puro nomine differentiae nuncupantur, illae uero quae aliud, specificae differentiae prae- dicantur. atque ut planius liqueat quid sit alteratum, quid  aliud, tali describuntur termino uel declarantur exemplo : aliud est quod tota speciei ratione diuersum est, ut equus ab homine, quoniam rationalis differentia animali adueniens hominem fecit aliudque eum quam equum esse constituit. item si unus homo sedeat, alter assistat, non efficietur homo diuersus ab homine,  sed eos alteratio sola disiungit, ut eum qui assistit ab eo qui  5 ut dictum est] p. 242, 4 ss. 19 ss.   1  post , quidem  om. HNP, del. Lm2  uel ex quibuslibet  om. H  2  ad  differentiis  s. l . uel diuersitatibus  Rm1 ? 7 formam  N  9 accidentali  Hm2NPm2 facit  EGLP  10 quae  er. C  11 hee  P  12 ipsae  om. EGLR  14 alteratum  E (in ras. m2) P  alterum  GLR  15 aliud  R  sit  E  16 ut  om. EH  faciunt  HNR  facient  Em2  facie  m1  20 describantur  Em1 21 ratione specie  (sic) E  ab  om. EGL, s. l. HP  22 facit  HLNPm1  23 esse] est  Em1  ita  R  itaque  N  24 effi- citur  N  efficiatur (ur  add. m2 )  P   sedet faciat alteratum. item si ille sit nigris oculis, ille caesiis, nihil, quantum ad formam humanitatis attinet, permutatum est. ita secundum has differentias alteratio sola consistit. at si equus quidem iaceat, homo uero ambulet, et aliud est equus ab homine et alteratum, dupliciter quidem alteratum, semel  uero aliud. alteratum est enim, uel quod omnino specie diuer- sum est — et est aliud; omne enim aliud, ut dictum est, etiam alteratum est —, uel quod accidentibus distat, quod ille iaceat, hic ambulet, semel uero est aliud, quod rationabili  p, 82  atque inrationabili differentiis dis|gregatur, quae specificae sunt  et substantiales dicuntur. est igitur alteratum quod ab alio qualibet ratione diuersum est.  Secundum igitur aliud facientes diuisiones fiunt a generibus in species et definitiones adsignantur, quae sunt ex genere et huiusmodi differentiis, secundum  autem eas quae solum alteratum faciunt, alteratio sola consistit et aliquo modo se habendi permutationes.    Quoniam in principio operis huius generis, speciei, differen-  13—17] Porph. p. 9, 2—6 (Boeth. p. 34, 15—19). 18 in prin- cipio o. h.] p. 147, 5.   1 facit  Em1G  item  om. EGR, in mg. Hm2, s. l. Lm2 si  om. EGL, post  ille  R, in mg. Hm2 post . ille] iste  N  caesius  La.c . (ce-)  Pm1  caecis  N  cecus  C  3 item  in ras. L post  has  add . quo- que  HNP, s. l. Lm2  sola  s. l. Em2  ut  GN  4 uero  om. E  5 ab] de  P pr . alterum  GLm1  6  post  uero  add . est  C  enim  om .  H  (quidem  add. post est )  N, ante est  CGPR  7 enim  om. G  8 distet  R  9 iacet  HLm1N  ambulat  H  rationali atque inrationali  HLm2R  10 differentia  N  segregatur  CR  specificae sunt] differentiae specificae  C  13  post facientes  add . differentias  edd., om. codd. cum cod. C Porph. p. 9,3 et Dauide commentatore p. 177, 23 (Busse); post add . et  edd. cum Porph .  τέ  14 quae—faciunt  (16) ]  L Q ,  om. cett . 15  ante  sunt  add . definitiones  Γ  definitiones scilicet  Δ  et] ex  Δ m2  16  ante  alteratio  add . at  CG alteratio sola consistit]  ai έτερότητες μο'νον συνί- ατανται   Porph. p. 9, 5  17 et] in  CEGLR  ad  Δ ;  Porph.   v.at  aliquo modo] aliquando  Γ  se  add. Em2  habentis  R  habentibus  EGLm1 permutatione  R  permutationibus  CEGLm2  18 huius  om. EGR, ante  operis  s. l. Lm2 specieique  EGLNPR; cf. p. 148, 17   tiae, proprii accidentisque notitiam ad diuisionem atque ad definitionem utilem esse praedixit, idcirco nunc differentiarum ipsarum facta diuisione easdem partitur et segregat, quaenam differentiae diuisionibus ac definitionibus accommodentur, quae  uero minime. quoniam igitur diuisio generis ita in species facienda est, ut illae a se species omni substantiae ratione diuersae sint, idcirco non probat assumendas esse eas ad diui- sionem differentias quae uel separabilis uel inseparabilis acci- dentis significationem tenent, idcirco quoniam, ut dictum est,  solum faciunt alteratum, aliud uero perficere et informare non possunt. inutiles igitur sunt ad diuisionem hae differentiae quae faciunt alteratum. segregandae igitur sunt communes et propriae a generis diuisione, illae assumendae tantum quae sunt magis propriae. illae enim faciunt aliud, quod generis  diuisio uidetur exposcere. ad definitionem quoque eaedem magis propriae plurimum ualent, communes et propriae uelut inutiles segregantur; communes enim et propriae, quo- niam accidens diuersi generis ferunt, nihil substantiae ratione conformant, definitio uero omnis substantiam conatur ostendere.  specificae uero differentiae illae sunt quae, ut superius dictum est, speciem informant substantiamque perficiunt; hae sunt magis propriae. eaedem igitur sicut in diuisionem, ita etiam in definitionem assumuntur. ut enim dictum est, eaedem diffe-  9 ut dictum est] cf. p. 244, 2. 245, 4 (et p. 242, 19—21). 20 supe- rius] p. 245, 11. 23 ut enim dictum est] infra p. 253, 12 ss. 258, 9 ss. 260, 6 ss.   2 definitionem] defensionem  G  utile  E  4 ac definitionibus  om .  EG  5 diuisio igitur  E  7 eas  ante  assumendas  P, ante  esse  HN  diuisiones  NRm1  8 uel inseparabilis  om. EGR  9 idcirco—faciunt] uel eas differentias quae faciunt (faciant  R )  EGL (del. m2) R  10 aliud— alteratum  (12) om. EGR  14 aliud faciunt  C  15 definitionem] diui- sionem  Cm1EGLm1  eadem  Em1G  16 plurimum  om. EG post  ualent  add . nam  EGL (del. m2) P  17 uelut—propriae  om. EGR  enim  om. CH  18 proferunt  Lm2Pm2 procedent  m1  praecedunt  N a.c . 19 informant  N  21 hee  CP  haec  E  22 eaedemque  C  eadem  Em1GL  diuisione  GN, add . generis  GL  etiam  om. HN  et  P  23 diffinitione  N  ut enim—sumuntur  om. edd .   rentiae nunc quidem constitutiuae ad definitionem specierum sumuntur, nunc diuisiuae ad partitionem generis accommodantur. ita igitur cum diuisiuae sunt generis, aliud constituunt, in substantiae uero definitione speciei informationem faciunt, cumque magis propriae et aliud faciant et specificae sint, eo  quidem quo aliud faciunt, diuisionibus aptae sunt, eo uero quo speciem informant, definitionibus accommodatae sunt. communes autem et propriae quoniam neque aliud faciunt, sed alteratum, neque omnino substantiam monstrant, aeque a diuisione ut a definitione disiunctae sunt.   A superioribus ergo rursus inchoanti dicendum est differentiarum alias quidem esse separabiles, alias uero inseparabiles. moueri enim et quiescere et sanum esse et aegrum et quaecumque his proxima sunt, separabilia sunt, at uero aquilum esse uel  simum uel rationale uel inrationale inseparabilia. inseparabilium autem aliae quidem sunt per se, aliae  11—249, 4] Porph. p. 9, 7—14 (Boeth. p. 34, 20—35, 6).   2 assumuntur  Ea.c . partitionem] coparationem  N  3 ita—faciunt  (4) in mg. sup. Hm2  Ita igitur cum diuisio generis aliud quaerat. substantia uero speciei informationem  Hm1, eadem uerba loco  ita—faciunt  adiungit N  Ita igitur cum ad diuisionem generis aliud querant. aliud uero ad speciei informacionem faciunt  Hm3  3 diuisiuae]  CHm2LN   (priore loco) Pm1  diuisione  EG  ad diuisionem  Hm3R  diuisio  Hm1N (post. l) Pm1  sunt]  CHm2LN (pr. l.), om. EGHm1 et 3 N (post. l.) R, s. l. Pm2  constituunt]  CHm2N (pr. l.) Pm2  quaerat  Hm1N (post. l.) Pm1  quaerant ( uel  que-,)  Hm3R  quam erat  EG  constituunt quam erat  L  in substantiae uero definitione]  CHm2LN (pr. l.) Pm2  in substantia uero  Pm1R  substantia uero  EGHm1N (post. l.)  aliud uero  Hm3  4  post  uero  add . ad  Hm3  faciunt  om. EHm1N (post. l.)  5  pr.  et  om. HN, s. l. Pm2  faciunt  Lm1Pm1  et] ac  C  eo] in eo  N  6 quidem  om. L  quod  HLm1NP (d  er .) uero] modo  N  7 quod  HRm1  9 sed] sub  G  monstrat  CGm1  11 ergo  om .  H  uero  N 2 ;  Porph. p. 9, 7   ouv  rursus  om. H  12 aliae... aliae  h m1  separabiles esse  Φ  13 alias uero—perceptibile  (p. 249, 2) om. C  moueri—perceptibile]  R Ω ,  om. cett . 14  ante  quaecumque  s. l . omnia  Λ  15 at—inseparabilia  in sup. mg .  h m2  acylum  ΓΦ  acilum  ΛΣ ,  sim. p. 249, 3.250, 20. al . 16  post  inseparabilia  add . sunt PAS<P   edd. Busse, om.R h   cum Porph. p. 9,10   uero per accidens; nam rationale per se inest homini et mortale et disciplinae esse perceptibile, at nero aquilum esse uel simum secundum accidens et non per se.    Superius differentias triplici diuisione partitus est dicens aut communes esse aut proprias aut magis proprias, dehinc easdem alia diuisione in duas secuit partes dicens has quidem aliud facere, illas uero alteratum. nunc tertiam earum quidem facit diuisionem dicens alias esse separabiles, alias inse-  parabiles, posse autem de uno quoque cuius multae sunt dif- ferentiae, plurimas fieri diuisiones ex ipsa differentiarum natura manifestum est. nam si omnis diuisio differentiis distribuitur, quorum multae sunt differentiae, multas etiam diuisiones esse necesse est. fit autem ut animal diuidatur quidem hoc modo :  animalis alia quidem sunt rationabilia, alia inrationabilia, item alia mortalia, alia inmortalia; item alia pedes habentia, alia minime; rursus alia herbis uescentia, alia carnibus, alia semi- nibus. ita nihil mirum uideri debet, si multiplex differentiae est facta partitio. ac primum quidem cum in ternarium nume-  rum differentiae membra secuisset, communes et proprias et magis proprias nuncupauit. secunda uero diuisio communes et proprias intra nomen alteratum | facientis inclusit, magis proprias  p. 83  uero intra aliud facientis. haec nero tertia diuisio, quae ait dif- ferentiarum alias esse separabiles, alias inseparabil es,  5 Superius... dicens aut eqs.] p. 239, 18. 7 dicens has eqs.| p. 244, 2.   2 perceptibile]  ΦΨ  perceptibilem  cett . ( in mg . capacem  T ) 3 uel] et  Γ  simium  P post  accidens  add . est  Γ ,  s. l. Lm2, ras. in E  et  om. Ν ΑΣ  4  post  se  add.  est  P  5 differentia  R  7 dicens  in mg. Hm2  8 earum quid  R  earundem  CN  quidem  post pr . alias  C  9  post post , alias  add . uero  C  14 animal] in animali quod  H  diuiditur  H  quidem  ante  diuidatur  Lp, om. brm  15 animalium  N edd . quidem  post  sunt  NP, om. H  rationalia alia inrationalia  H  18 item  P  20  post  secuisset  add . ait  HP  aut  CN  et magis—et proprias  om. EG  21 nun- cupari  H  nuncupauerit  LPR  22 facientes  CNPm1  propria  R  proprium  Em1GLp.c . 23 facientes  CN  qua  CLNRm1   unam quidem ex alteratum facientibus separabilibus differentiis adiungit, ceteras uero intra inseparabilis differentiae uocabulum claudit. una quidem ex alteratum facientibus. id est propria differentia, et reliqua quae aliud facere demonstrata est, id est magis propria, inseparabiles differentiae esse dicuntur.  quarum subdiuisio fit. inseparabilium differentiarum aliae sunt per se, aliae secundum accidens, per se quidem magis pro- priae, secundum accidens uero propriae. per se autem aliquid inesse dicitur quod alicuius substantiam informat. si enim idcirco quaelibet species est, quoniam substantiali differentia  constituitur, illa differentia per se subiecto adest neque per accidens aut per quodlibet aliud medium, sed sui praesentia speciem quam tuetur informat, ut hominem rationabilitas. homini enim huiusmodi differentia per se inest, idcirco enim homo est, quia ei rationabilitas adest; quae si discesserit,  species hominis non manebit. et has quidem quae substanti- ales sunt, inseparabiles esse nullus ignorat; separari enim a subiecto non poterunt, nisi interempta sit natura subiecti. secundum accidens nero inseparabiles differentiae sunt hae quae propriae nuncupantur, ut aquilum esse uel simum; quae  idcirco per accidens nuncupantur, quoniam iam constitutae speciei extrinsecus accidunt nihil subiecti substantiae commo- dantes.   Illae igitur quae per se sunt, in substantiae  24—p. 251, 14] Porph. p. 9, 14—23 (Boeth. p. 35, 6—17).   1 ex  om. EG, in inf. mg. L  alteratum  post  facientibus  R, om. G post  facientibus  add . id est communem  L (in inf. mg.) P  2 adiungit] ponit  La.c . cetera  R  ceterasque  Lm2  alteram  C  3 una  ras. ex  una  C  quidem] quidem fit  G  quippe  HN  4 et  om. G, s. l. E  5 inseparabilis  E  esse  om. G  6  post  quarum  add . quidem  Lp  ita  brm post  aliae  add . enim  EGL  8 inesse aliud ( ex  aliquid  m2 )  L  11 neque] non  Lm2R, ante  neque  add . quae  Hm2  12  post  medium  add . quae sunt propria  Hm1, del. m2  13 rationalitas  H, item 15  15 ei  s. l. Hm2  16 quidem eas  (sic) C  17 nullus esse  C  18 nisi] ni  EG 20 proprie  CN  aquilum]  cf. p. 248, 15  22 accedunt  Hm1N  subiecto  Hm1  subiectae  Lm1N   (-te)  24 Igitur illae  C  in  om .  N   ratione accipiuntur et faciunt aliud, illae uero quae secundum accidens, nec in substantiae ratione dicuntur nec faciunt aliud, sed alteratum. et illae quidem quae per se sunt, non suscipiunt magis et  minus, illae uero quae per accidens, uel si inse- parabiles sint, intentionem recipiunt et remissi- onem; nam neque genus magis aut minus praedi- catur de eo cuius fuerit genus, neque generis dif- ferentiae, secundum quas diuiditur; ipsae enim  sunt quae unius cuiusque rationem complent, esse autem uni cuique unum et idem neque intentionem neque remissionem suscipiens est, aquilum autem esse uel simum uel coloratum aliquo modo et intenditur et remittitur.    Differentiis rite partitis earum inter se distantiam monstrat atque unam quidem repetit quam superius dixit. cum enim tres esse dixisset differentias, communes, proprias, magis pro- prias, alteratum facere dixit proprias, sicut etiam communes, aliud minime, sed hoc solis magis propriis reseruauit. nunc  igitur idem repetit dicens quoniam inseparabiles differentiae quae substantiam monstrant, id est quae per se subiectis speciebus insunt easque perficiunt, aliud faciunt, illae uero  16. 252, 3 superius] p. 244, 1 ss.   1 rationem  GR h  suscipiuntur  Lm2  percipiuntur  Φ  aliud] illud  E  illae—suscipiens est  (12) ]  Ω ,  om. cett . 3 dicuntur] accipiuntur  Φ   (ex 1); Porph. p. 9, 16   λαμβάνονχαι   uel παραλαμβάνοντα   codd .,  λέγονται   Dauid comment. p. 184, 16  alteratum] alterum  W- m1  et  om .  Γ  4 quidem  om .  Λ  uero  Γ  5 uero quae] quidem  Γ  si  om .  Φ  6 sunt  ΔΣΦ brm Busse; Porph. p. 9, 18   v.dv—Jaw  7 aut]  Λ   Busse  et  cett. codd. edd. (cf. 4); Porph. p. 9, 19   ή   cod. M   m;   cett . 9 ipsae]  otuxat   Porph. p. 9, 20  10  post  rationem  add . id est diffinitionem  Φ  11 neque—remissionem  cum Porph. p. 9, 21 cod. Μ ,  ooxe ανεσιν οντε έπίχασιν   cett . 12 aquilum]  cf. ad p. 248, 15  autem  om. P  13  pr . uel] et  Γ  colorari  Em1  et  om. CLR  14 et] uel  R  17 esse  post dixisset  HNP, ante  tres  P  18 alteratum—proprias] proprias alte- ratum facere dixit  HNP  19  post  aliud  add . uero  HNPR, s. l. Lm2   quae sunt propriae, id est secundum accidens inseparabiles differentiae, neque in substantia insunt nec aliud faciunt, sed tantum, ut superius dictum est, alteratum. item alia distantia est earum differentiarum quae secundum substantiam sunt, ab his quae secundum accidens, quoniam quae substantiam mon-  strant, intendi aut remitti non possunt, quae uero sunt secun- dum accidens, et intentione crescunt et remissione decrescunt. id autem probatur hoc modo. uni cuique rei esse suum neque crescere neque deminui potest; nam qui homo est, humanitatis suae nec crementa potest nec detrimenta suscipere. nam neque  ipse a se plus aut minus hodie uel quolibet alio tempore homo esse potest nec homo rursus ab alio homine plus homo potest esse uel animal. utrique enim aequaliter animalia, aequaliter homines esse dicuntur. quodsi uni cuique esse suum nec cremento ampliari potest nec inminutione decrescere,  quod per id facile monstrari potest, quoniam quae genera sunt uel species, nulla intentione uel remissione uariantur, non est dubium quin differentiae quoque, quae unius cuiusque speciei substantiam formant, nec remissionis detrimenta suscipiant nec intentionis augmenta. itaque substantiales differentiae  neque intentionem neque remissionem suscipiunt. huius causa haec est. quoniam esse uni cuique unum et idem est, et  p. 84  intentionem re|missionemue non suscipit huius exemplum. genus  2 nec  N  substantiam  N  sunt  EN  neque  edd . 4 est]  L   (s. l. m2) P edd., om. cett . sunt  om. E  5 secundum accidens quo- niam quae  om. EGP  6  ante  intendi  add . quae  EGP post  pos- sunt  add . secundum  (s. l. E)  accidens  EGP  sunt  om. CHL  7 in- tentione] intensione  Pm2 edd., item 17—p. 253, 6  9 deminui]  Pm1  minui  L (ex  diminui  m2) N  diminui  cett . quia  C  10 decrementa Em1G edd . 11 uel] aut  L  12 neque  N  13 uterque  P  aequa- liter—dicuntur] aequaliter corporales. aequaliter animati. aequaliter ho- mines esse dicuntur  H, eadem uerba loco aequaliter—dicuntur  adiungit sic  utrique enim aequaliter  eqs. N  15 ampliorari  EGLPm1  17  ante  non  s. l . et ob hoc  Em2  19 informant  Pm2  21 suscipient  N  cuius  HNP  22  post  unum  add . est  L  23 remissionemque  N post  exemplum  add.  sit  Lm1 edd. (ante  huius  distinctio) , est  Lm2, s. l. Hm2   enim dici non potest plus minusue cuilibet genus; omnibus enim genus aequaliter superponitur. differentiae quoque quae diuidunt genus et informant speciem, quoniam speciei essentiam complent, nec intentionem recipiunt nec remissionem. quae  uero secundum accidens differentiae sunt inseparabiles, ut aquilum esse uel simum uel coloratum aliquo modo, et inten- tionem suscipiunt et remissionem. fieri enim potest ut hic paulo sit nigrior, hic uero amplius simus, ille minus aquilus, at uero quod non omnes homines aequaliter rationales mor-  talesque sint, nec specierum nec differentiarum natura uidetur admittere.   Cum igitur tres species differentiae consi- derentur et cum hae quidem sint separabiles, illae uero inseparabiles, et rursus inseparabilium cum  hae quidem sint per se, illae uero per accidens, rursus earum quae sunt per se differentiarum aliae quidem sunt secundum quas diuidimus ge- nera in species, aliae uero secundum quas ea quae diuisa sunt specificantur, ut cum per se differen-  tiae omnes huiusmodi sint, animati et inanimati,  12—p. 254, 8] Porph. p. 9, 24-10, 8 (Boeth. p. 35, 18—36, 6). 16 differentiarum—19 specificantur] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II p. 94.   1  post  cuilibet  add . esse  L edd . 2 quae  om. GPR, del. Hm1?  3 formant  CEGLm1R  species  Lm2NP  3  ante  quoniam  add . quae  EGHLPR  essentiam] substantiam  N  4  ante  quae  add.  ill<a>e  G  6 aquilum]  cf. ad p. 248, 15  colorari  EG  8 nigrior sit  HNP  hic— aquilus] hic uero minus hic magis acilus ille autem minus hic amplius simus illo uero minus  E amplius simus] amplissimus  G, add . sit  L  aquilus]  ut  6 9 non quod  R  ut non  HNPm1  quoniam non  m2  ratio- nabiles  ELm2P  12 considerantur  Λ m2  ( in er . -entur)  2  13 haec  EG  illae—sensibilis  (p. 254, 5) om. CEG  14 et—sensibilis  (ibid.) om. HLNP  16 rursus—sensibilis  (ibid.) om. R  per se sunt  Λ2Φ  17 quidem  om .  Λ2  18 ea]  ΓΔΨΨ   edd . haec  ΛII2  20 animatum et inanimatum sensibile et insensibile rationale et inrationale mortale et inmortale  h m1 animati—insensibilis]  Porph. p. 10, 4   εμψύχου και αίαβητικου   ante  sint  add . animalis  edd. cum Porph .  τοϋ ζώου   quattuor  et  (20—p. 254, 2) om .  2   sensibilis et insensibilis, rationalis et inrationalis, mortalis et inmortalis, ea quidem quae est animati et sensibilis differentia. constitutiua est substan- tiae animalis — est enim animal substantia ani- mata sensibilis —, ea uero quae est mortalis et  inmortalis differentia et rationalis et inrationalis, diuisiuae sunt animalis differentiae; per eas enim genera in species diuidimus.    Fit nunc differentiarum plena et suprema diuisio, quae est huiusmodi. differentiarum aliae sunt separabiles, aliae inse-  parabiles, inseparabilium aliae sunt secundum accidens, aliae substantiales. substantialium aliae sunt diuisibiles generis, aliae coustitutiuae specierum. quod uero ait : cum igitur tres species differentiae considerentur, ad hoc retulit, quod in prima differentiarum diuisione partim eas communes esse,  partim proprias, partim magis proprias dixit, quas rursus tres differentias alias separabiles esse monstrauit, alias inseparabiles, separabiles quidem communes, inseparabiles uero proprias ac magis proprias. inseparabilium uero fecit diuisionem dicens alias esse secundum accidens, quae propriae nuncupantur, magis  proprias uero secundum substantiam considerari. earum uero quae secundum substantiam sunt, subdiuisionem facit, quod  3 constituta  T m1  4  post  animata  add . et  ΓΛ   Busse, om .  ΔΠΣΦΨ Porph. (p. 10, 6) edd . 5 ea] he  ex  e  Rm2  est] sunt  R  6 diffe- rentia  om .  CEGPR  et  om .  CLR \\ rationabilis et inrationabilis (rac-  et  irrac-  P )  Lm2P  7 diuisi  Em1  diuisae  GPm1  has  HP; Porph. p. 10, 8   St’ αΰτών  8 genera in]  L (s. l. m2)   ΓΔΠ .  (in mg. m2)   Ψ   Porph., om. cett . 11  post  inseparabilium  add.  uero  C  12 generis  om. EGR, in mg. Lm2  15  post  esse  add . dixit  HNP  dicit  R  16 dixit  om. HPR, s. l. Em2  rursum  H  17 alias insepa- rabiles esse (esse  om. N ) monstrauit  HNP  18 ac] et  HN  20 acci- dens] se  EG(er.), s. l. Pm2, add . substantiam  Em1  alias (alia  E ) se- cundum substantiam considerari  G edd., in mg. Em2, s. l . alias secun- dum  Pm2, post  considerari  add . et illas esse secundum accidens  edd.  quae—considerari  om. E post  quae  s. l . uero secundum accidens  Pm2  propria  C  proprias  Pm2  nuncupari  Pm2  21 eorum  (sic)  uero quae secundum substantiam  s. l. add. Em2  22  post  quae  add.  et  C   aliae earum genus diuidant, aliae speciem informent. ad cuius rei facilem cognitionem illa tertii libri specierum generumque dispositio transcribatur. sitque primum substantia, sub hac corporeum atque incorporeum, sub corporeo animatum atque  inanimatum, sub animato sensibile atque insensibile, sub quo animal, sub animali rationale atque inrationale, sub rationali mor- tale atque inmortale et sub mortali species hominis, quae solis deinceps indiuiduis praeponatur. in hac igitur diuisione omnes hae differentiae specificae nuncupantur, generum enim specierum-  que differentiae sunt, sed generum quidem diuisiuae, specierum autem constitutiuae. id autem probatur hoc modo. substantiam quippe corporei atque incorporei differentiae partiuntur, cor- poreum uero animati atque inanimati, animatum sensibilis atque insensibilis. ita igitur genera substantiales differentiae  partiuntur et dicuntur generum diuisiuae. at uero si eaedem differentiae quae a genere descendentes genus diuidunt, colli- gantur et in unum quae possunt iungi copulentur, species informatur. nam cum animal species sit substantiae — omnia enim superiora de inferioribus praedicantur et quicquid inferius  fuerit, species erit etiam superioris —, animatum tamen atque  2 illa tertii libri.. dispositio] p. 208, 12 ss.   1 diuidunt  N  diuident  R informant  CNR, add . atque construant  H  atque constituunt (-ant  ex  -ent  P )  NP, s. l. Lm2   (ex p. 256, 3)  at  E  2 facilitatem  G  cognitionem  om. EG  illa  s. l. Hm2  3 trans- feratur  Hm1N; post transcribatur  spatium ad inscribendam figuram ut uid. relictum in EG  sub] ubi  E  hoc  Em1GLm1R  4 atque incorporeum  in mg. Em2  sub corporeo  om. GR, in mg Em2, s. l. Lm2  6 animal sub  om. E  sub animali  om. GR  6 rationabile  E  7 et  om. HN, del. Em2  12 patiuntur  Em1G  corporeum—partiun- tur  (15) om. Em1, in mg . corporeum ( ex  corpore  m3 )—inanimati (ani- matum autem  s. l. add. m3 ) sensibilis—partiuntur  add. m2  13 ani- matum  om. G, post add . autem  Em3  enim  Lm1, del. m2 , et  er. N  14  post  insensibilis  add . partiuntur  CL substantialis  Gm1Pm2  15 si  del. Lm2, post  si  del . et  R  heaedem  P  (dem  er .)  R  (h  del .) hae  HN 16 quae  post  descendentes L 17 in  ex al. litt. Em2  18 informantur  EHN  informant  part. ras. ex informatur  Lm2  fit  E   sensibile quae sunt differentiae, si referantur ad genera, diui- siuae sunt, constitutiuae uero fiunt animalis eiusque sub- stantiam formant atque constituunt definitionemque conformant, ut sit animal substantia animata sensibilis, substantia quidem genus, animatum uero atque sensibile eiusdem differentiae consti-  p. 85  tutiuae. | item animal rationabilitas atque inrationabilitas diuidit, mortali etiam atque inmortali diuiditur, sed iuncta rationabilitas atque mortalitas, quae animalis diuisiuae fuerant, fiunt homi- nis constitutiuae eiusque perficiunt speciem atque omnem eius rationem definitionis informant atque perficiunt. at si  inrationabilitas cum mortalitate iungatur, fiet equus aut quod- libet animal, quod ratione non utitur, rationabilitas uero atque inmortalitas copulatae del substantiam informant. ita eaedem differentiae cum referuntur ad genera, diuisiuae generum fiunt, si uero ad inferiores species considerentur, informant species  earumque substantiam conuenienti copulatione constituunt. In hoc quaesitum est, quemadmodum dicerentur esse hae diffe-  1  post  sunt  add . eiusdem  P (s. l. m2) edd . diuisiua  Em1G  2  post  sunt  s. l . si ad speciem  Lm2Pm2  uero  om. N, del. Pm1?, s. l. Hm2Rm2  fiunt  s. l. Rm2  3 definitionemque] diuisionemque  EG  formant  Hm1  4 quidem] uero  N  5 ante genus add. eiusdem  CN ,  post add . est  s. l. LPm2 ante  differentiae  add . generis  GP, post add . diuisiuae  R post  constitutiuae  add . animalis  R, s. l . speciei animalis  Lm2  6 rationabilitas—diuiditur]  P  rationalitas atque inrationalitas diuidit mortalitas ( ex  inmortali  m2 ) etiam atque inmortalitas ( ex  inmor- tali  m2 ) diuidit ** ·  H  rationabilitas atque irrationabilitas mortale atque inmortale diuidit  C  rationale atque inrationale (diuidunt  add. N ) mortale atque (et  N ) inmortale diuidit (diuidit  om. N )  NR inrationabile (inratio- nale  L ) atque inmortale diuiditur  EGLm1, in mg. ante  atque  add . irracionale. mortale etiam atque  m2  rationabilitas atque irrationabilitas, mortalitas atque immortalitas diuidit  brm  7 rationalitas  E  8 diuisiua  Em1GLm1R  9 constitutiua  GLm1R eiusque] hominisque  HNP  nominis  (del. Lm2)  eiusque  EGL  10 atque perficiunt  s. l. Rm2  11 irrationalitas  EP  mortali  Lm2Pm1  fiat  G  aut] atque  L  12 rationalitas  HP  13 inmortalitas] inrationabilitas  R  dei  om. G ,  post  substantiam  E (s. l. m2) L  formant  HN  item  HL  14 di- uisae  E  17 esse  om. C  eae  EGR  heae  P   rentiae specierum constitutiuae, cum inrationabilis differentia atque inmortalis nullam speciem uideantur efficere. respondemus primum quidem placere Aristoteli caelestia corpora animata non esse; quod uero animatum non sit, animal esse non posse;  5 quod uero non sit animal, nec rationale esse concedi. sed eadem corpora propter simplicitatem et perpetuitatem motus aeterna esse confirmat. est igitur aliquid quod ex duabus his diffe- rentiis conficiatur, inrationabili scilicet atque inmortali. quodsi magis cedendum Platoni est et caelestia corpora animata  esse credendum, nullum quidem his differentiis potest esse subiectum — quicquid enim inrationabile est corruptioni sub- iacens et generationi, inmortale esse non poterit —, sed tamen hae differentiae, quoniam substantialium differentiarum in numero sunt, si iungi ullo modo potuissent, earum naturam  et speciem quoque possent efficere. atque ut intellegatur, quae sit haec potentia efficiendae substantiae specieique formandae, respiciamus ad proprias atque communes, quae tametsi iun- gantur, speciem substantiam que nulla ratione constituunt. si quis enim loquatur ambulans, quae sunt duae communes dif-  ferentiae, uel si albus ac longus, num idcirco isdem eius sub- stantia constituitur? minime. cur? quia non eiusdem sunt generis, quae alicuius possint constituere et conformare sub-  3—7 Aristoteli] cf. De caelo II 12, p. 292 a , 18 ss.; ed. Didot IV part. II p. 38 a , frg. 24 (Cic. de nat. deor. II 15, 42 cum locis ab Heitzio adlatis). 9 Platoni] Tim. p. 38 E. 39 E ss.; cf. supra p. 209, 2.   1 species  G  inrationalis  CEGP  differentiae  E  5 concedit  Lm1N  7 est] esse  CN, ad  est  s. l . ał esset  L  aliud  G  8 con- ficeretur  H, s. l.  ( add . ał)  ad  conficiatur  L  irrationali  Lm2P  9 ac- cedendum  CN  (ac  er .)  H  (ac  in ras. m2 ), concedendum  edd . est platoni  CN  et  om. C  10 credendum  om. CN  11 inrationale (irr-  P )  HP 13  ante  substantialium  add . in  CHN, post  diff.  om. CHNR  16 efficientiae  G  17 tametsi] etsi  C etiam (si  er. H ) etsi  H  ( in mg . ł tametsi  m2 )  NP  19 loquitur  HN  20 sit  H  num  ex  non  Rm2 isdem]  NP  eisdem (ei  in ras. m2 )  L  hisdem  cett., post s. l . differentiis  add. Em2  21  ante  cur  add . id  HNP, s. l. Lm2  eius  EG  sunt  ante  eiusdem  N, post  generis  L  22 possunt  NP  con- firmare  Em1GRm1   stantiam. ita igitur hae, id est inrationale atque inmortale, etiamsi subiectum aliquod habere non possunt, possent tamen substantiam efficere, si ullo modo iungi copularique potuissent, praeterea inrationale iunctum cum mortali substantiam pecudis facit : est igitur constitutiua inrationalis differentia, item inmor-  tale ac rationale coniuncta efficiunt deum : est igitur inmortale quod speciem formet, quodsi inter se iungi nequeunt, non idcirco quod in natura earum est, abrogatur.   Sed hae quidem quae diuisiuae sunt differentiae generum, completiuae fiunt et constitutiuae speci-  erum; diuiditur enim animal rationali et inrationali differentia et rursus mortali et inmortali differentia, sed ea quae est rationalis differentia et mortalis, con- stitutiuae fiunt hominis, rationalis uero et inmor- talis del, illae uero quae sunt inrationalis et mor-  talis, inrationabilium animalium, sic etiam et supremae substantiae cum diuisiua sit animati et inanimati dif- ferentia et sensibilis et insensibilis, animata et sen- sibilis congregatae ad substantiam animal perfecerunt.    9—19] Porph. p. 10, 9—17 (Boeth. p. 36, 7—15).   2 aliquod  om. C  aliquid  LP  possunt—substantiam] possent tamen substantiam possent  C  4 mortale  EGPm1  5 irrationabilis  NP  ita R 6 coniunctae  HN  8 eorum  edd . 9 haec  CL  heae  P  10 generum  om. EG  fiant  Cm1Em1G  sunt  Σ  11 diuiditur—insensibilis  (18) ]  2 ,  om. cett . 12  pr . et—differentia  om.   2 ,  add.   X m2  13 ea... differentia]  Porph. p. 10, 12 ai... διαοοραί  rationalis.. mortalis  cum cod .  M Porph., cett .  τοΰ 6-νητοδ καί τού λογικού  14 fiunt] definiunt  Δ m1 ΙΛΣ  hominem  Δ m1 ΑΣ  15 dni in ras.  2 ,  add . sunt et angeli  Δ ,  sed del., ante  dei  add.  angeli et  Π m2 ,  sed del.; codd. Porph. p. 10,13 aut   θεού   aut   άγγέλοο  quae sunt  add .  X m2   post  mortalis  add . constitutiuae sunt  Γ  16 inratio- nalium  X m2 \ m1 ,  add . sunt  Φ etiam] enim  Φ  supremae substan- tiae]  T m2  (suae substantiae  m1 )  X m 2 (superna substantia  m1 ) suprema substantia  cett. codd. edd. Busse; cf. Porph. p. 36, 12 et infra p. 259, 23  18 animatum  EGR  sensibile  E  (le  in ras .)  R  19 congregata  ER  perficerent  G  perficiunt  in ras .  2 post  perfecerunt  add . animata uero et insensibilis perfecerunt plantam  edd. cum Porph. p. 10, 17, om .  Boethius etiam in commentario   Geminum differentiarum usum esse demonstrat, unum qui- dem quo genera diuiduntur, alium uero quo species infor- mantur; neque enim hoc solum differentiae faciunt, ut genera partiantur, uerum etiam dum genera diuidunt, species in quas  genera deducuntur efficiunt, itaque quae diuisiuae sunt gene- rum, fiunt constitutiuae specierum, huiusque rei illud exemplum est quod ipse subiecit; animalis quippe differentiae sunt diui- siuae rationale atque inrationale, mortale atque inmortale; his enim praedicatio diuiditur animalis, omne enim quod animal  est, aut rationale aut inrationale aut mortale aut inmortale est. sed istae differentiae quae diuidunt genus quod est animal, speciei substantiam formamqne constituunt, nam cum sit homo animal, efficitur rationali mortalique differentiis, quae dudum animal partiebantur, item cum sit equus animal, inrationali  mortalique differentiis constitui|tur, quae dudum animal diui-  p. 86  debant. deus autem cum sit animal, ut de sole dicamus, ratio- nali inmortalique efficitur differentiis, quas diuidere genus habita partitio paulo ante monstrauit. sed hic, ut diximus, deum corporeum intellegi oportet, ut solem et caelum ceteraque  huiusmodi, quae cum animata et rationabilia Plato esse con- firmat, tum in deorum uocabulum antiquitatis ueneratione probantur assumpta, de primo quoque genere, id est substantia demonstrantur uenire. nam cum eius diuisiuae sint differentiae  18 ut diximus] p. 208, 22 ss. 20 Plato] cf. p. 257, 9.   2 aliud  EHm1Rm2  alio  m1  uero  om. R  4 partiuntur  GPm1  diuidendo  N  5 deducantur  HN  dicuntur  R  diuiduntur C (uid  in er . duc?  m2 ) diuisae  Em1Gm2HR  6 huius C rei  om. EGR s. l. Lm2  7 ipse] ille  R  diuisae  Em1Gm2  8 mortale atque inmortale  om. EGR, in mg. Lm2  9 quod animal est] animal  HNR  10  pr . aut  om. R post  rationale  add . est  HN  11 est  om. HR  quod] hoc  C  13  post  efficitur add. ab his  EPm1, del. m2, s. l. Lm2  post differentiis  add . constituitur  Cm1, del. m2  14 partiebantur] diuidebant Lm1R  15 diuidebant] parciebantur  R  16 ut] si  CH, in ros. N, recte?; cf.p. 208, 22  20 confirmet  C  (et  in ras. m2 ) HLm2N  22 substantiam  Em1  23 demonstrantur] idem monstratur  HN  idem  (super ras. Cm2, s. l. Pm2)  demonstrantur  Cm1Pm1, alt . n  del. Cm2Pm2  euenire  HNPm2, add. s. l . differentiae  Lm2  diuisae  Em1Pm1  sunt  EHm1   animatum atque inanimatum, sensibile atque insensibile, iunctae differentiae sensibilis atque animati efficiunt substantiam ani- matam atque sensibilem, quod est animal, iure igitur dictum est, quae diuisiuae sunt differentiae generum, easdem esse con- stitutiuas specierum.   Quoniam ergo eaedem aliquo modo quidem accep- tae fiunt constitutiuae, aliquo modo autem diuisiuae, specificae omnes uocantur. et his maxime opus est ad diuisiones generum et definitiones, sed non his quae secundum accidens inseparabiles sunt, nec magis his  quae sunt separabiles.  Omnes a genere differentias procedentes genus ipsum a quo procedunt, diuidere nullus ignorat, ipsae autem quae diuidunt genus, si ad posteriores species applicentur, informant substantias easque perficiunt, eaedem igitur sunt constitutiuae  specierum, eaedem diuisibiles generum, alio tamen modo atque alio consideratae, ut si ad genus relatae quidem in contrariam diuisionem spectentur, diuisibiles generis inueniuntur, si uero iunctae aliquid efficere possint, specierum constitutiuae sunt, quae cum ita sint, hae differentiae quae genus diuidunt, rectis-  sime diuisiuae nominantur - quae enim constituunt speciem, specificae sunt, sed constituunt speciem hae differentiae quae  6—11] Porph. p. 10, 18—21 (Boeth. p. 36, 15—19).   4  post  constitutiuas  add . et completiuas  C  completinasque  HNP   (ex p. 258,10)  6 ergo] igitur  P  needem  uel  heedem  hic et 15. 16. p. 261, 1 codd. quidam  alio  P  ( ras. ex  aliquo,)  Γ  (o  in ras .) quidem]  ΓΔΛΙIΨ ,  om. cett.; Porph. p. 10, 18   μεν  7 aliquo—inseparabiles sunt  (10) ]  Ω ,  om. cett . alio  ras. ex  aliquo  ut uid .  Γ  autem modo  Φ  autem  add .  5 m2  10 sunt inseparabiles  Γ his  om .  Γ  12  post  Omnes  add . enim  R  13 quo] quibus  EGR  procedent  Em1  15  post  sub- stantias  s. l . earum  L  eas substantiasque (quae  N )  HNR  sunt igitur  HL  16  post  eaedem  add . sunt  LR  19 sint  CHPRm1  21 diui- siuae] specificae  Lm2  nominantur] nuncupantur  HΡΝ  enim  om. C   post  speciem  add . eaedem speciem faciunt, quae uero speciem faciunt  CHN   sunt generis diuisiuae - eaedemque sunt specierum constitu- tiuae. quare iure quae generum diuisiuae sunt et quae spe- cierum constitutiuae, specificae nuncupantur, has igitur in diuisione generis et in definitione specierum accipi oportere  manifestum est. quoniam enim diuisiuae sunt, per eas diuidi oportet genus, quoniam autem constitutiuae, per eas species definiri; quibus enim unum quodque constituitur, isdem etiam definitur, constituitur autem species per differentias generis diuisiuas, quae sunt specificae, iure igitur specificae solae et  in generis diuisione et in specierum definitione ponuntur, et de specificis quidem haec ratio est, de his autem quae uel separabilia uel inseparabilia continent accidentia, nihil in generum diuisione uel definitione specierum poterit assumi, idcirco quoniam quae diuisibiles sunt, substantiam generis  diuidunt, et quae constitutiuae sunt, substantiam speciei con- stituunt. quae uero sunt inseparabilia accidentia, nullius sub- stantiam informant, unde fit ut multo minus separabilia acci- dentia ad diuisiones generum uel specierum definitiones accommodentur; omnino enim dissimiles sunt substantialibus  differentiis, nam inseparabilia accidentia hoc fortasse habent commune cum specificis, hoc est substantialibus differentiis, quod aeque subiectum non relinquunt, sicut nec specificae differentiae, separabilia autem accidentia ne hoc quidem; sepa-  1 diuisae  Gm1  eaedemque]  H  (hee-)  NP  eaedem  C  igitur eaedem (eaedem  s. l. Lm2 ) quae (que  E ) sunt  EGLR  constitutiuae specie- rum  C  2 quare—constitutiuae  om. EGLR  quare iure] iure igitur  P  4 diuisionem  HLm2P  et] uel  R  definitionem (uel diff-)  HL  ( s. l . ał constitutione]  P  diuisione  Em1  6 eius  Em1  7  post  definiri  add . oportet CN, s. l . (scil.  add. E )  EL  quibus—definitur  om. EGLR, in mg. Pm2  hisdem  CHN  9 solae  s. l. Em2  10  post , in  om. HN  12 continent] concedunt  EG, s. l . uel faciunt  Gm1?  13  post  uel  add . in  L  16 sub- stantiam]  HN, om. Em1 , speciem  CGLm1R  (post informant)  s. l. Em2 , speciei substantiam  Lm2P edd . 17 formant  H  multo  om. C  18 ad diuisiones—accidentia  (20) in inf. mg. Gm2  definitiones] diuisiones  Em1G  19  ante  substantialibus  add . a  HN, recte?  22  ante quod  add. id H   (linea del., sed linea er. uid.) N ad  quod aeque  s. l. ał  quod hae similiter  L  sic  G  (ut  er .)  L (ut del. m2)  23 ne] nec  LN   rari enim possunt, nec tantum potestate et mentis ratiocinatione, sed actus etiam praesentia, et omnino ueniendi uel discedendi uarietatibus permutantur.   Quas etiam determinantes dicunt : differentia est qua abundat species a genere, homo enim ab animali  plus habet rationale et mortale : animal enim neque ipsum nihil horum est nam unde habebunt species differentias? neque enim omnes oppositas habet - nam in eodem simul habebunt opposita —. sed, quemadmodum probant, potestate quidem omnes  habet sub se differentias, actu uero nullam, ac sic neque ex his quae non sunt, aliquid fit neque opposita circa idem sunt.    Specificas differentias definitione concludit dicens substan-  p. 87  tiales differentias a quibusdam tali descriptionis ratione finiri :  differentia specifica est qua abundat species a genere, sit enim genus animal, species homo : habet igitur homo dif- ferentias in se, quae eum constituunt, rationale atque mortale; omnis enim species constitutiuas formae suae differentias in se retinet nec praeter illas esse potest, quarum congregatione  perfecta est. si igitur animal quidem solum genus est, homo uero est animal rationale mortale, plus habet homo ab animali id quod rationale est atque mortale, quo igitur abundat species  4—13] Porph. p. 10, 22—11, 6 (Boeth. p. 36, 20—37, 5).   1 nec] non  brm  4 Quae  h m1  dicuntur  A m1  est  add .  \ m2  5 que  Em1  quae  Ga.c . abundant (ha-  G )  Em1G  a  om. N ho- mo—-nullam  (11) ]  R Q ,  om. cett . ab  om .  ΓΦ  6 enim] enim tamen  R  autem  A  7 horum nihil  Γ  8 enim  om .  Φ ,  add .  & m2 , autem  er .  T  :  Porph. p. 11, 3   ούτε ίί ; enim  pro  autem;  cf. ad p. 16, 15; an  autem ( cf.   T )  Boethius scripsit ? opposita  R  habet]   habent  cett .  codd. et edd . 9 nam] nec  R  habebit  Φ  ( post  opposita), non habe- bunt  Δ  11 habet]  P p.c .  Φ*Γ  habent  cett . ac sic  om. N  sic  ex  si  Em2G  12 hiis  Φ  sint  Sa.c . opposita] ex oppositis quae  R h m1  13 circa idem sunt]  Porph. p. 11, 6   &pa περί τό αΰτο εσται  15 diffiniri  Pm2R  19 constitutiuae  Em1GLp.c.Rm1  in se  om. C  22 est uero  E  23 id] id est  EGP   a genere, id est quo superat genus et quo plus habet a genere, hoc est specifica differentia, sed huic definitioni quae- dam quaestio uidetur occurrere habens principium ex duabus per se propositionibus notis, una quidem, quoniam duo con-  traria in eodem esse non possunt, alia uero, quoniam ex nihilo nihil fit. nam neque contraria pati sese possunt, ut in eodem simul sint, nec aliquid ex nihilo fieri potest; omne enim quod fit, habet aliquid unde effici possit atque formari, quae pro- positiones talem faciunt quaestionem, dictum est differentiam  esse id qua plus haberet species a genere, quid igitur? dicen- dum est genus eas differentias quas habent species, non habere? et unde habebit species differentias quas genus non habet? nisi enim sit unde ueniant, differentiae in speciem uenire non possunt, quodsi genus quidem has differentias non habet,  species autem habet, uidentur ex nihilo differentiae in speciem conuenisse et factum esse aliquid ex nihilo, quod fieri non posse superius dicta propositio monstrauit. quod si differentias omnes genus continet, differentiae autem in contraria dissol- uuntur, fiet ut rationabilitatem atque inrationabilitatem, mor-  talitatem atque inmortalitatem simul habeat animal, quod est genus, et erunt in eodem bina contraria, quod fieri non potest, neque enim sicut in corpore solet esse alia pars alba, alia nigra, ita fieri in genere potest; genus enim per se conside- ratum partes non habet, nisi ad species referatur, quicquid  igitur habet, non partibus, sed tota sui magnitudine retinebit, nec illud dubium est, quin in partibus suis genus habeat  1  post , quo] quod  Em1  (quid  m2 )  GHm1R  a  om. H  2 hoc—dif- ferentia  om. C  huic] hunc  Em1N  4 per se  ante  notis  brm  unam  GHa.r. 5  aliam  C (sic) Ha.r. post  quoniam  add . quidem  C  6 sit  C  nec  N  10 id  om. R  qua] quod  GHLm1P; cf. p. 270, 12  dicen- dumne  Lm2  11 genus  ante  non habere  HNP  habent] habet  Lm2  12 habet] habebit  CEGLm1, in mg. Rm2 (om. m1)  13 ueniunt  R  15 uidetur  GLm1P  differentia  EGL  ( ex  -tiasj P 16 esse] est  CLP  aliquando  Em1  18 contrarium  HLm2NPm1  contrario  R  19 mortali- tatem atque inmortalitatem]  CNP, s. l. Lm2, om. cett . 22 esse  post  alba  N, post  alia  P  25 detinebit  N  26 in]  HNP, s. l. Lm2, om. cett .   contrarietates, ut animal in homine rationabilitatem, in boue contrarium. sed nunc non de speciebus quaerimus, de quibus constat, sed an ipsum per se genus eas differentias quas habent species, habere possit atque intra suae substantiae ambitum continere, hanc igitur quaestionem tali ratione dis-  soluimus. potest quaelibet illa res id quod est non esse, sed alio modo esse, alio uero non esse, ut Socrates cum stat, et sedet et non sedet, sedet quidem potestate, actu uero non sedet. cum enim stat, manifestum est eum non agere sessi- onem, sed potius standi inmobilitatem. sed rursus cum stat,  sedet, non quia iam sedet, sed quia sedere potest; ita actu quidem non sedet, potestate uero sedet. et ouum animal est et non est animal. non est quidem animal actu, adhuc namque ouum est nec ad animalis processit uiuificationem, sed idem tamen est animal potestate, quia potest effici animal, cum  formam ac spiritum uiuificationis acceperit. ita igitur genus et habet has differentias et non habet, non habet quidem actu, sed habet potestate. si enim ipsum per se animal consideretur, differentias non habebit, si autem ad species reducatur, habere potest, sed distributim atque ut eius speciebus separarim nihil  possit euenire contrarium. ita ipsum genus si per se consi-  1  post homine  s. l . habet  E, post  rationabilitatem  Lm2  2 nunc  om. EGR, s. l. Lm2  4 suae intra  C  6 quaelibet illa res]  HLm2NPm1  quaelibet res  ( res  s. l. E) CEPm2  quidlibet  Lm1R  quodlibet  G 7 alio uero non esse  om. Hm1, s. l . alio non esse  m2  8  secund . sedet  om. CEGR  9 enim  om. CEGLPm1 (s. l . autem  m2) R  sessione  G  10 mobilita- tem  CEGLm1P  mobilitate  N  cum stat  in  constat  mut .  ERm2  13 actu  om. EG  14 neque  CL  ad  om. E  animal  G  animalis quidem  L  16 spiritum] speciem  CHR  genus et]  ELm2NP  et genus et  H  genus  CGLm1R  17 non habet quidem—potestate] habet quidem potestate sed non habet  ( habet  om. C)  actu  CEm2P  habet quidem actu sed non habet potestate  Em1G  18 consideretur] quis  (s. l.)  consideret  E  19 autem] enim  R  reducat  E  20 distributim]  HLm2PRm2  distri- butum  CN  distribute  EGLm1 distributam  Rm1  atque—contrarium] atque in species separatum  ( separatim  H)  ut nihil possit esse  ( euenire  H)  contrarium  CHN, add. locum  atque ut eius—contrarium  C  nihil] et nihil  G 21 si ipsum genus  HN   deretur, differentiis caret; quod si ad species referatur, per distributas species uel in partibus suis contraria retinebit, atque ita nec ex nihilo uenerunt differentiae quas genus retinet potestate nec utraque contraria in eodem sunt, cum contrarias  differentias in eo quod dicitur genus, actu non habet, inpos- sibilitas enim eius propositionis quae dicit contraria in eodem esse non posse, in eo consistit quod contraria actu in eodem esse non possunt, nam potestate et non actu duo contraria in eodem esse nihil impedit, quae uero nos contraria diximus,  Porphyrius opposita nuncupauit. est enim genus contrarii oppositum : omnia enim contraria, si sibimet ipsis considerantur, opposita sunt.   Definiunt autem eam et hoc modo : differentia est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod  quale sit praedicatur; rationale enim et mortale de homine | praedicatum in eo quod quale quiddam est p. 88  homo dicitur, sed non in eo quod quid est. quid est enim homo interrogatis nobis conueniens est dicere animal, quale autem animal inquisiti, quoniam ratio-  nale et mortale est, conuenienter adsignabimus.    Tres sunt interrogationes ad quas genus, species, differentia, proprium atque accidens respondetur, haec autem sunt : quid  13—20] Porph. p. 11, 7—12 (Boeth. p. 37, 6-12).   1 species] differentias  H  2 uel  om. Lm1  uelut  HLm2  sin eo] id  HN  quot  E  7 actu  ante  contraria  H, post  eodem  CLN  in eodem esse—in eodem  om. EG  8  post  non possunt  add . quantum ad genus potestate solum, quantum ad species actu et potestate  Rm2  9 nil  L  contraria nos  C  11 si  om. HN, s. l. Cm2  si in semet  Lm2P  considerentur  CLm2  12 sunt  om. HN  13 autem  om. H  enim  C  et om.  CEGHNP 2 ,  ante  eam  4 ;  Porph. p. 11, 7   xo; όντως  14 quae  EP  de  om. C  et om.  CEGLIR; Porph.   xat ;  cf. infra p. 267, 1  15 ra- tionale—animal  (19) ]  R Q ,  om. cett . 16 praedicatur  T a.c.   m1  quid- dam  om.   ΓΦ  18 homo om.  R ΔΦ ,  s. l . scil, homo  \ m2 ; Porph.  p. 11, 10   6 άνθρωπος  19  post post , animal  add . sit  C, ante EG  inquisiti]  Porph. p. 11, 11   πυνθανομενων  20 et  om. CEGLR; Porph. p. 11, 12   xac  est om.  HNR, s. l .  2 m2 assignauimus  E  assignamus  G  22 hae  Hp.r.LR edd . heede  m P   sit, quale sit, quomodo se habeat, nam si quis interroget : quid est Socrates? responderi per genus ac speciem conuenit aut animal aut homo, si quis quomodo se habeat Socrates interroget, iure accidens respondebitur, id est aut sedet aut legit aut cetera, si quis uero qualis sit Socrates interroget,  aut differentia aut proprium aut accidens respondebitur, id est uel rationalis uel risibilis uel caluus. sed in proprio quidem illa est obseruatio, quod illud proprium dici potest quod de una specie praedicatur, accidens uero tale est quod qualitatem designet quae non substantiam significet, differentia uero talis  est quae substantiam demonstret, interrogati igitur qualis una quaeque res sit, si uolumus reddere substantiae qualitatem, differentiam praedicamus, quae differentia numquam de una tantum specie praedicatur, ut mortale uel rationale, sed de pluribus, quod igitur de pluribus speciebus inter se differen-  tibus praedicatur ad eam interrogationem, quae quale sit id de quo quaeritur interrogat, ea est differentia cuius talem posuit definitionem : differentia est quod de pluribus  1 se  om. G, s. l. E  habet  CEGLR  2 per  om. H  ac  N  3  pr . aut] ut  CHm1N post , aut] ut  Hm1N  habet  R, post  habeat  del . se habet  G  4 iure—legit] differentia aut legit  G  aut differentiam  * ut (a er.) legit  E  differentia respondetur (respondetur  etiam R ) id est aut sedet aut legit  Lm1  5 aut] et  HLm1NP  quale  H  6 proprio aut accidenti  EGR  respondebitur]  CLm2P  respondebit  EGR  respondetur  HLm1N  7  pr . uel  om. LN  uel risibilis uel caluus]  Lm1 edd . uel mortalis uel caluus  CHLmSN  uel mortalis uel alicuius  EGR  uel mor- talis uel saluus uel caluus  Pm1  uel mortalis uel risibilis uel caluus  m2 10 quae non—demonstret] Differentia uero talis est  (haec om. L)  quae (que  ELm1  atque  m2 ) non substantiam significet (-cat  Lm1, add. m1  Differentia uero talis est quae substantiam significat, del.  m2 ). Differentia uero talis est quae (non  add., sed del. E ) substantiam demonstret (at  Lm1 )  EGL  post significet  in mg.  Proprium uero est quod non sub- standam significat  H  11 quae] quia  R  demonstrat  CLm1  inter- roganti  R  ( ex  -tis] quale  R  12 constantiae  G  13 numquam] non  C  tantum de una  C  14 sed  om. EG, s. l. Lm2  15 quod] quod- si  R  16  ad  praedicatur  in mg . respondetur  E  18 pluribus—differen- tibus]  cf. p. 265, 14   specie differentibus in eo quod quale sit praltdicatur; cuius definitionis causam rationemque pertractans ait;   Rebus enim ex materia et forma constantibus uel ad similitudinem rtfateriae et formae constituti-  onem habentibus, quemadmodum statua ex materia est aeris, forma autem figura, sic et homo communis et specialis ex materia quidem similiter consistit genere, ex forma autem differentia, totum autem hoc animal rationale mortale homo est, quemadmodum  illic statua.    Dixit superius differentias esse quae in qualitate speciei praedicarentur, nunc autem causas exequitur, cur speciei qua- litas differentia sit. omnes, inquit, res uel ex materia formaque consistunt uel ad similitudinem materiae atque formae sub-  stantiam sortiuntur, ex materia quidem formaque subsistunt  3—10] Porph. p. 11, 12—17 (Boeth. p. 37, 12-17).   1  post  quale  add . quid  Lm2(in ras.) E (sed er.) Rm1, del. m2, add . quid  post  sit  s. l. Hm2  4  post similitudinem  add . proportionemque  LNRQ  ( in mg . nempe communionem  Γ );  om. Porph. p. 11, 13  et) ac  ΓΔΙΙΨ- ,  om .  L Α2Φ  formae]  A m2 HI!1-  speciei  CEGHNPR h m1  specieique L Λ2Φ  formae speciei  er. uid .  Γ ;  cf. Porph. et infra 13 ss . 5 quem- admodum—differentia  (8) ]  LR Q ,  om. cett. post  materia  add . quidem  edd., recte ut uid.; Porph. p. 11, 14   μέν  6 aeris] et  (s. l. m2)  aere  (in ras. m2)   Ψ  forma] ex ( in al. litt.   xV m2 ) forma  L xV brm   Busse;   Porph .  εΐϊοος post figura haec Proportionale autem (enim  Φ ) dicitur (est  Σ ) quod proportionem omnium specierum teneat (tenet  Σ ) id est communionem omnium partium uel (et  T ) specierum quae diuidi (diui- dendo Rhm1 diuidendae  Th m2 \l m1 2'l> ) ex ea (eo  ΣΣ ) contingunt (con- tingant  R ) per (del.  Σ ) differentiam figuras  ΓΠ m2  diffe- rentiam figuras  \ )  add .  LR T m1 h m1 ΑΠΣΦ ,  om .  Ψ ,  del .  T m2 \ m2  7 simi- liter]  Busse  similiter proportionaliter  LR ll m1  similiter proportionaliterquc  ΓΔΙ m2 Φ'Ρρ  proportionaliter  2 brm; cf. Porph. p. 11, 15  8 ante genere  add . in  Γ m2  (ex  m1 )  L Σ  toto  Ga.c . 9 ratione  E ante  mortale  add . et  CEGHLPR, om .  N Q   cum Porph. p. 11, 16  homo est om.  N ,  ex  homine  Δ m2  11 differentiam  HN  12 praedicaretur  HN causis  Em1 post  cur  add . autem  Hm1, del. m2  qualitas speciei  H  13 omnis  ELm2N  uel  om. EGR  14 consistit  Ea.c.HLm2  subsistit  N  15 sortitur  HLm2N  ex  om. CEGR  formaque] et forma  P   omnia quaecumque sunt corporalia; nisi enim sit subiectum corpus quod suscipiat formam, nihil omnino esse potest, si enim lapides non fuissent, muri parietesque non essent, si lignum non fuisset, omnino nec mensa quidem, quae ex ligni materia est, esse potuisset, igitur supposita materia ac prae-  iacente cum in ipsam figura superuenerit, fit quaelibet illa res corporea ex materia formaque subsistens, ut Achillis statua ex aeris materia et ipsius Achillis figura perficitur, atque ea quidem quae corporea sunt, manifestum est ex materia for- maque subsistere, ea uero quae sunt incorporalia, ad simili-  tudinem materiae atque formae habent suppositas priores antiquioresque naturas, super quas differentiae uenientes effi- ciunt aliquid quod eodem modo sicut corpus tamquam ex materia ac figura consistere uideatur, ut in genere ac specie additis generi differentiis species effecta est. ut igitur est in  Achillis statua aes quidem materia, forma uero Achillis qua- litas et quaedam figura, ex quibus efficitur Achillis statua, quae subiecta sensibus capitur, ita etiam in specie, quod est homo, materia quidem eius genus est, quod est animal, cui superueniens qualitas rationalis animal rationale, id est speciem  fecit, igitur speciei materia quaedam est genus, forma uero et quasi qualitas differentia, quod est igitur in statua aes, hoc est in specie genus, quod in statua figura conformans, id in specie differentia, quod in statua ipsa statua, quae ex aere  2 potest] putem  G putemus  R  4 nec  om. Gm1  ne  EGm2L  5 ma- teria est] fit materia  HNP ante  igitur  add . si  E ,  sed del . 6 in  om. R  ipsa  ER  figuram  Hm1La.r . peruenerit  HN  9 corpo- ralia  HNP  ex  om. C  11 prioris  Em1G  12 antiquiorisque  G  13 tamquam  om. CLP, del. Hm2  ex] ea  GL (in ras. m2) R 14 materia ac figura]  brm  materia  (in ras. Lm2)  forma ac figura (ac figura  del. Lm2 )  LP forma ac figura  CEGHRp  figura ac forma  N  15 generi] generis  EG  16 aes—statua  (17) om. N materiae  G  17 et quae- dam—statua]  CH, om. Lm1  ( in mg . et quaedam figura  m2 )  P  statua (cet. om.) EGR  18 quod] quae  edd . 22 et  om. EGR, s. l. Lm2  quali- tatis  R  igitur est (est  s. l. Pm2 )  HNP  23 figura] forma  N  24  post  quod  add . est igitur  Pm2   figuraque conformatur, id in specie ipsa species, quae ex genere differentiaque coniungitur. quodsi materia quidem speciei genus est, forma autem differentia, omnis uero forma qualitas est, iure omnis differentia qualitas appellatur, quae cum ita  sint, iure in eo quod quale sit interrogantibus respondetur.  Describunt autem huiusmodi differentias et hoc modo: differentia est quod) aptum natum est diuidere  p. 89  quae sub eodem sunt genere; rationale enim et in- rationale hominem et equum, quae sub eodem sunt  genere, quod est animal, diuidunt.    Haec quidem definitio cum sit usitata atque ante oculos exposita, eam tamen plenius dilucideque declarauit. omnes enim differentiae idcirco differentiae nuncupantur, quia species a se differre faciunt, quas unum genus includit, ut homo atque  equus propriis discrepant differentiis; nam sicut homo animal est, ita etiam equus, ergo secundum genus nullo modo distant.  6—10] Porph. p. 11, 18—20 (Boeth. p. 37, 18—38, 1).   1 formatur  CHNP  2 quidem] quaedam  CHLm2PR  3 autem] nero  N uero] ergo  Lm1  autem  N  qualitas]  HNPm1  qualia  CEGLR  uel qualis  s. l. Pm2  5  ante respondetur  excidisse  differentia  coni. Brandt  6  post  autem  add . et  L (del.) R; Porph. p. 11, 18 post   8e   add . *αί   cod. B  differentias]  Em2GHPm1 xV  differentiam  CLPm2   ΓΛΑΙIΣΦ differentia  Em1NR; Porph ,.  τάς τοιούτας διαφοράς  et]  LPR i ,  om. cett.; Porph. *a\ οοτως  7 qua  CG  actum  R  natura]  HL   (del. m2)   ΓΑΛΠΦ   om. cett.; Porph. p. 11, 19   πεφοχος;   cf. infra p. 272, 5—9. 275, 12  8 ante quae add. ea  Γ2 ,  s. l.   A m2 ,  del. m. al. , illa  s. l.   Δ m2  genere sunt  ΣΑΨ  rationale—sunt genere  om. EG  9 et equum] equnmque  C  10 diuidit  L  11 cum—oculos  in mg. E  sit usitata] sita sit situr  (sic) Em1  ita sit  m2  situ sit sita  G  ante  om. HNR, s. l. Lm2 oculis  HN  12 post exposita add. superius  R  ea  GNR  plenius dilucideque declarauit] (claruit  Em1Gm1 )  CEm2Gm2  plenius dilucideque declarauit  L  plenius lucidinsque declarauit  Hm2 plenius dilucidiusque claruit  R  exempli insuper luce declarauit ( ex  decla- ruit  N )  NP  plenius dilucideque exempli insuper luce declarauit  Hm1  exempli insuper luce reserauit  edd . 13 species ase differre] specie ( ex  specierum,  sequ. rasura ) differentiam  E  species in aere differentiam  G  species ase differentiae  Lm1  14 a] ad  R  concludit  N  15 nam  in ras. Lm2  sed  EG   quae igitur secundum genus minime discrepant, ea differentiis distribuuntur, additum enim rationale quidem homini, inratio- nale uero equo equus atque homo, quae sub eodem fuerant genere, distribuuntur et discrepant, additis scilicet differentiis.   Adsignant autem etiam hoc modo : differentia  est qua differunt a se singula; nam secundum genus non differunt, sumus enim mortalia animalia et nos et inrationabilia, sed additum rationabile separauit nos ab illis, et rationabiles sumus et nos et dii, sed mortale adpositum disiunxit nos ab illis.   Vitiosa ratione et non sana quod uult explicat definitio quorundam. id enim esse dicunt differentiam qua una quaeque res ab alia distet, in qua definitione nihil interest quod ita dixit an ita concluserit : differentia est id quod est differentia, etenim differentiae nomine in eiusdem differentiae usus est  5—10] Porph. p. 11, 21—12, 1 (Boeth. p. 38, 1—5).   2 describuntur  EG  3  post  equo  distinguunt edd., post  equus  expec- tatur  igitur’  Schepps , additum  eqs. nominatiuum absolut .  (cf. indicem Meiseri) interpretatur Brandt  qui  Lm2P  5 autem  om .  \,   del. Lm2 A. m2  etiam  om. H  etiam et  Λ  eam et  Ν Σ ;  Porph. p. 11, 21   St καί  6 qua]  Porph.   διαφορά έσχιν δχψ διαφέρει έκασχα;  ‘an quo?’  Busse, sed cf. infra p. 271, 1.7. 18. 272, 17 . 6 nam—ab illis  (9) ]  LR Q ,  om. cett. post  nam  add . homo et equus  cum Porph. edd. (cf. etiam infra p. 271, 9. 12, sed etiam supra p. 269, 9) ,  etiam Bussio  homo atque equus  addendum uid . 7 enim] autem  Γ  8 inrationalia ( uel  irr-)  R ?ΓΠ   (in ras.)  ros.  ex  -bilia  Δ  sed—illis  (9)   om. R  ratio- nabile]  p.r   rationale  \ a.r. et cett . separauit] disiunxit  ΓΦ  9 et]  CHP, s. l. er. uid.   Δ ,  om. cett . rationabiles]  L \ m1 2  rationale  CP  rationales  cett., add . enim  ΕGΗ ΑίΙΦΨ ;  codd. Porph. aut   λογικοί  aut  λογικά  sumus  om. CEGHP; Porph .  έσμέν  et nos  om. E  et  om. N di  C  dei  ut uid   . 2 sed—ab illis  om. EG  11  ante  Vitiosa  in ras.  Haec  E  ratione]  L edd., om. cett. (recte?), in ras . est  E  et  om. G  sane  E (in ras.) NP  explicans  HNP  non  (s. l. m2)  explicat  L  12 id]  cf. p. 263, 10  13 aliis  R  distat  HN  differt  P  14 dixerit  Lm2P  an] utrum  R  concluderit  L  concludat  EGR  id quod est  om. E ante  differentia  add . ipsa  ER  differentia  om. G  15 etenim om. EGR  differentiae nomine] qua differt una res ab alia, id est id quod est differentia est differentia. Differentiae nomine fid est—nomine  in ras. m2) E  in—definitione] usus in eius diffinitione  N   definitione dicens : differentia est qua differunt a se singula, quodsi adhuc differentia nescitur, nisi definitione clarescat, differre quoque quid sit qui poterimus agnoscere? ita nihil amplius attulit ad agnitionem qui differentiae nomine  in eiusdem usus est definitione, est autem communis et uaga nec includens substantiales differentias, sed quaslibet etiam accidentes hoc modo : differentia est qua a se differunt singula; quae enim genere eadem sunt, differentia discrepant, ut cum homo atque equus idem sint in animalis genere,  quoniam utraque sunt animalia, differunt tamen differentia rationali, et cum dii atque homines sub rationalitate sint positi, differunt mortalitate, rationale igitur hominis ad equum differentia est, mortale hominis ad deum, atque hoc quidem modo substantiales differentiae colliguntur, quodsi Socrates  sedeat, Plato uero ambulet, erit differentia ambulatio uel sessio, quae substantialis non est. namque istam quoque dif- ferentiam definitio uidetur includere, cum dicit : differentia est qua differunt singula; quocumque enim Socrates a Platone distiterit nullo autem alio distare nisi accidentibus  potest —, id erit differentia secundum superioris terminum definitionis, quam rem scilicet uiderunt etiam hi qui definitionis huius uagum communemque finem reprehendentes certae con- clusionis terminum subiecerunt.  2 nesciatur  Lm2  (non noscitur  m1) P  definitione] in definitione  N  3 qui]  LN  quomodo CEGPR qui *  (d  er.) H  possemus  EG  possi- mus  R  4 ita  om. EGR  cognitionem  NPm2, post  agnitionem  add.  a cogitatione  Hm1, del. m2, s. l.  uel cognitione  m2, del. m. al.  set  om. EG  7 accidentales  Lm2Pm2  9 sunt  EGHLm1R  in  om. GNR  11 et  om. EGR  rationabilitate  CGLm1  rationale  N sunt  CEGLm1R  12 positi] post  EG  post differunt  add.  tamen  L  rationabile  L  13 est  om. C  15 ambulatio uel  om. EG, s. l. Lm2  16 nam  HLm1  ista  E  18 quo  EGHm1 post  differunt  add.  a se  R  cumque  EG  quoque  Rm1  quocumque modo  P post  enim  s. l.  modo  Lm2  19 de- stiterit  CEm1HPRm2  distauerit  m1 post  alio  s. l.  modo  Em2  ac- cidentibus] ex accidentibus  P    Interius autem perscrutantes de differentia dicunt, non quodlibet eorum quae sub eodem sunt genere diuidentium esse differentiam, sed quod ad esse conducit et quod eius quod est esse rei pars est; neque enim quod aptum natum est nauigare erit homi-  nis differentia, etsi proprium sit hominis, dicimus enim ‘animalium haec quidem apta nata sunt ad naui- gandum, illa uero minime’, diuidentes ab aliis, sed aptum natum esse ad nauigandum non erat comple- tiuum substantiae nec eius pars, sed aptitudo quae-  dam eius est, idcirco, quoniam non est talis quales sunt quae specificae dicuntur differentiae, erunt igitur specificae differentiae quaecumque alteram faciunt speciem et quaecumque in eo quod quale est acci- piuntur. — Et de differentiis quidem ista sufficiunt.   Sensus propositionis huiusmodi est. quoniam superius dixit determinasse quosdam differentiam esse qua a se singula dis-  p. 90  creparent, ait alios diligentius de differentia | perscrutantes non  1—15] Porph. p. 12, 1-11 (Boeth. p. 38, 6—17). 1 perscrutantes]  EGHP  perscrutantes et speculantes  cett.; Porph.   p. 12, 1   προσεξεργοζόμενοι de differentia]  CH (linea del., sed lin. er.)   Σ  differentiam  cett. edd. Busse; Porph. p. 12, 1   τά περί τής διαφοράς  2 non] non solum  R , quodlibet] quod habet  ELm1 h m1 X ,  post  quod- libet  er.  habet  23  diuidentium esse  om.   X ,  s. l. Lm2  sed quod— dicuntur differentiae  (12) ]  LR Q ,  om. cett.  5 aptum] actu  R  natum  om. LR; Porph. p. 12, 4   τδ πεφοχέναι πλεΐν  6 dicimus]  Porph. p. 12,  5  εΐποιμεν γάρ dv ,  unde  dicemus  coni. Brandt, cf. supra p. 230, 18. 19;   infra 12 erunt  ειεν άν ;  p. 234, 16.  (erit). 17.  235, 2  (erunt) 7 ani- malia  A  acta  Rm1  nata  om. LR  8 aliis] illis  A  9 actum  Rm1  natum  om. R  est  R  erit  h m2  10 neque  Busse  11 est  om. R  quoniam  om. LR  12 quae  om.   Φ  igitur] ergo  L  13 alteram— quaecumque  om. H  14 et] ea  EG  quale  in er.  quid  ut uid.  Hm2 quid  EG post est add.  esse  EG  accipiunt  EG  15 Et—sufficiunt  om. N  Et  om. CEGP; Porph. 12,11   Καί  de  om. EG A  diffe- rentiis]  Porph.   περί μίν διαφοράς  quidem  om. H  sufficiant  CL X m2;   Porph.   άρχει  18 alios] ilico  EGLa.c.  ilico alios  P  de differentia] differentiam  CLm1P   fuisse arbitratos recte esse superius propositam definitionem, neque enim omnia quaecumque sub eodem posita genere dif- ferre faciunt, differentiae hae de quibus nunc tractatur, id est specificae, numerari queunt, plura enim sunt quae ita diuidunt  species sub uno genere positas, ut tamen eorum substantiam minime conforment, quia non uidentur esse differentiae speci- ficae nisi illae tantum quae ad id quod est esse proficiunt et quae in definitionis alicuius parte ponuntur, hae autem sunt ut rationale hominis, nam et substantiam hominis conformat  et ad esse hominis proficit et definitionis eius pars est. ergo nisi ad id quod est esse conducit et eius quod est esse rei pars sit, specifica differentia nullo modo poterit nuncupari, quid est autem esse rei? nihil est aliud nisi definitio, uni cuique enim rei interrogatae ‘quid est?’ si quis quod est esse  monstrare uoluierit, definitionem dicit, ergo si qua definitionis pars fuerit, eius erit pars quae unius cuiusque rei quid esse sit designet, definitio est quidem quae quid una quaeque res  1 positam  EG  2 posita] posita sunt  EGL post genere add.  quae  Lm1, del. m2  3 differentiae—id est  om. CN  hae  om. H  id est  om. R, er. uid. H, s. l. Lm2  4 nominari HLm2NR 5 earum  H  6 quia] quae  CH  specificae  ante  esse  H, post N 7 proficiant  R  et quae] eaeque  G  eae quae  Em1, del. m2, etiam proxima  in—ponuntur  del. m2 8 in  del. Lm2, om. P  diffinitiones  N  definitionibus  EGLm1  aliqua  N  partes  EGLP post ponuntur  add.  ut mortalis rationalis  Em1, del. m2  hae] ea  EGLm2P  9 et  s. l. Lm2  et ad  G  con- format—hominis  om. EG  11 conducat  EHm2Lm2N  et eius—pars sit]  N  et eius quod ( add. quid  Rm1, del. m2 , quidem  ex  quid  Hm2 ,  del. m3 ) est esse rei pars sit (est  Hm1) HR  et eius rei quod est (est  del. Lm2 ) esse pars est (est  om. Lm1, s. l.  sit  m2) CL  et eius quod quidem esse rei pars est  P  eius rei quod quidem (aliquid  add. E) EG  13 esse  om. G, ante  autem  H  nihil  del. Em2  est  s. l. Lm2Rm2  esse  E (del. m2) G  unius cuiusque  R  14 interrogatae] ad inter- rogationem  CHN  quis] quid  Lm2  quod] id quod  CHNP  15 qua] quid  CHN  16  post  eius  s. l. rei  Lm2  quae] quod  HLm1N  quid] quod  N  sit esse  L  esse fit  G  est esse  Hm1N  17 designat Lm2P  significet  Hm1N  est quidem] enim est  HN  quae quid] quia  N   sit, ostendit ac profert, demonstraturque quid uni cuique rei sit esse per definitionis adsignationem. illae uero differentiae quae non ad substantiam conducunt, sed quoddam quasi extrin- secus accidens afferunt, specificae non dicuntur, licet sub eodem genere positas species faciant discrepare, ut si quis hominis  atque equi hanc differentiam dicat, aptum esse ad nauigandum. homo enim aptus est ad nauigandum, equus uero minime, et cum sit equus atque homo sub eodem genere animalis, addita differentia ‘aptum esse ad nauigandum’ equum distinxit ab homine, sed aptum esse ad nauigandum non est huiusmodi,  quale quod possit hominis formare substantiam, sed tantum quandam quodammodo aptitudinem monstrat et ad faciendum aliquid uel non faciendum oportunitatem. idcirco ergo speci- fica differentia esse non dicitur, quo fit ut non omnis diffe- rentia quae sub eodem genere positas species distribuit, spe-  cifica esse possit, sed ea tantum quae ad substantiam speciei proficit et quae in parte definitionis accipitur, concludit igitur esse specificas differentias quae alteras a se species faciunt per differentias substantiales, nam si uni cuique id est esse quodcumque substantialiter fuerit, quaecumque differentiae  substantialiter diuersae sunt, illas species quibus adsunt, omni substantia faciunt alteras ac discrepantes, atque hae in defini- tionis parte sumuntur, nam si definitio substantiam monstrat  1 ostendit  om. E  ostenditur  N  ac  er. E, om. N  profert  om. N demonstratque  CLm1  quid] quod  Lm1Pm1R  quidem quid  N  2 per  om. EGR, in mg. Lm2 assignatione  EG  3 ad  om. EΡ  quasi  om. EGPR  5 faciant  om. EG  facient  CLm1Rm1  7 homo enim (autem  LR )—equus]  HLNR  hominem equum  (cet, om.) CEGP  10 esse ad—sed tantum  (11) om. EG  11 quale  om. EGR, del. Lm2 ante  quod (quid  P )  add.  per  L   (del. m2), s. l. Pm2 post  substantiam  add.  sicut rationale quae est substantialis qualitas  C  12 habitudinem  Hm1  13 opportunitatem  CR  differentia specifica  C  18  ante  esse  add.  eas  HΝΡ, s. l. Lm2  quae—differentias  om. EGR ad  faciunt  s. l.   1  informant  Lm2  19 differentias  ex  distantias  Lm2  idem est ( in   ras. m2 ) esse  H  idem esse est  R  21 sint  Hm1  omnes  EGP  22 substantias  P  substantiae  Hm1  substantiae ratione  N   et substantiales differentiae species efficiunt, substantiales dif- ferentiae erunt partes definitionum.      Proprium uero quadrifariam diuidunt. nam et id  quod soli alicui speciei accidit, etsi non omni, ut ho- mini medicum esse uel geometrem, et quod omni accidit, etsi non soli, quemadmodum homini esse bipedem, et quod soli et omni et aliquando, ut homini in senectute canescere, quartum uero, in quo concur-  rit et soli et omni et semper, quemadmodum homini esse risibile, nam etsi non semper rideat, tamen risi- bile dicitur, non quod iam rideat, sed quod aptus natus sit; hoc autem ei semper est naturale et equo hinnibile, haec autem proprie propria perhibent esse,  3—p. 276, 2] Porph. p. 12, 12—22 (Boeth. p. 38, 18—39, 9).   1 et  om. EG, s. l. Pm2  2 erunt  post  partes  Lm2  sunt  m1  sunt  post definitionum  CGR, s. l. Em2  3 DE PROPRIO  om. H, add. Lm2  EXPLICIT DE DIFFEREN. (DIFFERENTIIS  Ψ ) INCIPIT DE PRO- PRIO  2<F  4 et  s. l. C  5 hominem  R h m1 A  6 uelut  H geo- metram  CEm1G edd. Busse  et quod—perhibent esse  (14) ]  LR  ( locum   hic om., p. 277, 7 post  adest  inserit )  Ω ,  om. cett.  omni]  Porph.   p. 12, 14   παντί—τφ εϊδει  7 etsij et  R T m1   ante homini  add.  et  R  8 homini]  Porph. p. 12, 16   όνΟ-ρώπψ παντί ,  unde  homini omni  coni.   Busse 9  post  uero add. est  Φ  in quo concurrit et  del., in mg.  conuenit  T m2  10 hominem  R Σ  11 risibilem  R ΓΣΦ ;  Porph. p. 12, 17   ώς τψ άνθρώπψ τό γελαστιχόν  non semper rideat]  L Σ  non rideat  ΓΑ  non ridet ( hic ut uid. s. l.  semper  add., sed er.   \ )  R AIIΨΨ  semper non rideat  Busse non rideat semper  edd.; Porph. p. 12, 18   χαν γάρ μή γελά αεί  risibile tamen  L Λ   edd. Busse; Porph.   άλλα γελαστιχο'ν  12 iam] semper  Σ   edd.; Porph. p. 12, 19   άεί ,  cod. Mm2   ί)Bη  rideat—natus sit  om.   Φ  13 sit natus  R, add.  ad ridendum  R ΓΑ  ridere  Σ ,  ante  sed  add.  ridendum  Φ ;  om. Porph.  semper ei est naturale  L  semper est ei naturale  Γ  ei semper naturale est  Σ   ante  et  add. ut  (om. etiam B Bussii) edd. Busse ;  Porph. p. 12, 20   ώς ,  om. cod. A  14 autem]  Porph.   81 xai ,  om.   xai   cod. A  proprie—esse]  L Λ  (esse  s. l. m2 )  Σ  (esse  om. ), proprie domi- nanterque (nominantur  T m2 ) propria perhibentur (perhibentur  del.   Γ m2 )  ΓΦ  proprie nominantur (nominant  Π ) propria  R ΔΙΙ  uere dicuntur propria  Ψ ;  Porph.   χυρίως ΐßιά φασιν   quoniam etiam conuertuntur. quicquid enim equus, hinnibile, et quicquid hinnibile, equus.    Superius dictum est omnia propria ex accidentium genere descendere, quicquid enim de aliquo praedicatur, aut substan- tiam informat aut secundum accidens inest. nihil uero est  quod cuiuslibet rei substantiam monstret nisi genus, species et differentia, genus quidem et differentia speciei, species uero indiuiduorum. quicquid ergo reliquum est, in accidentium numero ponitur, sed quoniam ipsa accidentia habent inter se aliquam differentiam, idcirco alia quidem propria, alia priore  p. 91  atque antiquiore nomine accidentia nun|cupantur. et de acci- dentibus paulo post, nunc de propriis, quae quadrifariam diui- duntur, non tamquam genus aliquod proprium in quattuor species diuidi secarique possit, sed hoc quod ait diuidunt, ita intellegendum est, tamquam si diceret ‘nuncupant’, id est  propria quadrifariam dicunt, cuius quadrifariae appellationis significationes enumerat, ut quae sit conueniens et congrua nuncupatio proprietatis ostendat, dicit ergo proprium accidens quod ita uni speciei adest, ut tamen nullo modo coaequetur ei, sed infra subsistat ac maneat, ut hominis dicitur pro-  prium medicum esse, idcirco quoniam nulli alii inesse ani-  3 superius eqs.] fort. p. 186, 12—187, 1.   1 enim equus  om. N  equus—equus]  CEGHNP U  ( sed add.  et si homo, risibile, si risibile, homo est]  cum Porph. p. 12, 21, post pr.  equus  add.  et  R A  est et  L  est etiam est et  (sic)   Φ  equus est et hinnibile est (est  s. l.   F\ m2 ) et quicquid hinnibile equus est  ΓΔ  est equus est hinni- bile et quicquid est hinnibile est equus ( quattuor  est  s. l. m2 )  Ψ  equus est hinnibile et quicquid hinnibile est equus est et si homo est risibile est et risibile homo est  2  4 alio  N  6  ante  species  add.  et  Lm1, del. m2  7 et  om. R  genus—diiferentia  om. EGR, s. l. Hm2  11  ante  antiquiore add.  in  ER  12 nunc  ex  nam  Hm2  quadrifarie  N  in quadrifariam (-um  GP )  EGP  diuidunt  H  (ur  er. )  P  (ur  del. m2 ) 13 aliquid  CPm1  14 ait  om. E  ( in mg.  dicitur  m2 )  G  est  R  diuiduntur  EG  15 nuncu- pantur  EGR  16 proprie  CEm1G  propriam  ut uid. Pm1  propriam  m2  dicuntur  EGHm1La.c.NR  quadrifariam  C  18 proprietas  Ea.c.  (proprii  p.c. )  G  dicitur  CEHLa.c. (corr. m1 et 2) P  ergo  om. C  proprium  s. l. Cm2  primum  m1  20 ei  ante  nullo  HN  ac] et  HNP dicimus  HN   malium potest, nec illud adtendimus, an hoc de omni homine praedicari possit, sed illud tantum, quod de nullo alio nisi de homine dici potest medicum esse, et haec quidem signifi- catio proprii dicitur inesse soli, etsi non omni; soli enim  speciei, etsi non omni coaequatur, ut medicina soli quidem inest homini, sed non omnibus hominibus ad scientiam ad- est. Aliud proprium est quod huic e contrario dicitur omni, etsi non soli; quod huiusmodi est, ut omnem quidem speciem contineat eamque transcendat, et quoniam quidem nihil  est sublectae speciei quod illo proprio non utatur, dicimus omni, quoniam uero transcendit in alias, dicimus non soli : hoc huiusmodi est quale homini esse bipedem, proprium est enim homini esse bipedem, omnis enim homo bipes est etiamsi non solus, aues enim bipedes sunt, geminae igitur  significationes proprii quae superius dictae sunt, habent aliquid minus, prima quidem quia non omni, secunda uero quia non soli, quas si iungimus, facimus omni et soli, sed demimus aliquid secundum tempus, si ei adiciatur aliquando, ut sit haec tertia proprii nuncupatio ‘omni et soli, sed aliquando’,  ut est in senectute canescere uel in iuuentute pubescere; omni enim homini adest in iuuentute pubescere, in senectute canescere, et soli, pubescere enim solius hominis est, sed ali-  1 hoc  om. EG  homini  EN  2 quod] quia  HN  nisi de homine  post  esse  N  3 medicus  Hm1N  4 inesse]  CP, s. l. Hm2Lm2, om.   EGR  inest  N  etiamsi  Em2  (et  m1 )  Hm1LR  5 etiamsi  EHm1L  ( repet, post  inest)  PR  coaequetur  Em2Hm1 ante medicina  add.  homini  H   (del. m2) LNR  6 homini  om.   NR, s. l. Hm2  adest] adesse potest  CLN potest esse  H; de R cf. ad p. 275, 6  7 est  ante  aliud  HN, post   CG, om. E  8 etiamsi  HLNR  quid  HN  10 quod illo—non soli  in   inf. mg. Em2 post  dicimus  add.  enim  C  11 aliis  Em2G  12 hoc] id  N   post  quale  add.  est  s. l. Hm2, post  homini  CG  13 hominis  R, post  homini  add.  proprium  Em2  enim  in mg. Em2  14 etiamsi—geminae  om.   EGR  17 sed  Hm2  si  m1  demimus]  HN deminus  Cm1   i  demimus  ί  deest minus  m2  dempsimus  R  dedimus  Em1  (addimus  m2 )  G  deest minus  LP  18 eis  HLP  ei  post  adiciatur  N  19 omni et soli] et soli et omni  C  sed] si  G  21  post. in] et in  HN  22 est hominis  HN   quando, neque enim omni tempore, sed in sola tantum iuuen- tute. haec igitur determinatio proprii in eo quidem modo quod omni et soli inest, absoluta est, sed ex eo minuit aliquid uel contrahit, cum dicimus aliquando, quod si auferamus, fit pro- prii integra simplexque significatio hoc modo : proprium est  quod omni et soli et semper adest, omni autem et soli speciei et semper intellegendum est ut homini risibile, equo hinnibile; omnis enim et solus homo risibilis est et semper. neque illud nos ulla dubitatione perturbet, quod semper homo non rideat; non enim ridere est proprium hominis, sed esse  risibile, quod non in actu, sed in potestate consistit, ergo etiamsi non rideat, quia ridere tamen posse soli et omni homini semper adesse dicitur, conuenienter proprium nuncupatur, nam si actus separatur ab specie, potestas nulla ratione disiungitur.   Quattuor igitur significationes proprii dixit, nam prima  quidem, quando accidens ita subiectae speciei adest, ut soli ei adsit, etiamsi non omni, ut homini medicina; secunda uero,  1 in  om. EGR, s. l. L, post  tantnm  P  tamen  L post iunentnte  add.  pubescit  N  2  post  proprii  add.  integra simplexque significatio  GHP (del. m1? ex 5)  in eo—fit proprii  (4) om. R  modo  om.   N, del. Lm2  3 inest  om. EG  est  Lm1  minus  La.c. minui  N  minuens  P  aliquid uel] atque significationem  in ras. Em2  uel]  CNP  et  GL, om. ΕH  4 quod] quam  N  5 simplexque] et simplex  HLNR  proprii  R  6 soli et omni  N secund.  et  om. GLR,   s. l. Pm2  omni autem—intellegendum est  om. Rbrm  7 et semper  om. EGR, del. Lm2, s. l. Hm2Pm2  intellegendum est  del. et s. l.  adest  scr. Hm2, in mg.  quod soli et omni adest  m. al. 8  post.  et  om. EGPR   post  semper  add.  similiter et equus hinnibile  brm  9 illud  Hm2  enim Hm1N  10 proprium est  NPR  sed] si est  R  esse  del. Lm2  est  R  11 sed] si  R  12 si non rideat etiam  C  quia  om. N, s. l. Hm2  tamen  om. R  autem  HN  possit  La.c.N  potest  Em2 post  omni  add.  adsit  H (del. m2)  adest  N  13  ante  semper  s. l. et Hm2  semper  om. R ante  conuenienter  add.  et  H (er.) L (del. m2) NP  14 si] etsi  Hm1Lm1N  separetur  Em2  a  C  15 proprii  om. EG nam prima] unam  CHm1  (primam  m2) N  nam  (s. l.)  primam  P  17 homini medicina] hominem esse medicum  C  secundam  CHN; in mg . ał. se- cunda autem cum omni accidit etsi non soli ut homini esse bipedem  add. L  uero] autem  CL (in mg.)   cum soli quidem non adest, omni uero semper adiungitur, ut homini esse bipedem; tertia uero, cum omni et soli, sed ali- quando, ut omni homini in iuuentute pubescere; quarta, cum omni et soli et semper adest, ut esse risibile, atque ideo  cetera quidem conuerti non possunt : neque enim coaequatur quod soli, sed non omni speciei adest, species quidem de ipso dici potest, ipsum uero de specie minime, qui enim medicus est, potest dici homo, homo uero qui est, medicus esse non dicitur, rursus quod ita est alii proprium, ut omni adsit  etiamsi non soli, ipsum quidem de specie praedicari potest, species uero de eo minime, nam bipes praedicari de homine potest, homo uero de bipede nullo modo, rursus quod ita adest, ut omni et soli, sed aliquando adsit, quoniam de tem- pore habet aliquid deminutum nec simpliciter semper adest,  reciprocari non poterit, possumus enim dicere ‘omnis qui pubescit homo est’, non ‘omnis homo pubescit’: potest enim minime ad iuuentutem uenire atque ideo nec pubescere; nisi forte non sit pubescere hominis proprium, sed in iuuentute pubescere, aut, etiam cum nondum est in iuuentute aut etiam praeteriit, tamen  sit ei proprium non tale quale tunc fieri possit, cum praeter iuuen- tutem est, sed quale cum in iuuentute consistit, atque ideo hoc  1 cum] quae  N  soli—adiungitur  del. Hm2 omni accidit etsi non soli  CHm2L  semper  s. l. Hm2  2 hominem  C  tertiam  CHN  soli et omni  N  3 omnio  m. LNR  homini  om. N  quartam  CG (sic) HN  4  post.  et  om. EG, add. Pm2  inest  CHm1N  ideo  om. E  adeo  HLR  5 coaequantur  HN  6 quodj quia cum  Hm1N  non omni sed soli  N  sed] si  R  7 qui enim—dici homo  om. EGR  8 homo dici  C  9  ad  alii  s. l.  a t  illud  L, post add. una pars  R  11 de homine praedicari  C  13 adest  ex  est  Em2  distat  Hm1  assit  ex  sit  Hm2  14 diminutum  EN  nec] et  Hm1  16 non] non tamen dicimus  L  homo] qui est homo  L  qui homo est (qui  et  est  s. l. m2) H  18  ante  sed  add.  solummodo  Hm2, ante  in  CN, post post.  pubescere  L  aut]  Hm2La.c.Pm2  ut  EGHm1Lp.c.Pm1R  autem  CN  19 cum]  Hm1NR  quod  CEGHm2LP etiam  s. l. Hm2  iam  Em1  20 sit] adsit  CHN  ei  om. G  fieri  om. C, in ras. Lm2  fieri possit  del., est  s. l. scr.   Hm2  potest  L   (in ras. m2) P  est  C  21  post  quale  add.  tunc fieri potest (posset  CHLm1N) CH (s. l. m2) LNP   quod non in omne tempus tenditur, etiamsi tale est, ut omni  p. 92  speciei adsit, quod ta|men in tempus aliquod differatur, integrum atque absolutum proprium esse non dicitur, quartum est quod ita alicui adest, ut et solam teneat speciem et omni adsit et absolutum sit a temporis condicione, ut risibile quod a supe-  riore plurimum distat; nam qui risibilis est, semper ridere potest, rursus qui potest in iuuentute pubescere, cum ipsa iuuentus non sit semper, non ei adest semper ut in iuuentute pubescat, haec autem quarta proprii significatio quoniam nulla temporis definitione constringitur, absoluta est atque ideo  etiam conuertitur et de se inuicem proprium atque species praedicantur; homo enim risibilis est et risibile homo.      Accidens uero est quod adest et abest praeter sub- iecti corruptionem, diuiditur autem in duo, in separa-  bile et in inseparabile, namque dormire est separabile accidens, nigrum uero esse inseparabiliter coruo et Aethiopi accidit, potest autem subintellegi et coruus albus et Aethiops amittens colorem praeter subiecti corruptionem, definitur autem sic quoque; accidens est  13—p. 281, 7] Porph. p. 12, 23—13, 8 (Boeth. p. 39, 10—21).   1 quod] quia  HN  2 speciei] tempori  EGR  aliquid  C  4 alicui  om. EG, del. Hm2  ali  R  alii  Lm1 pr.  et  om. EGLR post.  et] ut  La.c.R  5  post.  a  s. l. Hm2  6 qui  ex  quod  Lm2  7  ante  cum  add.  sed  CH (del. m2) NP, s. l. Lm2  8 adest] est  EGR  in iuuentute  deleri uult Hilgard  9 quoniam] quam  EGLm2P  10 definitio ( uel  difd–)  EGLm2R  constringit  EG  11 et de se] et ideo de se  P  de se  om. R  De specie  EG  12 risibile  C  et  om. EGHR  13  inscript.   om. HL K ACCIDENTE  ΝR ΔΣ  14 uero  om.   A  15 diuiditur—sub- sistens  (p. 281, 3) ]  LR Q ,  om. cett. duobus  L  16 in  om.   Φ  nam  A   Busse  19 amittens colorem]  A m1 T"  nitens colore c ett. edd. Busse;   Porph. p. 13, 2   άποβαλών τήν χροιάν;   cf. supra p. 101, 13  corruptionem subiecti  LR ϋίΓΦ ;  codd. Porph.   φθοράς   aut ante   τοΰ υποκειμένου   aut post;   cf. infra p. 281, 17. 282, 3. 8  20 definitur]  Porph. p. 13, 3   ορίζονται   quod contingit eidem esse et non esse, uel quod neque genus neque differentia neque species neque pro- prium, semper autem est in subiecto subsistens.    Omnibus igitur determinatis quae proposita sunt,  dico autem genere, specie, differentia, proprio, acci- denti, dicendum est quae eis communia adsint et quae propria.  Quouiam, ut superius dictum est, quae de aliquo praedi- cantur, uel substantialiter uel accidentaliter dicuntur cumque  ea quae substantialiter praedicantur, eius de quo dicuntur substantiam definitionemque contineant et sint eo antiquiora atque maiora, quod ex substantialibus praedicatis efficiuntur, cum ea quae substantialiter dicuntur pereunt, necesse est ut simul etiam ea interimantur quorum naturam substantiamque  formabant, quae cum ita sint, necesse est ut quae accidenter dicuntur, quoniam substantiam minime informant, et adesse et abesse possint praeter subiecti corruptionem, ea enim tan- tum cum absunt subiectum corrumpere poterunt, quae effi- ciunt atque conformant quae sunt substantialia, quae uero  8 superius] p. 276, 4.   1 contigit - R A   ante pr. esse add. et R, s. l.   \ m2; om. Porph.   p. 13, 4 post.  et] uel  L  ( post  uel  littera er. )  edd.; Porph.   η ,  codd. CM   nat  2  post  genus  s. l. est A m2  neque species neque differentia  ΔΔΣ  edd.  Busse; Porph.   οοτε διαφορά οϋτε είδος   post proprium  add.  sit  LR  3 consistens  Λ  4 praeposita  Δ m1  5 dico—accidenti  om.   Γ  propria  Φ proprio et  L ΔΑΣ  accidente  H  et accidenti  L A m2  (et accidente  m1 )  ΛΣ  de accidenti  EG  6 eis] his  CHP  hiis  Φ  uel his  R ,  om. EG;   Porph. p. 13, 7   αΰτοϊς  adsint] sint  R  sunt  L Λ m1 ηιΙΧΣ ;  Porph.   πρδσεοτιν  et  om. G  7  post  propria  add.  EXPLICIT DE GENERE SPECIE DIF- FERENTIA PROPRIO ACCIDENTE  Σ  8 ut  om. EG  alio  CEGR  9 accidentialiter  CP accidenter  HR  dicuntur] praedicantur  R  cum  EG  11 definitione  EG  maiora atque antiquiora  C 12 quod] quia  R  substantialiter  CN  efficitur  CHm2LN  13 cumque  N ,  post  cum  s. l.  accidenter  E  intireunt  P  15  an  informabant? acci- dentaliter  Lm2  16 et  om. EGR, s. l. Lm2  abesse et adesse  H  17 possunt  N  tantum enim  C  18 perrumpere  E  potuerunt  LR  19 informant  HN   non efficiunt substantiam, ut accidentia, ea cum adsunt uel absunt, nec informant substantiam nec corrumpunt, est igitur accidens quod adest et abest praeter subiecti corruptionem, id autem diuiditur in duas partes, accidentis enim aliud est separabile, aliud inseparabile, separabile quidem dormire, sedere,  inseparabile uero ut Aethiopi atque coruo color niger. in qua re talis oritur dubitatio. ita enim est definitum : accidens est quod adesse et abesse possit praeter subiecti corruptionem. idem tamen accidens aliquando inseparabile dicitur; quod si inseparabile est, abesse non poterit, frustra igitur positum est  accidens esse quod adesse et abesse possit, cum sint quaedam accidentia quae a subiecto non ualeant separari, sed fit saepe ut quae actu disiungi non ualeant, mente et cogitatione sepa- rentur. sed si animi ratione disiunctae qualitates a subiectis non ea perimunt, sed in sua substantia permanent atque per-  durant, accidentes esse intelleguntur, age igitur, quoniam Aethiopi color niger auferri non potest, animo eum atque cogitatione separemus, erit igitur color albus Aethiopi, num idcirco species consumpta sit? minime, item etiam coruus, si ab eo colorem nigrum imaginatione separemus, permanet tamen  auis nec interit species, ergo quod dictum est et adesse et abesse, non re, sed animo intellegendum est. alioquin et sub- stantialia, quae omnino separari non possunt, si animo et cogi- tatione disiungimus, ut si ab homine rationabilitatem auferamus  1 cum—absunt] uel cum adsunt uel cum absunt  H  uel cum absunt uel cum adsunt  N  cum uel (uel  s. l. m2 ) absunt uel adsunt  L; ante  assunt  (sic) add.  uel  P  3  ante  adest  add.  et  P  4 dinidunt  EGLR  accidens  edd.  aliud est enim  H  5  ante  dormire  add.  ut  brm  6 ut  om. HR edd.  7 dubietas  CEG (recte?) post.  est  add. Hm2  8 et] uel  N  potest  CL  9 dicit  EG  11 abesse-et adesse  E  12 ab  CRm1  14 animi] hac  C  15 eas  EGN  permaneant  G  ac  R  16 acciden- ter  CG  intellegantur  Em1 igitur] enim  HN  17 eum  om. G, ante  separemus  C , uero  E  atque] et  HLNPR  18 num  ex  non  Rm2  19 consumptae (consumpta  R ) sunt  EGLR edd.  ita  CEP  20 imagine  EGR  21 interiit  Lm1PR pr. et om. EGR, s. l. Lm2  22 et  om. CEG  23 si] saepe  Hm1LNP  2t rationalitatem  P   — quam licet actu separare non possumus, tamen animi imaginatione disiungimus —, statim perit hominis species, quod idem in accidentibus non fit: sublato enim accidenti cogitatione species manet. Est alia quoque accidentis defi-  ni|tio ceterorum omnium priuatione, ut id dicatur esse acci-  p. 93  dens quod neque genus sit neque species nec differentia nec proprium; quae definitio plurimum uaga est ualdeque communis. sic enim etiam genus definiri potest, quod neque species neque differentia nec proprium sit nec accidens, eodemque modo  species ac differentia et proprium, cum autem eadem simili- tudine definitionis plura definiri queant, non est terminans et circumclusa descriptio, praesertim cum longe sit a definitionis integritate seiunctum quod cuiuslibet rei formam aliarum rerum negatione demonstrat.    Quibus omnibus expeditis, id est genere, specie, differentia. proprio atque accidenti, descriptisque eorum terminis quantum postulabat institutionis breuitas, ea ipsa communiter pertrac- tanda persequitur, ut quas inter se habeant differentias haec quinque, de quibus superius disputatum est, quas uero com-  muniones, mediocri consideratione demonstret, ut non solum  1 separari  EG  possimus  EL post  tamen  add.  si  L, s. l. Hm2Pm2  2 imaginatione] cogitatione  N  statimque  C  (q.  er. )  H  (q.  del. m2) N  periit  PR  3 item  CHm1  sit  EN (ut uid.)  sublata  EGR  enim  s. l. Cm2 accidenti  om. EGR, post  cogitatione  N  4  ante  cogitatione  er.  et  C  quoque  om. EGP (sic) accidentis  om. C, post  definitio  R  5  ad  priuatione  s. l.  quae fit per priuantiam  Em2  id  om. EG dicat  EGR  6 fit  C  neque differentia neque proprium  LNR  8 enim  om. NR  nec ( ante differentia)  CH  9 neque  NR  sit  om. L,   post  accidens  R  neque  N  10 proprio  HPm1  11 plurima  L  queunt  EGLm1R  termino  Ep.c.R  et  om. EGR  12 ab  LR  ac  G  13 negatione rerum  E  14 demonstret  N  15  post  genere  add.  quidem  CP  16  ante  proprio  add.  et  H ante  quantum  add.  et  PR, s. l. Lm2  17  post  breuitas  repet.  expeditis  PR,   s. l. Em2  pertractanda  om. C  retractanda  HNP  18  ante  quas  s. l.  quia  Em2  19 de quibus  om. E  disputandum  G  quas nero] quasue  CL   quid ipsa sint, uerum etiam quemadmodum inter se compa- rentur, appareat.    1 quid]  H, m2 in CLP  quod  NPm1  quae  Cm1EGLm1R  compa- rantur  E  2 ANICII MALLII SEVERINI BOETII  ( BOETI  E)  V. C.ET I LL . (EXINI  sic E ) EXCONS. ORDINAR. PATRICII IN ISAGOGAS PORPHYRII  ( Y  ex  I  Gm2)  ID EST INTRODVCTIONEM IN CATE- GORIAS A SE TRANSLA.  (sic EG)  EDITIONIS SECVNDAE LIBER IIII. EXPL.  ( EXPLICIT’  E) . INCIPIT LIBER V.  EG ; EXPLICIT LIBER  ( LIBER  om. C)  QVARTVS. INCIPIT LIBER  ( LIBER  om. HN)  QVINTVS  CHLNP, add.  DE COMMVNIBVS GENRIS. DIFFER. SPEC. ACCID. ET PROPI  N ; EXPLICIT LIBER QVARTVS  R     Expeditis per se omnibus quae proposuit et quantum in unius cuiusque consideratione poterat, ad scientiae terminum breuiter adductis nunc iam non de singulorum natura, id est  uel generis uel differentiae uel speciei uel proprii uel acci- dentis, sed de ad se inuicem relatione pertractat, nam qui communiones ac differentias rerum colligit, non ut sunt per se res illae considerat, sed ut ad alias comparentur, id autem duplici modo, uel similitudine, dum communitates sectatur,  uel dissimilitudine, dum differentias, quae cum ita sint, nos quoque, ut adhuc fecimus, propter planiorem intellectum philosophi uestigia persequentes ordiemur de his communio- nibus quae adsunt generi et speciei et differentiae uel proprio et accidenti.    Commune quidem omnibus est de pluribus praedi-  15—p. 286, 18] Porph. p. 13, 9-21 (Boeth. p. 40, 1—16).   3 cuiuscumqne  C  considerationem  Ea.r.G  4 id est  om. N, add.   Rm2  5  pr . uel  om. P secund.  uel] et  P  6 nam quia  R  namque  Hm1N  7 sunt. om. C  8 ille  GLNP, post  illae  s. l. sint  Cm2  ut  om. R  ad  s. l. LRm2 post  alias  add.  qualiter  CHPR, s. l. Lm2  comparantur  EGHm2, recte? cf.p. 284, 1 post  autem  s. l.  fit  Cm2L,   in mg. Em2, post  duplici  s. l. Pm2  9 dum—dum  om. EG  sectatur] retractat  R  retractantur  L  (n  del., s. l. a i  sectatur]  P  10 differentiae  La.c.P  uel differentia  EG  11  ad  adhuc  s. l.  id est (uel  G ) hac tenus  EGm2  12 his] his omnibus  R  communibus  EGR  13  utrumque  et  om.   EGLR  uel  om. R  et  NP  14 et] uel  EGL atque  R  15  ante  Commune  add. inscriptionem  DE COMMVNIBVS GENERIS (ET  add.   ΔΠ ] SPECIEI DIFFERENTIAE PROPRII ET ACCIDENTIS  ΛΠ   Busse,   N in subscript. libri IV cum alio ordine uerborum,  DE HIS (HIIS  Φ ) COMMVNIBVS QVAE ASSVNT (sunt  A ) GENERI ET SPECIEI (ET SPECIEI  om.   T ) ET DIFFERENTIAE ET PROPRIO ET ACCIDENTI (accidenti proprio et differentiae  A )  ΓΑ   (litt. minusc.)   Φ , INCIP. DE EORV COMVNIBVS  2  DE COMMVNITATIB; OMNIVM.  *i' ,  inscript.   om. CEGHLPR   cari, sed genus quidem de speciebus et de indiuiduis, et differentia similiter, species autem de his quae sub ipsa sunt indiuiduis, at uero proprium et de specie cuius est proprium et de his quae sub specie sunt indiuiduis, accidens autem et de speciebus et de indi-  uiduis. namque animal de equis et bobus [et canibus] praedicatur, quae sunt species, et de hoc equo et de hoc boue, quae sunt indiuidua, inrationale uero et de equis et de bobus praedicatur et de his qui sunt par- ticulares, species autem, ut homo, solum de his qui  sunt particulares praedicatur, proprium autem, quod est risibile, et de homine et de his qui sunt particu- lares, nigrum autem et de specie coruorum et de his qui sunt particulares, quod est accidens inseparabile, et moueri de homine et de equo, quod est accidens  separabile, sed principaliter quidem de indiuiduis, secundum posteriorem uero rationem de his quae continent indiuidua.    Antequam singulorum ad unum quodque habitudinem tractet, illam prius respicit quam omnes ad se inuicem habere uide-  1 sed—separabile  (16) om. HNP post.  de  om. R  2 autem] quidem  Δ  hiis  Φ ,  item 4  3  post  indiuiduis  s. l.  praedicatur  Em2  at uero —separabile  (16) om. CEG  at uero—indiuiduis  (5) om.   Σ · 4 de his  om.R  5  post.  de  om. R  6 bubus  Lm1 A  bobis  R, ante add.  de  L T  de bobus Busse  et canibus  cum Porph. p. 13, 14 om. edd., delend. uid. Bussio  7 praedicatur  post species  R pr. (sic)  de  om. R  8 inrationabile  L  et  om. Porph. p. 13, 15; ante  et  add.  similiter  R  9 de  om. R  bubus  RLm1 A  praedicatur  s. l.   \ m2  (dicitur  m1 ),  post  particulares  Λ2  quae  L TA  10 quae  R ΓΑ  11 particularia  R, add.  homines  L 4ΛΦ ;  om. Porph.   p. 13, 16  proprium—particulares  (12) om. R  quod est]  otov   Porph.   p. 13, 17  12  pr.  et  om.   L ΆΣ   Busse (casu ut uid., cf. eius adnot. ad   Porph. p. 13, 17   v-ai ),  add.   \ m2  13  pr.  et  om. Busse; Porph. p. 13, 18   τοΰ τε εΐδοος  14 qui] quae  R  15 de homine—equo  post  separabile  R  16 sed  om.   Π Σ   post principaliter  add.  accidens praedicatur  Φ ,  s. l.  accidens  Lm2  17 secundum—rationem] secundo uero  (cet. om.)   N ΛΣΦ ; secundo  etiam   T m1 ; uero  post  secundum  C  posteriore  E ratione  E  orationem  Λ   ante  de  add.  et  edd. cum Porph. p. 13, 21  18  post  indiuidua  add. speciebus  N Σ  20 uidentur  RG   antur. haec est autem una communio quae pro|positarum  p. 94 quinque rerum numerum pluralitate praedicationis includit; omnia enim de pluribus praedicantur, in hoc ergo sibi cuncta communicant, nam et genus de pluribus praedicatur, itemque  species ac differentia et proprium et accidens, quae cum ita sint, est eorum una atque indiscreta communio de pluribus praedicari, disgregat autem ipsam de pluribus praedicationem, quemadmodum in singulis fiat, quod unum quodque proposi- torum de quibus pluribus praedicetur ostendit, ait enim genus  quidem de pluribus praedicari, id est speciebus ac specierum indiuiduis, ut animal praedicatur de homine atque equo ac de his indiuiduis quae sub homine sunt atque sub equo, item genus praedicatur de differentiis specierum atque id iure. quoniam enim species differentiae informant, cum genus de  speciebus praedicetur, consequens est ut etiam de his dicatur quae specierum substantiam formamque efficiunt, quo fit ut genus etiam de differentiis praedicetur ac non de una, sed de pluribus; dicitur enim quod rationabile est, esse animal et rursus quod inrationabile est, esse animal, ita genus de spe-  ciebus ac differentiis praedicatur ac de his quae sub ipsis sunt indiuiduis. differentia uero de speciebus dicitur pluribus ac de earum indiuiduis, ut inrationabile et de equo praedicatur ac boue, quae sunt plures species, et de his quae sub ipsis sunt indiuiduis eodem modo dicitur; nam quod de uniuersali  praedicatur, praedicatur et de indiuiduo. quodsi differentia de speciebus dicitur, praedicabitur etiam de eiusdem speciei sub- 1 praepositarum  HN  5  post.  et] atque  R  7 autem] ut est  E  8 quod] ut  Em2P  et quod  La.c.  et ut  p.c., ante  quod  s. l.  in eo  Hm2  praepositorum  HN  9 ostendat  ELm2P  10 id est  om. HNR, er. G 11 atque] et  CL  equo ac de  om. EG  ac] atque  CL  et  R  12 de  om. L, s. l. Cm2  qui  EGP post. sub  om. LNP  14 enim  del. E  15 praedicatur  HN  16 perliciunt  HNP  18 rationale  EGHNP  19 quod  om. R, in ras. E,  quoniam  GLm1  inrationale  HNP  est  om. R  21 differentiae... dicuntur  R 22 inrationale ( uel  irr-)  Em2  (rationabile  m1) HLm2NP  23 bouej de boue  N  et de] deque  EG 25 et  ante  praedicatur  C  26 praedicatur  C  etiam  om. EN   iectis. species uero de suis tantum indiuiduis praedicatur; neque enim fieri potest, ut quae species est ultima quaeque uere species ac magis species nuncupatur, haec alias deducatur in species, quod si ita est, sola post speciem indiuidua restant, iure igitur species de suis tantum indiuiduis praedicantur, ut  homo de Socrate, Platone, Cicerone et ceteris, proprium item de specie praedicatur cuius est proprium, neque enim esset proprium alicuius, si de alio diceretur; de quo enim una quaeque res ‘et soli et omni et semper’ dicitur, eiusdem pro- prium esse monstratur. quae cum ita sint, proprium de specie  dicitur, ut risibile de homine; omnis enim homo risibilis est. dicitur etiam de indiuiduis speciei de qua praedicatur; est enim Socrates, Plato et Cicero risibilis, accidens uero et de speciebus pluribus dicitur et de diuersarum specierum indi- uiduis. dicuntur enim coruus atque Aethiops nigri et hic cor-  uus et hic Aethiops, qui sunt indiuidui, nigri secundum nigre- dinis qualitatem uocantur. atque hoc quidem est accidens inseparabile, sed multo magis separabilia accidentia pluribus inhaerescunt, ut moueri homini et boui — uterque enim moue- tur —, et rursus ea quae sub homine sunt atque boue indiuidua,  moueri saepe praedicantur. sed aduertendum est auctore Por- phyrio quod ea quae accidentia sunt, principaliter quidem de his dicuntur in quibus sunt indiuiduis, secundo uero loco ad uniuersalia indiuiduorum referuntur, atque ita praedicatio  1 praedicabitur  CLP  3 uero  C  5 praedicatur  Cm1EGLRm2  7 esse  E  8 nisi  HPR, ex  si  CLm2  aliquo  CHP ante  diceretur  add.  non  R, s. l. Lm2  9  pr.  et  om. EGHN secund.  et  om. G tert.  et  om. EG, del. Lm2, s. l. Pm2; ad  et—semper  cf. p. 275,10  12 etiam] autem  HPm1  13 Plato] et piato  N  et  om. CEG  risibiles  CH  et  om. EGLP  14 pluribus  om. CN  dicitur  om. H, post  indiuiduis  s. l.  scil, praedicatur  m2  specierum  om. HN  15 dicuntur  in ras.   Hm2  dicitur  GNR  niger  NR  et  om. EGHN  16 et  om. EG   post  nigri  add.  autem  R, s. l. Lm2  19 et  om. EG  20 et  om.   CEGP  21 mouere  Ea.c.Gm2  actore  Ea.c.R  23  post  dicuntur  add. nam non subsistunt praeter haec quibus adsunt et nulli prius acci- dunt quam indiuiduis  R  24  post  uniuersalia  add.  ad speciem  G   superiorum redditur, ut quoniam nigredo singulis coruis adest, dicitur adesse coruo. nam quia omnia particularia qualitas ista accidentis nigredinis inficit, idcirco eam de specie quoque praedicamus dicentes coruum, ipsam speciem, nigrum esse.    In quibus omnibus mirum uideri potest, cur genus de proprio praedicari non dixerit nec uero speciem de eodem proprio nec differentiam de proprio, sed tantum genus quidem de speciebus ac differentiis, differentiam uero de speciebus atque indiuiduis, speciem de indiuiduis, proprium de specie atque indiuiduis,  accidens de speciebus atque indiuiduis. fieri enim potest ut quae maioris praedicationis sint, ea de cunctis minoribus praedi- centur, et quae aequalia sunt, sibimet conuertuntur, eoque fit ut genus de differentiis, de speciebus, de propriis, de acci- dentibus praedicetur, ut cum dicimus ‘quod rationale est,  animal est’, genus de differentia, ‘quod homo est, animal est’, genus de specie, ‘quod risibile est, animal est,’ genus de proprio, ‘quod nigrum est’, si forte coruum uel Aethiopem demonstremus, ‘animal est,’ genus de accidenti praedicamus, rursus ‘quod homo est, rationale est’, differentia de specie,  1 superiorum]  E  ( s. l.  id est specierum)  GP  superioribus  cett.  sub- teriorura superioribus  brm  ut—dicitur  om. EG  2  post  coruo  s. l.  speciali  Lm2  3 nigredinis accidentis  C infecit  HLm1  eam] eamdem  Lm2Pm2  (it eadem  m1 ) eadem  EG  eo  Rm1  ea  m2  de  om. P  4 ipsum specie  EGPRm2 post  ipsam  add.  scilicet  C  nigram  C  5 omnibus  s. l. Cm2  6  utroque loco  neque  R  7 differentias  R  8 atque  Rbrm  et de  p  differentiis] indiuiduis  pr cum p. 286, 1, differentiis <atque indiuiduis>  coni. Brandt; cf. p. 287,12—21  differentias  HLPR  9 proprium de specie atque indiuiduis  om. H  11 maiores praedicationes  EGR  sunt  Ca.c. (ras.  i  ex  u)  Pm2R  ea  s. l. L  eadem  C  eaedem ( om.  de  G ) eae  Pm1  hae  ER  cunctis] dictis  EGR  12 et  om. EG   conuertuntur ]  Em1GLm1Rm2  (conuertentur  m1 ) conuertantur  CEm2HL   m2NP ad  eoque  s. l.   i  ideo  G  fit] quale sit  EG  13  pr.  de] et de  HNP   secund.  de  om. R  et de  HLNP tert.  de  om. E  et  HNPR  et de  L   quart.  de] et  NP  et de  HL  atque  R  14 praedicatur  EG  rationabile CEGLm1NR  15 animal est] sit animal  E  ( ad  sit  s. l.  pro est)  GLR  de  s. l. EGm2L post differentia  add.  praedicatur  GP (del. m1?),   s. l. Lm2, s. l.  praedicari  Em2  16 eat genus  om. G 18 accidente  R  19 rationabile  Em1G post  specie  add.  praedicatur  G   ‘quod risibile est, rationale est,’ differentia de proprio, ‘quod nigrum est, rationale est’, si Aethiopem demonstremus, dif- ferentia de accidenti; item ‘quod risibile est, homo est’, spe-  p. 95  cies de proprio, ‘quod nigrum est, homo|est,’ si Aethiopem designemus, species de accidenti, qua in re etiam ‘quod nigrum  est, risibile est’ in Aethiopis demonstratione ut proprium de accidenti praedicatur. conuerti autem ad totum accidens potest, ut quoniam in indiuiduis singulorum esse proponitur, idcirco de superioribus etiam praedicetur, ut quoniam Socrates animal est, rationalis est, risibilis est et homo est, cumque in Socrate  sit caluitium, quod est accidens, praedicetur idem accidens de animali, de rationali, de risibili, de homine, ut accidens de quattuor reliquis praedicetur. sed horum profundior quaestio est nec ad soluendum satis est temporis, hoc tantum ingredi- entium intellegentia expectet, quod alia quidem recto ordine  praedicantur, alia uero obliquo, quoniam moueri hominem rectum est, id quod mouetur hominem esse conuersa locutione proponitur, quocirca rectam Porphyrius in omnibus propositi- onem sumpsit, quodsi quis uim praedicationis et solutionis adtenderit in singulis praedicationibus comparans, eas quidem  1 differentiam  HR  3 accidentia  G post  item  add. quod rationale est homo est species de differentia  Hm1, del. m2  speciem  ELm2PR,   item 5  6 ut  om. R, del. ELm2 post  proprium  s. l.  etiam  Pm2,   post  accidenti  N, s. l. Cm2  7 praedicetur  CHLm1NPm2  ad  om.   N, s. l. Cm2  8 ut  ex  et  Hm2  in]  N, s. l. m2 in EHP, om. cett. praeponitur  Ca.c.EGHLNR  9 praedicatur  CHLNR ante  animal  add.  et  HN  10  ante  rationalis  add.  et  HNP, s. l. Cm1?  rationabile  Lm1 ante  risibilis  add.  et  HNPR, s. l. Cm1? Lm2  risibile Cm1EGLm1  et  (s. l. m1?)  homo est  post  rationalis est  C  et  om.   EG  11 praedicatur  CHLm2NP 12  secund.  de  om. CEGR tert.  de  om. R quart.  de  om. C  ut] et  CHN  13 praedicatur  CHN  14 dis- soluendum  N  15 expectet  idem quod  spectet 16 quoniam] nam  HLm2NP  moueri  post hominem  Cm2Pm2  17 moneatur  N  18  ante  proponitur  s.l.  non  Hm2  proportionem  EL  19 uim quis  EGLR  uim  om. Hm1, ante  adtenderit  s. l. m2  praedicatae  H  praedictae  Lm2Pm2  et solutionis]  CN  solutionisque  L  solutionis  Gm1Hm2  (locutionis  m1 ),  s. l. add. Pm2  so- lutione  Gm2R  solue  (sic) E  20 attenderit  in ras. Em2  ostenderit  R   prolationes quae rectae sunt, inueniet a Porphyrio esse enu- meratas, eas uero quae conuerso ordine praedicantur, fuisse sepositas.      Commune est autem generi et differentiae con-  tinentia specierum. continet enim et differentia species, etsi non omnes quot genera, rationale enim etiamsi non continet ea quae sunt inratio· nabilia quemadmodum animal, sed continet homi-  nem et deum, quae sunt species, et quaecumque praedicantur de genere ut genera, et de his quae sub ipso sunt speciebus praedicantur, et quae- cumque de differentia praedicantur ut differen- tiae, et de ea quae ex ipsa est specie praedicabun-  tur. nam cum sit genus animal, non solum de eo praedicantur ut genera substantia et animatum, sed etiam de his quae sunt sub animali speciebus  4—p. 292, 10] Porph. p. 13, 22—14, 12 (Boeth. p. 40, 17—41, 12).   1 esse  om. GN, add. Hm2  enumeratas] N numeratas  cett.  2 prae- dicantur] proferuntur  HN  3 positas  Gm1Hm1  suppositas  Pm2  4  de   Porph. cf. ad p. 103, 7  5 Communis  Σ ,  m1 in EH \  est  om. E   Porph. (p. 13, 33) Busse, post  autem  N  6 continet—sunt  (p. 292, 8)] LR Q ,  om. cett.  7 etiamsi  ΔΣ  quod  i m1  quas  A m2R  8 enim  om. R,   8. l.   Δ inrationalia  2Φ ,  add.  ut genus  codd. praeter R Σ ,  om. etiam   Porph. p. 14,2, delend. uid. Bussio 9 sed] tamen  brm  10 deum] angelum  R  angelum et deum  L; Porph. cod. A   θεόν ,  cett.   άγγελον 11 genera]  Σ  genus  cett. Busse (sed  genera  probare uid.); cf.  ut genera  16. p. 293, 20 , ut differentiae  13; Porph. p. 14,3   όσα τε ν,ατηγορεΐται του   γένους ώς γένους  et] eadem  in ras. A m2  12 et]  Z p, s. l.   A m2,   om. cett.  (aliter  er.   T )  Busse  item  brm; cf. ad 13  quaecumque]  Lm2R Z  quaeque  cett.  13 de differentia] differentiae  Lm1 A  differentia  R ΓΦ ;  cf.  ut differentiae  p. 294, 1; Porph. p. 14,4   όσα τε τής διαφοράς ώς   διαφοράς  14 ex] sub  L \  et  R; Porph.   έξ praedicantur  Γ  15 genus sit  ΔΛΣ  16 praedicatur  R  ut  om. edd.  genera]  L Z   Busse  genus  cett. codd., om. edd.; cf. p. 394, 3—5; Porph. p. 14,5   γένους... ώς   γένους αατηγορεΐται ή ουσία  17 sunt  om. L  animalis  Δ   omnibus praedicantur haec usque ad indiuidua. cumque sit differentia rationalis, praedicatur de ea ut differentia id quod est ratione uti, non solum autem de eo quod est rationale, sed etiam de his quae sunt sub rationali speciebus praedicabitur  ratione uti. commune autem est et perempto ge- nere uel differentia simul perimi quae sub ipsis sunt; quemadmodum enim si non sit animal, non est equus neque homo, ita si non sit rationale, nullum erit animal quod utatur ratione.   Post eam quae cunctis adesse uisa est communitatem, sin- gulorum ad se similitudines ac dissimilitudines quaerit, et quoniam inter quinque proposita genus ac differentia uniuer- salioris praedicationis sunt, siquidem genus species continet ac differentias, differentiae uero species continent neque ab his  ullo modo continentur, primum generis ac differentiarum similitudines colligit, ac primam quidem ponit hanc, dicit enim commune esse generi ac differentiae, ut species claudant;  1 praedicatur  LR ante  haec  add.  et  s. l. Lm2, in mg.   Γ ,  post  haec  Λ  haec  del.   \ m2  2 rationalis]  codd. (etiam Bussii LQ  rational,  in P uox paene tota euanuit ) rationale  edd. Busse; Porph. p. 14,7   διαφοράς τε οόσης τής τοΰ λογιχοΰ ;  cf. infra p. 293, 14  rationalis diffe- rentia;  295, 11  sub rationali differentia,  unde  rationalis  nominatiuum   potius intellegas quam cum Porph. genetiuum praedicantur  Φ  3 eo  coni. Busse  non] et non  L *l>  4 autem]  ΓΦ ,  s. l. Km2, om. cett.;   Porph. p. 14, 8   δε  5  ante  sunt  s. l.  sub ipsa  \ m2  sub rationabili- bus  h m1, del. m2 post  rationali  add. animali  ΠΦ ,  s. l. Lm2  praedi- catur  ΓΔΛΣΦ   a.c.; Porph. p. 14, 9   χατηγορηθήσετοι  6  ante ratione  add.  id quod est  s. l.   & m2 W m2 Busse  id quod potest  LR post  com- mune  s. l.  illis  Γ est autem  Φ   ante  perempto  add.  hoc  Λ  genere]  Porph. p. 14, 10   ή τοΰ γένους ,  om.   η   cod. Μ  8 enim]  Σ ,  s. l.   Ψ m2 ,  om. cett.; Porph. p. 14,11   γάρ  sit] est  CEGHP  9 ita] sic  L  ac  b m1 \  12 ad se] ad esse  EGP  et  om. CEG, s. l. Pm2, del. Lm2  13 generis ac differentiae  CN  uniuersaliores praedicationes  CEGNP  14  ante  species  add.  et  LR  15 nec  N  16 ac] et  N  17 primum  LNP hanc] hanc communionem  H  18 commune] hoc commune  H  communionem  LR  ac] et  CGLP concludant  HN   nam sicut genus sub se habet species, ita etiam differentia, tametsi non tantas quot habet genus, etenim genus quoniam differentiam etiam claudit et non unam tantum sub se diffe- rentiam cohercet ac retinet, plures necesse est habeat sub se  species, quam quaelibet una earum differentiarum quas claudit, ut animal praedicatur de rationabili et inrationabili. quodsi ita est, praedicabitur et de his quae sub rationali sunt positae speciebus et de his quae sub inrationali. est ergo commune animali et rationali, id est generi et differentiae, quod sicut  genus de homine et de deo praedicatur, ita etiam rationale, quod est differentia, de deo ac de homine dicitur, sed non in tantum haec praedicatio funditur quantum animalis, id est generis, animal enim non de deo solum atque homine, sed de equo et boue praedicatur, ad quae rationalis differentia non  peruenit. sed quandocumque deum supponimus animali, secun- dum eam opinionem facimus quae solem stellasque atque hunc totum mundum animatum esse confirmat, quos etiam deorum nomine, ut saepe dictum est, appellauerunt. Secunda item communio est generis ac differentiae, quoniam quaecumque  praedicantur de | genere ut genera, eadem de his quae sub  p. 96  ipso sunt speciebus praedicantur; ad hanc similitudinem 15 quandocumque — 18 appellauerunt] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II 34. 376. 18 saepe] p. 208, 22. 259, 19.   1 habeat  Lm2  differentiae  EGR  2  post.  genus  om. EGR, post quoniam  Cm1, corr. m2  3 differentias  CHm1L  etiam  del. Lm2, om. N  et  om. EG, s. l. Lm2 tantum  om. H, s. l. Lm2  4  ante  plures  add.  sed  EGL  adhibeat  R  ut habeat  L  5 quas  om. L quam  EGHPm1R  6 rationali  CHLN  inrationali ( uel  irt-)  HLN  7 ra- tionabili  Cm1EGm2P  8 inrationabili ( uel  irr-,)  CEGNP  commune est,  post s. l.  ergo  C ; ergo  om. EG, add. Pm2  10 et de deo  om. EG  rationabile  CEGR  11 in  om. LN  12 haec  om. EG  14 rationabilis  R  16 opinionem]  CHNPm2 Abaelard.  propositionem  EGLPm1R  qua  EGLm1P  solem] coelum  Abaelard.  17 confirmant  EGLm1  confirmet  N  20 de genere praedicantur  C post  eadem  add.  et  L  21 ipso] genere  H  ad hanc similitudinem  om. EGR; ante  ad  s. l.  et  Pm2   quaecumque de differentia praedicantur ut differentiae, et de his quae sub differentia sunt ut differentiae praedicantur, cuius sententiae talis est expositio, sunt plura quae de generibus praedicantur ut genera, ut de animali dicitur animatum, dicitur substantia, atque haec ut genera, haec igitur praedicantur et  de his quae sub animali sunt, ut genera rursus; nam hominis et animatum et substantia genus est, sicut ante fuerat ani- malis. item in ipsis differentiis quaedam differentiae inueniun- tur quae de ipsis differentiis praedicantur, ut de rationali duae differentiae dicuntur, quod enim rationale est, utitur ratione  uel habet rationem, aliud est autem uti ratione, aliud habere rationem, ut aliud est habere sensum, aliud uti sensu, habet quippe sensum et dormiens, sed minime utitur, ita quoque dormiens habet rationem, sed minime utitur, ergo ipsius ratio- nabilitatis quaedam differentia est ratione uti, sed sub ratio-  nabilitate homo positus est; praedicatur igitur de homine ratione uti ut quaedam differentia, differt enim a ceteris animalibus homo, quia ratione utitur, demonstratum igitur est quia sicut ea quae de genere praedicantur, dicuntur de generi subiectis, ita etiam ea quae de differentia praedicantur, dicuntur de his  quae differentiae supponuntur. Tertium commune est quod  1  ante  quaecumque  add.  et  EGL(del. m2), er. uid. C  quaeque  GPR  praedicantur  om. EGR, post ut differentiae  H  ut differentiae  om. EG post  differentiae  add.  eadem quoque  L, post  de his  P (om.  et), eadem  s. l. Nm2  2  post  sub  add.  ipsa  NR  sunt  ante  sub  H  ut differentiae  om. H, s. l. Nm2  ut differentia  EG  4  post.  dicitur  om. L 5 ante  substantia  add.  et  LPm2  6 rursus  ante  ut  GR, post L  7 antea fuerat  H  ante fuerant (n  s. l. m2) L  fuerant ante  R  8 quae- dam  s. l. Cm2  9 praedicentur  Cm2  ut  om. HN  11 autem habere rationem aliud uti ratione  NR.  12 ut  om. H sicut  N  est  om. H  13 sed minime utitur  om. N  sed—dormiens  om. EGPE, del. Lm2  ita—rationem  in sup. mg. Nm2  15 sed  om. EG, s. l. Pm2  16 positus est homo  R  esse ( om.  est  EGP est  ex  esse  Lm2  esse  del. Pm2 ) praedicatur. Igitur  EGLP  17 ut  om. EG, s. l. Cm2 post  diffe- rentia  add.  est  EGP  a]  L, om. cett.  18 homo  ante  ceteris  H  est igitur  HLN  quia] quod  CL  19  post.  generum  EGLm2P  20 post  his  add.  quoque  HN  21  post  Tertium  add.  uero  P, s. l. Lm2 quod] quia  C   sicut absumptis generibus species interimuntur, ita absumptis differentiis species de quibus differentiae praedicantur, intereunt, commune enim est hoc, uniuersalium in substantia pereuntium perire subiecta. sed prima communio demonstrauit genera de  speciebus praedicari, sicut etiam differentias, propter hanc igitur similitudinem si auferantur genera, species pereunt, sicut etiam species perire necesse est quae sub differentiis sunt, si uniuersales earum differentiae consumantur, cuius exemplum est : si enim auferas animal, hominem atque equum sustuleris,  quae sunt species positae sub animali, si auferas rationale, hominem deumque sustuleris, qui sunt sub rationali diffe- rentia collecti. Et de communitatibus quidem hactenus, nunc de generis et differentiae dissimilitudine perpendit.      Proprium autem generis est de pluribus prae- dicari quam differentia et species et proprium et accidens; animal enim de homine et equo et aue et serpente, quadrupes uero de solis quattuor pedes habentibus, homo uero de solis indiuiduis et hin-  nibile de equo et de his qui sunt particulares, et  14—297, 2] Porph. p. 14, 13—15, 8 (Boeth. p. 41, 13—42, 14).   1 sicut—ita  om. EG  consumptis ( post  ita)  Pm2  6 igitur] qui- dem  E  sicut] sic  GHm2LN  7 species etiam  HNP  10 quae] quia  H  qui  ex  quia  Nm2  12 collocati  HNP, recte? cf. 10. p. 300, 18  Et  om. CEGP, del. Lm2  13 perpendet  G  14 PROPRIO  C  PRO- PRIIS  post DIFFERENTIAE  L  GENERI  R  DE PROPRIIS EORVM (EORVNDEM  Ψ )  Ρ Ψ ;  de Porph. cf. ad p. 105, 16  15 autem  om ·.  ΓΦ  generi  LNR A ;  cf. infra p. 297, 15. 16 s. 299, 17. 300, 23. 301,10. (13) 302,11  est  ante  generis  s. l.   A ,  om .  Σ ,  om. Porph. p. 14,14  16  ante  quam  add . magis  L (er.)   A   (del. m2)  differentiae  EGHLPm1R ;  Porph. p. 14, 15   ή διαφορά  et species—differentia  (p. 296, 21) ]  LR ii ,  om. cett . et proprium] propriumque  A  17 de equo et (de  add.   \ ) homine  ΔΑ  18  post  uero  add . uidetur  ΓΦ ,  m1 in L ΔΑ ,  del. m2; om. Porph. p. 14, 17  solis  om. R  20  ante  equo  add . solo  edd. cum Porph. p. 14, 18   μόνον ,  fort. recte post , de  om. R, s. l. Lm2   accidens similiter de paucioribus, oportet autem differentias accipere quibus diuiditur genus, non eas quae complent substantiam generis, amplius genus continet differentiam potestate; animalis enim hoc quidem rationale est, illud uero inratio-  nale. amplius genera quidem priora sunt his quae sunt sub se positae differentiis, propter quod simul quidem eas auferunt, non autem simul aufe- runtur; sublato enim animali aufertur rationale et inrationale. differentiae uero non auferunt  genus; nam si omnes interimantur, tamen substan- tia animata sensibilis subintellegitur, quae est animal, amplius genus quidem in eo quod quid est, differentia uero in eo quod quale quiddam est, quemadmodum dictum est, praedicatur, amplius  genus quidem unum est secundum unam quamque speciem, ut hominis id quod est animal, differen- tiae uero plurimae, ut rationale, mortale, mentis et disciplinae perceptibile, quibus ab aliis differt, et genus quidem consimile est materiae, formae  uero differentia, cum autem sint et alia communia  1 autem  om .  Σ  enim  Lm1  4 continet genus  LR; Porph. p. 14, 20   τό γένος περιέχει 5 enim  om.   2  uero  A m1  est  in mq. Lm2  6 quidem genera  Lm1R  priora  om. L  7 sub se  ante sunt  L, post  positae  R  positis  ΓΛΦ ,  m1 in L Λ2  8 quidem  om. L, ante  simul  R  auferunt]  h m1 V aufert  cett.; Porph. p. 14, 22  ( τα γέν-r )  σοναναιρεΐ οΰτός  aufe- runtur]  A m1 W  aufertur  cett.; Porph. p. 14, 23   σοναναιρεϊται  9 aufertur rationale—aufernnt genus  om. R  11 si] etiamsi  brm cum Porph. p. 15, 1   καν ; fort. etsi  scribendum  tamen  om .  Σ ,  s. l.   A m2 A m2  12 sensi- bili  R subintellegitur]  Φ  subintellegitur potest  R  subintellegi  potest   cett.; Porph. p. 15, 2   επινοείται quod  Δ   Busse; Porph .  οϋσια...ήτις ήν τό ζψον  14 uero  om. L  quiddam  om. R  quid  edd . est  om.   LR TΛΦ  15 quemadmodum] sicut  LR  est dictum  Λ   Busse  16 quidem genus  hA m1 Z  est unum  LR  17  ante  hominis  add. est   edd. Busse; om. Porph. p. 15, 4  18 plures  brm cum Porph. p. 15, 5   πλείοος ;  cf. infra p. 301, 21; post  plurimae  add . sunt  ΑΣ   Busse; om. Porph. p. 15, 5 mentis  5 m2  risus  m1  20 cum simile  R  21 autem  Cp.c . haec  a.c . et  om. G   et propria generis et differentiae, nunc ista suf- ficiant.    | Proprium quidem quid sit, conuenienti atque integro uoca- p. 97  bulo definitum est. sed per abusionem illa etiam propria  quorumlibet dicuntur quae in una quaque re ab aliis continent differentiam, licet cum aliis sint ea ipsa communia, per se quippe proprium est homini quod ei omni et soli et semper adest, ut risibilitas, per usurpatam uero locutionem etiam proprium hominis rationabilitas dicitur non per se proprium,  quippe quod ei cum deorum est natura commune, sed homini rationabilitas proprium dicitur ad discretionem pecudis, quod rationale non est; id uero propter hanc causam, quoniam id proprium unius cuiusque dicitur quod habet suum, quo igitur quis ab alio differt, proprium eius non absurda usurpatione  praedicatur, sed nunc quod dicit proprium generis esse de pluribus praedicari quam cetera quattuor, id ipsum generis tale proprium est, quale per se proprium dici solet, id est quod semper <et> omni et soli adsit generi, generi enim soli adest, ut differentia, specie, proprio, accidenti überius atque  affluentius praedicetur, sed de his differentiis, speciebus, pro- priis atque accidentibus id dici potest quae sub quolibet  1 proprii  P  et] ac  EGP  nunc  om. Porph. p. 15, 8  suf- ficiunt  Λ m1 2 ;  Porph .  άρκείτω ταϋτα ,  cod. B   apxet τοααδτα  3 quidem] autem  C  quod  R  5 in una quaque re]  CLP  re  om. N  una quaque  E  una quaeque  G  unam quamque  HR  6 differenda  EGLm1  7 omni et soli] et soli et omni  C   pr.  et  s. l. Lm2 post , et  om. EG  10  post  ei  add . quoque  HNP  12 rationabile  HR post  uero add. fit  L ,  s. l. Pm2  14 aliquo  Lm2  differat  Cm2Hm1N  15 nunc  om. EG ,  post  quod  C  17 tale  ante  quale  P est proprium  LP post , est  om. CN  18 et  add. brm  adest  C  generi enim  in mg. Hm2  enim] uero  C  autem  L  19  post  ut  add . et  H   (del. m2) N  et specie  HLN  et proprio  HLR  et (atque  R ) accidente  HLm1  (-ti  m2 )  NR  20 affluentius]  CHNPm2  fluentius  Lm1 ,  s. l . ł lucidius  m2 cluentius  E  ( s. l . habundantius]  Pm1  licentius  G  luculentius  R  de] e  R  speciebus  post differentiis  pos. Brandt, ante codd. pr, om. bm  et propriis  CHLN  21 atque  om. P   genere sunt, id est differentiae quidem quae quodlibet diuidunt genus, species uero quae diuisibilibus generis differentiis infor- matur, proprium autem illius speciei quae sub illo genere est quod differentiis est diuisum, accidentiaque quae his hae- reant indiuiduis quae sub ea specie sunt quam designatum  genus includit, hoc facilius exempla declarant, sit enim genus animal, quadrupes ac bipes differentiae sub animalis positae continentia, homo atque equus species sub eodem genere constitutae, risibile atque hinnibile propria earundem spe- cierum, uelox uero uel bellator accidentia quae his indiuiduis  accidunt quae sub speciebus equi atque hominis continentur : animal igitur, quod est genus, praedicatur et de quadrupede et bipede, quae sunt differentiae, quadrupes uero de bipede non dicitur, sed tantum de his animalibus quae quattuor pedes habent; plus igitur praedicatur genus quam differentia, rursus  homo de Platone ac Socrate praedicatur, animal uero non modo de hominibus indiuiduis, uerum etiam de ceteris inratio- nabilibus indiuiduis dicitur; plus igitur genus quam species praedicatur, sed cum sit proprium hinnibile equi speciei cum-  1 differentiae]  CNp  differentias  EG, m1 in HLP de  (om. HPR)  dif- ferentiis  m2 in HLP, Rbrm  quidem  om. B, ante add . sunt  C, post N  genus diuidunt  HN  2 speciebus  Hm2Lm2  specie  Pm2brm  diuisi- bilis  Hm1Pm1R  ( add . est), dissimilis  E  ( add . est)  G, ad  diuisibilibus  in mg.  ał quae diuisiuis  Lm2, sed cf. p. 254, 12 ante generis  add  est  ERm2, add . sunt,  post  et  (del. m2) P  informantur  CLm2  3 pro- prio  m2 in HLP (ante s. l. de add.) brm post  autem  add . quod est  EGP (del. m2)  illi  Lm1  4 diuisiuum  Lm1  diuiditur ( om . est;  N  accidentiaque]  CEGHm1Lm1  accidentia quoque  Pm1  (de accidentibus quoque  m2 ) accidentia  Rp  accidensque  N  accidentibusque  Hm2Lm2brm  quae] quod  N  hereat  N  haerent  Pm2 edd . 5 sint  G  10 uelox— bellator]  HNP  (uel  om. , et  s. l. m2 ), uelox uero dux uel bellator  C  uelox uero uel bellator dux  L  uelox uero bellator dux  EG  ferax uerox  (sic)  ( s. l . equus  m2 ) bellator dux  R  11 accidant  H  accidencia  Pm1  12 et  om. EGP  13 et bipede]  HNP, om. R  bipede  C  de bipede  EGLm1  et de bipede  m2  quadrupedes  G  14 his  om. GR, s. l. Cm2Lm2  16 ac] et  P post  praedicatur  add . et ceteris  HNP  17 hominis  C  (s  in er. b.? m2 )  GHm1N  19 sed—praedicetur  om. EG  hinnibile  ante  proprium  N, om. LR  simile  H  equi  om. H   que genus quam species überius praedicetur, praedicatio quo- que generis proprii supergreditur praedicationem, accidens quoque etsi pluribus inesse potest, tamen saepe genere con- tractius inuenitur, ut bellator non proprie nisi homo dicitur,  ut uelocitas in paucis animalibus inuenitur. quo fit, ut genus differentia, specie, proprio et accidentibus amplius praedice- tur. Atque haec est una proprietas generis quae genus ab aliis omnibus disiungat ac separet, oportet autem, inquit, nunc eas differentias intellegere quibus diuiditur genus, non quibus  informatur, illae enim quibus informatur genus, plus quam ipsum genus sine dubio praedicantur, ut animatum et corpo- reum ultra animal tenditur, cum sint differentiae animalis, sed non diuisiuae, sed potius constitutiuae; omnia enim superiora de inferioribus praedicantur, quae uero de inferioribus praedi-  cantur neque conuerti possunt, haec ab eis quae inferiora sunt amplius praedicantur.   Post hoc aliud proprium generis ostendit quo ab his differentiis quae sub eodem sunt positae, segregatur, omne enim genus continet differentias potestate, differentia uero  genus non potest continere, animal enim rationale atque inra- tionale continet potestate; neque enim inrationabilitas neque rationabilitas animal poterit continere, potestate autem ait continere animal differentias quia, ut superius dictum est,  23 superius] p. 264, 16.   1 praedicatur  Cm1R  3 inesse] inest  C  ante saepe  add . semper uel  Hm1, del. m2  contractius genere  H  inneniri  C  5  pr.  ut  er. uid. C, om. HPm1  et  LN, s. l. Pm2  6  ante  differentia  add . et  Hm2LN ante  specie  add . et  HL  et de  N ante  proprio  add. et HL  et de  N  et  om. E  accidente  R  8 inquit  om. N, del. Hm2  10  post  informatur  add . genus  C  illae—informatur  om. EGLR, post praedicantur  (11) add . Ipsae enim diffe- rentiae a quibus informatur genus  Lm1, ante  plus quam  transpos. m2  illae enim] nam illae  P ante  plus  add . nam  GR  11 sine dubio  om. HN  et  om. EG  12 tendit  EG ? tenduntur  R  sunt  H  15 ab  om. H  18 eodem] eo  HN  eodem genere  C segregetur  HN  20 rationabile  ELm2P  atque  om. EGR, s. l. Pm2  inrationale  om. EGPm1R inrationabile  Lm2, s. l. Pm2  21 inrationalitas neque rationalitas  HN  22 poterunt  CHLP  23  post  differentias  add . proprias  CL (del. m2), ante HNP   genus quidem omnes sub se habet differentias potestate, actu uero minime, ex quo fit ut alia proprietas oriatur, sublato enim genere perit differentia, ueluti sublato animali interimitur rationabilitas, quod est differentia, at si rationale interimas, inrationale animal manet, sed obici potest : quid? si utrasque  differentias simul abstulero, num poterit remanere genus? dicimus : potest, unum quodque enim non ex his de quibus praedicatur, sed ex his ex quibus efficitur, substantiam sumit, itaque fit ut genus sublatis diuisiuis differentiis permanere possit, dum tamen maneant illae quae ipsius generis formam  substantiamque constituunt, quoniam enim animal animata  p. 98 atque sensibilis differentiae constijtuunt, hae si maneant atque iungantur, perire animal non potest, licet ea pereant de quibus animal praedicatur, rationale scilicet atque inrationale. unum quodque enim, ut dictum est, ex his substantiae proprietatem  sumit ex quibus efficitur, non ab his de quibus praedicatur, amplius si utrasque differentias genus potestate continet, ipsum per se neutram earum intra se positam collocatamque con- cludit. quodsi actu quidem eas non continet, sed potestate, actu etiam ab his poterit separari; hoc ipsum enim, potestate  eas continere, id erat actu non continere, genus uero, quod quaslibet differentias actu non continet, actu ab eisdem etiam separatur. Kursus aliud est proprium generis, quod ex pro-  1 omne  GR  2 alia ut  EGP  4 rationalitas  HN  at  om. EGR  rationabile  CLm1R  5 inrationale  om. EG  inrationabile  Lm1R  quod  CEGLP  qui  R  6  post  abstulero add. rationales et inrationales  E num] non  EGLm1P  7 dicimus] sed dici  EP  de quibus—his  in mg.   Hm2  8  post , ex] de  P  9 itaque] atque  GR  atque  ita C  atque ideo  EP  10  post  tamen  add . earum  P  illa  C  ( a. in er . ae  m2 )  N  quod  E  11 quoniam—constituunt  in mg. inf. Em2  animati  Cm2LR  12 differentia  HN differendis  Pm1  haec  C (c er.)   EGHN  manent  E  15 dictam est] diximus  C  17  ante  ipsum  s. l. tunc  Hm2  18 neutra  G  neutrum  R  positum collocatumque  LPm1R  20 etiam] quidem  E post poterit  add . genus  EG   post  enim  add . quod est  R, s. l. Pm2  21 erit  Lm2R  quod] quae  E  23 eat om. ENR   prietate praedicationis agnoscitur, omne enim genus ad inter- rogationem ‘quid est unum quodque?’ responderi conuenit, ut animal in eo quod quid est de homine praedicatur, differentia uero minime, sed in eo quod quale sit; omnis enim differentia  in qualitate consistit, sed hoc proprium tale est quale supe- rius diximus, non per se, sed secundum alicuius differentiam dictum, alioquin commune est hoc generi cum specie, ut in eo quod quid sit praedicetur, sed quia hoc genus a differentia discrepat, quoniam differentia quidem in eo quod quale est,  genus uero in eo quod quid est praedicatur, generis proprium dicitur non per se, sed ad differentiae comparationem, et in omnibus reliquis eandem rationem conueniet speculari; quod- cumque enim ita generi proprium dicitur, ut nulli sit alii commune, sed tantum hoc habeat genus ut omne genus et  semper, id secundum se proprium nuncupatur, quicquid uero cum quolibet alio commune est, id non per se, sed ad alterius differentiam proprium dicitur. Alia rursus generis et diffe- rentiae separatio est, quod genus quidem speciei unum semper adest, scilicet proximum plura - enim possunt esse superiora,  uelut hominis animal atque substantia, sed proximum eiusdem hominis animal tantum —, differentiae uero plures uni speciei  5 superius] p. 297, 9.   1  post  agnoscitur  add . Omne enim genus ei proprietate cognoscitur praedicationis  P, in inf. mg. Lm2  generis  E  2 quid est] quidem  E  quidem quid est  HN  unum  om. E  respondere  CLR  4 sit] est  HN  7 hoc  ex  huic  Em2  8 ac G 9 est] sit  N  11 et  om. EG  12 conuenit  CHNP  13 generis  Pm2  alii sit  C  14 tamen  E  habeat—semper]  Cm2Hm1N  habeat genus et omne genus et (et  om .  Lm2R ) semper  Cm1Hm2Lm2R  habeat omne genus semper  EG  habeat genus omne semper  Lm1  genus hoc  (del. m2)  haheat omne genus (genus omne  m2 ) et  (s. l. m2)  semper  P  15 se  om. CN , illud  Cm2   (s. l.)  id  H post proprium  add . dicitur quod per se proprium  CHN  16 ad  om. C, in mg. Hm2  17  pr . differentia  C  18 est  om. HNR ,  s. l. E  uni  R  19 proximum  Cp. c . proprium  a. c . ad plura  in   mg.  genera  Lm2 , enim genera  P  20 ante animal  s. l . sed genus  Cm2  21  post  speciei  add.  semper adsunt  E   adesse poterunt, ut rationale atque mortale homini, itaque fit definitio ex uno quidem genere, sed pluribus differentiis, ut hominis animal rationale mortale. Rursus alia discretio est, quod genus quidem quasi subiecti locum tenet, differentia uero formae, ita ut illud sit materia quaedam quae figuram  suscipiat, haec uero sit forma quae superueniens speciei sub- stantiam rationemque perficiat. Idcirco uero pluribus diffe- rentiis a genere differentiam segregauit, quia haec maxime generis quandam similitudinem contineat, quia est uniuersalis et praeter genus inter ceteras maxima, sed cum alia plura  communia pluraque propria generis inter se ac differentiae ualeant inueniri, nunc, inquit, ista sufficiant, satis est enim ad discretionem quaslibet differentias assumere, etiamsi non quae dici possunt omnia colligantur.      Genus autem et species commune quidem ha- bent de pluribus, quemadmodum dictum est, prae- dicari. sumatur autem species ut species et non etiam ut genus, si fuerit idem et species et genus.  15—303, 3] Porph. p. 15, 9—13 (Boeth. p. 42, 15—20).   1 adesse—mortale  om. EGR  ut  om. HN  ut homini  C  Hominis itaque  C  hominis, itaque  P  2  ante  pluribus  add . de  Lm2  3  post  rationale  add.  atque  edd . est  om. HNR  4 quidem  om. C  5 ita ut om.  EGLm1  ut  m2  quaedam  om. EG, s. l. Lm2, ante  materia  P  quae  om. R, s. 1. Cm1?  quod  Em1  6 suscipiens  Lm1R  7 uero  om. EGLR  8 differentias  CEGHm1Pm1  9 continet  EGLPR  10 et  om. N  praeter] post  HPm1  maxima inter ceteras  H  in  N  cetera Lm1Pm2 edd . maximi  G  maximae  Pm1  12 nunc—sufficiant]  HLNR   (recte? an ex p. 297, 1?) ista inquit sufficiunt  GP  sufficiunt inquit ista  C  ista quidem sufficiunt  E  14 non  post  omnia  E (s. l.) p, ante brm  colliguntur  Hm1R  15 ET SPECIEI] SPECIEIQVE  C; de Porph. cf. ad p. 102, 7  17 de pluribus  om. G  18 sumatur—prae- dicantur  (p. 303, 2)] LR Q ,  om. cett . autem] autem et  L ΛΛΦ ;  Porph. p. 15, 11   11  et  om .  ΓΔ  sed  RΣ  19 ut  add .  \ m2 pr . et]  L cum Porph. p. 15,12, om. codd. cett. edd. Busse  genus et species  Ε Σ   commune autem his est et priora esse eorum de quibus praedicantur, et totum quiddam esse utrum que.    Generis et speciei enumerat tria communia, unum quidem,  de pluribus praedicari; genus enim et species de pluribus praedicantur, sed genus de speciebus, ut dictum est, species uero de indiuiduis. sed nunc de illa specie loquitur quae tantum species est. id est quae non etiam genus est, sed ultima species, quodsi talem speciem ponamus quae etiam  genus esse potest, ac de ea dicamus quoniam commune habet cum genere de pluribus praedicari, nihil interest an ita dica- mus, ipsum genus id secum habere commune de pluribus praedicari, talis enim species quae non est solum species, ea etiam genus est. Est autem commune his quoque quod utra-  que priora sunt his de quibus praedicantur, omne enim quod de aliquibus praedicatur, si recto, ut dictum est superius, ordine dicatur, prius est his de quibus praedicatur. Praeterea est illis hoc etiam commune, quod genus ac species totum sunt eorum quae intra suum ambitum continent et cohercent;  omnium enim specierum totum est genus et omnium indi- ui|duorum totum species, aeque enim genus et species aduna-  p. 99  tiua sunt plurimorum, quod uero multorum adunatiuum est, id eorum quae ad unitatis formam reducit, recte dicitur totum.    16 superius] p. 290, 15 ss.   1 est  om. L  priora] propria  La.c. Tk a.c A m1  2 esse] est  C  5  ante  genus  add. et H (er.) N  6  post  genus  add . quidem  L  8 est, sed] est ut est  H  ut est  N  12 secum]  H  (cum  in ras. m2 )  LR  secundo  CEGNPm2  (-da  m1 ) de pluribus—commune  (14)   post  praedicantur  (15) E 13 quod  E  14 his commune  HN  15 omne—-praedicatur  (16) in mg. Hm2  17 dicatur] praedicatur  CN  his] de his  G  18 etiam hoc  N  eorum sunt  C  20 genus est  NR  et] ut  Hm1  21  ante  species  add. est CNP, post E (in ras.) H  23 quod  E  re- ducuntur  Ca.c.N     Differt autem eo quod genus quidem continet spe- cies sub se, species uero continentur et non continent genera; in pluribus enim genus quam species est. genera enim praeiacere oportet et formata specificis  differentiis perficere species; unde et priora sunt naturaliter genera et simul interimentia, sed quae non simul interimantur. et species quidem cum sit, est et genus, genus uero cum sit, non omnino erit et species. et genera quidem uniuoce de speciebus praedi-  cantur, species uero de generibus minime, amplius genera quidem abundant earum quae sub ipsis sunt specierum continentia, species uero a generibus abun- dant propriis differentiis. amplius neque species fiet umquam generalissimum neque genus specialissimum.   Expeditis communibus generis ac speciei nunc de eorum discretione pertractat. differre enim dicit genus ab specie, quoniam genus continet species, ut animal hominem, species  1—15] Porph. p. 15, 14—24 (Boeth. p. 42, 21—43, 10). 1 PROPRIO  H  DIFFERENTIIS  C; de Porph. cf. ad p. 105, 16  2 Differunt  ENR edd.; Porph. p. 15, 15   διαφέρει   post  autem  add . genus  a  specie  Φ  continet quidem  N  3 sub se  er. uid .  5 ,  s. l. 2 m2, ante  species  (2)   ΓΦ ;  Porph. p. 15, 15   περιέχει τά είδη  species  s. l. Gm2  continetur  C A continetur a genere  Γ ;  Porph .  τα δέ είδη περιέχεται  et  om. EG  continet  C ΑΦ  4 in pluribus—differentiis  (14) ]  LR Q ,  om. cett . enim] quidem  S ;  Porph. p. 15, 16   ετι τά γένη  5  ante  oportet  s. l . et  5 m2  et  s. l .  5 m2 ,  hic om., sed ante  perficere  pos. LR h m1   (del. m2)   A ;  Porph. p. 15, 17 ν.α'ι διαμορφωθ-έντα  7 sed] si  R  9 est]  Porph. p. 15, 19   πάντως εστι;   exciditne  omnino ?   pr . et  om .  LR I ,  s. l .  A m2 ;  Porph. p. 15, 19   εστι και γένος   post . et]  A   (del. m2)   Φ   cum Porph. p. 15, 20, om. cett. edd. Busse  10 uniuoce quidem  AAS ;  Porph.   τά μέν γένη  de speciebus]  Porph. p. 15, 21   των δφ’ έοοτά ειδών  12 quidem genera  L s m2 i\Y .  Busse; Porph.   τά μέν γένη  sunt  (s. l. L)  sub ipsis  LR; Porph. p. 15, 22   των όπ’ αΰτά ειδών  13 a  om .  ΓΦ  ab  A m1 ,  del. m2  14 fiet  post  umquam  C  fit  HN  15 neque genus specialissimum  om. H   post  genus  add . fiet  CEGR  fiet umquam  ΑΑΣ  fiet species  L; Porph. 15, 24   ούτε τδ γένος ειδικάιτατον  16 ac] et  CE  17 differt  GR  a  HLNR  18  pr . speciem  HN   uero non continet genera; neque enim homo de animali prae- dicatur. itaque fit ut species quidem contineantur a generibus, numquam uero contineant genera, omne enim quod amplius praedicatur, illius est continens quod minus dicitur, quodsi  genus amplius praedicatur quam species, necesse est ut spe- cies quidem contineatur a genere, genus uero speciei nullo ambitu praedicationis includatur, huius autem ratio est quo- niam genus semper suscipiens differentiam speciem facit, hoc est, genus quod habebat latissimam praedicationem, coartatum  differentia et contractum speciem facit; omnino enim generi iuncta differentia speciem reddit et ex uniuersalitate atque latissima praedicatione in angustum speciei terminum con- trahit. animal enim, cuius praedicatio per se longe lateque diffusa est, si arripiat rationalis differentiam, si etiam mortalis,  deminuit atque contrahit in unum hominis speciem, unde fit ut minor sit semper species quam genus atque ideo conti- neatur, sed non contineat, sublatoque genere auferatur et spe- cies; si enim totum auferas, pars non erit, quodsi species auferatur, genus manet, ueluti cum animal sustuleris, interi-  mitur etiam homo, si hominem auferas, animal restat, haec etiam causa est, ut genus de specie uniuoce praedicetur, id est ut species suscipiat definitionem generis et nomen, sed  1 continent  HN enim  om. C  6 contineantur  NR  speciei  om. R  specie  Cm1  in specie  Lp.c . species  N  post nullo  add . modo  EGHPR, s. l. Lm2  7 includitur  EGLm1P  includat  N   post  autem  s. l.  rei  Cm2  8 semper  om. HN  species  N  hoc—facit  (10) om. EG  9 est  s. l. C, om. HN, del. Pm2  habet  Lm2Pm2  coartatum  ex  coapta- tum  Lm2, in mg . ał coaptata ipsa diffinitio et contracta speciem facit  m1  coaptata  Hm2P  apta  Cm1  (aptata  m2 )  Hm1N  10 et]  LR, s. l. Pm2 , om. CHN (de EG cf. ad S) contracta Lm2 omni Hm2Lm2 11 et om. G, s. l. ELm2 atque] et EHNPR 12 post praedicatione add. generis CNP, s. l. Lm2 speciem EG contrahitur Hm2 14 differen- tia  C ( ras. ex  -ã)  R  etsi etiam E et s. l., del. si etiam Lm2, et  R  15 diminuit  EHLPR ; diminuitur atque contrahitur  N  unam  C  (am  in ras. m2 )  Hm2NR  16 continentur sed non continent  N  17 et  om. EGR  19 remanet  C  cum] si  P  21 est causa  C  22 generis et nomen] et generis nomen  E et nomen generis  N  generis nomen  R   non e conuerso. definitionem quippe speciei genus suscipere non uidetur; substantiam enim priorum inferiora suscipiunt, si enim definias animal et dicas substantiam esse animatam atque sensibilem aut si praedices de homine ‘animal’, uerum dixeris, si etiam animalis definitionem de homine praedicaueris  dicasque hominem esse substantiam animatam atque sensi- bilem, nihil fuerit in propositione falsi, sed si hominis defini- tionem reddas ‘animal rationale mortale’, ea animali non con- ueniunt; neque enim quod animal est, id dici poterit animal rationale mortale, fit igitur, ut sicut species generis nomen  suscipit, ita etiam capiat definitionem, et sicut genus nomen speciei non suscipit, ita nec eiusdem definitione monstretur, sed cuius nomen et definitio de aliquo praedicatur, id uniuoce dicitur, cum igitur generis et nomen et definitio de specie praedicetur, genus de specie uniuoce dicitur, quoniam uero  speciei de genere. neque nomen neque definitio praedicatur, non conuertitur uniuoca praedicatio. Differunt genera <ab> speciebus hoc quoque modo, quod genera superuadunt species suas aliarum continentia specierum, species uero genera dif- ferentiarum pluralitate, animal enim, quod est genus, superuadit  hominem, quod est species, quia non hominem solum continet, uerum etiam bouem, equum aliasque species, quas suae spatio praedicationis includit, species uero, ut homo, superuadit genus, ut animal, multitudine differentiarum, nam quod actu genus  1 e conuerso] est  (om. R)  conuersio  EGLPR 2 non  er. H  sub- stantiae  EGLm2  (-tia  m1 )  PR  enim priorum] enim proprium  EGP diffinitionem ( om . en.  pr .)  R  3 et  om. CHNP  4 aut]  brm  at  CHLNP, om. EGR  5 definitione  E 7 nil  C  fuerat  Cm1  fueris  HN  falsi] mentitus  HN  sed] quod  CHN  hominis definitionem  om. EGR  hominis rationem  L  8 addas  EGR, post  si ( om . reddas,)  add. P , reddas addas  L pr . animali  Ea.c.LR  animal est G conuenit  CNPa.c.  9  ante  quod add.  id HNPR, s. l. Lm2  id dici] EGLa.r.P dici  Lp.r.R  idcirco dici  HN  id circo id dici  C  11 et  om. EG  12 defini- tionem ( uel diff-) monstret  EGR  14  pr . et  om. CEG, s. l. Lm2  15 praedicatur  E  uniuoce de specie  C  17 a  add. brm , ab  Brandt  18 modo  om. NR  19 continentia aliarum  C  21 quod] quae  N  non  s. l Cm2 22 equum bouem  HN  24 namque quod  Lp.c .   non habet rationale uel mortale — nullas quippe actu genus retinet | differentias —, easdem species suae substantiae inhae-  p .100  rentes atque insitas tenet, homo enim rationalis est atque mortalis, quod genus minime est; animal enim neque mortale  est per se neque rationale, quodsi genus quidem plus unam continet speciem, at uero species multis differentiis infor mantur, superat quidem genus speciem continentia specierum species uero uincit genus differentiarum pluralitate. Illa quoque est differentia, quod genus quoniam omnium primum  est, numquam in tantum descendere poterit, ut fiat ultimum, species uero, quae cunctis est inferior, in tantum ascendere non poterit, ut suprema omnium fiat; numquam igitur nec species generalissimum fiet nec genus specialissimum. Sed ex his quae dictae sunt differentiae aliae sunt quae genus ab  specie propriae coniunctaeque disterminant, aliae uero quae non solum genus ab specie, uerum etiam a ceteris diducunt ac disterminant, neque in his tantum differentiae quae sunt dictae, uerum etiam in ceteris considerentur oportet, si proprie normam quaerimus discretionis agnoscere.    1 uel  om. R  4 mortale] rationale  CHN  5 rationale]  R  inratio- nale  CHN  per se rationale  EGLP  unam continet speciem]  EG  (unam  s. l. m2 )  Lm1  quam unam continet speciem  Lm2R  una continet (continet una  C ) specie  CHNP  6 species uero ( om . at)  C  informa- tur  Lm1Pm1  7 species  G  9 quoniam] quod  Hm2  11 in tantum ascendere non] numquam in tantum ascendere  LNR  12 nec... nec] et... et  Hm1N  et... nec  C, pr . nec  om. P  14 ex his  om. EG, s. l. Lm2  sunt  om. E differentiarum  CN  differentiis  R  genus  s. l. Cm2  a  R  15 proprie coniuncteque ( ras. ex  -teque  Η )  HΝR (recte?)  propriaeque  G  coniunctaeque  om. EG  16 ab] a  R  diducunt]  Em2R  deducunt cett. distinguunt ac deducunt ( om . disterminant]  HN  17 neque (et quae non  CHN, s. l . ał quae  L ) in his tantum differentiis quae sunt dictae ( L  quae sunt dicta  G  quae dictae sunt  CHNP quid sint  in ras. E ) uerum etiam in ceteris (add. quoque  HLm1N, del. Lm2 ) considerentur oportet  CEGHLNP  neque in his tantum oportet considerare differentias quae sunt dicta uerum etiam in ceteris oportet  R ; differentiae  scr. Brandt ; neque enim in (de  bm ) his tantum oportet (oportet  om. p ) differentiis quae sunt dictae, uerum etiam in ceteris considerare (considerari oportet  p )  edd.  18 propriae  CEGLP  19 discretionis quaerimus  HR     Generis autem et proprii commune quidem est sequi species - nam si homo est, animal est, et si homo est, risibile est et - aequaliter praedicari genus de specie- bus et proprium de his quae illo participant; aequaliter  enim et homo et bos animal et Cato et Cicero risibile, commune autem et uniuoce praedicari genus de pro- priis speciebus et proprium quorum est proprium.    Tria interim generis ac proprii dicit esse communia, quorum primum illud est, - quoniam ita genus sequitur species ut  proprium, posita enim specie necesse est intellegi genus ac proprium; neutrum enim species proprias derelinquit, nam si homo est, animal est, si homo est, risibile est; ita quemad- modum genus, sic proprium ab ea specie cuius est proprium, non recedit. Illud quoque, quod aequalis est generis partici-  patio, sicut etiam proprii, omne enim genus aequaliter specie- bus participatur, proprium uero indiuiduis omnibus aequaliter adhaerescit, manifestum uero est participationem e?se generis aequalem; neque enim plus homo animal est quam equos  1—8] Porph. p. 16, 1-7 (Boeth. p. 43, 11—17).   1 COMMVNITATIBVS  Ψ ;  de Porph. cf. ad p. 102, 7  2 Genus  Em1Gm1 consequi  Pm1  3 nam—risibile  (6) ]  LR Q ,  om. cett. pr . est  s. l.   h m2  5 illo] sub illo  R participant] continentur  R ,  add.  indiuiduis  edd. cum plerisque codd. Porph. p. 16, 4  6  post animal add. est  ΓΦ ,  om. Porph. p. 16, 5  et Cato et Cicero]  Porph .  xat Άνοτος και Μέληχος post  risibile add. est  Φ  7 autem et] autem  CEGP  autem est (est  s. l .  h m2 ) et  (om. R)   R h  autem his  Ψ  autem hiis et  Φ  his  (s. l. m2)  autem et  Γ ;  Porph. p. 16, 6   δέ καί  speciebus propriis  R  8  post pr . proprium  add . de his  Ν Σ ,  s. l.  de propriis  Gm2  10 illud est primum  R  11  post proprium add. quoque  CH   (del. m2)   N  ac] et  C  13 si] et si  HN  risibilis  EGHNP  15  post quoque add. est commune  R, s. l. Lm2 ,  s. l . scil, commune est  Hm2  a genere (generis  Hm2 ) participatio est  HN  16 proprii] a proprio  Hm1N   ante  speciebus  add . a  H  ab  L (del. m2) NB, post add . suis  R  17 parti- cipat **  (ur  er .)  E  18 adheret  N  participatione  EGR  generi  E  ( ex genere  m2 )  R  19 aequale  EG  aequale proprium  R, post  aequa- lem  add. s. l . et proprii  Lm2, in mg . et proprium  Pm2   atque bos, sed in eo quod sunt animalia, aequaliter animalis, id est generis ad se uocabulum trahunt. Cato etiam et Cicero aequaliter risibiles sunt, etiamsi aequaliter non rideant; in eo enim quod apti ad ridendum sunt, dici risibiles possunt, non  quod iam rideant, aequaliter ergo ea quae sub genere sunt, suscipiunt genus, sicut ea quae sub propriis, propria. Tertium illud, quod sicut genus de speciebus propriis uniuoce praedi- catur, ita etiam proprium de sua specie uniuoce dicitur, genus enim quoniam substantiam speciei continet, non modo eius  nomen de specie, uerum etiam definitio praedicatur, pro- prium uero quia speciem non relinquit eamque semper sequitur nec in aliam speciem transgreditur nec infra subsistit, defi- nitionem quoque propriam speciebus tradit; cuius enim nomen uni tantum conuenit speciei cui coaequatur, dubitari non  potest quin eius quoque definitio speciei conueniat. quo fit ut sicut genus de speciebus, ita proprium de sua specie uniuoce praedicetur.    Differt autem, quoniam genus quidem prius est, posterius uero proprium; oportet enim esse animal,  dehinc diuidi differentiis et propriis, et genus qui-  18—p. 310, 13] Porph. p. 16, 8—18 (Boeth. p. 43, 18—44, 11).   1 eo] eodem  HLm2NR  2 ad se  om. EGR, s. l. Lm2  etiam  om. H  et  om. R  3  pr . aequaliter  om. C  6 suscipiant  Em1Lm1  genera  EGLPm2  gen.  ante  suscipiunt  HNP  7 illud] illud commune est  G quid  Cm1  9 enim  om. E  nomen eius  C  11 quia  om. EGLP  derelinquit  Lm2P  eamque] eique  HN  ei quae  R  ea quae  Pm1  ae- quatur  Pm2  12 definitio (diff-)  ELm2  (diffinitione  m1 )  Pm1 definitio enim  R  13 proprium  Ea.r.R  proprii  Ep.r.L  ( ras. ex  propriis,)  P  traditur  EGLm2Pm1 14 cui] uel ei  C  eique  HNPm2  (cuique  m1 ), et  (del. m2)  cui  L  aequatur  L  18 De proprietatibus  Δ ;  de Porph. cf. ad p. 105, 16  GENERIS ET PROPRII] EORVM P PROPRII] SPECIEI  L  19 Differunt  C edd . autem om. N autem genus et proprium  LR Δ2 ;  Porph. p. 16, 9 Διαφέρει δέ δτι τό μίν γένος  quidem om.  HNR  est  om. H  20 oportet—interimunt genera  (p. 310, 10) ]  LR Q ,  om. cett . 21  pr . et  om. L   dem de pluribus speciebus praedicatur, proprium uero de una sola specie cuius est proprium, et proprium qui- dem conuersim praedicatur de eo cuius est proprium, genus uero de nullo conuersim praedicatur, nam neque si animal est, homo est, neque si animal est, risi-  bile est; sin uero homo est, risibile est, et e conuerso amplius proprium omni speciei inest cuius est pro- prium, et soli et semper, genus uero omni quidem speciei cuius fuerit genus, et semper, non autem soli, amplius species quidem interemptae non simul inter-  p.101  imunt|genera, propria uero interempta simul in- terimunt ea quorum sunt propria, et bis quorum sunt propria interemptis et ipsa simul interimuntur.  Rursus tale proprium sumit, quod ad alterius comparationem proprium nuncupetur, dicit enim proprium esse generis prius  esse quam propria, oportet enim prius esse genus, quod ueluti materia differentiis supponatur, uenientibusque differentiis fieri speciem, cum quibus propria nascuntur, si igitur prius est  1 praedicatur]  R A m2 n   edd . praedicari  cett. codd. Busse  (propriis, et genus  distinguit, sed cf. 16  oportet  et p. 311, 9  Rursus differt);  Porph- p. 16, 11 κατηγορεΐται  2 una sola]  Porph.   ενός ,  cod. C add .  μόνοο  est  om.   Φ  6 si  R  homo est] homo et  ΔΑΠΨ  (et  er .), homo, et  Busse  homo est (est  s. l. m2 ) et  L; Porph. p. 16, 13  et  δέ άνθρωπος  et e conuerso] et conuerso  L h m1  et conuersim si risibile est homo est  R  si risibile est homo est  2 ;  Porph. p. 16, 14   καί εμπαλιν , add. ei  γελαστικόν, άνθρωπος   cod. C  8 et soli]  TA m2  et uni  Δ m1 ΑΣ  et uni et soli  LR ΠΦΨ ;  Porph. p. 16, 15   καί μόνψ  speciei quidem  2  9  post  speciei  add . inest  LR TA  ( s. l .)  ΠΦΦ-   (in mg. m2) edd. Busse, om .  Δ2   cum Porph . soli]  Porph. p. 16,16   και μόνω  10 species  s. l. L  propria  brm cum Porph . interempta  Φ  interimuntur  HL  11  post  genera  add.  quorum sunt species  A  propria] genera  brm Busse (in adn.) cum Porph. p. 16, 17 interimuntur  HΡ  12 ea  om .  Η ΤΦ  species  brm cum Porph . quarum  brm  et his— interemptis  om. EG  et] quare  edd., Porph. p. 16, 18   ώστε καί  13 in- teremptis  ante  et his  CP  et ipsa] et ipsa etiam propria  Φ  ipsa propria  2  interimuntur simul  CGLR ad 10—13 cf. p. 312, 13 ss . 14 Rursus  om. EG, s. l. Pm2 , sed  R  ad  om. H, s. l. Pm2  comparatione  HPm1  15 nuncupatur  Cm2Em2Ga.c.N  16  pr . esse  om. N, s. l. Pm2  uelut  N  18 species  Lm2  nascantur  N   genus quam differentiae, prius etiam differentiae quam species et speciebus propria coaequantur, non est dubium quin pro- pria generibus posteriora sint, ac per hoc quod dictum est, proprium esse generis prius esse quam propria, commune est hoc  generi cum differentia, differentiae enim species conformantes priores considerantur esse quam propria, siquidem speciebus ipsis priores sunt, quas propria ratione determinant, sed ut dictum est, hoc proprium ad differentiam proprii intellegendum est, non quale superius per se proprium constitutum est. Rursus  differt genus a proprio, quod genus quidem de pluribus praedicatur speciebus, proprium uero minime; nam neque genus est, nisi plures ex se species proferat, nec proprium, si alteri cuilibet speciei possit esse commune, fit igitur ut genus quidem plurimas sub se species habeat, ut animal  hominem atque equum, proprium uero unam tantum, sicut risibile hominem. Quo fit ut illa quoque differentia nascatur : genus enim praedicatur quidem de speciebus, ipsum uero in nulla praedicatione supponitur, proprium uero et species alterna praedicatione mutantur, fit enim praedicatio aut a maioribus  ad minora aut ab aequalibus ad aequalia, genus igitur, quod maius est, de speciebus omnibus praedicatur, species uero, quoniam minores sunt, de generibus non dicuntur, ut animal de homine dicitur, homo uero de animali nullo modo praedi- catur. at uero proprium, quoniam speciei aequale est, aeque  1 etiam] enim  Lm2  2et  om. EG  et si  H  4 est hoc]  HL  (hoc  del. m2 )  N  est et hoc  C  esse  Pm1  et hoc est  m2  est  EGR  5 diffe- rentia] differentiis  CHN  differentiae  om. EG  enim  s. l. Cm2, post species  EG  informantes prius  N  6 considerentur  Hm1R  esse  s. l .  Cm2  7 quam  G  8 hoc  om. EGR  10 a  om. NR  quod] quo- niam  L  de] a  C  12 proferet  Lm2  14 species sub se  C  16 quoque del. Em2, post add . proprietas  (s. l. Lm2)  ex  GL, s. l. Pm2  nascan- tur  Ep.c . 17 de speeiebus quidem  C  ipsis  CN  in  om. CN  19 mutuantur  La.c.Pm2  praedicatio  om. EGR, s. l. Lm2  20 quod] quoniam  E (in ros.) Gm2  21 est  s. l. Em2  praedicabitur  N  22 minora  CEGLm2P   praedicatur atque supponitur, ut risibile de homine dicitur - omnis enim homo risibilis est —, eodemque conuertitur modo; omne enim risibile homo est. Differt etiam proprium a genere, quod proprium uni et omni et semper speciei adest, genus uero ex his duo quidem retinet, in uno uero diuersum  est. nam speciebus suis et semper adest et omnibus, non uero solis; hoc enim haeret propriis, quod singulas tantum species continent, hoc generibus, quod plures. igitur propria quidem singulas optinent species, genera uero non singulas, adest igitur proprium uni soli speciei et semper et omni, genus uero omni  quidem et semper, sed non soli, ut risibile homini soli, ani- mal uero eidem homini, - sed non soli; praeest enim ceteris, quae inrationabilia nuncupamus. Praeterea si auferatur genus, species interimuntur nam si non sit animal, non erit homo —, si auferas species, non interimitur genus; nam si non  sit homo, animal non peribit, species uero et propria quoniam sunt aequalia, alterna sese uice consumunt; nam si non sit risibile, homo non erit, si homo non sit, risibile non manebit, consumunt igitur genera sub se positas species, non uero ab his inuicem consumuntur, species uero et proprium inuicem  perimuntur et perimunt.    1 supponitur] (sub-  HP )  CHm2Lp.c.P praeponitur  cett., recte?  2 enim  om. C locus  risibilis est—quidem speciebus  (p. 315, 7) bis in E scriptus, pag. 229—231 (E I ), ubi deletus est, et p. 232—234 (E II )  3 etiam  om. R, del. Lm1 , enim  m2  autem etiam  H  a genere pro- prium  C  a  om. R  4 speciei  s. l. Hm2  5 uero] quidem  E I qui- dem duo  CNB ,  om . quidem  E I  7 haeret propriis]  E III   GL  haeret (ł inerit  m2 ) tantum propriis  P  erat (erit  R ) tantum propriis (proprii  N ) esse  CNR  heret propriis uel aliter hoc enim erat tantum  H; ad  haeret  cf. p. 298, 4  tantum species—quidem singulas  om. E I  tan- tum  del. Lm2, s. l. Pm2 ,  post  species  NR  8 continerent  CHm2  con- tineret  N  contineant  Pm2  10 soli/////  E I  solius  E II G  11 sed] et  HN  soli homini  NP  13 inrationalia  H  auferamus  EGLPR  14 interi- mantur  L  erit] est  N  19 sub se positas] sibi  (om. H)  suppositas  HN  21 perimuntur] consumuntur  Lm2  perimunt] perimuntur  Lm2  pereunt  HNPm2     Generis uero et accidentis commune est de pluri- bus, quemadmodum dictum est, praedicari, siue separa- bilium sit siue inseparabilium; etenim moueri de  pluribus et nigrum de coruis et de hominibus Aethio- pibus et aliquibus inanimatis.  Nihil est quod inter cetera ita sit a generis ratione dis- iunctum, sicut est accidens, nam cum genus cuiuslibet sub- stantiam monstret, accidens uero a substantia longe disiunctum  sit et extrinsecus ueniens, nihil fere notius commune potest habere cum genere quam de pluribus praedicari, genus enim de pluribus praedicatur speciebus, accidens uero de pluribus non modo speciebus, uerum etiam generibus animatis atque inanimatis, ut nigrum dicitur de rationabili homine, de inra-  tionabili coruo et de inanijmato hebeno, album etiam de cygnoj  p. 102  et marmore, moneri de homine, de equo et de stellis ac de sagitta, quae sunt separabilis accidentis exempla.    1—6] Porph. p. 16, 19—17, 2 (Boeth. p. 44, 12—16).   1 GENERIBVS ACCIDENTIBVS  E I   E II   m1  ACCIDENTI  R de Porph. cf. ad p. 102, 7  2 Commune uero est generis et accidentis  2  Generi  N  Generibus  E I  accidentibus  E I   m1  3 praedicari  ante quemadmodum L siue—pluribus et]  LR Q ,  om. cett . separabile  2 m1  4 sit] sit accidens  2 inseparabile  2 m1  5  post  et  om. R  de  om .  E II HNR ΑΦ ,  recte?  homine  E III  omnibus  L A  ( ras. ex hominibus) hominibus  om. brm, delend. uid. Bussio; cf. p. 116, 5. 123, 22. 131, 2  homine Aethiope; Porph. p. 17, 1 κατά κοράκων καί Αίθ·ιοπων aethiopus EIII et (et de  G, del. m2 ) aethiopibus  GPm2 T2  6 ante aliquibus add. de  Gm2  in animis  E I ,  ante  inanimatis  add . naturis  H (del. m2), post CN , praedicari  Γ  ( in mg . praedicatur)  Φ ;  Porph.   καί tivmv άψΰχων  7 in ceteris  E III   GLm1P  9 a  om. R  10 uere  GR  uero ha- bere potest  C  11 enim] uero  C  14 rationabile  E III   a. c. Gm1  rationali  HNP post  homine  add . et  N  irrationali  HNP  15 ebeno  E III 16 marmore] de marmore  P   post  homine  add . et  N  17 sagitta]  CHLm1NPm1  (sagittis  m2 ) agitatis  E III   GR edd . ał de agitatis scil, rebus id est mobilibus  Lm2     Differt autem genus ab accidenti, quoniam genus ante species est, accidentia uero speciebus posteriora sunt; nam si etiam inseparabile sumatur accidens, sed tamen prius est illud cui accidit quam accidens, et  genere quidem quae participant, aequaliter partici- pant, accidenti uero non aequaliter; intentionem enim et remissionem suscipit accidentium participatio, generum uero minime, et accidentia quidem in indi- uiduis principaliter subsistunt, genera uero et species  naturaliter priora sunt indiuiduis substantiis, et genera quidem in eo quod quid sit praedicantur de bis quae sub ipsis sunt, accidentia uero in eo quod quale aliquid sit uel quomodo se habeat unum quod- que; qualis est enim Aethiops interrogatus dices  ‘niger’, et quemadmodum se Socrates habeat, dices quoniam sedet uel ambulat.    1—17] Porph. p. 17, 3-13 (Boeth. p. 44, 17—45, 9).   1 PROPRIIS] DIFFERENTIA  C; de Porph. cf. ad p. 105, 16  QVID INTER GENVS ET ACCIDENS SIT  Φ   (ex p. 116, 10)  2 genus  s. l. Hm2  ab  om .  HRE III   Δ  accidenti]  Δ  accidente  cett . 3 speciem  ΧΦ  posteriora  ante speciebus  C  inferiora  XA m1 AS  4 nam—unum quodque  (14) ]  LR Q ,  om. cett . si etiam] etsi etiam  ΓΦ  sed  om .  Γ  si  Σ  5 prius] plus  S  6 genere]  A m2   Busse  genera  cett. codd. edd . quae] quibus  A m1  aeque  Δ  7 accidenti]  p Busse  accidentia  codd. brm; ad 5  et— 7 cf. Porph. p. 17, 6 s. et infra p. 315, 12—14  enim  om. L in mg: figuram quandam habet   Δ ,  aliam (cf. ad p. 320,17)   Γ  9 uero  om. R  in  om .  Γ   Busse, s. l .  Rm2 A m2 K ;  cf. p. 315, 21; Porph. p. 17, 9   έπΐ τών άτομων  10 nero  om .  Δ  11  post  naturaliter  add.  non principaliter  LR AΑΦ ;  om. Porph. p. 17, 9  12 sit] est  LR A   ante  de  add.  et,  sed del.   ΓΔ  13 hiis  Φ  14  ante  quale  add.  et  R  sit]  cod. Q Bussii edd . est  cett. codd . quomodo  om. R  quodammodo  A m2  se  s. l.   A m2  habet  A m1  15 eat  ante  aethiops  ΔΑ , post  HΝ ΤΣΦ  enim  om. L  interrogatur  Φ  dices]  LRT  dicis  cett. codd. edd. Busse, cf. p. 317, 15  respondebimus;  Porph. p. 17, 12   έρεΐς  16 quo- modo  Δ  habeat  ante socrates  A  habet  ΗR Φ  dices]  K m2  dicis  cett. codd. edd. Busse, cf. p. 317, 16  dicemus;  Porph .  έρείς  17 ambulet  La.c.N   Differentiam generis et accidentis hanc primam proponit, quod genus quidem ante species sit, quippe quod materiae loco est et differentiis informatum species gignit, at uero accidens post species inuenitur. oportet enim prius esse cui  aliquid accidat, post uero ipsum accidens superuenire; nam si subiectum non sit quod suscipiat, accidens esse non poterit, quodsi genus quidem speciebus subiectum est nec possunt esse species, nisi eis genus ueluti materia supponatur, acci- dentia uero esse non possunt, nisi eis species supponantur.  manifestum est genus quidem esse ante species, accidentia uero post species. Rursus alia differentia, quoniam genus neque intentionem neque remissionem suscipere potest, quo fit ut quae participant genere, aequaliter eius nomen defini- tionemque suscipiant; omnes enim homines aequaliter animalia  sunt eodemque modo equi, nec non inter se homo atque equus et cetera animalia comparata aeque animalia praedicantur, accidentis uero participatio et intenditur et remittitur, inuenies enim quemlibet paulo diutius ambulantem, paulo amplius nigrum et in ipsis Aethiopibus considerabis omnes non aeque  nigro colore obductos. Alia quoque differentia est, quoniam omne accidens in indiuiduis principaliter subsistit, genera uero et species indiuiduis priora sunt; nisi enim singuli corui  1 et accidentis] ab accidentibus  HN  ponit  C  2  pr.  quod] quid  C  quoniam  (del. m2)  quod  E II  4  post  esse  add . aliquid  P, s. l. Lm2  5 si—sit] nisi sit subiectum  HN  nisi subiectum sit  R  6 quid  Cm1  potest  H  7 speciei  HN est] sit  N  nec] non  CEGLP  8 uelut  CEGLP  uel  R  supponitur  C  9 supponatur ( uel  subp-)  EGH 10  ante  manifestum  add . nam  EGLP  11  post  Rursus  add . uero  C post  alia  add . est  CGP  13 generi  CEGP  15 eodem  EHLR  18 paulo amplius nigrum paulo diutius ambulantem  HN post ambulantem  add . et  LR  19 et] et si (si  s. l, Lm2 )  LR  si  EGP  omnis  GLm2R  aequa nigredine coloris (coloris  del. Lm2 )  HLNP  20 obductus  EGLm1R ,  post  obd.  add . esse  C  est  EGLR  est  om. HN  21 in  om. CG  genera—priora sunt]  C  species uero et genera indiuiduis priora sunt HLm1N  genera uero speciebus et indiuiduis priora sunt  GP  genera nero et speciebus et indiuiduis posteriora sunt  Lm2  genera indiuiduis priora sunt  E  et indiuiduis posteriora sunt  R 22 singulariter  EGPR   nigredine infecti essent, comi species nigra esse minime dicere- tur. ita fit ut accidentia post indiuidua esse uideantur. nam si prius est id cui aliquid accidit quam illud quod accidit, nop est dubium prius esse indiuidua, posterius uero accidens, genera uero et species supra indiuidua considerantur; hoc  idcirco, quoniam de his omnibus praedicantur eorumque sub- stantiam propria praedicatione constituunt, sed dici potest genera quoque ipsa et species posteriora indiuiduis inueniri; nam nisi sint singuli homines singulique equi, hominis atque equi species esse non possunt, et nisi singulae species sint,  eorum genus animal esse non poterit, sed meminisse debemus superius dictum esse genus non ex his sumere substantiam de quibus praedicatur, sed de eo potius, quod differentiis con- stitutiuis eorum substantia formaque perficitur, itaque si genus quidem diuisiuis differentiis interemptis non perimitur, sed  manet in his quae eius constitutiuae sunt eiusque formam definitionemque perficiunt, cumque differentiae diuisiuae generis speciebus sint priores — ipsae enim species conformant atque constituunt —, non est dubium quin genus etiam pereuntibus speciebus possit in propria manere substantia, idem de spe-  ciebus dictum sit; species enim superioribus differentiis, non posterioribus indiuiduis informantur, quae cum ita sint, species quoque ante indiuidua subsistunt, accidentia uero nisi sint  12 superius] p. 300, 7—16.   1 essent  in ras. Lm2 , sunt  N  sint  R  2 esse  om. EGR  4 indiui- duum  CHN  5 super  CN  8 genera] de genere  R  quoque  om. R  quaeque  EGP  ipsa  om. EGPR  et species] atque species (specie  R )  LR  specieaque  N  9 nam nisi] nisi enim  EGR  nara nisi enim (enim  del. m2 )  C  homines—nisi singulae  (10) in mg. Em2  homi- nes  EN  10 et  om. EG  singulis  E  singuli  G  singulares  Lm2R  11 eorumque  Lm2 earum  brm  12 ex  del .,  his om. E  13 de eo] eo  Hm1N  ex eis  Hm2  de eis  Lm2  quod  del. Hm2, er. L , quo  GPR  14 eorum  om. Lm1  eius  R edd . quae eius  Hm2  de quibus eius  Lm2 substantiam formamque perficiunt  Hm2  normaque  N  15 diuisiuae ( post  differentiae  N ) differentiae interemptae non perimunt  HLN  16 eius- que] quae eius  C  quaeque eius  EGP  17 speciebus generis  LNR  20 permanere  Lm2R  23 quaeque  EG   quibus accidant, esse non possunt, nullis uero prius accidunt quam indiuiduis; haec enim generationi et corru|ptioni sup- p, 103·  posita uariis semper accidentibus permutantur. Illam quoque adnumerat differentiam quae est superius dicta, quod genus  quidem, quia rem demonstrat et de substantia praedicatur, in eo quod quid est dicitur, accidens uero in eo quod quale est aut in eo quod quomodo sese habet res. nam si qualitatem interroges, accidens respondebitur, ut si qualis est coruus, ‘niger’, si quomodo sese habeat, aliud rursus accidens, aut  ‘sedet’ aut ‘uolat’ aut ‘crocitat’. nam cum accidens in nouem praedicamenta diuidatur, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, habitum, facere, pati, cetera quidem omnia in ‘quomodo se habeat’ interrogatione ponuntur, qualitas uero in qualitatis sciscitatione responderi solet. nam si interrogemur  qualis est Aethiops, respondebimus accidens, id est ‘niger’, si quomodo se habeat Socrates, tunc dicemus aut ‘sedet’ aut ‘ambulat’ aut superiorum aliquid accidentium.  Genus uero quo ab aliis quattuor differat, dictum  4 superius] p. 189, 4 ss. 195, 1 ss. 18—p. 319, 14] Porph. p. 17, 14—18, 9 (Boeth. p. 45, 10—46, 9).   1  pr.  accidunt  Lm1  accident  N prius  post  accidunt  C  2 post indi- uiduis  add.  quia indiuidna prima sunt quantum ad praedicationem  P, in mg. Lm2  4 adnumera  ( ann-  G) EG  annumerant  Hm1  dicta est superius  R est sepius  (corr. m2)  dicta  C  sepius  (corr. Hm2)  dicta est  HN  5 quidem  om. EGR  6 dicitur  om. N, s. l. Hm2 post  uero  add.  aut P 7se  H post  habet  add.  res  CLm1, del. m2  9se  EGHN  habet  Clm1  aliud rursus accidens] aliud uero accidens rursus  C  aut uolat aut sedet  HLN  10 croccit  Hm1  groccitat  N, post add . egrotat  P  nam] at  EGLm1  ac  (ut uid.) R  12 quanto  Em1  quan- tum  G  situm habitum quando  C post  omnia  add.  id est VIIII  Hm1, del. m2  13 habeant  Ep.c. Lm2P interrogationem  EGR  14 inter- rogemur]  C edd. (cf.p. 314, 15)  interrogemus  cett., recte? cf.p. 58, ss. 99, 23  15 respondemus  HNR  16 dicimus  EHLRbrm  17 aliquod  ELa.c.N  18 uero] uerus  Pa.c.  ergo  CHL (in ras. m2)   R Φ  enim  A ;  Porph. p. 17, 14   uiv ουν  quod  EGPm1Rm1 T<l>  ab]  ΔΣΨ ,  s. l.   Il m2, om. cett.  quattuor  om. G, s. l.   Δ m2   est. contingit autem etiam unum quodque aliorum differre ab aliis quattuor, ut cum quinque quidem sint, unum quodque autem ab aliis quattuor differat, quater quinque, uiginti fiant omnes differentiae, sed semper posterioribus enumeratis et secundis quidem  una differentia superatis, prop(??)terea quia iam sumpta est, tertiis uero duabus, quartis uero tribus, quintis uero quattuor, decem omnes fiunt, quattuor, tres, duae, una. genus enim differt a differentia et specie et pro- prio et accidenti; quattuor igitur sunt omnes diffe-  rentiae. differentia uero quo differat a genere dictum est, quando quo differret genus ab ea dicebatur; relinquitur igitur quo differat ab specie et proprio et accidenti dicere, et fiunt tres. rursus species quo  1 contingit—ad accidens  (p. 319,12) ]  LR Q , om. cett. contigit  R A m1 Y m1  2 aliis  om. Porph. p. 17, 15  quidem  om. L K   Busse; Porph.   μεν  3  post  sint  add.  res  L  unum quodque autem]  il m2 xP p  Busse  unum autem  Β ΤΜΙ m1 Σ  una autem  L ΑΦ  et unumquodque  brm; Porph. p. 17, 16   ίνος ϊέ εκάοτοο  aliis  om. Porph.  differt  Δ  4 uiginti  del.   A ,  pos t XX  add.  uel quinquies quattuor  Rm1  quater V. XX uel  del. et post  fiant  add.  uiginti  m2 fient  ΑΑ m1 Φ  fuerint  Γ   post  differentiae  add.  sed non sic se res  ( res  om. p)  habet  edd. cum Porph. p. 17, 17   άλλ’ οοχ οδτως εχει  set  om.   Γ  6 superatis] subtractis  ΓΦ   (ex  substr- )  quia] quoniam  L A  Busse  sumpta] subtracta  Γ  7 uero] autem  LR T<l'  duobus  R  8 omnes  om. L post fiunt  add.  differentiae  Γ   (s. l.)   Π m2 edd. Busse (sed om. etiam eius codd. LP) cum Porph. p. 17, 20  9 enim] autem  Γ  a  om.  Σ , s. l.  A m2  et specie et proprio] a specie a pro- prio  R  specie proprio  Σ  10 et  om.   Σ  accidente  R Σ  igitur quatuor  R  differentiae omnes  La.c.  generis differentiae  R; Porph. p. 17, 22   at διοφοραί  11 quo  om. R  differat]  La.c. ( a  del.)   Σ  differret  R differt  cett.  a  om. R  12 quo] quid  L A  Busse  quod  m1,   om.  A ; ubi  quo  est (hic et 11. 13. 14. 319, 1. 2. 3. 5. 7 bis), Porphyrius   π-j   scripsit (p. 17, 23 et 22. 24. 25. 26 bis. 18, 1. 2. 3. 4) differret]  LR Ψ  (alt. r s. l.)  differre  Λ  differt  ΓΙIΣΦ  13 igitur] ergo  2  quod  R A  differt  A a.c.  ab  Brandt  a  LR il , s. l.  A m2, om. cett.  et  om. Β ΤΑΣ  a  L  14 accidente  R ΓΔ2Φ  post  tres  add. differentiae  Λ   ( ei fiunt tres differentiae. rursus  in mg. m2)   11 m2 ( species  m1)   Γ   ( rursus differentiae  pos.) Busse (cum duobus suis codd.), om. cett. codd. edd. Porph. p. 17, 25 quidem quo  ΓΔ2Φ ;  Porph.   π-jj έν   quidem differat a differentia dictum est, quando quo differret differentia ab specie, dicebatur; quo autem differat species a genere, dictum est, quando quo differret genus ab specie dicebatur; reliquum est  igitur, ut quo differat a proprio et accidenti dicatur. duae igitur etiam istae sunt differentiae. proprium autem quo differat ab accidenti relinquitur; nam quo ab specie et differentia et genere differat, praedictum est in illorum ad ipsum differentia. quattuor igitur  sumptis generis ad alia differentiis, tribus uero dif- ferentiae, duabus autem speciei, una autem proprii ad accidens, decem erunt omnes, quarum quattuor, quae erant generis ad reliqua, superius demonstraui- mus.    Quoniam differentias atque communitates generis ad diffe- rentiam, ad speciem, ad proprium atque accidens persecutus est, idem quoque ad ceteras facere contendens praedicit, quot omnes differentiae possint esse quae inter se comparatis com-  1 differt  R A  quo] quid  A   Russe  quod  Lm1 \  2 differret]  Lm2 Rm2 Aß p.c. tfl p.c.  differet  Lm1Rm Uα a. c. ΦΨ a.c.  differt  Δ2  differtur  Γ differentia ab specie]  ΓΦΨ   ( sed  a,  scr.  ab  Brandt),  a  (s. l.  A m2)  specie  (s. l.  et  add.  Δ m2) differentia  ΔΔΣ   edd. Busse  species a  ( et  Ώ )  differen- tia  L H  differentia ab ea  R; Porph. p. 17, 26   ή διαφορά τού είδους  quod  A m1  3 differat]  L  differt  cett. (ex  differet  V )  a  om. R ϋϊ  quo] quid  Δ   Busse  quod  A  4 differret]  L yAIW  differet  R Φ  differt  ΓΑ2  4 ab specie]  Γ  a specie  L ΔIΙΔΦΦ  specie  2  ab ea  R  5 differt  R, add.  species  ΓΑΠΨΨ ,  s. l. Lm2; om. Porph. p. 18, 2  a  om.   2  accidenti]  L  acci- dente  cett.  dicitur  R  6 igitur  om.   2  7 autem  om. R, s. l.  h m2  ab  om.   Σ accidenti]  edd.  accidente  codd. fort.  relinquetur;  cf. Porph. p. 18, 3   χαταλειφθήσεται  8 ab  Brandt  a  ΓΦ ,  om. cett. pr.  et  om. R  differet  Λ m1  differret  m2  differt  A m1 2 , s. l.  proprium  add. Lm2  dic- tum  Σ  9 differentia  ante  ad ipsum  Σ  differentiis  Β ΓΑΦ ; Porph. p. 18, 5 ... διαφορά  11  pr.  autem] uero  A  ad accidens] et accidentis  ΓΔ«ι7ΠΦ ;  Porph. p. 18, 7   πρός τδ σορβεβηχος  13 erant] erunt  N  reliqua]  N Λm1ίΣΦΨ  reliquas  cett. (in mg.  ad aliquas  T m2); Porph. p. 18, 8 πρός τά άλλα  16  utrumque  ad  om. NR  17 idem quoque] idemque  Lm1NR  ad cetera  C  de ceteris  HLN  praedicit  om. R  nunc dicit  H  18 possunt  CHLm1N  commissisque  N   mixtisque rebus his quae supra propositae sunt efficiantur. sunt autem uiginti. nam cum quinque sint res, una quaeque res earum si a quattuor aliis differat, quinquies quater, uiginti differentiae fiunt, quod appositarum litterarum manifestatur exemplo. sint quinque res ueluti quinque litterae A B C D E.  differat igitur A quidem ab aliis quattuor, id est B C D E, fient quattuor differentiae. rursus B differat ab aliis quattuor, id est A C D E, erunt rursus quattuor; quae superioribus iunctae octo coniungunt. C uero tertia ab reliquis differt quattuor, scilicet A B D E; quae quattuor differentiae supe-  rioribus octo copulatae duodecim reddunt. quarta D reliquis quattuor comparetur differatque ab eisdem, id est A B C E, fient igitur rursus quattuor; quae superioribus duodecim ap- positae sedecim copulant. quodsi ultima E ab aliis quattuor differat, scilicet A B C D, fient aliae quattuor differentiae;  quae compositae prioribus uiginti perficiunt. et sit quidem  p.104]  huiusmodi descriptio : |    1 positae  EHLNP  efficiuntur  HN  2  ante  una  add.  et  HLNPR  res  om. HN  3 si  om. HN  a  om. R  uiginti  om. E  4 fiant  Rm2  5 uel  E  6 aliis] reliquis  HN  7 fiant  R  differt  Ha.c.LN  aliis] reliquis  L  8 id est  om. HN  9 ab]  codd. reliquis] aliis  L  11  ante  reliquis  add.  si  L, s. l. Pm2  12 differatque] differat aeque  EGP ( differt  m2) R  eis  GHNPm1R  13 fiunt  N  fiant  R  igitur  om. HN post  quattuor  add.  differentiae  HN  15 fiant  R  faciat  L  faciet  HN  aliae  om. H  alias  LN  differentias  HLN  16 superi- oribus  C  et sit quidem]  CGP  et quidem sit  R  et sic  (ex  si )  quidem est  E  quarum  ( quorum  LN)  quidem sit  HLN  17 discriptio  C figu- ram om. G (duae lineae uacuae) Hm1N, supra depictam dedimus ex E, eandem uarie exornatam habent R (post uerba  quattuor differentiae  supra 7)   Γ   (in mg ad locum p. 314, 7 ss.), litteras tantum omissis lineis   Quae cum ita sint, in generibus quoque et speciebus et ceteris idem considerabitur. erunt ergo quattuor differentiae, quibus genus a differentia, specie, proprio accidentique dis- iungitur; aliae rursus quattuor, quibus differentia a genere,  specie, proprio atque accidenti discrepat; rursus quattuor spe- ciei ad genus ac differentiam, proprium atque accidens; quat- tuor etiam proprii ad genus, differentiam, speciem atque acci- dens; quattuor insuper accidentis ad genus, differentiam, spe- ciem atque proprium. quae coniunctae omnes uiginti explicant  diflferentias. sed hoc, si ad numeri referatur naturam compara- tionisque alternationem; nam si ad ipsas differentiarum naturas uigilans lector aspiciat, easdem saepe differentias inueniet sumptas. quo enim genus differt a differentia, eodem differentia distat a genere, et quo differentia distat ab specie, eodem  species a differentia disgregatur, et in ceteris eodem modo. in hac igitur dispositione differentiarum, quam supra disposui, easdem saepius adnumeraui. atque si differentiarum similitudines detrahamus, decem fiunt omnino differentiae, quas ad prae- sentem tractatum uelut diuersas atque dissimiles oportet assu-  mere. age enim differat genus a differentia, specie, proprio  in mg. sup. add. Hm2, quaternas litteras ( B C D E  cett.) infra singulis litteris  A  cett. positas quadratis inclusas exhibet L; in C in mg. (litt. minusc.) hae duae figurae sunt, quarum posterior spectat ad p. 321, 20 ss. 323, 9 ss:   in P figura est per quinque ob- longa deorsum continuata, quorum primum hic proponitur  :  3 ab  CEGHP  accidentique] atque accidenti  ( -te  N) HN  4 dif- ferentiae  G  ab  CEGHNP  6 ac  om. N  ad  LP  10  post  hoc  add.  fiet  E (s. l. m2)  fit  H (s. l. m2)  niget  L (in mg.) R  13 adsumptas  R  differat  C  14 ab] a  R  17 saepius  om. EGPR, s. l. Cm2, post  ad- numeraui  L  adnumerauit  Cm2GP  atque)  EGP  at  CR  itaque  HLN  si  om. N  multitudines,  s. l.  ał similitudines  L  18 fient  edd.   atque accidenti, quattuor differentiis, quas supra iam diximus. item sumamus differentiam, distabit haec a genere primum, dehinc ab specie, proprio atque accident. sed quo discrepet a genere, iam superius explicatum est, cum diceremus quo  genus a differentia discreparet. detracta igitur hac comparatione, quoniam supra commemorata est, relinquuntur tres distantiae quibus differentia ab specie, proprio accidentique disiungitur; quae iunctae cum superioribus quattuor septem differentias reddunt. post hanc species si sumatur, quattuor quidem eius  essent differentiae secundum numeri diuersitatem, cum ad genus, differentiam, proprium atque accidens comparatur, sed priores duae comparationes iam dictae sunt. nam quo species differat a genere tunc dictum est, cum quid genus differret ab specie dicebamus, quid uero species a differentia distet commemo-  ratum est, cum differentiae ab specie dissimilitudines redde- remus. quibus detractis duae supersunt integrae atque intactae speciei ad proprium atque accidens discrepantiae; quae iunctae cum septem nouem differentias copulant. proprii uero si ad numerum differentiae considerentur, quattuor erunt, scilicet ad  genus, differentiam, speciem atque accidens comparati, quarum quidem tres superiores differentiae iam dictae sunt. nam quid proprium distet a genere, tunc dictum est, cum quid genus a proprio distaret ostendimus, rursus quid proprium a differentia discrepet, in colligenda distantia differentiae propriique superius  1 accidente  N  3 ab]  HN  a  cett.  accidente  HN  quod  L  dis- crepet] distet  HN  5 hac igitur  C  6 distantiae] differentiae  L  7 a  LN  accidenti  C  accidenteque  H  disiungitur  ante  ab specie  C  8 reddunt differentiae  C  9 sumatur] mutatur  E  11  ante  differentiam  add.  et HLNP ante  proprium  add.  et  P  cõpararetur  C  cõparantur  N  12 differat  post  genere  EN  13 a  om. EGHNP  differret]  GLm2Pm2R  differet  ΕLm1  differat  HNPm1  differt  C  ad speciem  R  ad specie  C  15 ab specie]  CG  a specie  EHLm2NP  ad speciem  Lm1R  17  post  speciei  add.  id est  EGP  18 differentias copulant] complent differen- tias  C  20 comparatae  Ep.c. (ex-ti) GHm2PR quorum  EGLm1R  21 quod  C  22 proprium—cum quid  om. EGR  distaret a pro- prio  H   demonstratum est, quid uero proprium distet ab specie, tunc expositura est, cum quid species distaret a proprio dicebatur. restat igitur una differentia proprii ad accidens, quae superio- ribus iuncta decem differentias claudit. accidentis nero ad  cetera possent quidem esse quattuor, nisi iam omnes proba- rentur esse consumptae. nam quid differat uel genus uel dif- ferentia uel species uel proprium ab accidenti, supra mon- stratum est, nec sunt diuersae differentiae accidentis ad cetera quam ceterorum ad accidens. itaque fit, ut cum sit quinque  rerum numerus, si prima assumatur, quattuor fiant differentiae, si secunda, tres, uincanturque secundae rei ad ceteras difte– rentiae a prima ad ceteras una tantum distantia; nam cum prima habuerit quattuor, secunda retinet tres. tertia uero si sumatur, duas habebit differentias, quae uincantur a primis  quattuor differentiis duabus; quarta si sumatur, unam habebit differentiam, quae uincitur a primis quattuor differentiis tribus, quinta uero quoniam nullam omnino habebit differentiam nouam, totis quattuor a prima differentiis superatur. atque hoc nume- rorum gradu quidem usque ad denarium numerum tenditur :  quattuor, tres, duae, una, ut generis quidem quattuor, diffe- rentiae uero tres, speciei duae, proprii una, | accidentis nullap p. 105  sit. et primae quidem generis comparationes quattuor nouas tenent differentias, secundae uero differentiae comparationes  1 uero  om. EGR  a  EGLR  2 cum] quando  R  5 cetera] extera  Cm1  6 differret  H  differet  N  7 accidente  CHN  monstrauimus  H  8  ante  diuersae  add.  plus  R, s. l. Lm2  10  ad  prima  s. l.  ł una res  Hm2  sumatur  HN  fient  C  11 uincanturque]  C (pr.  n  om.) Lm1  (iungantur  m2) N, m2 in HPR ( iungenturque  Rm1) , uincantur  EGHm1Pm1 12 primis  L  13 habuerat  C  habeat  Lm2NP  retineat  Lm2  14 diffe- rentias habebit  C  uincuntur  Lm1R  15 duabus  (s. l. E)  differentiis  EHN post  duabus  add.  distantiis  GR post  quarta  add. nero  R, s. l.  autem  Pm2  16  post  tribus  add.  subdistantiis  E  distantiis  G  17 habet  HL  18 primis  brm  hoc] ex hoc  HLN  numeri  HN  19 gradus  HLm1N  quidam  HN  20  post post.  quattuor  add. sint  CHm2L (del. m2) P  sunt  Hm1N  22 sit]  Rbrm  est  CEGLP, om. HN  et  om. EGR  quidem  s. l. Em2L, post  generis  C  23 teneant  HLm1NR   tres nouas tenent; una enim superius adnumerata est, uincitur autem a primis quattuor nouis differentiis una tantum. speciei uero tertia comparatio duas tantum habet differentias nouas, duas quippe superius adnumeratas agnoscimus, et uincitur a  quattuor primis duabus tantum differentiis nouis. proprium uero unam retineat nouam, quoniam tres habet superius ad- numeratas, uincaturque a prima nouis tribus differentiis, quinti uero accidentis comparationes quoniam nullam retinent nouam differentiam, totis quattuor a primis generis transcendantur.  atque ad hunc modum ex uiginti differentiis secundum numerum decem secundum dissimilitudinem contrahuntur. ut tamen has secundum dissimilitudinem differentias non in quinario tan- tum numero, uerum in ceteris notas habere possimus, talis dabitur regula quae plenam differentiarum dissimilitudinem in  qualibet numeri pluralitate reperiat. propositarum enim rerum numero si unum dempseris atque id quod dempto uno relin- quitur, in totam summam numeri multiplicaueris, eius quod ex multiplicatione factum est dimidium coaequabitur ei plura- litati quam propositarum rerum differentiae continebunt. sint  igitur res quattuor A B C D; his aufero unum, fiunt tres; has igitur quater multiplico, fient duodecim; horum dimidium  1 teneant  HLm1NR  ten.  post  nouas  CR  adnumera  (tamen  eat ) C  uincitur autem] et uincatur  HLm1 ( et  del.,  uincitur  m2) N  2 nouis quattuor primis  HN  4 adnumeratas  om., in mg.  enumeratas  G  uin- catur  Lm1  uincantur  HN uincuntur  C  6  ante  unam  add.  tantum  L, post EGPR  retinet  Lm2Pm2 edd.  7 uincanturque  N uincatur qua re  EG  uincitur haec  R  uinciturque  edd.  quinta  N  8 comparatio  Lm2N  retinet  HLN, post  nouam  HN  9 primis]  CLPH a.r.  primi  EGHp.r.NR  transcendentur  Lm2 transcendatur  N  transgrediantur  C  transcenduntur  edd.  11 tamen  er. uid. E  non  G (etiam post diffe- rentias  est  non )  13 uerum] uerum etiam  C  ceteris quoque  brm  notas]  Lm1N  notis  CEGHm2 ( totas  m1) Lm2PR  15 reperiat] pariat  Cm2Hm1N  17  post  numeri  add.  si  CHP simul  EG  18 ei  om. EGN  19 sunt  Lm1R  20 igitur] ergo  CEN  fiant  LR  21 hos  EGLPR post igitur  add.  si  N  tres  H  per totam summam  R  multiplica  C  multipli- cato  E  fiunt  HN  fiant  R post  horum  add.  si  L   teneo, sex erunt. tot igitur erunt differentiae inter se rebus quattuor comparatis : A quippe ad B et C et D tres retinet differentias, rursus B ad C et D duas, C uero ad D unam; quae iunctae senarium numerum complent. atque hanc quidem  regulam simpliciter ac sine demonstratione nunc dedisse suffi- ciat, in Praedicamentorum uero expositione ratio quoque cur ita sit explicabitur.      Commune ergo differentiae et speciei est aequaliter  participari; homine enim aequaliter participant par- ticulares homines et rationali differentia. commune uero est et semper adesse his quae participant; sem- per enim Socrates rationalis et semper Socrates homo.    Dictum est saepius ea quae substantiam formant, nec  remissione contrahi nec intentione produci; uni cuique enim id quod est, unum atque idem est. quodsi differentia spe- cierum substantiam monstret, species uero indiuiduorum, aequa- liter utraque ab intentione et remissione seiuncta sunt; quo  6 in Praedicamentorum expositione] p. 272 C. B—l3] Porph. p. 18, 10—14 (Boeth. p. 46, 10—14). 14 saepius] cf. infra.   1 teneo] sumo  N  sumo tenens  ( tenens  del. m2) H  si  (ex  sumo  m2)  teneo  L pr.  erunt  ante  sex  N, s. l. Hm2 post.  erunt  ante igitur  ( ergo  H) HL  2 detinet  HN  4 complent numerum  H  5 dedisse nunc  HN  8 DIFFERENTIAE ET SPECIEI]  plerique codd. fort. ex 9 sumptum, om.   Δ , SPECIEI ET DIFFERENTIAE  Γ2Φ , r ecte ut aid.; Porph. p. 18, 10   Περί τής κοινωνίας τής διαφοράς καί τοΰ είδοος ,  cod. Μ   Περί κοινών είδους καί διαφοράς  9 est  add. Hm2  10 homine—parti- cipant  (12) ]  LR Q , om. cett.  homini  R T a.c.  hominem  L \  11 ratio- nalem differentiam  L \ , post differentia  add.  nam omnes homines aequa- liter homines sunt et aequaliter rationales  Σ  12 et  del. uid.  Δ , om.  Ψ  his adesse  LR <t>  post  quae  add.  eorum  ΓΔΠΦ  13 enim  om. R  rationabilis  CEGPR U  Busse, add.  est  ΓΔΦ ,  s. l.  A m2  14 saepius  i. e. p. 250, 24 ss. 314, 5 ss. ; saepe  de duobus locis etiam p. 293, 18 dictum;  superius  P, fort. recte, cf. ad p. 317, 4. 337, 8  17 monstrat  HLNP  18 utraeque  CP  seiunctae  CGPR   fit ut aequaliter participentur. omnes enim indiuidui mortales aeque sunt atque rationales sicut homines. nam si idem est ‘esse’ homini quod est ‘esse rationale’, cum omnes homines aeque sint homines, necesse est ut sint aequaliter rationales. Aliud quoque commune habent quoniam ita differentiae sui partici-  pantia non relinquunt ut species. semper enim Socrates rationalis est—Socrates enim rationabilitate participat —, semper homo est, quia scilicet humanitate participat. ut igitur differentiae sui participantia non relinquunt, ita species his quae ea parti- cipant, semper adiuncta est.     Proprium autem differentiae quidem est in eo quod quale sit praedicari, speciei uero in eo quod quid est : nam et si homo uelut qualitas accipiatur, non sim-  11— p. 327, 16] Porph. p. 18, 15—19, 3 (Boeth. p. 46, 15-47, 11).   1 mortales—sicut homines]  ( sunt  ex  sint  Lm2, add.  homines  Lm1, del. m2,  sunt  del. Pm2;  atque Lm1Pm2  et  HLm2Pm1;  sicut  del. et  sunt  scr. Pm2) HLP  aeque mortales atque rationabiles sunt ut homines  C  aeque  (s. l. m2)  mortales  (ex  -lis  m2)  sunt atque rationabilis  (sic)  sunt  (part. ras. ex  sicut  m2)  homines  E  mortales sunt atque  ( atque sint  N)  rationales sicut homines  NR  mortalis atque rationabilis sicut homines  G  2 nam—homines  (4) om. N  idem est]  E ( est  in mg.) HR  idẽ  CL  id est  ( ẽ  G) GP  est  del. Lm2  3 esse  post  ration.  EL, repetit. post ration.  P, om. CH  rationali  R  rationalis  Lm1  rationabile  G  rationa- bili  E  rationabilis  Lm2P  5  ante  commune  add.  est  H  habent  om. HR, s. l. EL ( n  del. m2)  differentia  R  6 relinquit  R relinquent  Pm1  derelinquunt  Lm1  rationabilis  EG  7 rationabilitati  CGP  rationalitate  HN post semper  add.  enim  G  8 quia  ex  qua  Em2  humanitati  EGLP  differentia  HLNR  9 relinquit  HLNR  par- ticipent  E  11 SPECIEI ET DIFFERENTIAE  ( DIFFERENTIIS  E) ΕG ΤΖΦ , recte ut uid. , DE PROPRIIS EORVM  ( EORYNDEM  Ψ ) Ρ Ψ ;  Porph. p. 18, 15   Περί τής διαφοράς τού εϊδοος και τής διαφοράς ,  cod. Μ   Περί τών ιδίων ειδοος και διαφοράς  12 autem  om. Η uero  C Q  quod  ex  quid  C  13 species  EGHNP  uero  om. H  autem  Busse  eo quod] quo  Γ  est] sit  R  14 nam—generationem  (p. 327, 15) ]  LR Q ,  om. cett.  accipitur  A m1  non]  R ΓΔΈ  cum Porph. p. 18, 17  hic non  L  non hic  A m2 H  Busse  non sic  Λ m1 Σ  non homo  Φ   pliciter erit qualitas, sed secundum id quod generi aduenientes differentiae eam constituerunt. amplius differentia quidem in pluribus saepe speciebus con- sideratur, quemadmodum quadrupes in pluribus ani-  malibus specie differentibus, species uero in solis his quae sub specie sunt indiuiduis est. amplius diffe- rentia prima eat ab ea specie quae est secundum ipsam; simul enim ablatura rationale interimit homi- nem, homo uero interemptus non aufert rationale, cum  sit deus. amplius differentia quidem componitur cum alia differentia — rationale enim et mortale compositum est in substantia hominis —, species uero speciei non componitur, ut gignat aliam aliquam speciem; qui- dam enim | equus cuidam asino permiscetur ad muli  p. 106   generationem, equus autem simpliciter asino num- quam conueniens perficiet mulum.  Expositis communitatibus quantum ad institutionem per- tinebat differentiae et speciei, eorundem nunc dissimilitudines colligit dicens quoniam differunt, quod species in eo quod  quid sit praedicatur, differentia uero in eo quod quale sit. huic differentiae poterat occurri. nam si humanitas ipsa, quae species est, qualitas quaedam est, cur dicatur species in eo quod quid sit praedicari, cum propter quandam suae naturae  1 sed] id  (del.) R  3 considerantur  Δ  4 pluribus]  Porph. p. 18, 20   πλείστων ,  cod. B   πλειόνων  6 specie] una specie  R Γ  ( sunt  ante specie )   ΛΨ ;  Porph. p. 18, 21   άκο το είδος  7 prima  ante  differentia  Δ  prior  edd.fort· recte cum Porph.   κροτέρα;   cf. p. 328, 32  superioris ab ea] et  Γ  ab ea—ipsam] ab ea quae est secundum se specie  2  8  post  ipsam  add.  differentiam  Δ   (del. m2)   Λ  10 deus] angelus  LR  ponitur  Δ  12 sub- stantiam  edd. cum Porph. p. 19, 1   εις οπδστοσιν  speciei] specie  R  13 aliquam  ante  aliam  T\A ,  post  speciem  2  14 equus] asinus  Σ  asinae  Φ  equae  Σ  15 equus] asinus  2  autem  om. N enim  C ΔΛ2  asinae  Pm2  conueniens numquam  2  16 mulum perficiet  CEG  perfici ad mulum  R 17 Positis  N  instructionem  H  18 eorum  L  earundem  edd.; cf. indicem Meiseri s.  neutrum 20 differentiae  C  uero  om. CGP  autem  R post  sit  add.  qua inter se differunt differentia et species  Hm1, del. m2  21 huic] nunc  G  differentia  G  22 dicitur  CLm2  praedicatur  GR   proprietatem quaedam qualitas esse uideatur? huic respondemus, quia differentia solum qualitas est, humanitas uero non est solum qualitas, sed tantum qualitate perficitur. differentia enim superueniens generi speciem fecit; ergo genus quadam differentiae qualitate formatum est, ut procederet in speciem,  species uero ipsa, qualis quidem est, secundum differentiam illius quae est pura ac simplex qualitas, qua scilicet perficitur et conformatur, qualitas uero ipsa pura simplexque nullo modo est, sed ex qualitatibus effecta substantia. itaque iure diffe- rentia, quae pure ac simpliciter qualitas est, in eo quod quale  est sciscitantibus respondetur, species uero in eo quod quid sit, licet ipsa quoque quaedam qualitas sit non simplex, sed aliis qualitatibus informata. Rursus illa quoque differentia est, quia plures sub se species differentia continet, species uero tantum indiuiduis praesunt. rationabilitas enim et hominem  claudit et deum, quadrupes equum, bouem, canem et cetera, homo uero solos indiuiduos. atque in aliis speciebus eadem ratio est. idcirco enim definitiones quoque secutae sunt, ut differentia uocaretur quod in pluribus specie differentibus in eo quod quale sit praedicatur, species uero quod de pluribus  numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Ideo etiam superioris naturae sunt differentiae, quoniam continentes sunt specierum. nam si quis auferat differentiam, speciem  1 respondebimus  G  3 tantum  om. EG  solum,  s. l.  ał tantum  L  4 facit  CLN  5 formatum est  s. l. Gm2  6  ad  qualis  s. l.  ł quali- tas  Hm2 post  quidem  add.  non  EGP (del. m2), in mg. Hm2  9  post  sed  s. l.  hec  L  iure itaque  C  11 species—quid sit  in mg. Gm2  12 sit] est  HN, add.  iure respondetur  CG (in mg. m2) LP  13 rursum  E, add.  differentiae et speciei  C  illa  om. E  ipsa  CGP post  quoque  add.  his  HN  differentia est] differunt  in ras. E est om. P  in hoc a specie distat  G  15 uero  om. CEGP  rationalitas  HΝ  16  post  quadrupes  add.  enim  P, s. l. Lm2  canem  om. C  camelum  R  17 sola indiuidua  Lm2R  19  pr.  in] de  Pm2  20 praedicetur  HLN species—praedicatur  om. E  21 praedicatur] dicatur  GHLPm1  22  post  differentiae  add.  quam species  CLP  speciebus  N post  quoniam  add.  enim  HLN  23 sunt  ( erunt  L) post  specierum  EGL, ante  conti- nentes  R  nam  om. LR, post  quis  s. l.  enim  Lm2   quoque sustulerit, ut si quis auferat rationabilitatem, hominem deumque consumpserit, si uero hominem tollat, rationabilitas manet in speciebus reliquis constituta. est igitur differentiae specieique distantia quod una differentia plures species con-  tinere potest, species uero nullo modo. Alia rursus est differentia, quoniam ex pluribus differentiis una saepe species iungitur, ex pluribus speciobus nulla speciei substantia copu- latur. iunctis enim differentiis mortali ac rationali factus est homo, iunctis uero speciebus nulla umquam species infor-  matur. quodsi quis occurrat dicens quoniam permixtus asino- equus efficit mulum, non recte dixerit. indiuidua enim indi- uiduis iuncta indiuidua rursus alia fortasse perficiunt, ipse uero equus simpliciter, id est uniuersaliter, et asinus uniuer- saliter neque permisceri possunt neque aliquid, si cogitatione  misceantur, efficiunt, constat igitur differentias quidem plurimas ad unius speciei substantiam conuenire, species uero in alterius speciei naturam nullo modo posse congruere.      Differentia uero et proprium commune quidem  habent aequaliter participari ab his quae eorum par- ticipant; aequaliter enim rationalia rationalia sunt et risibilia risibilia. et semper et omni adesse com-  18—p. 330, 4] Porph. p. 19, 4—9 (Boeth. p. 47, 12—19).   1 rationalitatem  HN  2 aero] quis  R  rationalitas  HLa.c.N  3 est  om. CEGP  4 specieqne  R  et species  C  distant  C  distantia est  EGP  species] significationes  Em1  5 differentia est  C  6 saepe  om. EGR post  pluribus  add.  uero  R  8 enim] etiam  Lm1  igitur  Lm2Pm1  10 asinae  HLm2  11 perficit  GP  12 perficiant  Lm1R  14 nec.. nec  C  neque permisceri possunt  om. EGR  neque aliquid] non aliquid  EGR  cogi- tatione si  HN  18 COMMVNIBVS] d e Porph. cf. ad p. 102, 7  20 par- ticipari] praedicari  L  ab his—dicitur  (p. 330, 2) ]  LR Q , om. cett.  ab  om.  Σ , del.  A m2  21 post enim  s. l.  quae  T m2  rationalia rationalia]  Tk m2 <t>W m2 edd. rationalia rationabilia  Π  rationalia  A2<V m1  rationabilia  LR & m1  rationabilia rationabilia  Busse  sunt  om. R, s. l.  h m2  22 et  er. uid.  Δ  post.  risibilia  om. LR \2 , post add.  sunt  codd., om. L cum Porph. p. 19, 6   mune utriusque est. si enim curtetur qui est bipes, sed ad id quod natum est semper dicitur; nam et risibile in eo quod natum est habet id quod est semper, sed non in eo quod semper rideat.    Nunc differentiae propriique communia continua ratione per-  -sequitur. commune enim dicit esse proprio ac differentiae quod aequaliter participantur — aeque enim omnes homines rationa- biles sunt, aeque risibiles —, illud, quia substantiam monstrat, istud, quia est aequum proprium speciei et subiectam speciem non relinquit. Aliud etiam his commune subiungit : aequa-  liter enim semper differentia subiectis adest ut proprium; semper enim homines rationabiles sunt, ut semper quoque risibiles. sed obici poterat non semper esse bipedem hominem, cum sit bipes differentia, si unius pedis perfectione curtetur. quam tali modo soluimus quaestionem. propria et differentiae  non in eo quod semper habeantur, sed in eo quod semper naturaliter haberi possunt, semper dicuntur adesse subiectis.  1 utrisque  ΓΛΣΦ  si] sine  R ΓΦ  qui est] quies  R  quidem  L A  post  bipes  add. non substantiam  ( substantia  ΑΦ )  perimit  ( perimitur  Ψ ) L ΑΨ  Busse (in adn. deleri mauult) , non substantia perit  ( peribit  Σ )   ΓΠΣΦ p ,  om. Rbrm, Porph. p. 19, 8, Boeth. in comment.  2 sed] ta- men  R  ad id quod] ad quod  L AΠ  (post  est  repet.  ad id )   Σ   Busse  ad id ad quod  Ψ , ad id  post est  h m1 post  est  add.  habet et id quod est  L A  (del. m2)  2 , ‘fortasse  id quod est  recipiendum’ Russe : Porph. p. 19, 8   αλλά πρός το πεοοχένοι το   ( το  om. Μ)   άει λέγεται  nam  -om. R  3 in eo] eo  EGLR A m1  ad  C 72  id  Ρ Π  ad id  *F  aliquod  N  habet id quod est semper]  C ( id  s. l. m1?) L hA  ( "habet—est  del. m2), pro  id  exhib.  hoc  H  et id  Σ , est  om. N  habet semper  Ρ Π  habet  EG semper dicitur  ΓΦΨ ,  om. R  4 sed—rideat] in  om. C, in mg. Hm2,  in quod semper rideat  EG non quod semper rideat  R Ψ ; Porph.   έπε'ι ναι τό γελαστικόν τώ πεφυχέναι έχει τό αεί, άλλ' ο όχι τώ γελάν άει  6 enim] autem  Lm2P  dicitur  CEGR  proprii  C  7 rationales  Cm2ELm2P  8 atque  NR  9 istud] illud  EGHN (add.  risibilis ) P  aequum  om. H  aeque  EG, recte?  propriae  EGLPR  et  om. EG  ac  N  subiectam  om. C  subiectum  EGPm1  10 reliquit  ELa.c.  etiam his] hic etiam  HN  11 subiectis  s. l. Gm2  12 rationales  Cm2HN  15  ante  propria  add.  et  HNP (del. m2), s. l. Lm2  propriae  CEGPm2  proprii  R  et  om. CE, del. Pm2  16  post  in] ex  HN   si enim quis curtetur pede, nihil attinet ad naturam, sicut nihil ad detrahendum proprium ualet, si homo non rideat. haec enim non in eo quod adsint, sed in eo quod per naturam adesse possint, semper adesse | dicuntur. ipsum enim semper;  p. 107   non actu esse dicimus, sed natura. numquam enim fieri potest, ut per naturae ipsius proprietatem non semper homo bipes sit, etiamsi potest fieri, ut pede curtetur, etiam si deminuto pede sit natus; in his enim non speciei atque substantiae, sed nascenti indiuiduo derogatur.      Proprium autem differentiae est quoniam haec qui- dem de pluribus speciebus dicitur saepe, ut rationale de homine et de deo, proprium uero de una sola spe- cie, cuius est proprium. et differentia quidem illis  est consequens quorum est differentia, sed non con- uertitur, propria uero conuersim praedicantur quorum sunt propria, idcirco quoniam conuertuntur.    Distat a proprio differentia, quia differentia plurimas species  10—17] Porph. p. 19, 10—15 (Boeth. p. 48, 1—7).   1 curtetur quis  N  nil  C  attinet  s. l. Lm2, post  naturam  R  2 ad  om. EG  ualet  om. EGR  3  pr.  in  om. CEH, s. l. Lm2Pm2 , ab  Gm1, del. m2 post.  in  om. EGNP, s. l. Lm2  4 possunt  HN  dicuntur semper adesse  R  5 actum... naturam  E  umquam  Ea.c.G  7 potest  om. EG, post  fieri  L , postea  (om.  fieri ut ) HN  pede]  HLm1N  ambo pede  Em1GR utroque pede  Em2Lm2P;  ambobus curtetur pedi- bus  C ante  etiam  (om. C) add.  uel  CL (s. l. m2) R  diminuto  CEGLPR  8 pede  om. C  sit natus] nascatur  C  10  de inscript. ap. Porphyr. cf. ad p. 105, 16  11 autem] uero  Δ  quoniam] quod  ΓΦ  12 saepe— conuertitur  (15) ]  LR Q , om. cett.  saepe  om. Lm1R, ante  dicitur  Lm22 ;  Porph. p. 19, 11   λέγεται πολλά*ις  rationabile  R  13  post , de]  A ,  om. cett.; cf. Porph. p. 19, 12 et infra p. 332, 3  deo]  ii  angelo  R  deo et angelo  L; cf. Porph. p. 19, 12 adn. ante  proprium  add.  et  Δ  uero  om. R  de una]  L 4 m2 4'  in una  R ΓΔ m1 ΠΣ  una  Φ ;  Porph.   έφ’ ένός   post  specie  add.  dicitur  Δ  16  post  praedicantur  add.  de his  Δ   (s. l. m2) edd.  ex his  Σ  hiis  Φ ,  om. Porph. p. 19, 14  18  post.  diffe- rentia  om. C  plurimis  R plures  L  pluribus  EG  speciebus  Em2GR   claudit ac de his omnibus praedicatur, proprium uero uni tantum speciei cui iungitur adaequatur. rationale enim de homine atque de deo, quadrupes de equo et ceteris animalibus, risibile uero unam tantum tenet speciem, id est hominem. unde fit ut differentia semper speciem consequatur, species  uero differentiam minime. proprium uero ac species alternis sese uicibus aequa praedicatione comitantur. sequi uero dicitur, quotiens quolibet prius nominato posterius reliquum conuenit nuncupari, ut si dicam ‘omnis homo rationabilis est’, prius hominem, posterius apposui differentiam; sequitur ergo dif-  ferentia speciem. at si conuertam nomina dicamque ‘omne rationabile homo est’, propositio non tenet ueritatem; igitur species differentiam nulla ratione comitatur. proprium uero et species quia conuerti possunt, mutuo se secuntur : omnis homo risibilis est et omne risibile homo est.     Differentiae autem et accidenti commune quidem est de pluribus dici, commune uero ad ea quae sunt  16—p. 333, 3] Porph. p. 19, 16—19 (Boeth. p. 48, 8—12).   1 clauditur  EGRm2  claude his  (sic) ml  2 cui iungitur] coniungitur  Lm1N, add.  et  L  rationabile  CGLPR  3  pr.  de  om. CH, er. L post  deo  add.  praedicatur  R, s. l. Lm2 post  quadrupes  add.  uero  R  et ceteris] ceteris  E  ceterisqne  GP  6 ac] et  E  7 aeque G R ( -(??)e )  comitentur  HN  comitatur  ex  commitetur  Rm2  sequi] si quid EGPm1  8 quotiens  om. EG, s. 1. Pm2  qualibet re  ( re  s. l. Pm2)  prius nominata  HLNPm2R reliquam  HLm2NPm2  reliqua  Lm1Rm2  uero qua  m1  9 rationalis  Cm2HN  est  om. N  10 posterius  ex  prius  Em2  opposui  EG  posui  Lm1R  ergo] enim  E  11 at] et  Hm1  nomina] ut  (in ras. Lm2)  prius differentiam nominem  HNP, in mg. Lm2  12 rationale  HN  propositi  CG proposita oratio  in ras. E  13 nulla ratione differentiam  C  proprium—secantur  in mg. sup. Hm2  14 sequuntur  PRm2  sequntur  E ante  omnis  add.  ut  L, post add.  enim  HNP  15 et  om. EG, s. l. Lm2  est  om. R  16 ACCI- DENTIS ET DIFFERENTIAE  E  ΕΤ] uel  P  ACCIDENTI  C de in- script. ap. Porphyr. cf. ad p. 102, 7  17 accidentis  Cm2 il  commune— adesse  om. N  18  post uero  add.  est  Ρ ΑΠ  Busse, om. Porph. p. 19, 18   inseparabilia accidentia, semper et omnibus adesse; bipes enim semper adest omnibus coruis et nigrum esse similiter.    Duo quidem differentiae et accidentis communia proponit,  quorum unum separabilibus et inseparabilibus accidentibus cum differentia commune est, ab altero uero separabile acci- dens segregatur. tantum uero inseparabile secundo communi concluditur. est enim commune differentiae cum omnibus acci- dentibus de pluribus praedicari; nam et separabilia et inse-  parabilia accidentia sicut differentia de pluribus speciebus et indiuiduis praedicantur, ut bipes de coruo atque cygno et de his indiuiduis quae sub coruo et cygno sunt, nuncupatur. item de eodem coruo atque cygno album et nigrum, quae sunt inseparabilia accidentia, praedicantur. ambulare enim uel  stare, dormire ac uigilare de eisdem dicimus, quae sunt acci- dentia separabilia, reliqua uero communitas ea tantum acci- dentia uidetur includere quae sunt inseparabilia. nam sicut differentia somper subiectis speciebus adhaerescit, ita etiam inseparabilia accidentia numquam uidentur deserere subiectum.  ut enim bipes, quod est differentia, numquam coruorum spe- ciem derelinquit, ita nec nigrum, quod accidens inseparabile est. differentia enim idcirco non relinquit subiectum, quoniam eius substantiam complet ac perficit, accidens uero huiusmodi,  1  post  semper  add.  in eodem genere  P  omni  R; Porph. p. 19, 18   παντί   post omnibus  add.  hominibus et  L  hominibus  Λ   (del. m2)  2 nigrum esse]  ΓΛ»ηίΨ  nigris  ( nigros  Hm2)  esse  EGHm1  nigredo esse  L  nigrum adest  \A m2  nigrum  CNΡR ΙΙΣΦ  Russe; Porph. p. 19, 19   τότε μέλαν είναι   (sic Μ,  μέλασιν είναι  Βm2  μέλαν  eett.)  4 quaedam  HΝ  et] atque  ΗΝ  5 sepa- rabilibus  om. G, s. l. Em2  6 uero] autem  E  7 uero] enim  R, recte? post  inseparabile  add. accidens  L  accidens cum inseparabilibus differentiis  in mg. Hm2  secunda communione  HLP 10 differentiae  CEGLm2P  11 et de his—cygno  om. H, —cygno sunt  om. EGR  12 nuncupantur  G  praedicatur uel nuncupatur  C  14 praedicantur—separabilia  (16) om. N  enim  s. l. C  etiam  H 15 isdem  CPm2  hisdem  ER  dicitur  LP  17  post  inseparabilia  add.  accidentia  C  19 accidentia inseparabilia  HN  de- serere uidentur  C  20 corui  N  21 est inseparabile  C  22 subiectum non relinquit  C  derelinquit  Lm1  23  post  huiusmodi  add.  est  edd.   quia non potest separari; neque enim possit esse accidens inseparabile, si subiectum aliquando relinquit.      Differunt autem quoniam differentia quidem con- tinet et non continetur — continet enim rationabi-  litas hominem —, accidentia uero quodam quidem modo continent eo quod in pluribus sunt, quodam uero modo continentur eo quod non unius accidentis sus- ceptibilia sunt subiecta, sed plurimorum, et differen- tia quidem inintentibilis est et inremissibilis, acci-  dentia uero magis et minus recipiunt. et inpermixtae quidem sunt contrariae differentiae, mixta uero con- traria accidentia.    Huiusmodi quidem communiones et proprietates dif- ferentiae et ceterorum sunt, species uero quo quidem  p. 108 differat a genere et differen|tia, dictum est in eo quod dicebamus, quo genus differret a ceteris et quo dif- ferentia differret a ceteris.    Post differentiae et accidentis redditas communitates nunc de eorum differentiis tractat. ac primum quidem talem proponit.  3—18] Porph. p. 19, 20—20, 10 (Boeth. p. 48, 13—49, 4).   1  post.  posset  Lm1  potest  HLm2NPR post  accidens  repet. esse  G , 3  uel  4  litt. er. L  2 reliquerit  H  relinqueret  N  3 ACCIDENTIS ET DIFFERENTIAE  Γ EARVNDEM  C  EORYNDEM  E de inscript. ap. Poiphyr. ef. ad p. 105, 16  4 Different  Cm1 Differt  L ΣΐΑηιΐ m1 Φ  post  autem  add.  differentia ab accidenti  Γ  5 et  om. GHP  continet— sunt  (15) ]  LR il , om. cett.  enim] autem  L  rationalitas  ΓΑ a.c. Π2ΦΨ  6 quidem  om.   Δ2  7 sint  L ΓΔΛΠΦ»ιί m1 | ·uero  post  modo  Ψ ,  del.   ΓΦ   (ut uid.)  9 sint  A  10 intentibilis  ΓΣ   Busse inintensibilis  edd.; Porph. p. 20, 4   άνεπίτατος;   ef. Roensch, Collect. phil. p. 299 12 post  uero  add.  sunt  ΛΦ  14 Huiuscemodi  Δ  15 quod  EGR  quidem  om.   2  quidam  Em2G  16 a  om. EGH 2 differentiae  E  est  om. C  17 quo] quod  R A m1  differet  R  differt  CEGP 2  a  om. ΕGΗΡR ΤΠ,ΣΦ quod  EGR is m1  18 differet  R  differat  L A  differt  G 2  a  om. EGHR TWZ  19 reddit has  E communicantes  Rm1  communiones  m2  20 primam  HN  quidem  om. HN  tale  C   differentia, inquit, omnis speciem continet. rationabilitas enim continet hominem, quoniam plus rationabilitas quam species, id est homo, praedicatur : supergressa enim substantiam hominis in deum usque diffunditur. accidentia uero aliquando  quidem continent, aliquando continentur. continent quidem, quia quodlibet unum accidens speciebus adesse pluribus con- sueuit, ut album cygno et lapidi, nigrum coruo, Aethiopi atque hebeno, continentur uero, quoniam plura accidentia uni accidunt speciei, ut uideatur illa species plurima accidentia continere.  cum enim Aethiopi accidit ut sit niger, accidit ut sit simus, ut crispus, quae cuncta sunt accidentia Aethiopis, species, quod est homo, omnia quae habet intra se plurima accidentia uidetur includere. huic occurri potest : quoniam differentiae quoque aliquo modo continentur, aliquo modo continent, ut  rationabilitas continet hominem—plus enim quam de homine praedicatur —, continetur quoque ab homine, quia non solum hanc differentiam homo continet, uerum etiam mortalem. re- spondebimus : omnia quaecumque substantialiter de pluribus praedicantur, ab his de quibus dicuntur non poterunt conti-  neri; quo fit ut differentiae quidem non contineantur ab specie, etsi sint differentiae plures quae speciem forment. accidentia uero continentur, quoniam accidentia speciei substantiam nulla praedicatione constituunt; nam nec proprie uniuersalia dicuntur  1 omnis speciem] species  R rationalitas  HNP  2 rationalitas  HNP  3 substantia  N  4 aliquando—aliquando] aliquo modo quid  N  7  ante  lapidi  s. l.  pario  Em2 post  nigrum  add.  ut  CEGLP, ante edd. ante  Aethiopi  add. et  E  8 continentur uero]  HLm2NP  continentur- que  cett.  9 plura  HN  10 enim] etenim  N ad simus  s. l.  naribus pressis  E  12  ex  quod  part. ras.  quae  Cm2  quod est] quidẽ  G ante  intra  add. et  E  plurima  om. EGH  13 occurri] opponi  HN  14  pr.  aliquo modo] aliquando  EGLm2P post. aliquo modo  om. N  aliquando  Em2Lm2P  15 rationalitas  H  17 homo] nomen hominis  HN mortale  edd.  respondemus  HN  respondebimus contra haec  GLPR  18 praedicantur de pluribus  C  20 a  R  21 sunt  H  differentiae  om. HN  speciem forment]  CEGP  speciem formant  Lm(??) ( informent  m2 hrm) N  formant speciem  H  informant speciem  R  22 con- tineantur  HN  23  ad constituunt  in mg.  ał subsistunt  Hm2   accidentia, cum de speciebus pluribus dicuntur, differentiae uero maxime. quae enim quorumlibet uniuersalia sunt, ea neoesee est eorum quorum sunt uniuersalia, etiam substantiam continere. qno fit ut quia differentiae substantiam monstrant, intentione ac remissione careant — una enim quaeque substantia  neque contrahi neque remitti potest —, at uero accidentia quoniam nullam constitutionem substantiae profitentur, intentione cre- scunt et remissione decrescunt. Illa quoque eorum est dif- ferentia, quod differentiae contrariae permisceri, ut ex his fiat aliquid, non queunt, accidentia uero contraria miscentur et  quaedam medietas ex alterutra contrarietate coniungitur. ex rationabili enim et inrationabili nihil in unum iungi potest, ex albo uero et nigro coniunctis fit aliquis medius color.    Expositis igitur distantiis differentiae ad cetera restat de specie dicere, cuius quidem differentias ad genus ante colle-  gimus, cum generis ad speciem differentias dicebamus. eiusdem etiam speciei distantias ad differentiam diximus, cum differentiae ad species dissimilitudines monstrabamus. restat igitur speciem proprii et accidentium communioni coniungere, tum differentia segregare.     Speciei autem et proprii commune est de se intri- cem praedicari; nam si homo, risibile est, et si risi-  21—p. 337, 4] Porph. p. 20, 11—15 (Boeth. p. 49, 5—10).   1 pluribus speciebus  HN  2 maximae  EH, add.  dicuntur uniuersalia et  ( et  om. R)  proprie  Lm2 (in mg.) R 4 ut  om. CG, s. l. Lm2  5 una quaeque enim  HNR  6 quoniam] quia  E  7 profitentur] monstrant  R ante  intentione  add.  et  HN  9 his] se  C  10 misceantur  N  permiscen- tur  R  et] ut  C  11 coniunguntur  LN  fiat  C  12 rationali  C ( bi  s. l. er.) HN  inrationali  HN  in unum]  L  in  om. cett.; cf. indicem Meiseri s.  unus 13  post color s. l.  ut uenetns  Pm2  15 ad genus— differentias  om. EG  16 dicebamus] diximus  EGP  17 diximus] dice- bamus  C  19 proprio  HLm1NP  accidenti  Lm1  accidenti tum  HPm2  accidentique  (om.  et ) N  communione  HLm1NP  tunc  R  20 disgre- gare  N  21  de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 102, 7  23 nam—dictum est  (p. 337, 4) ]  LR Q , om. cett. post  homo  add.  est  ΔΣ ,  s. l.  A m2  et si]  ΔΕΈ  et  L ΓΛΠΦ  ita et  R post  risibile  add.  est  ΔΣΨ   bile, homo est – risibile uero quoniam secundum id quod natum est sumi oportet, saepe iam dictum est —; aequaliter enim sunt species his quae eorum partici- pant et propria quorum sunt propria.    Commune, inquit, habent propria atque species ad se ipsa praedicationes habere conuersas. nam sicut species de proprio, ita proprium de specie praedicatur; namque ut est homo risi- bilis, ita risibile homo est; idque iam saepius dictum esse commemorat. cuius communitatis rationem subdidit, eam scilicet,  quia aequaliter species indiuiduis participantur, sicut eadem propria his quorum sunt propria. quae ratio non uidetur ad conuersionem praedicationis accommoda, sed potius ad illam aliam similitudinem, quia sicut species aequaliter indiuiduis participantur, ita etiam propria; aeque enim Socrates et Plato  homines sunt, sicut etiam risibiles. itaque tamquam aliam communionem debemus accipere quod est additum : aequaliter enim sunt species his quae eorum participant et pro- pria quorum sunt propria. an magis intellegendum est hoc modo dictum, tamquam si diceret ‘aequalia enim sunt species  et propria’? nam quia species eorum sunt species quae spe- ciebus ipsis participant, et propria eorum propria quae|pro-  p.109  priis participant, proprium atque species aequaliter utrisque sunt, id est neque species superuadit ea quae specie parti-  8 saepius] cf. infra.   1 est  om. R ante  secundum  add.  et  A   (s. l.) Busse, om. Porph. p. 20, 13  id  om.   J!  2 natum]  Porph. p. 20, 14   κατά τό πεοοχέναι γελάν  sumi oportet]  LR  dicitur  Q ;  Porph.   ληπτεον 3 sunt  om.   Φ ,  post  spe- cies  P  earum  R, ex  eorum  ut uid.  5 m2  7 ita—est homo  in mg. Hm2 praedicamus  EGHm2P p.c.R  namque  om. N  nam  R  8 ita homo risibile est  E  ita est risibile homo  R  iam] etiam  C  saepius]  HN  superius  cett. (recte?); cf.  saepe  2, et ad p. 317, 4. 325, 14 10 qua  CGLP  eadem] eodem modo  E  11 ratio] puto  Em2  12 accommo- data  edd.  13 qua  CGEm1P ante  indiuiduis  add.  ab  HNR, s. l. Lm2  14 participatur  H  18 ac  Lp,c.Pm2  est  om. C 19 aequa- liter  N  20  post  propria  add.  quorum sunt propria  C  21 et propria— atque species] atque proprium species  N  23  post.  speciei  EGLP   cipant, neque propria superuadunt ea quae propriis participant. cumque haec propria specierum sint. propria, species ac pro- pria aequalia esse necesse est atque inuicem praedicari.    Differt autem species a proprio, quoniam species  quidem potest et aliis genus esse, proprium uero et aliarum specierum esse inpossibile est. et species quidem ante subsistit quam proprium, proprium uero postea fit in specie; oportet enim hominem esse, ut sit risibile. amplius species quidem semper actu adest  subiecto, proprium uero aliquando potestate; homo enim semper actu est Socrates, non uero semper ridet, quamuis sit natus semper risibilis. amplius quorum termini differentes, et ipsa sunt differentia; est autem speciei quidem sub genere esse et de plu-  4—p. 339, 3] Porph. p. 20, 16—21, 3 (Boeth. p. 49, 11—50, 2). 14 quorum—differentia] Abaelardus II, Introduct. ad theolog. p. 94; Theo- log. christ. p. 488; De unit, et trinit. diuina p. 58 Stoelzle.   1 nec  CELN  2 haec  om. LN, del. uid. E  sunt  EHa.c.N, add.  et  CE (del.) GH (del.) P (del. m2)  propriis  (post  sint ) E (del.) G  proprii  Ha.c.  4 DE PROPRIETATIBVS  Δ  DE DIFFERENTIA  C; de Porph. cf. ad p. 105, 16  5 a  om. GHLNR, s. l. Pm2 il m2  6 et  om R SΣ ; Porph. p. 20, 17 cod. BM   χαί  proprium—praedicari  (p. 339, 2) ]  LR Q , om. cett.  et  om. Porph.  9 post  R Σ  post  enim  add.  ante  L  ut]  Porph. p. 20, 20   Ινα xai ( Voti   om. cod. M)  ut sit  s. l.  \ m2  11 potestate]  Porph. p. 20, 21   xol δονάμε:  12 enim] uero  L est  om. R  non uero semper]  ΔΛΠΨ   edd. Busse  non semper autem  Γ2Φ  semper autem non  LR; Porph. p. 20, 22   γελά δέ oix αεί ;  cf. infra p. 340, 4  13 quamquam  (uel  quan- )   L ΓΦ  natura  in ras.  A m2  14 termini] definitiones  (uel  diff- ) LR ΓΦ , ad  termini  s. l.  ł diffinitiones  \ m2 differentes]  ΓΑ  differentes sunt  Δ»ιίΠ2Φ  differunt  LR s m2 ii} ; Porph. p. 20, 23   ων οί οροί διάφοροι ; quo- rum termini, id est diffinitiones  ( id est diff.  om. p. 94)  sunt differentes  ( sunt differentiae  p. 488) , ipsa quoque sunt differentia  Abaelard.  15 spe- cies  R, post  speciei  s. l. diffinicio  A m2  quidem]  R T\ m2 (in ras.)  Ψ brm Busse in adn.,  semper  \ m1 (ut uid.)  All/ p Busse in contextu , esse semper  L  quidam terminus  Σ ; quidem sub genere semper esse  Φ   ante sub  add.  et  L A  Busse; Porph.   εατιν δέ ειδοος uev το οπδ τό γένος είνα:   ribus et differentibus numero in eo quod quid est praedicari et cetera huiusmodi, proprii uero quod est soli et semper et omni adesse.    Primam proprii et speciei differentiam dicit quoniam species  potest aliquando in alias species deriuari, id est potest esse genus, ut animal, cum sit species animati, potest esse hominis genus. sed nunc non de his speciebus loquitur quae sunt specialissimae, atque hunc confundere uidetur errorem, quod cum de his speciebus dicere proposuerit quae essent ultimae,  nunc de his quae sunt subalternae et saepe locum generis optineant disserit. propria uero nullo modo esse genera possunt, quoniam specialissimis adaequantur; quae quoniam genera esse non queunt, nec propria quae sibi sunt aequalia, genera esse permittuntur. Rursus species semper ante subsistit  quam proprium—nisi enim sit homo, risibile esse non poterit —, et cum ista simul sint, tamen substantiae cogitatio praecedit proprii rationem. omne enim proprium in accidentis genere collocatur, eo uero differt ab accidenti, quia circa omnem solam quamlibet unam speciem uim propriae praedicationis  continet. quodsi pviores sunt substantiae quam accidentia, species uero substantia est, proprium uero accidens, non est dubium quin prior sit species, proprium uero posterius. Dis- 1 est] sit  2   edd.; cf. p. 340, 13. 341, 22  2 praedicari]  Porph. p. 21, 2   ■κατηγορούμενον είναι post  huiusmodi  add.  praedicari  I m1, del. m2  pro- prium  R  quod est  om.   ΓΦΨ ,  del.  \ m2;Porph. τό μονω προοείνα;.  3 soli et omni et semper  Λ  semper et soli et omni  2  scilicet semper et omni  Gm1, ante  scilicet  in mg.  sali et semper  m2  4  ad  dicit  s. l.  dicunt  Έ  5 diriuari  EGNPR  7 specialissimae sunt  H  8 hunc  s. l. L  nunc  N  hinc  C  hic  Em2  uidetur confundere  C  9 essent] sunt  L  11 genera  s. l. Lm2, ante  esse  HRS  13 non queunt] nequeunt  L  non pos- sunt  NR  14 permiitunt  C ( ur  er.) N  species—subsistit] species est semper ante  C  15 homo sit  LPR  16 ista] ita  CLa.c.  18 uero]  Brandt  enim  codd. edd.  accidente  CNR  quia] quod  L  19 speciem  om. H propriae  del. Lm2  20  post  continet  add.  accidens autem quando continet, ad multas species potest diffundi  EL. (in mg. inf. m2) Pbrm  21 accidens—proprium uero  om. R  22 uero  om. EG, s. l. Pm2  Decernuntur  GHLP  Disterminantur  E   cernuntur etiam species a propriis actus potestatisque natura; species enim actu semper indiuiduis adest, propria uero ali- quotiens actu, potestate autem semper. Socrates enim et Plato actu sunt homines, non uero semper actu rident, sed risibiles esse dicuntur, quia tametsi non rideant, ridere tamen poterunt.  natura itaque species et proprium semper subiectis adest, sed actu species, proprium uero non semper actu, uelut dictum est. At rursus quoniam definitio substantiam monstrat, quorum diuersae sunt definitiones, diuersas necesse est esse substantias; speciei uero et proprii diuersae sunt definitio-  nes, diuersae sunt igitur substantiae. est autem speciei definitio esse sub genere et de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicari; quam superius frequenter expositam nunc iterare non opus est. proprium uero non ita : definitur : proprium est quod uni et omni et semper speciei  adest. quodsi definitiones diuersae sunt, non est dubium spe- ciem ac proprium secundum naturae suae terminos discrepare.      Speciei uero et accidentis commune quidem est de pluribus praedicari; rarae uero aliae sunt communi-20  18—p. 341, 2] Porph. p. 21, 4-7 (Boeth. p. 50, 3—6).   1 species  om. EHP, s. l. Lm2, ante  etiam  G  a propriis  in ras. Lm2,  a  (om. R)  proprio  Pm2R  actu  CHLm1N  2  post  uero  add.  non semper  ( actu  s. l. add. Lm2)  sed  EGLPR  3 actu  om. EG, del. R, s. l. Lm2  autem semper  om. EGR  4  ante  sunt  add.  semper  N  5 quia  om. HN, s. l. Lm2  tametsi] etiamsi  C  potuerunt  N  pos- sunt  R  non  (del. E)  poterunt  EG  6  ante  species  add.  e(??)  R, ras. L  ad- est] adsunt  H  7 uelut] ut  NR  9 diuersas—definitiones  (10) om. N  11 igitur—speciei] substantiae igitur. est speciei autem  H  substantiae— de pluribus  in mg. inf. Gm2  speciei definitio] diffinitio speciei spe- cies  C  12 sub genere esse  HΝ  14 opus non  H  ita definitur,  om.  non  Hbrm, er. E;  ita, <sed> definitur  Brandt, cf. p. 347, 4  15 spe- ciei  om. H  18  de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 102, 7  19 uero] autem  H  est quidem  C  20 sunt aliae  HRT   tates propterea, quoniam quam plurimum a se distant accidens et id cui accidit.    Speciei atque accidentis similitudinem communem dicit de pluribus praedicari; de pluribus enim dicitur species, sicut et  accidens. raras uero dicit esse alias eorum communiones idcirco, quoniam longe diuersum est id quod accidit et cui accidit. cui enim accidit, subiectum est atque suppositum, quod uero accidit, superpositum est atque aduenientis naturae. item quod supponitur substantia est, quod uero uelut accidens  praedicatur, extrinsecus uenit. quae omnia multam eius quod est subiectum et eius quod est accidens differentiam faciunt. tamen inueniri etiam aliae possunt speciei et accidentis inse- parabilis communitates, ut semper adesse subiectis — aeque enim homo singulis hominibus | semper adest et inseparabilia  p. 110   accidentia singulis indiuiduis praesto sunt —, et quod sicut spe- cies de his quae indiuidua continet, aeque de pluribus accidentia indiuiduis praedicantur; nam homo de Socrate et Platone, nigrum uero atque album de pluribus coruis et cygnis quibus accidit nuncupatur.      Propria uero utriusque sunt, speciei quidem in eo quod quid est praedicari de his quorum est species,  20—p. 342, 15] Porph. p. 21, 8—19 (Boeth. p. 50, 7—20).   1 quam  om. ΗL ΣΑΛ'Ψ  (recte?), s. l.   Π m2 , quem  R  qui  (ut uid.) N; Porph. p. 21, 6   itXststov  distant  ante  a se  Δ   (s. l. m2)   A , a se  om. N  2  ante  accidens  add.  et  Γ id  om.   12 ,  s. l. Pm2 , hoc  Σ ;  Porph. p. 21, 7   *a\ το m οομβέβηχβν  accidunt  Em1P  3 atque] et  HL  accidens  Έ  dicit  om. E, s. l. Lm2Pm2  de  s. l. Lm2  5 dicit alias,  post er.  esse  uid. C  7 atque] et  H  8 est  om. EGHP  adueniens  EPm1  accidentis  N  11 et eius] eius est  E  12 possunt) sunt  E  insepa- rabiles  Cm1GP  13 subiectis semper adesse  HN post  adesse  add.  possunt  E  15 sicut]  L (s. l. m2) Rbrm, om. cett. codd. p  16 conti- nent  H ante  accidentia  add.  ut  CH  17 praedicatur  G  et  om. EGHPR  20 ET  om. R de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 105, 16  21 in] et  C 22 est] sunt  Hm1  sit  Σ  praedicare  EGm1P , praedi- catur  2  de his  om.   Σ  hiis  Φ  quorum—in eo] in eo accidentis autem quorum est species  Φ   accidentis autem in eo quod quale quiddam est uel aliquo modo se habens; et unam quamque substantiam una quidem specie participare, pluribus autem acci- dentibus et separabilibus et inseparabilibus; et spe- cies quidem ante subintellegi quam accidentia, uel si  sint inseparabilia — oportet enim esse subiectum, ut illi aliquid accidat —, accidentia uero posterioris generis sunt et aduenticiae naturae. et speciei quidem participatio aequaliter est, accidentis uero, uel si inseparabile sit, non aequaliter; Aethiops enim alio  Aethiope habebit colorem uel intentum amplius uel remissum secundum nigredinem.    Restat igitur de proprio et accidenti dicere; quo enim proprium ab specie et differentia et genere differt, dictum est.   Quod nunc proprium speciei et accidentis se exequi polli- cetur, tale proprium intellegendum est quod, ut superius dictum est, ad comparationem dicitur differentium rerum. species enim in eo quod quid est praedicatur, accidens uero in eo quod quale est. qua differentia non ab accidentibus solis species  2 unam quamque—4 inseparabilibus] Abaelardns II, Introduci. ad theolog. p. 89; Theolog. christ. p. 479. 17 superius] p. 297, 9. 301, 5.   1 quale] quale est  N  quidem  CEm1  quidam  m2  uel—habens  om. CEGHN  2 aliquo modo] quomodo  ΓΦ ;  Porph. p. 21, 10   πώς ;  cf. supra p.128, 10 adn.  et—nigredinem  (12) ]  LR Q , om. cett.  3 unam  R  qui- dem  om. Abaelard.  participari  L ΓΔΣ a.c. Φ praedicari  \ m1  autem] uero  L Abaelard.  4  tert. et om.   Γ  5  post  quidem  add.  sane  L ΓΛ  (s. l. m2)  ΙIΣΦ  Busse, om. R ΛΨ  cum Porph. p. 21, 12 post  subintel- legi  add.  potest  Lpr  possunt  bm; Porph.   w\ τά piv είδη προεπινοεΐται  uel  om.   Φ   ad  uel si  s. l.  etiamsi  K m2  6 inseparabilibus  R  8 generis  om. R  aduentiuae  R  9 aequalis  Λ  accidens  L T m1 A m1  10 alio Aethiope]  Porph. p. 21, 16   ΑίίΚοπος  13 accidente  HNR ΔΣ , ante er.  de  P  14 enim] etiam  H  a]  cod. Q Bussii (om. cett.) edd. (cf.p. 344, 9),  ab  scr. Brandt  speciei  Ca.r.EGR  et  om. CEGHPR differen- tiae  GR  15 differt  om. L  differat  ΦΣ  distat  R  est dictum  H, add.  in illorum differentiis ad ipsum  2  18 dicatur  R  20 est  om. GP, post add.  praedicatur  H   discernitur, uerum etiam a differentiis ac propriis, nec solum species ab eisdem, uerum etiam genus. praeterea quod species in eo quod quid est praedicatur, accidens uero in eo quod quomodo sese habeat, id quoque commune est cum genere;  genus quippe ab accidenti in eo quod quid est et quomodo se habeat praedicatione diuiditur. Item unam quamque substantiam una uidetur species continere, ut Socratem homo, atque ideo Socrati una tantum propinquitas est species hominis. rursus indiuiduo equo una species equi est proxima, itemque  in ceteris; uni cuique enim substantiae una species praeest. at uero uni cuique substantiae non unum accidens iungitur; uni cuique enim substantiae plura semper accidentia super- ueniunt, ut Socrati quod caluus, quod simus, quod glaucus, quod propenso uentre, et in aliis quidem substantiis de numero  accidentium idem conuenit. Dehinc semper ante accidentia species intelleguntur. nisi enim sit homo cui accidat aliquid, accidens esse non poterit, et nisi sit quaelibet substantia cui accidens possit adiungi, accidens non erit. omnis autem sub- stantia propria specie continetur. recte igitur prius species,  accidentia uero posterius intelleguntur; posterioris enim sunt, ut ait, generis et aduenticiae naturae. nam quae substantiam non informant, recte aduenticiae naturae esse dicuntur et posterioris generis; his enim substantiis adsunt quae ante dif- ferentiis informatae sunt. Rursus quoniam species substantiam  1 decernitur  Rm2  ac  s. l. Lm2  a  EGH  et a  P  3 praedicatur  post  species  H  quod  om. E, s. l. Gm2  4 se  EP  habet  LR  id—habeat  (6) om. R  est commune  H post  est  add.  speciei  L   (s. l. m2) brm  5 accidenti]  edd.  accidente  codd.  quod  om. E  8 propinquitate  EPm1  propinqua  L  species est  LR  9 est equi  H  item  H  10 una—substantiae  in mg. Hm2  13 quod simus  om. C  15 accidentium  ex  accommodantium  Hm2 post conuenit  add.  dicere  R  ante  om. C  16 accidit  CHLNPR, recte?  18 autem  del. Lm2  enim  P  20 uero  om. R, in mg. Lm2  posterius] postremo  R  enim] uero  CE  21 generis ut ait  CR  nam quae] nam  Rm1  namque  EG  nam quia  CN  22  ante  recte  add.  ideo  EGL (s. l. m2) P (del. m2)  esse  om. H   monstrat, substantia uero, ut dictum est, intentione ac remis- sione caret, speciei participatio intentionem remissionemque non suscipit. accidens uero uel si inseparabile sit, potest inten- tionis remissionisque cremento et detrimento uariari, ut ipsum inseparabile accidens quod Aethiopibus inest, nigredo. potest  enim quibusdam talis adesse, ut sit fuscis proxima, aliis uero talis, ut sit nigerrima.    Restat nunc proprii communiones ac differentias persequi. sed quo proprium differat a genere uel specie uel differentia. superius demonstratum est, cum quid genus uel species uel  differentia a proprio distaret ostendimus. nunc reliqua ad com- munitatem uel differentiam consideratio est, quid proprium accidentibus aut iungat aut segreget.      Commune autem proprii et inseparabilis accidentis  est quod praeter ea numquam constant illa in quibus considerantur; quemadmodum enim praeter risibile non subsistit homo, ita nec praeter nigredinem sub-  14—p. 345, 2] Porph. p. 21, 20-22, 3 (Boeth. p, 51. 1—6).   1 demonstrat  H  ac] et  H  2 remissionemque] ac remissionem  H  3 si  s. l. CLm2  4 in  (del. m2)  incremento  H  decremento  R edd.  uti  R  ita  E  5  ante  nigredo  add.  ut  Hm1N  id est  s. l. Hm2  6 fu- scis]  La.c. edd.  fuscus  Lp.c. et cett.  aliis uero]  edd.  uero aliis  codd. ( uero  s. l. Lm2)  8  post  proprii  add.  et accidentis  N  ac] ad  EGLm1  9 quo]  Cm2 (part. ras. corr.)  quod  Cm1EGLm1NPR  quid  HLm2; cf. p. 342, 13  10 quid] quod  N  quicquid  E  uel differentia uel species  H  11 a  s. l. Lm2  12 uel] et  N  quod  E  quae  Hm2LR  13 iungit  EGHm1LPm1R  segregat  LPR  separet  N  14 ACCIDEN- TIS]  Porph. p. 21, 20 cod. Μ   σομβεβηχοτος ,  cett.   τοδ άχωρίστοο σομβεβη- αότος ;  de Porph. cf. etiam ad p. 102, 7  16 est  post  commune  L, ante  accidentis  AA m1  accidentis inseparabilis est  m2  praeter ea] prop- terea  Φ  constant]  CH Busse (coll. p. 159, 7)  consistant  EGNPR h m1 A p.c. W   edd.  consistunt  L A a. c.   112Φ  consistent  r\ m2  illa  post  quibus  N  17 quemadmodum—Aethiops  (p. 345, 1) ]  LR Q ,  om. cett.  18 ita  om.   2 ,  s. l.   A m2  subsistit] non subsistit  A m2; Porph. p. 22, 1   ΰποσταίη dv   sistit Aethiops, et quemadmodum semper et omni adest proprium, sic et inseparabile accidens.    Quoniam proprium semper adest speciebus nec eas ullo  p. 111  modo relinquit quoniamque inseparabile accidens a subiecto  non potest segregari, hoc illis inter se uidetur esse commune, quod ea in quibus insunt, praeter propria uel inseparabilia accidentia esse non possint. inseparabilia uero accidentia com- parat, quoniam, ut in specie dictum est, rarissimae sunt speciei atque accidentis similitudines. quocirca multo magis proprii  atque accidentis communitates difficile reperiuntur. accidens enim in contrarium diuidi solet, in separabile accidens atque in inseparabile, quae uero sub genere in contrarium diuiduntur, ea nullo alio nisi tantum generis praedicatione participant. quodsi proprium inseparabile quoddam accidens est, a separabili  accidenti plurimum differt, atque ideo nullas proprii et separa- bilis accidentis similitudines quaerit. sed quia ipsum proprium certis quibusdam causis ab inseparabilibus accidentibus differt, horum et communitates inueniri possunt et inter se differentiae. quarum una quidem ea est quam superius exposuimus, secunda  uero quoniam sicut proprium semper et omni speciei adest, ita etiam inseparabile accidens; nam sicut risibile omni homini et semper adest, ita etiam nigredo omni coruo et semper adiuncta est.    8 ut in specie dictum est] p, 340. 20.   1 et omni  om. H  et  om. R; Porph. p. 22, 2   παντι και άεί  2 sic  om. P  sicut  C  et  om. R  3 semper  om. H  4 quodque  Hm1  5 inter se  post  commune  H  6 ea in] eam (m  del. m2) H  insunt] sunt  R, add.  ipsa propria et inseparabilia accidentia sunt  E (del. et s. l.  glosa est  scr. m2) L (in mg. m2, om.  sunt)  P (om.  sunt) uel] et  LNR  7 possunt  EHLm2NP  uero  s. l. Cm2 ante  comparat  s. l.  proprio  Cm2, post s. l.  scil. proprio  L  8 sunt  post  accidentis  H  10  ante  accidens  add.  scilicet  E  11 enim] uero  R  12 sub genere  om HΝΡ, del. Lm2  14 quiddam  CL  quoddam  post  est  H  16 simili- tudines—accidentibus  in mg. Em2  17 causis  om. EG  rationibus  Lm2PR  18 differentiae] dissentiae uel differentiae  H  19 est ea  H  21  post  accidens  add.  est  H  22 et semper  om. H  et semper adest  s. l. Gm2 post.  et]  N edd., om. cett.     Differt autem quoniam proprium uni soli speciei adest, quemadmodum risibile homini, inseparabile uero accidens, ut nigrum, non solum Aethiopi, sed etiam coruo adest et carboni et hebeno et quibusdam  aliis. quare proprium conuersim praedicatur de eo cuius est proprium et est aequaliter, inseparabile autem accidens conuersim non praedicatur. et pro- priorum quidem aequaliter est participatio, acciden- tium uero haec quidem magis, illa uero minus.    Sunt quidem etiam aliae communitates uel proprie- tates eorum quae dicta sunt, sed sufficiunt etiam haec ad discretionem eorum communitatisque traditionem.    Proprii atque accidentis prima quidem differentia est quia proprium semper de una tantum specie dicitur, accidens uero  minime, sed eius praedicatio in plurimas diuersi generis sub- stantias speciesque diffunditur. risibile enim de nullo alio nisi de homine praedicatur, nigrum uero, quod est inseparabile quibusdam accidens, tam coruo quam Aethiopi, quae diuersa sunt specie, tum coruo atque hebeno, quae differunt generi-  bus, non tantum specie, praesto est. quo fit ut propriis quidem  1—13] Porph. p. 22, 4—13 (Boeth. p. 51, 7—17).   1 PROPRII ET ACCIDENTIS]  CP W ,  item Porph. p. 22, 4 cod. M  ( των αυτών   plerique cett. ), ACCIDENTIS ET PROPRII  cett., nisi quod  EORV II EORVNDEM  Ψ ;  de Porph. cf. etiam ad p. 105, 16  2 Dif- ferunt  CG ΔΣΦ ;  Porph. p. 22, 5   διενήνοχεν  proprium  om.   Σ  3 risi- bili  N  inseparabile—minus  (10) ]  LR Q ,  om. cett.  4 soli  L A‘l>  5 etiam] aeque  R  hebeno  plerique codd., item 20. p. 347, 7  6 proprium est  ΓΦ  7  post.  est]  ΓΔ   (del. uid.)   ΙΙΣΦΨ   cum Porph. p. 22, 8, om. LR A Busse  8 autem] uero  ΔΛ   Busse  conuersim non] nec conuersim  A  proprii  R A m2 2  proprium uero  Φ  9 aequaliter]  R 2 ,  coni. Busse , aequalis  cett.; Porph. p. 22, 9   και τών μέν ιδίων έπίτης ή μετοχή  10 hae  Δ  11 uel]  Porph. p. 22, 11   τέ καί  12 earum  C  dictae  CEGHP  hae  N  et  R  13 traditionem  ex  distractionem  E  contradictionem  Gm1  14 est  om. H  16 praedicatio eius  H  17 species  Cm1  19 diuersae  HLNPm2  diuisae  m1  20 speciei  H (ante  sunt)  N  tunc  R  nec non  Lm1  sed tum  m2  21 tantum specie] uni tantum speciei  P   conuersio aequa seruetur, in accidentibus uero minime. quoniam enim propria in singulis esse possunt atque omnes continent, species conuerso ordine praedicantur; nam quod risibile est. homo est, et quod homo, risibile. nigrum uero non ita, sed  ipsum quidem de his praedicari potest quibus inest, illa uero ad huius praedicationem conuerti retrahique non possunt; nigrum enim de carbone. hebeno, homine atque coruo prae- dicatur, haec uero de nigro minime, nam quae plurima con- tinent, de his quae continent praedicari possunt, ea uero quae  continentur, de sese continentibus nullo modo nuncupantur. Rur- sus proprium quidem aequaliter participatur, accidens remis- sionibus atque intentionibus permutatur. omnis enim homo aeque risibilis est, Aethiops uero non aequaliter niger est, sed, ut dictum est. alius quidem paulo minus alius uero  taeterrimus inuenitur.    Et de proprii quidem atque accidentis differentiis satis dictum est. restabat uero accidentis ad cetera communiones proprie- tatesque explicare, sed iam superius adnumeratae sunt, cum generis, differentiae, speciei et proprii ad accidens similitudines  ac differentias adsignauimus. fortasse autem his institutus animus et sollertior factus alias praeter eas quas nunc diximus com- munitates uel differentias quinque rerum quae superius sunt positae reperiet, sed ad discretionem atque eorum similitudines comparandas ea fere quae sunt dicta sufficiunt. nos etiam,  quoniam promissi operis portum tenemus atque huius libri seriem primo quidem ab rhetore Victorino, post uero a nobis  1 conseruetur (con  s. l. m2 ) aequa conuersio  H  2 esse presunt (pre- sunt  del. m2) H  esse  Lm1  esse habent  Lm2R  4  post post.  homo  add.  est  CLR post  risibile  add.  est  LPR  5 quibus] in quibus  R  7  ante  hebeno  add. de  H, er. uid. L  9 continentur  HN  11 proprium  post  quidem  H (s. l. m2)  quidem  om. G  12 permittatur  E  15 deter- rimus  CLN  16 proprii *  (s  er.) HL  differentiis  om. G  proprietate  E  17 accidens  G  18 replicare  EGLPR  iam] etiam  EG  enumeratae  La.c.  19 speciei] et speciei  NR  ad accidens] et accidentis  Em1La.c.R  20 his  om. NR  23  ante  eorum  add.  ad  EGLPR  24 sufficiant  HR  26 ab  in a mut. ut uid. C   Latina oratione conuersam gemina expositione patefecimus, hic terminum longo statuimus operi continenti quinque rerum dis- putationem et ad Praedicamenta seruanti.    1 conuersa  ELm1  2 continenti  om. C  quinque] V  L (in ras. m1?) edd., om. cett.  3 et  om. C  seruienti  brm  ANICII MALLII SEVERINI BOETII LIBER QVINTVS EXPLICIT SECVNDI SVPER YSAGOGAS COMMENTI  P ; FINIT. EXPLICIT EDITIONIS SECVNDAE COMMENTARIORV LIBER QVINTVS FELICITER. AMEN  (er. uid.)  DEO GRATIAS  C ; ANICII MANLII SEVERINI POETII  (sic)  ILLV- STRIS CONSVLIS EXPLICIT LIBER  L ; ANICII. MANLII. SEVERINI. BOETII. (A. M. S. B.  N ) V. C. ET ILL. (I LL S.  N ) EXCONS. (EXCS  N ) ORD. PATRICII. (ΈΧC.—PATR.  om. G)  IN ISAGOGAS (YS-  EG)  PORPHYRII (I  pro  Y  N)  IDE. INTRODVCTIONES (-NE  E)  IN CATE- GORIAS (KATH-  N)  A SE  (om. N)  TRANSLATAS. (-TĘ  E , IDE— TRANSL.  om. G)  EDITIONIS (EDΙCΤ-  E , AED-  N)  SCDĘ LIBER V (QVINTVS  N)  EXPLICIT  EGN, add. TIBI PAX. AMEN.  E ; QVINQVAE  (sic)  FIT OPTATVS HIC FINIS ISAGOGARV  R; subscriptione caret H, item e codd. Isagogen tantum a Boethio translatam continentibus ΓΛΣΦΊ’   (nisi quod in   Φ   recens quaedam est); post  traditionem  p. 346, 13   habent  EXPLIC. LIB. HISAGOGARV PORPHIRII  Δ , EXPLICIT  Π.  gradatimfoliacontrahit.Videturhæcnonminusdilatatio ne,contra ionesfoliorumhonoraresolem,quamhominesgenarumgestu,moru labiorum.No folumuero'inplantis,quæueftigiumhabentuitæ,fedetiaminlapidibusaspicerelicet,imitations, & participationemquandamluminumsupernorum,quemadmodumhelicislapisradijsaureisso laresradiosimitatur.lapisautem ,quiuocaturcælioculus,uelsolisoculus,figuram habetfimilēpu pillæoculi,atqsexmediapupillaemicatradius.lapisquoqueselenitus,idestlunaris,figuralung cornicularisimilis,quadamsuimutationelunaremfequiturmotum.Lapisdeindeheliofelenus,id estsolaris,lunarisózimitaturquodãmodocongreffum folis,&lunæ,figuratcscolore.Sicdiuinornm omniaplenafunt, terrenaquidemcælestium, cæleftiauerosupercælestium p,roceditæquilibetor d o r e r u m u s o a d u l t i m u m . Q u æ e n i m s u p e r o r d i n e m r e r ü c o l l i g ū c u r i n u n o , h æ c d e i n c e p s dilatan turindescendendo,ubialiæanimæsubnuminibusalñsordinantur.Deinde& animaliafuntsolana multa,uelutleones,& galli, numiniscuiusdamsolarisprofuanaturaparticipes, undemirum est,quantum inferioraineodem ordinecedantsuperioribus,quamuismagnitudine,potentias n o n c e d a n t. h i n c f e r u n t g a l l u m t i m e r i å l e o n e q u a m p l u r i m u m , & q u a f i c o l i . c u i u s r e i c a u s a m a m a tería, sensuueassignarenonpossumus,sedsolumabordinissupernicontemplatione. quoni amuidelicetpræsentiafolarisuirtutisconuenitgaltomagisquamleoni:quod& indeappare  1928 Marfil. Ficin.in InterpreteMarsilioFicinoFlorentino. Vemadmodum amatoresabipsapulchritudine,quæcircasensumapparet,addiuinam paulatimpulchritudinemrationeprogrediuntur:fic& sacerdotesantiqui,cùmconli, derarentinrebusnaturalibuscognacionemquandamcompassionemç;aliorumadalia &manifestorum aduiresoccultas,& omniainomnibusinuenirent,facrameorumscien quicquidest,pulchrumeft,&bonum eft.etiamsiindecorporissequaturincommodum.Corpus enim nonparshominis, fedinftrumentum:instrumentiuero'malumnonpertinetadutentem. Quomododifferantduohæc,fcilicetfecundumfeipfum,& quaipsum. Ietioneseiusmodi,fcilicetsecundum feipsum,& quaipsum ,etiamapudAristotelemdistin, D g u u n t u r . Q u o d e n i m s e c u n d u m s e i p s u m a l i c u i c o m p e t i t , p o t e s t e i n o n c o m p e t e r e p r i m o. Quodautemquaipsumconuenispræterid,quodconuenit,secundumseipfumeciam primo competitei,atqueadæquatur.Pulchrumigitur,ficommensurationisanimæcausaest,atq;obhoc ipsumdiciturpulchrum,efficito,utmeliusinanimadomineturdeceriori,perficitąnos,& animæ deformitatempurgat:hacipfarationebonum est, nonquidemperaccidens,fedquarationepul. chrum .fienim qua pulchrum estcommensuratum ,eft& bonum.Bonãenim estmensura cercéquá pulchrum est,exiftit& bonum.Similiter turpe,qua turpe,malum est.N a m qua curpe eft,informe est qui 1   quiagallus,quafiquibufdáhymnisapplauditfurgentisoli,& quafiaduocat,quãdoexantipodum mediocæloadnosdeflectitur,& quando nonnullisolaresangeliapparueruntformiseiusmodi p r æ d i c i , a r c f, c u m i p f i i n s e f i n e f o r m a e s s e n t, n o b i s t a m e n , q u i f o r m a t i s u m u s , o c c u r r e r e f o r m a t i. N o nunquam tione. Quæfecundumfefuntincorporea,nonlocalicerpræsentiacorporibus,adsunt eis,quotiescunqueuolunt, adillauergentia, atquedeclinantià,quatenusuidelicetnaturaliteradea uergunt,arqueinclinantur. Sed enim cum nonadfintlocaliaconditionecorporibus,habitudine quadam eisadfunt.Quæfecundumsesuntincorporea,certenonpersubstantiam,&peressentiam corporibusadsunt.Non enim corporibuscómifcentur.ueruntamenexipsainclinatione,quasimo mentouisquædamsubfiftitindecomunicataiam propinquacorporibus.Ipsanamqinclinatiose. cundamquandamuimsubstituítcorporibusiampropinquam. mæ,fecundữcorporafuntdiuisibiles.Nonomne,quodagitinaliudappropinquatione,&ta &ufacit,quodfacit,fedetiam qupæropinquarido,& tangendofaciuntaliquidfecundumaccidens, nonutunturpropinquirate.Animacorporialligaturconuersionequadam adpassionesprouenien resacorpore.Rursum foluiturquatenusacorporenihilpatitur.Quodnaturaligauit,hoc&ipsa naturasoluit.Rursusquodconciliauitanima,hoc& animadirimit.Naturaquidem corpusinanimadeuincit,animaueroseipsamincorpore.Quamobrem natura corpusab anima separaczanimaueroseipsam àcorporesegregat,  saclia usmodi .Qui 1 Proc.De Sacrif.& Magia. 1929 ICOR bada mler : in: no.N enlos ur,but aliano compiz quider Locum siuecausisadintelligibilianosducentibus. MARSILIO FICINO INTERPRETE. Denatura,e alligatione,o solutioneanime. Nimaquidemmediüquiddameftintereffentiam indiuiduam,arqueessentiamueracorpora A diuisibilem.Intellectusautem essentiaest,indiuiduafolum .Sedqualitates,materialesqfor lael,ea 703 ncense garia 1,fiu ucent oxd zateni XOM etiam dæmones nisisuntsolares leoninafronte.quibuscum gallusoböceretur,repente disparuerunt.Quodquidemindeprocedit,semperquæineodem ordineconstitutainferiorafunt, reuerentursuperiora:quemadmodum plerişintuentesuirorumimaginesdiuinorum,hocipsoas. pe&uuererisolentturpealiquidperpretare.Vtautemsummatimdicam,aliaadreuolucionessolis correuoluuntur,ficutplantæ,quasdiximus:aliafiguramsolariumradiorumquodammodoimitan tur, utpalma,dactylus:aliaigneamsolisnaturam,utlaurus:aliaaliudquiddam uideresanelicetpro prietates,quxcolligunturinsole,passimdistribucasinsequentib.insolariordineconstitutis,scilicet angelis,dæmonibus,animis,animalibus,plantisatque lapidibus.Quocircasacerdotijueterisautho resàrebusapparentibussuperiorum uiriumcultumadinuenerunt,dum aliamiscerent,aliapurifi c a r e n t. M i s c e b a n t a u t e m p l u r a i n u i c e m , q u i a u i d e b a n t f i m p l i c i a n o n n u l l a m h a b e r e n u m i n i s p r o prieratem,nontamenfingulatim,sufficientemadnuminisiliusaduocationem.Quamobrem ipfa multorum comixtioneattrahebantsupernosinfluxus: acßquodipficomponendounumexmul tisconficiebant,assimilabantipfiuni,quodestsupermulta,constituebantæftatuasexmaterñismul tispermixtas:odoresquoqcompositoscolligentes:arceinunum diuinafymbola,reddentesísun um tale,qualediuinumexiftitsecundum effentiam,comprehendens,uidelicetuiresquamplurimas. Quorum quidemdiuisiounamquamg debilitauit,mixtiouerorestituitinexemplarisideam.Non nunquam ueroherbauna,uellapisunus,addiuinumsufficitopus.SufficicenimCnebison,ideftcar duus,ad fubitam numinis alicuius aparacionem ,ad custodiam uerò laurus.Raccinum ,ideftgenus uirgultispinosum,cepa,squilla,corallus,adamas,laspis,fedadpræsagiumcortalpæ,adpurificatio. nem uerosulfur,&atosmarina.Ergosacerdotespermutuam rerumcognationem,compassionem'. conducebant inunum,perrepugnantiam expellebantpurificantes,cum oportebat,sulfure,atque asphalto,idestbitumine,aquaaspergentesmarina,purificatenimsulfurquidempropterodorisa cumen,aquaueromarinapropterigneamportionem,& animaliadrjsindeorum cultucongruaad hibebant,cxtera'tsimiliter.Quamobrem abës,atoßsimilibusrecipientesprimumpotentiasdemo num ,cognouerunt,uideliceceasesseproximasrebus.actionibus naturalibus:atq;perhæcnatura lia,quibus propinquantinpræsentiamconuocarunt.Deindeàdæmonibusadipfasdeorumuires actiones&processerunt,partimquidemdocentibusdæmonibusaddiscentes,partim ueroindustria propriainterpretantesconuenienciafymbola,inpropriam deorumintelligentiamascendentes, a c d e n i q p o f t h a b i t i s n a t u r a l i b u s r e b u s, a c t i o n i b u s q u e , a c m a g n a e x p a r t e d æ m o n i b u s in d e o r u m feconfortium receperunt. PORPHYRIVS DE OCCASIONIBVS, Denaturacorporeorum,atqueincorporeorum. Mnecorpuseftinloco,nullumuerocorum ,quæfecundūsesuntincorporea,uelaliquid tale, estinloco.Quæ secundumsesuntincorporea,eoipso, quodpræstantiusestomni corpore,atqueloco,ubiquesunt,nondistantiquidem,sedindiuiduaquadam condi USCE inuss sdina labor Pt,imi adns aberi is,fip liol Sicdi liatiei ,unto 10,p Omnia MMM $   Omniaquodammodosuntinomnibusproconditionecorum,quibusinfunt. On fimiliteromniainomnibusintelligimus,sedpropriesehabetadomniauniuscuíused sentia:intellectuquidem intelle&ualiter,inanimauero'rationaliter:inplantisseminarie,in corporibusimaginariè:ineodem (quodhisomnibussuperiuseft,modoquodamfuper intellectuali,atquesuperessentiali. essentiæ,aliatandem naturx supe rioris,aliaanimæ,aliaintele&ualis:uiuuntenim& ila:etfinullumeorum,quæabiplisexi ftunt,uirameisfimilemsorciatur. aliaueropartimquidemfle&tunturadila,partimetiamnonflestuntur.aliacandem folumde flectunturadgenituras,neqzinterimadsereflectuntur. p e r , e d u c e r e. A n i m a q u i d é h a b e t o m n i u m r a t i o n e s . A g i t a u t ē s e c u n d ã e a s ,u e l a b a l i o a d e x peditionemeiusmodiprouocata,uelipfafeipfamintusconuertensadrationes,& cum abaliopro uocatur,tanquamadexternacommititintroducerefensus:cum uero'ingredicurinseipsam,adintel ligentiasperuenit:necigitursensusextraimaginationemfunt,necß,utdixeritaliquis,intelligence quatenus competuntanimali Animaeftimmortalis. ANimaeftessenciainextensa,immaterialis,immortalis,in'yitahabenteaseipsauiuere,arosese fimiliterpossidente. Passioanimæ,atquecorporisestlongediuersa. Liudestpaticorpora,aliudincorporea.passioenim corporụm cum transmutationecötingit passiouero'animęestaccommodatioquædam,'&affe&ioadremipfam,&a&ioquædã,nullo modofimiliscalefationi,frigefactioniącorporum,quamobrem sipassiocorporū,cũtrans mutatione fit,dicendum eftomnia incorporea essepassionisexpertia.Quæ enim a'materia,corporf busipfeparatasuntadu,eadempermanent:quæueromateriæcorporibus propinquant,ipsaqui d e m n o ns u n t p a s s i u a , s e d i l l a , i n q u i b u s h æ c a p p a r e n t , p a t i u n t u r , q u á d o e n i m a n i m a l s e n d t , a n i m a quidam fimilis esseuideturharmoniæ cuidam separatæ ex seipsam chordas mouenti cötemperatas Corpusaữrsimileharmonię,quæ inseparabilisinestchordis,fedcausamouendieffeuideturanimal proptereaquodfitanimatū, quodquidemsimileeftmufico,exeoquodfitcõcinnum ,corporaueros quæperpassionesensualempulfantur,fimiliacontemperatischordisapparent.Etenim ibinonhar m o n i c a q u i d é s e p a r a t a p a t i t u r , f e d c h o r d a . & m o u e t f a n e m u f i c u s p i p f a m , q u æ s i b i i n e f t ,h a r m o n i ā: newtamenchordarationemusicamouereturetiam ,fiuelletmusicus,nifiharmoniaipsaiddixit. nataestquemadmodum corpora,sed fecundum nudam ad corporapriuationem .Quãobrenihil prohibetinterila,aliaquidemesseessentia,aliauerònonessentia:& aliarursusantecorpora,alia ueròunacumcorporibus:itemaliaacorporibusseparata,aliauerònonseparata.Prætereaaliasecun dum sesubfiftentia,aliaueroalijs,utsintindigentia:aliadeniqa&tionibus,uitisfexfemobilibuse adem ,sedaliauitis,&qualibusa&tionibusquodammodo permutata,nempefecundumnegatione corum ,quæ ipfanon sunt,non secundum assistentiameorum ,quæ sunt, appellatur. PussionesmaterieprimeassignatesimiliteràPlotino. Ateriaepropriaapudantiquoshæcfuntincorporeaquidem,diuerfaenimeftàcorporibus, prætereauitæexpers,negintelle&tus,neckanima,nequealiquidfecundum seuiuens.Itêin, formis,permutabilis,infinita,impotens.Quapropternec ens,feduerum nõens,imagomol lisapparens, quoniãqd primo estinmole,eftipfum impotens,itéappetitio fubfiftentia.& ftansno instacuprætereafempinseapparens,tum paruum,rum magnữ,tūminus,tūmagis,tūdeficiens,cī excedens,quoduefiatfemp,maneatuerònunquã,nec tamen aufugere potens,quippecútotius entisfitdefectus.Quamobrēquicqd pmittat,mentitur:aciimagnūappareant,interimeuadirparo uũ,quafienimludusquidãeftinnõensaufugiés,Fugaenimeiusnófitloco,seddūabencedeficis, Quamobren M  1930 Marsil. Ficin.in infummiseftunitascumuirtute:ininfimismultitudocumdebilitate. Ncorporeæfubftantiædescendentesquidemdijudicentur,atqßinsingulapotentiædefe&umul tiplicantur, adscendentesautemutuntur,atæfimulrecurruntinunumcopiapoteftatis. Quegenerant,partimconuertunturadgenita,partimminimè. Mne,quodsuaessentiagenerat,aliquidsedeteriusgenerat,atqomnegenitüadgenitorina O curaconuertitur,eorumuero,quægenerant,aliaquidēnullomodoconuertunturadgenitas Sensus,imaginatio,memoria intelligentia. Emorianonestimaginationüconferuatio quædã,ámdtāmpastwintorspobaristalevias'spoluéwata, sedeftipfaspropofitiones,fiueproductionesina&um corū,quæmedicatuseftanimusnu :nec rurfusabsq inftrumentorum sensualium passionesuntfenfus, lic& intelligentiænon abfqimaginatione,nisianalogaconditiofit:quemadmodumfiguraconse quensquiddam estadanimalsensuale,ficphantasmaaliquidconsequensadintelligentiamanima intelligentisinanimali. 1 N Despeciebusuite. On solumincorporib.æquiuocaconditioest,sedipsaetiãuitamultipliciterprædicatur eftenimuitaplantæ,animalisalia:aliarursusintellectualis Alia IN N > M Dedifferentijsincorporeorum. Pfaincorporeorīappellationõfecundumcommunicatēunius,eiusdemişgeneris,siccognomi.   quamobremquæineasuntimagines,insuntindeteriorirursusimagine,quemadmodüinspeculo idquodalibilitumeft,apparetalibi,&ipsumspeculumplenumeseuidetur,nihilqzhabet,dumom nia uidetur habere. funt,autnonfunt,quappternullacorūpaticur:quodempatienseft,nonoportetitafehabere, fedefetale,ütalterariqueat,atointeriminqualitatibus eorī,quaeingrediuntur,ficásinferuntpas fionem.Eiñamos quodinestalterationonaqualibecaccidit,nexigicurimaceriapacítur.Nāsecun dum feipfam qualitatisestexpers,nesprorsusformx,quaefuntinca,ingrediences;uicissim'sexe, untes,fedpassioficcircacompofitum,&uniuselseincomposicioneconfiftit,hocenim incontrarijs uiribus& qualitatib.ingredientiữzinferentiumąpassioneperfeuerareinfubfiftendouidetur.Quá o b r e m e a q u o r u um i u e r e e f t a b e x t e r n i s , n e c a s c i p l i s , n i m i r u m & u i u e r e , & n o n u i u e r e p a t i p o f l u n t. S e d e a , q u o r u m e s s e i n u i t a c o n f i f t i t, p a s s i o n i s e x p e r t e , n e c e f f a r i u m e f t p e r m a n e r e s e c u n d u um i t a m , quemadmodūuitäuacuitaticonuenit& non pac,quarenus& uitæuacuicas.Icaqficutpermutari, acpaticöpofitoexmateria,forma côtingit,ideftcorpori,neqstamenidmateriæ accidic,ficujuere, areinterire,patiofecundumhocipfum incompofitum exanima,corporeæperspicitur,neqstamé animæidcontingit,quoniam animanoneftaliquidexuita,& nonuitaconflatum,seduicafolum constatquippe,cumfimplexessenciafit,ipfaqsanimæ ratiofitnaturaipfasemouens. Omnisintellectuseftomniformis. Ntelle&ualisesentiaficinpartibuseftconfimilis,ut& inparticulariquolibetintelle&u,uniuer soosintelle&ufintentia:fedintele&u quidem uniuerfaliendaeciam particulariauniuersalifint ratione:inparticulariautčincellectueciāmiuniuersaliafimulacosparticulariasintconditionequa dam particulari: Omnisuitaincorporeaquocunq;mütetur,permanetimmortalis. Nuicisincorporeispcessusmanentibusprioribusinsefirmisefficiuntur,dūnihilfuiõdunt,neos pmutantadsubstantiâinferiorib.exhibendam,quappternedquæindesubfiftūccũaliquagdi tioneueltráfmutationesubsistûr,nechoc qdēefficitur,ficutgeneratiointeritus,gmutationisą particeps,ingéciaigitur,&incorruptibiliafuntaroingčitæ,incorrupcx'ssecīdūhocipfumeffecta. Quomodointelligaturquodeftfuperiusintelectus uigilantiãmultadicatur,fedperfomnūipsum cognitioeius,peritia'oshabetur,fimilinãque f i m i l e c o g n o s c i f o l e t, q u o n i ã o m n i s c o g n i t i o , a s s i m i l a t i o q u æ d á e f t a d h o c i p f u m, q d c o g n o f c i t u r. ens uelutfalsamconcipimuspassionecă, ingentemuidelicetili,quidigrediturextraseipsum,ipfeenimquisquequemadmodumexistenter deftuere,atokperseipfumpoteftreduciadipfumnonensentesuperius,ficabence,sepsipfodigres diensiam traducituradnonens,quodentisipfiuseftcasusatqzruinia. Substantiaincorporeaestubicunqueuult. Aturacorporisnihilimpedit,quinquodfecundum feincorporeum eft,ficubicung,&quò modocunque.Sicucenimcorporiincomprehensibileest,quodmoliseftexpers, nihilą adip  Porphyr de Occasionib. 1931 Quidpatiatur,quidnon. Afsionescircaidfuntomnes,circaqdaccidit&interitus.Víaenim adinteritãeftadmissiopas fionis,acohuiusestinterirecuiuseftpaci.Incerireaūcincorporeūnullű,sedquædãinterilaaur Animaquiapereffentiameftuita,nonmoritur. yIrcaessentiam,cuiusefeconfifticinuita,& cuiuspassionesuitaquædãfunt,nimirum& morg inqualialiquauitauersatur,noninpriuationeuitæfimultota.Quoniamneqspassio,seuuita est omnino, illicadnon uiuendum ,iplaqzillicacciditorbitas. . Silloquodeftmentesuperius,perintelligentiamquidem multa dicuntur:considerantur D temuacuitatequadăintelligentiæ intelligentiameliore;quemadmodum dedormienteper NonensauteftfuperiusenteutDeus,aütinferiuscummateria. Vodnonensdicitur,auciplínosmachinamurab ipsoentealiquandoseparaci,autsuperin telligimus,dum enspossidemus.quapropterfiseparamurabente,ensipsumnon superine telligimusnon enssuperensipsum,fediamnon N sumpertiner:sicincorporeoipsum,quodmollediftenditur,nonficobftaculum & quafinon acec,nequeenim quod incorporeum eftlocalicondicionequo uulc discurritlocusenim cum mole simulexiftit,neqsrurfuscorporumlimitibuscoercecur,quodenimquomodocūqiiacetinmole,in angustumcohiberipoteft,& conditionelocalitransmutacionemagere, quodaucemestamole,mag nitudine prorsusexemptū,hocabójs,quæfuntinmole.continerinonpoteft,a'motuşilocaliper manetliberum.Igiturqualiquadam,certaquedisposicionereperituribi,ubicunquedisponitur,lo. cointereatumubique,tumnusquam simulexiftens,quapropterqualiquadamcertaqueaffe&ione uelsupercælum ,uelinpartemundiquadam apprehenditur:quandoueroinaliquamundipàřecte n e t u r ,n o n o c u l i s q u i d e m a f p i c i t u r, s e d e x o p e r i b u s e i u s p r æ s e n c i a s u a fit h o m i n i b u s m a n i f e s t a s Substantiaincorporeinullocorporecohibetur,fedproducitescamincorporeperquamse corporiapplicát. Vodeftincorpóreū,liquandoincorporecomprehendatur,nonopuseftutitaconcludatur, Q quemadmoduminparcoferæclauduntur,nullumnamquecorpuspoteftipsumficinfeco -hibere,nequeficutüterliquoremaliquemtrahit,& cohibet,autfacum,fedoportetipsum ia nd C TO MmM 4 13. fubftituere cavite   Vniaersalescausenonconuertunturadefe&tus,fedeosadfeconuertunt. V l l a s u b s t a n t i a r u m , q u æ u n i u e r f æ s u n t, a t æ p e r f e c t æ a d f u a m c o n u e r t i t u r g e n i c u r ă . O m n e s autéperfe&tæsubftantiæadgenerantiarediguntur, & idquidemadcorpusufo mundanum. 1. Quomododifferenterestubiq;DeusintelleĀus,animas Euseftubiq ,quianusquamintelle&usest:ubiq etiã,quianufquam anima.deníqueubiqet EX PORPHYRIO DE AB ftinentiaanimalium. . quinetiamcognoscitipsum,quod in feest,naturaliterperpetuo uigilans, atquefom/ num,quohicopprimitur,deprehendit. Cuinonsaneeducationem,nutritionemque trademus consentancã,tūhuius locinaturæ ,tum suiipsiuscognitioni conuenientem, Beatitudononeftdiuinorumcognitio,feduitadiuina. Eatanobiscontemplationonestuerborum accumulatio,disciplinarūquemultitudo,quemad Bmodum aliquisforteputauerit:nequeenim iracomponitur,nequeproquantitaterationūac  quare perfectioquidêaprioribusfecundafubftituitcõferuanseadeadprioraconuersa, defectusautempri oraetiam adpofterioradefledit,eficitqzuthæcipfadiligantasuperioreinterim differentia 1932 Marsil. Ficin -in substitucreuiresabipsainseipsumunioneextramanantes,quibusdescendenscorporiaplícatur,co pulaitaßeiusad corpusperineffabilēquandāsuiipsiusimpleturextenfioné,quamobrénõaliud adem ultūipfuamlligat,fedipfumcerteseipfum,nec igiturefoluitipsum corpusquãdofrangitur autinterit,fèdipsum pociusfemetipsumcnodat,quádoafamiliariergasubiectâaffectionediuercio Quodquidemcūsitperfe&umadanimāestreda&um,animam inquãintellectualem,ideoas círculouoluitur, animaueromundiadintellectumattollitur,intelle&usauteerigituradprincipio Omniaitaqperueniuntadhocipsumab extremisexordientia,quatenus facultassuppecitunicuic perueniūtinquam eleuationeadprimū, illucusą perducta:quæ quidēautexpropinquo,autex.lon ginquoeficifolet.HæcitasnonsolumappetereDeūdicipossunt,sedetiam prouiribusafequizin lubstancijsueroparticularibus,&admultalabipotentibusineftprocliuitasdeflectēsadgenicuras: ideoiginhisdeli&um dicituraccidissezinhisinfidelitaseftdamnata.Hasigiturcontaminatiplama teria,proptereaquodadhácdefledipossint,cũtamenintereaaddiuinūseualeantcôuertisse: quoniãeft&nufquā:fedDeus quidem ubique& nusquãeftcorum omnium ,quæ funtpoft ipsum.Suiueròipfiuseftfolum,ficutest,atqueuult.Intelle&usautem inDeoquidemubica eft,fedineis, quæfuntpoftipsum ,existirnusquapariter, &ubiqueanimatandeminincele&tu,acor Deo ,fimilitereftubiq ,incorporeuero'ubiqeftfimul & nusquá.Corpusaūt& inanima,& inintels lectu , & in D e o , omnia profe & o cūentia,t u m non entia ex D e o sunt,& ideonec tamēipfeDeus eft,cum entia,tum nonentia,necexistitineis.Sienimessetduntaxatubiq ipfequidéomnia,& in o m n i b u s e s s e t. A t q u o n i a m e f t , & n u s q u ã , o m n i a s a n e p e r i p s u m f i u n c f i u n t á ž r u r s u s i n i p f o , q n i a m ipfeexistitubios:diuersarursusabipfo,quoniãipsenusqua.Similiterintele&usubicexistens,atqs n u s q u ã , c a u s a e f t a n i m a r ã , a n i m a s æ s e q u e n t i ū :n e q s i p s e a n i m a e f t , n e g q u æ p o f t a n i m a m , n e q u e i n cisexistic:quoniamuidelicetnon folum ubiqueest,eorumque,quæfuntpoftipsum,sed&nusquã. Rursusanimanequecorpuseft,nequeestincorpore,fedcausacorporis,quoniam dum ubiq eftper corpussimuleft,&incorporenusquam ,processusdeniquniuersiinilluddefinit,quodnec ubiqfi mui, nequenusquamesseualet,sedalternisquibusdamuicibusutriusquefitparticeps. Giustino (filosofo) filosofo e martire cristiano Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Giustino martire" rimanda qui. Se stai cercando altri martiri con questo nome, vedi San Giustino. San Giustino Justin filozof.jpg Icona russa di san Giustino   Padre della Chiesa e martire    NascitaFlavia Neapolis, 100 MorteRoma, 163/167 Venerato daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Santuario principaleCollegiata di San Silvestro Papa, Fabrica di Roma (VT) Ricorrenza1º giugno, 14 aprile (1882–1968) Attributipalma, libro Patrono difilosofi Giustino, conosciuto come Giustino martire o Giustino filosofo (Flavia Neapolis, 100 – Roma, 163/167), è stato un martire cristiano, filosofo e apologeta di lingua greca e latina, autore del Dialogo con Trifone, della Prima apologia dei cristiani e della Seconda apologia dei cristiani. A lui dobbiamo anche la più antica descrizione del rito eucaristico.   Iustini Philosophi et martyris Opera, 1636 Fu uno dei primi filosofi cristiani, e venerato come santo e Padre della Chiesa dai cattolici e dagli ortodossi. La memoria si celebra il 1º giugno.   La Chiesa Cattolica lo considera anche santo patronodei filosofi insieme a Caterina d'Alessandria, pur non essendo nessuno dei due nel novero dei Dottori della Chiesa.  BiografiaModifica Giustino, che spesso si dichiarava in verità samaritano, visto il suo nome e il nome di suo padre - Bacheio - sembra piuttosto di origini latine o greche. La sua famiglia probabilmente si era stabilita da poco in Palestina, al seguito degli eserciti romani che qualche anno prima avevano sconfitto gli Ebrei e distrutto il Tempio di Gerusalemme.   Come riferisce Giustino stesso nel Dialogo con Trifone, venne educato nel paganesimo ed ebbe un'ottima educazione che lo portò ad approfondire i problemi che gli stavano più a cuore, quelli riguardanti la filosofia. Racconta che la sua smania di verità lo portò a frequentare molte scuole filosofiche. Presso gli stoicinon trovò giovamento, in quanto il problema di Dio, per questa filosofia, non era essenziale. Poi frequentò la scuola peripatetica, ma anche presso questi filosofi non trovò quanto cercava. Si recò presso un filosofo pitagorico che lo sollecitò dunque ad approfondire le arti della musica, dell'astronomia e della geometria. Ma Giustino, troppo concentrato nel voler raggiungere la "verità" e la "conoscenza di Dio", reputava tempo sprecato il soffermarsi su tali materie.   Approdo al platonismoModifica Da ultimo frequentò una scuola platonica; un maestro di questa filosofia era da poco giunto nel suo paese e presso questa corrente filosofica trovò quanto credeva di cercare. «Le conoscenze delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente...», dice Giustino. Si convinse che questo lo avrebbe portato presto alla "visione di Dio", che considerava essere lo scopo della filosofia. Decise di ritirarsi in solitudine lontano dalla città, ma in questo luogo appartato, secondo quanto racconta nel prologo del Dialogo con Trifone, incontra un anziano, con cui inizia un serrato dialogo, incentrato su Dio e su cosa fare della propria vita. Dopo aver dichiarato all'anziano la sua idea di Dio «Ciò che è sempre uguale a sé stesso e che è causa di esistenza per tutte le altre realtà, questo è Dio», l'anziano lo porta a ragionare su di un aspetto che forse a Giustino era sfuggito: come possono i filosofi elaborare da soli un pensiero corretto su Dio se non l'hanno né visto né udito? E porta il giovane a meditare sulle persone considerate "gradite a Dio" e dallo stesso "illuminate", i Profeti, che nel tempo avevano parlato di Dio e "profetizzato in Suo nome", in particolare la "venuta del Figlio nel mondo" e la possibilità "attraverso di Lui" di avere una "vera conoscenza del divino".[1]  Conversione al cristianesimoModifica Dopo questa esperienza, Giustino si converte al Cristianesimo e per tutto il resto della sua vita educherà i discepoli, utilizzando gli stessi schemi usati dalle altre scuole filosofiche. Oltre a questo incontro, che fu decisivo per la sua conversione, Giustino indica anche un altro fatto che lo rinfrancava nella fede: «Infatti io stesso, che mi ritenevo soddisfatto delle dottrine di Platone, sentendo che i cristiani erano accusati ma vedendoli impavidi dinanzi alla morte ed a tutti i tormenti ritenuti terribili, mi convincevo che era impossibile che essi vivessero nel vizio e nella concupiscenza».   Giustino viaggiò molto, andò a Roma una prima volta e quando ritornò vi aprì una scuola filosofica a impronta cristiana, i suoi insegnamenti insistevano molto sui fondamenti razionali della fede cristiana. Questo approccio, molto diverso da quelli tradizionali, suscitò numerose controversie sia con gli stessi cristiani sia con alcuni filosofi, specialmente con Crescenzio il cinico.   La sua fede lo porterà a subire una morte violenta. Fu condannato a morte da Giunio Rustico che era prefetto di Roma e amico dell'imperatore Marco Aurelio, fra il 163 e il 167, con queste parole:   «Coloro che si sono rifiutati di sacrificare agli dèi e di sottomettersi all'editto dell'imperatore, siano flagellati e condotti al supplizio della pena capitale, secondo le vigenti leggi.»  Di questo processo esiste ancora il verbale: Martyrium SS.Justini et sociorum VI. Giustino venne decapitato assieme a sei dei suoi discepoli, Caritone e sua sorella Carito, Evelpisto di Cappadocia, Gerace di Frigia (schiavo della corte imperiale), Peone e Liberiano.   Le sue reliquie furono traslate da Roma il 22 settembre 1791, e si trovano attualmente sotto l'altare maggiore della Collegiata di San Silvestro Papa a Fabrica di Roma, in provincia di Viterbo.[2]  Giustino fu il primo di una serie di autori cristiani che intravide in Eraclito, Socrate, Platone e negli stoicidegli autori precristiani, precursori del Cristo e da esso ispirati.[3] Anche lo Spirito Santo è identificato con Dio stesso. A suo avviso, la nozione trinitaria fu introdotta già dal platonismo.[4]  A Giustino si deve la più antica descrizione della liturgia eucaristica. Egli fu il primo ad utilizzare la terminologia filosofica nel pensiero cristiano ed a tentare di conciliare fede e ragione. Si schierò duramente contro la religione pagana ed i suoi miti mentre privilegiò l'incontro con il pensiero filosofico.   La figura di Giustino attrasse l'attenzione di Lev Tolstojil quale nel 1874 dedicò al santo cristiano una breve agiografia, Vita e passione di Giustino filosofo martire[5].   OpereModifica Dialogo con Trifone, Edizioni Paoline, Milano 1988. Le due apologie, Edizioni Paoline, Milano 2004. ( LA ) [Opere], Parisiis, apud Carolum Morellum typographum regium, via Iacobaea ad insigne Fontis, 1636. Il Dialogo con Trifone, la Prima apologia dei cristiani e la Seconda apologia dei cristiani, ci sono pervenute in un manoscritto del 1364, conservato a Parigi.[6]  La Prima apologia dei cristianiModifica «Io, Giustino, di Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di Palestina, ho composto questo discorso e questa supplica, in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di loro.»  (Apologia Prima, I, 2) La Prima apologia dei cristiani è indirizzata all'imperatore Antonino Pio e al Senato romano. In essa compare un tema che sarà ampiamente sviluppato dall'apologetica cristiana, cioè la critica della prassi diffusa presso i tribunali romani, per la quale il solo fatto di appartenere alla religione cristiana era motivo sufficiente di condanna.   Giustino inoltre polemizza con i pagani riguardo ad alcune contraddizioni interne alla società romana, per esempio fa notare come, mentre i cristiani sono condannati a morte perché ritenuti atei, vari filosofi greci e latini sostengono apertamente l'ateismo senza conseguenze.   Interessante, poi, è il fatto che Giustino citi abbondantemente vari brani dei vangeli sinottici per esporre le dottrine cristiane; ancor più notevoli sono i tentativi dell'apologeta per convincere i pagani della verità del Cristianesimo attraverso le citazioni di autori classici sia di filosofia (come Socrate e Platone) che di mitologia (come Omero e la Sibilla) che vengono accostati a brani dei vangeli o dell'Antico Testamento.   «Sia la Sibilla sia Istaspe profetarono la distruzione, attraverso il fuoco, di ciò che è corruttibile.   I filosofi chiamati Stoici insegnano che anche Dio stesso si dissolve nel fuoco, ed affermano che il mondo, dopo una trasformazione, risorgerà. [...]   Se dunque noi sosteniamo alcune teorie simili ai poeti ed ai filosofi da voi onorati [...] perché siamo ingiustamente odiati più di tutti?   Quando diciamo che tutto è stato ordinato e prodotto da Dio, sembreremo sostenere una dottrina di Platone; quando parliamo di distruzione nel fuoco, quella degli Stoici; quando diciamo che le anime degli iniqui sono punitemantenendo la sensibilità anche dopo la morte, e che le anime dei buoni, liberate dalle pene, vivono felici, sembreremo sostenere le stesse teorie di poeti e di filosofi [...]   Quando noi diciamo che il Logos, che è il primogenito di Dio,[7] Gesù Cristo il nostro Maestro, è stato generato senza connubio, e che è stato crocifisso ed è morto e, risorto, è salito al cielo, non portiamo alcuna novità rispetto a quelli che, presso di voi, sono chiamati figli di Zeus.   Voi sapete infatti di quanti figli di Zeus parlino gli scrittori onorati da voi: Ermete, il Logos [...]; Asclepio, che [...] ascese al cielo; Dioniso, che fu dilaniato; Eracle, che si gettò nel fuoco [...] e Bellerofonte, che di tra gli uomini ascese con il cavallo Pegaso.   Se poi, come abbiamo affermato sopra, noi affermiamo che Egli è stato generato da Dio come Logos di Dio stesso, in modo speciale e fuori dalla normale generazione, questa concezione è comune alla vostra, quando dite che Ermete è il Logos messaggero di Zeus.   Se poi qualcuno ci rimproverasse il fatto che Egli fu crocifisso anche questo è comune ai figli di Zeus annoverati prima, i quali, secondo voi, furono soggetti a sofferenze. [...]   Se poi diciamo che è stato generato da una vergine, anche questo sia per voi un elemento comune con Perseo.   Quando affermiamo che Egli ha risanato zoppi e paralitici ed infelici dalla nascita, e che ha resuscitato dei morti, anche in queste affermazioni appariremo concordare con le azioni che la tradizione attribuisce ad Asclepio.»  (Apologia Prima, XX-XXII) L'opera si conclude con una petizione che contiene una lettera dell'imperatore Adriano,[8] la quale serve a Giustino per mostrare come anche un'autorità imperiale era del parere di giudicare i cristiani in base alle loro azioni e non in base a dei pregiudizi; ed una lettera dell'Imperatore Marco Aurelio e del "Miracolo della pioggia" durante le guerre marcomanniche.[9]  Il Dialogo con TrifoneModifica «La filosofia in effetti è il più grande dei beni e il più prezioso agli occhi di Dio, l'unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e sono davvero uomini di Dio coloro che han volto l'animo alla filosofia [...]»  (Dialogo con Trifone[10]) Oltre alle già citate Prima apologia dei cristiani (grecoἈπολογία πρώτη ὑπὲρ Χριστιανῶν πρὸς Ἀντωνῖνον τὸν Εὐσεβῆ; latino Apologia prima pro Christianis ad Antoninum Pium) e Seconda apologia dei cristiani(greco Ἀπολογία δευτέρα ὑπὲρ τῶν Χριστιανῶν πρὸς τὴν Ρωμαίων σύγκλητον, latino Apologia secunda pro Christianis ad Senatum Romanum), Giustino scrisse il Dialogo con Trifone (greco Πρὸς τρυφῶνα Ἰουδαῖον διάλογος, latino Cum Tryphone Judueo Dialogus), opera dedicata a un certo Marco Pompeo. Il tema è il confronto con il giudaismo, con il quale i cristiani avevano in comune l'Antico Testamento, un terreno utile per un dialogo. Si tratta di un dibattito che si svolge ad Efeso nell'arco di due giorni e vede protagonisti Giustino e Trifone, nel quale è stata individuata da alcuni storici la personalità di un rabbino realmente esistito. Lo scopo di questo dialogo è mostrare la verità del cristianesimo, rispondendo alle principali obiezioni mosse dagli ambienti giudaici. In particolare, Giustino vuole dimostrare che il culto di Gesù non mette in discussione il monoteismo e che le profezie descritte nell'Antico Testamento si siano avverate con l'avvento di Cristo. Il dialogo assume toni sempre rispettosi e amichevoli e non si conclude, com'era consuetudine per gli scritti cristiani, con la richiesta da parte del giudeo del battesimo. A tal proposito, alcuni studiosi si sono chiesti se effettivamente le motivazioni portate avanti da Giustino in questo dialogo fossero valide a convertire un giudeo. Sembra piuttosto verosimile, invece, che quest'opera sia una risposta di Giustino ai dubbi che i cristiani stessi del tempo nutrivano verso la loro fede.   L'opera presenta anche un prologo, in cui Giustino racconta di un suo incontro con un vecchio saggio che lo introdusse al cristianesimo.[11] Giustino lo interroga tra l'altro sulla dottrina, da lui professata, della trasmigrazione delle anime anche dentro corpi animali, esposta nel Timeo platonico. L'interlocutore gli risponde che una tale possibilità non avrebbe senso, perché non darebbe nessuna reminiscenza delle colpe passate e quindi neppure la capacità di pentirsi.[12] In secondo luogo, il vegliardo passa a confutare la dottrina dell'immortalità dell'anima.[13]  NoteModifica ^ Philippe Bobichon, "Filiation divine du Christ et filiation divine des chrétiens dans les écrits de Justin Martyr" in P. de Navascués Benlloch, M. Crespo Losada, A. Sáez Gutiérrez (dir.), Filiación. Cultura pagana, religión de Israel, orígenes del cristianismo, vol. III, Madrid, 2011, pp. 337-378 online ^ La reliquia di San Giustino Martire ( PDF ), su parrocchiafabrica.it. ^ Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, BUR saggi, p.17, OCLC 1088865057 ^ Giuseppe Girgenti, Giustino Martire: il primo cristiano platonico : con in appendice "Atti del martirio di San Giustino", Pubblicazioni del Centro di Ricerche di Metafisica, Platonismo e filosofia patristica, n. 7, Milano, Vita e pensiero, 1995, p. 108, OCLC 1014519733. URL consultato il 19 novembre 2020. ^ Lev Tolstoj, «Vita e passione di Giustino filosofo martire». In: Lev Tolstòj, Tutti i racconti, a cura di Igor Sibaldi, Milano: Mondadori, Vol. I, pp. 808-810, Collana I Meridiani, III ed., aprile 1998, ISBN 88-04-34454-7 ^ Philippe Bobichon, "Œuvres de Justin Martyr : Le manuscrit de Londres (Musei Britannici Loan 36/13) apographon du manuscrit de Paris (Parisinus Graecus 450)", Scriptorium 57/2 (2004), pp. 157-172 art. online ^ Francesco Barbaro, Apologia seconda di S. Giustino filosofo e martire in favor de' Cristiani al Senato romano traduzione dal greco nell'italiano pubblicata in occasione che mette fine alla sua quaresimale predicazione l'anno 1814., Treviso, Tipografia Trento, 1812, p. 29. URL consultato il 19 novembre 2020. Citazione. Essendo manifesto da tutte l'opere di san Giustino, ch'egli ben sapeva e confessava l'equalità del Verbo col Padre... ^ ( EN ) Lettera di Adriano. ^ ( EN ) Lettera di Marco Aurelio al Senato. ^ Cit. in Jacques Liébaert, Michel Spanneut, Antonio Zani, Introduzione generale allo studio dei Padri della Chiesa, Queriniana, Brescia 1998, p. 47. ISBN 88-399-0101-9. ^ Giuseppe Visonà, introduzione a Saint Justin, Dialogo con Trifone, Paoline, 1988. ^ Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, BUR Rizzoli.Saggi, n. 5, 6ª edizione, Milano, BUR Rizzoli, marzo 2019, pp. 14,12, OCLC 1088865057. ^ Giuseppe Girgenti, Giustino Martire: il primo cristiano platonico, Vita e Pensiero, 1995, p. 124. BibliografiaModifica Mario Niccoli, GIUSTINO, santo, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1933.  Modifica su Wikidata Arthur J. Bellinzoni, The Sayings of Jesus in the Writings of Justin Martyr, Leiden, Brill, 1967. Philippe Bobichon, Dialogue avec Tryphon, édition critique. Editions universitaires de Fribourg, 2003, Vol. I: Introduction, Texte grec, Traduction ; Vol. II: Commentaires, Appendices, Indices Étienne Gilson, La Philosophie au Moyen Âge. Des origines patristiques a la fin du XIV siècle, Payot, Paris 1952 (trad. it. La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Scandicci 1997). Johannes Quasten. Patrologia, Marietti, 1987, vol. I, pagine 175-194. Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Giustino Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Giustino Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giustino Collegamenti esterniModifica Giustino, santo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Giustino, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Giustino, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Opere di Giustino / Giustino (altra versione) / Giustino (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Giustino, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Audiolibri di Giustino / Giustino (altra versione) / Giustino (altra versione), su LibriVox. Modifica su Wikidata ( EN ) Giustino, su Goodreads. Modifica su Wikidata ( EN ) Giustino, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Giustino, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.it. Modifica su Wikidata Apologia Prima, su monasterovirtuale.it. URL consultato il 14 agosto 2017 (archiviato dall' url originale  il 14 agosto 2017). Apologia Seconda, su monasterovirtuale.it. URL consultato il 14 agosto 2017 (archiviato dall' url originale  il 14 agosto 2017). Santi Caritone e compagni, discepoli di san Giustino, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati.it. Catechesi, su w2.vatican.va. di papa Benedetto XVI su Giustino tenuta durante l'Udienza generale di mercoledì 21 marzo 2007 Opera Omnia dal Migne Patrologia Graeca con indici analitici e traduzioni (EN, IT, PT), su documentacatholicaomnia.eu.  Portale Biografie   Portale Cristianesimo   Portale Filosofia Ultima modifica 4 mesi fa di 134.0.1.147 PAGINE CORRELATE Patristica studio dei Padri della Chiesa  Taziano il Siro teologo e filosofo siro  Filosofia cristiana WikipediaGiuseppe Girgenti. Girgenti. Keywords: la parola che non s’incatena, Giustino martire, la traduzione di Boezio delle Categorie di Porfirio, traduzione di Marsilio Ficino delle sentenze sugl’intelligibili di Porfirio, henologia platonica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Girgenti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Girotti – la curva – la filosofia nella storia d’Italia – il caso Gentile -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Adria). Filosofo. Grice: “I like Girotti; for one, he has explored the idea of ‘beauty,’ which Sibley should, but did not!” Si laurea a Padova, sotto Santinello e Berti. Pubblica “Filosofia” (La Scuola, Brescia). Pubblica: “Gouhier e la sua storia storica della filosofia” (Unipress, Padova). “Comunicazione filosofica” “Società Filosofica Italiana.” Altre saggi: “Aristotele, dal platonismo all’autonomi” (Polaris, Faenza); “Modelli di razionalità nella filosofia”, Sapere, Padova; Discorso sui metodi, Pensa, Lecce; Medioevo vs oggi: tra tabula rasa e innatismo, Sapere, Padova; Riforma Gelmini e filosofia Sapere, Padova; Essere e volere, Pensa multimedia, Lecce; Siamo completamente liberi di volere ciò che vogliamo?, Il Giardino dei Pensieri, Bologna); Bellezza e responsabilità, Diogene Multimedia, Bologna; Cercasi anima disperatamente, Diogene Multimedia, Bologna; Giovanni Gentile; Diogene Multimedia, Bologna); “Il fico proibito dell’Eden e la giustificazione del male, Diogene Bologna; Un viaggio intorno all’io: Da Atene a Delfi dialogando, Diogene, Bologna; Sul permesso di morire, Diogene Bologna; Comunità di ricerca, Gouhier in Enciclopedia Filosofica Bompiani,  La collana si chiama Briciole di Filosofia “una storia storica che si fermi all’esibizione dei dati diventa semplice una ‘cronaca’; infatti, nel momento in cui si espone la filosofia di Grice, per poter abbracciare l'oggettività si dovrebbe rimanere all’interno di un'asettica descrizione, quella che Girotti definisce como “fenomenologia dello spirito metafisico.”Girotti distingue “la fenomenologia” (come metodo) e “lo spirito metafisico” (come oggetto). Seguendo il metodo della fenomenologia, il filosofo-storiografo sarebbe invitato a fermarsi alla lettura del dato per descrivere ciò che esso mostra. Seguendo “lo spirito metafisico”, il filosofo- storiografo ritroverebbe l'”oggetto” (topico) della sua ricerca, cioè il “fatto spirituale.”  È su questo “fatto spirituale” che Girotti refina Gouhier in quanto trova che Gouhier, quando ha messo le vesti dello “storico” della “storia storica” della filosofia, sia scivolato in una loro descrizione bergsoniana, ammessa anche da Gouhier. Cf. Grice on the longitudinal history of philosophy. “We should treat those who are dead and great as if they were great and living – it’s a matter of introjecting into his shoes, or sandals!” -- “La distillazione filosofica”  GENTILE , Giovanni.  - Nacque a Castelvetrano, provincia di Trapani, il 29 maggio 1875, ottavo di dieci fratelli, due dei quali erano già morti quando egli vide la luce. Suo padre, che si chiamava anche lui Giovanni, era farmacista; sua madre, Teresa Curti, maestra elementare.  Da quel poco, o non molto, di autobiografico che, sempre restio alla confidenza e all'effusione dell'animo, pur si deduce dagli scritti e, in particolare, dai carteggi con i suoi maestri pisani, Donato Jaja e Alessandro D'Ancona, risulta che il rapporto con i genitori fu intenso, nutrito di forti affetti; sebbene, per altro verso, travagliato, a causa soprattutto, oltre che della morte del fratello Gaetano, delle disavventure professionali del padre. Le quali derivarono dal forte e alquanto anarchico convincimento di non dover sottostare, nella gestione della farmacia di cui era proprietario e titolare, alle nuove regole introdotte dalla legge sanitaria emanata dal governo di F. Crispi; e dalla sua decisione di chiudere perciò la farmacia, che si trovava a Campobello, e ritirarsi con la famiglia nella vicina Castelvetrano, quindi di riaprirla, nel 1897, tornando da solo là dove quella si trovava e subendo un nuovo processo per il reiterato suo rifiuto di sottostare alle nuove regole.  È probabile che nell'animo sensibile, e più impressionabile forse di quanto il G. fosse disposto ad ammettere, del giovinetto che intanto attendeva agli studi scolastici, si formassero, nei confronti della terra siciliana, ossia di un luogo così fortemente segnato da dolori e umiliazioni, sentimenti contrastanti. Non che per le sofferenze che involontariamente aveva inflitto al padre, egli prendesse allora a odiare, o anche soltanto a disistimare, il siciliano Crispi, al quale sempre invece guardò come a un grande personaggio, l'unico degno di rappresentare sul serio, nella decadente Italia di fine secolo, lo spirito autentico del Risorgimento, nelle cui battaglie era stato protagonista.  Ma nei confronti della piccola, e pur amata, patria siciliana, i suoi sentimenti furono in effetti misti; e abbastanza presto si sublimarono, assumendo forma intellettuale, in quelli che, se lo si legge con attenzione, si colgono al fondo del libro che, quando era professore a Pisa e insegnava dalla cattedra che era stata del suo maestro Jaja, egli dedicò a Il tramonto della cultura siciliana (Bologna 1918). Libro singolare, in effetti; che, riboccante di passione e di affetti, concerne un "tramonto" atteso e auspicato di "cose" che, profondamente radicate nella storia e nelle tradizioni dell'isola, meritavano, a suo giudizio, di "tramontare" per sempre risolvendosi in assai più ampio e comprensivo orizzonte di pensieri e di cultura. Nella Sicilia "moderna", con poche eccezioni, il G. non coglieva infatti se non materialismo, illuminismo astratto, anticlericalismo estrinseco, e niente romanticismo, niente idealismo, nessun serio sentimento della vita vissuta nel segno di più alte idealità. E con questi "caratteri" spiegava le difficoltà che l'isola aveva opposto al Risorgimento nazionale e, quindi, alla vera cultura idealistica. Quando perciò, divenuto nel 1906 professore di storia della filosofia nell'Università di Palermo, il G. dette inizio all'insegnamento che doveva condurlo alla prima sistemazione del suo pensiero nell'idealismo attuale, c'era nel suo impegno filosofico qualcosa di missionario, quasi che nel fondo di sé sentisse di operare in partibus infidelium e il suo compito consistesse nel riscattare nel suo idealismo gli assai diversi principî ai quali la Sicilia era rimasta ferma.  Nell'isola il G. non rimase se non il tempo necessario al conseguimento dei primi traguardi scolastici; e quando, finalmente, ottenuta, nel 1893, un anno prima della naturale scadenza, la licenza liceale presso il liceo Ximenes di Trapani, fu ammesso, avendo vinto il relativo concorso, a frequentare la Scuola normale superiore di Pisa, era uno studente critico bensì di molti aspetti della cultura siciliana quello che approdava alla sponda toscana, ma recante tuttavia in sé non pochi segni di quella. Il positivismo che, colorandosi sotto l'influsso di R. Schiattarella di materialismo e anticlericalismo, largamente dominava la cultura siciliana non era passato sul suo animo e sulla sua mente senza lasciare qualche traccia; e se non vi era passato intero, in parte almeno vi era passato: il che spiega l'intransigenza con la quale, compiuta la sua più autentica formazione alla scuola pisana dello Jaja, egli si impegnò a cancellarne, nel suo pensiero, ogni possibile traccia.  Nel componimento scolastico consacrato a U. Foscolo con il quale ottenne la licenza liceale colpiscono in effetti le due tonalità che lo caratterizzano: quella civile, che sarebbe poi rimasta, attraverso la trasfigurazione risorgimentale, al centro dei suoi sentimenti e interessi, e l'altra, antiromantica, appresa alla scuola del suo professore di italiano, V. Pappalardo, e ribadita attraverso lo studio della Storia della letteratura italiana di P. Emiliani Giudici. E si può e si deve, del resto, andare anche oltre. Fu forse allora, infatti, negli anni in cui fu studente in Sicilia, che il G. venne positivamente in contatto con la questione del "fatto"; che certo, nel corso del suo pensiero, subì, rispetto al punto di partenza, trasformazioni così profonde da rendere questo quasi irriconoscibile nel risultato conseguito. Quasi, tuttavia, e non del tutto: perché, assunto nella prospettiva dell'atto, il "fatto" è bensì l'astratto che quello, l'atto, perennemente supera conseguendo e conquistando la sua concretezza, ma, oltre a esser anche la sua "determinatezza", si rivela altresì, nel processo costitutivo dell'atto, indispensabile e necessario: con la conseguenza che, nell'idealismo attuale, la sua è bensì una morte, caratterizzata tuttavia nel senso, piuttosto, della "trasfigurazione".  Non s'insisterà mai abbastanza sull'importanza che, proprio per queste ragioni, la Scuola normale ebbe, con i professori che vi insegnavano, lo Jaja e il D'Ancona, in primo luogo, ma anche A. Crivellucci, nella formazione del giovane allievo siciliano. E ai professori debbono aggiungersi i compagni che egli allora v'incontrò, G. Volpe e F. Pintor, U. Congedo, A. Salza, G. Lombardo Radice.  Anche qui, per altro, avrebbe torto chi semplicemente ritenesse che al fuoco dell'idealismo professato dallo Jaja il G. bruciasse ogni scoria positivista e rapidamente acquistasse la fisionomia che in seguito sarebbe stata la sua. È vero invece che la dicotomia determinatasi in lui quando, in Sicilia, per un verso si accendeva di entusiasmo per il Foscolo e i valori civili da lui rappresentati e per un altro si piegava al culto reverente dei fatti, in qualche modo si ripropose anche a Pisa. Ed egli dovette subirla anche qui perché alla filosofia senza storia né arte che gli veniva insegnata da Jaja corrispondevano la storia e la letteratura senza filosofia che gli provenivano dall'esempio di D'Ancona e di Crivellucci. Il che, naturalmente, non deve sorprendere, perché a predominare, anche a Pisa, era allora il positivismo con il congiunto metodo storico; e con il suo idealismo di derivazione spaventiana Jaja costituiva, in quell'ambiente, piuttosto l'eccezione che non la regola.  La produzione scientifica in cui, senza abbandonare la rivista Helios, che si pubblicava in Sicilia, a Castelvetrano, e alla quale seguitò infatti a non far mancare la sua collaborazione, allora si impegnò appare nettamente scissa fra l'erudizione pura, da una parte, e la filosofia, altrettanto pura, da un'altra (anche se, nel ricercare e commentare i testi di quest'ultima, il giovane G. mostrava chiari i segni del metodo che aveva appreso dal D'Ancona e dal Crivellucci, e che dette del resto chiara prova di sé nella dissertazione accademica Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca, pubblicata negli Annali della Scuola normale superiore di Pisa, XII [1897]). Le cose più notevoli uscite tuttavia dalla sua penna a conclusione del suo periodo pisano sono, com'è noto, la tesi su Rosmini e Gioberti (1898), discussa con Jaja e quindi, discussa anch'essa con quest'ultimo, la più breve indagine su La filosofia di Marx (1899).  Di questi due libri, il primo costituisce il documento, altrettanto precoce che maturo, di un'indagine condotta nel segno di Bertrando Spaventa e della sua idea relativa alla relazione intercorrente fra il pensiero italiano e quello europeo, fra A. Rosmini e V. Gioberti, da una parte, I. Kant e G.W.F. Hegel da un'altra. Il secondo è invece il documento della capacità dimostrata dal giovane studioso di cogliere il carattere, che a lui sembrava nel fondo idealistico, della filosofia di K. Marx, e altresì di entrare con autorevolezza in uno dei dibattiti - quello concernente la "crisi" del marxismo - fra i più vivi che allora si accendessero nella cultura dell'Europa contemporanea.  Lo studio dedicato a Rosmini e Gioberti, e alla loro polemica fu steso per il conseguimento della laurea in filosofia, che il G. ottenne nel luglio del 1897 con il massimo dei voti e il diritto alla stampa. Quello dedicato a Marx fu composto per la tesi di abilitazione all'insegnamento che egli conseguì l'anno successivo e gli dette la possibilità di un ulteriore periodo di perfezionamento da trascorrere presso l'Istituto di studi superiori di Firenze, dove fu per un anno e dove ebbe modo di entrare in contatto con gli illustri professori che allora vi insegnavano e che, fra gli altri, si chiamavano P. Villari, G. Vitelli, P. Rajna. Fra questi era anche il professore di filosofia, il neokantiano F. Tocco, con il quale i rapporti non furono né semplici né facili, ma con il quale comunque conseguì un nuovo titolo, discutendo una tesi sulla filosofia italiana del periodo che da A. Genovesi va fino a P. Galluppi, e che poi divenne un volume, pubblicato, nelle edizioni de La Critica, da Benedetto Croce (Dal Genovesi al Galluppi: ricerche storiche, Napoli 1903).  Fu, anche quello trascorso a Firenze, un periodo importante; e se il rapporto con il Tocco fu, malgrado asprezze e incomprensioni, proficuo perché lo mise comunque in contatto con un Kant diverso da quello di Bertrando Spaventa mediatogli dall'insegnamento di Jaja; se quello con Villari fu alquanto burrascoso, dei grandi filologi, classico il primo, romanzo il secondo, Vitelli e Rajna dovette conservare per sempre un grato ricordo, se è vero che ancora negli ultimi anni progettò di ristampare, del secondo, il libro su Le fonti dell'Orlando furioso, ossia uno dei monumenti più insigni della vecchia scuola del metodo storico.  Con l'anno trascorso a Firenze, nell'estate 1898 i suoi Lehrjahre avevano termine; e gli anni che seguirono furono non facili; anzi decisamente difficili, perché l'esigenza per lui imperiosa di trovare un lavoro, e perciò un posto nell'insegnamento medio, era pari a quella che egli avvertiva non meno viva e urgente di non interrompere gli studi filosofici, nei quali aveva già realizzato un'impresa notevole, con quei tre lavori, così ricchi di dottrina e di idee. Ma l'esigenza di proseguire senza nocive interruzioni la intrapresa carriera dello studioso implicava l'altra che l'eventuale sede non fosse dispersa nella lontana provincia meridionale e lontana perciò dai centri vivi della cultura nazionale, dalle università e dalla biblioteche. E la preoccupazione principale del G. fu allora, in particolar modo, di non essere costretto a far ritorno nell'isola dalla quale era partito anni innanzi: sì che quando, nell'ottobre 1898, ebbe la sede di Campobasso, con l'incarico di filosofia al liceo Mario Pagano, non poté dirsene del tutto scontento, perché di lì poteva raggiungere di tanto in tanto Napoli, dove la frequentazione del filosofo hegeliano S. Maturi, professore al liceo Umberto e, sopra tutto, di Benedetto Croce, con il quale era entrato in contatto quando ancora era studente del terz'anno, largamente lo compensavano dalla solitudine alla quale era invece, per il resto del tempo, costretto.  Del resto, non fu quello di Campobasso un periodo che si protrasse nel tempo. E già nel novembre 1900 la fortuna girò in suo favore, perché il G. poté ottenere un posto presso il liceo Vittorio Emanuele di Napoli: il che gli dette la possibilità di rendere veramente intrinseci i legami intellettuali con Croce, ossia con il già illustre studioso che, in quello stesso anno, concluso il periodo degli studi soltanto eruditi, giunto al termine della discussione intrapresa con i testi di Marx e dei marxisti, era tornato alla filosofia e aveva dato all'estetica la sua prima sistemazione.  A ragione, e del resto non è un'osservazione peregrina, è stato detto che, se senza Croce non s'intende il G., altrettanto è vero per l'inverso. Ma ancor meglio potrebbe dirsi e ripetersi che, se si prescindesse dalla collaborazione, stretta, intensa e anche conflittuale, che subito si stabilì fra il libero studioso Benedetto Croce e il giovane ex normalista siciliano, poco o niente si capirebbe della cultura italiana che nel bene (secondo alcuni), nel male (secondo altri) per circa mezzo secolo fu dominata dalle loro personalità e dalle loro opere, spesso intrecciate le une alle altre nel segno prima della concordia discors e poi dell'aperta polemica. È difficile decidere chi fra i due, se il più vecchio o il più giovane, giovasse all'altro nella forma più decisiva. E forse, posta così, la questione è posta male, perché, se è vero che dal G. Croce ricevette impulsi a cogliere nel pensiero che si veniva formando in lui le difficoltà che ne nascevano e ad affrontarle nel segno dell'unità, se è vero, d'altra parte, che la collaborazione prestata dal giovane studioso alla formazione della "filosofia dello spirito" non avvenne senza che egli ne traesse grande giovamento per le tante idee con le quali veniva in contatto e la non comune dottrina storica e letteraria con il cui carattere venivano al mondo, anche è vero che in questi "bilanci" del dare e dell'avere c'è sempre qualcosa di angusto, di gretto, di meschino: e conviene perciò, dalle parole "generali", passare di volta in volta ai "fatti" determinati.  Sta comunque di fatto che, mentre il carteggio fra i due si faceva tanto intenso e frequente che non c'era, si può dire, giorno senza che uno scambio intervenisse a proporre osservazioni, suggerimenti, informazioni e, magari, contrasti; mentre l'amicizia si approfondiva nella collaborazione, la diversa indole dei due ingegni ne riusciva non soffocata, ma in qualche modo persino potenziata. E, come si è detto, c'erano, meno infrequenti di quanto non si pensi, anche i contrasti, anche le polemiche, garbate, amichevoli, ma ferme.  Se, per esempio, nella questione concernente il materialismo storico (una filosofia, per il G., e non, come per Croce, un semplice "canone empirico": una filosofia della storia, fondata per altro sullo scambio del trascendentale e dell'empirico), il dissenso rimase senza soluzione, la discussione, che in buona parte si svolse per lettera, su "forma" e "contenuto" nell'estetica condusse i due filosofi a un accordo sempre più stretto; e anche qui è, non solo alquanto meschino, ma sopra tutto difficile chiedersi, e quindi rispondere al quesito, se a condurre il gioco fosse piuttosto il G., o se invece fosse Croce che, via via che veniva impadronendosi dell'intero territorio dell'estetica, suggeriva il tema e controllava lo svolgimento.  Intanto, nel 1903, la realizzazione del progetto di una rivista letteraria, storica e filosofica, che si chiamò La Critica (il primo numero uscì il 20 gennaio), dette a Croce, e al G., lo strumento attraverso il quale la loro collaborazione potesse rendersi visibile e concreta in risultati specifici, attraendo altresì su di sé, fra consensi e dissensi, l'attenzione del mondo culturale italiano e non soltanto italiano, perché l'anno precedente era uscita la prima edizione dell'Estetica crociana e il successo travolgente del libro, andato al di là di ogni previsione, non poteva non ripercuotere sulla rivista appena agli inizi la sua positività.  La Critica divenne così, velocemente, un severo luogo di ricerche, di studi, e anche, spesso, di impietosi esami critici; e, con il diverso accento caratterizzante lo stile del direttore e del suo principale collaboratore, svolse un'opera della quale sarebbe vano voler disconoscere l'importanza. L'oggetto della "critica" era costituito dalla cultura positivistica, che era bensì in declino quando la rivista iniziò la sua battaglia, ma non tanto, tuttavia, che se quell'urto violento e sistematico non si fosse prodotto, avrebbe trovato così presto la via della sua risoluzione. Al contrario, si direbbe: perché, malgrado la non eccelsa qualità dei suoi pensatori, e certa loro tendenza a dividersi fra un alquanto volgare materialismo e vacue accensioni mistiche e "spiritualistiche", il positivismo aveva, nella sua forma di "metodo storico", non soltanto prodotto alcune opere egregie e importanti, ma era penetrato in profondità nella cultura e nel costume dei professori e della classe dirigente del paese. E "positivista" era in sostanza il pensiero democratico e altresì, malgrado il marxismo, quello socialista; positivisti altresì, con maggiore o minore intensità, erano stati, e per qualche tratto ancora erano, gli stessi Croce e G., che in quella tradizione, e non in un'altra, avevano compiuto i primi passi. Con la conseguenza che quella loro battaglia antipositivistica, esaltata, enfatizzata e mitizzata da alcuni, deprezzata e magari deplorata da altri, fu, con le sue luci e le sue ombre, anche una battaglia che giorno dopo giorno i due filosofi amici condussero contro quel loro "sé stesso" che di essere emendato nel senso della nuova filosofia avesse avuto necessità. E molte cose della vecchia "fede" certamente furono lasciate cadere, che qui non occorre elencare. Ma alcune no; e, per fare qualche esempio, certo si deve anche alla severa disciplina erudita appresa alla scuola dei maestri del metodo storico se, come nessun altro ai suoi tempi, Croce esplorò gli angoli più riposti della "regione" seicentesca, e, nel 1911, scrisse il saggio su La novella di Andreuccio da Perugia (Bari), e il G. non disdegnò le minute ricerche rinascimentali che sottese e affiancò ai grandi quadri d'insieme, e rievocò le ombre dei suoi maestri toscani per scrivere il bel libro dedicato a Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono (1922).  Il soggiorno a Napoli fu, nel rapporto con Croce, quale non poteva non essere: importante, fondamentale perché ebbe per conseguenza di renderlo sempre più stretto, sempre più profondo e, perciò, più stimolante. Il che, trattandosi del rapporto di due pensatori che in quello impegnavano la parte più delicata del loro essere, significa altresì che, per ciò stesso che toccava il profondo, scopriva le differenze mentre celebrava le affinità e persino le identità, e potenzialmente conteneva in sé il germe del suo rovesciamento nell'inimicizia. La polemica sul marxismo contribuì a far meglio conoscere a entrambi le rispettive, e diverse, fisionomie intellettuali; e i due ne uscirono, sebbene avessero ciascuno mantenuto il proprio punto di vista, rafforzati nell'amicizia. Ma nel 1907 la polemica epistolare, e rimasta perciò privata, sulla questione della filosofia e della storia della filosofia, aveva già, sotterraneamente, impresso qualche preoccupante vibrazione alla struttura portante dell'edificio; perché a Croce, sebbene avesse alla fine dato il suo consenso alla tesi del G., era anche sembrato di cogliervi qualche tratto di vecchio hegelismo, il cui Idealtypus era rappresentato allora a Napoli da S. Maturi; e questo il G. non l'aveva gradito.  L'amicizia per allora rimase salda, e anzi, via via, si approfondì, perché in realtà non solo la filosofia e la scienza riguardava, ma anche le cose dell'anima e dell'esistenza, che nella battaglia culturale non potevano, del resto, non essere coinvolte. E poiché nella Critica il G. sistematicamente svolgeva il compito che si era assunto di ricostruire le origini della filosofia contemporanea in Italia e intanto, al margine, scriveva note e recensioni per lo più molto polemiche nell'atto stesso in cui, su un altro fronte, conduceva la sua aspra battaglia, in nome della filosofia che non può non essere immanentismo assoluto, contro quello che perciò sembrava a lui l'equivoco del modernismo cattolico: delle eventuali dispute che intanto i due filosofi svolgessero in privato la rivista non risentì e non mostrò il segno.  La collaborazione che essi vi svolgevano e realizzavano fu perciò, per anni e anni, vista e avvertita come se i due fossero quasi una sola persona che, di volta in volta, faceva prevalere il rigore filosofico e l'eleganza letteraria, nutrita anch'essa di rigore. Si aggiunga che allora, fra il 1902 e il 1909, Croce fu impegnato, fuori della Critica, nella costruzione della Filosofia come scienza dello spirito; e che, per parte sua, mentre svolgeva il suo lavoro e si impegnava a seguire i progressi filosofici del suo amico, sul piano teoretico il G. mostrò in quei primi anni la tendenza a restare in disparte.  Avvertiva, e in una lettera del 1908 inviata al Maturi lo scrisse anche in modo esplicito, che se avesse dovuto esprimere intero il pensiero che intanto gli urgeva dentro con Croce sarebbe giunto allo scontro, e avrebbe dovuto combatterlo. Sapeva, o riteneva di sapere, che, svolto con rigore, il tratto spaventiano del suo pensiero avrebbe dato luogo a conseguenze diverse da quelle che Croce stava allora ricavando dalle sue premesse, e sistemando nei suoi libri; e della migliore qualità filosofica di quelle era altrettanto convinto come della necessità che per allora non convenisse mettere in crisi una collaborazione dalla quale frutti copiosi la cultura italiana poteva ancora attendersi. Del resto, la cautela del G. e la sua decisione di lavorare per, e non contro, l'alleanza con Croce non potevano esser tali da impedire che, talvolta anche in pubblico, sebbene non dichiarate, le differenze emergessero; e fu quel che puntualmente avvenne già nel 1903, quando il G. scrisse (e per allora non pubblicò) la prolusione al suo corso libero di filosofia teoretica nell'Università di Napoli.  Da Napoli, dove nell'insieme trascorse un sereno periodo (il 9 maggio 1901 aveva sposato Erminia Nudi, una giovane maestra conosciuta a Campobasso), quasi per intero consacrato all'insegnamento - nel 1902 aveva ottenuto la libera docenza che esercitava nel corso libero di filosofia teoretica presso l'Università e dal 1904 aveva assunto anche un incarico di filosofia e pedagogia presso l'Istituto superiore di magistero Suor Orsola Benincasa -, alla riflessione filosofica, allo studio, nel 1906 il G. passò a Palermo, perché nel frattempo - dopo che un primo concorso per la filosofia teoretica lo aveva visto soccombere per l'ostilità dimostratagli da Tocco, e anche a causa della debole difesa fattane da A. Labriola, gravemente ammalato e quasi impossibilitato a parlare - aveva vinto la cattedra di storia della filosofia per quella Università. Così, senza averlo sul serio desiderato, era di nuovo approdato alla sponda siciliana; e meno che mai lo aveva desiderato Croce, che non solo vedeva interrotta una consuetudine di vita, di collaborazione e di lavoro che doveva a ogni costo essere difesa, ma anche temeva che il nuovo ambiente potesse distrarre in vario modo l'amico e, sotto diversi punti di vista, allontanarlo da lui.  Il timore di Croce non aveva allora nessun altro fondamento che sé stesso e l'intuizione di cui si alimentava. Era infatti qualcosa come una congettura, una supposizione. Ma la congettura, la supposizione, e il timore, non si rivelarono tuttavia per intero infondati; perché, come forse era inevitabile, nel nuovo ambiente il G. non poteva non ottenere la posizione preminente e da protagonista che non solo il prestigio di cui godeva, ma anche e sopra tutto la forte personalità della quale era dotato, non potevano non assicurargli. La sua posizione divenne preminente nell'Università e, quindi, nella Biblioteca filosofica che, per le iniziative di G. Amato Pojero che ne aveva la cura principale, divenne un centro vivo di dibattiti, nel quale l'idealismo attuale definì per la prima volta sé stesso e vide la luce. Anticipato in modo più che parziale con il breve saggio che nel 1909 il G. dedicò a Le forme assolute dello spirito e, senza presentarlo in altra sede, incluse nel volume su Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1909) come sua ideale premessa (e conclusione), l'idealismo attuale trovò la sua prima espressione nella memoria, letta presso la Biblioteca filosofica nel dicembre del 1911, su L'atto del pensare come atto puro (Palermo 1912), quindi nell'altra su Il metodo dell'immanenza, e ancora nelle pagine consacrate a La riforma della dialettica hegeliana (1913) e a Bertrando Spaventa che l'aveva avviata, nonché nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica, il cui primo volume (1913) contiene in effetti una sorta di teoria generale dello spirito sotto specie pedagogica.  Un volume, questo, che quando lo lesse in bozze Croce giudicò con qualche severità, perché gli parve che non solo il G. si fosse espresso con nettezza contro la possibilità che tra le forme dello spirito potesse darsi la "distinzione", ma anche che, senza nominarlo e perciò con tanta maggiore asprezza, avesse polemizzato proprio con lui che nella distinzione aveva fatto e stava facendo consistere il criterio supremo dell'intelligenza della realtà. Da queste dichiarazioni di autonomia e di indipendenza, che, implicitamente (ma in modo per altro trasparente), contenevano qualcosa come una sfida, Croce non poteva non essere preoccupato; e tanto più in quanto il senso di indipendenza e di autonomia era confermato da quel che scrivevano gli allievi siciliani del G.: V. Fazio-Allmayer e A. Omodeo, A. Saitta e F. Albeggiani; e anche G. De Ruggiero, che siciliano e residente in Sicilia non era, ma attualista sì, anzi ultrattualista, come ci teneva a dichiararsi e come aveva del resto dimostrato con la memoria, pubblicata anch'essa nell'Annuario della Biblioteca filosofica, su La scienza come esperienza assoluta (1913).  La pubblicazione degli scritti attualisti del G. e le varie manifestazioni che allora innegabilmente si ebbero del formarsi di una "scuola" che in quella forma d'idealismo riconosceva l'unica rigorosa e, perciò, possibile, non potevano non provocare prima o poi la reazione di Croce. Il quale aveva bensì, fra il 1908 e il 1909, fatto il possibile perché il G. tornasse a Napoli come professore nell'Università, convinto che in tal modo la collaborazione sarebbe tornata alle vecchie forme senza le perturbazioni provocate dalla "scuola" e dagli spiriti non sempre positivi che, in effetti, vi si formano o tendono a formarvisi. Ma il suo tentativo non ebbe, com'è noto, successo, perché forti e insormontabili furono le resistenze che l'ambiente accademico napoletano dimostrò all'accettazione della sua proposta. E così accadde che, persa quella battaglia nella quale aveva speso molto del suo prestigio e delle sue energie, quando una grave sciagura privata gli dette il senso che tutto ormai, nella sua vita dovesse giungere all'estremo chiarimento, Croce decidesse di rendere pubblico il "dissidio" filosofico che lo divideva dall'idealismo attuale; e scrisse, per la Voce di G. Prezzolini, un articolo in forma di lettera (ottobre 1913), nel quale i termini del dissenso erano definiti con amichevole fermezza. La scelta della Voce significava, nelle intenzioni crociane, che la disputa non riguardava LaCritica, ossia il luogo della loro comune opera culturale; e si svolgeva, per così dire, al margine di questa. Ma la decisione di mettere in piazza il loro dissenso ferì in modo particolare il G.: anche se, decisa nella sostanza e orientata non a sanare, bensì a ulteriormente precisare, il dissenso, la replica che anche lui affidò alla Voce, si presentasse come la risposta amichevole a un'amichevole richiesta di chiarimenti teoretici. Il dissenso era comunque stato dichiarato; e non mancò di suscitare molta impressione: tanto più che, replicando a sua volta (dicembre 1913), con fermezza, Croce prese atto di un divario che concerneva non la periferia, ma il centro stesso delle loro filosofie.  Il periodo siciliano fu comunque fecondo di molto lavoro. E oltre ad aver gettato le basi dell'idealismo attuale, il G. svolse infatti e approfondì alcuni essenziali aspetti della scolastica e del Rinascimento; e scrisse di G. Bruno, di Bernardino Telesio, di G. Vico, mentre la collaborazione alla Criticacontinuava con il consueto ritmo e, dopo la tempesta teoretica del 1913, nei rapporti con Croce era tornata la calma. Deve anzi dirsi che, malgrado varie traversie di natura familiare e qualche apprensione per la sua salute, fu quello un periodo nella sostanza sereno, sebbene non possa escludersi che egli lo considerasse provvisorio e in cuor suo non desiderasse una sede diversa e migliore. Quando infatti, nel 1913, a Napoli e a Roma si liberarono due cattedre, la prima università fu subito scartata, perché vivo era ancora il ricordo della sconfitta patitavi quattro anni prima, ma la seconda no; e fu invece presa in seria considerazione. Il G. riteneva infatti che l'opposizione di G. Barzellotti, titolare della cattedra di storia della filosofia, potesse essere in qualche modo aggirata e vinta. Ma il calcolo risultò errato: a Roma per allora non fu chiamato; e dopo un tentativo, esperito senza troppa convinzione, di essere chiamato a Torino, città molto amata da Croce, che non avrebbe visto male un suo trasferimento colà, ma assai meno da lui, che la considerava lontana, fredda ed estranea ai suoi gusti e alle sue abitudini, scelse infine di andare a Pisa, dove sarebbe succeduto a D. Jaja e, con l'atmosfera della giovinezza, anche avrebbe ritrovato la Scuola normale, luogo e fonte inesausta di cari e intensi ricordi.  A Pisa tornò con un piglio e una convinzione ben diversi da quelli con i quali vi era approdato, giovane e sperduto studente siciliano, tanti anni prima. Vi approdò con il piglio del pensatore che, ormai sicuro di sé e delle sue forze, sente di dover svolgere una missione non solo filosofica, ma anche, lato sensu, civile e politica. La forte accentuazione teoretica che nei precedenti anni aveva conferito alle sue pagine, anche di storia della filosofia, non aveva mai spento in lui, se mai aveva rafforzata, la convinzione spaventiana che ricostruire la filosofia italiana nella sua storia significasse in realtà contribuire, con le armi della cultura, alla prosecuzione del Risorgimento, riaccenderne negli animi la consapevolezza, battersi contro la corruzione letteraria che in Italia si era per secoli fatalmente intrecciata con lo splendore delle arti. Egli faceva insomma vibrare e risuonare un corda che a Jaja era rimasta sostanzialmente estranea, ma non a D'Ancona, ebreo e fervente patriota risorgimentale, e nemmeno, nei suoi modi particolari, al Crivellucci. Del resto, la prolusione pisana è del 1914; e con gli avvenimenti che lo caratterizzarono e con quelli che ne sarebbero seguiti, quell'anno fatale avrebbe ben presto provveduto a trasformare dal di dentro atteggiamenti, abitudini, costumi, ad accelerare il ritmo delle passioni, talvolta in superficie, altre volte in profondità, a rendere esplicito e visibile quel che per l'innanzi fosse rimasto chiuso nel segreto delle coscienze.  A Pisa, per altro, il G. non stette a lungo, perché già nel 1918 egli passava all'Università di Roma per ricoprirvi la cattedra di storia della filosofia, dalla quale, sempre nella stessa Università, sarebbe passato, nel 1925, a quella di filosofia teoretica, lasciata libera da Bernardino Varisco.  Ma, a parte le passioni e anche le incertezze e le angosce politiche che li caratterizzarono, quelli pisani furono anni importanti: per i risultati filosofici innanzi tutto, che il G. vi conseguì. Fu allora, infatti, che, dopo averne offerto un primo saggio nel Sommario di pedagogia, e quindi nelle memorie palermitane, egli procedette senz'altro a tracciare le linee della Teoria generale dello spirito come atto puro, nata dalla scuola nel 1916 e pubblicata la prima volta quello stesso anno: così come dalla scuola nacquero in quel medesimo tempo i Fondamenti della filosofia del diritto, nei quali, espressione suprema dell'unità, e unità esso stesso, l'atto era indagato nella sua dimensione, oltre che teoretica, pratica, senza che fra l'una e l'altra potesse operarsi la distinzione per la quale, in Croce, i distinti erano i distinti. Ma a Pisa il G. avviò anche la composizione del Sistema di logica come teoria del conoscere, la sua opera in ogni senso più rilevante: della quale scrisse il primo volume che, nato anch'esso dalla scuola, vide la luce nel 1917 e dovette attendere fino al 1923 per avere il suo compimento nel secondo volume, dedicato alla logica del concreto.  Agli anni di Pisa appartiene anche, con sicurezza, Il tramonto della cultura siciliana, un libro del quale si è già avuto modo di accennare come presenti un duplice carattere, di condanna della cultura siciliana positivistica, materialistica e, deteriori sensu, illuministica; e di speranza: la speranza che nel segno dell'idealismo attuale, nato nell'isola per virtù di un siciliano, quella si riscattasse ed entrasse a pieno titolo nella civiltà moderna.  Gli anni pisani furono quelli del primo conflitto mondiale, di quel dramma, anzi di quella tragedia, dopo la cui conclusione niente sarebbe più stato come prima. Il G. li visse con passione, fra esaltazioni e depressioni, come ogni altro italiano del suo ceto, della sua condizione e della sua cultura; ma anche con il sempre più netto convincimento che, all'inizio, non era stato scevro di dubbi anche forti, che quella di entrare in guerra a fianco della Francia e della Gran Bretagna contro gli Imperi centrali fosse stata una giusta decisione, una sorta di chiamata del destino risorgimentale della nazione. Il G. non era nazionalista, e meno che mai era disposto a vedere nell'evento bellico la manifestazione delle forze sanamente irrazionali che spezzano l'ordine stabilito dalla logica, sconvolgendo i suoi concetti. Dalle deteriori manifestazioni di misticismo e vario sensualismo, così frequenti allora nella "cultura" italiana e non soltanto italiana, si tenne sempre discosto. Ma quando gli indugi diplomatici furono rotti e la guerra fu dichiarata, egli scoprì in sé l'interventista che all'inizio non era stato, e progressivamente venne intensificando e attualizzando le critiche che nei confronti dell'Italia e dell'assetto politico e morale che si era dato dopo la conclusione del Risorgimento erano già in lui, allo stato potenziale e, in qualche caso, più che potenziale. Le essenzializzò e attualizzò perché, senza con ciò diventare nazionalista e seguitando anzi a oppugnare ogni idea della nazione che attingesse a concezioni naturalistiche o, peggio, razzistiche, il suo principio, gli parve tuttavia che la prova terribile alla quale l'Italia aveva deciso di sottoporsi richiedeva che di lì in avanti i piccoli pensieri cedessero a pensieri grandi e che quel che s'era ottenuto sui campi di battaglia non fosse poi amministrato dai politici di sempre, maestri non di drammi, ma di mediocri commedie.  Di qui, anche in questo campo così pericolosamente esposto ai venti violenti delle passioni, delle "cupidigie", per dirla con il poeta, e dei "brividi", la ragione profonda dell'ulteriore distacco che allora, giorno dopo giorno, si venne compiendo da Croce. Il quale, come si sa, non solo era stato contrario alla guerra, condividendo le realistiche preoccupazioni di G. Giolitti e di quanti, come lui, erano persuasi che, vinta o persa, la guerra avrebbe comunque rappresentato per l'Italia un troppo grave rischio. Ma anche aveva dichiarato che avrebbe considerato una grave onta per il popolo italiano se all'improvviso i suoi governanti avessero stracciati i trattati e si fossero schierati dalla parte di coloro contro i quali avrebbero, semmai, dovuto combattere. Anche nei confronti della guerra che, quando fu dichiarata, li vide entrambi consapevoli che il loro posto non potesse essere se non quello che l'Italia aveva scelto per sé, l'atteggiamento dei due filosofi fu, nella sostanza, assai diverso. E Croce considerava la guerra alla stregua di un evento irresistibile della natura, ne vedeva la trama violentemente economica e utilitaria, così che sempre il suo monito fu che non si sottomettesse alla sua particolare logica la logica dei superiori valori della verità e della cultura, del pensiero e dell'arte.  Diverso fu, invece l'atteggiamento del Gentile. Senza che perciò si inducesse a passare il segno e a "farsi", come Croce diceva, "l'animo di guerra", egli la considerò tuttavia come una grande occasione rigeneratrice, come un evento assoluto, recante in sé il segno di una tal quale superiore provvidenzialità. Mentre Croce confidava, o quanto meno sperava, che nell'Europa di domani il meglio dell'Europa di ieri fosse conservato e potenziato, e nella religione degli studi, nella civiltà dei rapporti intellettuali, nell'universalità delle idee, gli odi nazionali si placassero e depurassero, il G. inclinava viceversa, lui che nazionalista non era mai stato e nemmeno a rigore era diventato, verso i toni dell'esaltazione nazionale. E fu allora che, per la forza di queste sue convinzioni e passioni, si preparò la sua futura adesione al fascismo, nel quale, mettendo come fra parentesi le molte cose che certo non appartenevano al suo costume, egli credette di scorgere, e in questo convincimento fu poi irremovibile, lo strumento del riscatto "risorgimentale" dell'Italia.  Il sistema filosofico che fino a quel punto il G. aveva elaborato negli scritti dei quali qui sopra si è detto era per intero incentrato su questo concetto: che, come la filosofia antica e quella medievale e moderna (che non riusciva perciò a esser tale), era rimasta ferma, anche nelle sue dimensioni idealistiche, a un concetto intellettualistico e soltanto descrittivo del concetto, del soggetto e della sua attività, con la conseguenza che il concetto non era autoconcetto, e cioè la sua eterna autogenerazione e autoproduzione, nell'idealismo invece, che per questa ragione meritava di essere definito "attuale", questo proprio avveniva. E il concetto era autoconcetto, il soggetto, soggetto, e non concetto (astratto) del soggetto: non era una sorta di res naturalis che il concetto appunto si limiti a contemplare, a descrivere nel suo astratto organismo logico, e non a produrre nell'atto del suo atto. Di qui la tesi, caratteristica di questo idealismo, che nella sua concretezza e attualità, l'atto non può trascendere il suo atto, questa trascendenza dell'atto non potendo essere se non, essa stessa, atto; e l'altra tesi secondo cui la teoria che dell'atto intendesse darsi è perciò una teoria vera (secondo il G.) ma astratta: una teoria astratta del concreto (vero anch'esso, naturalmente: e a fortiori). E di qui l'interna, forte tensione di questa filosofia; che, per un verso (e sopra tutto nelle sue prime formulazioni) era orientata a svalutare e criticare ogni teoria che, in quanto soltanto contemplativa e descrittiva, fosse perciò incapace di cogliere l'atto se non come un "fatto", e dunque come il suo opposto, falsità ed errore, se l'atto era viceversa verità e concretezza. Ma per un verso (e questo accade sopra tutto nel secondo volume del Sistema di logica, non senza che per tale via il G. provasse a rispondere al rilievo di ineffabilità e misticismo rivoltogli da Croce fin dal 1913) la questione dell'astratto e del fatto assumeva un altro volto, e l'atto era bensì celebrato nella sua non obiettivabile attualità, ma il fatto e l'astratto gli si rivelavano a loro volta indispensabili, erano (per dirla in modo tecnico) il suo opposto, ma anche il suo diverso, un grado attraverso il quale, sia pure dissolvendolo, il concreto era, nel e per il suo costituirsi, costretto a idealmente passare. Il punto critico di questa filosofia sta qui: nel suo essere, non, come tante volte si è detto, misticismo e indistinzione, ma nel porsi come una sintesi, attuale e intrascendibile, di opposti, senza poter rinunziare - donde l'ambiguità - a trattare gli opposti come "gradi", e cioè come "diversi" o "distinti": nell'essere insomma una teoria dell'unità che in eterno supera la distinzione, e della distinzione che, proprio perché è in eterno superata, non può veramente uscire dal quadro e si rivela come la condizione insostituibile della sua possibilità.  Verità del concreto, dunque: ma anche dell'astratto; che nelle opere del secondo attualismo, e cioè nel Sistema di logica e oltre, si rivela non, quale all'inizio era, come natura, immobilità, impenetrabile assenza di coscienza, ma come circolo e mediazione, punto semovente che parte da sé e per fare ritorno a sé: come circolo, e perché no, dunque, come esso stesso logo concreto? Come logo concreto; e perché no, dunque, come logo astratto, se questo è mediazione e coscienza, e niente più di questo il logo concreto può essere?  A Pisa, negli anni della Grande Guerra, il G. rivelò a sé stesso la passione politica che gli stava dentro come assopita; e assunse perciò una dimensione che non era più soltanto quella del professore che parla dalla cattedra e magari fa conferenze, ma era bensì quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al grande pubblico attraverso i giornali quotidiani. Ai quali in effetti, assumendo una consuetudine che avrebbe, con diversa intensità (nel tempo), mantenuta fino alla fine della sua vita, il G. allora prese a collaborare: tanto che quando, a guerra finita, raccolse in un volume che intitolò Guerra e fede (Napoli 1919) quanto aveva scritto durante il suo corso, il libro risultò tutt'altro che smilzo, e comunque più consistente di quello che lo seguì, e nel quale, con il titolo Dopo la vittoria (Roma 1920), sistemò gli articoli composti nei due anni iniziali dell'agitato, inquieto, drammatico dopoguerra. Un periodo, quest'ultimo, nel quale sempre più decisamente il G. cercò la sua parte e venne via via inasprendo la sua posizione, perché l'idea natagli nei passati anni, durante le sue meditazioni sulla storia d'Italia e sulla fatale dicotomia che nell'età del Rinascimento si era prodotta fra lo splendore artistico e la decadenza politica e morale, quest'idea doveva ora essere messa alla prova della realtà, doveva diventare uno strumento forte e tagliente di lotta e di azione politica. Il che implicava che, pur seguitando a dichiararsi liberale, sempre più egli sentiva di doversi opporre al liberalismo quale si era riflesso nel costume politico italiano, nella degenerazione dei metodi parlamentari, nell'arte del compromesso e del perenne rinvio delle decisioni: un'arte nella quale maestro insuperabile gli sembrava fosse il Giolitti, che per lui fu allora non il ministro, come G. Salvemini l'aveva in precedenza definito, della "malavita", ma l'artista di ogni cosa che fosse mediocre, si contentasse della mediocrità e rinunziasse a volare alto nei cieli della grande politica.  Furono, questi, mesi drammatici, che egli visse in uno stato d'animo teso e agitato, e nel segno di un'attività senza soste, che dette a tratti l'impressione di essersi risolta in frenetico attivismo. Che certo non si placò quando nel 1920 Croce fu chiamato da Giolitti a ricoprire nel governo la carica di ministro dell'Istruzione pubblica e dette la sua opera alla riforma della scuola media e introdusse sia l'esame di Stato, sia l'insegnamento della religione. Alle cose della scuola il G. aveva, per parte sua, cominciato a interessarsi da molto tempo: ossia fin da quando, giovane professore nel liceo di Campobasso, s'era reso conto di quante manchevolezze l'affliggessero. E poi nel 1913 aveva pubblicato il Sommario di pedagogia, così che a giusto titolo era, in quel campo, considerato un'autorità; che, divenuto ministro, Croce non tardò a riconoscere, chiamandolo a presiedere "la commissione per lo studio dell'autonomia universitaria e dell'esame di Stato", nonché "a far parte di quella per la riforma dei programmi presieduta da Vitelli", nominandolo commissario dell'Istituto femminile superiore di magistero di Roma e confermandolo, nel 1921, nel Consiglio superiore dell'istruzione pubblica (Turi, p. 294).  A Croce, del resto, il G. non fece mancare il suo appoggio, pieno e incondizionato. Almeno nei risultati da raggiungere, e nelle conseguenze che occorreva trarre da alcune generali premesse, i due filosofi amici concordavano senza riserve. E nel sostenere, per esempio, la tesi che la religione dovesse costituire materia d'insegnamento, il suo pensiero non differiva da quello di Croce se non per il "modo" e per la diversa posizione che alla religione egli riserva nel sistema dello spirito. La sua idea era insomma che, come per pervenire alla pienezza del suo sé nella filosofia, lo spirito passa attraverso le fasi ideali, e contrapposte, dell'arte (soggetto) e della religione (oggetto), così anche nella scuola questo ritmo dovesse trovare una sorta di trascrizione temporale o fenomenologica, quasi che, per giungere alla filosofia, anche lì si dovesse percorrere la regione del mito di cui le religioni s'interessano. Ma la religione della quale il progetto ministeriale prevedeva l'insegnamento era quella cristiana e cattolica, la più perfetta, per il G., di tutte le religioni quando, appunto, proprio nella forma assunta dal cattolicesimo la si fosse considerata. Era, questa, della perfezione cattolica, un'idea che il G. aveva sostenuto quando, nei primi anni del secolo vigorosamente aveva polemizzato con i modernisti cattolici. E, per questo riguardo (oltre che per quello concernente la struttura dello spirito), il suo accordo con Croce era piuttosto sulle conclusioni che non sul "metodo". Che è poi quello stesso che si dà a vedere nell'idea che presiedette all'introduzione dell'esame di Stato, perché se, nel propugnarlo, il G. vi implicava il concetto secondo cui in esso lo Stato realizzava una delle dimensioni della sua "eticità", Croce non vi vedeva se non uno strumento di controllo e a questa luce ne interpretava la necessità.  La cosa più singolare fu allora che, nell'atto in cui più stretto si rivelava il legame dei due filosofi impegnati in una importante impresa pratica, il loro dissenso filosofico tornò invece a farsi acuto e a complicarsi con quello politico generale, perché nei confronti del fascismo la reazione di Croce fu bensì, agli inizi, cauta e anche esitante, ma certo in quel movimento egli non vide nemmeno una piccola parte delle idealità che il G. riteneva gli fossero intrinseche e immanenti.  Del resto, nel 1920, dopo due anni che era salito sulla cattedra romana, il G. fondò, assumendone la direzione, il Giornale critico della filosofia italiana: una rivista di sola filosofia che anche per questo suo carattere non si contrapponeva in ogni senso alla Critica, ma in un certo senso sì, anche perché nella nuova rivista gli scolari che subito si erano stretti intorno al nuovo professore, e in lui vedevano il sole della filosofia mondiale, riconobbero l'organo della scuola. E questo, come si sa, era il punto che Croce meno apprezzava ed era disposto a perdonare.  Il momento decisivo della vita del G. venne quando, caduto il governo del Giolitti nel quale Croce aveva ricoperto l'incarico di ministro, e succedutogli uno presieduto da I. Bonomi con O.M. Corbino all'Istruzione pubblica, egli ebbe modo di riflettere sulle mille difficoltà che dal mondo politico e parlamentare sempre sarebbero state opposte a ogni tentativo che si fosse fatto d'introdurre nella scuola una seria riforma. La disistima che, in linea generale, già da molto tempo il G. nutriva nei confronti della classe dirigente italiana trovava così, nella recente esperienza fatta quando Croce era al governo con Giolitti, nuovo alimento. E può ben darsi che anche da questo egli fosse indotto a guardare con sempre più grande favore al movimento fascista e a considerare con politica indulgenza la violenza e le illegalità di cui nutriva la sua azione.  I documenti necessari a rendere certezza questa, che è solo una congettura, mancano, che si sappia. Ma non è improbabile che, appunto, riflettendo sulle recenti esperienze, il G. allora si persuadesse che, nella questione della scuola come, in generale, in quella concernente il governo del paese, il regime parlamentare dovesse cedere il campo a un sistema politico diverso, fondato sulla rapidità delle decisioni e sulla forza necessaria a tradurle nella realtà. E altresì deve aggiungersi che, nel pensare così e nell'orientare in questa direzione le sue scelte politiche, come molti altri egli fu forse tratto in inganno dalla scarsa esperienza che, nel complesso, aveva non solo della politica, ma anche della storia; che, se gli fosse stata meglio nota, gli avrebbe con ogni probabilità in segnato che la politica è un'arte difficile, complessa e insidiosa, non in quanto si svolga in un Parlamento e da questo attenda il consenso, ma perché è politica, e ha a che fare con le passioni e gli interessi, nonché con il loro governo.  Come che sia, l'occasione di mettere alla prova i convincimenti che via via gli si erano formati dentro venne quando, avendo ricevuto dal sovrano l'incarico di formare il suo governo, che succedeva così a quello per breve tempo presieduto da L. Facta, Benito Mussolini scelse infine come ministro della Pubblica Istruzione proprio il Gentile. È stato detto da taluni che, entrando in quel governo come indipendente e soltanto per le sue competenze non politiche ma tecniche, il G. accettava da Mussolini quel che avrebbe benissimo potuto accettare da Giolitti e da chiunque gli avesse offerto un'analoga occasione. Ma, sebbene egli non avesse ancora dichiarato il suo consenso esplicito al fascismo, e fascista ancora non potesse perciò essere detto, è pur vero che quel che pensava di Giolitti e della tradizionale classe politica italiana non gli avrebbe forse consentito di collaborare nel governo con uomini per i quali nutriva disprezzo, e non stima. Nel governo in cui entrava il G. poteva infatti contare sugli ampi poteri che, nel dargli fiducia, il Parlamento aveva concesso a Mussolini, che governò infatti soprattutto con i decreti legge e con facilità poteva aggirare le opposizioni; e di questo, che considerava un vantaggio, egli si giovò con larghezza e altrettanta fermezza, perché, appunto, al governo era andato con l'idea di realizzare comunque la riforma; e a realizzarla era deciso.  Non è possibile, in poco spazio, raccontare le vicende complesse e intricate alle quali il progetto gentiliano della riforma dette luogo. E basteranno due rilievi: uno rivolto a ricordare la struttura a cui la riforma tendeva e alla quale infine mise capo, l'altro diretto a rievocare le fiere critiche che essa suscitò, non solo nel mondo politico, ma anche in quello della scuola. La struttura della scuola riformata prevedeva una scuola elementare obbligatoria per tutti, nella quale il senso della tradizione nazionale, della religione e della letteratura tenessero il centro e costituissero il criterio per la formazione del giovane, al quale certo non sarebbero mancate le nozioni elementari dell'aritmetica e della scienza. Accanto al ginnasio-liceo, destinato a formare le future élites dirigenti e, comunque, gli strati più alti della popolazione, la scuola riformata prevedeva quattro indirizzi fondamentali a cui, come ha scritto S. Romano, corrispondevano "quattro distinti ruoli sociali" (p. 174); e altresì prevedeva che l'educazione impartita nelle elementari sarebbe stata completata, per i figli del popolo, con tre anni di complementare, mentre una scuola industriale e tecnico-commerciale, integrata da un istituto tecnico per chi avesse inteso proseguire nello studio, avrebbe corrisposto alle esigenze formative di queste professioni, insieme con una scuola magistrale, proseguibile in un magistero universitario, per certe parti analogo alla facoltà di lettere e filosofia.  Le critiche che a questo modello di scuola, qui sommariamente descritto, furono rivolte posero subito in rilievo il carattere conservatore, statico e anche classista di una struttura a cui faceva in effetti riscontro l'idea di una società immodificabile nei suoi equilibri politici ed economici. E forti furono subito, da parte di non pochi, le riserve avanzate circa il ruolo riservato al ginnasio-liceo, nel quale lo studio delle due lingue classiche, il latino e il greco, prevaleva su quello delle lingue moderne e, nel complesso, la parte riservata alle lettere appariva rispetto a quella fatta alle scienze naturali, predominante. Si aggiungano le critiche rivolte all'abbinamento, nel liceo, della filosofia e della storia, e anche della matematica e della fisica; e sopra tutto al primo, che sconvolgeva antiche abitudini sia degli storici, sia dei filosofi, alquanto astrattamente dedotto da una teoria e che in concreto non aveva, e non ebbe, il potere di rendere filosofi gli storici, e storici i filosofi. E infine non si dimentichi che la riforma non piacque a molti cattolici, scontenti del potere che lo Stato veniva a esercitare sulle scuole private, e a non pochi laici, scontenti essi pure che la religione cattolica fosse diventata materia obbligatoria per tutti i giovani cittadini dello Stato italiano.  Accanto alle molte critiche, occorre tuttavia anche ricordare e sottolineare che la riforma gentiliana nasceva da una visione coerentemente unitaria, e certo non era la veste di Arlecchino che altrimenti (e come poi è accaduto) avrebbe rischiato di essere: tante idee di diversa provenienza mal combinate e peggio tenute insieme dallo spirito deteriore del compromesso politico. Per quanto concerne il rilievo (certo non infondato) di elitismo e persino di classismo, conviene dimenticare il "nodo" che, per parafrasare Dante, tiene al di qua di ogni ragionevole traguardo chi, ripugnando all'idea di fare delle classi economiche più forti le vere destinatarie dell'alta cultura, intesa perciò come strumento di conservazione e di trasmissione del potere, con alquanta semplicità di spirito ritenga che la difficile questione si risolva col "democratizzare" la cultura, ossia con l'estenderne l'ambito e abbassarne il livello. L'esigenza che il G. (e questo non può essere negato) cercava di realizzare, e che per alcuni versi si traduceva in istituti didattici inadeguati, era diretta a far entrare nelle menti che "cultura" significa, in primo luogo, la grande difficoltà che s'incontra nel tentativo che si faccia di conseguirla: un tentativo che va a buon segno soltanto se ci si impegna nell'acquisizione degli strumenti tecnici, storici, linguistici, filosofici, scientifici, senza i quali il mondo del sapere non dischiude i suoi tesori. Ma qui, su questo difficile problema, che tende a tornare insoluto dinanzi a chi pur lavori nel tentativo di risolverlo, occorre non insistere.  Nel maggio 1923, all'apparenza con una decisione improvvisa, che non fu comunicata se non a Mussolini, che doveva essere informato, e della quale nemmeno Croce fu messo al corrente, il G. si iscriveva al Partito nazionale fascista. E sulle ragioni che lo indussero, mentre era ministro, a compiere questo passo, che certo non era privo di gravi conseguenze, si è molto discusso; e da alcuni si è avanzata l'ipotesi che a prendere questa decisione, che rese contenti i suoi allievi romani, ma non altri che ne rimasero invece alquanto sgomenti, egli fosse indotto da due diverse, ma convergenti, persuasioni.   La prima, che quello fosse l'esito necessario non tanto dell'idealismo attuale, che con il fascismo in quanto tale poco aveva in comune, quanto piuttosto della riflessione da lui condotta nei passati anni sulla storia d'Italia e sulla possibilità che ora il fascismo aveva nelle mani di reintegrarne in unità le secolari scissioni e lacerazioni, la politica imbelle e la letteratura vuota, compiendo il Risorgimento. L'altra, immediatamente pratica e politica, che la riforma sarebbe stata meglio difesa, e altrimenti non potesse esserlo, se il liberale che egli era, ed era considerato, avesse mostrato di condividere senza riserve la convinzione mussoliniana e fascista e avesse così posto termine, o almeno un freno, alle critiche che gli si muovevano e alle diffidenze da cui era circondato.  In ogni caso, il passo che doveva decidere il destino del G. era compiuto. Ed è quanto meno dubbio che, se lo compì anche per salvare la riforma dalle forze che l'avversavano e minacciavano di impedirne l'attuazione, quel passo servisse veramente allo scopo. I mesi che precedettero l'assassinio di G. Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924 e che videro quattro giorni dopo le sue dimissioni dal governo, furono drammaticamente segnati da gravi difficoltà, a superare le quali non bastarono né il tattico appoggio datogli dal capo del governo, né gli inviti alla resistenza provenienti dai suoi scolari e amici romani, né il sostegno deciso di Croce che, malgrado il sempre più netto incrinarsi dei loro rapporti e la frattura che entrambi sapevano, in cuor loro, inevitabile, non glielo fece mancare e, nella sua impresa di ministro, lo sostenne. Le dimissioni dal governo non furono un atto di autonomia, di distacco dal fascismo che si era macchiato di un gravissimo delitto, di opposizione alla sua politica. Furono, infatti, da lui motivate con pure ragioni di opportunità politica e nell'interesse sia del governo, sia di colui che lo presiedeva: ossia con l'argomento secondo cui le opposizioni delle quali la sua riforma era da tempo l'oggetto potessero diventare un pretesto per colpire Mussolini o avessero comunque, pretesto o no, a indebolire la posizione politica di lui che, all'improvviso, era venuto a trovarsi in una situazione obiettivamente molto difficile.  Accusato apertamente dalle opposizioni di essere il responsabile e il materiale mandante del delitto, Mussolini era allora non solo in pericolo, ma sembrava altresì aver perduto la sicurezza e la spregiudicatezza che, in momenti non altrettanto gravi, erano sembrate la dote precipua del suo essere un politico nuovo, estraneo alle astuzie deteriori e alle infinite mediazioni della prassi parlamentare. E, proprio perché sull'indecisione dimostrata da Mussolini egli ebbe allora, in lettere private, a formulare critiche precise - nonché il timore che quello smarrisse la via e naufragasse -, proprio per questo il proposito di rendergli il più possibile sgombro di ostacoli il cammino dovette sembrargli l'unico che un seguace fedele dovesse preoccuparsi di tradurre in comportamenti conseguenti.  Al fascismo, dunque, con quel gesto il G. non tolse il suo consenso, ma piuttosto lo rinnovò in un momento in cui non mancarono, fra i suoi allievi, quelli che, delusi dall'indecisione mussoliniana, lo esortavano a prender lui la guida effettiva, e cioè politica, del fascismo in crisi. Furono quelle settimane drammatiche, perché, oltre gli elementi obiettivi che rendevano tale la crisi, a coloro che, nel campo fascista, lo spingevano verso posizioni estreme si contrapponevano gli amici che, o antifascisti o in via di diventar tali, gli davano il consiglio opposto: non di rimanere nel partito di Mussolini, ma, decisamente, di uscirne, mettendo in salvo una volta per tutte il suo "nome onorato". Drammatiche sono, in questo senso, le lettere che allora gli scrissero G. Lombardo Radice, collaboratore fedele e amico fraterno, e A. Omodeo, uno degli allievi prediletti della scuola palermitana. Furono giorni, settimane, mesi molto difficili anche perché il dissidio con Croce, che, come si è detto, mai si era sul serio ricomposto e, come il fuoco la cenere, sempre aveva seguitato a sottendere i loro rapporti, giunse allora, finalmente, alla sua definitiva espressione. E quali, a determinare la rottura che in sostanza si consumò alla fine dell'ottobre 1924, possano essere stati gli episodi e le circostanze specifiche, sta di fatto che era la logica delle cose a rendere grave ogni episodio, ogni circostanza che, se tale logica non fosse appunto stata così forte e imperiosa, avrebbero, con ogni probabilità, potuto avere un esito diverso.  Sulle ragioni profonde che la determinarono e misero fine a un sodalizio durato quasi trent'anni, molte cose si dissero allora, molte sono state dette poi, quando parve che il distacco cronologico consentisse la serenità necessaria alla formulazione del giudizio. E questa non è la sede dove la questione possa essere analizzata in ciascuno dei suoi aspetti, filosofici, politici, psicologici; e si può ben dire che, per quanto attiene al suo concreto e determinato delinearsi e decidersi nel tardo autunno del 1924, essa risulti definita dalle due lettere che il G. e Croce si scambiarono: essendo tuttavia quest'ultimo che, di fronte alla dolorosa meraviglia espressa dall'altro nell'apprendere che certi suoi comportamenti avevano seriamente messo in pericolo la prosecuzione, non solo del loro sodalizio scientifico, ma, addirittura, della loro amicizia, obiettò che al dissidio mentale nel quale da tempo si trovavano se n'era aggiunto un altro, di natura pratica e politica; e che le cose dovevano perciò fare il loro corso necessario, fino alle estreme conseguenze.  Le dimissioni che il G. presentò e che Mussolini accettò, nominando al suo posto il liberale, e grande amico di Croce, A. Casati, segnarono nella sua vita una svolta importante. Nella sua vita, s'intende dire, pubblica e politica; e non nei suoi sentimenti e convincimenti politici che, a quanto risulta, fino all'ultimo dei suoi giorni rimasero quelli che nel 1923 lo avevano indotto a chiedere la tessera del partito fascista. Non nei sentimenti e nei convincimenti, dunque. Ma nella vita pubblica e politica, sì. Al governo infatti il G. non tornò più. E alla politica del paese partecipò bensì, nei primi tempi, come presidente della Commissione dei quindici (divenuta poi dei diciotto), il cui compito fu di svolgere una revisione costituzionale in senso autoritario dello Stato. Partecipò bensì come vicepresidente del Consiglio superiore della pubblica istruzione: una carica importante, questa, che gli consentiva di vegliare sull'integrità della riforma, proteggendola da quanti avevano interesse a intervenirvi per alterarla e stravolgerla. Ma, intesa in senso stretto, dalla politica, in sostanza, egli allora uscì. E la sua partecipazione alla vita del regime fascista si realizzò nelle istituzioni culturali (per esempio, l'Istituto nazionale fascista di cultura, poi di cultura fascista) delle quali ebbe la cura e che presiedette; e se nei giornali e nelle riviste politiche alle quali normalmente collaborava non perse occasione per dire il suo parere su ciò che più da vicino lo toccava, l'argomento prescelto fu quasi sempre culturale, anche se mai egli mancò di collocarlo nel quadro costituito della sua fede fascista e della sua fedeltà al regime mussoliniano.  Almeno su due episodi occorre tuttavia, non essendo possibile in questa sede un più largo discorso, soffermarsi. E di questi uno era bensì di natura anche filosofica e culturale, perché implicava in modo preminente l'idea che da anni ormai egli aveva elaborato della filosofia e dello Stato che, identico alla filosofia, rappresenta il vertice stesso dell'autocoscienza; ma anche era di natura politica, e persino diplomatica, coinvolgendo direttamente l'azione del governo e del suo capo. Si allude al concordato con la S. Sede dell'11 febbr. 1929. E il G. lo avversò in un pubblico discorso, che non ebbe conseguenze pratiche perché sulla via concordataria Mussolini era deciso ad andare fino in fondo, e l'opposizione del filosofo formalmente rientrò: sebbene quell'episodio dovesse seguitare ad agire dentro di lui che, forse anche per questo, quasi volesse rinverdire dentro di sé quel gesto di autonomia non andato a segno, per tutta la vita polemizzò con i filosofi cattolici e, in modo particolare, con gli ambienti dell'Università cattolica del S. Cuore di Milano, in primis con padre A. Gemelli, che egli trattò con la mano rude che riservava a certe sue battaglie culturali e filosofiche.  L'altro episodio è costituito dalla battaglia che egli sostenne perché ai professori universitari fosse imposto il giuramento di fedeltà al regime fascista. E a parte le modalità con le quali e attraverso le quali si svolse; a parte il nesso con le vicende della replica che, per iniziativa di G. Amendola, e a nome di tanti e tanti intellettuali, Croce dette al Manifesto degli intellettuali fascisti redatto dal G.; a parte le tragiche ferite che questa imposizione apriva nella coscienza di tanti che innanzi a sé videro o la prospettiva della miseria o quella dell'abdicazione ai dettami dell'etica, c'è qualcosa che a questo riguardo merita di essere notato. E questo è il singolare concetto della "concordia" a cui, com'era accaduto persino nei giorni cupi della crisi aperta dell'assassinio Matteotti (e come ancora sarebbe accaduto vent'anni dopo nei mesi della Repubblica sociale), anche in quel caso il G. si appellò per sostenere che, se l'opposizione resa evidente e, anzi, drammatizzata dal conflitto dei due manifesti, il suo e quello di Croce, fosse stata superata da un formale atto di fedeltà al regime, l'unità sarebbe stata ristabilita e nessuna discriminazione avrebbe più avuto alcuna ragione d'essere nei confronti di dissenzienti che non erano, ormai, più tali. E la cosa singolare è che, nell'argomentare così, non solo egli mostrava di credere che, se il giuramento fosse stato dato, le ragioni del dissidio politico che ai suoi occhi lo aveva reso necessario sarebbero venute meno; ma addirittura riteneva che potesse essere e definirsi unità autentica quella che fosse stata conseguita per la via della coercizione e non per quella, da lui tante volte definita come l'unica possibile, della libertà, mediante la quale lo spirito costituisce sé stesso.  Quella dell'Enciclopedia Italiana fu l'impresa alla quale, fra il 1925 e il 1943, il G. dedicò la parte più viva della sua energia di grande organizzatore culturale. La parte più viva, e anche la più grande, la più impegnata e costante, quella con la quale il suo "tutto" quasi per intero giunse a coincidere. Quasi per intero; perché, accanto all'opera dell'Enciclopedia, occorre non dimenticare l'altro grande suo impegno, che fu costituito dalla Scuola normale superiore di Pisa, della quale fu, dal 1928, commissario, quindi, dal 1932, direttore, e che nella sua stessa persona difese, nel 1935, dall'attacco mosso da C.M. De Vecchi di Val Cismon che, divenuto ministro dell'Educazione nazionale (gennaio 1935), gli mostrò intera la sua ostilità, giungendo anche a destituirlo (giugno 1936). Il provvedimento del ministro fu presto ritirato perché, sollecitato dal G., nella controversia intervenne direttamente il capo del governo, che rimise al suo posto il filosofo; che poté così continuare la sua opera di potenziamento e di ammodernamento della Scuola, e rendere assai più agevole il soggiorno, e migliori le condizioni di studio, agli studenti interni. Dai quali, sopra tutto negli anni Trenta e Quaranta, dovette sopportare non poche manifestazioni di antifascismo, perché, fra La Sapienza e la Normale, per opera di alcuni giovani professori, e in primo luogo di G. Calogero, Pisa era diventata un centro assai vivo di opposizione al regime fascista.  Il consenso del quale questo aveva goduto fin verso la metà degli anni Trenta era andato impallidendo quando, con la guerra di Spagna e poi, nel 1938, con le leggi razziali, si ebbe netta l'impressione che l'allineamento alla Germania nazionalsocialista avrebbe avuto per conseguenza la tragedia di una seconda guerra europea e mondiale. E, ancora una volta, il G. si trovò a dover affrontare un conflitto, difficile e penoso, con i giovani che, direttamente o no, erano anche suoi allievi e non poco, comunque, avevano ricevuto da lui. Le testimonianze, scritte e anche orali, che rimangono di quegli anni pisani dicono di un suo atteggiamento incerto fra paternalismo e autoritarismo, fra benevole indulgenze e improvvise durezze. Un atteggiamento, questo, tipico di un uomo generoso e, nello stesso tempo, incapace di comprendere le ragioni del dissenso; e che, su un piano di ben altra drammaticità, si ripeté quando, avendo accolto e cercato di "sistemare" alcuni intellettuali tedeschi che, dopo il 1933, avevano dovuto lasciare la loro terra perché ebrei (P.O. Kristeller, K. Löwith, N. Rubinstein, per citarne solo tre), la medesima questione gli si presentò, per gli ebrei italiani, in seguito alla promulgazione delle già ricordate leggi razziali del 1938. Anche in questo caso, infatti, quanto fu benevolo e comprensivo nei confronti dei perseguitati, altrettanto il suo atteggiamento fu debole nei confronti di chi di quella persecuzione si era reso responsabile. E se niente egli disse in quegli anni in difesa di provvedimenti che non potevano non ripugnargli profondamente, in pubblico non se ne dissociò.  Ma si diceva dell'Enciclopedia, nell'organizzare la quale, nel dirigerla, nell'avviarla alla sua realizzazione, il G. seppe altresì formare, nella sede romana di piazza Paganica, un luogo di lavoro affatto particolare, segnato in profondità dalla sua energia, ma anche dal suo vivo senso della libertà della scienza, che in sostanza, tenendosi in difficile equilibrio fra il censore ecclesiastico e quello politico, egli seppe per lo più garantire agli studiosi che vi collaboravano e che, se non certo in maggioranza, in buon numero erano antifascisti o non fascisti.  Si pensi, per fare qualche nome, a G. De Sanctis, che all'Enciclopedia seguitò a collaborare anche dopo che, per non aver voluto prestare il giuramento di fedeltà al regime, aveva dovuto rinunziare alla cattedra romana. Si pensi a G. Calogero, a W. Giusti, a U. La Malfa, a C. Antoni, e ad altri che, se, come si è detto, non erano propriamente ostili al fascismo, nemmeno gli erano amici incondizionati; e qui si possono, per esempio, fare i nomi di F. Chabod, di E. Sestan, di W. Maturi.  A proposito dell'Enciclopedia sono state poste, tra le altre, due questioni: se il G. la concepisse come un grande monumento, fascista, da innalzare al fascismo, o se da questa idea si tenesse tanto lontano quanto per contro era convinto che quello dovesse essere un monumento italiano, frutto e documento dell'unica, ossia della più alta, cultura italiana; e, inoltre, se l'Enciclopedia, quale il G. la concepì e disegnò, abbia patito la conseguenza della chiusura e dell'angustia della cultura idealistica e fosse perciò poco disposta a concedere alle scienze naturali, fisiche e matematiche, lo spazio che queste avrebbero richiesto e, beninteso, meritato. Alla prima deve rispondersi che, certo, nata in quegli anni e resa possibile dal fascismo, l'Enciclopedia appartiene al numero delle opere che allora si produssero. Ma "fascista" non fu nella concezione, perché esplicitamente il G. sostenne il suo carattere in primo luogo scientifico, culturale e non politico. E "fascista" non fu nel contenuto, perché, oltre a essere "scritta" da molti che fascisti non erano, e anzi al regime erano avversi, anche gli studiosi che aderivano al regime vi scrissero per lo più da studiosi e non da fascisti. Sì che, al riguardo, occorre distinguere e mantenere le distinzioni: aggiungendo (e con questo si passa all'altra questione) che, come non fu fascista nella concezione, così nemmeno fu "idealistica" nel senso vulgato, per il quale si dice "idealismo" e s'intende qualcosa come un oltraggio recato alla scienza. In realtà, come accanto a studiosi idealisti tanti altri vi scrissero che idealisti non erano affatto, così non sarebbe giusto dire che in generale le scienze vi fossero depresse, e che le relative voci non fossero affidate a studiosi di provato e, spesso, di grande valore.  Il lavoro svolto nelle Università di Roma e di Pisa, l'Enciclopedia, e quindi l'Università Bocconi di Milano, l'Istituto per il Medio e l'Estremo Oriente, il Centro nazionale di studi manzoniani (di cui il G. era stato nominato commissario nel 1937, e che fu affidato alle cure sapienti di M. Barbi e del suo collaboratore F. Ghisalberti) non resero però meno intensa la sua attività di studioso. Certo, dopo il 1920-21, venne meno nel G. la possibilità e, con questa, anche l'interesse, di coltivare la ricerca storica nelle forme che questa aveva assunto, presso di lui, negli anni precedenti. Ma nel 1931, rielaborazione di un corso tenuto nel 1927-28 nell'Università di Roma, dove (come già si è ricordato) era succeduto al Varisco sulla cattedra di filosofia teoretica, il G. pubblicava La filosofia dell'arte, documento di aspra polemica anticrociana, ma anche, nello stesso tempo, rielaborazione dell'idealismo attuale dal punto di vista del sentimento, interpretato ora come una sorta di grande Grundakkord, presentante tratti di essenzialità e precategorialità della stessa vita spirituale. E quindi pubblicava l'Introduzione alla filosofia (1933), raccolta di scritti concernenti l'esame dei concetti fondamentali della filosofia, studiati e prospettati dal punto di vista conseguito dall'idealismo attuale. E senza la pretesa di ricordare tutti i tanti scritti, spesso di varia occasione, che egli allora compose e con i quali fu presente nel dibattito e nella vita culturale del paese, converrà tuttavia far menzione degli scritti dedicati ai poeti, e cioè, in pratica, a Dante (La profezia di Dante, Roma 1933; Il canto VI del Purgatorio, Firenze 1940), a Manzoni e infine a Leopardi, il più amato, e quello altresì al quale dette forse il contributo, in questo campo della critica letteraria, più notevole (Manzoni e Leopardi, Milano 1928; Commemorazione di G. Leopardi, Roma 1937; Poesia e filosofia di G. Leopardi, Firenze 1939).  Se la si osserva dall'alto, e la si scruta nel non breve periodo seguito alle battaglie per la riforma della scuola, contro il concordato, per l'istituzione del giuramento da imporre ai professori delle università, la vita del G. sembra, come si è detto, svolgersi prevalentemente all'interno delle istituzioni culturali delle quali ebbe la cura. E qui, fra le luci e le ombre di queste molteplici attività, che lo condussero anche all'acquisto nel 1936 della casa editrice Sansoni, si ha quasi l'impressione che il personaggio sfugga a una definizione; che, malgrado la sua spesso ingombrante presenza, ci fosse in lui qualcosa di segreto, di irriducibile, con il quale egli era forse il primo a non voler prendere, fino in fondo, contatto.  L'uomo era orgoglioso, sicuro di sé: tollerante, come si è detto, ma anche deciso e prepotente. E non avrebbe mai consentito che qualcuno spingesse, o provasse a spingere, lo sguardo per andare al di là di quella spessa corazza attivistica, dietro la quale si muovevano forse più cose di quante amici, nemici, egli stesso supponessero. Mentre impediva che altri penetrasse nel suo animo, non era certo lui quello che fosse disposto ad aprirlo perché egli stesso vi guardasse dentro. Un contributo gentiliano alla "critica" di sé stesso sembra, francamente inconcepibile. Non senza perciò che un moto di stupore si determinasse nell'ambito di chi vi conduceva qualche ricerca, dal suo archivio sono emersi alcuni inediti dedicati alla questione della morte, ossia a un tema, per il teorico dell'idealismo attuale, insidioso fin quasi al limite dello "scandalo" (filosofico).  Da qualche altro indizio documentario può desumersi che se la fedeltà che lo legava al fascismo non venne meno e intatta rimase l'ammirazione per Mussolini e inconcussa la fiducia in lui, nei confronti del razzistico nazionalsocialismo il G. mostrò tutt'altro che inclinazione o simpatia. Il che peraltro non gli impedì di accettare senza discussione alcuna la guerra che, scoppiata nel settembre 1939, coinvolse tragicamente, nel giugno del successivo anno, anche l'Italia. Nei tre anni successivi, dal 10 giugno 1940 all'8 sett. 1943 - in quei tre anni così gravi di disastri, di distruzioni, di sconfitte, e anche di dolorosi lutti familiari, mentre il nesso che aveva unito le coscienze alla patria si spezzava, perché la difesa di questa non s'identificava più, per molti, con la difesa della libertà, da vent'anni perduta -, in questi tre anni il G. scelse il silenzio; che fu rotto solo in poche occasioni: nel 1942, quando esaltò in un articolo il Giappone guerriero, che, nei modi noti era entrato in guerra attaccando gli Stati Uniti d'America; e quindi con il famoso discorso agli Italiani del 24 giugno 1943.  È difficile dire come, dentro di sé, il G. valutasse il dissenso politico sempre più vivo nei confronti del regime, e che egli non poteva non cogliere nei giovani con i quali, a Roma e a Pisa, aveva frequente contatto: anche se è indiscutibile che di quel dissenso, di quell'avversione, del progressivo distacco dal fascismo di molti che pure in questo avevano creduto e riposto speranze, egli non partecipò, chiuso nel suo sentimento di fedeltà come in una fortezza della quale convenisse non abbassare, bensì, piuttosto, tenere ben alzati i ponti levatoi.  Fu questa, come si sa, la ragione per la quale egli accettò l'invito rivoltogli dal segretario del partito fascista, C. Scorza, di pronunziare dal Campidoglio un discorso che si rivolgesse agli Italiani, impegnati nella terribile prova della guerra e che, da qualche settimana avevano ormai il nemico in casa, fortemente attestato nella terra siciliana. Accettò l'invito che altri, interpellati prima di lui, avevano declinato. Salì sul Campidoglio, e pronunziò il suo discorso, che alcuni lodarono per il coraggio che aveva dimostrato e per il rischio al quale aveva in tal modo esposto la sua persona, e altri invece fortemente deplorarono e criticarono, cogliendovi come il segno della sua perdizione, del suo ribadito essersi reso estraneo a quel suo più profondo "sé stesso" dal quale non pochi avevano tratto una lezione di libertà. Certo, con quel suo discorso, così teso, così eloquente e così, politicamente, ingenuo, il G. mostrò intero il dramma, anzi rivelò la tragedia nella quale, forse al di là della sua stessa consapevolezza, si dibatteva.  Poi vennero il 25 luglio, la caduta di Mussolini e del fascismo, le umiliazioni che egli dovette subire quando il suo antico segretario al ministero della Pubblica Istruzione, L. Severi, divenuto a sua volta ministro nel governo formato da P. Badoglio, rese, senza alcuna seria ragione, pubbliche tre lettere che gli erano state da lui privatamente indirizzate a proposito, sopra tutto, di questioni concernenti la Scuola normale superiore di Pisa. Il che provocò giudizi aspri su di lui sia da parte dei fascisti che lo ritennero pronto a mettersi al servizio dei nuovi governanti, sia da parte di non pochi antifascisti uniti ai primi, in questo caso, da un non diverso giudizio.  Poi venne l'8 settembre, la cui notizia il G. apprese mentre si trovava a Roma, dove si era recato uno o due giorni prima, per affari personali, da Troghi, un piccolo paese sito a pochi chilometri da Firenze, nel quale, in una casa di campagna messa a disposizione sua e della sua famiglia dall'amico G. Casoni, aveva trascorso i mesi estivi, occupato a scrivere Genesi e struttura della società, il suo ultimo libro, estremo frutto di un corso di lezioni tenute all'Università di Roma. E le settimane successive furono quelle in cui, liberato Mussolini, e formatosi, con la proclamazione della Repubblica sociale, un governo fascista con sede a Salò, egli ricevette, tramite C.A. Biggini, divenuto ministro dell'Educazione nazionale, l'invito a recarsi al Nord per un incontro con il capo del governo, il "vecchio amico" al quale, ancora una volta, non poté non concedere quel che quello gli chiedeva. Così fu nominato presidente dell'Accademia d'Italia, trasferita da Roma a Firenze, dove fu sistemata a palazzo Serristori. E qui, dopo che il "commovente" incontro con il "vecchio amico" Mussolini aveva come riacceso in lui il desiderio di non starsene in disparte e, invece, di combattere la sua ultima battaglia, egli riprese il lavoro, cercando di riorganizzare l'Accademia e lavorando con i pochi soci che vi si recavano, assumendo la direzione della Nuova Antologia, cercando di riprendere contatti, e rapporti, per avviare nuove imprese. Ridette vita e autonomia, e questa è una circostanza singolare, la cui genesi richiederebbe qualche studio e attenzione, all'Accademia dei Lincei che infine era stata in parte assorbita nell'Accademia d'Italia, e quindi soppressa. E riprese ancora a collaborare ai giornali, perché, mentre gli eserciti alleati risalivano la penisola e alla guerra che investiva le città e le campagne un'altra si aggiungeva, di Italiani contro Italiani, gli sembrò che non si potesse non far di nuovo risuonare il tema della concordia e dell'unità.  Era un suo vecchio tema, una sua convinzione tenace che, nel livido e tragico teatro che era allora l'Italia, fu qual era stata durante la crisi seguita all'assassinio di Matteotti, e quindi al tempo del giuramento fascista imposto ai professori universitari, anche se, risuonando nella solitudine e nel gelo che circondavano la sua persona, il suo accento risultasse ancora più livido, ancora più tragico. Il G. riprese quel tema nel fosco crepuscolo dell'Italia fascista, forte lui della convinzione che gli Italiani sarebbero tornati a esistere come soggetti politici solo se fossero retroceduti al di qua delle ideologie e qui, in questo luogo ideale, avessero ritrovato la loro unità e identità di Italiani. Era una convinzione nutrita di illusione; e che fosse tale, si comprende non solo se le sue parole siano ripensate nel clima di quel tragico inverno, ma anche se si riflette sullo scambio logico sul quale, ancora una volta, si fondavano, e che si rivela non appena si consideri che per un verso sembrava che la conciliazione, la concordia, la ritrovata unità e identità dovessero realizzarsi in un luogo ideale, irraggiungibile dalle ideologie, dal fascismo, dunque, e dall'antifascismo, mentre per un altro era la Repubblica sociale a rappresentare, nel segno dell'italianità, quel luogo ideale.  Ancora una volta le diverse componenti della sua anima, quelle che, nel loro contrasto, conferiscono alla sua personalità un'inconfondibile dimensione tragica, urtarono violentemente l'una contro l'altra. E la fedeltà mantenuta usque ad mortem al fascismo si accompagnò alla protesta che egli più volte elevò contro le atrocità alle quali intanto si dava luogo, da parte dei fascisti, con torture, uccisioni, gravi violenze.  La sua morte, avvenuta per mano di un commando partigiano comunista, che lo attese nei pressi della Villa Montalto al Salviatino, sulle colline di Firenze dalla parte di Fiesole, nella tarda mattina del 15 apr. 1944, al suo ritorno a casa dopo la mattina trascorsa al lavoro a palazzo Serristori, fu perciò anch'essa una morte violenta. E suscitò molta emozione, anche fra coloro che lo avevano combattuto e mai avevano perdonato a lui, filosofo dell'atto e della sua assoluta libertà, la scelta fascista, cui era rimasto fedele.  Due domande, semplici, ovvie e altrettanto inevitabili, si pongono, e sono state poste, a proposito della sua ultima scelta politica e sulle ragioni che determinarono la decisione di ucciderlo. E la risposta non è, per quanto concerne la seconda, altrettanto semplice di quella che può e deve darsi alla prima. Alla Repubblica sociale il G. aderì per le ragioni da lui stesso addotte; perché si trattava non di scegliere di nuovo, ma di ribadire, nel momento del supremo pericolo, la scelta fatta vent'anni innanzi. E non c'era calcolo politico che bastasse a mettere in crisi questa decisione, perché l'intero universo si concentra e vive nell'atto puro, e quel che resta fuori non è se non calcolo, astuzia: ossia, a rigore, niente. Alla seconda domanda rispondere si potrà in modo adeguato quando nuovi documenti interverranno a far luce nelle molte zone oscure che tuttora impediscono di vedere tutta la verità; che emergerà quando e se emergerà: e allora si vedrà fino a che punto nella decisione di uccidere il G. che aveva rinnovato il suo legame con il fascismo e con Mussolini siano entrate anche valutazioni politiche non direttamente note a quanti, sulla collina fiorentina, spezzarono il filo della sua vita. Qui basterà ricordare che nella chiesa di S. Croce, in Firenze, il nome del G. indica, sul pavimento, il luogo della sua sepoltura.  Opere. Le opere complete del G., raccolte via via durante la vita dell'autore, prima da Laterza (Bari), poi da Treves-Tumminelli (Milano e Roma), quindi da Sansoni (Firenze), furono riprogettate e stampate dopo la morte del G. e la fine della guerra mondiale da questo medesimo editore, al quale subentrò negli ultimi anni, ma senza alcuna mutazione di veste tipografica e di caratteri, l'editrice Le Lettere, sempre di Firenze. L'edizione definitiva rispetta fondamentalmente le partizioni già previste dal G., e cioè: I, Opere sistematiche; II, Opere storiche; III, Opere varie alle quali due si aggiungono, una IV, Frammenti, e una V, Epistolari. A queste cinque partizioni si è unita di recente, una VI di Scritti inediti e vari, nella quale sono apparsi fin qui Eraclito. Vita e frammenti (con il facsimile del manoscritto della traduzione di H. Diels), a cura di H.A. Cavallera, premessa di F. Adorno, Firenze 1996, e La filosofia della storia. Saggi e inediti, a cura di A. Schinaia, premessa di E. Garin, ibid. 1996. A parte questi due ultimi, i volumi fin qui pubblicati delle Opere complete sono quarantanove, perché ancora in preparazione risulta il XXIX, dedicato a B. Spaventa; e aumenteranno, negli anni a venire, nella sezione comprendente i Carteggi, alcuni dei quali sono già in lavorazione, come quello con G. Calogero, a cura di C. Farnetti, e l'altro con G. Chiavacci, a cura di M. Simoncelli.   Qui converrà ricordare in quanto inserite nel testo della voce le principali opere del G.: Rosmini e Gioberti, Pisa 1898; La filosofia di Marx, ibid. 1899; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Bari 1909; I problemi della scolastica e il pensiero italiano, ibid. 1913; La riforma della dialettica hegeliana, Messina 1913; Sommario di pedagogia come scienza filosofica, I, Pedagogia generale, Bari 1913; II, Didattica, ibid. 1914; Teoria generale dello spirito come atto puro, Pisa 1916; I fondamenti della filosofia del diritto, ibid. 1916; Sistema di logica come teoria del conoscere, I, La logica dell'astratto, ibid. 1917; II, La logica del concreto, Bari 1923; Le origini della filosofia contemporanea in Italia, I-IV, Messina 1917-23; Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze 1922; La filosofia dell'arte, Milano 1931; Introduzione alla filosofia, ibid. 1933; Genesi e struttura della società, Firenze 1944.   Fra i carteggi, quello con Croce, comprendente le sole lettere del G., è raccolto in Lettere a B. Croce, I-V, a cura di S. Giannantoni, Firenze 1972-90 (il testo di riferimento è B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, con introd. di G. Sasso, Milano 1980). Ma sono anche usciti: G. Gentile - D. Jaja, Carteggio, a cura di M. Sandirocco, I-II, Firenze 1969; G. Gentile - A. Omodeo, Carteggio, a cura di S. Giannantoni, ibid. 1974; G. Gentile - S. Maturi, Carteggio, a cura di A. Schinaia, ibid. 1987; G. Gentile - F. Pintor, Carteggio, a cura di E. Campochiaro, ibid. 1993.  Fonti e Bibl.: Tre sono le biografie fin qui dedicate al G.: M. Di Lalla, Vita di G. G., Firenze 1975; S. Romano, G. G.: la filosofia al potere, Milano 1984; G. Turi, G. G.: una biografia, Firenze 1995. Si aggiungano i ricordi e le testimonianze di B. Gentile: G. G.: dal Discorso agli Italiani alla morte (24 giugno 1943 - 15 aprile 1944), Firenze 1954; Ricordi e affetti, Firenze 1988. Sulla uccisione del G., v. L. Canfora, La sentenza. C. Marchesi e G. G., Palermo 1985, dove si troverà l'indicazione della precedente bibliografia relativa a questa pagina non ancora definitivamente scritta. Cfr. anche G. Sasso, La fedeltà e l'esperimento, Bologna 1993, pp. 73-117. La bibliografia sul G. è assai ampia: per gli scritti del G. ci si deve ancora servire della Bibliografia degli scritti di G. G., a cura di V.A. Bellezza, in G. G.: la vita e il pensiero, III, Firenze 1950, e anche di Il pensiero di G. Gentile. Atti del Convegno 1976-1977, Roma 1977, II, pp. 903-1011. Per gli scritti dal 1980 al 1993, si veda: S. Bonechi, B. Croce - G. G.: bibliografia 1980-1993, in Giornale critico della filosofia italiana, LXXV (1994), pp. 632-660. In questo ambito per un primo orientamento si può innanzi tutto cercar di distinguere fra quanto di e sul G. è stato scritto dai principali discepoli delle sue due scuole, la palermitana e la romana, e cioè da V. Fazio-Allmayer, da A. Omodeo, F. Albeggiani, il giovane G. De Ruggiero, e quindi U. Spirito, A. e L. Volpicelli, G. Calogero, G. Chiavacci, lo stesso A. Carlini, ecc. in ciascuna delle loro opere, e quanto invece al pensatore siciliano è stato dedicato con esplicita intenzione storiografica. Non sempre agevole da rispettare, la distinzione può tuttavia essere di qualche utilità; e qui si indicheranno gli scritti appartenenti alla seconda classe (mentre per la storia "filosofica" dell'attualismo, può vedersi A. Negri, G. G., I-II, Firenze 1975; cfr. anche A. Lo Schiavo, Introduzione a G., Bari 1974). Sono, innanzi tutto, da tener presenti gli studi raccolti nei quattordici volumi della serie G. G.: la vita e il pensiero, Firenze 1948-72. Si veda quindi: G. De Ruggiero, La filosofia contemporanea, Bari 1912; U. Spirito, Il nuovo idealismo italiano, Roma 1923; Id., L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze 1930; V. La Via, L'idealismo attuale di G. G., Trani 1925; F. De Sarlo, G. e Croce. Lettere filosofiche di un superato, Firenze 1925; G. Calogero, Il neohegelismo nel pensiero contemporaneo, in Nuova Antologia, 16 ag. 1930, pp. 3-20; R.W. Holmes, The idealism of G. G., New York 1937; P. Carabellese, L'idealismo italiano, Roma 1938; A. Guzzo, Sguardi sulla filosofia contemporanea, Roma 1940; M. Ciardo, Un fallito tentativo di riforma dello hegelismo: l'idealismo attuale, Bari 1949; E. Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari 1955; H.S. Harris, The special philosophy of G. G., Urbana, IL, 1960; A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia, Padova 1964; U. Spirito, G. G., Firenze 1969; A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Milano 1978; V.A. Bellezza, La problematica gentiliana della storia, Roma 1983; A. Del Noce, G. G.: per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna 1990; A. Negri, L'inquietudine del divenire. G. G., Firenze 1992; G. Sasso, Filosofia e idealismo, II, G. G., Napoli 1995.Armando Girotti. Girotti. Keywords: la curva, la curva della bellezza, la linea, la linea della bellezza, storia storica, non filosofica – unita longitudinale – longamiranza, distillizione filosofica – Gentile, il Gentile di Girotti. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Girotti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gitio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Locri). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.

 

Grice e Giudice – l’implicatura di Bruno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: Grice: “Giudice amply proves my trust in the worth of the longitudinal unity of philosophy, for Giudice has unearthed some philosophical minutiae in Bruno – like his tract to Sir Philip Sidney on ‘Atteone,’ which are jewels of implicature!” -- “For Italian philosophy, Bruno is interesting: it’s not all saints like Aquinas; they had hereetics, too – and usually the heretics had a better philosophical background – into what the Italians called the lovely ‘hermetic tradition’ – we used to have one at Oxford in pre-lib days!” -- Grice: “If I am a Griceian, Giudice is a Brunoian – the Italians prefer ‘brunista’ or ‘bruniano,’ but I follow Katz is respecting the full surname – if it is ‘bruno,’ you add things, you don’t substract things!” Essential Italian philosopherwho has studied in depth the origin of philosophy in the Eleatic school. Guido del Giudice (Napoli), filosofo. Si laurea a Napoli e studia Bruno e la filosofia del rinascimento. Fonda la Societa Giordano Bruno. Altre opera: “Bruno” (Marotta e Cafiero Editori, Napoli); “La coincidenza degli opposti” (Di Renzo Editore, Roma); “Bruno, Rabelais e Apollonio di Tiana, Di Renzo Editore, Roma); “Due Orazioni. Oratio Valedictoria e Oratio Consolatoria, Di Renzo Editore, Roma, “La disputa di Cambrai. Camoeracensis acrotismus, Di Renzo Editore, Roma); “Il Dio dei Geometri” quattro dialoghi, Di Renzo Editore, Roma); “Somma dei termini metafisici”; “Tra alchimisti e Rosacroce, Di Renzo Editore,Roma, “Io dirò la verità. Intervista a Giordano Bruno, Di Renzo Editore, Roma, “Contro i matematici, Di Renzo Editore, Roma, “Il profeta dell'universo finite” – “Epistole latine, Fondazione Mario Luzi,. Scintille d'infinito” (Di Renzo Editore).  BRUNO, Giordano (Philippus Brunus Nolanus; Iordanus Brunus Nolanus, il Nolano). - Nacque a Nola, nel Regno di Napoli, nel gennaio o febbraio 1548, figlio di Giovanni Bruno, uomo d'arme, e di Fraulisa Savolino: fu battezzato con il nome Filippo. Della città natale, dove trascorse l'infanzia e iniziò i primi studi, conservò poi sempre un ricordo nostalgico. Nel 1562 si recò a Napoli per studiare lettere, logica e dialettica: in quello Studio ebbe come maestri il Sarnese (Giovan Vincenzo Colle), filosofo di tendenze averroiste, e fra' Teofilo da Vairano, agostiniano, da lui ricordato in seguito con sincera ammirazione. La lettura di uno scritto di Pietro Ravennate suscitò fin da allora in lui l'interesse per la mnemotecnica.  Il 15 luglio 1565, a diciassette anni compiuti e con una incipiente formazione laica, entrò come chierico nel convento napoletano di S. Domenico Maggiore, dove assunse il nome Giordano (forse in onore del domenicano fra' Giordano Crispo, maestro allo Studio) e quel nome ritenne poi sempre, salvo che per una breve parentesi. Mal compatibile, per carattere e prima formazione, con la regola conventuale, tra il 1566 e il 1567 incorse nelle prime infrazioni per aver spregiato il culto di Maria, nonché quello dei santi (una denuncia contro di lui venne allora stracciata dal maestro dei novizi).  Con cautela va accolta la notizia da lui in seguito fornita (Doc. parigini, V) di un invito a Roma per mostrare la propria abilità mnemonica a Pio V (viaggio che lo Spampanato pone tra il 1568 e il 1569):va però notato che allo stesso pontefice il B. dichiarò di aver dedicato L'arca di Noè,operetta smarrita di argomento morale (Dialoghi italiani, p. 842).  Ordinato suddiacono (principio del 1570) e poi diacono (principio del 1571), venne consacrato sacerdote dopo aver compiuto i ventiquattro anni, e celebrò la prima messa nella chiesa del convento domenicano di S. Bartolomeo a Campagna, presso Salerno. Nella seconda metà del 1572, dopo aver soggiornato in altri conventi del Napoletano, fece ritorno allo Studio di S. Domenico Maggiore in Napoli come studente formale di teologia: il curriculum quadriennale comprendeva un corso speculativo (prima e terza parte della Summa tomista) e un corso morale (seconda parte della Summa,alternabile con il quarto libro delle Sentenze di Pietro Lombardo esposte da fra' Giovanni Capreolo). È da ritenere che il B. abbia superato gli esami annuali, e nel luglio 1575 quelli di licenza, per cui sostenne le tesi "Verum est quicquid dicit D. Thomas in Summa contra Gentiles" e "Verum est quicquid dicit Magister Sententiarum" (Doc.parigini, II).  Tali studi, se da una parte suscitarono in lui una non mai smentita ammirazione per l'opera di s. Tommaso, d'altra parte dovettero ingenerargli quel fastidio per "les subtilitez des scholastiques, des Sacrements et mesmement de l'Eucharistie" (Doc. parigini,II), con il conseguente disinteresse per la problematica teologica manifestato in seguito nelle proprie opere come pure, più tardi, in sede processuale. Fin dagli anni conventuali mostrò per contro interesse per opere estranee al curriculum, nonché decisamente vietate, quali i "libri delle opere di S. Grisostomo e di S. Ieronimo con li scolii di Erasmo" (Doc. veneti, XIII).Ciò che, unitamente all'espressione dei propri dubbi circa il dogma della Trinità durante una discussione sulla eresia ariana, portò all'istruzione di un processo a suo carico da parte del padre provinciale (con l'occasione venne ricostruito anche il precedente atto d'accusa già distrutto): in una scrittura smarrita inviata a Roma egli doveva figurare come sospetto di eresia.  Mentre il processo veniva iniziato, il B. non esitò ad abbandonare il convento e la città, probabilmente nel febbraio 1576, e nello stesso mese dové giungere a Roma, dove prese alloggio nel convento di S. Maria sopra Minerva, confidando forse che il proprio caso passasse ignorato tra i disordini che turbavano la città. Egli stesso venne però coinvolto in tali disordini e imputato di "aver gettato in Tevere chi l'accusò, o chi credette lui che l'avesse accusato a l'inquisizione" (Doc. veneti, I): imputazione infondata (come è mostrato dal mancato riferimento ad essa nelle successive vicende processuali), con tutto che un secondo processo contro di lui venne istruito nel 1576 dall'Ordine dei predicatori. Dopo i primi mesi di quell'anno, saputo che i propri libri erasmiani erano stati rintracciati a Napoli, il B., deposto l'abito, abbandonò Roma, raggiunse Genova (circa 15 aprile) e si trattenne a Noli fino al principio del 1577 "insegnando la grammatica a figliuoli e leggendo la Sfera a certi gentilomini" (Doc. veneti, IX). Da Noli passò a Savona e quindi a Torino; di lì, non avendovi trovato "trattenimento a sua satisfazione", si recò a Venezia, dove si trattenne non più di due mesi, facendovi stampare, allo scopo di guadagnare qualcosa, "un certo libretto intitolato De' segni de' tempi", da lui fatto esaminare dal domenicano Remigio Nannini: opera pur questa smarrita. A Padova fu persuaso da alcuni domenicani a indossare l'abito pur quando non avesse voluto rientrare nell'Ordine: ciò che il B. fece dopo essersi recato, per Brescia, a Bergamo. Toccata Milano, nel 1578 lasciò l'Italia attraverso la Savoia, diretto a Lione: giunto a Chambéry e avvertito dai domenicani locali dell'ostilità che avrebbe incontrato nella regione, si trasferì a Ginevra, dove fin dal 1552 una comunità evangelica italiana era stata fondata dal marchese Gian Galeazzo Caracciolo di Vico.  A Ginevra, dimesso nuovamente l'abito, il B. si guadagnò da vivere come correttore di bozze tipografiche. Risulta tuttavia che egli aderì formalmente al calvinismo, come provato non tanto dalla immatricolazione universitaria autografa del 20 maggio 1579, quanto da un processo per diffamazione ai danni del titolare di filosofia Antoine de la Faye, istruito contro di lui dal concistoro nell'agosto 1579: il giorno 13 il B. venne riconosciuto colpevole e virtualmente scomunicato. Dopo un debole tentativo di difesa, egli si riconobbe colpevole, pregò di essere riammesso alla cena, e il giorno 27 venne prosciolto dalla scomunica. Tale episodio (che avrebbe lasciato tracce durevoli nelle sue opere mediante la propria polemica anticalvinista) determinò la sua partenza da Ginevra.  Recatosi questa volta a Lione, non avendovi trovato modo di sostentarsi, vi si trattenne solo un mese (forse tra il settembre e l'ottobre 1579) e si recò quindi a Tolosa, che era proprio in quel tempo uno dei baluardi della ortodossia cattolica: ciò che dimostra la portata della sua reazione anticalvinista, confermata anche dal tentativo che allora fece di ottenere l'assoluzione da un padre gesuita. La mancata assoluzione, "per esser apostata" (Doc. veneti, XII), non gli impedì di essere invitato "a legger a diversi scolari la Sfera, la qual lesse con altre lezioni de filosofia forse sei mesi" (Doc. veneti, IX), nonché di conseguire il titolo di magister artium: ed ottenere per concorso il posto allora vacante di lettore ordinario di filosofia: onde lesse, "doi anni continui, il testo de Aristotele De anima ed altre lezioni de filosofia". Da accenni fatti più tardi dallo stesso B., è dato inferire che il suo insegnamento incluse lezioni di fisica, matematica e lulliane. Risale a quest'epoca la composizione della Clavis magna, trattato mnemotecnico-lulliano rimasto inedito e smarrito.  Nell'estate del 1581 si delineò una ripresa della lotta tra cattolici e ugonotti, e il B. dové lasciare Tolosa "a causa delle guerre civili" (Doc. veneti, IX). Trasferitosi a Parigi, vi intraprese "una lezion straordinaria", cioè un corso di trenta lezioni su altrettanti "attributi divini, tolti da S. Tommaso dalla prima parte", che alcuni vogliono costituisse l'operetta inedita e smarrita "di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali" (Doc. veneti, I). A Parigi non poté accettare un lettorato ordinario per l'obbligo - che, come apostata, non volle assumersi - di frequentare la messa; tuttavia conseguì tale rinomanza mediante il lettorato straordinario, che, come ebbe a dichiarare egli stesso, "il re Enrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria che avevo e che professava, era naturale o pur per arte magica; al qual diedi sodisfazione; e con quello che li dissi e feci provare a lui medesimo, conobbe che non era per arte magica ma per scienza" (Doc. veneti, IX): episodio che ben si comprende tenendo conto del fatto che la corte francese era frequentata da intellettuali come J. D. du Perron e Pontus de Tyard di cui sono noti gli interessi per il sapere enciclopedico e l'arte della memoria come strumenti per un piano di riforma culturale. Tuttavia i rapporti del B. con la corte - che sarebbero durati, direttamente o indirettamente, per circa un quinquennio - si spiegano altresì sul piano ideologico-politico, ove si tenga conto dell'analogia tra l'equidistanza bruniana dal rigorismo cattolico e da quello protestante, e la posizione mediana dei politiques, che controllavano la corte, tra l'estremismo cattolico dei ligueurs e quello protestante degli ugonotti.  Durante questo primo soggiorno parigino apparvero a stampa le prime operette bruniane a noi pervenute: il Deumbris idearumcon raggiunta dell'Arsmemoriae, opera mnemotecnica e lulliana stampata da E. Gourbin nel 1582, dal B. dedicata ad Enrico III, il quale "con questa occasione lo fece lettor straordinario e provisionato" (Doc. veneti, IX: egli venne cioè a far parte del gruppo dei lecteurs royaux, tendenzialmente contrari al conformismo aristotelico della Sorbonne); seguì, nello stesso anno, il Cantus circaeus, operetta mnemotecnica stampata da E. Gilles e dedicata, per conto del B., da J. Regnault a Henri d'Angoulême, fratello naturale del re, essendo il B. stesso "gravioribus negociis intentus" (Opera, II, 1, p. 182); quindi il De compendiosa architectura et complemento Artis Lullii (Gourbin, 1582) dedicata dal B. all'ambasciatore veneto Giovanni Moro.  La prima parte del De umbris rielabora materiale lulliano e mnemotecnico ai fini di una ricerca gnoseologica che presuppone, platonicamente, una corrispondenza tra mondo fisico e mondo ideale; la seconda e terza parte costituiscono un manuale mnemotecnico per cui il B. attinge in particolare al ravennate (l'impostazione didascalica è ripresa nell'Ars memoriae, in cui elementi della tradizione astrologico-ermetica si inseriscono nella elaborazione lulliana e mnemotecnica, fermo restando l'intento gnoseologico). Il Cantus circaeus, in due dialoghi, presenta un'applicazione concreta dell'ars esposta nel De umbris, non senza un'intenzione satirica che sarà poi sviluppata nello Spaccio. Il De compendiosa architecturarielabora gli elementi tecnici del lullismo allo scopo di offrire uno strumento gnoseologico per cui l'ordine universale risulta riflesso nello schema simbolico.  Nell'agosto del 1582 il B. terminava la composizione dell'unica sua commedia, il Candelaio, stampata prima della fine dell'anno (anteriormente forse al De compendiosaarchitectura) da Guillaume Julien figlio. Sul frontespizio l'autore si definiva "Academico di nulla Academia, detto il Fastidito, in tristitia hilaris, in hilaritate tristis.  Il Candelaio, scritto in un volgare popolaresco ricco di napoletanismi plebei, ma non senza echi della tradizione burlesca rinascimentale (Aretino, Berni, ecc.) accanto a moduli parodici della retorica classica, riflette sul piano morale il momento di rottura con l'Ordine, né è da escludere che la composizione ne fosse stata iniziata prima dell'allontanamento dall'Italia. Dedicata Alla signora Morgana B., personaggio napoletano di non sicura identificazione, la commedia, di ambientazione appunto napoletana - la cui azione si svolge nel 1576, "vicino al seggio di Nilo" - investe satiricamente "tre materie principali" e "l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo e la pedanteria di Manfurio", in una sorta di applicazione alla vita morale del principio bruniano della corrispondenza e identificazione dei distinti nell'uno. Fin dalle pagine preliminari si notano del resto motivi che, riallacciandosi alla base teoretica dell'elaborazione lulliana e mnemotecnica delle operette latine, anticipano alcuni presupposti dei più tardi dialoghi filosofici ("Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi...").  Dalla dedica del Candelaio si sono desunti due titoli di presunte opere smarrite del B. (Gli pensier gai e Il troncod'acqua viva), mentre nell'atto I, scena II, si trova citata un'ottava ("Don'a' rapidi fiumi in su ritorno") di un "poema" inedito e smarrito, cui appartiene forse anche l'ottava "Convien ch'il sol, donde parte, raggiri" citata tre anni dopo negli Eroici furori.  Il 28 marzo 1583 l'ambasciatore inglese a Parigi, H. Cobham, inviava un preoccupato messaggio al primo segretario del Regno d'Inghilterra, F. Walsingham, informandolo dell'intenzione del B. di passare in Inghilterra: la preoccupazione concerneva l'ambigua posizione bruniana in fatto di religione. L'arrivo del B. in Inghilterra, con lettere di raccomandazione di Enrico III per il proprio ambasciatore presso Elisabetta - il tollerante Michel de Castelnau (cui era affidato il compito delicato di sostenere la causa di Maria di Scozia presso la regina) -, è da porre nell'aprile. Da una parte il B. poté essere indotto a lasciare Parigi "per li tumulti che nacquero" (Doc. veneti, IX) - o più esattamente per il delinearsi di quella reazione cattolica che due anni più tardi avrebbe indotto il re a revocare gli editti di pacificazione con i protestanti -; d'altra parte non è da escludere che il suo viaggio in Inghilterra potesse rientrare in un piano dei moderati francesi inteso a mobilitare la corrente politique inglese ai fini di una distensione politico-religiosa in Europa. Ma non è certo da trascurare la personale urgenza bruniana per una sua affermazione sul piano accademico-speculativo dopo i tentativi compiuti a Tolosa e a Parigi.  Al suo arrivo in Inghilterra il B. prese dimora nella casa del Castelnau, a Butcher Row, dove "non faceva altro, se non che stava per suo gentilomo" (Doc.veneti, IX). Tra il 10 e il 13 giugno 1583 fece una prima visita a Oxford, al seguito del conte palatino polacco Alberto Laski: in tale occasione, pur non facendo parte degli oratori designati, sostenne un pubblico dibattito con i dottori oxoniensi, in particolare con il teologo John Underhill, richiamandosi alla logica aristotelica in polemica con le posizioni ramiste. Rientrato a Londra, è da ritenere che indirizzasse allora la sua pomposa lettera Ad excellentissimum Oxoniensis Academiae Procancellarium,clarissimos doctores atque celeberrimos magistros (allegata ad alcuni esemplari della Explicatio triginta sigillorum), con la quale faceva istanza per l'ottenimento di una lettura a Oxford. Sebbene dai registri universitari non risulti che il B. abbia tenuto un corso formale in quella sede, la sua stessa testimonianza di avervi tenuto "pubbliche letture, e quelle de immortalitate animae, e quelle de quintuplici sphaera" (Dialoghi italiani, p. 134: vedi Doc. parigini, I, e Opera, II, 2, p. 232), risulta confermata dalla pur ostile testimonianza di George Abbot (cfr. McNulty), il futuro arcivescovo di Canterbury, allora membro del Balliol College, da cui si apprende che, dopo la prima visita a Oxford, il B. vi tornò nel corso della stessa estate e vi iniziò un corso in latino sostenendo, tra l'altro, la teoria copernicana del movimento della Terra e della immobilità dei cieli: anticipando quindi pubblicamente quanto da lui elaborato nei dialoghi londinesi stampati l'anno seguente. Così il B. come l'Abbot concordano nell'affermare che tale corso venne interrotto per pressioni esterne (stando all'Abbot, il medico Martin Culpepper, guardiano di New College, e Tobie Matthew, decano di Christ Church, avrebbero rilevato un plagio bruniano nei confronti del ficiniano De vita coelitus comparanda: ciò che può essere inteso con riferimento ai prestiti ficiniani nella terminologia bruniana). Interrotto il corso dopo la terza lezione, rientrò a Londra, presso il Castelnau, ribadendo il proprio atteggiamento antiaccademico, in direzione quindi antiaristotelica e insieme antiumanistica.  A Londra il B. condusse la propria polemica culturale e speculativa sia in discussioni nell'ambito dei circoli paraccademici di corte, sia mediante la divulgazione a stampa delle proprie teorie già respinte dal pubblico universitario inglese. La prima opera pubblicata a Londra, nel 1583, è un volumetto contenente l'Ars reminiscendi, l'Explicatio triginta sigillorum (preceduta in alcuni esemplari dalla già citata lettera agli Oxoniensi) e il Sigillus sigillorum. Solo per l'Explicatio e per la lettera è possibile precisare l'officina tipografica, che è quella di John Charlewood, dalla quale sarebbero uscite tutte le rimanenti opere londinesi.  L'Ars reminiscendi è, con lievi varianti, una riproduzione dell'ultima parte del Cantus circaeus. Gli scritti che seguono portano la dedica all'ambasciatore francese, con parole di riconoscenza per la familiare ospitalità. L'elencazione dei "triginta sigilli" mostra che questi rappresentano la sintesi formale dei segni ovvero ombre delle cose e delle idee. Dalla Triginta sigillorum explicatio appare manifesto il presupposto gnoseologico del complesso simbolismo mnemotecnico bruniano. Nel Sigillus sigillorum si manifesta la fede del B. nell'unità del processo conoscitivo, cui corrisponde, sul piano ontologico, la fondamentale unità dell'universo. Alla innegabile utilizzazione di elementi propri alla tradizione platonico-alchimistica, fa qui riscontro l'assenza di preoccupazioni e tendenze d'ordine mistico-religioso: il carattere "speculativo" del Sigillusfa di quest'opera il legittimo antecedente della serie dialogica italiana.  Il 14 febbraio del 1584, mercoledì delle Ceneri, il B. venne invitato a illustrare la propria teoria sul moto della Terra nella "onorata stanza" di sir Fulke Greville, a Whitehall, in compagnia di Giovanni Florio e del medico gallese Matthew Gwinne, essendo presenti due dottori oxoniensi sostenitori del sistema geocentrico e un cavaliere di nome Brown (in sede processuale tale riunione venne dichiarata come avvenuta invece in casa del Castelnau). La conversazione degenerò presto in un diverbio causato dalla intolleranza dei due dottori oxoniensi: sdegnato, il B. si licenziò dall'ospite e di lì a qualche giorno iniziò la stesura della Cena de le Ceneri (stampata nello stesso anno).  Tramite il resoconto della sfortunata discussione, il B. enuncia in questi dialoghi la propria cosmografia: movendo dall'eliocentrismo copernicano, egli approda intuitivamente a una concezione originale dell'universo che per molti rispetti sembra anticipare i postulati della scienza moderna. Già prima dell'arrivo del B. in Inghilterra, la corrente scientifica distaccatasi dalle università e sostenuta dalla corte elisabettiana (Robert Recorde, John Dee, John Field, Thomas Digges) aveva mostrato un certo interesse per le teorie copernicane: è in questa corrente appunto che si inserisce ormai l'attività inglese del B., sia per le istanze "scientifiche" (elaborazione di una moderna teoria astronomica), sia per quelle letterarie (ripudio del latino e adozione del volgare per trattazioni scientifico-speculative) e perfino politiche (adesione alla moderata fazione puritana capeggiata da Robert Dudley, conte di Leicester, nei contrasti tra questo e il tesoriere elisabettiano William Cecil: ciò che ci è rivelato dal confronto tra la prima e la seconda redazione del dialogo II della Cena).  Suddivisa in cinque dialoghi, dedicati all'ambasciatore francese, la Cena è in sostanza un'opera cosmografica che, se da una parte contrasta il geocentrismo aristotelico e tolemaico, d'altra parte trascende l'eliocentrismo copernicano con l'affermazione della pluralità dei mondi nell'universo infinito (non senza la suggestione implicita della definizione ermetica di Dio, come sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non si trova in alcun luogo): sul piano teologico ne deriva l'affermazione dell'infinito effetto della causa infinita, nonché l'interpretazione prammatica di quei passi delle Scritture che concordano con la concezione vulgata dell'universo.  L'impostazione polemica dell'opera investe, nel dialogo II, tutti gli strati della contemporanea società inglese mediante una rappresentazione vivacemente realistica. Il B., pur adottando la forma dialogica della tradizione speculativa rinascimentale, la piega alle esigenze della propria polemica, accostandosi non di rado alla maniera parodica della tradizione aretiniana: onde non manca la satira della pedanteria grammaticale oltre che di quella peripatetica.  Gli attacchi contenuti nella Cena alla università di Oxford e alla società inglese suscitarono una forte reazione negli ambienti accademici e cittadini: reazione che coincise con una serie di offese, anche materiali, del pubblico londinese contro gli addetti all'ambasciata francese e contro, la stessa sede diplomatica. Nell'emozione del momento il B. poté ritenersi oggetto diretto di quella reazione anticattolica: è certo tuttavia che la pubblicazione della Cena gli fece perdere molte di quelle simpatie che era riuscito ad accattivarsi a Londra. Di qui l'esigenza di premettere ai già composti quattro dialoghi speculativi De la causa, principio et uno, un dialogo "apologetico" che si risolse però, caratteristicamente, in un ribadimento della propria polemica, salvo un riconoscimento esplicito della validità della tradizione speculativa oxoniense anteriore alla Riforma e la lode di alcuni personaggi conosciuti a Oxford (in particolare Martin Culpepper e Tobie Matthew). La pubblicazione dei nuovi dialoghi, dedicati anch'essi al Castelnau, seguì di poco quella della Cena.  Il primo dialogo della Causa si distingue dai rimanenti quattro anche per i diversi interlocutori (tra questi "Elitropio" è G. Florio, mentre "Armesso" sembra identificabile con M. Gwinne); notevole, tra gli interlocutori dei rimanenti dialoghi, lo scozzese Alexander Dicson "Arelio" (nativo di Errol), discepolo londinese del B. e autore di un'opera mnemotecnica, De umbra rationis et iudicii (1584) ispirata al De umbris bruniano: l'opera era stata attaccata da William Perkins, ramista di Cambridge, il quale non mancò di accomunare i nomi del B. e del Dicson nella sua riprovazione del metodo mnemonico classico considerato in opposizione a quello ramista. La presenza di questo interlocutore, insieme con l'attacco frontale a Ramo nel dialogo III, può valere a farci considerare la Causa come opera di letteratura militante nell'ambito della contemporanea polemica ramista (per l'aspetto politico non va dimenticato che l'attività del Dicson era in linea con il programma politique).  I quattro dialoghi più propriamente speculativi della Causa concernono la definizione dei tre termini enunciati nel titolo: "causa" e "principio" sono intesi, rispettivamente, come la "forma" e la "materia" che, indissolubilmente unite, costituiscono l'"uno", cioè il "tutto". Movendo dalla critica dei postulati della tradizione aristotelica, e non senza ricorso alle formulazioni di stampo neoplatonico ed ermetico, il B. giunge in tal modo a fornire una originale base teoretica alla propria cosmologia già in parte enunciata nella Cena e di lì a poco elaborata nei dialoghi De l'infinito.  Il motivo della satira antipedantesca si accentua nella Causa con una aderenza polemica alle posizioni culturali delle due università inglesi.  Il ritmo serrato con cui alla pubblicazione della Cena e della Causa seguì, sempre nel 1584, quella dei dialoghi De l'infinito, universo e mondi e dello Spaccio de la bestia trionfante si spiega tenendo conto del fatto che già nell'estate del 1583 il B. doveva aver elaborato buona parte del materiale confluito poi nei tre dialoghi cosmologici. Anche l'Infinito porta la dedica al Castelnau, mentre lo Spaccio è dedicato a sir Philip Sidney, nipote del Leicester, mostrandoci in tal modo la portata dei contatti letterari, oltre che politici, dal B. avuti in Inghilterra.  Nei cinque dialoghi De l'infinito, in polemica con la fisica aristotelica, il B. rigetta la teoria della divisibilità all'infinito e ribadisce la propria teoria della infinità dell'universo e della pluralità dei mondi. In questa opera risulta enunciato il pensiero bruniano sul rapporto tra filosofia e religione conforme alla teoria averroista esposta dal Pomponazzi. Tra gli interlocutori figura Girolamo Fracastoro, tracce delle cui dottrine sono reperibili nel dialogo III; discutibile rimane l'identificazione di "Albertino" con Alberigo Gentili (dal B. certamente incontrato a Oxford): potrebbe trattarsi invece di personaggio nolano.  La nuova concezione dell'universo esposta nei tre dialoghi cosmologici si riflette sul piano etico con la trilogia dei dialoghi tradizionalmente definiti "morali", a cominciare dallo Spaccio, il cui tono satirico ravviva un'invenzione che risale, letterariamente, ai dialoghi "piacevoli" di Niccolò Franco.  Lo Spaccio espone un piano di riforma morale che implica la critica all'etica cristiana delle Chiese riformate non meno che di quella cattolica, in nome di un attivismo umanistico contrapposto al tradizionale umanesimo misticheggiante e retorico. L'ispirazione acristiana dell'etica bruniana sembra trovare conferma nella critica - metaforicamente condotta - della duplice natura della persona del Cristo. Non è escluso che questa opera sia da identificare con il Purgatorio de l'inferno,titolo fornito dal B. nella Cena.  Le allusioni politiche contenute nello Spaccio sono compatibili con l'orientamento brumano favorevole ai politiques e che risale al suo soggiorno parigino: c'è chi pur oggi continua a ritenere che la "bestia trionfante" spodestata nello Spaccio sia da identificare con l'intransigente Sisto V. Ma, a parte la cronologia, sembrerebbe contrastare all'interpretazione il quadro tracciato nella Cabala del cavallo pegaseo, con l'aggiunta dell'Asino cillenico (pubbl. 1585), in cui l'"asino", identificabile con la "bestia" dello Spaccio, riassume il suo posto nel cielo: né sembra possibile supporre che la Cabala sia posteriore al 21 sett. 1585, data della bolla con cui Sisto V scomunicò il re di Navarra.  Al di là del possibile significato politico-religioso, la Cabala interessa sia per l'accentuata satira morale rispetto allo Spaccio,sia per gli spunti speculativi (quali il problema del rapporto tra le anime individuali e l'anima universale, risolventesi nella negazione dell'assoluta individualità delle anime) che valgono a meglio illuminare questa fase del pensiero bruniano.  L'operetta è scherzosamente dedicata a un personaggio nolano, don Sabatino Savolino, della stessa famiglia materna del B. cui pure appartiene l'interlocutore "Saulino" presente già nello Spaccio. Il B.ebbe a dichiarare in seguito, di aver soppresso questa opera in quanto non piacque al volgo e ai sapienti "propter sinistrum sensum": essa è infatti la più rara tra le superstiti opere a stampa di Bruno.  Il soggiorno inglese del B. non poteva concludersi in maniera più degna che con la pubblicazione dei dialoghi De gli eroici furori (1585), dedicati al Sidney, in cui risultano poeticamente esaltati i principî fondamentali della filosofia bruniana esposti nei tre dialoghi cosmologici, mentre vi si sviluppa e precisa la portata della satira morale contenuta nei due dialoghi etici.  I dieci dialoghi De gli eroici furori hanno come tema il conseguimento della consapevolezza dell'unione con l'Uno infinito da parte dell'anima umana. La terminologia di estrazione ficiniana (risalente a Platone, Plotino, Dionigi l'Areopagita, lamblico, Proclo, ecc.) rischia di far perdere di vista il carattere "naturale e fisico" del discorso bruniano, quale dall'autore stesso enunciato nella dedicatoria. La stessa adozione dei moduli platonici ("ente, vero e buono son presi per medesimo significante circa medesima cosa significata") va in realtà ricondotta a una sfera etica in cui si risolve ogni apparente residuo di trascendenza: infatti "le cause e principii motivi" sono "intrinseci" e la "divina luce è sempre presente"; "ogni contrarietà si riduce a l'amicizia", "le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte".  Notevole nei Furori l'esposizione della poetica bruniana che, movendo dalla critica delle poetiche rinascimentali nella loro interpretazione normativa della poetica aristotelica, approda a una concezione della poesia come letteratura applicata: di qui il ripudio della tradizione lirica petrarchesca, pur nell'adozione prammatica di rime intonate al gusto del tardo petrarchismo (ivi inclusi prestiti dal Tansillo e dalla Cecaria di M. A. Epicuro).  Gli interlocutori sono tutti nolani, ovvero, come il Tansillo, amici della famiglia del Bruno. Notevole, come dato biografico dell'infanzia, la presenza di due figure femminili: Laodamia e Giulia.  Nell'ottobre del 1585 il B. rientrava in Francia al seguito dell'ambasciatore Castelnau: il quale ai primi di novembre si trovava già a Parigi; durante il viaggio la comitiva era stata vittima di una grassazione. Al suo rientro a Parigi il B. veniva a trovare un clima politico mutato (nel luglio Enrico III aveva revocato gli editti di pacificazione e nel settembre era stata pubblicata la bolla contro il re di Navarra): di qui forse il suo tentativo infruttuoso "de ritornar nella religione" (Doc. veneti, XII) tramite il nunzio apostolico Girolamo Ragazzoni. Dedicò al filonavarrese P. Del Bene, abate di Belleville, la Figuratio Aristotelici physici auditus (1586), esposizione mnemonico-mitologica del pensiero aristotelico; entrò in contatto con gli italiani di Parigi, tra i quali Giovanni Botero, stringendo amicizia con Iacopo Corbinelli che lo definì "piacevol compagnietto, epicuro per la vita" (cfr. Yates), e dal 6 dic. 1585 prese a frequentare l'abbazia di St. Victor, dove quel giorno prese a prestito l'edizione di Lucrezio curata da H. van Giffen e confidò al bibliotecario Guillaume Cotin (il cui diario ci conserva le notizie fornitegli dal B.) l'intenzione di pubblicare l'Arbor philosophorum, del quale nulla sappiamo a parte il titolo lulliano.  Due episodi clamorosi neutralizzarono in quel tempo il residuo d'appoggio in cui il B. poteva ancora sperare presso il partito politique. Dopo aver assistito a una pubblica dimostrazione del compasso di riduzione inventato dal geometra salernitano Fabrizio Mordente, uomo senza lettere, il B. acconsentì a divulgare in latino la scoperta - parendogli atta a dimostrare il limite fisico della divisibilità, conforme alla propria incipiente monadologia -: pubblicò infatti, prima del 14 apr. 1586, i Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione (seguiti dall'Insomnium), presso P. Chevillot: opera ambiguamente laudatoria che irritò il Mordente, alla cui polemica verbale il B. rispose con i sarcastici dialoghi Idiota triumphans e De somnii interpretatione,dedicati al Del Bene e fatti stampare prima del 6 giugno insieme con i due precedenti dialoghi mordentiani. Il B. veniva così ad attaccare apertamente un cattolico fautore dei Guisa, reclamando per sé l'ormai vacillante protezione politique. Atale imprudenza si aggiunse una disputa dal B. tenuta il 28 maggio al Collège de Cambrai, in presenza dei lecteurs royaux, sulla base di Centum et viginti articuli de naturaet mundo adversus peripateticos: programma da lui fatto stampare sotto il nome del discepolo J. Hennequin. Secondo il Cotin il B. non avrebbe preso la parola, neppur dopo che allo Hennequin ebbe risposto R. Callier, giovane avvocato politique (il B. venne dunque sconfessato dal suo stesso partito), e, riconosciutosi battuto, avrebbe abbandonato Parigi. Secondo Corbinelli, il B. "s'andò con Dio per paura di qualche affronto, tanto haveva lavato il capo al povero Aristotele", mentre il Mordente decideva di ricorrere al Guisa.  Lasciata Parigi, il B. giunse in Germania nel giugno 1586;toccata Magonza e Wiesbaden, il 25 luglio veniva immatricolato all'università di Marburgo come "theologiae doctor romanensis" (Doc. tedeschi, I). L'insegnamento bruniano si dovette mostrare incompatibile con l'aristotelismo ramista di quella università: gli fu infatti negato il permesso di leggere pubblicamente; a una protesta formale il B. fece seguire le proprie dimissioni. Nella stessa estate passò a Wittenberg, nella cui università venne introdotto da A. Gentili e immatricolato (20 agosto) come "doctor italus" (Doc. tedeschi,II).Per circa due anni poté insegnare indisturbato (lesse, tra l'altro, l'Organon di Aristotele) e fece stampare il De lampade combinatoria lulliana (1587) - commentario dell'Arsmagna - cui premise una lettera alle autorità accademiche mostrandosi riconoscente per la liberale accoglienza. Seguì la pubblicazione del De progressu et lampade venatoria logicorum, sorta di compendio della Topica aristotelica, dedicato a G. Mylins, cancelliere dell'università. Allo stesso anno risale il suo corso privato sulla Rhetorica adAlexandrum (pubbl. post. da H. Alstedt: Artificium perorandi, Francofurti 1612), come il frammento delle Animadversiones circa lampadem lullianam e la Lampas triginta statuarum, amplificazione dell'Arsmagna lulliana (post.: negli Opera: 1890, 1891), con cui si conclude la trilogia delle "lampade". L'anno seguente, per i tipi di Zaccaria Cratone, uscì nella stessa città una seconda edizione dei Centum et viginti articuli (ridotti a ottanta, con le relative rationes), con un discorso apologetico di J. Hennequin: Iordani Bruni Nolani Camoeracensis Acrotismus. Allostesso periodo, sembra, risalgono i commentari aristotelici ai primi cinque libri della Fisica, al De generatione et corruptione e al quarto libro Meteorologicon (pubblicati negli Opera postumi: Libri physicorum Aristotelis explanati, 1891). L'8 marzo 1588 ilB. si accomiatava dall'università con una Oratio valedictoria stampata dal Cratone: va notato che il vecchio duca Augusto era morto prima dell'arrivo del B., e che il successore Cristiano I favorì progressivamente il calvinismo, giungendo a proibire, nel 1588, ogni polemica a questo contraria; di qui la rinnovata precarietà della posizione di Bruno.  Partito da Wittenberg, il B. giunse a Praga nella primavera del 1588e vi si trattenne fino al principio dell'autunno, attrattovi forse dal mecenatismo dell'imperatore Rodolfo II, il cui cattolicesimo moderato poté sembrargli incoraggiante; non sappiamo comunque se fu registrato all'università. A Praga il B. ripubblicò, presso G. Nigrinus, il De lampade combinatoria R. Lullii preceduto dal De lulliano specierum scrutinio: nuovo commentario dell'Arsmagna dedicato all'ambasciatore spagnolo don Guglielmo de Haro; con dedica all'imperatore, presso G. Daczicenus, gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, in cui riprendeva la propria polemica contro l'interpretazione meccanica della natura (già anticipata nei dialoghi mordentiani e poi svolta nel De minimo):notevole, nella dedicatoria, la dichiarazione della religio bruniana, interpretabile come teoria della tolleranza religiosa e speculativa.  Ricevuta in dono dall'imperatore la somma di "trecento talari" (Doc. veneti, IX), al principio d'autunno del 1588 ilB. si recò a Helmstedt, attrattovi dalla "Academia Iulia" (fondata dal duca protestante Giulio di Brunswick), dove fu registrato il 13 genn. 1589, e dove il 1º luglio lesse l'Oratio consolatoria (stampata da Iacobus Lucius) per la morte del duca avvenuta il 3 maggio. Il B. fu remunerato dal nuovo duca, Enrico Giulio, con "ottanta scudi de quelle parti" (Doc. veneti, IX), ma non gli mancarono seri fastidi: fu infatti scomunicato dal sovrintendente della locale Chiesa luterana, Gilbert Voët, per motivi che il B. definì di natura privata in una sua lettera di protesta alle autorità accademiche, ma che avranno avuto giustificazione formale per sospetto filocalvinismo (è comunque significativo che alla originaria scomunica cattolica e a quella calvinista ginevrina si aggiungesse ora la scomunica luterana). Il B. rimase tuttavia nella città fino almeno all'aprile 1590. Durante l'anno e mezzo ivi trascorso lavorò alle opere poi stampate a Francoforte e compose il gruppo di opere "magiche" stampate postume negli Opera (1891), De magia e Theses de magia (concernenti la magia naturale), De magia mathematica (parzialmente tuttora inedita nel "codice di Mosca"), De rerum principiis et elementis et causis;trattati tutti che tendono a dimostrare la possibilità dell'utilizzazione pratica delle forze naturali occulte. Il 10 aprile intervenne a una disputa tenuta dal dottor Heidenreich e il 13 - avendo riscossi a Wolfenbüttel 50 fiorini assegnatigli dal duca - si accomiatò dall'università con l'intenzione di passare per Magdeburgo (dove risiedeva W. Zeileisen, zio del discepolo norimberghese Girolamo Besler, di cui si era servito come copista) allo scopo di farvi stampare qualcosa di suo in onore del duca. La partenza fu ritardata fin oltre il 22: ed è probabile che il B. si recasse direttamente a Francoforte sul Meno (allo scopo di farvi stampare la trilogia poetica latina, sua opera di maggior rilievo dopo i dialoghi londinesi), dove giunse al più tardi nel giugno. Il 2 luglio il Senato della città rigettò una sua richiesta di poter alloggiare presso lo stampatore J. Wechel, il quale tuttavia gli procurò alloggio presso il convento dei carmelitani. Il B. attese soprattutto alla pubblicazione dei tre poemi: i Detriplici minimo et mensura... libri V e il De monade, numero et figura liber unito ai De innumerabilibus, immenso et infigurabili... libri octo, opere dedicate al duca di Brunswick, per le quali il B. curò la stampa e intagliò i legni, salvo che per l'ultimo foglio del De minimo a causa di un repentino allontanamento dalla città (per cui la dedica relativa fu composta dal Wechel). Stampati con la data del 1591, ilDe minimo fu posto in vendita nella primavera; il De monade con il De immenso,nell'autunno.  Nei poemi francofortesi - composti alla maniera di Lucrezio - il B. sviluppa in senso decisamente atomistico la propria concezione della materia già esposta nei dialoghi londinesi. Nel De minimo sicontiene la definizione dell'atomo bruniano: pars ultimadella materia, minimum fisico assoluto, sostrato di tutti i corpi, impenetrabile. La discontinuità degli atomi lascia aperto il problema dello spazio tramezzante (con tutto che il B. riconosce l'esigenza di una materia che "agglutina" gli atomi). Se l'"atomo" è l'elemento materiale insecabile, il "minimo" è l'essere o la figura minima in un dato genere, mentre la "monade" è l'unità di un genere determinato: l'atomo, che è di forma sferica, è anche minimo e monade. Gli atomi sono infiniti essendo infinita la materia. In tale concezione non v'è posto per una forza esteriore che regoli o determini le combinazioni materiali. Nel De monade il B. dà una spiegazione aritmologica delle diverse qualità degli oggetti sensibili, i cui elementi vengono mossi - come già sostenuto nella Causa rispetto alla materia infinita - da un principio intrinseco. Così l'atomismo dei poemi francofortesi si riallaccia all'animismo dei dialoghi londinesi, dei quali il De immenso riprende esplicitamente l'esposizione cosmologica, con una aderenza a tratti letterale (tanto che il Fiorentino fu indotto a riportare al periodo inglese l'inizio della composizione del poema). In quest'ultimo il B. ripercorre il cammino della propria speculazione, rinnovandone la polemica contro la fisica aristotelica e ribadendone il superamento intuitivo dell'eliocentrismo copernicano.  Applicato l'ordine di estradizione del Senato francofortese poco prima del 13 febbr. 1591, il B. riparò a Zurigo, dove tenne lezioni di filosofia scolastica raccolte e pubblicate poi da Raphael Egli (la Summa terminorum metaphysicorum a Zurigo nel 1595; la Summa con la Praxis descensus seu applicatio entis a Marburgo nel 1609). Ritornato per breve tempo a Francoforte, il B. pubblicò presso il Wechel i De imaginum,signorum,et idearum compositione ad omnia inventionum,dispositionum et memoriae genera libri tres (1591), dedicati a J. H. Heinzel, patrizio di Augusta da lui conosciuto a Zurigo. Durante il secondo soggiorno francofortese il B. fu raggiunto da lettere del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, il quale, letto il De minimo, lo invitava a Venezia affinché gli "insegnasse l'arte della memoria ed inventiva" (Doc. veneti VIII).  Il B. giunse a Venezia prima della fine d'agosto del 1591.  I motivi soggettivi dell'imprudente rientro in Italia sono stati variamente definiti: imponderabile è la componente nostalgica, mentre è ormai da escludere il proposito di una azione di riforma religiosa con l'ausilio delle proprie nozioni magiche (con tutto che l'accessione del Borbone al trono di Francia e la presenza del mite Gregorio XIV sul soglio pontificio ravvivavano allora le speranze conciliatrici in Europa); sul piano contingente, più che dell'occasionale invito del Mocenigo, va tenuto conto delle aspirazioni magistrali dal B. non mai dimesse nel corso dei suoi soggiorni francesi, inglese e tedesco.  Infatti, soffermatosi qualche giorno a Venezia "a camera locanda" (Doc. veneti, VII), il B. proseguì per Padova, dove già si trovava al principio di settembre e dove si trattenne, con brevi interruzioni, per almeno tre mesi. Qui impartì lezioni "a certi scolari tedeschi", tra i quali sarà da includere Girolamo Besler, che era allora procuratore degli studenti tedeschi (il Besler gli trascrisse, tra il 1º settembre e il 21 ottobre, la Lampas triginta statuarum composta nel 1587, il De vinculis in genere, abbozzato l'anno precedente, e il non bruniano De sigillis Hermetis, inedito e smarrito). All'insegnamento patavino vanno riferite le Praelectiones geometricae e l'Ars deformationum, lezioni, rinvenute solo nel 1962, in cui il B. illustra geometricamente postulati ed enunciazioni del De minimo. L'attività del B. a Padova induce a ritenere che, con l'appoggio del Besler, egli mirasse alla vacante cattedra di matematica, che fu assegnata l'anno seguente a Galileo.  Rivelatosi infruttuoso l'insegnamento padovano, al principio dell'inverno il B. si trasferì a Venezia, prendendo dimora, almeno dal marzo 1592, in contrada S. Samuele, presso il Mocenigo. Incominciò a frequentare il "ridotto" Morosini, sul Canal Grande, dove, in un clima di "civile e libera creanza", si disputava di cose che avevano "per fine la cognizione della verità" (F. Micanzio, Vita di Paolo Sarpi, Leida 1646). Verso la metà di maggio 1592, nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, confidò al domenicano fra' Domenico da Nocera il proprio desiderio di "quetarsi" e di comporre un libro da offrire al neoeletto Clemente VIII, con lo scopo ultimo di trasferirsi a Roma, ed ivi "accapare forsi alcuna lettura" (Doc. veneti, X): programma illusorio, suggeritogli forse dalla politica papale e dalla contemporanea esperienza di Francesco Patrizi. Il 21 maggio, allo scopo di far stampare a Francoforte alcune sue opere, inedite e smarrite, "delle sette arte liberali e sette altre inventive, e dedicar queste... al Papa" (Doc. veneti, XVII), il B. chiese licenza al Mocenigo. Costui, deluso dall'insegnamento ricevuto, la notte del 22lo fece arrestare dai suoi e il giorn 23 presentò una denuncia per eresia (allegando tre libri a stampa del B. e l'autografo della smarrita operetta "di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali", nonché i nomi di due contesti: i librai G. B. Ciotti e G. Britano) all'inquisitore veneto fra' Gabriele da Saluzzo: la sera stessa il B. veniva prelevato dagli sbirri e condotto alle carceri di S. Domenico di Castello. Si apriva così la fase veneta del processo, che si doveva concludere nove mesi dopo con la sua estradizione a Roma.  Gli episodi principali del processo veneto sono i seguenti: 25 maggio 1592: seconda denuncia del Mocenigo; 29 maggio: terza denuncia (il B. era complessivamente accusato di disprezzare le religioni, di non ammettere la "distinzione in Dio di persone", di avere opinioni blasfeme sul Cristo, di non credere alla transustanziazione, di sostenere che il mondo è eterno e che vi sono mondi infiniti, di credere alla metempsicosi, di attendere all'arte divinatoria e magica, di negare la verginità di Maria, di disprezzare i dottori della Chiesa, di ritenere che i peccati non vengano puniti, di essere già stato processato a Roma, di indulgere al peccato della carne); 26maggio: interrogatorio dei contesti (favorevoli al B.) e primo costituto del B.; 30 maggio: secondo costituto e ulteriore accusa (di aver soggiornato in paesi di eretici vivendo alla loro maniera); 2, 3 e 4 giugno: interrogatorio sui capi d'accusa (a proposito dei propri libri il B. dichiarò: "io ho sempre diffinito filosoficamente e secondo li principii e lume naturale, non avendo riguardo principal a quel che secondo la fede deve essere tenuto...", Doc. veneti, XI); 23 giugno: interrogatorio di Andrea Morosini e seconda deposizione del Ciotti (favorevoli al B.); 30 luglio: ultimo costituto veneto del B. (ammissione di dubbi marginali già dichiarati e sottomissione al tribunale) e trasmissione del processo al card. di Santa Severina, inquisitore supremo in Roma (il quale già prima dell'ultimo costituto interferiva nella causa); 12settembre: richiesta formale di avocazione della causa a Roma; 17 settembre: consenso del tribunale veneto; 28settembre: trasmissione della richiesta romana al Collegio presieduto dal doge; 3 ottobre: parere sfavorevole del Collegio trasmesso al Senato; comunicata a Roma la risposta negativa; 22 dicembre: rinnovata richiesta al Collegio motivata con precedenti; 9 genn. 1593: comunicazione a Roma dell'approvazione del Senato.Il 19 febbr. 1593 il B. usciva dal carcere veneziano e, fatto salpare per Ancona, il giorno 27 faceva ingresso nel carcere del S . Uffizio di Roma da cui, dopo lungo e intermittente processo, sarebbe uscito sette anni più tardi per subire l'orrendo supplizio.  Gli episodi noti e salienti del processo romano sono così riassumibili: estate 1593: nuova grave denuncia da parte di fra' Celestino da Verona, concarcerato a Venezia (imputazione di aver sostenuto che Cristo peccò mortalmente, che l'inferno non esiste, che Caino fu migliore di Abele, che Mosè era un mago e inventò la legge, che i profeti furono uomini astuti e ben meritarono la morte, che i dogmi della Chiesa sono infondati, che il culto dei santi è riprovevole, che il breviario è opera indegna; di aver bestemmiato; di aver intenzioni sovversive ove fosse costretto a rientrare nell'Ordine); interrogagatorio a Venezia dei contesti fra' Giulio da Salò, Francesco Vaia, Matteo de Silvestris (attenuazione delle responsabilità bruniane e nuova accusa: l'avere in spregio le sante reliquie); interrogatorio del conteste Francesco Graziano (ribadimento della credenza bruniana nella pluralità dei mondi e nuova accusa: riprovazione del culto delle immagini). Prima della fine del 1593:otto costituti bruniani (dall'ottavo al quindicesimo dell'intero processo) e conclusione del processo offensivo.  Il B. mantenne la linea difensiva già adottata a Venezia (attenuò la portata dei dubbi circa la Trinità, disponendosi ad accettare il dogma; negò le accuse circa l'inferno, Cristo, i propositi sovversivi, l'ateismo, le manifestazioni blasfeme; precisò il significato di "magia" con riferimento a Mosè, e la propria opinione, ritenuta "filosoficamente" e ipoteticamente, circa la metempsicosi; negò l'opinione attribuitagli circa Caino, e precisò quella relativa alla pluralità dei mondi; negò le pratiche superstiziose, precisando il proprio interesse per l'astrologia). Gennaio-marzo 1594: a Venezia, esami ripetitivi dei testi (Mocenigo, Ciotti, Graziano, De Silvestris): confermate nel complesso le precedenti deposizioni, solo la sospetta integrità dei testi poté far differire la conclusione del processo; giugno: supplemento di denuncia da parte del Mocenigo (accusa di aver irriso il papa nel Cantus circaeus); estate 1594: sedicesimo costituto (il B. si difese sull'ultima accusa, su quella relativa ai Magi, e forse anche sull'altra relativa alla verginità di Maria; sporse denunce contro il Graziano e Francesco Maria Vialardi concarcerato a Roma); 20 dicembre: il B. presentò una difesa scritta, non pervenutaci. Il 16 febbraio 1595si stabilì che una lista dei libri bruniani fosse presentata al papa.  Tra il maggio 1594 e i primi del 1595 il B. fu raggiunto nel carcere da Francesco Pucci, Tommaso Campanella e Cola Antonio Stigliola. Il 18 sett. 1596 la Congregazione stabilì una commissione con lo scopo di censurare le proposizioni eretiche contenute nei libri. Il 24 marzo 1597 il B. fu ammonito di abbandonare la sua teoria della pluralità dei mondi; si stabilì inoltre che egli fosse interrogato stricte (forse con applicazione della tortura): ciò che avvenne con il diciassettesimo costituto, circa la Trinità e l'incarnazione (il B. precisò il carattere speculativo dei dubbi passati), nonché la pluralità dei mondi (che il B. persistette a sostenere). Nel corso del 1597 ebbe luogo, forse oralmente, la risposta del B. alle censure, otto delle quali sono rilevabili dal Sommario del processo: "circa rerum generationem"; circa il principio che a causa infinita debba corrispondere effetto infinito; circa il rapporto tra anima universale e anima individuale; circa il principio che nulla si genera e nulla si corrompe; circa il moto della terra; circa la definizione degli astri come angeli; circa l'attribuzione di un'anima sensitiva e razionale alla terra; circa l'affermazione che l'anima non è forma del corpo umano (due altre censure, rilevabili da una lettera di K. Schopp [Doc. romani, XXX], concernono l'identificazione dello Spirito Santo con l'animamundi, e la credenza nei preadamiti). Il 18 gennaio del 1599, a istanza di Roberto Bellarmino, venivano sottoposte al B., per la sua dichiarazione di abiura, otto proposizioni eretiche (ci è nota la prima, "de haeresi Novatiana", e la settima, estratta dal De la causa, "ubi tractat an anima sit in corpore sicut nauta in navi"). Il 15 febbraio (ventesimo costituto) il B. si dichiarò disposto all'abiura incondizionata; ma il 24agosto tornò a manifestare esitazioni sulla prima e la settima. Il 9 settembre, in mancanza della prova giuridica della colpevolezza, i consultori si dichiararono in favore dell'applicazione della tortura, che tuttavia non fu approvata da Clemente VIII. Il 10 settembre il B. si dichiarò disposto all'abiura (21º costituto), ma il 16, con un memoriale al papa, rimetteva in discussione le proposizioni incriminate. Intanto al S. Uffizio di Vercelli perveniva una terza delazione (dovuta, sembra, a un reduce dall'Inghilterra) con cui il B. era di nuovo accusato di irriverenza verso il papa (lo Spaccio) e di aver lasciato fama di ateo in Inghilterra. Settembre-ottobre 1599: il tribunale ordinò il termine di quaranta giorni per il riconoscimento degli errori. Il 21 dicembre (ventiduesimo costituto) il B. rifiutava la ritrattazione: vano fu l'intervento del generale e del procuratore dei domenicani. Il 20 genn. 1600il papa ordinò che il B. fosse sentenziato come eretico formale, impenitente e pertinace, e consegnato al braccio secolare. Un estremo memoriale del B. al pontefice venne aperto ma non letto dal tribunale.  L'8 febbr. 1600 il B. veniva condotto dal carcere del S. Uffizio al palazzo del cardinale Madruzzi, in piazza Navona, dove la sentenza gli fu letta pubblicamente. Delle trenta o più imputazioni contenute nella sentenza, risultano accertate quelle concernenti la transustanziazione, la verginità di Maria, la vita eretica, lo Spaccio, la pluralità dei mondi, la metempsicosi, l'anima umana, l'eternità del mondo, Mosè, le Sacre Scritture, i preadamiti, Cristo, i profeti e gli apostoli.  Riconosciuto "eretico impenitente pertinace ed ostinato" (Doc. romani, XXVI), il B. era condannato alla degradazione dagli ordini, all'espulsione dal foro ecclesiastico e a essere consegnato alla corte secolare per la debita punizione; i suoi libri dovevano essere bruciati in piazza S. Pietro e le opere tutte incluse nell'Indice. Il B. ascoltò in ginocchio la sentenza; quindi, levatosi in piedi, esclamò rivolto ai giudici: "Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam" (Doc. romani, XXX). Trasferito al carcere di Tor di Nona, e visitato ancora nei giorni seguenti da teologi e confortatori, la mattina del giovedì 17 febbraio fu condotto a Campo di Fiori, dove, "spogliato nudo e legato a un palo, fu bruciato vivo (Doc. romani, XXIX).  La portata speculativa della vicenda bruniana è implicita nella storia del moderno pensiero europeo; per il lato culturale e biografico, pur dopo ricerche secolari, quella vicenda è tuttora al vaglio della filologia contemporanea.  Fonti e Bibl.: Per la biografia bruniana le fonti sono costituite dalle opere e da una serie di documenti coevi. Edizioni complete delle opere: Iordani Bruni Nolani Opera Latine Conscripta: Facsimile - Neudruck der Ausgabe von Fiorentino,Tocco und anderen,Neapel und Florenz,1879-1891. Drei Bände in acht Teilen,Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 (da integrare con le seguenti pubblicazioni: V. P. Zubov, Rukopisnoe nasledie Džordano Bruno,"MoskovskijKodeks" Gosudarstvennoj Biblioteki SSSR im. V. I. Lenina, in Zapiski Otdela rukopisej, Moskva 1950, n. II, pp. 164-182; G. Bruno, Due dialoghi sconosciuti e due dialoghi noti: "Idiota triumphans", "De somnii interpretatione", "Mordentiu", "De Mordentii circino", a cura di G. Aquilecchia, Roma 1957, con Errata-corrige stampate a parte; Id., "Praelectiones geometricae" e "Ars deformationum": Testi inediti, a cura di G. Aquilecchia, Roma 1964); Le opere italiane di G. B., a cura di P. de Lagarde, Gottinga 1888 (ma 1889), edizione paradiplomatica, per le opere italiane in edizione moderna: G. Bruno, Candelaio: commedia, a cura di V. Spampanato, Bari 1923; Id., Dialoghi italiani: "Dialoghi metafisici" e "Dialoghi morali" nuovamente ristampati con note da G. Gentile, a cura di G. Aquilecchia, Firenze 1958; Id., Lacena de le ceneri, a cura di G. Aquilecchia, Torino 1955 (da tenere presente R. Tissoni, Sulla redazione definitiva della "Cena de le ceneri", in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXVI [1959], pp. 558-563). Pregevoli le sillogi antologiche in Opere di G. B. e di Tommaso Campanella, a cura di A. Guzzo e R. Amerio, Milano - Napoli 1956, e in Scritti scelti di G. B. e di T. Campanella, a cura di L. Firpo, Torino 1968.  I documenti coevi in V. Spampanato, Documenti della vita di G. B., Firenze 1933, suddivisi in sei sezioni: I. Documenti napoletani, II. Documenti ginevrini, III.Documenti parigini, IV. Documenti tedeschi, V.Documenti veneti, VI, Documenti romani (da integrare con O. Elton, Modern Studies,London 1907, p. 334; G. Harvey, Marginalia, a cura di G. G. Moore Smith, Stratford-upon-Avon 1913, p. 156; Chr. Sigwart, Kleine Schriften, I, Freiburg i. B. 1899, p. 120; A. Mercati, Ilsommario del processo di G. B., Città del Vaticano 1942; L. Firpo, Ilprocesso di G. B., Napoli 1949; F. A. Yates, G. B.: some new documents, in Revue internationale de philosophie, XVI [1951], 2, pp. 174-199; G. Aquilecchia, Un autografo sconosciuto di G. B., in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXIV [1957], pp. 333-338; Id., Un nuovo documento del processo di G. B., ibid., CXXXVI [1959], pp. 91-96; R. McNulty, B. at Oxford, in Renaissance News, XIII[1960], pp. 300-305; A. Nowicki, Un autografo inedito di G. B. in Polonia, in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche... in Napoli, LXXVII [1967], pp. 262-268; Id., Una poesia "Ad Iordanum: Brunum", in La Ragione, LII [1970], 4, p. 2; J. Korzan, Praski Kra̢g humanistów wokóù Giordana Bruna, in Euhemer, LXXI-LXXII [1969], 1-2, pp. 81-93).  La biografia più estesa, sebbene in parte invecchiata, rimane quella di V. Spampanato, Vita di G. B. con documenti editi e inediti,Messina 1921. Biografie sintetiche recenti sono dovute a E. Garin, B., Roma-Milano 1966, e a G. Aquilecchia, G. B., Roma 1971, da cui dipende la presente "voce".  La bibliografia bruniana è vastissima: fino al 1950 va fatto riferimento a V. Salvestrini, Bibliografia di G. B. (1582-1950), a cura di L. Firpo, Firenze 1958: opera monumentale di inestimabile utilità, aggiornata poi essenzialmente, Quanto ai titoli, fino ai primi mesi del 1970 con l'appendice bibliografica alla citata monografia di G. Aquilecchia. A questi due strumenti si fa qui riferimento, rispettivamente, per opere critiche di tradizionale autorità (F. Tocco, E. Troilo, G. Gentile, E. Namer, E. Garin, A. Corsano, ecc.), e per studi più recenti, che propongono un ridimensionamento della problematica bruniana conforme a diverse metodologie (N. Badaloni, P.-H. Michel, F. A. Yates, A. K. Gorfunkel', A. Nowicki, F. Papi, ecc.).Guido del Giudice. Giudice. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, del Giudice, e la filosofia greco-romana," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Keywords: l’implicatura di Giudice, universe finite, infinito, geometrici, alchimisti, matematici – rinascimento – scintilla d’infinito” --  Refs: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: implicatura e scintilla” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giudice – l’implicatura di Telesio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucera). Filosofo. Grice: “Riccardo del Giudice is a philosopher; he wrote an essay on Telesio.”  Allievo e collaboratore di Gentile, si laurea in filosofia, rivelando i suoi vasti e solidi interessi culturali, che, insieme ad una rara volontà di studio e ad una seria attività politica formarono il suo principale merito. Apprezzato per le doti oratorie e l'accuratezza nella scrittura, fu parlamentare di chiara fama nella  Camera dei Deputati. Di profonda ed esemplare preparazione filosofica. Insegna a Roma. Del Giudice Riccardo Lucera (Foggia) 1900 lug. 16 - Roma 1985 feb. 16  Intestazioni: Del Giudice, Riccardo, filosofo, sindacalista, politico, SIUSA. Iscrittosi al movimento nazionalista mentre frequenta nell'ateneo romano i corsi di Gentile. Si tessera al Partito fascista, del quale apprezza l'interesse per le questioni sindacali. E' appunto nell'organizzazione fascista dei lavoratori, diretta da Rossoni, che muove i primi passi nella politica militante. Nominato responsabile dei sindacati in provincia di Foggia, distinguendosi per la dura opposizione nei confronti dell'apparato del Pnf guidato dal conservatore Giuseppe Caradonna. Espulso dal partito viene nominato da Rossoni Segretario della Federazione sindacale di Torino. Passato nella Federazione di Bari si oppone allo "sbloccamento" dei sindacati. Si occupa di studi sulla legislazione del lavoro e sul corporativismo, partecipando attivamente alle riunioni del Consiglio nazionale delle corporazioni e viene nominato Presidente della Confederazione fascista dei lavoratori del commercio. Dopo una intensa attività nel settore sindacale - celebri le sue polemiche con Spirito sul rapporto tra sindacato e corporazione - è nominato Sottosegretario al Ministero dell'educazione nazionale, allora retto da Giuseppe Bottai. Si occupa soprattutto di sviluppare i rapporti tra la scuola e il mondo del lavoro, seguendo le indicazioni contenute nella Carta della scuola di Bottai. Lasciato il ministero in seguito alla sostituzione del ministro Bottai con Biggini, è nominato Presidente dell'Ente Nazionale per l'Oganizzazione Scientifica del lavoro (Enios). Non aderisce alla Rsi e viene arrestato dagl’alleati e inviato nel campo di concentramento di Padula dove scrive le "Memorie". Epurato dall'insegnamento universitario, vi ritorna come docente prima di Diritto della navigazione, poi di Diritto del lavoro, presso l'ateneo romano.  Complessi archivistici prodotti: Del Giudice Riccardo (fondo)   Bibliografia: G. PARLATO, Il sindacalismo fascista. IDalla "grande crisi" alla caduta del regime, Roma, Bonacci. 1989 G. PARLATO, Riccardo Del Giudice: dal sindacato al governo, Roma, Fondazione Ugo Spirito, G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino.  Wikipedia Ricerca Sindacalismo fascista Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni La neutralità di questa voce o sezione sugli argomenti fascismo e politica è stata messa in dubbio. Con sindacalismo fascista si intende quel settore del sindacalismo improntato sui principi della dottrina fascista del lavoro.  StoriaModifica  Filippo Corridoni con Benito Mussolini durante una manifestazione interventista del 1915 a Milano. I primordiModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sindacalismo rivoluzionario.  Fontana sulla cui lapide marmorea era scolpito il discorso che Benito Mussolini pronunciò il 20 marzo 1919 presso lo stabilimento di Dalmine, in occasione dell'autogestione operaia. Il sindacalismo fascista ha i suoi primordi nel magma del movimentismo sindacale dei primi due decenni del XX secolo: in particolare esso trova i suoi riferimenti culturali prima nella componente rivoluzionaria del sindacalismo socialista, che portò alla dirigenza del partito diversi esponenti e Benito Mussolini alla direzione dell'Avanti!, poi nelle sezioni più agguerrite del sindacalismo interventista, in particolare l'attivissima sezione milanese retta da Filippo Corridoni, nate in seno all'Unione Sindacale Italiana[1]ma da cui saranno espulse già nel 1915, per incompatibilità con i principi antimilitaristi e antistatalisti dell'USI[2]. Numerosi, pur con alcuni bassi, sono gli scioperi, le manifestazioni di piazza, gli scontri ed i comizi cui parteciparono Mussolini ed i dirigenti del fascismo a fianco, o anche in qualità stessa, di sindacalisti rivoluzionari.[3]  «In Italia non sarà possibile nessuna forma di sindacalismo fino a quando il Partito Socialistanon sarà abbattuto.»  (Filippo Corridoni a Curzio Malaparte a Milano poco prima di partire per il Carso, giugno 1915[4]) Un altro forte legame fu, dal 1915-1916 e fino al 1919-1920, quello con la Unione Italiana del Lavoro (UIL)[5], da essi creata e di ispirazione sindacalista rivoluzionaria, diretta inizialmente da Edmondo Rossoni.[6] La nuova formazione sindacale, nel fermento dell'interventismo nei confronti della Grande Guerra, tentò di operare una prima sintesi all'interno dell'immenso magma rivoluzionario italiano, combattuto ormai da anni tra le esigenze sociali e quelle nazionaliste del popolo. In particolare si verificò una congiunzione con le teorie di imperialismo operaiodi Enrico Corradini (Associazione Nazionalista Italiana) e lo sviluppo del produttivismo nazionale, grazie anche al Popolo d'Italia di Benito Mussolini[7], pervenendo all'idea non tanto di negare la lotta di classe per difendere gli interessi di categoria, quanto di ricomporli tutti all'interno del comune interesse superiore nazionale. Al suo interno la UIL portava però già i sintomi di quella che fu una battaglia destinata a concludersi più tardi, durante il sindacalismo fascista vero e proprio: quella tra la visione di un sindacalismo legato all'azione politica, appoggiata principalmente da Edmondo Rossoni, e quella "indipendentista" di Alceste De Ambris.[6][8]  Primo sfogo di queste evoluzioni avvenne il 16 marzo 1919 al Dalmine, dove si verificò la prima occupazionecon autogestione operaia della storia italiana, organizzata dai sindacalisti rivoluzionari. Il fatto eclatante che destò scalpore fu però soprattutto la continuazione della produzione, d'accordo con l'ottica produttivista che aveva acquisito il movimento: gli operai autorganizzati continuarono infatti il lavoro, issando sulla fabbrica il tricolore nazionale.[9][10] Due giorni dopo lo stesso Mussolini fu in visita agli stabilimenti:  «Voi oscuri lavoratori del Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa, è il lavoro che ha consacrato nelle trincee il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande oltre i confini»  (Benito Mussolini, Discorso del Dalmine, 20 marzo 1919, in "Tutti i discorsi - anno 1919") In un primo momento la posizione di De Ambris e della sua UIL fu la più apprezzata da Mussolini, aprendo nel periodo 1919-1920 una forte convergenza tra i due, con il secondo che sostenne apertamente la UIL dalle colonne de Il Popolo d'Italia[11] ed il primo che dette un apporto considerevole al programma dei Fasci Italiani di Combattimento, costituiti il 23 marzo 1919 e dai quali prenderà spunto il fascismo durante la fase governativa.[12]  Il nucleo iniziale     Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sansepolcrismoe Squadrismo.  Benito Mussolini a Dalmine con gli operai dello stabilimento autogestito.  Dino Grandi. È da questo connubio che, infatti, si costituisce in maniera strutturata il sindacalismo fascista, i cui protagonisti, dapprima immersi nei movimenti sindacalisti di varia estrazione sopra descritti, andarono a creare l'ossatura del nuovo movimento insieme agli interventisti futuristi, ad Arditi e reduci di guerra, nazionalisti e squadristi.[12]  Fra i maggiori esponenti di questo "sindacalismo squadrista", che affiancò i sindacalisti "puri", a cavallo tra gli anni dieci e venti Italo Balbo, Michele Bianchi, Gino Baroncini ma, soprattutto, Dino Grandi e lo squadrismo bolognese vicino agli ambienti de "L'Assalto", portatori di uno dei più genuini tratti del fascismo di sinistra, basato particolarmente (a Bologna) sulle rivendicazioni contadine, l'allargamento della piccola proprietà agricola ed al concetto de "la terra a chi la lavora".[13]  Alla fine del 1920 l'armonia tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo sansepolcrista si spezzò quando, in conseguenza della grave sconfitta elettorale della fine del 1919, Mussolini operò la strategia della virata a destra per aprirsi maggiori spazi politici e, staccandoli dalla UIL, creò i Sindacati economici, che nel gennaio 1922 diventeranno poi la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacalifasciste dirette da Rossoni.[14]  La crisi tra i due movimenti si attuò essenzialmente sul nodo della concezione del rapporto tra economia e politica. Da una parte il fascismo, che riteneva fondamentale che ogni dinamica attraverso la nazione sia controllata dallo Stato, dall'altra i sindacalisti rivoluzionari, che vedevano questa posizione come antitetica ai propri canoni libertari ed autonomisti[15], concependo la nazione come identità e sostanza storica di un popolo, ma lo Stato come sistema di potere di una classe esclusiva.[16]  «Il sindacalismo rivoluzionario, portando il suo contributo decisivo alla determinazione dell'Italia per l'intervento nella guerra, salvò l'onore dei lavoratori italiani e gettò le premesse in virtù delle quali l'organizzazione del lavoro è oggi, su piede di uguaglianza con tutte le altre forze economiche, elemento fondamentale dello Stato Corporativo. In questo senso soltanto può essere affermata la derivazione del movimento sindacale fascista dal vecchio sindacalismo rivoluzionario.»  (Tullio Masotti[17]) Rossoni e la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali fascisteModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali.  Edmondo Rossoni.  I quadrumviri e Benito Mussolini(da sinistra a destra: Emilio De Bono, Michele Bianchi, Mussolini, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo). Il primo, il terzo ed il quinto furono sindacalisti. Nel gennaio 1922 si tenne il  I Convegno sindacale di Bologna, in cui si scontrarono le due visioni principali, già emerse in passato, riguardanti il grado di dipendenza dei sindacati nei confronti della politica e, in questo caso, del neocostituito Partito Nazionale Fascista (PNF). Si scontrarono quindi la visione "autonomista" di Edmondo Rossoni e di Dino Grandi e quella "politica" di Massimo Rocca e Michele Bianchi, tra le quali sarà vincente la seconda[18].  A Bologna vennero inoltre affermati i principi basilari della politica corporativa, con la conferma del superamento della lotta di classe nei confronti della collaborazione e dell'interesse nazionale su quello individuale o di settore, e la nascita della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali[1], una nuova formazione antisocialista ed anticattolica, costituita nella forma di sindacati autonomi formati da cinque Corporazioni suddivise per categorie lavorative e non ancora (lo saranno nel 1934) sindacati misti lavoratori-datori di lavoro. Come nel sindacalismo rivoluzionario, inoltre, le corporazioni dovevano riunire tutte le attività professionali che identificavano la loro "elevazione morale e economica (...) con il dovere imprescindibile del cittadino verso la Nazione".[11]  «La nazione, sintesi superiore di tutti i valori materiali e spirituali della razza, è al di sopra degli individui, dei gruppi e delle classi. Individui, gruppi e classi sono gli strumenti di cui la nazione si serve per migliorare le proprie condizioni. Gli interessi individuali e di gruppo acquistano legittimità a condizione che si realizzino nell'ambito dei superiori interessi nazionali.»  (Articolo 4 della Carta dei principi delle corporazioni[19]) Sulla Confederazione si svilupparono polemiche anche negli ambienti del sindacalismo internazionale: la sinistra operaia internazionale, in sede di Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), contestava il titolo alla rappresentanza operaia alle corporazioni fasciste e, quindi, la possibilità di partecipare all'assemblea. La polemica non venne però accettata, e l'ILO permise alle Corporazioni di partecipare alle sedute senza interruzioni nel rinnovo del mandato.[20]  In sede congressuale Rossoni dichiarò l'esistenza di una linea di continuità tra il sindacalismo rivoluzionario, il sindacalismo fascista ed il corporativismo: per il sindacalismo fascista, infatti, l'ultimo era legato al primo sia per il comune intendimento del concetto di "rivoluzione" che, al di là dell'aspetto della rivolta popolare, in ambito lavorativo ritenevano rivestisse il significato di "sopravvento di superiori capacità produttive"; inoltre, ugualmente, avevano l'obbiettivo di innalzare il "proletario" (nell'accezione negativa del termine) al rango di "lavoratore" inserito a pieno titolo nella vita nazionale.[21]  «Il sindacalismo deve essere nazionale ma non può essere nazionale per metà: esso deve comprendere capitale e lavoro (...) e sostituire al vecchio termine proletariato, quello di lavoratore ed all'altro, di padrone, la parola dirigente, che più alta, più intellettuale, più grande.»  (Edmondo Rossoni, 18 gennaio 1926, Congresso dei Sindacati intellettuali fascisti.[22]) Nei mesi successivi, in concomitanza con il termine del biennio rosso e l'avanzata dell'offensiva militare del fascismo imperniata sulle squadre d'azione, ebbe luogo lo sfondamento politico in campo sindacale, con il passaggio di interi settori operai dalle strutture del Partito Socialista Italiano e della CGdL al fascismo. Tanto che, nell'estate del 1922, la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali contava 800.000 iscritti.[23] Ciò evidenziava il successo dei progetti di Rossoni, che aveva pensato di creare da una parte una base contadina potente ed affidabile che appoggiasse e facesse da riserva strategica allo squadrismo, dall'altra di fare del sindacalismo una delle pietre angolari dello Stato fascista.[24]  Con la Marcia su Roma, l'affermazione del sindacalismo fascista fu quasi definitiva[25] e l'inizio della costruzione del nuovo Stato portò quindi una relativa tranquillità nell'ambiente del sindacalismo stesso che, con il termine degli scontri e delle tensioni politiche, poté incentrarsi sul proprio sviluppo culturale e la propria evoluzione politica.[1] Emondo Rossoni così ne spiega definizione e scopo principale:  «(...) la salvaguardia della salute spirituale del popolo (...) Sindacato vuol dire: unione di interessi omogenei. Sindacalismo: azione che deve disciplinare e tutelare gli interessi omogenei (...) Noi rivendichiamo la concezione italiana del Sindacalismo alle corporazioni italianissime che sono nate ancor prima che la parola 'sindacalismo' fosse pronunciata.»  (Edmondo Rossoni, La Marcia su Roma e il compito dei sindacati, Napoli, 1922[26]) Caratteristiche principali, che evidenziavano la differenza del sindacalismo fascista rispetto a quello socialista, furono anche la mancanza di dogmatismo, teologismo e perseguimento di finalità remote, come ad esempio il prefiggersi in anticipo un determinato tipo di obbiettivo finale, come il tipo di economia da instaurare, ma tentando sempre di adeguarsi alla realtà del mondo.[27]  Questo clima non portò fine al dibattito interno, che anzi aumentò decisamente, tanto che gli stessi vecchi sindacalisti rivoluzionari come Edmondo Rossoni, Agostino Lanzillo, Sergio Panunzio e Angelo Oliviero Olivetti, discutevano e si dividevano spesso e volentieri tra loro.[28] In tutti però[29] un'evoluzione era avvenuta: il sindacalismo non era più considerato propulsore del libero mercato ma, aderendo al concetto di nazione come unità organica d'intenti, ritenevano che il sindacato - come gli imprenditori - dovesse trovare il suo limite nel superiore interesse della patria, rigettando il concetto di libero mercato stesso e giungendo al tal punto da definire che "la nazione è il più grande sindacato".[30]  Le prime forti tensioni con i conservatori ed il padronatoModifica  Roberto Farinacci nel 1925.  Renato Ricci con la sua squadra d'azione carrarese impegnata a S. Terenzio nello sgombero delle macerie del forte di Falconara 1922 Immediatamente dopo l'apice della Marcia su Roma si accese però lo scontro tra il fascismo di sinistra ed i settori più conservatori dello Stato. Tra il 1921 ed il 1923 avvennero alcuni episodi chiave:  la creazione dei gruppi di competenza,[31] da parte di Massimo Rocca, limitanti lo spazio sindacale della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali[32]; il tentativo di bloccare il corporativismo da parte di Confindustria e Confagricoltura, contrapposti alla minaccia di Rossoni di assalti, scontri ed occupazione delle fabbriche da parte dei lavoratori fascisti[32]; l'appoggio diretto al sindacalismo fascista da parte di tutta la sinistra fascista nazionale, compresi Michele Bianchi e Roberto Farinacci[33]; il lancio del sindacalismo integrale (1923) da parte di Rossoni, che puntava ad inglobare nelle corporazioni Confindustria e Confagricoltura (ossia le rappresentanze sindacali dei datori di lavoro)[34]; la creazione della Federazione italiana dei sindacati agricoltori (FISA) e della Corporazione dell'Industria e del Commercio da parte di Rossoni; i primi tentativi di trasformare le organizzazioni sindacali da associazioni di fatto in organi di diritto pubblico da parte di Armando Casalini[35]; il patto siglato tra Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e Confindustria nel dicembre del 1923 a Palazzo Chigi, in ottica di limitazione dei conflitti di classe[13]. «(Sia il Capitale sia il Lavoro, ndr) devono essere disciplinati. L'appetito all'infinito è malefico e assurdo. Per queste ragioni il sindacalismo fascista è per la collaborazione (...) ma con gli industriali che si impuntano e dicono comandiamo noi, occorre lottare decisamente per dare ai lavoratori il posto degno nella vita della nazione»  (Edmondo Rossoni, adunata al Teatro Regio di Torino, 16 gennaio 1926[36]) In questo periodo di tensioni tra industriali e sindacati fascisti, difficile per l'attecchimento della collaborazione di classe vagheggiata dal fascismo per il mondo del lavoro, assurgono agli onori del sindacalismo fascista le personalità di Mario Gianpaoli, sindacalista e federale del PNF di Milano, e di Domenico Bagnasco, segretario dei sindacati fascisti di Torino. Organizzatore e combattente di piazza, Bagnasco fu deciso a prendere di petto gli industriali, accusando il padronato di "spietata intransigenza antioperaia". Spesso i sindacalisti fascisti di questo periodo pagarono con la fine della propria carriera politica l'attivismo sfrenato, a causa di un fascismo ancora non abbastanza forte da poter far fronte ad uno scontro con la grande industria, appoggiata dai molti uomini del precedente regime ancora posizionati nelle istituzioni dello Stato. Essi ebbero però il merito di infondere risolutezza in molti sindacalisti di periferia.[37]  La seconda fase del sindacalismo fascistaModifica  Monumento a Luigi Razza.  Enrico Corradini. Si entra quindi in quella che viene chiamata "la seconda fase del sindacalismo fascista"[38], durante la quale il sindacalismo e tutte le componenti della sinistra fascista tornarono all'attivismo ed alla tensione del periodo rivoluzionario. Sergio Panunzio ricominciò a tuonare a favore della ripresa dell'anima rivoluzionaria del fascismo e del recupero del programma del '19[39], esprimendosi per la creazione di una Camera sindacale e del lavoro e di un Senato politico.[40]  Nel febbraio 1924 cadde la Confagricoltura, inglobata dalla fascista Federazione italiana sindacati agricoli, riunendo in un'unica corporazione i lavoratori con i grandi e piccoli proprietari agricoli.[34]  Il nuovo spostamento a sinistra dello schieramento fascista, questa volta apertamente appoggiato da Mussolini stesso, portò ad un conseguente irrigidimento degli industriali sulle tradizionali posizioni reazionarie, decretando l'inizio di un'escalation. Si verificò quindi anche la ripresa militante dello squadrismo in appoggio all'azione sindacale fascista, dando luogo ad un'ondata di scioperi su tutto il territorio nazionale, i più infuocati dei quali in Valdarno, Lunigiana e ad Orbetello. In Valdarno lo sciopero venne organizzato dal dirigente Bramante Cucini, seguace di Sergio Panunzio, e finanziato direttamente dai Comuni amministrati dal Partito Nazionale Fascistae da uno stanziamento apposito del Direttorio generale del PNF, con la pubblica approvazione di Mussolini.[41] Al termine dello sciopero si ebbe perfino la nomina statale di una commissione straordinaria di lavoratori per gestire le miniere, destando comprensibile spavento tra il padronato.[42]  Nel novembre del 1924 si tenne a Roma il II Congresso nazionale delle corporazioni. Qui venne messa momentaneamente da parte la strada della collaborazione di classe, per riprendere quella della lotta in difesa dell'unità dei lavoratori e dell'istituzionalizzazione delle corporazioni, quest'ultimo aspetto chiesto a gran voce durante tutto il congresso dalla maggioranza degli esponenti, soprattutto quelli rappresentanti i sindacati agricoli provinciali, come Mario Racheli.[32]  «Nei riflessi della politica economica non v'è chi non afferri l'utilità nazionale di rendere responsabili le organizzazioni sindacali e di creare discipline contrattuali garantite dalla legge.»  (Edmondo Rossoni, intervento al II Congresso nazionale delle corporazioni.[43]) In questo quadro ha luogo, come in altri casi era avvenuto, un'avversione crescente nei confronti dell'inerzia e dell'inattivismo di Mussolini verso la situazione generale, legato alla fase ed alle operazioni di consolidamento del potere del fascismo all'interno della formazione statale. Ciò generò, in diversi casi, il concepimento e la presa di decisioni autonome da parte dei capisquadra, dei leader sindacali e dell'ala movimentista[44][45] e la messa in evidenza della natura anticapitalista che permeava il fascismo provinciale nei confronti di quello cittadino, dove il movimentismo si scontrava coi circoli conservatori. Questa natura emerse visibilmente e prepotentemente con lo sciopero carrarese organizzato da Renato Ricci, capo delle squadre d'azione della Lunigiana. In tale frangente lo sciopero fascista (autunno-inverno del 1924) portò ad una radicalizzazione estrema dello scontro con "i baroni del marmo", imperanti nel carrarese, da portare all'occupazione ed all'autogestione delle cave e delle industrie di lavorazione, ma soprattutto (dato che lo sciopero non si risolse con una vera e propria vittoria) a divenire una delle cause fondamentali della nascita di una corrente di dissidenti all'interno del fascismo "ufficiale".[46][47]  Il 3 gennaio 1925 ha luogo il discorso alla Camera con cui Mussolini si prende carico della responsabilità politica della vicenda Matteotti.  L'8 gennaio il Direttorio delle corporazioni e quello del Partito Nazionale Fascista si riuniscono congiuntamente studiando una serie di problemi da risolvere per valorizzare il ruolo delle classi lavoratrici ed il loro inserimento a pieno titolo nella vita nazionale, producendo poi un ordine del giorno in cui si autorizzavano i sindacati fascisti a ricorrere alla "lotta economica" contro industriali e capitalisti, rei di "colpevole incomprensione" dei fini e della prospettiva sociale e nazionale del fascismo. Ciò determina, insieme all'entusiasmo per l'intransigenza insita nel discorso di Mussolini, l'instaurazione di un clima da "seconda ondata", rimettendo nuovamente in moto la rivoluzione da sinistra e accendendo nuovamente l'entusiasmo del fascismo movimentista.[32]  Nel marzo del 1925 avviene quindi l'ultima grande azione di forza della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali, che scavalcò le vertenze sindacali in corso tra la O.M. di Brescia e la FIOMindicendo uno sciopero a sorpresa, scatenato da una serie di multe e licenziamenti inflitti agli operai fascisti che, per protesta, abbandonarono i posti di lavoro. Le agitazioni ottennero l'appoggio di Roberto Farinacci, in quel periodo segretario nazionale del Partito, e, di contrasto, gli appelli alla moderazione di Mussolini, che consigliò cautela a Rossoni per non ripetere le vittorie di Pirro degli scioperi valdarnesi e carraresi.[32]Le agitazioni dei metallurgici riuscirono però ad allargarsi fino a Milano, dove gli operai socialisti e comunisti vennero invitati ad aderire; le attività di contestazione cominciarono poi ad interessare anche carovita ed altri argomenti, estendendosi a tutta la Lombardia ed assumendo, soprattutto con il sindacalfascista Luigi Razza caratteri indipendenti dal governo e di aperta minaccia e violenza nei confronti degli industriali, terrorizzati dalla possibilità di combinazioni politiche unitarie impreviste.[48] Dopo lunghe trattative le agitazioni rientrarono, decretando un grosso insuccesso per gli industriali, che dovettero fare buone concessioni, sebbene non totali, agli operai tramite i sindacati fascisti, e l'emarginazione completa della FIOM, i cui rappresentati si spostarono in massa nelle Corporazioni.[1]  «Per ben tre anni l'esistenza di un sindacalismo fascista, cioè di un movimento sindacale guidato da fascisti e orientato verso le idee del fascismo, fu ostinatamente negata. Ci voleva, per dissuggellare gli occhi dei ciechi volontari e fanatici, il fatto clamoroso: lo sciopero che mettesse in campo le forze sindacali del fascismo e che desse in pari tempo allo stesso sindacalismo fascista una più risoluta nozione della sua forza e delle sue possibilità di azione.»  (Benito Mussolini, Fascismo e sindacalismo, a seguito degli scioperi metallurgici organizzati dai sindacati fascisti in Nord Italia[27][49]) Altro commento che rivela il momento infuocato fu quello di Corradini, sindacalista nazionale:  «Il superamento del socialismo, non la dispersione, non la distruzione dell'opera socialista. Questo è buono affermare, in occasione dello sciopero dei sindacati fascisti (...) Vi è fra socialismo e fascismo un nesso storico, oso dire una continuazione storica (...) Il fascismo supera il socialismo, ma raccoglie i buoni frutti dell'opera socialista e secondo la sua propria legge, quando occorra, tale opera continua»  (Enrico Corradini, su Il Popolo d'Italia[41]) La trasformazione in organi di diritto pubblicoModifica  Edmondo Rossoni in Piazza del Popolo (Roma) annuncia la promulgazione della Carta del Lavoro.  Ugo Spirito. La conseguenza principale di questi avvenimenti furono però gli accordi di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925), in cui venne riconosciuto dalla Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e da Confindustria la reciproca esclusività di rappresentanza di lavoratori e datori di lavoro, con l'impegno al conseguimento prioritario dell'interesse nazionale.[1]  Va però evidenziata soprattutto la legge del 3 aprile 1926: con questa legge vennero infatti, tra l'altro, realizzata l'istituzionalizzazione dei sindacati fascisti e legalizzato il loro monopolio per la rappresentanza dei lavoratori con la nascita della contrattazione collettiva del lavoro. Ciò andava a significare che le Corporazioni divennero organi di diritto pubblico dell'amministrazione statale, con "funzioni di conciliazione, di coordinamento ed organizzazione della produzione". All'interno di questa legge era inoltre presente l'articolo 42, che prevedeva una direzione comune tra le associazioni di categoria delle due parti, contenendo in nuce il progetto corporativo a sindacato misto che verrà realizzato negli anni trenta.[50]  Dopo questa vittoria, per Rossoni si ebbe la redazione della Carta del Lavoro (1927), testo fondamentale della politica sociale fascista in ottica di eliminazione della dicotomia tra le classi sociali[51] ma, dall'anno successivo, con Farinacci non più alla segreteria nazionale del PNF, ebbero sfogo gli attacchi alla Conferenza nazionale delle corporazioni sindacali, che venne smembrata dai circoli conservatori (novembre 1928), capeggiati da Giuseppe Bottai (sottosegretario al Ministero delle corporazioni) ed Augusto Turati(nuovo segretario del partito), in sei separate confederazioni di sindacati, facendo diminuire il potere contrattuale dell'organismo, disperdendolo in strutture più piccole e limitate.[52]  Il secondo Convegno di Studi sindacali e corporativiModifica Nel periodo che intercorse da questo momento alla legge del 5 febbraio 1934, istitutiva delle corporazioni, si ebbe uno blocco totale dell'azione nel settore, in cui intervenne positivamente soltanto il II Convegno di Studi sindacali e corporativi, tenutosi a Ferrara nel maggio del 1932, nel quale emerse il concetto di corporazione proprietaria proposta da Ugo Spirito[53], nei confronti della quale il sindacalismo fascista si trovò su posizioni contrastanti a causa di un arroccamento di tipo ideologico: rimasti su posizioni classiste nel passaggio dal socialismo eterodosso al fascismo, molti degli esponenti pre-rivoluzionari del sindacalismo fascista (Lanzillo, Giampaoli, Bagnasco, ecc.) videro il progetto di annullare il sindacalismo nel corporativismo come un progetto reazionario, rimanendo ancorati alla concezione della lotta di classe come uno scontro benefico per gli interessi individuali e nazionali.[54]  L'incapacità di accettare la proposta di Spirito da parte dei primi sindacalisti fascisti, ma anche i "nuovi" come Luigi Razza e Pietro Capoferri, fu dovuta quindi essenzialmente al rigetto totale della visione statalista che andava formandosi nel fascismo ed al cui finalismo erano sempre stati avversi: per loro "la corporazione è il sindacato, e dire Stato corporativo è come dire Stato sindacale"[54][55]  L'esaurimento del sindacalismo fascista nelle CorporazioniModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Corporativismo.  Sede dell'Opera Nazionale Dopolavoro. Nel 1934 viene approvata la creazione dello Stato corporativo che, con le nomine dall'alto al posto delle cariche elettive e l'abolizione (fino al 1939) del fiduciario di fabbrica, aveva dato tra l'altro alle corporazioni, divenute veri e propri sindacati formati dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro ed istituzionalizzati nello Stato, la facoltà di stipulare i contratti collettivi di lavoro.[27][56]  In ogni caso il cambiamento di assetto istituzionale e la rivoluzione nel mondo del lavoro, non pregiudicarono i risultati effettivi che il sindacalismo fascista aveva ottenuto negli anni. Tra le più importanti si possono elencare:  ferie pagate; indennità di licenziamento; conservazione del posto in caso di malattia; divieto di licenziamento in caso di maternità; assegni familiari; diffusione delle casse mutue aziendali; assistenza sociale dell'Opera Nazionale Dopolavoro(ad es. centri ricreativi, viaggi collettivi a prezzo simbolico, manifestazioni teatrali, etc).[50] Il 21 aprile 1930 fu Mussolini stesso a rivendicare alle corporazioni la funzione di esaurire in sé il compito del sindacalismo fascista, superando ed andando oltre al sindacalismo stesso, inserendosi nel solco della Rivoluzione continua:  «È nella corporazione che il sindacalismo fascista trova infatti la sua meta. Il sindacalismo, di ogni scuola, ha un decorso che potrebbe dirsi comune, salvo i metodi: s'incomincia con l'educazione dei singoli alla vita associativa; si continua con la stipulazione dei contratti collettivi; si attua la solidarietà assistenziale o mutualistica; si perfeziona l'abilità professionale. Ma mentre il sindacalismo socialista, per la strada della lotta di classe, sfocia sul terreno politico, avente a programma finale la soppressione della proprietà privata e dell'iniziativa individuale, il sindacalismo fascista, attraverso la collaborazione di classe, sbocca nella corporazione, che tale collaborazione deve rendere sistematica e armonica, salvaguardando la proprietà, ma elevandola a funzione sociale, rispettando l'iniziativa individuale, ma nell'ambito della vita e dell'economia della Nazione. Il sindacalismo non può essere fine a sé stesso: o si esaurisce nel socialismo politico o nella corporazione fascista. È solo nella corporazione che si realizza l'unità economica nei suoi diversi elementi: capitale, lavoro, tecnica; è solo attraverso la corporazione, cioè attraverso la collaborazione di tutte le forze convergenti a un solo fine, che la vitalità del sindacalismo è assicurata.»  (Benito Mussolini, discorso inaugurale del Consiglio Nazionale delle corporazioni[57]) Maggiori esponenti ed ispiratori                                           Modifica Filippo Corridoni Enrico Corradini Alceste De Ambris Sergio Panunzio Angelo Oliviero Olivetti Ottavio Dinale Agostino Lanzillo Dino Grandi Luigi Fontanelli Riccardo Del Giudice Michele Bianchi Gino Baroncini Tullio Cianetti Edmondo Rossoni Luigi Razza Mario Racheli Domenico Bagnasco Bramante Cucini Pietro Capoferri Giuseppe Landi Alcide Aimi RivisteModifica La Stirpe Il Lavoro Fascista (poi organo ufficiale del Partito Fascista Repubblicano) Il Lavoro d'Italia Cultura Sindacale Rivista del Lavoro L'Idea Sindacalista Il Lavoro I Problemi del Lavoro NoteModifica ^ a b c d e Francesco Perfetti, Il sindacalismo fascista. 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In questo ambito Michele Bianchi definì "dittatoriale" la "procedura introdotta dal sindacalismo fascista", mentre il sindacalista nazionale Maraviglia ribadì che "la doppia organizzazione, cioè quella dei datori di lavoro e quella dei lavoratori, allontana ogni pericolo che anche il Fascismo, per le pressioni e l'influenza delle organizzazioni sindacali, possa diventare un partito di classe". In Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, 1972. ^ a b Francesca Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, Firenze, 2000. ^ Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1989 ^ Corriere della Sera, 18 gennaio 1926 ^ AA. VV., Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma, 1980. ^ "(...) contrassegnata da un parziale ritorno alla teoria e alla pratica del conflitto di classe", in Adrian Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Bari, 1974 ^ "Il fascismo è una dottrina, una fede, una civiltà nuova. Riemerge ora l'anima rivoluzionaria del Fascismo. Il Fascismo deve immediatamente tornare, non per opportunismo, ma per necessità storica, al programma del '19 (...) L'anima del Fascismo è, ricordiamolo sempre, il Sindacalismo Nazionale, la cui formula Mussolini lanciò prima del 1918, prima di Vittorio Veneto". In Sergio Panunzio, La méta del Fascismo, in Il Popolo d'Italia, 22 giugno 1924 ^ Attilio Tamaro, Venti anni di storia, Editrice Tiber, Roma, 1953. ^ a b Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, 1972. ^ Il Mondo, 1924 ^ Rossoni stava, nel suo intervento, illustrando le future battaglie del sindacalismo fascista sui contratti collettivi di lavoro. In Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, 1974. ^ "In questo periodo - fine '24 - continuarono ad affiorare, in seno al sindacalismo fascista, tendenze centrifughe verso Mussolini e il partito, la cui sorte pareva a molti gravemente compromessa" in Alberto Acquarone, La politica sindacale del fascismo ^ Alberto Aquarone e Maurizio Vernassa, Il regime fascista, Il Mulino, Bologna, 1974. ^ Che rientrò poi in breve tempo nell'alveo della sinistra fascista ufficiale. ^ Sandro Setta, Renato Ricci: dallo squadrismo alla Repubblica sociale italiana, Il Mulino, 1986. ^ Bruno Uva, La nascita dello stato corporativo e sindacale fascista, Carucci, Assisi-Roma, 1974. ^ Gerarchia n° 5, maggio 1925 ^ a b Alberto Acquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, 1965. ^ R. Arata, Decennale della Carta del Lavoro - Sul piano dell'Impero, su "L'Italia", Milano, 21 aprile 1937 ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista. 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Roberts, The Syndacalist Tradition and Italian Fascism, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1979. Voci correlateModifica Camera dei fasci e delle corporazioni Carta del Lavoro Corporativismo Corporazione proprietaria Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali Collaborazione di classe Fasci Italiani di Combattimento Interventismo Leggi fascistissime Politica economica fascista Politica sociale (fascismo) Dalmine Rivoluzione fascista Squadrismo Sindacalismo rivoluzionario Sindacato fascista dei giornalisti Controllo di autoritàThesaurusBNCF 36490   Portale Fascismo   Portale Politica   Portale Storia d'Italia Ultima modifica 2 mesi fa di Tytire PAGINE CORRELATE Edmondo Rossoni sindacalista, giornalista e politico italiano  Angelo Oliviero Olivetti politico, politologo e giornalista italiano  Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali WikipediaRiccardo Del Giudice. Giudice. Keywords: l’implicatura di Telesio, Telesio, polemica con Spirito su la distinzione tra sindacato e corporazione, le corporazione nell aroma papale, I diritti dello stato pontificio, il diritto della navegazione, contratto, gentile, la scuola al lavoro – ‘dottrina e prassi corporativa” --  – la tesi di telesio – consiglio nazionale delle corporazioni.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: l’implicatura di Telesio” -- The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giudice – corpi ed espressioni – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Antillo). Filosofo italiano.  Grice: “Giudice has written an essay that poses a conceptual query for Austin’s conceptual query. It’s “Sull pudore” – “But do we have that in ordinary language?”” – Grice: “Giudice has also written on more standard forms of philosophy of language, and Nietzsche.” Dopo aver espletato studi classici si laurea con la tesi “Ideologia e Sociologia” -- Ricercatore all'Istituto di Filosofia di Messina. Direttore della collana "Filosofia Teoretica". Altre saggi: “La Nuova Filosofia, Messina, Sortino “Il discorso filosofico” “Gli echi del corpo” Verona,Paniere, “Il lessico di Nietzsche” Roma, Armando, Nietzscheana. Esercizi di lettura, Messina, Alfa, “Il tribunale filosofico” I simboli delle cose più alte, Fedeltà alla terra, Profili della contemporaneità, Cosenza, Pellegrini, “Stare insieme” Cosenza, Pellegrini, La filosofia del finito, Cosenza, Pellegrini, Gl’echi, Cosenza, Pellegrini Editore, Il corpo e l'espressione, Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Emozioni e cognitività: Un approccio fisiologico, Cosenza, Pellegrini Sul pudore -- Sul pudore e sull'osceno, Cosenza, Pellegrini Breve documento sulla "nuova filosofia", Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Su Messina e altri scritti, Cosenza, Pellegrini, Morelli, Puoi fidarti di te, Milano, Mondadori, Battaglia, Storia e cultura in Popper, Cosenza, L. Pellegrino, Battaglia, Guicciardini tra scienza etica e politica, Cosenza, L. Pellegrino,,  varie Giovanni Coglitore, Kant: cristianesimo come impegno morale, in Il contributo,  L'Espresso, Studi etno-antropologici e sociologici,.  Fisiologia branca della biologia che studia il funzionamento degli organismi viventi Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Fisiologo" rimanda qui. Se stai cercando l'omonimo trattato antico, vedi Il Fisiologo. La fisiologia (dal greco φύσις, physis, 'natura', e λόγος, logos, 'discorso', quindi 'studio dei fenomeni naturali') è la branca della biologia che studia il funzionamento degli organismi viventi[1], analizzando i principi chimico-fisici del funzionamento degli esseri viventi, siano essi mono o pluricellulari, animali o vegetali.    L'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, un'importante prima tappa nello studio della fisiologia. È detta "condizione fisiologica" lo stato in cui si verificano le normali funzioni corporee, mentre una condizione patologica è caratterizzata da anomalie che si traducono in malattie.[2]. Data l'estensione del campo di studi, la fisiologia si divide, fra gli altri, in fisiologia animale, fisiologia vegetale, fisiologia cellulare, fisiologia microbica, batterica e virale.[3] Il Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina è assegnato dall'Accademia reale svedese delle scienzea coloro che raggiungono risultati significativi in questa disciplina.  StoriaModifica  Claude Bernard e i suoi aiutanti. Olio su tela di Leon-Augus Wellcome. I primi studi fisiologici risalgono alle antiche civiltà dell'India e all'Egitto,[4][5] dove venivano condotti insieme agli studi anatomici, senza l'utilizzo della dissezione o della vivisezione.[6]  Lo studio della fisiologia umana come campo medico risale almeno al 420 a.C. ai tempi di Ippocrate, noto come il padre della medicina.[7] Ippocrate incorpora questa scienza alla sua teoria degli umori, che si basa su quattro sostanze fondamentali: terra, acqua, aria e fuoco; associate ad un corrispondente humor (bile nera, flegma, sangue e bile gialla, rispettivamente). Ippocrate nota alcune connessioni emotive ai quattro umori, che Claudio Galeno avrebbe poi ripreso nei suoi studi. Il pensiero criticodi Aristotele e la sua teoria sulla correlazione tra struttura e funzione ha segnato l'inizio dello studio della fisiologia nella Grecia antica. Come Ippocrate, Aristotele riprende la teoria umorale, che per lui consisteva in quattro qualità primarie: caldo, freddo, umido e secco.[8] Claudio Galeno è stato il primo ad utilizzare degli esperimenti per sondare le funzioni del corpo. A differenza di Ippocrate, però, Galeno sostiene che gli squilibri umorali siano situati in organi specifici, o nell'intero corpo.[9] Galeno ha poi introdotto la nozione di temperamento: sanguigno corrisponde al sangue; il flemmatico è legato al catarro; la bile gialla è collegata alla collera; e la bile nera corrisponde alla malinconia. Galeno afferma che il corpo umano è composto da tre sistemi collegati: il cervello e i nervi, responsabili dei pensieri e sensazioni; il cuore e le arterie, che danno la vita; e il fegato con le vene, che sono collegati alla nutrizione e la crescita.[9] Galeno è anche il fondatore della fisiologia sperimentale.[10] Per i successivi 1.400 anni, la fisiologia galenica influenza l'intera medicina.[9]  Jean Fernel (1497-1558), un medico francese, ha introdotto per primo il termine "fisiologia".[11]  Nel 1820, il fisiologo francese Henri Milne-Edwardsintroduce il concetto di divisione fisiologica del lavoro, che ha permesso di "confrontare e studiare le cose viventi come se fossero macchine create dall'industria dell'uomo". Ispirato dal lavoro di Adam Smith, Milne-Edwards ha scritto che il "corpo di tutti gli esseri viventi, animali o piante, assomiglia ad una fabbrica ... in cui gli organi, paragonabili ai lavoratori, lavorano incessantemente per produrre i fenomeni che costituiscono la vita dell'individuo." Negli organismi più differenziati, il lavoro può essere ripartito tra diversi strumenti o sistemi (chiamati da lui appareils).[12]  Nel 1858, Joseph Lister studia le cause della coagulazione del sangue e l'infiammazione. Le sue scoperte portano all'implemento di antisettici in sala operatoria, con conseguente diminuzione del tasso di mortalità degli interventi chirurgici.[2][13]  Nel XIX secolo, la conoscenza fisiologica ha iniziato a crescere ad un ritmo rapido, in particolare nel 1838, grazie alla teoria cellulare di Matthias Schleiden e Theodor Schwann, nella quale si afferma per la prima volta che gli organismi sono costituiti da unità chiamate celle. Le scoperte di Claude Bernard (1813-1878) hanno portato al concetto di milieu interieur(ambiente interno), che sarà poi ripreso e definito "omeostasi" dal fisiologo americano Walter B. Cannonnel 1929. Con omeostasi, Cannon intendeva "il mantenimento di stati stazionari nel corpo e i processi fisiologici con cui sono regolati."[14] In altre parole, la capacità dell'organismo di regolare l'ambiente interno. Va notato che, William Beaumont è stato il primo americano ad utilizzare l'applicazione pratica della fisiologia.  I fisiologi del XIX secolo come Michael Foster, Max Verworn, e Alfred Binet, sulla base delle idee di Haeckel, elaborano il concetto di fisiologia generale, una scienza unificata che studia le cellule,[15]ribattezzata biologia cellulare nel 900. Nel XX secolo, i biologi iniziano ad interessarsi agli organismi diversi dagli esseri umani, e nascono i campi della fisiologia comparata ed ecofisiologia.[16] Più di recente, la fisiologia evolutiva è diventata un sotto-disciplina distinta.[17]  DescrizioneModifica La fisiologia opera su diversi livelli, occupandosi sia dei meccanismi di base a livello molecolare sia di funzioni di cellule e organi, come pure dell'integrazione delle funzioni d'organo negli organismi complessi.   A seconda dell'ambito specialistico, la fisiologia si avvale delle conoscenze di numerose discipline, oltre alle già citate chimica e fisica, alcune branche della biologia quali: biochimica, biologia molecolare, anatomia, citologia e istologia e costituisce anche la base fondamentale per numerose discipline mediche quali la patologia, la farmacologia e la tossicologia.  Esistono diversi metodi per classificare la fisiologia[18]  In base al taxon: Fisiologia animale: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni degli animali. Fisiologia vegetale: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni dei vegetali. Fisiologia umana: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni degli esseri umani Fisiologia microbica e virale. In base al livello di organizzazione: Fisiologia cellulare: studia i meccanismi associati al funzionamento delle cellule e le loro interazioni con l'ambiente. Fisiologia molecolare: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni delle molecole Neurofisiologia: studia il funzionamento del sistema nervoso sia a livello cellulare che sistemico Fisiologia sistemica Fisiologia ecologica Fisiologia integrativa In base ai processi che causano variazioni fisiologiche: Fisiologia ambientale: studia le reazioni e l'adattamento dell'organismo sottoposto a differenti ambienti (temperatura, altitudine, inquinamento, ecc..). Fisiologia patologica: studia le modificazioni delle funzioni in seguito ad una patologia. Fisiologia dello sviluppo: studia i meccanismi e le fasi che conducono un organismo alla maturità riproduttiva. In base agli obiettivi finali della ricerca: Fisiologia applicata: studia la capacità umana d'interagire con l'ambiente esterno. Fisiologia comparata: studia le somiglianze e le differenze delle diverse specie animali. Fisiologia dell'esercizio: studia i meccanismi che interessano l'attività motoria e sportiva e come migliorare le prestazioni con l'allenamento. NoteModifica ^ Prosser, C. Ladd (1991).Comparative Animal Physiology, ambientale Environmental and Metabolic Animal Physiology(4 ° ed.).Hoboken, NJ: Wiley-Liss.pp. 1-12.ISBN 0-471-85767-X ^ a b ( EN ) Introduction to Physiology: History And Scope, in Medical News Today. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ Hall, John (2011).Guyton e Hall Manuale di fisiologia medica(12 ° ed.).Philadelphia, Pa .: Saunders / Elsevier.p.3. ISBN 978-1-4160-4574-8. ^ D. P. Burma; Maharani Chakravorty. From Physiology and Chemistry to Biochemistry. Pearson Education. p. 8. ^ Francis Zimmermann. The Jungle and the Aroma of Meats: An Ecological Theme in Hindu Medicine. Motilal Banarsidass publications. p. 159. ^ ( EN ) Helaine Selin, Medicine Across Cultures: History and Practice of Medicine in Non-Western Cultures, Springer Science & Business Media, 31 maggio 2003, ISBN 978-1-4020-1166-5. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ ( EN ) Physiology - humans, body, used, Earth, life, plants, chemical, methods, su www.scienceclarified.com. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ C. George Boeree, Early Medicine and Physiology, su webspace.ship.edu. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ a b c ( EN ) Galen of Pergamum | Greek physician, in Encyclopedia Britannica. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ ( EN ) Stanley C. Fell e F. Griffith Pearson, Historical Perspectives of Thoracic Anatomy, in Thoracic Surgery Clinics, vol. 17, n. 4, 1º novembre 2007, pp. 443–448, DOI:10.1016/j.thorsurg.2006.12.001. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ Wilbur Applebaum. Encyclopedia of the Scientific Revolution: From Copernicus to Newton. Routledge. p. 344. ^ R. M. cervello. The Pulse del modernismo: fisiologici Estetica a Fin-de-siècle Europa . Seattle: University of Washington Press, 2015. 384 pp.  ^ Milestones in Physiology (1822-2013)"Archiviato il 20 maggio 2017 in Internet Archive. (PDF). 1 October 2013. Retrieved 2015-07-25. ^ Theodore M. Brown e Elizabeth Fee, Walter Bradford Cannon, in American Journal of Public Health, vol. 92, n. 10, 27 maggio 2017, pp. 1594–1595. URL consultato il 27 maggio 2017. ^ ( EN ) Robert Michael Brain, The Pulse of Modernism: Physiological Aesthetics in Fin-de-Sicle Europe, University of Washington Press, 1º maggio 2015, ISBN 978-0-295-80578-8. URL consultato il 27 maggio 2017. ^ Feder, ME; Bennett, AF; WW, Burggren; Huey, RB (1987). New directions in ecological physiology. New York: Cambridge University Press. ISBN 978-0-521-34938-3. ^ ( EN ) Jr T Garland, P. A. Carter, Evolutionary Physiology, su https://dx.doi.org/10.1146/annurev.ph.56.030194.003051, 28 novembre 2003. URL consultato il 27 maggio 2017. ^ Moyes, C.D., Schulte, P.M. Principles of Animal Physiology, second edition. Pearson/Benjamin Cummings. Boston, MA, 2008. Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su fisiologia Collabora a Wikibooks Wikibooks contiene testi o manuali sulla fisiologia Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «fisiologia» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su fisiologia Collegamenti esterniModifica fisiologia, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata ( EN ) Fisiologia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere riguardanti Fisiologia, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Fisiologia, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 2513 · LCCN( EN ) sh85062884 · GND ( DE ) 4045981-0 ·BNF ( FR ) cb120659591 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007531200405171 (topic) · NDL( EN ,  JA ) 00570362   Portale Biologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biologia Ultima modifica 7 giorni fa di Zoro1996 PAGINE CORRELATE Biologia scienza che studia la vita  Storia della biologia Equilibrio idro-salino WikipediaSanti Lo Giudice. Giudice. Keywords: corpi ed espressioni, corpo, espressione, pudore, osceno, l’osceno nella Roma antica, l’osceno nella italia antica, fisiologia, fisiologico, natura --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: corpi ed espressioni” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giuliano – Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza – Filosofo italiano. Grice: “When I think Giuliano, I think Donizetti – and Poliuto’s lions!” -- Flavio Claudio Giuliano (in latino: Flavius Claudius Iulianus; Costantinopoli), filosofo. L’ultimo sovrano dichiaratamente pagano, che tenta, senza successo, di riformare e di restaurare la religione romana dopo che essa era caduta in decadenza di fronte alla diffusione del cristianesimo. Sometimes known as ‘the Apostate,’ Giuliano was a Roman emperor, who died in battle at the early age of 32 exclaiming the infamous “Galileans, ye won!” as the arrow penetrated in his breast. A naturally gifted scholar, Giuliano stuied philosophy under Massimo di Efeso and had many philosophical friends and acquaintances, including Saturnino Secondo Salutio, Prisco, and Imerio. Although his philosophical outlook was what he described as ‘generally eclectic,’ he had a special fondness for the Accademia, and a particular hostily to the Cinargo. Keen to eliminate the Galileans, as he called the sect originated after the death of Gesu di Nazareth, in fact he left them rather ‘to their own devices,’ although removing some of their privileges. His letters and speeches survive – many on deep philosophical issues (‘What is universal about worshipping a man born in Galilee who claimed to be the son of God – and born of a virgin?’). Grice: “There are various Griceian problems when approaching Giuliano from a Griceian perspective. It all reminds me of my father, a non-Conformist, in a household comprised of my High-Church mother and Catholic convert aunt! At Oxford, and in fact, before then, at Clifton, I learned that religion has nothing to do with i. Nobody believes that Giove raped Ganymede – it’s a tale! Giuliano has been unjustly treated counterfactually. Historians, seeing that Giuliano’s fight was useless, dismiss it. But this is a weak argument. I might just as well dismiss Mussolini’s plans because we English bombed Milano! Giuliano read too much of what the Hebrews call ‘the Holy Writ’ – but his propositions should be taken separately, one by one. In a way reminiscent of Arnold (in his Ebraism and Ellenismo), Giuliano proposes to us an examination of things like ‘Jesus was the son of God, therefore he was God.’ Aeneas was divinized by Virgil, so the Romans shouldn’t count as good critics here. A nice story involves Giuliano and Arete, a philosopher to whom Giamblico di Calcide dedicated one of his books. It seems likely that she was one of his pupils. Her neighbours (presumably Christians) tried to get her thrown out of her home, but the emperor Giuliano himself went to Phrygia to help her. Giuliano. Keywords: pagano, ennico, prima Roma, terza Roma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giuliano” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giuliano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Eclano – Benevento). Filosofo italiano. Giuliano was a follower of (of all people) Pelagio.  As a result he was prompty deposed from his position as ‘vescovo’ of Eclanum. He appears to have led an unsettled life thereafter. His works survive in the use made by them by Agostino in “Against Giuliano, the defender of the Pelgagian heresy, and the so-called ‘Incomplete work against Giuliano’ – left unfinished by Agostino. Giuliano strongly opposed Agostino’s convoluted doctrine of the original sins (he said there were many). By contrast, Giuliano entertained a totally positive conception of human nature.

 

Grice e Giulio Cesare – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza.  Giulio Cesare si è voluto collocare tra gli epicurei Giulio Cesare perchè nell’orazione che secondo Sallustio avrebbe tenuto in senato per opporsi alla condanna a morte dei complici di Catilina, nega l'immortalità dell’anima e le pene dell’oltretomba. Però non sappiamo se e fino a qual punto rispecchi il suo pensiero quell’orazione, che, in ogni modo, mirava a impedire l'uccisione dei catiliniani. La divinazzione di Giulio Cesare – La stella raccontata di Ovidio – Ottaviano interpreta la stella di altro modo.  

 

Giulio – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Giulio Giuliano. He was a philosopher from Rome who was killed during an attack on the city.

 

Giunco – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He was the author of a philosophical dialogue about the three ages of man. He was the son-in-law of Tito Vario Ciliano, and took his father in law, himself, and his own son, as models.

 

Grice e Giunio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.  Marco Giunio Bruto minore -- appartene all'Accademia -- cioè effettivamente all’eclettismo con tendenze stoiche di Antioco d’Ascalona -- che, appunto, accetta dottrine derivate dal portico.  In Atene MARCO GIUNIO BRUTO IL MINORE fa studi di filosofia, e in questa ha maestro Aristone.  Nella guerra civile parteggia per Pompeo e combatte a Farsaglia. Ottenne di riconciliarsi con Giulio Cesare. Forma stretti rapporti con Cicerone che gli dedica varie opere ("Brutus", "Paradoxa", "Orator", "De finibus", "Tusculanae", "De natura Deorum." A Cicerone Marco Giunio Bruto dedica il "De virtute." Legato propretore nelle Gallie, pretore urbano, partecipa alla congiura contro Giulio Cesare e fu uno dei suoi uccisori.  Sconfitto a Filippi da Ottaviano, si uccise. Marco Giunio Bruto uno dei maggiori rappresentanti dell’atticismo è oratore insigne. Marco Giunio Bruto scrive lettere (8 a Cicerone ci restano nella corrispondenza di questo), poesie e tre opere morali. Nel "De virtute," MARCO GIUNIO BRUTO difende la teoria dell’auto-sufficienza della virtù.In "Sui doveri" MARCO GIUNIO BRUTO da precetti al fratello sulla sua condotta.Nel "De patientia," tratta di questa. 

 

Grice e Giunio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Giunio Mauricio was a follower of the Porch, and one of the senators who opposed Nerone.

 

Grice e Giunior – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Giunior was a philosopher who wrote, or edited, a short work on geography.

 

Grice e Giussani – dell’amicizia – il comune,  fraternita, liberazione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Desio). Filosofo italiano. Grice: “I like Giussiani; of course at Oxford he would be a no-no, being a Catholic; but he understands the pragmatics of conversation!” Ricevette la prima introduzione dalla madre Angelina Gelosa, operaia tessile; il padre Beniamino, disegnatore e intagliatore, era un socialista. Entra nel seminario diocesano San Pietro Martire di Seveso dove frequenta i primi quattro anni di ginnasio. Si trasferì a Venegono Inferiore, nella sede principale del seminario dove frequenta l'ultimo anno di ginnasio, i tre anni del liceo e dove svolse i successivi studi di filosofia.  Ebbe come docenti, fra gli altri, Colombo, Corti, Carlo, e Figini. In quella sede conobbe i compagni di studio Manfredini e Biffi. Si interessò di Leopardi e delle chiese ortodosse.  Il 26 maggio 1945 Giussani, ventitreenne, ricevette l'ordinazione sacerdotale dal cardinale Ildefonso Schuster.  Dopo l'ordinazione, rimase nel seminario di Venegono come insegnante e si specializzò nello studio della teologia orientale (specie sugli slavofili), della teologia protestante e della motivazione razionale dell'adesione alla Chiesa. Lascia l'insegnamento in seminario per quello nelle scuole superiori. Inizia l'insegnamento della religione nelle scuole superiori a Milano dove fu suo alunno Giorello. Le riunioni di suoi studenti si tennero con il nome di Gioventù Studentesca (GS), che fonda insieme a Ricci e che fece parte dell'Azione Cattolica.  Inizia anche un'attività pubblicistica volta a porre attenzione sulla questione educativa. Redasse la voce "Educazione" per l'Enciclopedia Cattolica.  Sotto  Colombo continuò gli studi di teologia protestante per i quali soggiornò per cinque mesi negli Stati Uniti. Ottenne la cattedra di Introduzione alla Teologia a Milano.:Lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la bellezza di essere cristiani in un'epoca in cui andava diffondendosi l'opinione che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. Giussani s'impegnò allora a ridestare nei giovani l'amore verso Cristo "Via, Verità e Vita", ripetendo che solo Lui è la strada verso la realizzazione dei desideri più profondi del cuore dell'uomo, e che Cristo non ci salva a dispetto della nostra umanità, ma attraverso di essa. Il movimento da lui creato prese il nome di Comunione e Liberazione; ne assunse la guida presiedendone il consiglio generale.  Il Pontificio Consiglio per i Laici riconobbe la Fraternità di Comunione e Liberazione e Giussani ne guidò la Diaconia Centrale. Contribuì alla costituzione della Fondazione Banco Alimentare. Fra le sue numerose opere vi è la trilogia del Per Corso, redatta a partire dagli appunti delle lezioni di religione che aveva tenuto negli anni cinquanta al liceo Berchet e in seguito all'Università Cattolica. L'opera, pubblicata in successive edizioni prima da Jaca e poi da Rizzoli, è composta da “Il senso religioso, All'origine della pretesa cristiana e Perché la Chiesa. Propone la concezione della fede e dell'esperienza cristiana come incontro con Cristo attraverso la Chiesa cattolica. La fede è un «riconoscere una Presenza» ed occupa ogni singolo spazio della vita individuale (i rapporti umani, l'esperienza lavorativa, la vita sociale e politica). Da ciò nasce anche una critica alla ragione illuminista. L'idea della ragione come principale strumento offerto all'uomo nel rapporto con la realtà e della fede come metodo di conoscenza sono le premesse metodologiche per un'analisi dell'esperienza religiosa.  Dopo la morte, sono stati dedicati a Giussani:  Desio: nel paese natale di Giussani, la piazza retrostante il municipio e un monumento opera di Cristina Mariani a Milano: parcoGiussani, in predenza parco Solari Trivolzio: il piazzale adibito all'accoglienza delle auto dei pellegrini alla chiesa parrocchiale che ospita le spoglie di San Riccardo Pampuri. Finale Ligure: l'ultimo tratto del sentiero che porta all'antica chiesa di San Lorenzo di Varigotti: lì si tennero alcuni dei primi incontri di Comunione e Liberazione, che ancora si chiamava Gioventù Studentesca Castronno (VA): un largo presso la rotatoria all'uscita dell'Autostrada dei laghi. Ascoli Piceno: la scuola primaria e dell'infanzia "Giussani". Portofino: la piazzetta del faro Kampala (Uganda): la scuola secondaria Giussani Pozzolengo: il parco comunale adiacente al castello San Leo: un basso-rilievo in bronzo, opera dell'artista riminese Ceccarellia, sulla facciata del convento di Sant'Igne Rimini: la rotonda davanti al Palacongressi, nei pressi dell'area della demolita Fiera dove si sono svolte le prime edizioni del Meeting per l'amicizia fra i popoli Chiavari: un tratto del lungoporto Verona: i giardini presso ponte Garibaldi a Borgo Trento Cinisello Balsamo: un largo urbano nei pressi del comune Segrate: il centro sportivo della frazione di Redecesio Strade comunali sono state intitolate a don Giussani a Cagliari, Morrovalle, Rapallo, Treviglio, Mestre, ecc. La maggior parte delle opere deriva dalla trascrizione di dialoghi, conversazioni e lezioni svolte in pubblico durante raduni, convegni, esercizi spirituali. I suoi libri sono stati pubblicati dall'editore milanese Jaca. Rizzoli ha iniziato a rieditare i testi di Giussani in nuove edizioni aggiornate dotate spesso di un nuovo apparato di note e di nuovi contenuti editoriali e a volte con titoli diversi. Rizzoli ha anche pubblicato le opere inedited e volumi antologici di conversazioni precedentemente disponibili sotto forma di fascicoli pro manuscripto o di redazionali per varie riviste. Volumi di inediti o di riedizioni di  testi sono poi usciti anche per altri editori, tra i quali Marietti,  San Paolo, SEI, Piemme e Messaggero di Sant'Antonio. Trascrizioni di conversazioni e lezioni nel corso di incontri con i responsabili di Comunione e Liberazione, di esercizi spirituali e di incontri con appartenenti ai Memores Domini sono state di norma pubblicate come inserti redazionali o allegate come fascicoletti nelle riviste Tracce (precedentemente nota come CL-Littere Communionis, organo ufficiale del movimento), Il Sabato e 30 giorni nella Chiesa e nel mondo. Un gran numero di questi testi è stato poi pubblicato in volumi antologici.  -- è iniziata la catalogazione sistematica dei testi e degli scritti di Giussani. Giussani Scritti, curato dalla Fraternità di Comunione e Liberazione, inizia la pubblicazione di schede riassuntive dei testi. Ha diretto la collana editoriale I libri dello spirito cristiano per la Biblioteca Universale Rizzoli. La collana e poi sostituita da un'analoga iniziativa sotto il nome di Biblioteca della spirito cristiano, ha pubblicato titoli scelti fra quelli che più hanno segnato l'esperienza di Giussani e di Comunione e Liberazione. Ha diretto la collana discografica Spirto gentil, CD musicali di «introduzione alla musica» con allegato un booklet di norma contenente una nota introduttiva di Giussani, una scheda storica sui compositori o sui musicisti e una guida all'ascolto. Saggi: “Il senso religioso: all'origine della pretesa cristiana, Perché la Chiesa e Il rischio educativo. “Il senso religioso, Jaca, Reinhold Niebuhr, Jaca Teologia protestante, La Scuola Cattolica, Jaca Marietti, “L'impegno del cristiano nel mondo, Jaca, Tracce di esperienza e appunti di metodo cristiano, Jaca Dalla liturgia vissuta: una testimonianza, Jaca, San Paolo, Il rischio educativo, Jaca, SEI, Rizzoli, Tracce d'esperienza cristiana, Jaca Decisione per l'esistenza, Jaca L'alleanza, Jaca Il senso della nascita, colloquio con Testori, BUR Rizzoli, Moralità: memoria e desiderio, Jaca, Alla ricerca del volto umano, Jaca  Rizzoli, Pregare, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La fede e le sue immagini, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La coscienza religiosa nell'uomo moderno, Jaca,  Il senso religioso, PerCorso, Jaca Rizzoli, All'origine della pretesa Cristiana, Jaca Rizzoli, Perché la Chiesa, Jaca, Rizzoli, Un avvenimento di vita, cioè una storia, EDITIl Sabato L'avvenimento cristiano, BUR Rizzoli, Il senso di Dio e l'uomo moderno, BUR Rizzoli, Si può vivere così?, BUR Rizzoli, Rizzoli Il PerCorso, Jaca, Opere: Jaca Book, Il tempo e il tempio, BUR Rizzoli, Realtà e giovinezza: la sfida, SEI; Rizzoli, Il cammino al vero è un'esperienza, SEI, Rizzoli, Le mie letture, Rizzoli, Si può (veramente?!) vivere così?, BUR Rizzoli, Porta la speranza, Marietti Riconoscere una presenza, San Paolo, Lettere di fede e di amicizia a Majo, San Paolo, Generare tracce nella storia del mondo, con Alberto e Prades, Rizzoli, L'uomo e il suo destino, Marietti Scuola di Religione, SEI, L'io, il potere, le opere, Marietti Tutta la terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Che cos'è l'uomo perché te ne curi?, San Paolo, Avvenimento di libertà, Marietti L'opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Il miracolo dell'ospitalità, Piemme,Il Santo Rosario, San Paolo, Egli solo è. Via Crucis, San Paolo, La libertà di Dio, Marietti, Come si diventa cristiani, Marietti La familiarità con Cristo, San Paolo, Vivere intensamente il reale, La Scuola,. Spirto gentil, BUR Rizzoli,. Cristo compagnia di Dio all'uomo, EMessaggero Padova, Collana Quasi Tischreden "Tu" (o dell'amicizia), BUR Rizzoli, Vivendo nella carne, BUR Rizzoli, L'attrattiva Gesù, BUR Rizzoli, L'auto-coscienza del cosmo, BUR Rizzoli, Affezione e dimora, BUR Rizzoli, Dal temperamento un metodo, BUR Rizzoli, Una presenza che cambia, BUR Rizzoli, Collana L'Equipe Dall'utopia alla presenza  BUR Rizzoli, Certi di alcune grandi cose, BUR Rizzoli, Uomini senza patria BUR Rizzoli, Qui e ora BUR Rizzoli, “L'io rinasce in un incontro” BUR Rizzoli, Ciò che abbiamo di più caro, BUR Rizzoli, Un evento reale nella vita dell'uomo BUR Rizzoli, In cammino BUR Rizzoli, Collana Cristianesimo alla prova Una strana compagnia, BUR Rizzoli, La convenienza umana della fede, BUR Rizzoli, La verità nasce dalla carne, BUR Rizzoli, Un avvenimento nella vita dell'uomo, BUR Rizzoli,  Interviste Comunione e Liberazione. Interviste Robi Ronza, Milano, Jaca Book, Un caffè in compagnia. Conversazioni sul presente e sul destino, colloqui conFarina, Milano, Rizzoli. Il fondatore: Comunione e Liberazione. Camisasca "C’altro Sessantotto", da "L'Osservatore Romano" ORIGINE, in Banco Alimentare, Elemedia S.p.A.Area Internet, Il mistero di don Giussani. Rivelato dai suoi scritti, su chiesa.espresso.repubblica. Oggi l'addio a don Giussani Il Tirreno, in ArchivioIl Tirreno. Società Coop. Edit. Nuovo Mondo Via Porpora, Milano Tracce , «Cristo è veramente tutto, è il compiersi dell’umano», su tracce. Repubblica » politica » Milano, i funerali di Don Giussani, su repubblica Milano, profanata la tomba di don Giussani, Corriere della Sera su corriere. Chiesta l'apertura della causa di beatificazione e canonizzazione, in Tracce, Società Coop. Edit. Nuovo Mondo, Passo avanti verso la beatificazione di don Giussani, in Tempi, Società Coop. Edit. Nuovo Mondo, Savorana, Don Luigi Giussani, fondatore di CL, nominato monsignore, in Avvenire, Don Giussani: vince il premio della cultura cattolica, in Adnkronos, Mia giovinezza, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, Premio Isimbardi Città metropolitana di Milano.Tettamanzi, La famiglia a scuola, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, La Festa dello StatutoEdizione Sigilli longobardi, su Consiglio Regionale della Lombardia. Desio, rinasce il monumento per don Giussani a dieci anni dalla scomparsa, in Il Cottadino,  Il parco Solari sarà dedicato a Giussani, in Il Giornale, Tornielli, Don Giussani nel solco di San Pampuri, in La Provincia Pavese, Finale: intitolazione strada a Giussani, in Savona  News, Castronno, intitolata a Don Giussani la nuova rotonda, in Varese News, Emidio Cagnucci, al musicista ascolano intitolata una scuola, in il Quotidiano,Francesca Nacini, Don Giussani «faro» di Portofino, in Il Giornale, Uganda. La Luigi Giussani High School inaugurata a Kampala tra i canti delle donne del Meeting Point, su AVSI, 1Pozzolengo, raid vandalici nei parchi, in qui Brescia, Un bassorilievo per don Giussani a San Leo, in Rimini Today, Rotatoria del Palacongressi dedicata a Don Luigi Giussani, in Altarimini, Chiavari, lungoporto don Giussani per il fondatore di Cl, in Il Secolo XIX, In Borgo Trento giardini intitolati al fondatore di CL, in Verona Notte, Melati, Jaca Santa editrice della rivoluzione, in Il Venerdì di Repubblica, Gruppo Editoriale L'Espresso SpA, Le opere  di Comunione e Liberazione. Chi siamo, su Giussani Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione.  Collana I libri dello spirito cristiano, Comunione e Liberazione. Collana musicale Spirto gentil, di Comunione e Liberazione. Bosco, Giussani, Torino, Elledici, Guy Bedouelle; Graziano Borgonovo; Olivier Clément; Antonio Olinto; Julien Ries, Gli uomini vivi si incontrano: scritti per Giussani, Milanok, Camisasca, Comunione e Liberazione: Le origini Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, Massimo Camisasca, Comunione e Liberazione: La ripresa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,Elisa Buzzi, Scola, Un pensiero sorgivo, Marietti DPerillo, Caro Giussani. Dieci anni di lettere a un padre, Piemme, Camisasca, Comunione e Liberazione: Il riconoscimento, Appendice, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, Farina, Giussani. Vita di un amico, Piemme,  Farina, Maestri. Incontri e dialoghi sul senso della vita, Piemme, Ceglie, Giussani. Una religione per l'uomo, 1ª ed., Cantagalli, AGamba, Allargare la ragione, Vita e Pensiero, Massimo Camisasca, Giussani. La sua esperienza dell'uomo e di Dio,Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,Savorana, Vita di don Giussani, Milano, Rizzoli Editore, Savorana, Un'attrattiva che muove, 1ª ed., Milano, BUR Saggi, Scholz-Zappa, Giussani e Guardini. Una lettura originale, Milano, Jaca Book, Marta Busani, Gioventù studentesca. Storia di un movimento cattolico dalla ricostruzione alla contestazione, Roma, Edizioni Studium, Massimo Camisasca, L'avventura di Gioventù Studentesca, fotografie di Elio Ciol, Milano, Mondadori Electa, G. Paximadi, E. Prato, R. Roux e A. Tombolini, Giussani. Il percorso teologico e l'apertura ecumenica, Siena, Cantagalli Eupress FTL. Scritti di  Giussani, su Giussani Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione. Giussani su Comunione e Liberazione, Fraternità di Comunione e Liberazione. Luigi Giovanni Giussani. Giussiani. Keywords: dell’amicizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giussani” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giusso – gl’eroi – filosofia fascista --  il mistico dell’azione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Giusso: he has explored philosophers from his country like Leopardi and Bruno, and tdhe whole ‘tradizione ermetica nella filosofia italiana,’ but also French – Bergson – and especially “Dutch,” i. e. Deutsche or tedesca – Spengler, and Nietsche – All very Italian!” Nato in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio Giusso e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, uno dei fondatori del quartiere Bagnoli, ne era stato sindaco). Si laurea in filosofia a Napoli sotto Aliotta. Seguì con passione l'attualismo gentiliano e proprio il suo carattere passionale lo portò anche nel campo filosofico ad un tipo di critica "scenografica", così come fu definita. Le sue "frizioni" con Croce, inizialmente orientate su temi politici, presero più tardi una forma "sotterranea", genericamente orientata contro l'idealism. Giusso si richiamava al fatalismo di Leopardi, al demiurgo di Nietzsche, allo storicismo di Dilthey, al nichilismo dello Spengler: e a causa di quest'ultimo, oltre che per la sua interpretazione della Scienza nuova vichiana (che si attirò una severa recensione dello stesso Croce, Giusso fu criticato dall'ambiente crociano. Giusso critico e storico delle idee s'identificava con la visione della vita di autori che sentiva a lui vicini per temperamento ed interessi come Bruno, Vico (dall'analisi degli scritti del quale nacque l'infastidita reazione di Croce), Giacomo, Bacchelli, Barilli, Papini, Soffici, Palazzeschi, Borgese, Gozzano, che molto ispirò la sua composizione poetica Don Giovanni ammalato. I suoi Tafferugli a Montecavallo meriterebbero forse di essere più conosciuti. Tra le due guerre, egli partecipò all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di Croce, da cui molto presto si distaccò (comeTilgher, che egli difese e mostrò di apprezzare) assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare in una fase iniziale, Spengler e Nietzsche.  Intelligenza precoce, prima di intraprendere l'insegnamento universitario che lo avrebbe allontanato da Napoli portandolo ad insegnare Filosofia a Bologna, Pisa, e Cagliari, Giusso avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi quotidiani icome Il Popolo d'Italia, Il Secolo, Il Mattino, Il Resto del Carlino, ed ancora il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di Sicilia, La Stampa ed altri ancora.  Giornali questi dove fu autore di elzeviri, volti alla diffusione dei più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali esponenti, soprattutto scrittori. Nel dopoguerra, superati i miti dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, si riavvicinò alla fede Cristiana. Era sua intenzione realizzare una revisione del pensiero italiano dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico volto a ravvicinare la filosofia della Roma antica e quello cristiano.  In chiave revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di Bruno. Di ritorno da un viaggio nella sua adorata Spagna morì a A Napoli gli venne intitolata una strada.  Saggi: “Le dittature democratiche dell'Italia” (Milano, Alpes); “Leopardi” (Napoli, Guida); “Idealismo e prospettivismo” (Napoli, Guida); “Leopardi e le sue due ideologie” (Firenze, Sansoni); Spengler, Roma, società anonima La nuova antologia, Cadenze di Sigismondo nella Torre, Modena, Guanda); “Vico fra l'Umanesimo e l'Occasionalismo” (Roma, Perrella); “La visione della vita” (Napoli, R. Ricciardi); “Elegie del torso della saggezza mutilata, Milano, Corbaccio); “Il viandante e le statue: saggi sulla letteratura contemporanea, Roma, Cremonese); “Lo storicismo, Milano, Bocca, Gioberti, Milano, A. Garzanti, L'anima e il cosmo, Milano, Bocca,  “La tradizione ermetica nella filosofia italiana” (Milano, Bocca); Due scritti sul nazionalsocialismo, Roma, Settimo Sigillo, Quaderno, Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa,. Tafferugli a Montecavallo, La Finestra, Lavis, Il fascismo e Benedetto Croce, "Gerarchia",  "La Critica", rist. in Nuove pagine sparse, Panteismo e magia in Bruno (Sassari, Scienze e filosofia in Bruno, Napoli Roma,Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corriere della sera, La Fiera letteraria, Giornale di metafisica, F. Bruno,Italia che scrive, Filiasi Carcano, in Logos, IE. Falqui, Di noi contemporanei, Firenze 1940, ad indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo 1954, ad indicem; G. Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, R. Maran, L. G. e la ricerca d'un sistema, in Sophia, A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero, 1° febbr. 1960; G. Toffanin, Nuova Antologia, Boni Fellini, L'Osservatore politico letterario, Diz. della letteratura mondiale, Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiano.  L’Illuminismo oscuro  Lorenzo Giusso, autore e studioso multidisciplinare, ha lasciato ai posteri una sterminata produzione intellettuale, tenuta tuttavia troppo poco in considerazione dal mondo accademico contemporaneo.  Stefano Chemelli  10 articoli  Lorenzo Giusso fu studioso di filosofia. Recinto riduttivo si dirà, ma per lui invece parco multiforme. Ispanista, germanista, francesista. Nato a Napoli il 25 giugno 1900, allievo di Aliotta e Battaglia è precoce critico letterario, si laurea nel 1924, ottiene la libera docenza in Filosofia teoretica e morale ma insegna anche letteratura italiana e francese, storia delle religioni, lingua e letteratura spagnola in diversificate sedi europee. “Tafferugli a Montecavallo” pubblicato da Cappelli nel 1955, uno studio sul barocco romano e il Bernini, “La tradizione ermetica nella filosofia italiana”, le straordinarie conversazioni radiofoniche di “Autoritratto spagnolo” sono appena un accenno a una sterminata produzione redatta nel breve arco di cinquantasette anni.  Sodale di Unamuno e Ortega con i quali ha condiviso amabili conversari, Giusso si è occupato a fondo di Goethe, Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Dostoevskij, Freud, Dilthey, Simmel, Bergson Gioberti, Vico, Bruno. Inoltre fu di Spengler uno dei primissimi esegeti italiani. Dotato di una conversazione che incantava anche il grande Edoardo, complice in gustosi siparietti nei quali De Filippo si trasformava in spettatore, basterebbero le pagine dedicate al Bernini per intuire la rabdomantica agilità di scrittura sempre corroborata da una cultura che poteva reggere l’impulso filologico di un Croce. Nel 1927 dona un’analisi storica poderosa in “Le dittature democratiche dell’Italia”, dal 1876 all’ascesa del fascismo, seguito dalla prima raccolta di scritti letterari che ne connotano le capacità di “viandante” nei diversi giardini del sapere; “Il ritorno di Faust” è del 1929, “Figure di Capri” del 1931, a ruota seguono le pagine sopra Freud, Ortega, Dostoevskij, e soprattutto lo studio su Leopardi.  Copia de "La tradizione ermetica nella filosofia italiana"Copia de “La tradizione ermetica nella filosofia italiana” Stendhal e Nietzsche non escludono l’impegno anche poetico che troverà sfogo in tre raccolte che molto dicono del Giusso più segreto (“Musica in piazza”, “Cadenze di Sigismondo nella torre”, “Elegie del torso della saggezza mutilata”). “Spengler e la dottrina degli universali formali” restituisce in forma autonoma un approfondimento più volte ripreso da Giusso nel decennio dei trenta che costituisce la decade dell’approfondimento filosofico più intenso (Dilthey e Ortega tra gli altri…) e preparatorio al grande volume “Filosofia e immagine cosmica” del 1942 dedicato a Gentile. Due traduzioni spagnole coinvolgeranno gli studi di Giusso rivolte a Vico ma sarebbe urgente dare attenzione alla tradizione ermetica, magari per scoprire che Eugenio Garin l’ha sicuramente letta e ripresa molto più tardi.  “Kulturkritiker universale” lo definì il giovane Piero Buscaroli, allievo devoto a Bologna quando Giusso strabiliava un manipolo di arditi fuoricorso in Estetica e Letteratura spagnola, che mai avrebbero rinunciato alle sue esibizioni in diretta presso l’Alma Mater bolognese, fugacemente ospitati.  Un grande romantico della ispecie dei Kleist, degli Hoederlin, dei Novalis però, poeta dei talami dissacrati che trova negli articoli, nelle corrispondenze, nei taccuini di viaggio infinite suggestioni, il tono di un Giusso confidenziale e descrittivo vicino al lettore non specialista ma disposto a calarsi nell’ambiente e nell’aria, nella luce chiara e tersa di un respiro curioso sino al dettaglio minuto.  Filosofia ed imagine cosmica (1942)Filosofia ed immagine cosmica (1942) Pubblicati recentemente i quaderni spagnoli dalla Università Benincasa, sono ancora inedite le pagine tedesche e austriache, ma esistono anche reportage francesi, nei quali uomini e cose sbalzano con la modestia e la versatilità del carattere e la magnificenza della scrittura. La vita di ognuno non elide né la circostanza né l’astrazione, Giusso è uno dei protagonisti del teatro del mondo che abbiamo ignorato, noi italiani, lui, molto napoletano, ma già europeo, ben oltre l’amatissima Spagna. Un europeo immerso nella musica delle lingue (francese, spagnolo, tedesco…), in Vico e Spengler. Adriano Tilgher, Corrado Alvaro, Giuseppe Toffanin, furono amici veri, fidati, ammirati di un uomo al quale era sconosciuta l’invidia e al contrario era profferta a piene mani una generosa e prodiga liberalità in nome di una poetica propensione al dialogo di un sapere trasversale, comunicativo e incantato nella magia della parola libera, circostanziata, esatta.  Una studiosa di letteratura italiana ha affermato che il più bel libro di Giusso è il quaderno spagnolo, ed ha pure aggiunto che quaderno spagnolo e autoritratto spagnolo coincidono. Alberto Spaini, ma pure Piero Buscaroli che con Maria Giulia Rispoli del Galdo Giusso sono stati tra i conoscitori più profondi di Lorenzo Giusso, difficilmente concorderebbero. Le pagine spagnole, tedesche, austriache servono a entrare nel mondo giussiano, consentono di accedere a una dimensione della cultura che non conosce omologazioni di sorta, schieramenti, posizionamenti di rendita. Permettono di sorridere a fronte di un esteta armato solo di una generosità speciale: cogliendo l’anima dell’umanità in una minuzia necessaria a ritrovare un sentiero precario, attraverso il quale condurre a una visione più ampia, senza dimenticare la poesia della vita. Gioberti come uomo del risorgimento – serie: Uomini del risorgimento. “U=Il fascismo di Benedetto Croce” Gerarchia – “Croce contro Croce” – da Critica fascista – “Gentile, mistico dell’azione, tratto da “Il lavoro d’Italia” – “Gentile, “La Nazione” .  Nacque a Napoli, il 25 giugno 1899, in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, ne era stato sindaco).  Tra il 1917 e il 1924 gli studi del G. presso l'Università di Napoli (dove fu allievo, fra gli altri, di A. Aliotta), coronati dalla laurea in lettere e filosofia, si svilupparono in molteplici direzioni.  Pur destinato a diventare prevalentemente filosofo e storico della filosofia, i suoi non dilettanteschi interessi spaziarono dalla letteratura alla musica, dalla pittura alla filosofia, secondo un percorso eclettico ed estroso, fondato sull'istinto piuttosto che sul metodo, che lo portò a una conoscenza approfondita ed estesissima nei settori più diversi.  Tra le due guerre, egli partecipò all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di B. Croce, da cui molto presto si distaccò (come A. Tilgher, che egli mostrò di apprezzare) assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare, in una fase iniziale, O. Spengler e F. Nietzsche.  Intelligenza precoce, prima di intraprendere l'insegnamento universitario, che lo avrebbe allontanato da Napoli, il G. avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi quotidiani italiani come autore di elzeviri, volti alla diffusione dei più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali esponenti, soprattutto scrittori.  L'attività giornalistica si sviluppò particolarmente negli anni Venti, quando il G., ancora molto giovane, iniziò a collaborare con L'Idea nazionale, Il Popolo d'Italia e Il Secolo, quindi con Il Mattino, come critico letterario; fu poi autore di articoli di viaggio, per il Corriere della sera, e tenne un "Diario critico" per Il Resto del Carlino, pubblicando nel corso degli anni sulla terza pagina di molti quotidiani italiani (Il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di Sicilia, La Stampa e altri ancora), anche se il lavoro propriamente giornalistico rallentò quando prevalse quello universitario.  Nel 1936 ottenne la libera docenza in filosofia teoretica a Napoli, dove l'anno successivo insegnò filosofia morale; le principali tappe del suo percorso universitario - molteplice anche per le numerose discipline di cui si occupò - furono: Cagliari, dove dal 1938 al 1943 insegnò come professore incaricato, ricoprendo, secondo un percorso abbastanza inconsueto e irregolare, le cattedre di filosofia teoretica, letteratura italiana e francese, storia delle religioni; quindi, Bologna, dove, sempre come incaricato, insegnò lingua e letteratura spagnola, infine Pisa. La carriera universitaria del G. non si limitò, comunque, all'Italia: insegnò letteratura italiana a Monaco, a Nizza, a Breslavia, a Debreczen in Ungheria, a Madrid, dove fu "accademico d'onore", e a Barcellona.  Proprio al ritorno da un viaggio in terra spagnola venne colpito dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte.  Il G. morì a Roma l'11 apr. 1957.  Oltre all'attività come giornalista e saggista, il G. aveva pubblicato anche alcune raccolte di poesie: Musica in piazza (Napoli 1930) e Don Giovanni ammalato (ibid. 1932), una rifusione, accresciuta, del primo volume; Cadenze di Sigismondo nella torre, Modena 1939; e, infine, Elegie del torso della saggezza mutilata, Milano 1941: d'intonazione prossima ai crepuscolari le prime, percorse dal senso di una discrepanza tra la piattezza della vita quale ci è data e il desiderio di viverla in modo più libero e pieno; maggiormente legate all'estetismo dannunziano, e insieme non dimentiche del clima d'avanguardia in cui era avvenuta la prima formazione del G., le ultime due.  Saggista acuto, ottimo conversatore, spirito brillante e fortemente antiaccademico, caratterizzato da un sapere enciclopedico, il G. non si legò ad alcuna scelta politica, non appartenne a nessuna scuola di pensiero e non ebbe maestri diretti né discepoli. Dal suo asistematico sforzo di interpretazione della cultura moderna non si può trarre una dottrina unitaria ma soltanto il profilo di un cammino variegato e intenso, che trae origine dalla ricerca di una visione totale dell'esistenza nel fondamentale intento di realizzare un ideale di vita, problema con cui il G. non smise mai di misurarsi, secondo una prospettiva antirazionalista (e implicitamente antidealista).  Allontanatosi molto presto, come si è detto, dal crocianesimo imperante nell'ambiente napoletano, il primo interesse del giovane G. fu per i protagonisti dell'irrazionalismo e del vitalismo eroico, e per il pessimismo cosmico di G. Leopardi (Il ritorno di Faust, Napoli 1929; Leopardi, Stendhal, Nietzsche, ibid. 1933; Tre profili: Dostoevskij, Freud, Ortega y Gasset, ibid. 1933; Leopardi e le sue due ideologie, Firenze 1935); in tempi diversi riunì in raccolte i ritratti degli autori e dei personaggi che più lo avevano interessato (Il viandante e le statue. Saggi sulla letteratura contemporanea, s. 1, Milano 1929; s. 2, Roma 1942).  Nell'ambito di una ricerca più propriamente filosofica, i principali autori di riferimento del G. - che costituirono anche l'oggetto dei suoi studi - furono W. Dilthey (Dilthey e la filosofia come visione della vita, Napoli 1940; Dilthey, Simmel, Spengler, Milano 1944); i già ricordati Nietzsche (Nietzsche, Napoli 1936), Spengler (Spengler e la dottrina degli universali formali, Napoli 1935), e J. Ortega y Gasset.  Il rapporto tra razionalismo e irrazionalismo (e il superamento della loro opposizione) e quello tra scienza e filosofia e vita sono il tema di fondo di quella che probabilmente rimane una delle sue opere più significative, Filosofia ed imagine cosmica (Roma 1940), in cui, in diretto riferimento a G. Vico (si veda anche: G.B. Vico tra umanesimo e occasionalismo, Roma 1940; La filosofia di G.B. Vico e l'età barocca, ibid. 1943), egli delinea una genealogia della filosofia, e in generale dell'attività razionale, a partire dalle istanze vitali e concrete dell'uomo. In Vico, secondo il G., non c'è una filosofia intesa come ontologia e come organo di un conoscere razionale perché i sistemi filosofici riflettono il tentativo di appropriazione verbale del mondo in rapporto a un'originaria intuizione cosmica, così come le scienze e le tecniche non procedono da una razionalità astratta ma dai bisogni dell'uomo sociale, rimandando a un sentimento che è espressione del primitivo legame, non specificamente conoscitivo, che unisce uomo e mondo.  Nel dopoguerra, approfondendo questa tematica e superati i miti dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, il G. si riavvicinò alla fede cristiana; era sua intenzione realizzare una revisione della storia del pensiero italiano dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico volto a ravvicinare il pensiero dell'antichità greco-romana e quello cristiano. In chiave revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di G. Bruno (Scienza e filosofia in Giordano Bruno, Napoli-Roma 1955).  Tra le opere del G., oltre a quelle già citate, si ricordano: Le dittature democratiche d'Italia, Milano 1927; Idealismo e prospettivismo, Napoli 1934; Lo storicismo tedesco: l'anima e il cosmo, Roma 1947; Bergson, Milano 1948; Vincenzo Gioberti, ibid. 1948; Spagna e antispagna: saggisti e moralisti spagnoli, Mazara del Vallo 1952; La tradizione ermetica nella filosofia italiana, Trapani 1955; Tafferugli a Montecavallo, Bologna, 1955; Origene e il Rinascimento, Roma 1957; postumo: Autoritratto spagnolo, a cura di A. Spaini, Torino 1959.  Fonti e Bibl.: Necr. in Corriere della sera, 12 apr. 1957; La Fiera letteraria, 21 apr. 1957; Giornale di metafisica, XI (1957), 5, p. 634; F. Bruno, L. G., in Italia che scrive, IV (1934); P. Filiasi Carcano, in Logos, II (1940); E. Falqui, Di noi contemporanei, Firenze 1940, ad indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna 1954, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo 1954, ad indicem; G. Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, 11 maggio 1957; R. Maran, L. G. e la ricerca d'un sistema, in Sophia, XXV (1958), 3-4, pp. 265-267; A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero, 1° febbr. 1960; G. Toffanin, G. e Ortega, in Nuova Antologia, ottobre 1960, pp. 262 ss.; P. Boni Fellini, G. dieci anni dopo, in L'Osservatore politico letterario, giugno 1967; Diz. della letteratura mondiale del '900, sub voce.  Panteismo tipo di teismo Lingua Segui Modifica Il panteismo (πάν (pán) = tutto e θεός (theós) = Dio, vuol dire letteralmente "Dio è Tutto" e "Tutto è Dio") è una visione del reale per cui ogni cosa è permeata da un Dio immanente o per cui l'Universo o la natura sono equivalenti a Dio (Deus sive Natura).  Definizioni più dettagliate tendono ad enfatizzare l'idea che la legge naturale, l'esistenza e l'universo (la somma di tutto ciò che è e che sarà) siano rappresentati nel principio teologico di un 'dio' astratto piuttosto che una o più divinità personificate di qualsiasi tipo. Questa è la caratteristica chiave che distingue il panteismo dal panenteismo e dal pandeismo. Ne deriva che molte religioni, pur reclamando elementi panteistici, sono in realtà per natura più panenteiste e pandeiste.  Michael Levine, nel suo libro Panteismo, lo definisce «una concezione non-teistica della divinità».[1] In senso lato, con "panteismo" si intende ogni dottrina filosofica che identifichi Dio con il mondo o con il principio che lo regge. Per l'esattezza, il concetto di Dio-Uno-Tutto si presenta in due versioni: quella "cosmistica", la quale afferma "Dio è nel Tutto", e quella "acosmistica" (il termine è di Hegel), la quale afferma "Il Tutto è in Dio". Nel primo caso, come nello stoicismo, Dio impregna e pervade l'universo in ogni sua parte; nel secondo caso, come nello spinozismo, l'universo in ogni sua parte rifluisce e si scioglie in Dio, quale Uno-Tutto.  Storia del panteismoModifica Il termine "panteista" (dal quale la parola "panteismo" è derivata) fu usato propriamente per la prima volta dal filosofo irlandese John Toland nella sua opera Socinianism Truly Stated, by a pantheist, del 1705. Comunque, il concetto era stato discusso già al tempo dei filosofi della Grecia antica, da Talete, Parmenide ed Eraclito. I presupposti ebraici del panteismo possono essere ricercati nella Torah stessa, nel racconto della Genesi e nei suoi primi materiali profetici, nei quali chiaramente gli "atti di natura" (come inondazioni, tempeste, vulcani, etc.) sono tutti identificati come "la mano di Dio" attraverso idiomi di personificazione, così spiegando gli aperti riferimenti al concetto, sia nel Nuovo Testamento, che nella letteratura cabalistica.  Nel 1785 sorse una consistente controversia tra Friedrich Heinrich Jacobi e Moses Mendelssohn, che infine coinvolse molte importanti persone del tempo. Jacobi affermava che il panteismo di Lessing era materialistico, per il fatto che considerava tutta la natura e Dio come una sola sostanza estesa. Per Jacobi, esso non era altro che il risultato della devozione alla ragione, tipicamente illuminista, che avrebbe condotto all'ateismo. Mendelssohn espresse il suo disaccordo, asserendo che il panteismo era teistico.  Il Panteismo di EraclitoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Eraclito. Il panteismo è un componente della dottrina del filosofo greco Eraclito, secondo cui il divino è in tutte le cose ed è identico al mondo nella sua interezza. Questa concezione porta a identificare il divino con l'Universo, facendolo divenire quindi l'Unità di tutti i contrari, il Fuoco generatore.  Il Dio-tutto di Eraclito ha in sé tutte le cose ed è una realtà eterna. Eraclito sembra rifarsi alla teoria della cosmologia ciclica, poiché la sua concezione della realtà è simile a un insieme di fasi alterne: un ciclo distruttivo-produttivo, che verrà sviluppato in seguito dagli Stoici.  Il Panteismo degli StoiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Stoicismo. Il panteismo stoico è una delle più compiute espressioni di esso, dove Dio è la ragione e l'intelligenza che lo determina e lo permea. Il Dio stoico, quindi, non si identifica con l'universo, ma lo permea come suo fondamento e ragion d'essere.  Il Panteismo di PlotinoModifica Si è parlato spesso impropriamente di panteismo in Plotino. In realtà, secondo Plotino, Dio non è solo immanente, ma anche trascendente. Come ha evidenziato anche Giovanni Reale, l'Uno, il Dio plotiniano, pur permeando di sé ogni realtà, ne è superiore. Plotino dice infatti chiaramente che l'Uno, «in quanto principio di tutto, non è il tutto». Con questa affermazione egli sembra prendere in contropiede, quasi le prevedesse, le interpretazioni immanentistiche e panteiste del suo pensiero.  Il Panteismo di BrunoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Giordano Bruno. La visione di Bruno può essere considerata un panteismo del Dio-Infinità ed ha alcuni caratteri del panpsichismo. Nella filosofia di Giordano Bruno, i cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i princìpi della realtà naturale.  Forma universale del mondo è l'anima del mondo, la cui prima e principale facoltà è l'intelletto universale, il quale «empie il tutto, illumina l'universo e indirizza la natura a produrre le sue specie».  La materia è il secondo principio della natura, dalla quale ogni cosa è formata: «come nell'arte, variandosi in infinito le forme, è sempre una materia medesima che persevera sotto quella, come la forma dell'albore è una forma di tronco, poi di trave, poi di tavolo, poi di sgabello, e così via discorrendo, tuttavolta l'esser legno sempre persevera; non altrimenti nella natura, variandosi in infinito e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una medesma la materia».  Discende da questa considerazione l'elemento fondamentale della filosofia bruniana: tutta la vita è materia, materia infinita. Nella sua concezione, anche la Terra è dotata di anima.  Egli in De l'infinito, universo e mondi scrive:   «Io dico Dio tutto infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità dell'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all'infinito, possono esser chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello.»  (G. Bruno, Dialoghi metafisici, Firenze, Sansoni 1985, p. 382) Il Panteismo di SpinozaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Baruch Spinozae Monismo panteistico. La tesi centrale del pensiero di Baruch Spinoza è l'identificazione panteistica o, meglio, immanentistica di Dio con la Natura (Deus sive Natura) ed in essa convergono i temi ed i motivi appartenenti alle tradizioni culturali più disparate, la teologia giudaica, la filosofia ellenistica, la filosofia neoplatonica-naturalistica del Rinascimento, il razionalismocartesiano ed il pensiero arabo, ed infine le sfumature di Thomas Hobbes.  Spinoza concepisce un Dio coniugato con l'unità e la necessità e perciò:   «Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita, esiste necessariamente. Se lo neghi, concepisci, se è possibile, che Dio non esista. Dunque (per l'As.7) la sua essenza non implica l'esistenza. Ma questo (per la Prop.7) è assurdo: dunque Dio esiste necessariamente.»  (B. Spinoza, Etica, Roma, Editori Riuniti 2004, p.94) Ne consegue la dimostrazione di ciò che Dio è:   «Tutto ciò che è, è in Dio: Dio però non si può dire cosa contingente. Infatti esiste necessariamente, e non in modo contingente. Inoltre, i modi della divina natura sono seguiti da essa anche necessariamente e non in modo contingente e ciò o in quanto si considera la divina natura assolutamente oppure in quanto la si considera determinata ad agire in un certo modo. Inoltre, di questi modi Dio è causa non soltanto perché semplicemente esistono in quanto li si considera determinati a fare qualcosa. Poiché se non sono determinati da Dio, è impossibile e non contingente che determinino se stessi; e al contrario se sono determinati da Dio, è impossibile, e non contingente, che rendano se stessi indeterminati. Per cui tutte le cose sono determinate dalla necessità della divina natura non soltanto ad esistere, ma anche ad esistere e agire in un certo modo, e non si dà nulla di contingente.»  (B. Spinoza, Etica, cit., p. 110) Questa concezione fa sì che il Dio di Spinoza (ma non meno quello degli Stoici), per qualche filosofo contemporaneo, risulti essenzialmente un impersonale Dio-Necessità, contrapponibile al Dio-Volontà come persona divina tipica dei monoteismi.  DescrizioneModifica Tipi di panteismoModifica Si possono distinguere tre gruppi di panteisti:  panteismo classico, che si esprime attraverso l'immanente Dio del Giudaismo, Induismo, Monismo, neopaganesimo e delle dottrine New Age, generalmente considerando Dio come personificazione o manifestazione cosmica; panteismo biblico, che è espresso negli scritti della Bibbia; panteismo naturalistico, basato sulle, relativamente recenti, visioni di Baruch Spinoza (che potrebbe essere stato influenzato dal panteismo biblico) e John Toland (che coniò il termine "panteismo"), così come sulle influenze contemporanee. La maggioranza delle persone che possono identificarsi come "panteiste" appartengono al tipo classico (come gli Indù, i Sufi, gli Unitaristi, i neopagani, i seguaci della New Age, etc), mentre molte persone che identificano se stesse come panteiste (non essendo membri di un'altra religione) appartengono al tipo naturalista. La divisione tra le tre branche del panteismo non sono completamente chiare in tutte le situazioni, rimanendo dei punti di controversia nei circoli panteisti. I panteisti classici generalmente accettano la dottrina religiosa secondo cui ci sarebbe una base spirituale per tutta la realtà; mentre i panteisti naturalisti generalmente non concordano, piuttosto intendendo il mondo in termini più naturalistici. La confusione tra i concetti di panteismo e ateismo è un problema antico in linguistica. Gli antichi romani si riferivano ai primi cristiani come atei e le spiegazioni di questo fenomeno semantico possono variare.  Metodi di spiegazioneModifica Una caratteristica spesso citata del panteismo è che ogni essere umano, essendo parte dell'universo o della natura, è parte di Dio. Uno dei problemi discussi dai panteisti è come possa esistere il libero arbitrio in un contesto simile. In risposta, qualche volta è data la seguente analogia (particolarmente dai panteisti classici): "stai a Dio come una tua singola cellula sta a te".  L'analogia sostiene anche che, sebbene una cellula possa essere cosciente del suo ambiente e abbia persino qualche scelta (libero arbitrio) tra giusto e sbagliato (uccidere un batterio, divenire cancerogena o non fare semplicemente niente), ha presumibilmente una comprensione limitata dell'essere più grande, di cui fa parte. Un altro modo di comprendere questo tipo di relazione è tramite la frase indù tat tvam asi - "quello che sei", in cui l'anima/essenza umana o Ātmanè intesa medesima di Dio o Brahman. Nel contesto indù, si crede che il singolo debba essere liberato attraverso l'illuminazione (moksha), in modo da sperimentare e capire pienamente questa relazione: la parte diventa non dissimile dal tutto.  Non tutti i panteisti accettano l'idea del libero arbitrio, dato che il determinismo è largamente diffuso, particolarmente presso i panteisti naturalistici. Sebbene le interpretazioni individuali del panteismo possano suggerire certe implicazioni per la natura e l'esistenza del libero arbitrio e/o determinismo, il panteismo non implica il requisito di credere in entrambi. Comunque, il problema è largamente discusso ed è presente in molte altre religioni e filosofie.  DibattitoModifica Alcuni sostengono che il panteismo è poco più che una ridefinizione della parola "Dio" per definire "esistenza", "vita" o "realtà". Molti panteisti direbbero che, se fosse così, un tale cambiamento nel modo in cui pensiamo a queste idee servirebbe a creare una nuova e potenzialmente più perspicace concezione sia dell'esistenza, che di Dio.  Forse il più significativo dibattito all'interno della comunità panteistica è quello riguardante la natura di Dio. Il panteismo classico crede in un Dio personale, cosciente e onnisciente e vede questo Dio come unificante di tutte le vere religioni. Il panteismo naturalistico crede invece in un Universo non cosciente e non senziente che, sebbene sacro e meraviglioso, è visto come un Dio in senso non tradizionale e non personale.  I punti di vista compresi all'interno della comunità panteista sono necessariamente diversi, ma l'idea centrale, che vede l'Universo come un'unità onnicomprensiva e la sacralità sia della natura che delle sue leggi, è comune. Alcuni panteisti sostengono, inoltre, un fine comune di natura e uomo, sebbene altri rifiutino l'idea di un fine e vedano l'esistenza come esistente di per sé.  Concetti panteistici nella religioneModifica InduismoModifica È generalmente riconosciuto che i testi religiosi indù sono i più antichi conosciuti in letteratura contenenti idee panteistiche.[2] Nella teologia indù, Brahman è la realtà infinita, immutabile, immanente e trascendente che è il Divino Terreno di tutte le cose nell'Universo e che è anche la somma totale di tutte le cose che sono, sono state e saranno. Questa idea di panteismo è rintracciabile in alcuni testi più antichi come i Veda e gli Upanishad e nella più tarda filosofia Advaita. Tutti i Mahāvākya degli Upanishad, in un modo o nell'altro, sembrano indicare l'unità del modo con Brahman.  Chāndogya Upanishad dice "Tutto in questo Universo in realtà è Brahman; da lui esso procede; all'interno di lui è dissolto; in lui respira, così lasciate che ognuno lo adori tranquillamente". Inoltre dice: "Tutto l'Universo è Brahman, da Brahman a una zolla di terra. Brahman è la causa efficiente e materiale del mondo. Egli è il vasaio da cui si forma il vaso; egli è la creta con il quale è fabbricato. Tutto proviene da Lui, senza perdita o diminuzione della fonte, come la luce irradiata dal sole. Ogni cosa è unita entro Lui ancora, come le bolle che esplodono si uniscono all'aria, come i fiumi sfociano negli oceani. Tutto proviene e ritorna a Lui, come la tela di un ragno è fabbricata e ritratta dal ragno stesso."[3] Negli inni del Rig Veda, una traccia di pensiero panteista può essere riconosciuta nel libro decimo (10-121).  Questa concezione di Dio lo vede come l'unità, con gli dei personali e individuali aspetto dell'Unico, sebbene differenti divinità siano viste da diversi fedeli come particolarmente adatte alle loro preghiere. Come il sole emana raggi di luce che provengono dalla stessa fonte, lo stesso avviene dagli sfaccettati aspetti di Dio emanati da Brahman, come più colori dallo stesso prisma. Il Vedānta, specificatamente l'Advaita, è una branca della filosofia indù che pone grande accento su questa materia. Molti aderente vedantici sono monistio "non-dualisti, vedendo le molteplici manifestazioni di un solo Dio o della fonte dell'essere, una visione che è spesso considerata dai non induisti come politeista.  Il panteismo è la componente chiave della filosofia Advaita. Altre suddivisione dei Vedanta non sostengono in maniera peculiare le stesse istanze. Per esempio, la scuola Dvaita di Madhvacharya ritiene che Brahman sia il Dio esterno personale Vishnu, laddove invece le scuole Rāmānuja sposano il Panenteismo.  EbraismoModifica Il senso radicalmente immanente del divino nella mistica ebraica (Kabbalah) si ritiene abbia ispirato la formulazione del panteismo da parte di Spinoza. Nonostante ciò, la teoria di Spinoza non è stata recepita dall'Ebraismo ortodosso. D'altro canto, Schopenhauer sosteneva che il panteismo spinoziano fosse una conseguenza della lettura di Nicolas Malebranche da parte del filosofo olandese: Malebranche insegna che tutto ciò che osserviamo è in Dio stesso. Ciò equivale a voler spiegare qualcosa di ignoto mediante qualcosa di ancor più oscuro. Inoltre, secondo Malebranche noi non solo vediamo tutto in Dio, ma Dio è anche l'unica attività, sicché le cause fisiche sono mere occasionalità (Ricerca della verità, Libro VI, seconda parte, cap. 3.). E così qui rinveniamo essenzialmente il panteismo di Spinoza che pare abbia appreso più da Malebranche che da Descartes. (Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Vol. I, "Schizzo di una storia della teoria dell'ideale e del reale"). Inoltre, Israel ben Eliezer, fondatore dello Chassidismo, aveva un senso mistico del divino che può essere definito come Panenteismo.  Secondo l'ebraismo biblico l'origine dell'Universo si è basata sulla Torah (legge) della natura. Pertanto la Torah originale non è rinvenibile negli scritti di Mosè, bensì nella natura stessa. "Interpretare" la Torah della natura equivale ad "interpretare" la Torah della rivelazione e teoricamente alla fin fine coincideranno l'una con l'altra [come si dimostra ad esempio con la scoperta del Big Bang nel 1965]. L'ortodossia rabbinica considerando questa posizione come una discrepanza, allo scopo di porre la Torah scritta al di sopra di quella data per prima in natura, ha sostenuto che la Torah scritta precedette la creazione, infatti a partire dalla Torah scritta che Dio "ha parlato" nella creazione. Questa posizione non è accolta dai panteisti biblici.  Maimonide, benché Ortodosso, nei suoi scritti sulla riconciliazione fra le sacre scritture e la scienza, accolse l'opinione dell'equivalenza fra la Torah della natura e la Torah delle scritture e trovò la sua logica come inevitabile. Queste tesi, senza dubbio, servirono da sfondo per lo sviluppo delle teorie di Baruch Spinoza.  CristianesimoModifica Vi è un certo numero di tradizioni minori nell'ambito della storia del Cristianesimo secondo le quali le origini del loro credo panteistico sono da rintracciare nel Nuovo Testamento ed in altre correlate tradizioni ecclesiastiche. La diversità di questo punto di vista è rintracciabile a partire dai primi Quaccheri sino ai successivi Unitaristi e fino ad arrivare alle stesse principali denominazioni del cattolicesimo tradizionale e del protestantesimo liberale.  Altre fonti includono la  Teologia del processo, la Spiritualità della Creazione, i Fratelli del libero spirito, altri ancora ne sostengono la presenza fra gli Gnostici. Tale idea ha avuto, per qualche tempo, aderenti in vari segmenti del Cristianesimo.  Alcuni Cristiani considerano la Trinità in questo significato: lo Spirito Santo tiene insieme l'Universo e personifica se stesso come il Padre, che a sua volta personifica se stesso come il Figlio dentro questo Universo (ciò significa che il Padre è al di fuori dell'Universo, del Tempo e dello Spazio). Secondo altri, lo Spirito Santo è consapevole e utilizzabile e per questo è usato da Dio per benedire la gente con i Doni dello Spirito Santo. Tutti i poteri sovrannaturali si ritiene che siano possibili anche dal binomio Universo/Spirito Santo.  I panteisti di religione cristiana asseriscono che l'origine del loro credo è rintracciabile nelle Sacre Scritture, nel Vecchio Testamento come nel Nuovo ed attenuano le difficoltà che i teologi della Chiesa Apostolica Romana hanno sempre cercato di "risolvere" nei concili sul tema della Trinità e della Natura di Cristo come il Verbo (solo il panteismo fornisce una formulazione per il Cristo come "Verbo" di Dio e per l'unità del Monoteismo).  Il parificare nella Bibbia Dio agli atti della natura e la definizione di Dio data nello stesso Nuovo Testamento forniscono un persuasivo richiamo verso questo sistema di credenze.  I panteisti cristiani sostengono che la definizione cattolica di Dio fu pesantemente influenzata da fonti non bibliche, tra queste in particolar modo il Neo-Platonismo, che consideravano Dio come qualcosa che "esiste" fuori dalla "esistenza", pertanto la definizione di "Dio" si riferiva ad un qualcosa "che non esiste", cioè, ad un Dio non-esistente. È proprio questa basilare definizione neo-platonica di non-esistenza che i panteisti cristiani ritengono biasimevole e contraria alle scritture.  Agostino rigettò il panteismo per i seguenti motivi:  Ma c'è un motivo che, al di là di ogni passione polemica, deve indurre uomini intelligenti o comunque siano, perché all'occorrenza non si richiede un'alta intelligenza, a fare una riflessione. Se Dio è la mente del mondo e se il mondo è come un corpo a questa mente, sicché è un solo vivente composto di mente e di corpo ed esso è Dio che contiene in se stesso tutte le cose come in un grembo della natura; se inoltre dalla sua anima, da cui ha vita tutto l'universo sensibile, vengono derivate la vita e l'anima di tutti i viventi secondo le varie specie, non rimane nulla che non sia parte di Dio. Ma se questa è la loro tesi, tutti possono capire l'empietà e la irreligiosità che ne conseguono. Qualsiasi cosa si pesti, si pesterebbe una parte di Dio; nell'uccidere qualsiasi animale, si ucciderebbe una parte di Dio. Non voglio dir tutte le cose che possono balzare al pensiero. Non è possibile dirle senza vergogna.[4] come pure:  Riguardo allo stesso animale ragionevole, cioè l'uomo, la cosa più banale è ritenere che una parte divina prende le botte quando le prende un fanciullo. E soltanto un pazzo può sopportare che le parti divine divengano dissolute, ingiuste, empie e in definitiva degne di condanna. Infine perché il dio si arrabbierebbe con coloro che non lo onorano se sono le sue parti a non onorarlo?[5] Nel Vangelo secondo Tommaso (considerato apocrifodai Cristiani), Gesù disse:  Io sono la Luce: quella che sta sopra ogni cosa; io sono il Tutto: il Tutto è uscito da me e il Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e io sono là; solleva la pietra e là mi troverai.[6] Tuttavia questa è un'affermazione dell'onnipresenza di Dio, non in senso panteistico, ma in armonia con l'insegnamento che ogni apparenza fenomenica è riflesso della luce divina. informazioni Questa voce o sezione sull'argomento religione non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La maggioranza dei Musulmani condanna il concetto di panteismo e lo considera come un insegnamento non-Islamico. Tuttavia, il Sufismo è ritenuto dai musulmani contenere insegnamenti panteistici.  Il Sufismo può essere suddiviso nelle seguenti categorie:  Sufismo originario - Sincretico: Mescola insieme dottrine e concetti dell'Islam con credenze e pratiche religiose locali dei paesi Orientali e Occidentali. Lo si pratica in paesi non-Islamici. Sufismo ḥadīth - Tradizionale: è l'Islam con un'enfasi sulle forme ortodosse della spiritualità e del misticismo Islamico. Essenzialmente ortodosso e considerato prevalentemente come una subcultura nei paesi Islamici. Sunniti o Sciiti. Sufismo Coranico - Coranico: Si attiene strettamente a quanto scritto nel Corano compreso il profetismo e non accetta i più recenti ḥadīth come altrettanto ispirati dalla tradizione. È considerato non-ortodosso o come una forma di neo-ortodossia ed è praticato soprattutto nell'occidente islamico. Ha subito influenze dal concetto di riforma e restaurazione del Protestantesimo. Né il Sunnismoné il Sciismo sono da considerare come forme di ḥadīth. Il concetto di Panteismo si può rinvenire in ciascuno dei suddetti tipi di Sufismo, a differenza della maggioranza ortodossa dell'Islam, esso è molto diverso ed accentua l'esperienza e la conoscenza spirituale personale ed individuale. Le fonti dell'interpretazione panteistica differirebbero a seconda della tradizione cui fanno capo. Il Sufismo originario risentirebbe ovviamente dei testi orientali, il Sufismo ḥadīth sarebbe influenzato dagli studiosi Islamici del regno del Solimano, il Sufismo Coranico vedrebbe lo stesso Corano come la continua rivelazione e la personificazione linguistica è interpretata in modo coerente con i profeti biblici. La maggioranza dei Musulmani Ismailiti è panteista, o per essere più precisi, Panenteista.  Gli scritti di Seth e il PanteismoModifica Il concetto di Panteismo è parte integrante di molte delle credenze religiose e delle filosofie della New Age; la sua differenza rispetto al panenteismo è sostenuta in modo specifico negli scritti di Seth come presentati dalla medium Jane Roberts (1929-1984). Seth, l'"entità" cui da voce la Roberts, diceva che Dio è formato di energia mentale, e questa energia mentale è la sostanza che dà vita a tutti gli esseri e a tutte le cose; la coscienza di Dio è veicolata da questa energia, per cui la coscienza di Dio è onnipresente. Seth spesso si riferiva a Dio come a "Tutto ciò che è" e diceva che "Tutte le facce appartengono a Dio". Seth descriveva Dio come una forma contenente tutti gli individui al suo interno; inoltre aggiungeva che Dio si conosce come è, ma anche si conosce come ciascun individuo. Tuttavia, questo insegnamento ha molto in comune con il correlato concetto di panenteismo, dato che pone in risalto la personificazione di Dio e quindi si trasforma in un teismo.  Altre religioniModifica Molti elementi panteistici sono presenti in alcune forme di Buddismo, Neopaganesimo, e Teosofiainsieme a molte variabili denominazioni. Si veda anche la Neopagana Gaia e la Church of All Worlds.  Molti Universalisti si considerano panteisti.  Il filosofo Paul Carus si definiva "un ateista che ama Dio". Egli criticò ogni forma di monismo che cercava l'unità del mondo non nell'unità della verità bensì nella unicità di una logica supposizione di idee. Carus definiva tali concetti come "henismo". Il Taoismo propugna una visione panteistica. Il "Tao" potrebbe essere paragonato al "Deus-sive-Natura" di Spinoza.  Concetti connessiModifica PanenteismoModifica Il Panteismo e il panenteismo presentano aspetti comuni ma non coincidono: il primo vede l'universo pieno di Dio il secondo lo vede come parte di Dio. Filosoficamente, però, i due concetti sono ben distinti. Mentre per il panteismo Dio è sinonimo della natura, per il panenteismo, invece, Dio è superiore alla natura e la include. È la ragione per cui Hegel definiva quello spinoziano un panteismo acosmistico (senza mondo).  Per alcuni tale distinzione è inutile, mentre altri la considerano un significativo punto di divisione. Molte delle maggiori fedi descritte come panteistiche potrebbero essere descritte anche come panenteistiche, al contrario ciò non è possibile per il panteismo naturalistico (perché non considera Dio come superiore alla sola natura). Per esempio, elementi appartenenti al panenteismo ed al panteismo si rinvengono nell'Induismo. Certe interpretazioni dei testi Bhagavad Gita e Shri Rudram Chamakam sostengono questo punto di vista.  CosmismoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Cosmismo e World Brain. Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento filosofia è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Mentre questo termine è raramente usato, e molto spesso è solo un sinonimo di Panteismo, l'insolita filosofia da esso indicata è stata utilizzata in modo piuttosto differente, ma in ogni caso con essa si vuole esprimere il concetto che Dio è un qualcosa creato dalla mente umana, forse rappresenta uno stadio finale della evoluzione dell'uomo, raggiunto attraverso la pianificazione sociale, l'eugenetica e altre forme di ingegneria genetica.  H. G. Wells diede vita a una forma di cosmismo, che denominò World Brain ("Cervello mondiale"), rifacendosi a un saggio da lui pubblicato nel 1937, in cui viene tra l'altro descritta la creazione di una biblioteca-enciclopedia. Tale idea venne ripresa nel libro God the Invisible King,[7] in cui l'autore consiglia all'umanità di istituire un sistema socialista, strutturandolo sui dati statistici sociali ed eugenetici, sull'istruzione e l'eugenetica, in modo che un giorno idealmente possa essere alla pari e possibilmente anche fondersi con la stessa divinità panteista, e anche in alcuni paragrafi di Outline of History, che richiamavano tali credenze dell'autore e le sue ricerche sull'insegnamento di Gesù e di Buddha. Queste idee vengono riprese nel suo libro Shape of Things to Come e nel film da esso tratto nel 1936 Things to Come; in essi viene descritta l'umanità che, sopravvivendo ad una guerra apocalittica e a un prolungato periodo Feudale, si unisce per dar vita ad una utopia collettivista.  In Israele, il Cosmismo è stato oggetto di studio da parte di Mordekhay Nesiyahu, uno dei primi ideologi del Movimento Laburista Israeliano e docente presso l'Università di Beit Berl. Secondo questo autore Dio è qualcosa che non esisteva prima dell'uomo, ma era una entità secolare. Infatti fu la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme ad avere un ruolo nell'"invenzione" di questa entità.  Nel XX secolo, lo statunitense  William Luther Pierce, un nazionalista bianco iscritto nel Partito Nazista Americano e, a sua volta, fondatore del movimento Alleanza Nazionale, utilizzò il termine "Cosmismo". Per Pierce (così come per Wells), Dio sarebbe il risultato finale dell'eugenetica e dell'igiene razziale (Si veda: Nazismo, Francis Galton e Teosofia).  La "Noosfera" descritta da Vladimir Vernadsky e da Pierre Teilhard de Chardin potrebbe essere considerata come la descrizione di una divinità Cosmistica, come anche la coscienza collettiva di Émile Durkheim e l'inconscio collettivo di Carl Gustav Jung.  Arthur C. Clarke fa un possibile riferimento alla Noosfera Cosmista nel suo libro del 1953 Childhood's End (tradotto in italiano con il titolo Le guide del tramonto), riferendosi ad essa come la "Overmind", una mente alveare interstellare.   PandeismoModifica Il Pandeismo è una specie di Panteismo che include una forma di Deismo, sostenendo che l'Universo è identico a Dio, ma anche che Dio precedentemente fu una forza cosciente e senziente ovvero una entità che progettò e creò l'Universo. Diventando l'Universo, Dio divenne inconscio e non senziente. A parte questa distinzione (e la possibilità che l'Universo un giorno ritornerà ad essere Dio), le credenze Pandeistiche sono identiche a quelle del Panteismo.  EticaModifica Secondo Schopenhauer, nel panteismo non vi è etica. Il panteismo, nel suo complesso, naufragherebbe a fronte delle inevitabili esigenze etiche e quindi non avrebbe risposte sul male e sulle sofferenze del mondo. Se il mondo è una teofania, allora ogni cosa fatta dagli uomini, ed anche dagli animali, è da considerarsi parimenti divina ed eccellente; niente può essere giudicato più censurabile e più meritevole rispetto ad ogni altra cosa; quindi non vi è etica. (Il mondo come volontà e rappresentazione, Vol. II, Cap. XLVII)  Tuttavia, alcuni panteisti sostengono che il punto di vista panteista è molto più etico, evidenziando che ogni danno arrecato all'altro è come fare male a se stessi, perché arrecare danno ad uno è come arrecare danno a tutti. Ciò che è bene e ciò che è male non dipende da qualcosa al di fuori di noi, ma è il risultato di come ci rapportiamo gli uni con gli altri. Il fare bene non si deve basare sulla paura di una punizione da parte di Dio, bensì deve scaturire da un reciproco di tutti verso tutto.  Le forme tradizionali e le varie definizioni di panteismo, comunque, rinviano ai loro testi sacri e ai loro maestri per le definizioni di ordine etico.  NoteModifica ^ ( EN ) Michael P. Levine, Pantheism: A Non-Theistic Concept of Deity, Londra e New York, Routledge, 1994. Trad. italiana Il Panteismo. Una concezione non-teistica della divinità, Genova, ECIG, 1995, ISBN 88-7545-671-2. ^ Constance E. Plumptre, General Sketch of the History of Pantheism, Londra, W. W. Gibbings, 1878, vol. 1, p. 29. ^ Chandogya Upanishad 3-14 traduzione di Monier-Williams ^ La Città di Dio, Libro 4, Cap. 12. ^ La Città di Dio, Libro 4, Cap. 13. ^ Testo del Vangelo secondo Tommaso ^ God the Invisible King Voci correlateModifica Dio Monismo Monoteismo Teismo Deismo Pandeismo Panenteismo Naturalismo (filosofia) Panpsichismo Panteismo naturalistico Panteismo classico Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su panteismo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su panteismo Collegamenti esterniModifica panteismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Panteismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Panteismo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata ( EN ) William Mander, Pantheism, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. Giuseppe Tanzella-Nitti, Panteismo del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, su disf.org. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 29848 · LCCN( EN ) sh85097492 · GND ( DE ) 4173188-8 ·J9U ( EN ,  HE ) 987007560641905171 (topic) ·NDL ( EN ,  JA ) 00562946   Portale Filosofia   Portale Mitologia   Portale Religioni Ultima modifica 4 mesi fa di Luca M PAGINE CORRELATE Monismo (religione) Panenteismo scuola filosofica  Panteismo naturalistico Wikipedia Lorenzo Giusso. Giusso. Keywords: gl’eroi, il vico di giusso, la tradizione ermetica nella filosofia italiana, nazionalsocialismo, bruno, panteismo, leopardi, occasionalismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giusso” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giustino – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Giustino is cited by Ippolito di Roma as the originator of what Ippolito describes as a pagan form of gnosticism in which a wide variety of disparate elements are brought together.

 

Grice e Giustino – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Giustino studied various schools of philosophy with his friend Trifone, but couldn’t decide. He showed his scepticism in a letter to Antonino Pio. He irated Crescente, who had a mob killed him.

 

Grice e Givone – fanes – filosofia italiana – Luigi Speranza -- Givone (Buronzo). Filosofo italiano.  Grice: “I like Givone, especially his two essays on ‘eros’: ‘eros and ethos’ and the more controversial, ‘eros and knowledge.’ Si laurea Torino sotto Pareyson. Insegnato a Perugia, Torino e Firenze. Alcuni suoi lavori riguardano la poetica e l’estetica all’ombra del nichilismo. Da questa riflessione nasce anche la sua ricerca sulla “Storia naturale del nulla” --  e sulle implicazioni sullo tragico. In sua estetica e forte è ancora il richiamo filosofico. Il malinconico, ‘l’ibrido – Saggi: “La storia della filosofia secondo Kant” (Milano, Mursia); “Hybris e malinconia: Studi sulle poetiche del Novecento” (Milano, Mursia); “William Blake. Arte e religione, Milano, Mursia, “Ermeneutica e romanticismo, Milano, Mursia, Dostoevskij e la filosofia, Roma, Laterza, Storia dell'estetica, Roma, Laterza, Disincanto del mondo e il tragico, Milano, Il Saggiatore,  La questione romantica, Roma, Laterza, Storia del nulla, Roma, Laterza, Favola delle cose ultime, Torino, Einaudi, Eros/ethos, Torino, Einaudi, Nel nome di un dio barbaro, Torino, Einaudi,  Prima lezione di estetica, Roma, Laterza, Il bibliotecario di Leibniz. Torino, Einaudi,  Non c'è più tempo, Torino, Einaudi, Metafisica della peste. Colpa e destino, Torino, Einaudi, Luce d'addio. Dialoghi dell'amore ferito, Firenze, Olschki,  Sull'infinito, il Mulino, Pantragismo. Treccani. Grice: “I like Givone; he philosophises on ‘eros,’ but fails to notice that for Butler there’s self-love and other love; instead, Givone prefers to contrast ‘eros’ with ‘ethos’!” “His ramblings on Phanes are fun, though!” – Grice: “Not satisfied with metaphysics, Givone goes to criticize Marinetti’s hybris, or superbia, i. e. lack of moderation. His ottimismo notably contrasts with the decadentismo of the croposcolaristi.  Futurismo movimento artistico, culturale, musicale e letterario italiano Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Futurismo (disambigua). Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento arte è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Il Futurismo è stato un movimento letterario, culturale, artistico e musicale italiano dell'inizio del XX secolo[1], nonché una delle prime avanguardieeuropee. Ebbe influenza su movimenti affini che si svilupparono in altri paesi d'Europa, in Russia, Francia, negli Stati Uniti d'America e in Asia. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione: la pittura, la scultura, la letteratura (poesia) al teatro, la musica, l'architettura, la danza, la fotografia, il cinema e persino la gastronomia. La denominazione del movimento si deve al poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti[1].   Umberto Boccioni La città che sale, bozzetto, 1910 Museum of Modern Art, New York OriginiIl manifesto del Futurismo pubblicato su Le Figaro del 20 febbraio 1909 (qui evidenziato in giallo) Il Futurismo nasce in Italia, in un periodo di notevole fase evolutiva dove tutto il mondo dell'arte e della cultura era stimolato da numerosi fattori determinanti: le guerre, la trasformazione sociale dei popoli, i grandi cambiamenti politici e le nuove scoperte tecnologichee di comunicazione, come il telegrafo senza fili, la radio, gli aeroplani e le prime cineprese; tutti fattori che arrivarono a cambiare completamente la percezione delle distanze e del tempo, "avvicinando" fra loro i continenti, creando nuove connessioni.  Il XX secolo era quindi invaso da un nuovo vento, che portava una nuova realtà: la velocità. I futuristi intendevano idealmente "bruciare i musei e le biblioteche" in modo da non avere più rapporti con il passato per concentrarsi così sul dinamico presente; tutto questo, come è ovvio, in senso ideologico. Le catene di montaggio abbattevano i tempi di produzione, le automobili aumentavano ogni giorno, le strade iniziarono a riempirsi di luci artificiali, si avvertiva questa nuova sensazione di futuro[1] e velocità sia nel tempo impiegato per produrre o arrivare a una destinazione, sia nei nuovi spazi che potevano essere percorsi, sia nelle nuove possibilità di comunicazione.[2]    Gino Severini racconta che quando venne in contatto con Marinetti per decidere se aderire o meno al Futurismo parlò anche con Amedeo Modigliani, che egli avrebbe voluto nel gruppo, ma il pittore declinò l'offerta perché come scrisse:   «Queste manifestazioni non gli andavano, il complementarismo congenito lo fece ridere, e con ragione, perciò invece di aderire mi sconsigliò di mettermi in quelle storie; ma io avevo troppa affezione fraterna per Boccioni, inoltre ero, e sono sempre stato pronto ad accettare l'avventura […]»  (Gino Severini, Vita di un pittore) Primo Futurismo «Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro…»  (dal Manifesto dei pittori futuristi, febbraio 1910) Una scazzottata futurista A seguito di una serie di articoli critici di Ardengo Sofficisu La Voce vi fu una reazione violenta dei futuristi: Marinetti, Boccioni e Carrà raggiunsero Soffici a Firenze e lo aggredirono mentre sedeva al caffè delle "Giubbe Rosse" in compagnia dell'amico Medardo Rosso. Ne nacque una grande pubblicità e un grande tumulto rinnovatosi alla sera, alla stazione di Santa Maria Novella, quando Soffici, accompagnato dagli amici Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper e Alberto Spaini, volle rendere la contropartita.   «Fu una vera spedizione punitiva, che mi fu raccontata da Boccioni e, più tardi, da Soffici. I futuristi appena arrivati a Firenze vanno al Caffè delle Giubbe Rosse, dove sapevano di trovare Soffici, Papini, Prezzolini, Slataper, e tutti redattori della Voce. Boccioni domanda ad un cameriere: «Chi è Soffici?»; sull'indicazione ottenuta si avvicina Soffici e senza spiegazioni gli appioppa un paio di schiaffoni; Soffici per niente smontato si alza risponde con una scarica di pugni. Parapiglia generale, tavole seggiole per terra, bicchieri rotti e questurini che portano tutti al commissariato. Per fortuna caddero in un commissario intelligente che capisce con chi aveva a che fare; visto che Soffici e quelli della Voce non volevano far querela d'aggressione, li rimandò tutti fuori come se niente fosse stato. I futuristi, vendicate le ingiurie, andarono alla stazione dove un treno, pressappoco a quell'ora, doveva riportarli a Milano. Ma quelli della Voce, malgrado si fossero ben difesi, non erano contenti affatto, perciò si recarono in fretta anch'essi alla stazione. Mentre il treno stava per arrivare ebbe luogo un altro incontro, e un altro violento pugilato, che, per poco, faceva restare a piedi futuristi. Ma fecero in tempo a prendere il treno, un po' ammaccati, ma soddisfatti.»  (Gino Severini, Vita di un pittore) Nel Manifesto Futurista (1909), pubblicato inizialmente in vari giornali italiani (la Tavola Rotonda di Napoli, la Gazzetta dell'Emilia di Bologna, la Gazzetta di Mantovae L'Arena di Verona) e, definitivamente, due settimane dopo sul quotidiano francese Le Figaro il 20 febbraio 1909[3], Filippo Tommaso Marinetti espose i principi-base del movimento. Poco tempo dopo a Milano nel febbraio 1910 i pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo firmarono il Manifesto dei pittori futuristi e nell'aprile dello stesso anno il Manifesto tecnico della pittura futurista[4]. Nei manifesti si esaltava la tecnica e si dichiarava una fiducia illimitata nel progresso, si decretava la fine delle vecchie ideologie (bollate con l'etichetta di "passatismo", tra cui figura anche il Parsifal di Wagner, che a partire dal 1914 cominciò a essere rappresentato nei teatri d'Europa). Si esaltavano inoltre il dinamismo, la velocità, l'industria, il militarismo, il nazionalismo e la guerra, che veniva definita come "sola igiene del mondo".   Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini a Parigi per l'inaugurazione della prima mostra del 1912 La prima importante esposizione futurista si tenne a Parigi presso la galleria Bernheim-Jeune dal 5 al 24 febbraio 1912. All'inaugurazione della mostra erano presenti Marinetti, Boccioni, Carrà, Severini e Russolo. L'accoglienza iniziale fu fredda, ma nelle settimane successive il movimento suscitò un certo interesse divenendo presto oggetto di attenzioni internazionali tanto da favorire la riproposizione della mostra anche in altre città europee come Berlino[5].  La riconciliazione con i futuristi avvenne in seguito, grazie alla mediazione dell'amico Aldo Palazzeschi. Nel 1913 infatti, Soffici e Papini uscendo da La Vocedecisero di fondare la rivista Lacerba appoggiando così il movimento futurista[6].  Alla morte di Umberto Boccioni nel 1916, Carrà e Severini si ritrovarono in una fase di evoluzione verso la pittura cubista, di conseguenza il gruppo milanese si sciolse spostando la sede del movimento da Milano a Roma, con la conseguente nascita del "secondo Futurismo".  Secondo FuturismoIn prima fila Depero, Marinetti e Cangiullo nel 1924 con panciotti "futuristi" Il secondo Futurismo fu sostanzialmente diviso in due fasi. La prima andava dal 1918, due anni dopo la morte di Umberto Boccioni, al 1928 e fu caratterizzata da un forte legame con la cultura post-cubista e costruttivista; la seconda invece, dal 1929 al 1939, fu molto più legata alle idee del surrealismo. Di questa corrente - che si concluse attraverso il cosiddetto "terzo Futurismo", portando anche all'epilogo del Futurismo stesso - fecero parte molti pittori fra cui Fillia (Luigi Colombo), Enrico Prampolini, Filiberto Sbardella[7], Nicolay Diulgheroff, Wladimiro Tulli ma anche Mario Sironi, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Carlo Vittorio Testi e la moglie Fides Stagni.[8]  Se la prima fase del Futurismo fu caratterizzata da un'ideologia guerrafondaia e fanatica (in pieno contrasto con altre avanguardie) ma spesso anche anarchica, la seconda stagione ebbe un effettivo legame con il regime fascista, nel senso che abbracciò gli stilemi della comunicazione governativa dell'epoca e si valse di speciali favori.  I futuristi di sinistra, generalmente meno noti nel panorama culturale italiano dell'epoca, comunque, costituirono quella parte del Futurismo collocata politicamente su posizioni vicine all'anarchismo e al bolscevismo anche quando il movimento con i suoi fondatori e personaggi ritenuti principali fu fagocitato dal fascismo.  Anche se la gerarchia fascista riservò ai futuristi coevi una sottovalutazione talvolta sprezzante, l'osservazione dei principi autoritaristici e la poetica interventista del Futurismo furono quasi sempre presenti negli artisti del gruppo, fino a che alcuni di questi non abbracciarono altri movimenti e presero le distanze dall'ideologia fascista (Carlo Carrà, ad esempio, abbracciò la metafisica). Altri ancora, come il giovane pittore maceratese Wladimiro Tulli, mantennero costantemente un approccio giocoso e libertario, che poco aveva a che fare con l'estetica fascista, anche nelle successive esperienze di pittura informale.[9]  Futurismo russoNatalia Goncharova Il ciclista, 1913 Museo russo, San Pietroburgo Manifesto futurista di Marinetti era stato pubblicato a San Pietroburgo appena un mese dopo l'uscita su Le Figaro, e già negli anni 1911 e 1912 Natal'ja Sergeevna Gončarova e Michail Fëdorovič Larionov, che in patria verrà definito il "padre del Futurismo russo", furono i concreti iniziatori del movimento in Russia.  Nel 1913 il pittore Kazimir Severinovič Malevič, il compositore Michail Matjušin e lo scrittore Aleksej Eliseevič Kručënych redassero il manifesto del Primo congresso Futurista russo. Al movimento, conosciuto anche come Cubofuturismo o Raggismo, aderirono personalità come il poeta e drammaturgo Vladimir Vladimirovič Majakovskij.  Nel gennaio 1914 Marinetti stesso si recò a Mosca. Dal movimento d'avanguardia futurista nacquero negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione del 1917 due importanti avanguardie artistiche, il Costruttivismo e il Suprematismo. L'attenzione che i giornali e il pubblico dedicarono a Marinetti fu enorme, ma non ci fu la stessa attenzione da parte dei futuristi russi, alcuni dei quali tentarono anche di ostacolare la visita di Marinetti. Altri invece, come Sersenevič, furono più ospitali e cordiali. Il temperamento e le declamazioni di Marinetti riscossero successo ovunque; ma Marinetti tentò invano di chiamare i futuristi russi ad unire le forze con i futuristi italiani, perché i maggiori poeti russi, Chlebnikov, Livsič, Majakovskij e anche il regista Larionov criticarono Marinetti.[senza fonte] L'ultima "mostra futurista" si tenne nel 1915 a Pietrogrado.  In Russia il movimento non fu caratterizzato dal bellicismo come quello dei futuristi italiani, criticato da Majakovskij, ma fu accompagnato da un'utopica idea di pace e libertà, sia individuale (dell'artista), sia collettiva (del mondo), che si sarebbe concluso con l'adesione di una parte del gruppo al bolscevismo. Dopo la rivoluzione d'ottobre molti futuristi confluirono nel cubismo e nell'astrattismo.  Futurismo francese In Francia il Futurismo non si organizzò mai come movimento, ma ebbe almeno due nomi degni di nota: Guillaume Apollinaire e Valentine de Saint-Point.  Apollinaire scrisse il manifesto L'antitradition futuriste(29 giugno 1913), pubblicato su Lacerba solo il 25 settembre dopo le aggiunte e le correzioni di Marinetti. I successivi Calligrammes (1918) rivelano la chiara influenza del paroliberismo futurista sul poeta francese.  Valentine de Saint Point, nipote di Lamartine, scrisse il Manifesto della donna futurista, (1912) con il sottotitolo “Risposta a F. T. Marinetti”, in un volantino pubblicato simultaneamente a Parigi e a Milano. Del 1913 è il Manifesto futurista della lussuria.  Orientamenti artistici Nelle opere futuriste è quasi sempre costante la ricerca del dinamismo; cioè il soggetto non appare mai fermo, ma in movimento: ad esempio, per loro un cavallo in movimento non ha quattro gambe, ne ha venti. Così la simultaneità della visione diventa il tratto principale dei quadri futuristi; lo spettatore non guarda passivamente l'oggetto statico, ma ne è come avvolto, testimone di un'azione rappresentata durante il suo svolgimento.  Per rendere l'idea del moto nelle arti visive tradizionali, immobili per costituzione, il Futurismo si serve, nella pittura e nella scultura, principalmente delle “linee-forza”; poiché la linea agisce psicologicamente sull'osservatore con significato direzionale, essa, collocandosi in varie posizioni, supera la sua essenza di semplice segmento e diventa “forza” centrifuga e centripeta, mentre oggetti, colori e piani si sospingono in una catena di “contrasti simultanei”, determinando la resa del “dinamismo universale”.  PitturaJoseph Stella Battle of Lights, Coney Island, Mardi Gras, 1913-14 Yale University Art Gallery Nel 1910 a Milano i giovani artisti d'Italia avevano pubblicato i manifesti sulla pittura futurista. Boccioni si occupò principalmente del dinamismo plastico e sintetico e del superamento del cubismo, mentre Balla passò dallo studio delle vibrazioni luminose (divisionismo) alla rappresentazione sintetica del moto[10]. Nel 1912 Boccioni, Carrà e Russolo esposero a Milano le prime opere futuriste alla "Mostra d'arte libera" nella fabbrica Ricordi.  Il Futurismo diede il meglio di sé nelle espressioni artistiche legate alla pittura, al mosaico e alla scultura, mentre le opere letterarie e teatrali, ma anche architettoniche, non ebbero la stessa immediata capacità espressiva.  Le radici del fermento che portò alla declinazione del Futurismo nell'arte si possono riconoscere, artisticamente parlando, già nella Scapigliatura - corrente tipicamente milanese e borghese della seconda metà dell'Ottocento - laddove il Futurismo distoglie con disprezzo l'attenzione dalla raffinata borghesia per concentrarsi sulla rivoluzione industriale, sulle fabbriche.  Dal punto di vista stilistico il Futurismo - in particolare quello boccioniano - si basa sui concetti del divisionismo che però riesce ad adattare per esprimere al meglio gli amati concetti di velocità e di simultaneità: è grazie ad artisti come Giovanni Segantini e Pellizza da Volpedo che, pochi anni dopo, il futurista Umberto Boccioni poté realizzare dipinti come La città che sale.   Opera futurista di Emma Marpillero Corradi Dal punto di vista concettuale, il Futurismo naturalmente non ignora i principi cubisti di scomposizione della forma secondo piani visivi e rappresentazione di essi sulla tela. Cubista è senz'altro la tecnica che prevede di suddividere la superficie pittorica in tanti piani che registrino ognuno una diversa prospettiva spaziale. Tuttavia, mentre per il cubismo la scomposizione rende possibile una visione del soggetto fermo lungo una quarta dimensione esclusivamente spaziale (il pittore ruota intorno al soggetto fermo cogliendone ogni aspetto), il Futurismo utilizza la scomposizione per rendere la dimensione temporale, il movimento.  Altrettanto interessanti sono i rapporti stilistici tra il Futurismo boccioniano e il cubismo orfico di Robert Delaunay.  Non mancarono relazioni complesse tra i futuristi italiani e i più importanti esponenti delle avanguardie russe e tedesche.[11]  Equiparare, infine, la ricerca futurista dell'attimo con quella impressionista, come è stato fatto in passato, è ormai considerato profondamente errato. Se è vero infatti che gli impressionisti fecero dell'"attimalità" il nucleo della loro ricerca - loro scopo era fermare sulla tela un istante luminoso, unico e irripetibile - la ricerca futurista si muoveva in senso quasi opposto: suo scopo era rappresentare sulla tela non un istante di movimento ma il movimento stesso, nel suo svolgersi nello spazio e nel suo impatto emozionale.  Come conseguenza dell'"estetica della velocità", nelle opere futuriste a prevalere è l'elemento dinamico: il movimento coinvolge infatti l'oggetto e lo spazio in cui esso si muove. Il dinamismo dei treni, degli aeroplani (Aeropittura), delle masse multicolori e polifoniche e delle azioni quotidiane (del cane che scodinzola andando a spasso con la padrona, della bimba che corre sul terrazzo, delle ballerine) è sottolineato da colori e pennellate che mettano in evidenza le spinte propulsive delle forme. La costruzione può essere composta da linee spezzate, spigolose e veloci, ma anche da pennellate lineari, intense e fluide se il moto è più armonioso.  Tra gli epigoni più interessanti del Futurismo, l'avanguardia russa del raggismo e del costruttivismo. Le tecniche pittoriche futuriste sono state riassunte nei due manifesti sulla pittura dei primi mesi del 1912.  Due tra i principali esponenti del movimento pittorico, Umberto Boccioni e Giacomo Balla, furono presenti anche nella scultura. La pittura di Boccioni è stata definita "simbolica": il dipinto La città che sale (1910), per esempio, è una chiara metafora del progresso, dettato dal titolo e dalle scene di cantiere edile sullo sfondo, esemplificate nella loro vorticosa crescita dalla potenza del cavallo imbizzarrito, un vortice di materia che si scompone per piani. Se Boccioni è simbolico, Balla è fotografico e analitico. Ancora legato a principi cubisti, non è raro che realizzi sequenze fotogrammetriche di una scena, per rendere il movimento, piuttosto che affidarsi a impetuosi vortici di pittura: è il caso del posato Bambina che corre al balcone (1912).  SculturaUmberto Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio, 1913 New York, Museum of Modern Art L'artista futurista più attivo nel campo della scultura è Umberto Boccioni, la cui ricerca pittorica corre sempre parallela a quella plastica.  Nel 1912, lo stesso Boccioni pubblica il Manifesto tecnico della scultura futurista. Punto di arrivo di questa ricerca può essere considerato Forme uniche della continuità nello spazio, del 1913: l'immagine, applicando le dichiarazioni poetiche di Boccioni stesso, è tutt'uno con lo spazio circostante, dilatandosi, contraendosi, frammentandosi e accogliendolo in sé stessa.  Anche in L'Antigrazioso o La madre, immediatamente precedente, sono presenti parametri scultorei simili a Forme uniche nella continuità dello spazio, ma con ancora non risolti alcuni problemi di plasticità derivanti da influssi naturalistici.  MosaicLa tecnica del mosaico, basata sull'utilizzo di tessere ceramiche e vitree, si è prestata molto bene a esprimere i modi e il dinamismo intesi dall'arte futurista.  Enrico Prampolini e Fillia eseguono l'importante mosaico dedicato al tema delle Comunicazioniall'interno della torre del Palazzo delle Poste di La Spezia (1933).  Alcuni anni più tardi Gino Severini esegue altri mosaici per le Poste di Alessandria. La tradizione musiva di Ravenna continua con mosaici futuristi di autori vari (Palazzo del Mutilato, fine anni quaranta).  ArchitetturaMagnifying glass icon mgx2.svg. Lo stesso argomento in dettaglio: Architettura futurista. «Il problema dell'architettura moderna non è un problema di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di dover trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane (…): ma di creare di sana pianta la casanuova, costruita tesoreggiando ogni risorsa della scienza e della tecnica…»  (Antonio Sant'Elia, dal Messaggio posto a prefazione della mostra del gruppo Nuove Tendenze del 1914)  Antonio Sant'Elia, una veduta prospettica della Città Nuova. 1914  Sant'Elia, Casa a Gradinate la Città Nuova. 1914  Arnaldo Dell'Ira lampada "a grattacielo", 1929  Giuseppe Pettazzi  Stazione di servizio "Fiat Tagliero", 1938 Asmara Nel 1912 Antonio Sant'Elia, che divenne l'architetto più rappresentativo del movimento, era ancora distante dai futuristi ed era piuttosto legato nel movimento del cosiddetto Stile floreale. In quegli stessi anni a Milanoera attivo Giuseppe Sommaruga e questi sembra che avesse esercitato una grande influenza sulla formazione del Sant'Elia, infatti, per esempio, molti elementi dinamici del futurista furono anticipati nel Grand Hotel Campo dei Fiori di Varese[12].  All'inizio del 1914 Sant'Elia pubblicò il Manifesto dell'Architettura futurista, dove esponeva i principi di questa corrente. Al centro dell'attenzione c'è la città, vista come simbolo della dinamicità e della modernità. Tutti i progetti creati da Sant'Elia si riferiscono a città del futuro: in contrapposizione all'architettura tradizionale, vista come inadeguata, le città idealizzatedagli architetti futuristi hanno come caratteristica fondamentale il movimento, i trasporti e le grandi strutture. I futuristi, infatti, compresero immediatamente il ruolo centrale che i trasporti avrebbero assunto successivamente nella vita delle città. Nei progetti di questo periodo si cercavano sviluppi e scopi di questa novità. L'utopia futurista è una città in perenne mutamento, agile e mobile in ogni sua parte, un continuo cantiere in costruzione, e la casa futurista allo stesso modo è impregnata di dinamicità.  Anche l'utilizzo di linee ellittiche e oblique simboleggia questo rifiuto della staticità per una maggior dinamicità dei progetti futuristi, privi di una simmetriaclassicamente intesa.  Le teorie futuriste sull'architettura erano principalmente ideologiche ed erano espressione di un atteggiamento intellettualistico ma senza riferimenti a metodi formali e tecnici, tuttavia anticiparono i grandi temi e le visioni dell'architettura e della città che saranno proprie del Movimento Moderno[13].  A causa della guerra e dopo la morte di Boccioni e Sant'Elia il movimento futurista in Italia perse il suo slancio. Dopo il 1919 l'originaria proposta futurista dei primi tempi fu raccolta piuttosto dai costruttivisti russi. Il movimento razionalista italiano cercherà di proporre gli scenari della Città Nuova delle utopie futuriste ma il regime fascista smorzerà questi tentativi privilegiando un monumentalismo legato alla tradizione classicista. Lo stesso avvenne in Unione Sovietica con il sopravvento del regime totalitario.  Tra i grandi esponenti dell'architettura da ricordare Mario Chiattone, che visse con Sant'Elia a Milano, condividendone le linee teoriche e sviluppando straordinarie visioni di città del futuro, prima di trasferirsi in Svizzera e abbandonare la militanza. E infine Virgilio Marchi, che operò anche come scenografo.  Al Secondo Futurismo appartengono le architetture di Angiolo Mazzoni, autore di notevoli edifici postali e ferroviari, ancora oggi validamente in funzione in diverse città italiane.  CeramicaPer le sue possibilità espressive, anche la ceramica interessa il movimento futurista. In particolare i ceramisti dell'ISIA espressero lavori in sintonia con il nuovo movimento. Il 7 settembre 1938 sulla Gazzetta del Popolo a firma Filippo Tommaso Marinetti e di Tullio d'Albisola viene pubblicato il Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica. Fin dal 1925 il centro propulsore della ceramica futurista italiana fu Albissola Marina.  Musica Modifica In campo musicale gli unici rappresentanti di rilievo furono Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo, pittore, musicista e scrittore, autore del saggio L'arte dei rumori pubblicato nel 1916. L'arte dei rumori è considerata da alcuni autori uno dei testi più importanti e influenti nell'estetica musicale del XX secolo.[14] A Russolo si deve l'invenzione dell'Intonarumori, uno strumento che usava per mettere in pratica la sua teoria del rumorismo, ovvero di una musica nella quale ai suoni dovevano essere sostituiti i rumori. Essi erano formati da generatori di suoni acustici che permettevano di controllare la dinamica e il volume.  Letteratura Modifica  Da sinistra: Aldo Palazzeschi, Carlo Carrà, Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Filippo Tommaso Marinetti, 1914 Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Letteratura futurista e Filippo Tommaso Marinetti. A fine gennaio 1909 Filippo Tommaso Marinetti inviava il Manifesto del Futurismo ai principali giornali italiani, ma è la pubblicazione su Le Figaro il 20 febbraio 1909a garantirgli risonanza europea. Nel 1912, sulla rivista fiorentina "Lacerba", comparve il "Manifesto tecnico della letteratura futurista"[15]. Del 1914 è il volume Zang Tumb Tumb, miglior esempio delle futuriste Parole in libertà.  Poesia. I poeti futuristi si riuniranno attorno alla rivista Poesiafondata da Marinetti qualche anno prima. Nei componimenti si trova generalmente l'esaltazione del futuro e delle sensazioni forti associate alla velocità e alla guerra. Gli esponenti più noti, oltre al Marinetti, sono: Aldo Palazzeschi, autore della raccolta poetica L'incendiario[16] (che include "La fontana malata", "E lasciatemi divertire" e "La passeggiata"); Ardengo Soffici, autore di Bif& ZF + 18 = Simultaneità – Chimismi lirici; Paolo Buzzi, autore di Aeroplani. Canti alati. Anche Salvatore Quasimodo aderì, in gioventù, al Futurismo (ricordiamo la sua poesia "Sera d'estate")[17]. A un successivo momento del Futurismo marinettiano appartiene l'Aeropoesia.  TeatroModifica Magnifying glass icon mgx2.svLo stesso argomento in dettaglio: Teatro futurista. I futuristi perseguirono la rifondazione del concetto stesso di comunicazione teatrale. Promossero un teatro «sintetico, atecnico, dinamico, simultaneo, autonomo, alogico e irreale», dove « è stupido» non ribellarsi al pregiudizio della teatralità, soddisfare la primitività delle folle, curarsi della verosimiglianza, voler spiegare con una logica minuziosa tutto ciò che si rappresenta, sottostare alle imposizioni del crescendo, della preparazione e del massimo effetto alla fine, lasciare imporre alla propria genialità il peso di una tecnica che tutti possono acquisire, rinunciare «al dinamico salto nel vuoto della creazione totale».  I futuristi, infatti, possedettero una «invincibile ripugnanza» per il lavoro studiato a tavolino, a priori, sostenendo l'improvvisazione, il teatro come «serbatoio inesauribile di ispirazioni».  «Tutto è teatrale quando ha valore»  (Il teatro futurista sintetico di Marinetti, Settimelli e Corra[18]) Il teatro futurista promosse anche la commedia e la farsa, anziché la tragedia, o il dramma borghese. Tuttavia, nelle serate futuriste, non era inusuale vedere il pubblico adirato a causa di spettacoli fatti di azioni deliranti. Le cronache dell'epoca riportano notizie relative agli attori futuristi che sfuggono all'ira degli spettatori, spesso provocata ad arte secondo gli intenti espressi nel Manifesto futurista del teatro di varietà.  CinemaMagnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Cinema futurista. Nel 1916 venne pubblicato il Manifesto della Cinematografia futurista, firmato da Filippo Marinetti, Bruno Corra, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla, Remo Chiti ed Emilio Settimelli, che sosteneva come il cinema fosse "per natura" arte futurista, grazie alla mancanza di un passato e di tradizioni. Essi non apprezzavano il cinema narrativo "passatissimo", cercando invece un cinema fatto di "viaggi, cacce e guerre", all'insegna di uno spettacolo "antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero". Nelle loro parole c'è tutto un entusiasmo verso la ricerca di un linguaggio nuovo slegato dall'estetica tradizionale, che era percepita come un retaggio vecchio.  I futuristi, per allontanare il cinema dal passato, ripudiavano tutto ciò che era convenzionalmente accettato come affascinante e bellissimo dalla borghesia, usando quindi come soggetti figure distorte (che verranno riprese anche dall'espressionismo tedesco come manifestazione della perdita di speranza della popolazione dopo la prima guerra mondiale), colori forti ecc. Molte opere cinematografiche futuriste sono andate perdute durante la guerra, tra cui Vita futurista, pellicola nella quale alcuni uomini disturbavano e poi scappavano velocemente alcuni turisti nei bar di Firenze.  Tra le opere rinvenute di questo movimento, ci è pervenuta la tragedia Tahïs del 1916 di Bargaglia e la romantica Amor pedestre del 1914 del comico Marcel Fabre, nel quale viene proposta una relazione non corrisposta tutta raccontata inquadrando i protagonisti dal ginocchio in giù (cortometraggi rintracciabili su YouTube).  Gastronomia Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Cucina futurista. Grazie alla completezza di questo movimento, ne venne influenzata anche la gastronomia. Nel 1914 il cuoco francese Jules Maincave aderì al Futurismo, proponendo quindi l'accostamento di nuovi sapori ed elementi fino ad allora "separati senza serio fondamento". Questo comprendeva accostamenti come filetto di montone e salsa di gamberi, noce di vitello e assenzio, banana e groviera, aringa e gelatinadi fragola.  Il 20 gennaio 1931 Marinetti pubblicò il Manifesto della cucina futurista sulla rivista Comoedia. Secondo Marinetti bisognava eliminare la pastasciutta, così come forchetta e coltello e condimenti tradizionali, e incoraggiare l'accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi.  Scrive Marinetti:  «(...) vi annuncio il prossimo lanciamento della cucina futurista per il rinnovamento totale del sistema alimentare italiano, da rendere al più presto adatto alle necessità dei nuovi sforzi eroici e dinamici imposti dalla razza. La cucina futurista sarà liberata dalla vecchia ossessione del volume e del peso e avrà, per uno dei suoi principi, l'abolizione della pastasciutta. La pastasciutta, per quanto gradita al palato, è una vivanda passatista perché appesantisce, abbrutisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti. È d'altra parte patriottico favorire in sostituzione il riso.»  Nel suo tempo È normale che il Futurismo, nascendo in un'epoca di transizione, abbia avuto molteplici contraddizioni. All'immobilismo scolastico e accademico ereditato dalle "tre corone" della poesia decadente (Carducci, Pascoli e D'Annunzio) i futuristi oppongono la dinamicità, la demolizione all'armonia, e alla raffinatezza contrappongono il disordine delle parole. Gli elementi suddetti richiamano alle caratteristiche del Futurismo più importanti[19]: esse rientrano appieno nello spirito culturale della belle époque che precedette lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.  Secondo i futuristi, questi poeti devono essere completamente rinnegati perché incarnano esattamente i quattro ingredienti intellettuali che il Futurismo vuole abolire:  la poesia morbosa e nostalgica; il sentimento romantico; l'ossessione della lussuria; la passione per il passato. In contraddizione con il Futurismo è stata anche la corrente crepuscolare. Infatti il crepuscolarismo, nonostante condivida con il Futurismo l'idea di interartisticità, ha però una concezione della vita completamente diversa:  i futuristi inneggiano alle innovazioni, i crepuscolari sono avversi a una modernità che aliena l'individuo i futuristi sono prepotenti, dinamici, chiassosi, i crepuscolari assumono toni dimessi, pacifici e malinconici i futuristi esaltano il caos e le attività delle grandi città, i crepuscolari amano l'intimità, le "piccole cose di pessimo gusto", gli affetti familiari e una vita tranquilla i futuristi sono sempre protesi verso un "domani" esaltante, i crepuscolari guardano al passato e alle piccole cose quotidiane.  Scultura futurista  esposta a Milano in Piazzetta Reale per il centenario del movimento Nelle arti figurative invece si presenta il confronto con le altre avanguardie, Cubismo, Astrattismo, Dada, Surrealismo, Metafisica, ognuna delle quali caratterizzata da propri temi e propri linguaggi espressivi. L'opera futurista è in evidente contrasto per alcuni temi con molte delle altre avanguardie sebbene condividano tutte l'intuizione di trasmettere attraverso l'arte un impulso di trasformazione della società e di rinnovamento. Aspetto specifico del Futurismo è quello di non limitare la propria azione alle espressioni artistiche (come il Cubismo o la Metafisica), ma di prospettare la re-invenzione dell'intera vita, in ogni suo aspetto (e uno dei manifesti maggiormente rilevanti fu infatti "Ricostruzione futurista dell'universo" di Balla e Depero).  Tra i contemporanei dei futuristi che criticarono il movimento ricordiamo Giandante X, che nel 1929, a Milano, all'apertura dei festeggiamenti per il ventennale del Futurismo, contestò apertamente Filippo Tommaso Marinetti, sostenendo che "l’uomo si deve affrancare dalla macchina ed è un errore lasciare sussistere lo scombinato movimento artistico"[20].  Nella critica del dopoguerra Il Futurismo ha influenzato tutta l'arte d'avanguardia del Novecento. Gli artisti futuristi che sopravvissero alla morte di Marinetti (21 dicembre del 1944) e alla seconda guerra mondiale caddero in disgrazia come tutto il Futurismo, con l'accusa di aver fiancheggiato il fascismo.  Nel secondo Novecento nuovi studi di Luciano De Maria, Mario Verdone, Enrico Crispolti, Maurizio Calvesi, Claudia Salaris, Giordano Bruno Guerri hanno parzialmente corretto l'accusa di collusione fascista, rilanciando l'interesse artistico-sociale verso il futurismo. Studi sul futurismo di sinistra (i contatti con gli ambienti anarchici, e persino comunisti) mostravano contemporaneamente che l'avanguardia futurista italiana era stata troppo sommariamente giudicata.  Nel corso del tempo diverse sono state le esposizioni riguardanti il Futurismo. Di indubbia rilevanza è stata quella del 2009 presso il Palazzo Reale di Milano per il centenario del movimento. La mostra si intitolava Futurismo 1909-2009 Velocità+Arte+Azione[21]. Nel 2014, il Futurismo italiano, con una grande esposizione retrospettiva fino al 1944 al Guggenheim Museum di New York a cura di Vivien Greene[22], è tornato alla ribalta internazionale. Il centenario del Futurismo ha anche contribuito al rilancio internazionale degli studi sulle artiste del Futurismo e sulla visione della donna nel Movimento.  Nel 2018 è stato pubblicato il Manifesto del Fumetto Futurista redatto da Massimo Bonura e uno dei primi, se non il primo, fumetti futuristi programmatici, cioè seguente esplicitamente uno schema scritto e definito, dal titolo "Il brutto anatroccolo. Ma che Wow!!" di Claudio S. Gnoffo, a significare l'importanza che il movimento futurista ha avuto come influenza nel delineare nuovi stili d'arte di rottura e sperimentali.[23]  Principali esponenti del futurisModifica Futuristi italiani Filippo Tommaso Marinetti Enrico Allimandi Adone Asinari Franco Asinari Antonio Asturi Fedele Azari Roberto Iras Baldessari Giacomo Balla Enzo Benedetto Umberto Boccioni Vittorio Bodini Uberto Bonetti Oswaldo Bot, pseudonimo di Osvaldo Barbieri Anton Giulio Bragaglia Alessandro Bruschetti Paolo Buzzi Francesco Cangiullo Benedetta Cappa Mario Carli Enrico Carmassi Sebastiano Carta Carlo Carrà Gianni Carramusa Giuseppe Caselli Riccardo Castagnedi Enrico Cavacchioli Arturo Ciacelli Remo Chiti Primo Conti Vittorio Corona Bruno Corra, pseudonimo di Bruno Ginanni Corradini Tullio Crali Auro D'Alba, pseudonimo di Umberto Bottone Giulio D'Anna Luigi De Giudici Mino Delle Site Fortunato Depero Gerardo Dottori Leonardo Dudreville Carlo Erba Julius Evola Farfa, pseudonimo di Vittorio Osvaldo Tommasini Fillia, pseudonimo di Luigi Enrico Colombo Luciano Folgore Gesualdo Manzella Frontini Achille Funi Ivanhoe Gambini Giacomo Giardina Arnaldo Ginna, pseudonimo di Arnaldo Ginanni Corradini Giovanni Governato Corrado Govoni Guglielmo Jannelli Giovanni Korompay Krimer Mimì Maria Lazzaro Escodamè, pseudonimo di Michele Leskovic Osvaldo Licini Gian Pietro Lucini Alberto Magnelli Vincenzo Mai Enzo Mainardi Giorgio Michetti Antonio Marasco Oreste Marchesi Emma Marpillero Pino Masnata Silvio Mix Sante Monachesi Marisa Mori Bruno Munari Benito Mussolini Emilio Notte Renzo Novatore, pseudonimo di Abele Ricieri Ferrari Nello Voltolina Pippo Oriani Nino Oxilia Ivo Pannaggi Giovanni Papini Luigi Pepe Diaz Osvaldo Peruzzi Vittorio Piscopo Enrico Prampolini Francesco Balilla Pratella Giuseppe Preziosi Salvatore Quasimodo Renato Righetti Romolo Romani Ottone Rosai Pippo Rizzo Angelo Rognoni Umberto Luigi Ronco Mino Rosso Luigi Russolo Bruno Giordano Sanzin Alberto Sartoris Antonio Sant'Elia Filiberto Sbardella Gino Severini Ardengo Soffici Fides Stagni Tato (Guglielmo Sansoni) Mario Sironi Fides Stagni Joseph Stella Mario Sturani Italo Tavolato Geppo Tedeschi Thayaht, pseudonimo di Ernesto Michahelles Wladimiro Tulli Giuseppe Ungaretti Vann'Antò Ruggero Vasari Lucio Venna, pseudonimo di Giuseppe Landsmann Mario Mirko Vucetich Futuristi russi Makov Černichov Velimir Chlebnikov Natal'ja Sergeevna Gončarova Michail Larionov Vladimir Majakovskij Kazimir Severinovič Malevič Aleksandr Rodčenko Aleksej Kručënych Futuristi ucraini Davyd, Mykola, Volodymyr Burljuk Futuristi francesi Robert Delaunay Marcel Duchamp Paul Fort Fernand Léger Jules Maincave Georges Bernanos Guillaume Apollinaire Futuristi cechi Růžena Zátková Futuristi ungheresi  Béla Kádár Lajos Kassák Hugó Scheiber Futuristi portoghesi Fernando Pessoa, divulgò aspetti del movimento attraverso le riviste Orpheu (1915) e Portugal Futurista (1917) Guilherme de Santa-Rita, pittore, ideatore della rivista Portugal Futurista (1917) Futuristi spagnoli Joan Salvat-Papasseit Futuristi brasiliani Oswald de Andrade Futuristi argentini Alberto Hidalgo Emilio Pettoruti Principali manifesti Manifesto del futurismo, (Pubblicato da "Le Figaro" il 20 febbraio 1909), Marinetti Uccidiamo il Chiaro di luna, (aprile 1909), Marinetti Manifesto dei Pittori futuristi, (11 febbraio 1910), Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini La pittura futurista - Manifesto tecnico, (11 aprile 1910), Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini Contro Venezia passatista, (27 aprile 1910), Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo Manifesto dei drammaturghi futuristi, (11 gennaio 1911), Marinetti Manifesto dei Musicisti futuristi, (11 gennaio 1911), Pratella La musica futurista-Manifesto tecnico, (29 marzo 1911), Pratella Manifesto della Donna futurista, (25 marzo 1912), Valentine de Saint-Point Manifesto della Scultura futurista, (11 aprile 1912), Boccioni Manifesto tecnico della letteratura futurista, (11 maggio 1912), Marinetti L'arte dei Rumori, (11 marzo 1913), Russolo Distruzione della sintassi. L'immaginazione senza fili e le Parole in libertà, (11 maggio 1913), Marinetti L'Antitradizione futurista, (29 giugno 1913), Guillaume Apollinaire La pittura dei suoni, rumori e odori, (11 agosto 1913), Carrà Il Teatro di Varietà, (1º ottobre 1913), Marinetti Il controdolore, (29 dicembre 1913), Palazzeschi Pittura e scultura futuriste, (1914), Boccioni Manifesto dell'Architettura futurista, (1914), Sant'Elia Il teatro futurista sintetico, (1915), Corra, Settimelli, Marinetti La ricostruzione futurista dell'universo, (1915), Balla, Depero La Scenografia futurista, (1915), Prampolini Manifesto del cinema futurista, (1916), Marinetti, Corra, Settimelli Manifesto della danza futurista, (1917), Marinetti Manifesto dell'Aeropittura futurista, (1929) Manifesto della Fotografia futurista, (16 aprile 1930, Tato (pseudonimo di Guglielmo Sansoni), Filippo Tommaso Marinetti Manifesto della cucina futurista, (1931), Marinetti. Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica(1938), Filippo Tommaso Marinetti e Tullio d'Albisola Opere principali Pittura Umberto Boccioni, Tre donne (1909-1910); Umberto Boccioni, La città che sale (1910-1911); Carlo Carrà, Notturno a Piazza Beccaria (1910); Umberto Boccioni, La risata (1911); Umberto Boccioni, Stati d'animo, gli addii (1911); Carlo Carrà, I funerali dell'anarchico Galli (1911); Umberto Boccioni, Materia (1912); Giacomo Balla, Ragazza che corre al balcone (1912); Giacomo Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio(1912); Giacomo Balla, Lampada ad arco (1911); Umberto Boccioni, Elasticità (1912); Gino Severini, La chahuteause (1912); Luigi Russolo, Dinamismo di un'automobile (1912-1913); Carlo Carrà, Cavaliere rosso (1913); Giacomo Balla, Automobile + velocità + luce (1913). Gino Severini, Ballerina in blu (1913); Fortunato Depero, I Cavalieri.  ^ a b c Futurismo, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 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Modifica su Wikidata futurismo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata futurismo, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Futurismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Il portale sul Futurismo, futurismo.org LA VERA STORIA DEL FUTURISMO, la parola a Gesualdo Manzella Frontini Il "Discorso contro i Veneziani" di Marinetti, su paginadelleidee.net. URL consultato l'8 aprile 2009(archiviato dall' url originale  il 7 ottobre 2007). Il Cerchio: Rivista di Cultura con particolari approfondimenti sul Futurismo, su cerchionapoli.it. "Luigi Russolo: Frammenti di un discorso rumoroso - La rivoluzione musicale futurista": monografia sul sito Sentireascoltare Recensioni delle mostre del centenario futurista a Roma e a Milano avanguardie russe, su chimera.roma1.infn.it. Viva il Futurismo! Iniziativa culturale e artistica per il centenario del Futurismo, su kulturserver-nrw.de. Principi e filosofia del Futurismo in arte, poesia e politica, su manentscripta.wordpress.com. Architettura Futurista Italiana 1909-1944, su architetturafuturista.it. Il futurismo e le arti applicate, sul portale RAI Arte, su arte.rai.it. Controllo di autorita Thesaurus BNCF 5573 · LCCN( EN ) sh85052619 · GND ( DE ) 4019036-5 ·J9U ( EN ,  HE ) 987007555556205171 (topic) ·NDL ( EN ,  JA ) 00567711   Portale Arte   Portale Italia Ultima modifica 8 giorni fa di LukeWiller PAGINE CORRELATE Carlo Carrà Pittore e docente italiano  Manifesto dei pittori futuristi Manifesto futurista pagina di disambiguazione di un progetto Wikimedia  Wikipedia.  Esaminerò i temi principali del mio libro, intitolato “Eros ethos”: la contraddizione, la violenza, la domanda di salvezza, che è poi la domanda di senso, il silenzio di Dio. Ma, effettivamente, questi temi fanno da sfondo, perché “ Eros ethos”, questo nesso su cui dobbiamo riflettere, riguarda piuttosto le cose prossime che non le cose ultime come la domanda di senso, la domanda che appunto ruota interamente intorno a ciò che era al principio. Che cos’era il principio? Era il senso, era il logos, o non era piuttosto come Nice, in modo sprezzante, ma anche polemico e profondo, ebbe a dire: “ in principio era il non senso”? Ecco, cos’ hanno a che fare queste domande sulle cose ultime con le cose prossime? Eros ethos: che cosa c’è di più prossimo alle esperienze che noi facciamo, che questa? Esperienza erotica ed esperienza etica. Questo è il quadro, questo è l’orizzonte problematico dentro il quale vorrei insieme con voi procedere per alcuni passi, e allora incomincerei col dire che, davvero, la domanda da cui partire è la domanda sull’origine: una domanda che ai non filosofi può sembrare di scarsa rilevanza. Perché la domanda sull’origine? E che cosa vuol dire domanda sull’origine? Vuol dire, se la vogliamo tradurre, interrogarsi sul da dove veniamo, da dove il male, la violenza che patiamo. “Unde malum?” questa è la domanda sull’origine. Ma a questa domanda sull’origine, così perentoria e così grave di implicazioni, come risponde il pensiero contemporaneo? Il pensiero contemporaneo risponde rimovendola, come se non esistesse, meglio come se non la potessimo, né la dovessimo porre. E questo perché? Perché alla domanda ha già risposto la scienza. Sappiamo da dove veniamo, di chi siamo figli: siamo figli del caos, e se è vero che leggi che possono essere accertate scientificamente governano questo caos, del caos noi siamo figli, o, se non del caos, di quel suo riflesso che è il caso. Siamo figli del caso. La violenza è un fatto. Certo che c’è violenza nel mondo, ma c’è come c’è quell’ultimo orizzonte che non possiamo trascendere. Ci appartiene la violenza, è in noi, sempre di nuovo la evochiamo, basta un niente ed ecco esplode, come se un fondo sub umano ci abitasse, come se da questa brutalità naturale noi provenissimo, come se appunto questo fondo sub umano, questa brutalità naturale, sempre pronta ad esplodere, costituisse un orizzonte intrascendibile. Non è forse vero che veniamo di lì, non ci dice la scienza che veniamo dalla “selva antiqua?” Dallo stato di natura? E che cos’è lo stato di natura se non lo stato in cui la violenza ci fa simili, anzi identici, a quegli esseri che abitano la natura e l’abitano inconsapevolmente, producendo la violenza appunto come produzione inconsapevole di quella volontà di vivere che abita tutti gli esseri naturali? Sembra essere questa la grande parola della filosofia moderna e poi contemporanea, perchè troviamo in essa quasi un vero e proprio ritornello: il risalimento all’origine è precluso, la filosofia pensa a partire da una situazione, da un trovarsi ad essere in un certo modo, a partire da cui soltanto il pensiero è pensiero. Che cosa significa risalire alle origini, ipotizzare fondamenti ultimi? Tutto questo appartiene all’ontoteologia cioè alla pretesa appunto di ragionare ricostruendo il fondamento, la ragione ultima di tutte le cose, in una parola l’origine, quell’origine che non è, o meglio non è se non nella forma che ci è data, e di cui noi facciamo esperienza sapendo di essere quello che siamo, ossia esseri naturali che dallo stato di natura provengono e che nello stato di natura trovano una sorta di ultimo orizzonte, di estremo confine intrascendibile, assolutamente intrascendibile. Da questo punto di vista abbiamo la parola di Hobbes da una parte( lo stato di natura), e la parola di Rousseau dall’altra( lo stato di natura come 1   stato di pura violenza che si tratta di controllare attraverso un patto, i cui contraenti autolimitano la propria libertà in nome del controllo di ciò che è dato: lo stato di natura). Da una parte Hobbes( il Leviatano), e dall’altra Rousseau dicono la stessa cosa anche se sembrerebbero dire due cose completamente diverse. Che cosa dice Rousseau? Dice che lo stato di natura non è il regno del Leviatano, il regno della violenza, è il regno della gioia, è il regno della libertà, è il regno della giustizia. Eppure dicono la stessa cosa. Che cosa? Dicono che quello, lo stato di natura, è un orizzonte che non possiamo trascendere. Lì ci troviamo a vivere. Che questo stato di natura sia uno stato di violenza, o che questo stato di natura sia uno stato tornando nel quale noi ci liberiamo dalla violenza stessa, in definitiva è la stessa cosa, perché è questo stato, questa condizione intrascendibile, e non possiamo affacciarci, per così dire, sulla soglia, su questo stesso orizzonte, e guardare al di là e chiederci: “ Ma noi da dove veniamo? Chi ci ha gettati qui?” O nella lotta o nella gioia edenica: domanda senza senso. Risalire non è possibile. L’orizzonte è chiuso. La violenza non è nient’altro che questo, quella violenza di cui ci parlano anche le cronache, ma che noi conosciamo anzitutto in noi stessi, perciò della violenza non resta che prendere atto come qualche cosa che è connaturato, stato di natura appunto, e che non ci resta che controllare. Sempre di nuovo l’uomo ricade nella violenza, sempre di nuovo l’uomo deve, se non liberarsene totalmente, elaborare delle strategie di controllo. Auschwitz non deve più accadere e invece è accaduto e probabilmente sempre di nuovo accadrà. Questo lo sappiamo, lo sappiamo nei nostri giorni violentissimi, crudelissimi. Su questo non possiamo chiudere gli occhi: sul fatto che Auschwitz sempre di nuovo accade, che sempre di nuovo l’uomo cade dentro quello stato di natura dal quale proviene e dal quale non può evadere. E’ la parola più dura della filosofia contemporanea, nascosta spesso dentro strategie di pensiero molto sofisticate, molto raffinate, ma che questo dicono: l’intrascendibilità della nostra provenienza, dell’orizzonte dal quale proveniamo, tanto è vero che sempre di nuovo cadiamo dentro a questo orizzonte. Difficile immaginare, appunto, una risposta più cupamente ateistica e nichilistica di questa, ma anche più vera, con una sua verità che sembrerebbe difficilmente controvertibile. Non è forse vero che la violenza è in noi, che veniamo di lì? Non ci dice la scienza che in noi ci sono forze che se non teniamo sotto controllo fanno di noi, di chiunque di noi, il peggiore dei delinquenti, e che ciascuno ha in sé questa virtualità negativa e terribile? Ciascuno di noi. Lo vediamo, non solo per le guerre, ma per i casi che la vita ci mette sotto gli occhi: gli adolescenti che uccidono i genitori, il mobbing tra le persone, questo bisogno di farsi reciprocamente male, che cos’è questo se non una radice? Maligna, ma nello stesso tempo naturale, maligna, ma in questa prospettiva senza nessuna ascendenza teologica, perché appunto è lo stato di natura dal quale proveniamo, dentro il quale sempre di nuovo ricadiamo in quanto l’orizzonte è intrascendibile. Che questo sia detto nei termini di Hobbes, o sia detto nei termini di Rousseau, che a partire da Hobbes si elaborino teorie dello stato come strumento, il solo che l’uomo ha per tenere sotto controllo la violenza, che a partire da Rousseau si elaborino invece teorie della emancipazione, della liberazione, del ritorno alla natura, però questo ci dice l’intrascendibilità dello stato di natura. E’ una tesi che ha mille sfaccettature naturalmente, ma molto forte. A questa tesi della intrascendibilità radicale dello stato di natura io credo ci sia una sola obiezione, ma forte, altrettanto forte che la tesi stessa. E questa obiezione è che la violenza dell’uomo sull’uomo, quella violenza che fa dell’uomo un bruto, che lo ricaccia sempre di nuovo nella brutalità dello stato di natura, questa violenza è sempre qualche cosa di più, è sempre qualche cosa di meno che espressione dello stato di natura. Questa è la vera obiezione. E cioè, che cos’è? E’ cosa umana. La violenza fatta dall’uomo non è infatti assolutamente assimilabile alla violenza fatta dall’animale, da una tigre, da un leone feroce. La ferocia che emerge, che affiora, e che trasforma un essere umano in un animale 2   è altra cosa, non è vero che trasforma l’essere umano in animale ( questo è un modo di dire assolutamente sviante, falsificante, anche se sembra corrispondere all’esperienza che ciascuno di noi fa ), questa violenza è altra cosa, perché la violenza dell’uomo ha, per così dire, un segno, una segnatura, quella signatura rerum di cui parlavano gli alchimisti che la vedevano nelle cose stesse, quasi le cose fossero portatrici di simboli entrando in contatto con l’uomo. Ecco, la stessa cosa vale per la violenza umana: essa ha una segnatura che ne fa qualcosa di altro rispetto alla violenza dell’animale, di radicalmente altro, di ontologicamente altro. Perché la violenza dell’uomo non è assimilabile a quella dell’animale? Perché la violenza dell’uomo ha qualcosa come un valore aggiunto, e il valore aggiunto è quello che ci mette l’uomo stesso. Pensate all’uomo, al soldato che uccide, deve farlo, lo fa per difendersi, pensate alla violenza che esplode in una situazione apparentemente normale: sempre c’è qualche cosa di più e di diverso che l’espressione di una aggressività volta a raggiungere uno scopo, raggiunto il quale la stessa violenza, per così dire, ritorna in una quiete, in una pace, la pace del leone che ha divorato la gazzella e si ritrova in pace con sé stesso e con la natura. La violenza dell’uomo, quale che sia, giustificata o non giustificata, ( ma appunto la parola giustificazione è povera) , sempre ha questo valore aggiunto: e il soldato sente il bisogno, ahimè, spesso di sottolineare questo valore aggiunto , irridendo il nemico. Questo è nell’Iliade, come nella cronaca di oggi, di ieri e dell’altro ieri. Nell’Iliade, quando Achille strazia il cadavere di Ettore, sente il bisogno di straziarlo sotto le mura di Ilio, sotto gli occhi delle persone care: ecco quel di più, ecco ciò che fa della violenza umana qualche cosa di radicalmente umano. Nel soldato che aggredisce e umilia l’aggredito, il vinto, il nemico vinto, stuprando la sua donna, per esempio, non c’è mai una pura e semplice espressione pulsionale di qualche cosa, come un bisogno bestiale o animalesco, c’è invece il desiderio di segnare ( parlavo prima di segnatura, di valore simbolico) , c’è il bisogno di umiliare, c’è, in altre parole, l’impossibilità di ricadere nella quiete della violenza che ha raggiunto il suo scopo. Allora, se la violenza dell’uomo non è assimilabile alla violenza della natura, se questo valore aggiunto fa sì che la violenza dell’uomo riveli una sua irriducibilità all’ordine naturale delle cose, allora non è vero che lo stato di natura non può essere trasceso, non è vero che non è possibile affacciarsi sull’ultimo orizzonte e chiedersi: “ Ma da dove vengo io?” Allora non basta dire: “ Io vengo da lì, cioè dalla natura e dalla sua brutalità, io vengo da un altrove”. E’ una contraddizione, perché, se vogliamo dirla con una formula filosofica, la intrascendibilità dello stato di natura chiede di essere trascesa. Il riconoscimento che di lì vengo, che sono impastato di quella pasta, che sono fatto di quel fango, che in me agiscono forze brutali, bestiali, non basta. Non basta perché quelle forze dicono non soltanto la mia provenienza dallo stato di natura, ma da un al di là, che non so che cosa sia, che la filosofia non può dire naturalmente, ma deve cercare. Non mi basta riconoscermi parte della natura, perché questo mio riconoscimento fa cenno, sia pure nella forma della contraddizione, ad un altrove, come se io fossi caduto, come se io di là venissi, e come se soltanto questo movimento potesse spiegare il valore aggiunto che è nella violenza. Ho fatto due esempi, di due grandi filosofi della modernità, Hobbes e Rousseau, i teorici della intrascendibilità dello stato di natura. Farò altri due esempi di grandi filosofi della modernità i quali sostengono quello verso cui sto cercando di condurvi e cioè che l’intrascendibilità dello stato di natura è contraddittoria. Certo l’uomo, con le sue categorie, con i suoi concetti, con ciò di cui dispone, non può uscire dall’orizzonte in cui è venuto a trovarsi, ma patisce, soffre, vive questo suo trovarsi in un orizzonte che è come un carcere per lui, appunto come un essere cacciato lì dentro. Diceva Pascal: “ Io mi guardo intorno, e tutto è confusione, un orribile caos, cerco Dio, ma Dio tace ( il silenzio di Dio), e non solo Dio tace, ma tutto è terribilmente silenzioso, e il silenzio degli spazi infiniti è eterno. Che cosa mi resta, se voglio in questo orribile 3   caos muovermi e sopravvivere? Che cosa mi resta da fare? Prendere atto che le cose stanno così, seguire le leggi del mio paese. Già, ma le leggi del tuo paese sono esattamente l’opposto delle leggi del paese accanto. Che fare? Questa è appunto la prova del caos in cui versiamo. Ma il mio sovrano mi ha ordinato di uccidere quello che sta al di là del fiume. E perché? Perché sta al di là del fiume. Ma è una ragione questa? Eppure lo devo fare, perché, se non mi attenessi alle leggi del mio paese, cadrei in un disordine ancora più grande, non vivrei più”. L’abbiamo visto: l’unica forma di sopravvivenza è quella garantita dall’accettazione dello status quo. Dice: “ Ma io mi guardo intorno. Questo è giusto, che cosa è sbagliato? Nulla è giusto, nulla è sbagliato, tutto lo è. E infatti non c’è atto, non c’è gesto, non c’è comportamento umano, anche il più abietto, che non abbia trovato il suo altare. Sull’altare è stato messo l’incesto, sull’altare è stato messo l’omicidio, sull’altare è stato messo il furto, e così via. Un orribile caos, è quello nel quale l’uomo naturaliter viene a trovarsi: intrascendibilità dello stato di natura”. Ecco allora la contraddizione, ecco il passo in più che fa Pascal: l’intrascendibilità dello stato di natura è inaccettabile, l’intrascendibilità dello stato di natura non può essere vissuta se non come una condanna, e quale maggiore condanna che quella di chi vede che ogni atto, anche il più nefasto, il più delittuoso, ha trovato il suo altare? Quale condanna peggiore di chi constata che è costretto a compiere atti profondamente ingiusti e tuttavia giustificati? “ Vai, uccidi”. “ Perché?” “Perché il tuo sovrano te lo ordina”. Ed è giusto così, o meglio giustificato così, pena un disordine ancora maggiore. Questa è una realtà che non si può non accettare, una realtà che ci dice il nostro essere vincolati ad essa, l’intrascendibilità dello stato di natura, ma una realtà nello stesso tempo vissuta come iniqua, come inaccettabile: non la posso che accettare, ma è inaccettabile. Ecco la contraddizione, e se volessimo dirla filosoficamente, dovremmo dire: “l’intrascendibilità dello stato di natura impone il suo trascendimento”. Da dove vengo io? Da quale paradiso perduto, se soffro così tanto all’interno di una situazione per la quale non vedo via d’uscita? L’intrascendibilità chiede di essere trascesa. Qui la filosofia deve tacere, la filosofia non può che aprirsi ad una dimensione altra. E’ una risposta, come vedete, ben diversa da quella di Hobbes, ed anche da quella di Rousseau. Nasce da Pascal una filosofia religiosa, laddove da Hobbes e da Rousseau nasce una filosofia irreligiosa. Le fedi private dell’uno e dell’altro non sono più in questione, ma è profondamente irreligiosa una filosofia che dice: “ La violenza c’è e non resta che tenerla sotto controllo. Noi non possiamo guardare al di là”. E’ una filosofia profondamente irreligiosa quella che dice che la violenza c’è perché c’è la società. Togliamo questo elemento storico sociale, che inquina, con gli apparati repressivi che la società mette in atto, liberiamoci da tutto ciò, e ritroviamo quella gioia che è lo stato originario dell’uomo: filosofia, in entrambi i casi, con tutte le loro propaggini, da Rousseau a Marcuse, oppure da Hobbes a Smith, filosofia profondamente irreligiosa quella dell’intrascendibilità dello stato di natura, laddove è filosofia profondamente religiosa quella di un Pascal che dalla stessa intrascendibilità ricava, attraverso la contraddizione, l’idea di non poter non trascendere. Anche Vico, che viene spesso interpretato, e giustamente, come il padre dello storicismo, ma è anzitutto teologo cristiano, dice la stessa cosa, cent’anni dopo Pascal, e la dice attraverso l’idea che la menzogna in cui l’uomo si trova a vivere sia l’illusione che “ omnia Iovis plena” , che gli alberi siano dei, che tutto gli parli, che l’universo sia animato da presenze. Se un fulmine cade nella selva antiqua e apre la radura e l’ uomo si illude che un dio gli abbia parlato, non è vero, è un’illusione, è pura idolatria credere che lì si sia avuta una epifania, e tuttavia questa che è la condizione idolatrica che l’uomo non può trascendere. Vico dice: “ Cos’è più vero? Lo stato di natura, dove l’uomo è e non è se non cacciatore e preda? Oppure lo stato di cultura?” Quello stato di cultura che l’uomo costruisce in base ad una simulazione, cioè in base ad una menzogna, illudendosi che gli dei gli abbiano parlato e 4   sulla base di questo messaggio, di questa rivelazione, costruisce appunto le istituzioni, le famiglie, gli stati, la cultura, insomma. Che cos’è più vero? E’ il puro e semplice abitare la natura come l’abitano i bruti, brutalità dello stato di natura, oppure è, attraverso la finzione, diventare uomini? Accedere ad una verità propriamente umana? Anche lì, attraverso la contraddizione, l’uomo è costretto a vedere nella natura una sorta di deiezione, di caduta. Da dove? La filosofia non lo dice, lo dice la rivelazione. Come vedete queste sono ipotesi molto diverse, opzioni filosofiche che sono alla radice del mondo moderno. Voi vi chiederete: “ Tutto questo che cosa c’entra con Eros ethos?” C’entra perché c’entra la contraddizione. E’ la contraddizione che dobbiamo cercare, che dobbiamo interrogare, per capire appunto se noi siamo consegnati ad un destino umano e soltanto umano o se invece questa stessa umanità del nostro destino impone un trascendimento della condizione nella quale ci troviamo: dobbiamo cercare l’origine, ciò che è in principio ma anche ciò che è, per dirla con sant’Agostino, “intimior intimo meo”, più intimo a me stesso di quanto non lo sia io a me. Come sappiamo, Agostino identificava Dio con questo movimento, con l’intimior intimo meo: è Dio che è più intimo a me di quanto io non lo sia a me stesso. Potremmo, parafrasando Agostino, vedere precisamente nel nodo di contraddizione che nello stesso tempo lega e separa eros ethos qualche cosa che può essere definito negli stessi termini. Che eros ed ethos si contraddicano, o meglio si oppongano( l’opposizione e la contraddizione sono due cose diverse) lo so bene, che eros ed ethos si oppongano è cosa abbastanza ovvia. Che cosa indica eros se non l’immediatezza, diciamo pure la gioia di vivere, quella gioia di vivere che non ammette ostacoli di nessun tipo, che chiede soltanto di essere espressa? Eros i Greci, e non soltanto i Greci, lo presentavano come un fanciullo, la divina innocenza, eros come espansione vitale, o per dirla con Kierkegaard come vita immediata, vita che non dà ragione di sé, e noi diremmo oggi ( figli volenti o nolenti, tutti figli di Freud ) “vita pulsionale”, e le pulsioni sono le pulsioni, il bene e il male appartengono ad un altro ordine, ad un’altra dimensione. Ethos è il contrario. Ethos è il “Tu devi”. Ethos è la serietà della vita. Ethos è il dover rispondere di tutto nei confronti di tutti, o quanto meno di sé nei confronti di coloro coi quali si è stretto un patto. Quale opposizione maggiore che quella tra eros ed ethos? Tra l’immediatezza e la mediazione? Tra la libera e gioiosa espansione di sé che non dà ragione, perché è quello che è, è vita immediata, tra la gioia, se vogliamo dire così, e la serietà della vita, ossia il “Tu devi”, questo sì e questo no, perché tu devi rispondere di te nei confronti di tutti gli altri? Ma appunto siamo ancora sul piano dell’opposizione, non ancora della contraddizione. Per scorgere la contraddizione dobbiamo renderci conto che c’è dissidio, cioè c’è intima opposizione sia in eros, sia in ethos. Ed è solo a partire da un’analisi separata delle due forme di esperienza, esperienza erotica ed esperienza etica, che capiremo come l’opposizione diventi una vera e propria contraddizione e capiremo come la contraddizione che abita in ciò che è “intimior intimo meo”, così prossimo a noi da costituire davvero la nostra anima, la nostra carne ( e che cosa se non eros ed ethos? ), come la contraddizione sia proprio in questa prossimità. Ma lo scopriremo appunto esaminando separatamente le due forme. Perché c’è opposizione in eros? L’abbiamo definito come gioioso, libero, come espressione di una vitalità che non conosce ostacoli. Non è forse vero che eros è trasgressione? Ma non carichiamo subito questa parola di un significato morale: no, siamo prima, siamo al di qua della morale. Parliamo dunque di trasgressione nel senso letterale del termine, nel senso di una spinta, di un movimento teso a rompere tutti i vincoli. Quindi siamo ancora sul piano di una fenomenologia che non chiama in causa la morale. Eros è questo transgredior, questo superare il limite che eros stesso pone a sé stesso per essere quello che è. Cosa c’entra la morale con eros, se eros è questo? Come è pensabile un intimo dissidio di eros con eros? I Greci lo hanno pensato. Quando ci troviamo di fronte a queste difficoltà, definita filosoficamente la categoria, 5   sembrerebbe non si dovesse più procedere oltre, invece sappiamo che l’esperienza erotica è molto più complessa, che non è questa pura e semplice, come qualcuno vorrebbe, espressione pulsionale di sé che non dà ragione di sé, bensì un’esperienza terribilmente complessa. E allora come la mettiamo? La filosofia ci dice che è trasgressione, movimento libero verso la liberazione da tutti i vincoli. Il mito, e di nuovo la religione, ci dice che è cosa molto, molto più complessa. E come avevano rappresentato questa complessità i Greci? Attraverso i miti, come sappiamo. I miti sono questo: servono a dire delle cose che la filosofia non riesce a dire, o che il linguaggio comune non riesce a dire. Ci sono tanti miti nella cultura greca che parlano di eros, infiniti, ma non soltanto nella cultura greca, anche in quella indiana, anche in tante altre. Ma alcuni in particolare: intanto quello che identifica eros con Fanes Protogono. Chi è Fanes Protogono? Fanes Protogono è qualcuno, qualche cosa che viene prima della stessa formazione del mondo, e quindi del costituirsi di figure archetipiche nel mondo che sono gli dei; Fanes ( “ fainetai”) è questa accensione originale che fa sì che il mondo, che era, secondo il mito di Fanes Protogono, tutto raccolto in un nucleo simile ad un punto ( pensate a quale profondità di intuizione erano arrivati i Greci), per questa improvvisa accensione si spacchi, si scinda come sotto una spinta, una forza assolutamente sorgiva, che non è governata da figure archetipiche, dagli dei, ma che è assolutamente iniziale. Questa realtà tutta compressa, tutta compresa in un unico punto, per così dire a seguito di questa cosiddetta accensione, esplode, e questa esplosione dà luogo alla terra e al cielo, perciò la terra e il cielo, a partire da questa esplosione, non potranno che sempre di nuovo cercare di ricongiungersi. Urano e Gea, il cielo e la terra, originariamente uniti, a seguito della esplosione cercano di ricongiungersi, grazie a eros, Fanes Protogono, cioè il principio primo, il principio originariamente generatore, che è la luce. Eros è questa accensione, questa forza ricongiungente dei due. Dentro questo mito che cosa scopriamo? Il carattere assolutamente non morale di eros. Eros è quello che è, non è neppure un dio, è luce, è manifestazione, è pura forza esondante, quella pura forza esondante che ciascuno di noi prova in sé, nelle varie forme in cui eros si manifesta, che, come sapevano i Greci, sono infinite. Basta leggere il Simposio per capire come Platone sapesse delle varie forme di eros. Ma che cosa accade? Accade qualche cosa di tremendo, il tremendo che è in eros: accade che nel momento in cui la terra e il cielo si scindono in due, in una sorta di mattino del mondo nasce Afrodite che è la dea dell’amore, che è la dea, a seguito di questa vicenda, chiamata a incarnare, a personificare, la forza originariamente creatrice. Ma chi è Afrodite? E’ la dea della doppiezza, e i poeti greci così l’ hanno descritta: è la dea della felicità, della gioia, della gioia di vivere che non dà ragioni di sé, è la dea al di là del bene e del male, è la dea al di qua del bene e del male. Ma Afrodite è anche la dea che nasconde il tremendo da cui proviene, tanto è vero che lo stesso mito greco ci parla di questo mattino del mondo: e cosa c’è di più bello che il sorgere di Afrodite dalla spuma del mare, che cosa c’è di più innocente, di più incantevole? E tuttavia quella spuma del mare è memoria di un atto di sangue: la spuma del mare è il sangue stilato, e anzi sangue- liquido seminale, stilato dal sesso di Urano, castrato dal suo stesso figlio. Capite che cosa dicono i Greci? Che cosa tiene insieme nell’idea di eros l’uomo greco? Gli opposti: l’innocenza, la perfezione in quanto è l’emergere della vita da sé stessa, la vita che non dà ragione di sé, la vita che è quello che è, al di là del bene e del male, tuttavia su uno sfondo cupo di sangue. Il fanciullo innocente è nello stesso tempo colui che ha memoria del tremendum, con buona pace dei teorici, quanti sono oggi, delle emancipazioni a buon mercato: “Liberatevi dai tabù, abbandonatevi!” Tutte cose belle, per carità, non voglio dire che non ci si debba anche liberare dai tabù, però le cose sono un po’ più complicate: la liberazione( tesi) è necessaria, e tuttavia sta a fronte( antitesi) di qualche cosa come gli orrori delle origini. Quando ci si interroga sul fatto, sul rapporto eros e violenza, per esempio, perché chiudere gli occhi di fronte a 6   questa che è realtà umana, più che umana? Bisogna pensare come hanno pensato i Greci, o come hanno pensato gli Indiani in modo forse meno cupo, in modo meno metafisico, ma altrettanto espressivo, con la figura della donna che volge lo sguardo, dell’amante che raggiunge l’amato ( che è un tema iconografico di molta arte indiana, di molta arte erotica dell’India ), della donna che si butta nel fiume per raggiungere l’amato, ma volge lo sguardo, e questo sguardo è pieno di malinconia per tutto ciò che lascia: siamo fatti di una irriducibile doppiezza, ci dice il mito. Certo che è necessario gettarsi, raggiungere l’amato, ma non ci è dato di farlo ( è la dinamica della trasgressione ), se non volgendo lo sguardo verso tutto ciò che abbiamo perso, che stiamo perdendo, che potrebbe essere la rottura del patto. E questo che cosa vuol dire? Vuol dire che eros, l’innocenza stessa, in modo del tutto contraddittorio, si lega al suo contrario, a qualcosa come la colpa: ecco come eros è portatore di una contraddizione. Ma lo stesso vale per ethos. Ethos è in sé stesso contraddittorio, e sono ancora una volta i Greci che ci dicono questo. Della profondità del mito greco si era accorto Aristotele, per primo, che io sappia, quando, guardando al mito, ha scoperto che la parola greca ethos ( da cui etica, naturalmente, ) si dice in due modi, o meglio si dice in un modo solo ma si scrive in due ( è una anomalia del Greco che forse non ha altri esempi così clamorosi ): ethos in greco si scrive con la ipsilon, e con la eta, e se scritta con la ipsilon vuol dire una cosa, se scritta con la eta vuol dire un’altra cosa, o meglio, vuol dire la stessa cosa , ma un po’ diversa . Se scritta con la eta , ethos fa riferimento alla dimora, alla casa. E allora che cos’è ethos? Ethos è la convenzione, sono gli usi, i costumi, le abitudini, da cui abitus, le virtù, come abiti che indossiamo che ci portano a compiere certe cose, a comportarci in un certo modo. Ma perché ci comportiamo in un certo modo? Perché siamo stati educati, perché abbiamo accolto in noi, essendo stati accolti da una comunità e cioè dalla casa anzitutto, quelle leggi, quei comportamenti, quel modo di vedere, che è proprio di ethos con la eta. Qui a essere privilegiato è il riferimento al sentire comune, alla comunità: ethos come appartenenza ad una comunità, che mi impone di non pensare tanto a me stesso quanto agli altri, di riconoscermi all’interno di una tradizione e così via. Ma se io lo scrivo con la ipsilon, allora vuol dire carattere, che appartiene a me, è solo mio : l’ethos è il mio demone, è qualche cosa che mi dice: “ Tu devi fare questo”. “No”. “ Ma sei contraddetto da tutti, non è accettabile che tu non faccia questo, la società ti condanna”. “ Che mi importa, lo devo fare, perché so, ma in base a quale sapere?” “In base ad un sapere demonico, cioè che non dà ragioni di sé. Sapere di cui io mi faccio carico, costi quello che costi”. Guai se ethos fosse solo sapere demonico, se fosse solo carattere, perché allora l’etica sarebbe una cosa terribile, sarebbe cosa tragica, darebbe luogo a scontri senza fine, senza un terzo che faccia da medio, se è giusto quello che io sento giusto. L’io, la coscienza: se ethos fosse solo questo sarebbe terribile. Ma guai se ethos fosse soltanto quell’altro: abitudine, tradizione, leggi e così via. Facciamo il caso che la società alla quale appartengo, nella quale mi riconosco, mi condanni legalmente e in base a dei principi riconosciuti come giusti, mi condanni per esempio a essere deportato. Immaginate un’ etica che sia soltanto etica pubblica, un’ etica della tradizione condivisa, immaginate di togliere a me o a chi per me il diritto di dire no, anche se la società alla quale appartengo mi condanna, di rivolgermi al mio Dio, per invocarlo, o per bestemmiarlo, dicendo:” Non è giusto”. Non dimentichiamo mai Auschwitz, ma non dimentichiamo mai che tutto quello che è accaduto in quegli anni è accaduto legalmente: le deportazioni erano leggi dello stato tedesco, non si tratta di qualcosa avvenuto nascostamente, bensì di leggi dello stato tedesco. L’etica che fosse soltanto l’etica, la casa della comunità di appartenenza, della polis, dello stato, potrebbe non essere un’etica a sua volta monca, terribilmente manchevole? Già, ma come fanno a stare insieme ethos ed ethos, ethos con la eta e ethos con la ipsilon? Come far stare insieme le leggi della pietà, per esempio, come sa bene Antigone, e le leggi 7   della città? Le leggi di coloro che stanno sotto la luce del sole e le leggi sotterranee, degli dei, che stanno sotto? Contraddizione, la contraddizione di ethos. Voi direte, ma che cosa c’entra questo discorso con la violenza? E’ lo stesso discorso. In che senso? Abbiamo visto, e mi avvio alla conclusione, come la violenza sia un dato di natura, anzi, è la natura che è in noi, è uno stato, tanto è vero che si parla di stato di natura: è quell’emergere di forze oscure, che ci riportano al luogo da cui proveniamo, che è la selva. E’ la linea maestra del pensiero moderno e contemporaneo, e abbiamo visto che non basta dire questo. Le cose non stanno così, perché qui c’è una contraddizione . La contraddizione è sollevata dalla affermazione che la violenza dell’uomo sull’uomo è sì qualche cosa che lo accomuna alla bestia feroce, ma nello stesso tempo è qualche cosa che lo rende irriducibilmente diverso dalla bestia feroce. La violenza è sì cosa che implica la non trascendibilità dello stato di natura, ma questa non può che essere vissuta come condanna che implica il trascendimento. Lo stato di natura è uno stato che io posso pensare solo come stato di gettatezza, avrebbe detto Heidegger. Senonché per Heidegger la gettatezza, la deiezione, il mio trovarmi come gettato in questo mondo, non ha più né capo né coda, non ha più un da dove sono gettato e un verso dove vado. E in questo senso Heidegger in fondo resta all’interno della tradizione tipicamente moderna che ritiene intrascendibile questo stato. Non così là dove questo stato venga vissuto, venga letto, nel suo valore simbolico. Lo dice bene Pascal: “ Tutto è simbolo, quella natura caotica, così confusa, non fa che ricordarmi che questo non può essere il mio mondo, è il mio mondo e per viverci lo devo accettare, e tra questo mondo, e l’infinito, e l’assoluto, un abisso mi separa: non c’è verso, filosoficamente, di costruire un ponte tra il qui e ora, il qui di leggi contraddittorie, e l’origine. Tuttavia, in questo mondo io vivo come uno straniero, come uno che è stato gettato da un altrove, la cui chiave la possiede non la filosofia ma la religione: la caduta, il peccato originale.” Lo stesso discorso vale per la contraddizione, il rapporto contraddittorio di eros ed ethos. Noi vorremmo potere riferirci, così come nel caso della violenza ci siamo riferiti, a qualche cosa di ultimo, qui riferirci a qualche cosa di primo, eros ethos, di prossimo, di propriamente nostro a cui ancorarci, vorremmo poterlo fare. E che cosa se non ancorarci a eros, se non ancorarci a ethos? E’ esperienza che tutti fanno, se pure in forme molto diverse: l’esperienza che vorremmo gioiosa di eros e seria di ethos, e lì restare, restare in questa prossimità, in questa intimità di noi con noi stessi, in definitiva rassicurante. Eros è la gioia: “ Abbandonati”; ethos è il dovere: “ Rispetta”. Già, ma questa intimità, di noi con noi stessi, è contraddittoria, ovvero “intimior intimo meo”. Nel punto in cui noi ci troviamo più intimi con noi stessi, noi siamo per così dire scavalcati, trascesi da un movimento che fa cenno a qualche cosa che è assolutamente altro rispetto a questa pretesa di raccoglierci in una certezza, la certezza di eros e la certezza di ethos. Tanto è vero che non solo eros ed ethos stanno tra loro in opposizione, ma è una opposizione contraddittoria perché il dissidio è sia nella forma dell’esperienza erotica, sia nella forma dell’esperienza etica. “Intimior intimo meo”: qui davvero varrebbe la pena di parafrasare Agostino, e ricordare che nel momento in cui io sono più prossimo a me stesso in realtà sono infinitamente lontano, sono per così dire costretto a trascendere, trascendere me stesso.Sergio Givone. Givone. Keywords: phanes, eros/ethos; phanes protogono, convito di platone, pareyson. storia naturale dell nulla, unelongated history of negation;  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Givone” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Glauco – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tito Flavio Glauco – He was a poet and philosopher. The nephew of Tito Flavio Callescro. He was probably a member of the Accademia, like his uncle.

 

Grice e Glauco – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Glauco was a historian, used as a source by Diogene Laerzio, who attributes to him the claim that Democrito was taught by a Pythagorian like himself!

 

Grice e Glicino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Gobetti – il partito liberale italiano – il partito socialista italiano – filosofi contro il regime --  (Torino). Filosofo. Grice: “Italian philosophy is political in a way pinko Oxonian one ain’t: Gobetti is the exception that DISproves the rule!” -- “Lo Stato non professa un'etica, ma esercita un'azione politica.” (La Rivoluzione Liberale.)  Considerato un degno erede della tradizione filosofico-politica post-illuminista e liberale che aveva guidato molte delle migliori menti dell'Italia dal Risorgimento fino a poco tempo prima, purtuttavia di stampo profondamente sociale e sensibile alle istanze del socialismo e di conseguenza alle rivendicazioni del movimento operaio, fondò e diresse le riviste Energie Nove, La Rivoluzione liberale e Il Baretti, dando fondamentali contributi alla vita politica e culturale, prima che le sue condizioni di salute, aggravate dalle aggressioni subite, ne provocassero la morte prematura a nemmeno 25 anni durante l'esilio francese. Gaetano Salvemini «Era alto e sottile, disdegnava l'eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta, da modesto studioso: i lunghi capelli arruffati dai riflessi rossi gli ombreggiavano la fronte. (Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Gobetti»,). Figlio unico di Giovanni Battista, commerciante, e di Angela Canuto, una «piccola donna bruna e tonda, gentile e modesta, capace tuttavia non solo di grande abnegazione per il figlio unico che adorava, ma anche di strenuo lavoro e di sagace giudizio». I suoi genitori, originari entrambi di Andezeno, avevano aperto nel capoluogo piemontese una drogheria nella centrale via XX Settembre. “Mio padre e mia madre avevano un piccolo commercio. Lavoravano diciotto ore al giorno. Il mio avvenire era il loro pensiero dominante. L'impegno del loro lavoro era di arricchire permettersi e permettermi una vita dignitosa. In quanto a me pensavano di dovermi dare un'istruzione, quella che essi non avevano potuto avere.” Dopo gli studi elementari presso la scuola Giacinto Pacchiotti, s'iscrive al ginnasio Cesare Balbo: scrive di sé di quegli anni, in terza persona, che «gli pesava un'amarezza, uno sconforto, che nei ragazzi di dodici anni segnano inquietudini fruttuose. Si vedeva troppo poco stimato, troppo solo, troppo malsicuro del domani. Aveva dei dubbi strani sulle sue stesse attitudini. Un'adolescenza che s'ispirava a motivi così integrali doveva dargli una tragica forza. Trasferitosi poi presso il liceo classicoVincenzo Gioberti, dove conosce Prospero, sua futura moglie, ha per professori Cosmo e Giuliano, un gentiliano che collabora alla rivista L'Unità  Salvemini. Questi gli ispira quei sentimenti di patriottismo e di interventismo democratico che sono propri del Salvemini, spingendolo ad anticipare di un anno l'esame di maturità per poter così andare, libero da impegni, volontario nella prima guerra mondiale. Luigi Einaudi La guerra è ormai conclusa s'iscrive a Torino, la stessa che egli aveva già frequentato, ancora liceale, per seguirvi alcuni corsi di filosofia. Tra i suoi insegnanti vi sono Einaudi, da cui «rafforza il suo primitivo, spontaneo anti-statalismo, in cui s'incontrano liberalismo, liberismo e quello stesso libertarismo che gli è congeniale --, Farinelli, Mosca, Prato, Ruffini e Solari, con il quale sosterrà la tesi di laurea, “La filosofia politica di VAlfieri.  Non solo: a settembre aveva scritto all'amica Ada di aver deciso di fondare un periodico che s'occuperà di filosofia, questioni sociali è fatto di soli giovani si tratta di opera di intensificazione di cultura e di azione e tutti i giovani devono aiutarla. Esce il primo numero del quindicinale “Energie Nove” nel quale scrive di voler «ortare una fresca onda di spiritualità nella gretta cultura di oggi non c'è mai momento inopportuno per lavorare seriamente.  Ispirata alle idee liberali di Einaudi, è vicina all'Unità di Salvemini, del quale riporta, nel secondo numero, l'aspra critica alla classe dirigente. L'Italia ha vinto. Ma se avesse avuto una classe dirigente meno incolta, più consapevole delle sue tradizioni e dei suoi doveri, meno avida moralmente, l'Italia avrebbe vinto assai prima e assai meglio. È finita o sta per finire una guerra. Ne comincia un'altra. Più lunga, più aspra, più spietata. L'altra «guerra più lunga e spietata è quella della riforma del Paese, una riforma che dev'essere, nelle sue intenzioni Gobetti, innanzi tutto culturale e morale, e per la quale occorre serietà e intensità al lavoro secondo i motivi di quellidealismo militante che ha animato La Voce di Prezzolini, altro nume ispiratorei.  Era doveroso partecipare in prima persona al dibattito politico e intellettuale contemporaneo. Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Piero Gobetti. Sospende la pubblicazione della rivista per poter partecipare, a Firenze, al I Congresso degli Unitari, i sostenitori della rivista di Salvemini, della quale egli è fondatore e rappresentante del Gruppo torinese. Può così conoscere di persona l'intellettuale pugliese e ne è entusiasta. “Salvemini è un genio.” “Me lo immaginavo proprio così. L'uomo che sviscerale questioni, che la fa smettere agli importuni e ti presenta tutte le soluzioni in due minuti, definitive.” “Un'altra persona di cui sono entusiasta è Prezzolini, franco, semplice, pratico.” “Editore propriamente come lo pensavo io.” “L'editore più intelligente d'Italia.” A seguito del Congresso, gli Unitari fondano la Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale, una formazione politica che non riuscirà nemmeno a presentarsi alle elezioni e avrà vita breve. Alle elezioni politiche dell'anno seguente, Salvemini si candiderà con successoin una formazione di ex-combattenti.  Salvemini deve aver compreso le qualità di Gobetti se arriva a offrirgli la direzione de L'Unità, una proposta che però, lascia cadere. Non si sente pronto per tanto impegno, come scrive nel suo diario: “Com'è vasta la cultura che devo conquistare!” E non basta conquistare il vecchio. Sono giovane e devo anche produrre, creare quel po' che si può creare. Ho tutta la vita davanti per sedermi in campagna, davanti al camino, a mangiare pane e noci. Ho una responsabilità. Devo espormi in prima persona. Perciò faccio la rivista. Voglio impormi nel lavoro». E s'impone un piano di studi. “Gentile, ciò che non conosco ancora, rileggerò Croce avvierò lo studio del Marxismo. Per ora non mi preme. Basta che mi formi un'idea generale di Marx e della critica marxista (Sorel, Labriola, ecc.). “D'altra parte studio il bolscevismo, minutamente». Un suo grande ispiratore fu certamente il socialista Jaurès.   Il primo numero di Energie Nove Queste note sembrano riflettere anche la polemica che, appena riprese le pubblicazioni, Energie Nove aveva avuto con L'Ordine Nuovo al tempo sprezzantemente definito dallo stesso Gobetti un «giornaletto torinese di propaganda» di Togliatti, che aveva accusato Gobetti di idealismo astratto, e di Gramsci, che aveva definito velleitaria la Lega democratica, un ricettario per cucinare la lepre alla cacciatora senza la leper. Ora ivi è il segno di un'inquietudine nuova, provocatagli dall'esperienza della rivoluzione russa e dallo sviluppo del movimento operaio, molto attivo a Torino. Pubblica due numeri unici sul socialismo, conosce personalmente Gramsci, stimandolo e venendone apprezzato, del quale pubblica un articolo, studia il russo con la fidanzata Ada insieme curano “Il figlio dell'uomo” di Andreev, pubblicato dall'editore Sonzogno ed scrive, criticando la politica sviluppata da d'Annunzio in forma di retorica, che la politica oggi deve essere realizzata come forma di educazione. La simpatia che io provo per Trotzchi [sic] e Lenin sta nel fatto che essi in un certo modo sono riusciti a realizzare questo valore. Sebbene restio a sposarla (emblematica fu la risposta «Grazie, non fumo…»), nella considerazione del rapporto con la fidanzata si rivela anche la sua profonda maturità e serietà morale: Ho dovuto rifarmi un senso morale, un senso della vita forte a sedici anni, in gran parte a diciassette, e siccome me lo son fatto pensando a lei, gliene sarò grato sempre. Una fanciulla come io la sognavo sola poteva darmi un senso immediato di elevazione. Ho creduto in lei e la amo tanto perché mi fa credere ancora adesso. La rivista Energie Nove cessa le pubblicazioni. Sentivo bisogno di maggiore raccoglimento e pensavo una elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero di fatto nel settembre al tempo dell'occupazione delle fabbriche. Devo la mia rinnovazione dell'esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi da una parte (vivi di un concreto spirito marxista) e dall'altra agli studi sul Risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo», e in giugno si consuma anche il distacco con la Lega democratica degli amici di Salvemini. Continua le traduzioni dal russo ed intraprende quelle dal francese dei modernisti Blondel e Laberthonnière lo studio sulla filosofia di quest'ultimo gli è suggerito da Solarie cerca di rintracciare le radici del Risorgimento italiano studiando la cultura piemontese del Sette-Ottocento. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un ordine nuovo. Non sento in me la forza di seguirli nell'opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia del secolo. Allora il mio posto sarebbe dalla parte che ha più religiosità e spirito di sacrificio. (Piero Gobetti, lettera ad Ada Prospero). Quando, ai primi di settembre, la FIAT e le altre maggiori fabbriche torinesi sono occupate dagli operai, Gobetti scrive: Qui siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un mondo nuovo il mio posto sarebbe necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio. La rivoluzione si pone oggi in tutto il suo carattere religioso. Si tratta di un vero e proprio grande tentativo di realizzare non il collettivismo ma una organizzazione del lavoro in cui gli operai o almeno i migliori di essi siano quel che sono oggi gli industriali». Si tratta, a suo avviso, di una rivoluzione che se non rinnoverà gli uomini, e perciò neanche la nazione, potrà almeno rinnovare lo Stato, creando una nuova classe dirigente: «si può rinnovare lo Stato solo se la nazione ha in sé certe energie (come ora appunto accade) che improvvisamente da oscure si fanno chiare e acquistano possibilità e volontà di espansione».  La presa di distanza dall'azione politica di Salveminila sua ammirazione personale nei suoi confronti resterà comunque intattaè ora piena: gli rimprovera, come scriverà pochi anni dopo, diintendere l'azione politica unicamente come «una questione di morale e di educazione»: il suo «moralismo solenne, mentre costituisce il suo più intimo fascino, appare il segreto delle sue debolezze, La sua concezione razionalista si risolve in un'azione di illuminismo e di propagandismo, che può riuscire utile a una società di cultura, non a un partito».  Prosegue i suoi studi sul Risorgimento e sulla Russia, terminando in ottobre La Russia dei Soviet: è la volontà di comprendere funzioni e limiti di due esperienze rivoluzionarie, al cui centro è sempre il problema della formazione della classe politica che diriga un Paese e dei suoi rapporti con la popolazione. Ne conclude che il Risorgimento non può considerarsi un'esperienza rivoluzionaria, dal momento che i dirigenti politici che espresse rimasero estranei rispetto al popolo, diversamente dalla rivoluzione sovietica che, a suo avviso, ha espresso dirigenti come Lenin e Trotskij, che non sono soltanto dei bolscevichi, ma «uomini d'azioni che hanno destato un popolo e gli vanno ricreando un'anima» e, del resto, la creazione dal basso di un nuovo Stato, nel quale il popolo abbia fiducia proprio in quanto avvertito come opera propria, «è essenzialmente un'affermazione di liberalismo»  Sono concetti ripresi in un articolo pubblicato su L'Educazione nazionale, il Discorso ai collaboratori di Energie Nove, nel quale individua nel movimento operaio un «valore nazionale»: la novità, venuta dalla Russia e che sembra farsi strada anche in Italia, consiste nel fatto che «il popolo diventa Stato. Nessun pregiudizio del nostro passato ci può impedire la visione del miracolo. Questo non avrebbero fatto i liberali, questo non possono fare dei marxisti. Il movimento operaio è un'affermazione che ha trasceso tutte le premesse. È il primo movimento laico d'Italia. È la libertà che s'instaura».  Il suo avvicinamento alle posizioni dei giovani comunisti dell'Ordine Nuovo ha anche il concreto effetto di una collaborazione e Gobetti diventa il critico teatrale della rivista. A luglio, a Torino, deve assolvere gli obblighi di leva: «la vita militare è la consacrazione di tutti gli egoismi e di tutte le meschinità la meccanicità pervade ogni forma di vita; tutto si riduce a elemento, a vegetazione. La caserma è l'antitesi del pensiero. Esce il primo numero della sua nuova rivista settimanale, La Rivoluzione liberale, in cui collaboreranno spesso anche Fortunato, Gramsci e Sturzo: l'obiettivo, come indicato nell'Avviso ai lettori, è pur sempre quello di Energie Nove, ossia di formare una classe politica nuova ma, ora si aggiunge, che sia cosciente delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato. E poiché l'Unità di Salvemini ha cessato le pubblicazioni, La Rivoluzione Liberale intende proseguire quegli sforzi di riorganizzazione morale che nell'Unità si avvertirono. E nel Manifesto inaugurale espone il programma della rivista. La Rivoluzione Liberale pone come base storica di giudizio una visione integrale e rigorosa del nostro Risorgimento; contro l'astrattismo dei demagoghi e dei falsi realisti esamina i problemi presenti nella loro genesi e nelle loro relazioni con gli elementi tradizionali della vita italiana; e inverando le formule empirico-tradizionaliste del liberismo classico all'inglese, afferma una coscienza moderna dello Stato, che prenda in considerazione anche i più sottili, ma non di certo trascurabili, trapassamenti dialettici della storia. Vi pubblica la Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale e a maggio dedica un numero intero all'emergente movimento fascista. Il mese successivo consegue la laurea e, l'anno seguente, pubblicherà la sua tesi sull'Alfieri. E vivamente colpito dagli scritti del patriota e federalista italiano Cattaneo, del quale è uscita in quei giorni un'antologia curata da Salvemini, che egli incontra a Torino. Su Cattaneo ci siamo intesi, egli è assai vicino alle idee che gli ho espresso. Su Cattaneo scrive un articolo sull'Ordine Nuovo sono i giorni della devastazione fascista della sede della rivista comunista firmandosi Giuseppe Baretti: rappresentante della critica del processo unitario risorgimentale, Cattaneo fu emarginato dalla classe dirigente moderata. Eppure Cattaneo avversò non l'unità, ma l'illusione di risolvere con il mito dell'unità tutti i problemi che invece si potevano intendere soltanto nella loro specifica realtà autonoma, regionale senza atteggiarsi a profeta, senza l'enfasi dell'apostolo, capì che il fondare una nazione non era impresa di letterati entusiasti, cercò nelle tradizioni un linguaggio di serietà, un ammaestramento di cautela. E lo condannarono alla solitudine e all'impopolarità, e diedero a lui, uomo positivo e realista, un ufficio di Cassandra, predicante al deserto. Favorito dall'inerzia dei Savoia e dalla complicità dei dirigenti liberali, il fascismo procede alla conquista del potere e Gobetti non s'illude che con esso si possa venire a compromessi e lo si possa acquistare alla causa democratica. Scrive L'elogio della ghigliottina: bisogna sperare «che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi abbia il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo. Chiediamo le frustate, perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia, perché si possa veder chiaro» e che «noi siamo come la dura scorza di una noce: proteggeremo i nostri ideali dalla sopraffazione con tutte le nostre forze e fin quando possibile».  Sposa Prospero: vanno ad abitare nella sua casa natale di via XX Settembre 60, che diviene anche la sede della casa editrice che egli fonda, col suo nome: la Gobetti editore, che pubblicherà, in poco più di due anni, oltre cento titoli. In qualità d'editore, Gobetti porta in Italia, traducendoli, alcuni dei libri e degli autori simbolo del pensiero liberale classico, come  Mill. È tra i primi a pubblicare i libri di Einaudi ed è lui a pubblicare la prima edizione di Ossi di seppia, una delle più famose raccolte di poesia di Montale. I libri editi furono in molti casi dati alle fiamme o comunque distrutti sotto il fascismo e, per questo motivo, sono in molti casi introvabili, come il volume dedicato al socialista Matteotti, di cui esistono pochissime copie.  Tutti i suoi libri riportano in copertina un motto liberale, scritto in greco antico in modo circolare, che recita testualmente "Cosa ho a che fare io con gli schiavi?". Gobetti e Prospero si trasferiranno poi in via Fabro 6, attuale sede del Centro di studi a lui intitolato. E arrestato perché sospetto di appartenenza a gruppi sovversivi che complottano contro lo Stato. Rilasciato cinque giorni dopo, subisce un nuovo arresto, provocando un'interrogazione parlamentare alla quale il governo risponde che era stato redattore dell'Ordine Nuovo di Torino, giornale anti-nazionale; la rivista che egli dirige, conduce da tempo una campagna contro le istituzioni e il governo fascista; il prefetto si è perciò sentito in diritto di far operare una perquisizione e il fermo di Gobetti per misure di ordine pubblico».  Gobetti replica con una lettera ai giornali, ribadendo la sua funzione di oppositore del fascismo, e aggiunge, nei libri stampati dalle sue edizioni, il motto «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Dopo aver preso le distanze dal Prezzolini, che ha scelto il disimpegno di fronte al fascismo, rinnega anche il suo originario gentilismo. Gentile è incapace di dar ragione di ogni fatto politico, nel suo semplicismo pratico la filosofia gentiliana mostra caratteristicamente i suoi limiti e la nessuna aderenza al reale. Le tematiche liberali maggiormente sentite trovano una prima e ultima sistemazione in La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, frutto maturo delle esperienze giornalistiche precedenti, dato alle stampe. L'opera è divisa in quattro parti: L'eredità del Risorgimento, La lotta politica in Italia, La critica liberale, Il fascismo. La fretta con cui vuol dare alle stampe questo saggio di lucida analisi politica gli impedisce di curare bene le parti marginali.  Così succede che "L'eredità del Risorgimento" venga solo abbozzata: «Il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia: l'assenza di una vita libera fu attraverso i secoli l'ostacolo fondamentale per la creazione di una classe dirigente, per il formarsi di un'attività economica moderna e di una classe tecnica progredita. Un Risorgimento calato dall'alto, che di popolare non aveva nulla. La sfida era riempire di liberalità le istituzioni liberali formalmente create. Nel primo dopoguerra assiste a qualcosa di assolutamente nuovo: la nascita dei partiti di massa (Partito Popolare Italiano e Partito Comunista d’Italia saranno una prima versione dei due partiti più importanti della cosiddetta Prima Repubblica. Ma questo non basta. Per anni la lotta politica non riuscì a dare la misura della lotta sociale. Una cosa erano le questioni politiche, un'altra le esigenze sociali, ma queste «non possono essere separate dalla politica al pari di come un felino astuto non si ciberà del formaggio ma ne farà da esca per il topo». La seconda parte si divide in sei capitoli. Ciascun capitolo è un fattore della lotta politica: sono presenti liberali e democratici, popolari (sviluppate le figure di Toniolo, Meda e Sturzo), socialisti, comunisti (grande spazio dato a Antonio Gramsci), nazionalisti (emblematico il pensiero di Alfredo Rocco) e repubblicani. La terza parte è il cuore pulsante del saggio: una proposta concreta per fare politica senza dimenticare la società. La lotta di classe è per Gobetti strumento di formazione di una nuova élite, una via di rinnovamento popolare. Insomma, la lotta politica deve essere lotta sociale. In politica ecclesiastica, si rifà alla pregiudiziale cavouriana della laicità, come necessità da mantenere (cosa che verrà invece negata dai Patti Lateranensi). Per la discussione sulle modalità d'elezione,  è convinto fautore della proporzionale. Il collegio uni-nominale aveva corrotto il rappresentante in tribuno.  Solo con la proporzionale gli interessi si organizzano, così che l'economia venga elaborata dalla politica. Di grandissima attualità è la parte dedicata al problema dei contribuenti. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato. Non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L'imposta gli è imposta. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti. Era quindi necessario per lui raggiungere una maggiore maturità economica e sociale. Il popolo doveva comprendere l'importanza di contribuire nello Stato, e imparare il valore dell'onestà. Per questo richiama attenzione sul problema scolastico. In un mondo fatto per grossa parte da analfabeti o semi--analfabeti, la questione era fondamentale. Manca un numero sufficiente di maestri, perciò si sarebbe dovuto mobilitare chiunque in grado di saper insegnare (anche preti, massoni, bolscevichi e così via).  La questione non evita di trattare l'aspetto economico. Contro il parassitismo pensa che fosse utile tagliare stipendi e investimenti, così da distinguere la vocazione all'insegnamento dalla vocazione al parassitare. In politica estera prospetta un ruolo importante per l'Italia a Versailles. E convinto della possibilità di ottenere un buon accordo attraverso una mediazione. Nella quarta ed ultima parte vi è una rapida esposizione del perché si oppone con ogni mezzo al fascismo. Si è detto che per l'autore la lotta sociale deve essere portata in Parlamento e dar vita a una lotta politica efficiente ed efficace. Mussolini invece fece in modo da soffocare la lotta politica, quando questa più di ogni altra cosa era necessaria all'Italia. Così il Duce e «l'eroe rappresentativo di questa stanchezza e di questa aspirazione di riposo» che si esplicava nel tacito consenso della popolazione allo sradicamento di ogni lotta politica nella nazione. In modo profetico, da esperto conoscitore del pensiero di Hegel qual era, prevede e mette in guardia delle conseguenze della concessione del potere a Mussolini secondo le dinamiche della dialettica “servo-signore” ipotizzando una guerra civile imminente. Il saggio è fortemente militante. Nella nota a conclusion, è chiaro: cerca collaboratori, non lettori. vuole la "rivoluzione liberale", cioè un nuovo liberalismo; nutre una forte avversione per il fascismo, anche perché non è qualcosa di nuovo ma, anzi, il risultato ottenuto da coloro che hanno governato l'Italia: è quindi una condanna della vecchia classe dirigente liberale.  Il fascismo nasce dall'invadenza del cattolicesimo e dalla demagogia dell'Italia liberale: Fascismo come autobiografia della nazione, il fascismo è, insomma, solo l'incancrenirsi dei mali tradizionali della società italiana. La società tradizionale italiana re-agisce sostenendo una forza conservatrice come quella del fascismo, anche se in realtà qualcosa di buono nell'Italia del primo dopo-guerra vi era stato: il proletariato (soprattutto quello torinese) che tenta di assumere su di sé la responsabilità di mutare lo stato delle cose. La borghesia ha perso ogni funzione propositiva. La borghersia è una classe parassitaria che si è adagiata e aspetta tutto dallo Stato. Si blocca così ogni istanza di rinnovamento. La funzione liberale e libertaria è assunta dal proletariato. Le considerazioni politiche di risentono della sua opinione sulla storia italiana, in “Risorgimento senza eroi” Gobetti descrive questo periodo come un'epopea patriottarda di cui simbolo è Mazzini (tante parole, pochi fatti): al Risorgimento sono mancati il pragmatismo e il realismo.  Ci sono due eroi nel Risorgimento e sono Cattaneo e Cavour, due figure assai distanti tra loro ma accomunabili per il loro pragmatismo: Cattaneo gli piace a per la sua volontà di operare, per la capacità di propugnare istanze pragmatiche e vuote di retorica. Cavour è uomo che media per raggiungere degli obiettivi, ha mire di lungo periodo. Il Risorgimento di Cattaneo è sconfitto, ma non quello di Cavour. Entrambi, però, hanno instillato nella società italiana lo spirito della competizione e l'ideale di assunzione di responsabilità. La società italiana si regge su ruoli e cariche già predefiniti, è statica e stagnante: il proletariato, però, si ribella a ciò, rifugge situazioni già prestabilite per costruire una società nuova in cui ciascuno sarà libero di esprimersi.  La persecuzione, l'esilio e la morte. Si reca in Francia, a Parigi e poi a Palermo, per incontrare alcuni amici conosciuti durante il recente viaggio di nozze. I suoi spostamenti sono seguiti dalla polizia italiana e, Mussolini telegrafa al prefetto di Torino, Palmieri: “Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a Parigi e che oggi sia a Palermo. Prego informarmi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo.” Il prefetto obbedisce. Viene percosso, la sua abitazione perquisita e le sue carte sequestrate. Come scrive a Lussu, la polizia sospetta che egli intrattenga rapporti in Italia e all'estero per organizzare le forze antif-asciste.  È il giorno che precede la scomparsa di Matteotti, il cui corpo verrà ritrovato solo in agosto, ma subito si ha la certezza che si tratti di un omicidio perpetrato da sicari fascisti. Ne traccia un profile. Non ostenta presunzioni teoriche: dichiara candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare i bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li paga; come medievale crudeltà e torbido oscurantismo  Sente che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorre opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo. Auspica, dalle colonne della sua rivista, la formazione di "Gruppi della Rivoluzione Liberale", formati da uomini di tutti i partiti anti-fascisti, che combattano il fascismo, questo fenomeno politico che trae i motivi del suo successo e della sua conservazione dalla creazione di «un esercito di parassiti dello Stato». Occorre, a questo scopo, formare un'economia moderna con un'industria libera da ogni protezionism e da ogni paternalismo di Stato e con una classe proletaria politicamente intransigente aiutare i partiti seri e moderni a liberarsi dei costumi giolittiani. La guerra al fascismo è questione di maturità storica, politica, economica. Questi articoli e quello in cui accusa il deputato fascista, grande invalido di guerra, Delcroix, di manovre parlamentari definite aborti morali, provocano il sequestro della rivista ed una violenta aggressione da parte di uno squadrone fascista. Persino un articolo di Fiore contro il criminale fascista Dumini, apparso su La Rivoluzione Liberale, fornisce il pretesto al prefetto di Torino di sequestrare la rivista. Con Fiore e conDorso pubblica un Appello ai meridionali e con il Saluto all'altro Parlamento appoggia l'iniziativa aventiniana, dalla quale si aspetta un'opposizione intransigente e un esempio di rinnovamento dei costumi parlamentari italiani.  Fonda una nuova rivista, Il Baretti, alla quale collaborano, tra gli altri, Monti, Sapegno, Croce e Montale. Come La Rivoluzione Liberale è dedicata a temi storico-politici, così la nuova rivista vuole essere riservata alla critica letteraria e all'estetica. Il riferimento a Baretti, letterato italiano vissuto a lungo all'estero, e alla sua Frusta letteraria, esempio di polemica vivace e irriverente, sottintende, scrive nel numero d'esordio, «una volontà di coerenza con le tradizioni di battaglia contro culture e letterature costrette nei limiti della provincia, chiuse dalle frontiere di dogmi angusti e di piccole patrie».  In ossequio alle direttive mussoliniane, proseguono i sequestri della sua rivista. Rimedieremo ai sequestri rifacendo l'edizione, scrive Gobetti e anche quel numero viene sequestrato con il pretesto di scritti diffamatori dei poteri dello Stato e tendenti a screditare le forze nazionali. Cura La Libertà di Mill, con la prefazione di Einaudi, il quale scrive che quando, per fiaccare la voce dei ribelli, si assevera dai dominatori la unanimità del consenso, giova rileggere i grandi libri sulla libertà. Anche produrre citazioni di scrittori del passato che non collimino col pensiero del Regime può essere tendenzioso e perciò provocare il sequestro della rivista. E arrestato Salvemini, che ha pubblicato sul foglio clandestino Non Mollare l'articolo Mussolini il mandante. Altri sequestri de La Rivoluzione Liberale avvengono. Un periodo di serenità per Piero e la moglie Ada che aspetta un bambino è rappresentato da un viaggio a Parigi e a Londra. A Parigi pensa di stabilire una sua casa editrice: «Credo che solo da Parigi, solo in francese, solo con la solidarietà dello spirito francese un italiano possa fare con utilità un'opera pratica di intelligenza europea. S'intende senza chauvinisme francese. D'altra parte, intende ancora rimanere in Italia. Rimarrò in Italia fino all'ultimo. Sono deciso a non fare l'esule.  A metà agosto fanno ritorno a Torino e è nuovamente vittima dei pestaggi squadristi, ma è ancora intenzionato a rimanere in Italia. Bisogna amare l'Italia con orgoglio di europei e con l'austera passione dell'esule in patria, scrive nell'articolo Lettera a Parigi, per capire con quale serena tristezza e inesorabile volontà di sacrificio noi viviamo nella presente realtà fascista. Le nostre malattie e le nostre crisi di coscienza non possiamo curarle che noi. Dobbiamo trovare da soli la nostra giustizia. E questa è la nostra dignità di anti-fascisti. Per essere europei dobbiamo su questo argomento sembrare, comunque la parola ci disgusti, nazionalisti.  Poiché i ripetuti sequestri a nulla hanno valso, e che il periodico in parola, sotto l'aspetto di critiche e di discussioni politiche, economiche, morali e religiose, che vorrebbero assurgere ad affermazioni e sviluppi di principi dottrinari, mira in realtà, con irriverenti richiami, alla menomazione delle Istituzioni Monarchiche, della Chiesa, dei Poteri dello Stato, danneggiando il prestigio nazionale, e nel complesso può dar motivo a reazioni pericolose per l'ordine pubblico, persistendo in violazioni sempre più gravi ai vigenti decreti sulla stampa», il prefetto d'Adamo diffida «il Direttore responsabile del periodico La Rivoluzione Liberale,  ai sensi e per gli effetti di cui all'art.” ad adeguarsi alle direttive del Regime e poiché l'8 novembre la rivista disattende l'ordine, il prefetto ingiunge la cessazione definitiva delle pubblicazioni e la soppressione della stessa casa editrice per attività nettamente anti-nazionale. D'ora in avanti sarò palesatamente costretto all'infelice dissenso. La libertà d'opinione è stata soppressa come una rete che viene sradicata: senza possibilità di dialogare sono destinato ad essere sopraffatto. A cosa serve più, ora, fare finta? Gobetti, che ora soffre anche di scompensi cardiaci, provocati o aggravati dalle violenze subite, pensa di lasciare l'Italia per proseguire in Francia l'attività editoriale. Nasce a Torino il figlio Paolo, che durante la seconda guerra mondiale diventerà partigiano e poi giornalista per l'Unità, oltreché storico del cinema. Scrive una lettera a Fortunato. Parto per Parigi dove farò l'editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica spicciola come i granduchi spodestati di Russia; vorrei fare un'opera di cultura, nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna. Parte da solo per Parigi. Alla stazione di Genova viene a salutarlo  Montale. Si ammala di una bronchite, che esacerba gravemente i suoi problemi cardiaci. Trasportato in una clinica di Neuilly-sur-Seine, vi muore assistito da Fausto, Nitti, Prezzolini e Emery. È sepolto nel cimitero parigino di Père-Lachaise.  Saggi:“La filosofia politica di Alfieri” (Torino, Gobetti); “La frusta teatrale, Milano, Corbaccio, Felice Casorati. Pittore, Torino, Gobetti, “Dal bolscevismo al fascismo: note di cultura politica” (Torino, Gobetti); Il teatro di Enrico Pea, in Enrico Pea, Rosa di Sion, Torino, Gobetti, Matteotti, Torino, Gobetti, Postfazione di M. Scavino, Edizioni di Storia e Letteratura, col titolo Per Matteotti. Un ritratto, Il Melangolo, Genova, “La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Bologna, Cappelli,  Opere edite e inedited; “Risorgimento senza eroi” “Piemonte nel Risorgimento, Torino, Baretti, Paradosso dello spirito russo, Torino, Baretti, Opera critica “Arte, religione, filosofia, Torino, Baretti, Teatro, letteratura, storia, Torino, Baretti,  Scritti attuali, Roma, Capriotti, Coscienza liberale e classe operaia, P. Spriano, Torino, Einaudi, Opere complete, Scritti politici, P. Spriano, Torino, Einaudi,  Scritti storici, letterari e filosofici, Spriano, Torino, Einaudi, Critica teatrale, Guazzotti e Gobetti, Torino, Einaudi, L'editore ideale. Frammenti autobiografici con iconografia, F. Antonicelli, Milano, All'insegna del pesce d'oro, Energie nove, Torino, Bottega d'Erasmo, Baretti, Torino, Bottega d'Erasmo, Lettere dalla Sicilia, nota di G. Chimirri, introduzione di N. Sapegno, Palermo, Nuova editrice meridionale,  Nella tua breve esistenza. Lettere on Ada Gobetti, E. Perona, Collana NUE Torino, Einaudi, Collana Piccola Biblioteca. Nuova serie, Einaudi, Con animo di liberale. Gobetti e i popolari. Carteggi Bartolo Gariglio, Milano, F. Angeli, Dizionario delle idee, Bucchi, Roma, Riuniti, Antifascismo etico. Elogio dell'intransigenza, M. Gervasoni, Milano, M&B Publishing, Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, Che ho a che fare io con i servi? Zibaldone politico, Reggio Emilia, Aliberti,  Il giornalista arido Articoli Collana Classici idel giornalismo, Torino, Aragno,  Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi,,  Biografia di Gobetti  M. Brosio, Riflessioni su Gobetti, Gobetti, L'editore ideale, P. Gobetti, L'editore ideale, c N. Bobbio, Italia fedele. Il mondo di Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere Gobetti, Energie Nove,  Lettera ad Ada Prospero, Nella tua breve esistenza,  Diario, L'editore ideale, Carlo Levi, in «Introduzione agli Scritti politici Togliatti, I parassiti della cultura, in «L'Ordine Nuovo», Gramsci, Contributi a una nuova dottrina dello stato e del colpo di stato, in «L'Ordine Nuovo», Nella tua breve esistenza, cAlberto Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il Punto, L'editore ideale, Gobetti, Rivoluzione liberale, Nella tua breve esistenza, Gobetti, La Rivoluzione liberale, in «Scritti politici», Scritti politici,  Nella tua breve esistenza, Manifesto della Rivoluzione Liberale,  Nella tua breve esistenza, La rivoluzione Liberale, Elogio della Ghigliottina,  Dizionario Biografico degli Italiani  La Rivoluzione Liberale, I miei conti con l'idealismo attuale, Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, C. Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Gobetti», La Rivoluzione Liberale, Gruppi della Rivoluzione Liberale, La Rivoluzione Liberale, Come combattere il fascismo, A. Colombo, Hutchings, Gobetti, GOBETTI AND MATTEOTTI, Il Politico,  In, La cultura francese nelle riviste e nelle iniziative editoriali di Gobetti, Lettera ad Prospero, Basso, Anderlini, Le riviste di Gobetti, Feltrinelli, Prezzolini, Gobetti e «La Voce», Firenze, Sansoni, M. Brosio, Riflessioni su Piero Gobetti, Quaderni della Gioventù liberale italiana di Torino, G. Bergami, Guida bibliografica degli scritti, Collana Opere diGobetti, Torino, Einaudi, P. Spriano, Gramsci e Gobetti, Torino, Einaudi, A. Carlino, Politica e dialettica in Gobetti, Lecce, Milella, P. Bagnoli,  Gobetti. Cultura e politica di un liberale del Novecento, Firenze, Passigli, U. Morra di Lavriano, Vita,  pref. di N. Bobbio, Torino, Tipografico, Gobetti e la Francia, Milano, Franco Angeli, Luigi Anderlini, Gobetti critico, in Letteratura italiana. I critici, Milano, Marzorati, Gobetti e gl’intellettuali del Sud, Napoli, Bibliopolis, G. De Marzi, Gobetti e Croce, Urbino, Quattroventi,  A. Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il Punto, Marco Gervasoni, L'intellettuale come eroe. Piero Gobetti e le culture del Novecento, Firenze, La Nuova Italia, Bagnoli, Il metodo della libertà.  tra eresia e rivoluzione, Reggio Emilia, Diabasis, Gariglio, Progettare il postfascismo. Gobetti e i cattolici, Milano, Franco Angeli, Virgilio, Gobetti. La cultura etico-politica del primo Novecento tra consonanze e concordanze leopardiane, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, Angelo Fabrizi, «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Gobetti e Alfieri, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Flavio Aliquò Mazzei, Piero Gobetti. Profilo di un rivoluzionario liberale, Firenze, Pugliese,  B. Gariglio, L'autunno delle libertà Lettere ad Ada in morte di Gobetti, Torino, Bollati, Erba, Piero Gobetti, in Intellettuali laici nel '900 italiano, Padova, Grasso, Ciampanella, Senza illusioni e senza ottimismi. Prospettive e limiti di una rivoluzione liberale, Roma, Aracne, Socialismo liberale Liberalismo socialeSalvemini Amendola Croce AlfieriMatteotti Il Baretti La Rivoluzione liberale. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Centro Studi Piero Gobetti, su centrogobetti. «La Rivoluzione Liberale» Gobetti, Il liberalismo in Italia, G. Iacchini, Quando la libertà è rivoluzionaria: Piero Gobetti, su radicalsocialismo. La casa di Gobetti in via XX Settembre a Torino, su multimedia lastampa. Piero Gobetti. Gobetti. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gobetti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice eGobbo  -- Federico Gobbo – esperantista -- He has collaborated with philosophers.

 

Grice e Gonnella – filosofia del diritto romano – filosofia romana – Luigi Speranza (Bari). Grice: “Like Foucault, and a few English philosophers who explored the conceptual intricacies of the ‘justification’ of punishment, Gonnella’s oeuvre is brilliant!” Saggi: “Il diritto (non) ci salverà, Il Manifesto,  Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti, Scientifica,. Carceri. I confini della dignità, Jaca, La tortura in Italia, Derive Approdi,. Jailhouse Rock, cento musicisti dietro le sbarre, Arcana,. Il carcere spiegato ai ragazzi, Il Manifesto, Patrie galere, Carocci, Sviluppo urbano e criminale, a Roma, Sinnos,  Il collasso delle carceri italiane. Sotto la lente degli ispettori europei, Sapere Consiglio d'Europa, Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degl’anti-fascisti, Edizioni dell’Asino,. I paradossi del diritto. Scritti in omaggio a Resta, Roma TrE-Press,  Giustizia e carceri secondo papa Francesco, Jaca,. Onorare gli impegni. L'Italia e le norme contro la tortura, Sinnos, Inchiesta sulle carceri italiane, Carocci, Il Carcere trasparente. Primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, Castelvecchi. Patrizio Gonnella. Gonnella. Keywords: filosofia del diritto romano, sanction, punishment. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gonella” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Goretti – la coazione istituzionale – filosofia fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Si laurea a Torino sotto Solari. Fequenta Milano, dove incontra Martinetti. Segretario delCongresso Nazionale di Filosofia, organizzato dalla Società filosofica italiana. Il Congresso è sciolto dalle autorità dopo appena due giorni. Firmano la lettera di protesta indirizzata al rettore Luigi Mangiagalli, nel quale si "protesta in nome della libertà degli studi e della tradizione italiana contro un atto di violenza che impedisce l'esercizio della discussione filosofica.” Al momento del giuramento di fedeltà, necessario per entrare nella carriera universitaria o per proseguirla, si rifiuta e resta così al di fuori della carriera accademica; svolge attività professionale a Milano, e collabora alla "Rivista di filosofia" (anche quale componente del comitato direttivo). Frequenta Palazzo Fossati in Via Ciro Menotti a Milano. In prossimità della morte, Martinetti lascia la sua biblioteca privata in legato a Ruffini, Solari e Goretti. La Biblioteca verrà poi conferita dai rispettivi eredi alla "Fondazione Piero Martinetti per gli studi di storia filosofica " di Torino; oggi nel palazzo presso la Biblioteca della Facoltà di Filosofia. Goretti è riammesso nel mondo universitario e assume per concorso la cattedra di Filosofia del diritto; insegna all'Ferrara fino alla morte.  Il Comune di Ferrara ha intitolato una via a Cesare Goretti, "filosofopatriota".  L'animale come soggetto di diritto Prolifico filosofo del diritto, autore di scritti su Kant, Sorel, Bradley, cura Špir, Bradley, Green), a Goretti si deve il primo intervento che qualifica l'animale come “soggetto di diritto”. Martinetti pubblica “L’animo del animale” in cui aveva sottolineato che il animale possede intelletto e coscienza e, in generale, un animo, come emergeva dagli  lo studio dello “atteggiamento, gesto, la fisionomia.” Questo animo e vita animale è “forse estremamente diversa e lontana” da quella del homo sapiens” ma “ha anch'essa la carattere della coscienza e non può essere ridotta ad un semplice meccanismo fisiologico. Goretti va oltre, fino ad affermare che l’ animalee vero e proprio un “*soggetto* (“soggetoodi diritto” e che l'animale ha una “coscienza giuridica” e una percezione del giuridico. In tal modo, anticipa tematiche proprie della bioetica e dell'etologia. Nonostante l'originalità e l'innovatività delle posizioni assunte, il suo manifesto non ha avuto fortuna ed è stato del tutto trascurato dal dibattito animalista e negli studi di etologia. Come non possiamo negare all'animale in modo sia pure crepuscolare l'uso della categoria della causalità, così non possiamo escludere che l'animale partecipando al nostro mondo non abbia un senso di quello che può essere la proprietà e l'obbligazione. Casi innumerevoli dimostrano come un cane e custode geloso della proprietà del suo padrone e come ne compartecipa all'uso. Dve operare in esso questa visione della realtà esteriore come cosa propria, che nell’homo sapinens arriva alle costruzioni raffinate dei giuristi. È assurdo pensare che l'animale che rende un servizio al suo padrone che lo mantiene agisca soltanto istintivamente. Deve pure sentire in sé in modo sensibile questo rapporto di servizi resi e scambiati – cf. Grice, lo scambio conversazionale --. Naturalmente l'animale non potrà arrivare al concetto di ciò che è la proprietà e l'obbligazione. Basta che dimostri di fare uso di questi principî che in lui operano ancora in modo osensibile.»  (“ L’animale quale soggetto – e soggeto di diritto”). Nella filosofia del diritto si individuano tre teorie dell'"istituzionalità nel giuridico": istitutismo: teoria del diritto quale insieme di istitutito e concepito come una sorta di azione co-ordinata, costituente un equilibrio tipico e costante di finalità che si fissa in un complesso di mezzi, una costruzione. Per l istituzionalismo la istituzione (Romano, Hauriou). neo-istituzionalismo: il diritto è rappresentato da un “fatto” istituzionale (McCormick, Weinberger). Saggi: “La forma giuridica” (Isis, Milano); “Il sentimento giuridico” (Solco", Città di Castello); “I fondamenti del diritto” (Lombarda, Milano); “Liberalismo” (Pirola, Milano); “Norma giuridica, atto giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Istituto giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Norma giuridica” (Milani, Padova); "Rivista di filosofia", L'animale, soggetto, e soggeto di diritto, "Rivista di filosofia", Recensione di Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, Duncher & Humblot, München-Leipzig, "Rivista di Filosofia",  Recensione di R. Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, "Rivista di Filosofia", Introduzione a A. Spir, La giustizia, Lombarda, Milano, Il saggio politico sulla costituzione del Württenberg, "Rivista di filosofia", “Legge e norma, "Rivista di filosofia", La filosofia pratica W. Schuppe, "Rivista di filosofia",  “F. H. Bradley, "Rivista di filosofia", “La conoscenza etica, "Rivista di filosofia", “L'idea di patria”, "Rivista di filosofia", L'idealismo rappresentativo”, "Rivista di filosofia", Recensione di Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, in "Rivista di filosofia", La metafisica della conoscenza, "Rivista di filosofia",  Il dolore nel pessimismo di A. Spir, "Rivista di filosofia", L’individualità, "Rivista di filosofia", Il saintsimonismo, "Rivista di filosofia", Diritti e doveri giuridici in relazione alla norma giuridica, "Archivio della Cultura italiana", L'istituzione dell'eforato in Sparta, "Archivio della Cultura italiana", “La valutazione tecnica della realtà, "Archivio della Cultura italiana", Martinetti, "Archivio della Cultura italiana", L'impiego delle categorie o dei concetti puri ed il valore della co-azione e inter-azione -- e dei postulati nella filosofia giuridica” "Annali della Ferrara",  Recensione di Candian, Avvocatura, Milano, in "Annali della Ferrara",   Il liberalismo, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", L’istituzione in senso tecnico ed l’istituto giuridico nel realismo"Annali della Ferrara",  “Equità, "Scritti giuridici in onore di Carnelutti",  Filosofia e teoria generale del diritto, Milani, Padova, L'umanesimo critico di France, "Rivista di filosofia del diritto", Recensione di Erzbach, "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", Rileggendo il Filomusi Guelfi, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", La filosofia di Martinetti, "Memorie dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali", Bologna, Considerazioni critiche sul diritto sociale, "Annali della Ferrara", Scienze Giuridiche.  L’acquisto ideale nella filosofia giuridica di Kant, "Rivista di filosofia del diritto", Sulla sociologia della diada e del gruppo sociale”. "Scritti di sociologia e politica in onore di Sturzo", Zanichelli, Bologna,  Isu luigisturzo, Scritti su Cesare Goretti Gioele Solari, Recensione, "Rivista di filosofia", N. Bobbio, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", G.  Roccia, Filosofia e realizzazione spirituale” "Rivista internazionale di filosofia del diritto", Orecchia, voce “Goretti” della Enciclopedia filosofica,  Venezia-Roma, Istituto per la Collaborazione culturale, Goretti, in Orecchia, Maestri italiani di filosofia del diritto, Bulzoni, Roma, Castignone, I diritti animali: la prospettiva utilitaristica, "Materiali per una storia della cultura giuridica", D'Agostino, I diritti degl’animali, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", Pocar, Gli animali non umani, Laterza, Roma-Bari, Martinetti, Pietà verso gl’animali (Alessandro Di Chiara), Il melangolo, Genova, Lucia, Goretti e la bioetica e l'etologia, "Annuario di itinerari filosofici", "Piacere, dolore, senso", Mimesis, Milano, Lorini, Atti giuridici istituzionali, in Lorini, L’atto giuridico, Adriatica, Bari, Paolo Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina Milano); Colombo, La filosofia come soteriologia: l'avventura spirituale e intellettuale di Martinetti, Vita e Pensiero, Milano, C. Galli, Schmitt nella cultura italiana. Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica, "Storicamente", G. Lorini, Due a priori del diritto: l'a priori del giuridico”; Fenomenologia del diritto. Adolf Reinach, Mimesis, Milano,  A.  Pisanò, Diritti de-umanizzati: animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, Lettera, Martinetti e Goretti a L. Mangiagalli in Martinetti Lettere Firenze, Massimo Mori, Rivista di filosofia, -- "Segni e comprensione", Brixia Sacra. Memorie storiche della Diocesi di Brescia, Solari,  Fossati, Necrologio, "Rivista di filosofia", Colombo, La filosofia come soteriologia: l'avventura spirituale e intellettuale di  Martinetti, Vita e Pensiero, Milano, Luigi FossatiArchivi del Garda, in Archivi del Garda. Paolo Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina editore, Milano, Attilio Pisanò, Diritti deumanizzati: animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, P. Martinetti, La psiche degli animali in Saggi e discorsi, Paravia, Torino, ore in Pietà verso gli animali (Alessandro De Chiara), Il Melangolo, Genova); “L'animale come soggetto di diritto, in Rivista di filosofia, per estratto in P. Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina, Milano, P. Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina editore, Milano, A.  Pisanò, Diritti deumanizzati: animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, “Istitutismo” è un neologismo coniato da Piovani, Mobilità, sistematicità, istituzionalità della lingua e del diritto, Giuffré, Milano, cfr. G. Lorini, Dimensioni giuridiche dell'istituzionale, Milani, Padova, Lorini, “La dimensione giuridica dell'istituzionale, Milani, Padova, Cosa resta dell'istituzionalismo, “L'ircocervo”,  L.  Glazel, “Tetracotomomia dell’ istituzionale” in R. Renard, "Saggi in ricordo di Tanzi", Giuffré, Milano, M. Brutti, Alcuni usi del concetto di struttura nella conoscenza giuridica, "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico", McCormick/Weinberger, Il diritto come istituzione, M. La Torre, Milano, M. Torre, “Norma, l’istituzionale, il valore: Per una teoria istituzionalistica del diritto, Bari. Il pensiero filosofico di Cesare Goretti non è comprensibile se ricondotto solamente al suo aspetto giuridico1, brillantemente espresso all’interno dei suoi Fondamenti del diritto (Goretti 1930), ma necessita di un approfondimento che tocchi ogni ambito speculativo della filosofia. Questo lavoro, quindi, pur mantenendo fermo il fine di una delucidazione dei principi filosofici posti alla base della sua concezione del diritto, fornirà un excursus preliminare sugli aspetti più importanti del suo pensiero, conducendo il lettore all'interno del formalismo gnoseologico kantiano, del volontarismo di Schopenhauer e dell’idealismo di matrice britannica, esortando ulteriori approfondimenti su un autore il quale, attraverso il proprio rigore morale (Goretti, così come il suo maestro Piero Martinetti, risulta tra i non firmatari del 1 Un richiamo in nota al contesto storico nel quale la filosofia del diritto di Goretti si sviluppa risulta tuttavia necessario. Essa si inserisce all'interno di quell’indirizzo, chiamato ‘istituzionalismo’, che identifica nell’istituzione il fulcro attorno al quale si crea e si espande la vita associata. Inaugurato con gli studi di Maurice Hauriou in Francia e Santi Romano in Italia, esso si pone in netta contrapposizione con la teoria normativista di Kelsen. Il particolare interesse di Goretti per l’idealismo di matrice anglosassone conferisce però al suo giuridicismo filosofico un taglio innovativo rispetto, ad esempio, al più celebre istituzionalismo di Santi Romano, tanto da poterlo considerare come ‘istitutismo’.160 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 giuramento di fedeltà al fascismo del ‘31) ha dimostrato l’autonomia dello spirito rispetto alla contingenza degli avvenimenti storici. Nella trattazione delle sue opere non verrà seguito un ordine cronologico, ma una sistematica ricostruzione della sua dottrina. Questo è il motivo per il quale La metafisica della conoscenza in Thomas Hill Green (Goretti 1936) e l’Introduzione alla sua Etica (Goretti 1925) rappresentano un punto di partenza necessario per la successiva analisi del suo pensiero. È dunque dalle origini, dall’aspetto gnoseologico, che questo lavoro prenderà le mosse, ed è proprio da uno spunto, fornito dall’incompletezza della soluzione alla Ding an sich kantiana fornita da Green, che Goretti elaborerà il suo impianto filosofico. L’esigenza di ricongiungere forma e materia, di collegare il fenomeno con il noumeno, ha condotto la filosofia, da Kant in poi, verso la strada di un idealismo monistico. Quello che Goretti compie, invece, consiste in un’elegante risoluzione del problema, la quale, pur non rinunciando al principio monistico, mette al sicuro il formalismo kantiano da eventuali ricadute metafisiche. Per fare ciò, egli si avvale del concetto di volontà elaborato da Schopenhauer, evitando le sue derive pessimistiche e avvalorando il principio morale delineato da Green. Quanto fin qui solamente accennato mette dunque in luce l’aspetto poliedrico del pensiero di Goretti, in grado di spaziare tra gli autori e i campi della filosofia più disparati, mantenendo comunque quel rigore logico ed espositivo che lo rendono un autore unico nel suo genere. 1. Fenomeno e relazione: da Kant a Green La filosofia di Green, come sottolinea Goretti, rappresenta una fusione del pensiero critico di Kant e di Fichte (Goretti 1936, 97), una sintesi degli studi portati avanti a partire dalla sua Introduction to Hume’s Treatise of Human Nature, contenuta all’interno dei Collected Works (Green 1885-1888). Anche se i suoi Prolegomena to Ethics (1883), tradotti in italiano dallo stesso Goretti (Green 1925), vengono di frequente considerati come la «concezione definitiva dell’autore» (Goretti 1936, 98), portando spesso ed erroneamente a giudicare la sua gnoseologia prettamente metafisica, la sua capacità di analisi è riuscita ad andare ben oltre l’empirismo e il razionalismo precedenti. È per questa ragione, dunque, che Goretti tornerà, molto tempo dopo aver tradotto l’opera del Green, a dedicare ulteriori studi volti a precisare e confutare alcune delle conclusioni avanzate dal filosofo britannico. Attraverso un’accurata scomposizione del suo apparato epistemologico, Goretti riesce a salvare l’apparente e vuoto formalismo kantiano, che il Green aveva così ardentemente tentato di eliminare. La teoria della conoscenza di Green si fonda sulle osservazioni kantiane inerenti l’esistenza di una coscienza, in grado di unificare e sistematizzare i dati dell’esperienza, considerati, fino ad allora, come unica realtà possibile. Per Kant, ribadisce Goretti, è  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti solo grazie alla natura del nostro spirito che l’esigenza unificatrice, chiamata con il nome di appercezione trascendentale, si manifesta (Goretti 1936, 99). L’esperienza, dunque, rappresenta il complesso di unificazioni che il nostro spirito pone in essere sulla molteplicità del sensibile. Da ciò, la celebre distinzione kantiana tra prodotto della natura e prodotto dell’intelletto, che porta la filosofia verso un «Umänderung der Denkart» (Kant 1919, 24). Tutto ciò che possiamo conoscere è derivabile dalla nostra esperienza, mentre la realtà, ciò che è posto al di fuori del mondo sensibile, non può essere conosciuto, il che equivale ad affermarne il suo carattere a priori, in quanto strumento inconoscibile atto a conoscere. È proprio su questo punto, tuttavia, che Kant incontra le maggiori difficoltà. Tentando di superare le aporie humeane, pone in essere quella distinzione tra fenomeno e cosa in sé che occuperà gran parte della speculazione filosofica successiva. Nel tentativo di fornire una risposta adeguata a questo dilemma, senza rientrare all’interno delle conclusioni delineate dall’idealismo tedesco, si inserisce l’opera di Green. Come sottolineato da Goretti, Green adopera un linguaggio differente rispetto a quello utilizzato da Kant, il quale, secondo Green stesso, gli permetterebbe di eludere il problema relativo alla cosa in sé. Egli sostituisce, continua Goretti, la locuzione kantiana phenomena con quella di relations. Per mezzo di questa distinzione, Green è convinto di poter esprimere in maniera più marcata la facoltà unificatrice dello spirito, evitando così di cadere all’interno delle problematiche del razionalismo kantiano. L’errore di Kant, sottolinea Green, è rinvenibile proprio nella separazione che egli opera tra natura formaliter spectata e natura materialiter spectata. Questo errore non è altro che un refuso dell’empirismo lockeano, rinvenibile in Kant attraverso l’espressione «Macht zwar der Verstand die Natur, aber er schafft sie nicht» (Selsam 1930, 2). Come sostiene Green: If phenomena, as materialiter spectata, have such another nature, it will follow [...] that there is no ground for that conviction of there being some unity and totality in things, from which the quest for knowledge proceeds. The cosmos of our experience, and the order of things-in-themselves, will be two wholly unrelated worlds (Green 1883, § 39). Se si vuole considerare la materia, continua Green, dobbiamo prendere in considerazione l’esistenza di forze che generano il loro movimento comprese nella rappresentazione del fenomeno stesso (Goretti 1936, 100-101). Il divenire, dunque, diventa veicolo attraverso il quale la realtà spirituale si manifesta, una molteplicità con la quale il nostro spirito limitato coglie l’unità. Esso rappresenta, per Green, il processo causale della molteplicità stessa e non un prodotto della realtà assoluta. Alessandro Dividus 161  162 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 La posizione di Green è molto particolare. Egli rinnega l’esistenza di due elementi distinti, forma e materia, ma al tempo stesso, non ricade nella sintesi degli opposti sviluppata da Hegel. Le cose che noi osserviamo non sono scisse e frammentarie, ma rivelano l’esistenza di un assoluto che non si muove seguendo un movimento dialettico. La realtà, secondo Green, è una progressione di gradi di relazione e per questo motivo non può in alcun modo trovarsi fuori dallo spazio e dal tempo. La molteplicità delle relazioni, dunque, assume per Green il significato di qualità dello spirito, che il nostro Io attribuisce alle cose, ma che non si trova nelle cose stesse (Goretti 1936, 108). Queste conclusioni, sottolinea Goretti, sono per Green il modo di superare il dibattito intorno alla distinzione lockeana tra qualità primarie e qualità secondarie. Mentre, per i sostenitori dell’empirismo, la differenza tra qualità sussiste su di un piano sostanziale, cioè appartenente alla natura delle cose, per Green, invece, essa è puramente graduale. L’unica diversità che le caratterizza consiste nell’apparente priorità temporale che le prime dimostrano nel manifestarsi. Questo evento è dovuto, spiega Green, alla predominanza dell’elemento formale rispetto a quello empirico. Ogni relazione, dunque, è per Green una qualità. Il centro della realtà rimane sempre l’Io, ma l’elemento formale che Kant non era riuscito ad eliminare viene sostituito da gradi di relazione. Queste affermazioni sono avvalorate ancor più da Green attraverso la distinzione tra giudizi sintetici e giudizi analitici. Utilizzando l’enunciato kantiano “ogni corpo è esteso”, non ci troviamo di fronte ad un giudizio analitico, come Kant suppone, data la presenza del predicato all’interno del soggetto, ma come per il secondo enunciato “ogni corpo è pesante”, stiamo attribuendo al soggetto un grado di relazione meno complesso rispetto al secondo (Green 1886, §§ 69-72). La mera intuizione delle categorie di spazio e tempo non è sufficiente per cogliere la distinzione tra diversi giudizi. Lo spazio offre solamente la concezione di una figura, ma non di un corpo. Secondo Green, dunque, Kant confonde il concetto di corpo con quello di figura. La conclusione di Green, riporta Goretti, «è che ogni giudizio presuppone una sintesi che si può scomporre in una analisi di relazioni, analisi che può portare ad ulteriori sintesi» (Goretti 1936, 112). Ogni relazione è dunque un grado di realtà maggiore o minore rispetto all’unità che essa contribuisce a formare all'interno della nostra conoscenza. Quanto finora brevemente riportato mette in luce l’atteggiamento critico di Green rispetto alle problematiche formali espresse dalla filosofia kantiana. Naturalmente, quanto emerso rispecchia solo una minima parte del pensiero greeniano, in questa sede appositamente riassunto, ma fornisce gli strumenti necessari per comprendere il punto di partenza attraverso il quale Goretti ripartirà per formulare la sua teoria. Come sostiene Goretti «Non si può certo affermare che Green abbia sempre esattamente compreso la filosofia di Kant» (Goretti 1936, 113). Le critiche che Goretti muove nei  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti confronti del filosofo britannico riguardano proprio il suo tentativo di eliminare, senza risolvere, il formalismo kantiano, ricadendo in quella struttura monistica della quale già Fichte aveva tracciato le linee. Secondo Goretti, la concezione metafisica di Green è prettamente religiosa (Goretti 1936, 115; cfr. Seth 1887), in quanto ogni fenomeno, o relazione, è per lui un riverbero dell’assoluto che non si esaurisce nella sua apparenza. Così facendo, continua Goretti, Green non si accorge di aver identificato l’assoluto stesso con la molteplicità delle sue relazioni, senza mettere in conto la possibilità che un grado di realtà inferiore, rispetto ad uno superiore, possa rappresentare solamente una negazione, un’apparenza dell’assoluto (Goretti 1936, 115). Il dibattito sull’aspetto monistico, o meno, della filosofia di Green è ovviamente molto ampio (vedi Tyler 2003) e le teorie le più disparate. Il percorso tracciato dalle sue tesi trova il suo naturale sviluppo nelle dottrine del Bradley, il quale riduce le relazioni stesse a provvisorie apparenze riproponendo, ancora una volta, l’ombra di una realtà intellegibile (Goretti 1933). Ma Goretti percorre una strada diversa, in qualche modo innovativa rispetto al senso comune. Egli si serve di Schopenhauer per liberarsi del rapporto dualistico tra realtà assoluta e materia, senza però rinunciare alla categoria formale elaborata da Kant2. 2. Il concetto di volontà in Cesare Goretti Secondo Goretti, l’unico ad aver intuito veramente cosa la materia rappresenti è Schopenhauer (Goretti 1936, 105). Nella sua opera più famosa, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819), Schopenhauer definisce la materia come apparenza sensibile della volontà. Questa volontà non è altro che una forza che tende ad affermarsi e realizzarsi. Essa non è più semplice materia inerte, come in Aristotele, ma forza, voluntas. Questa forza si oppone alla conoscenza tanto da tramutarsi in una noluntas, mettendo in moto quel processo che ci permette di conoscere le vere fattezze del reale, pur non rinunciando al dualismo tra realtà fenomenica e realtà assoluta. La volontà di conoscere, quindi, rischiara l’oscurità della materia e rende il mondo reale accessibile all’uomo. Green aveva intuito questo principio attraverso la definizione di dover essere e il suo concetto di moral will, ma non era riuscito, sostiene Goretti, a renderlo completo. È con Schopenhauer, quindi, che la concezione volontaristica acquista finalmente forma. 2 La strada percorsa da Goretti risulta alquanto particolare poiché, pur rimanendo all’interno dei canoni dell'idealismo (una sorta di idealismo religioso ispirato in Goretti dallo studio delle opere del filosofo russo Afrikan Spir e del suo amico a maestro Piero Martinetti), non ne segue la normale evoluzione tracciata da Fichte e conclusasi con Hegel, della quale Croce e Gentile sono stati, in Italia, i due massimi, seppur sotto molti aspetti critici, rappresentanti. Alessandro Dividus 163   164 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 Tuttavia, Goretti diverge dalla definizione di voluntas fornita da Schopenhauer. Per il filosofo tedesco la volontà si manifesta come impulso, energia, pura forza cieca, in quanto posseduta anche dalla materia, che sussiste al di fuori della forma dello spazio e del tempo ed è, quindi, indistruttibile ed eterna. Essa è energia senza causa (Abbagnano 1923). La sua ragione può essere ricercata solo nella sua manifestazione fenomenica, ma non nella volontà in sé. Per Goretti, invece, la volontà non è energia senza un fine, ma è un collegamento tra mezzi e fini. Essa ubbidisce alla categoria della finalità, mira a fini prescelti, segue degli schemi prestabiliti (Roccia 1955, 6). La realtà esteriore, secondo Goretti, rappresenta il complesso dei mezzi, gli oggetti e la materia che la volontà utilizza per realizzarsi, per liberarsi e, quindi, per perseguire il suo fine. La realtà limita il nostro egoismo, nel senso che pone al nostro volere dei punti di orientamento comuni. Quando l’uomo cerca di prendere possesso della realtà che lo circonda, non sorge in lui la visione di una realtà trascendente, ma lo schema di un’esigenza unitaria, che è la stessa limitazione del nostro egoismo (Goretti 1930, 75). La volontà, dunque, segue degli schemi prestabiliti, creando una sintesi tra il nostro volere e una parte della realtà esteriore. Nel volere del singolo si manifesta la sua propensione verso l’assoluto. Al principio del divenire, dunque, Goretti riabilita e sostituisce quel dualismo tra fenomeno e realtà che aveva messo in crisi la filosofia di Kant. Con la sua concezione di volontà, inoltre, Goretti non solo si allontana dal pensiero di Schopenhauer, ma trova anche il modo per rendere possibile l’esistenza di una categoria formale della conoscenza. Come nel collegamento tra mezzi e fini, la volontà guida la relazione immediata tra il soggetto e l’oggetto, tentando di far prevalere il suo dominio sulle cose e mettendo in mostra l’aspetto egoistico del suo movimento. Ma la volontà è prerogativa di ciascuno e non si esplica solamente attraverso un individuo determinato. Essa, dunque, incontra sul suo cammino gli atti volitivi di altri soggetti. È grazie al contatto della volontà individuale con la realtà esterna che l’egoismo nasce e scopre la sua ragion d’essere. La realtà pone dei limiti all’assoluto tendere della volontà, alla sua brama unitaria, e circoscrive i limiti delle differenti personalità individuali. La limitazione dell’egoismo è dovuta proprio all’esigenza unitaria della volontà ed esso non è altro che il prodotto della volontà stessa. In questo modo, Goretti è adesso in grado di giustificare l’aspetto formale della volontà. Essa non è più forza cieca che tende verso l’assoluto, ma, data la sua propensione unitaria, è forza costretta a percorrere determinate direzioni: l’una conduce al dominio delle cose (l’aspetto finalistico della volontà, cioè l’appropriazione del tutto), l’altra, invece, porta al godimento delle cose che dipendono dalla volontà degli altri (ciò che pone un freno alla categoria egoistica). Come riporta il Roccia:  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti Questi schemi, queste direzioni sono preordinate: non derivano cioè dalla nostra esperienza, bensì sono esse medesime condizioni dell’esperienza: o noi consideriamo il mondo esterno come un complesso di cose capaci di un possesso immediato o noi lo consideriamo come un complesso di cose il cui godimento dipende dall’attività di un altro soggetto (Roccia 1955, 7). L’aspetto formale della volontà, per Goretti, non solo è in grado di riconciliare forma e materia, fenomeno e realtà, ma è anche capace di fornire una risposta alla problematica morale riguardante la finalità dell’azione. Se per i sostenitori di una morale comune, come Kant o Green, l’azione del singolo deve essere orientata verso un bene collettivo, un fine cioè che non tenga solamente conto del concreto sviluppo del singolo, ma che rispetti l’insieme nel suo complesso, per la corrente dell’utilitarismo, invece, l’azione morale deve prediligere l’aspetto individuale, in primis, e solo in seguito condurre ad un accrescimento del benessere comune. Quello che Goretti mette in risalto, invece, è l’aspetto etico dell’egoismo. La sua è una posizione che si concilia perfettamente con entrambe e richiama alla memoria le parole di Spinoza. Per lui, così come per Goretti, il principio dell’utilità aveva un grande valore. Esso costituiva il primo grado della ragione, in quanto essa opera sulla natura empirica dell’uomo e ne mette in luce il suo carattere finito. L’utilità costringe il singolo a ripiegare su se stesso e «a sentire tutta l’ostilità della nostra limitatezza» (Goretti 1927, 238). È per questo motivo che la volontà, avendo fini egoistici ma mezzi comuni, è costretta a limitare la sua azione sulla base di un accordo sociale. La volontà, dunque, genera e limita l’egoismo, rendendo di fatto l’utile come un primo passo verso l’etico. L’essere ragionevoli, quindi, il perseguire la propria volontà, non rappresenta altro che una manifestazione del fine ultimo dell’uomo, il quale, a sua volta, si caratterizza come aspetto formale non solo della conoscenza, ma anche dell’appropriazione del reale. Date queste premesse, è adesso possibile per Goretti enunciare la sua personale interpretazione del diritto. Le condizioni a priori della conoscenza, riabilitate del loro carattere formale, vengono trasposte da Goretti all’interno della costituzione del diritto, nel campo cioè delle relazioni umane. Quello di Goretti, quindi, si presenta come un idealismo volontaristico, che non pretende «dedurre dalla volontà il diritto e tutto il diritto, intende solo cercare nella volontà stessa le condizioni che rendono possibile il diritto» (Roccia 1955, 7). Ci troviamo, dunque, di fronte a una tipologia di diritto differente rispetto a quella di matrice kantiana, poiché non rende la giuridicità stessa un elemento formale, ma identifica solamente alcuni schemi preordinati verso i quali la volontà deve dirigersi e attraverso i quali, grazie alla facoltà giuridica del reale, riesce a concretizzarsi. Solo il Green era riuscito a intuire il principio fondante del diritto, cioè la sua capacità strumentale di permettere una completa realizzazione Alessandro Dividus 165  166 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 dell’individuo nella società. Ma egli aveva eliminato ogni residuo di carattere formale all’interno della sua teoria, svilendo così la prerogativa finalistica della volontà. Quella di Goretti, quindi, rappresenta una perfetta sintesi dei due autori, che gli permetterà non solo di fornire una più completa riflessione sull’aspetto filosofico della norma, ma anche di ampliare il diritto stesso ad un gruppo sempre più ampio. 3. Il carattere strumentale del diritto La volontà deve realizzare fini dettati dalla ragione e non dati della sensibilità. Solo l’essere ragionevole è fine a se stesso. Ma per raggiungere un fine bisogna possedere un mezzo, uno strumento. Questo strumento è il diritto, l’unico in grado di ricongiungere il dover essere con la realtà fenomenica e fornire i mezzi esterni per la realizzazione morale (Goretti 1922, 16-17). Il diritto è quindi un mezzo, ciò che rende l’azione conforme al dovere. Esso è preordinato da fini. Kant derivava il diritto dal dovere, mentre Green sottolineava come l’uno non potesse esistere senza l’altro. In entrambi, però, il dovere ricopriva un ruolo primario, qualcosa che, una volta realizzato nella sua totalità, avrebbe reso vacuo il significato stesso del diritto. Per Goretti, invece, il diritto è sì uno strumento, ma uno strumento che non nasce con lo scopo di servire il dover essere, bensì è prodotto della realtà stessa che il dover essere riscopre. Mezzi e fini sono presenti nel mondo reale e offerti a chiunque possieda le capacità necessarie per farli propri. Queste possibilità di possesso, come le chiama Goretti, non forniscono alcun contenuto storico e mutabile, ma indicano solamente le linee guida attraverso le quali il nostro volere si esplica (Goretti 1930). È grazie al tentativo di dominio del reale, che gli schemi giuridici si manifestano. Essi rappresentano il collegamento diretto tra volontà ed esteriorità, regolando aprioristicamente lo spazio giuridico nel quale l’individuo si muove. Anche i Romani, sottolinea Goretti, avevano intuito la realtà empirica degli schemi giuridici. Quando essi distinguevano le res in mobiles, immobiles e semoventes non facevano altro che prendere coscienza della distinzione esistente tra diritti reali, diritti di obbligazione e diritti di asservimento (Goretti 1930, 90-91; cfr. Goretti 1922). La volontà, d’altronde, non può che realizzarsi attraverso un rapporto tra il proprio volere e l’oggetto desiderato (diritto reale), tra il proprio volere e l’attività di un terzo dal quale si pretende una certa prestazione (diritto di obbligazione) e, infine, tra il proprio volere e l’asservimento di tutta, o parte, della personalità esteriore altrui (diritto di asservimento). Questa triplice ripartizione, continua Goretti, esaurisce tutte le potenzialità «di sfruttamento e di dominio della realtà esteriore» (Goretti 1930, 89). Come per Kant, nella teoria della conoscenza, lo schematismo aveva reso possibile unificare le intuizioni sensibili all’interno delle categorie, così per Goretti, in campo giuridico, esso permette di riconoscere le tappe obbligate che la realtà empirica  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti fornisce al nostro volere. Si potrebbe obbiettare una presunta arbitrarietà nella tripartizione schematica effettuata dal Goretti, chiedendo come mai la volontà si esaurisca solamente attraverso questi schemi e non altri. Ma al perché questi schemi siano solamente tre, Goretti risponde: «L’uomo fin ad ora non ha altri modi di sfruttamento della realtà esteriore; altra prova del valore intuitivo degli schemi. [...] La realtà intuitiva non me ne fornisce altri allo stato attuale del nostro sviluppo organico» (Goretti 1930, 104). La nostra stessa esperienza e storia degli istituti giuridici, continua Goretti, dimostra il ruolo che i concetti di proprietà e obbligazione rivestono. Essi sono generici, originari, intuitivi e solo in seguito acquistano una valutazione razionale della realtà alla quale l’uomo fornisce un contenuto etico e, quindi, arbitrario. Essi, tende ancora a sottolineare Goretti, possiedono una natura puramente intuitiva e ciò non esclude che la logica giuridica possa trarne concetti giuridici corrispondenti, come la compravendita, il mandato, la proprietà ecc. (Goretti 1930, 95). Non bisogna confondere il concetto della proprietà e dell’obbligazione, che hanno un proprio contenuto storico e concreto, con lo schema dell’impossessamento e dell’obbligazione, che rappresenta il loro carattere intuitivo. Come afferma Goretti: Si dice: è il concetto di proprietà il prius logico, l’antecedente che rende possibile allo spirito l’impossessarsi della realtà. Al contrario è questo impossessarsi che permette l’elaborazione del concetto di proprietà. In questo impossessarsi vi è un atto che deve spiegarsi; e la spiegazione consiste nel fatto che il nostro egoismo, il nostro volere si muove diversamente a seconda dello spazio. Il volere ubbidisce alla categoria della finalità come l’intelletto a quella della causalità (Goretti 1930, 95-96). La nostra esigenza razionale, quindi, prende forma sensibile attraverso questi schemi giuridici, condizione dei rispettivi istituti giuridici. Per mezzo di questo atto intuitivo della realtà esteriore, il nostro egoismo viene limitato e obbligato a prendere determinate direzioni comuni, facendo trapelare una prima forma di unificazione dei voleri, di volontà comune. Essa appare inizialmente come complesso di mezzi per le nostre volizioni personali, ma lascia intuire la portata limitata di tali mezzi e, dunque, la loro comune origine. Questo passaggio, dice Goretti, è una normale conseguenza della visione unitaria della realtà da parte dei singoli, i quali tendono a polarizzare la propria volontà intorno a un ideale condiviso, acquisendo la consapevolezza della necessaria condivisione dei mezzi esteriori (Goretti 1930, 113). Si sviluppa così la coscienza di quell’elemento costituente il diritto: il principio di uguaglianza. Non si tratta, sostiene Goretti, di un’uguaglianza di diritti e doveri, di un livellamento dei valori individuali, ma di un’uguaglianza della nostra personalità di fronte alla realtà esteriore: «È la posizione del nostro volere di fronte alle direzioni che la realtà esteriore ci offre» (Goretti 1930, 113). L’umanità, dunque, non è il risultato della somma di tutti gli individui, ma è l’idea Alessandro Dividus 167  168 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 alla quale il singolo, in quanto essere razionale, partecipa. Così, ad esempio, l’idea della proprietà originaria non rappresenta il complesso delle singole proprietà, ma è il riconoscimento del diritto che l’umanità intera ha di impossessarsi della realtà esteriore (Goretti 1930, 116). Senza il riconoscimento di questo diritto, comune a tutti, non sarebbe possibile il conseguente riconoscimento dei diritti dell’individualità, dell’egoismo. 4. Gli istituti giuridici e lo Stato Quanto fino ad ora esposto mostra solamente la necessità degli schemi giuridici per la creazione di un ponte tra realtà spirituale e realtà fenomenica, mettendo in luce un’esigenza di volontà comune dettata dalla comunione dei mezzi e dei fini. Gli schemi giuridici, tuttavia, non sono che la base razionale, a priori, grazie alla quale poter dedurre l’esistenza dei diversi istituti giuridici. Gli schemi rappresentano quindi le condizioni formali che ne costituiscono la loro possibilità. Mentre il carattere strumentale del diritto aveva sottolineato la necessità di una comunione di mezzi, la storia del diritto stesso, e quindi la sua rappresentazione empirica formalizzata nell’istituto giuridico, fa emergere le caratteristiche costanti delle finalità umane. Gli istituti giuridici non sono che il riverbero di una comunione di mezzi, i quali contengono, però, vere e proprie finalità concrete (Goretti 1930, 204). Del resto, se non esistesse una comunione di mezzi, non sarebbe possibile parlare di finalità condivise. Queste finalità, ovviamente, non sono identiche in ciascuno, in quanto l’istituto giuridico non fa altro che porre in essere scopi immediati coordinati gli uni con gli altri, ma convergono tutte, sostiene Goretti, verso un punto di equilibrio: I moventi di ogni singola persona che partecipa ad un atto, ad un negozio giuridico rimangono sempre qualche cosa di irriducibilmente soggettivo, ma lo scopo dell’uno diventa una funzione di quello dell’altro, i due scopi devono farsi equilibrio intorno ad un punto comune (Goretti 1930, 204). Il fatto che una finalità presupponga un movente individuale, non esclude la possibilità che la finalità di un singolo possa incrociarsi con quella di un altro. Questo equilibrio di finalità dà vita a differenti figure giuridiche, non deducibili a priori dai nostri schemi, ma lasciate in balìa degli eventi storico-sociali. Ma il carattere formale dei nostri schemi, e quindi dei nostri mezzi, giustifica la creazione uniforme e costante degli istituti, e dunque dei nostri equilibri finali. Pertanto, dalle diverse finalità umane è possibile derivare aprioristicamente la figura giuridica della compravendita, che si richiama allo schema giuridico dell’obbligazione. Non è, dunque, il lavoro speculativo del giurista che crea le forme degli istituti giuridici, ma è la realtà sociale stessa. Essi  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti non sono altro che realtà fenomenica, svelata dalla volontà individuale che si muove nel mondo empirico attraverso le sue forme schematiche. Le istituzioni sociali, di conseguenza, sono il risultato di un punto comune di equilibrio formatosi e consolidatosi, nel tempo, intorno a un complesso di finalità umane. L’ineludibilità di simili conclusioni, sostiene Goretti, può essere ulteriormente avvalorata attraverso un esempio. Se esaminassimo il caso della compravendita, ci troveremmo di fronte a due differenti finalità: quelle del venditore, da una parte, e quelle del compratore, dall’altra. Naturalmente, continua Goretti, queste finalità appaiono inizialmente diverse, ma il loro punto di equilibrio è riscontrabile proprio negli asservimenti reciproci esistenti nel fatto di vendere e di comprare, nei quali le finalità dell’uno si incrociano con quelle dell’altro. Questo elemento comune è derivabile dallo schema dell’obbligazione, per mezzo del quale le caratteristiche comuni delle finalità tendono a convergere. Nel caso dei diritti reali, ad esempio, è la fruizione della cosa da parte di un singolo, e dunque la sua finalità, che tende a escludere l’uso del medesimo oggetto da parte di un terzo, facendo arrestare la sua finalità di fronte al possesso del soggetto iniziale. Questo arresto, continua Goretti, mostra già di per sé l’esistenza di un equilibrio dei fini, ed è proprio questo equilibrio che rende possibile la formazione degli istituti giuridici. Ciò che rende dunque costante nel tempo l’esistenza di determinati istituti è proprio l’uniformità delle nostre forme e dei nostri bisogni. Ecco come, quindi, da un accenno di volontà comune e di unificazione di finalità, espresse nella forma dei singoli istituti giuridici, si assiste a un progressivo ampliamento del principio di solidarietà sociale, che limita automaticamente il nostro originario egoismo. Si passa, gradualmente, da un’unificazione di finalità e bisogni elementari a un’unificazione più elevata di natura spirituale. Questo è un fenomeno, dice Goretti, «storicamente accertabile e inoppugnabile» (Goretti 1930, 218). L’egoismo si asserve così, senza negarsi, a un criterio di uniformità, dando vita a unità sempre più grandi e mostrando all’umanità il cammino della giustizia. Si potrebbe sottolineare l’incoerenza pratica di tali affermazioni, mostrando le derive violente ed ingiuste che molte istituzioni hanno posto in essere, ma simili mostruosità sono solamente deformazioni storiche di suddette istituzioni, le quali, in sé, non posseggono nessun concetto di giusto ed ingiusto, ma rappresentano solamente un grado di realizzazione della volontà comune, ad uopo strumentalizzata da egoismi irrazionali. Ma in che forma empirica si realizza questa volontà comune, secondo il Goretti? La sua risposta è molto chiara: «Il diritto come tale non può culminare nello Stato» (Goretti 1930, 228). Quella che ad Hegel appare come la rappresentazione e lo stadio più completo della volontà individuale, è invece per Goretti un’indebita ingerenza dell’egoismo collettivo nei confronti di quello soggettivo, una volontà di potenza che non ubbidisce a esigenze razionali, ma ad un mero potenziamento di se stessa, tradendo quell’esigenza prettamente unitaria tipica della dialettica hegeliana. Come Alessandro Dividus 169  170 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 all’interno della società civile si manifestano una molteplicità di individualità e gruppi in contrasto tra loro, così anche lo Stato, non essendo altro che un gruppo più ampio, non potrà rappresentare la realizzazione della volontà comune, poiché anch’esso tenderà al conflitto con Stati terzi. Il suo ruolo è, così per Goretti come lo era stato per il Green, puramente pratico, nel senso di garante del rispetto del diritto e della potenzialità di sviluppo della volontà comune. Lo Stato appare come la rappresentazione finale della sovranità, politica e giuridica, ma essa è pura illusione. In ogni sovranità vi è sempre un riverbero di ordinamento giuridico ideale, che non si esaurisce nella sua forma storico-sociale, ma è assoluta spontaneità dei rapporti che l’uomo instaura tra schemi e istituti. Lo Stato, nel suo processo evolutivo, non rappresenta altro che un irrigidimento della volontà comune nel suo percorso fenomenologico. Conclusioni Quanto esposto rappresenta una parte dell’importantissimo contributo del Goretti nel campo della filosofia, che tocca aspetti gnoseologici, giuridici e politici, mostrando il suo carattere poliedrico e critico, senza però rinunciare al suo rigore logico. Le sue intuizioni sono rimaste purtroppo vittime degli sfortunati eventi storici che hanno accompagnato tutta la sua esistenza, lasciando ai più sconosciuta la sua eredità intellettuale. Di non minore importanza, inoltre, è l’impegno che egli ha dedicato in difesa dei diritti degli animali, per il quale si rimanda all’articolo L'animale quale soggetto di diritto (Goretti 1928), che si concilia perfettamente con la sua personale concezione del diritto e che anticipa, in gran parte, molte delle speculazioni attuali sul tema. Ma lo scopo di questo lavoro, data la limitatezza del contributo, non è stato quello di approfondire ogni aspetto del suo pensiero, bensì di mostrare la profonda capacità argomentativa di questo autore, il quale offre numerosi spunti in altrettanto numerosi ambiti della filosofia. Oltre ad essere stato, in Italia, il primo vero studioso e l’unico traduttore dell’opera del Green, Goretti ne ha saputo cogliere la vera intuizione, proponendo una propria visione della volontà, la quale rappresenta una geniale sintesi tra idealismo e razionalismo, quasi come un proseguo degli studi, involontariamente interrotti, ai quali il Green aveva dato origine. La riabilitazione, poi, del formalismo kantiano, segnata da una propria interpretazione della volontà di Schopenhauer, mette in evidenza un percorso innovativo rispetto al naturale interesse degli studiosi successivi, il che conferma ulteriormente la necessità di riscoprire un autore tanto grande quanto sfortunato.  Bibliografia La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti Abbagnano, Nicola. 1923. Le sorgenti razionali del pensiero. Napoli: Perrella. Bradley, Andrew Cecil. 1906. Prolegomena to Ethics by the late Thomas Hill Green. Oxford: Oxford Clarendon Press. Goretti, Cesare. 1922. Il carattere formale della filosofia giuridica kantiana. Milano: Casa Editrice Isis. Goretti, Cesare. 1927. “Il trattato politico di Spinoza.” Rivista di Filosofia XVIII, 3: 235- 247. Goretti, Cesare. 1928. “L’animale quale soggetto di diritto.” Rivista di Filosofia XIX, 4: 348-369. Goretti, Cesare. 1930. I fondamenti del diritto. Milano: Libreria Editrice Lombarda. Goretti, Cesare. 1932. “Sulla distinzione fra legge e norma.” Rivista di Filosofia XXIII, 2: 125-135. Goretti, Cesare. 1933. “Il valore della filosofia di F. H. Bradley. Apparenza e Realtà.” Rivista di Filosofia XXIV, 4: 332-352. Goretti, Cesare. 1935. “L'idea di patria.” Rivista di Filosofia XXVI, 1: 66-82. Goretti, Cesare. 1936. “La metafisica della conoscenza in Thomas Hill Green.” Rivista di Filosofia XVIII, 2: 97-117. Goretti, Cesare. 1941. “L’istituzione dell’eforato.” Archivio della cultura italiana III, 4: 251-264. Goretti, Cesare. 1951. Il pensiero filosofico di Piero Martinetti. Bologna: Cooperativa Tipografica Azzoguidi. Green, Thomas Hill. 1925. Etica. “L’istituzionale e una co-struzione, una sorta di inter-azione, o co-azione co-ordinata, co-stitutente un equilibrio tipico o co-stante di finalita che si fissa in un com-plesso di mezzi”. “Casi innumerevoli dimostrano come il cane (o altro uomo) sia custde geloso della proprieta del suo padrone e come ne compartecipi all’uso. Oscuramente deve operare in esso questa visione della realta esteriore come cosa PROPRIA, che nell’uomo civile U1 arriva alle costruzione raffinate dei giuristi. E assurdo pensare che l’animale o l’uomo O2 che rende un servizio al suo padrene che lo mantiene agisca soltanto istintivamente. Deve pure sentire in se per quantto oscuramente e in modo sensible questo rapport di servizi resi e SCAMBIATI. Naturalmente l’U2 o l’animale non potra arrivare al concetto di ci oche e la proprieta, l’obbligazione. Basta cche dimostri esterioremente di fare uso di questi principi che in lui operano ancora in modo oscuro e sensibile.” Cesare Goretti. Grice: “I like Goretti: I rather casually referred to ‘the institution of a decision’ as the end of a conversational exchange – notably involving buletic conversational moves; Goretti makes a whole system out of this. His example is his conversation with his dog: ‘Surely my dog knows that he is providing me a service – guarding my territory – and he is rightly deemed as a ‘subject’ in my exchange with him – as we ‘institute a decision’ that there is a reciprocity involved.” Goretti. Keywords: “the institution of decisions” -- l’istituzionale, A. C. Bradley, La massima d’equita; “segni e comprensione” il concetto di patria, eforato—co-azione, co-operazione -- diada. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Goretti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gorgiade – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. A Pythagorean, possibly Gartida.

 

Grice e Gorgia – Roma – filosofo italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. a Cinargo.

 

Gorgia – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo italiano. Pupil of Girgenti. He seems to have written one essay on philosophy. In it, he argues that nothing exists, or that if anything did exist, there could be no knowledge of it, or if there could be knowledge of it, that knowledge could not have passed from one person to another.

 

Grice e Gori – la filosofia di cabaret -- l’eroe e la falce – filosofia italiana – filosofia futurista -- Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.  Grice: “My favourite Gori are “L’eroe e la falce” and “Il mantello d’Arlecchino” – nothing can be italianita with that!”. Saggi: “Il mantello di Arlecchino (Roma); “Il libbro rosso de la guerra” (Roma); “Le bruttezze della Divina Commedia” (Alatri); “Le bellezze della Divina Commedia” (Milano); “Estetica dell'irrazionale” (Milano); “Il mulino della luna (Milano) “L'irrazionale”; “Filosofia ed estetica”, “Sistema di una nuova scienza del bello; “Il bello” – “L'eroe e la falce” -- Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri giorni, Cagliostro (Milano); Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni (Torino); L'oca azzurra (Roma); Il grande amore (Firenze); Scenografia. La tradizione e la rivoluzione contemporanea (Roma); Il grottesco (Milano).  P.D. Giovanelli, Gino Gori. L'irrazionale e il teatro, Roma, Bulzoni, U. Piscopo, Gino Gori, in E. Godoli, Dizionario del futurismo, Firenze); Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Rassegna della produzione teatrale e delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale a cavallo tra il finire dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla riforma dell'opera lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte totale, Gori passa a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del teatro dell'Anima di Schuré e Claudel, del teatro dell'esteriorismo (D'Annunzio, Wilde, Péladan, Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore, Tolstoj, Gorkij, dell'Espressionismo, di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese, del teatro dialettale italiano, del teatro delle nazioni europee minori (discorre anche del teatro dell'Islanda o della Lituania o della Bulgaria), delle forme rudimentarie del teatro presso i popoli selvaggi. Gino Gori (Roma, 1876-Sant'Ilario Ligure, 1952), poeta, drammaturgo e critico letterario romano fiancheggiatore del Futurismo, aprì a Roma il famoso Cabaret del Diavolo, realizzato da Fortunato Depero. "Nel gennaio del 1921 Depero è protagonista con una grande mostra personale tenuta a Palazzo Cova di Milano, che in seguito viene trasferita da Bragaglia a Roma, dove nel settembre dello stesso anno, su incarico di Gino Gori, inizia i lavori di allestimento del Cabaret del Diavolo, una sorta di bolgia dantesca frequentata da futuristi, dadaisti, anarchici ed artisti in genere. Per il cabaret, strutturato lungo un percorso discendente (a ritroso) Paradiso-Purgatorio-Inferno, Depero realizzò tutto l'arredo e le decorazioni murali. L'inaugurazione avvenne nell'aprile del 1922 ma, passato il primo momento di gloria, i tempi si fecero difficili e il locale fu chiuso, e con esso distrutto anche tutto il lavoro di Depero". (cfr. Catalogo mostra Fortunato Depero, Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi diretti da Arturo Farinelli. Cammarota, Futurismo,  Il Futurismo applicato ai cabaret»  «C’è stato in questi giorni, qui a Roma, un improvviso e molteplice sboccio d’arte futurista: il futurismo applicato al cabaret»,[26] annotava all’inizio degli anni Venti Massimo Bontempelli, che in quel periodo simpatizzava con il Futurismo e da poco aveva rifiutato le opere scritte prima della guerra. Fra il 1921 e il 1923, venivano infatti inaugurati nella capitale diversi locali decorati dai futuristi, tutti situati nel centro della città. Iniziava la serie, nel ’21, il Bal Tic Tac, situato in via Milano, i cui ambienti considerati distrutti per oltre mezzo secolo, sono stati recentemente ritrovati durante il restauro del palazzo. Alle sale, arredi e lampade del cabaret aveva lavorato Balla: era «un grandioso locale per balli notturni futuristicamente decorato», nel quale «per la prima volta, apparve realizzata la nuova arte decorativa futurista. Forza, dinamismo, giocondità, italianità, originalità» commentava il periodico Il Futurismo.[27] Per il lavoro, ha ricordato la figlia dell’artista, Elica, Balla era stato contattato da Vinicio Paladini, altro avanguardista della cerchia romana, in quegli anni in procinto di lanciare con Ivo Pannaggi il movimento Immaginista.[28] Nel 1922, nei sotterranei dell’Hotel Élite et des Etrangers in Via Basilicata 13, era stato aperto il Cabaret del Diavolo, uno dei più stravaganti ritrovi romani di proprietà di Gino Gori, il quale intendeva farne il punto di incontro di scrittori, pittori e intellettuali e aveva puntato sulla creatività di Depero, chiamandolo a decorarne e ad arredarne gli interni. Le tre sale, denominate Inferno, Purgatorio e Paradiso, avevano ognuna una specificità cromatica e tipologica: i mobili del Paradiso, ad esempio, erano azzurri, quelli del Purgatorio verdi e quelli dell’Inferno rossi. L’illuminazione era bianco-rosa-azzurrina con immagini di angeli e cherubini nel Paradiso, bianco-verde con una coorte di anime verdi nel Purgatorio, e rossa con diavoli e dannati avvolti dalle fiamme nell’Inferno. Il locale era sede della Brigata degli Indiavolati, composta da poeti e artisti.  Nello stesso anno Balla, che aveva anche decorato la sua celebre casa-galleria aperta al pubblico di Via Nicolò Porpora 2 (poi seguita dall’altrettanto celebre abitazione di Via Oslavia 34 b), realizzava il soffitto luminoso della sala futurista della nuova sede allestita da Virgilio Marchi della Casa d’Arte di Bragaglia, trasferitasi da Via Condotti 18 in Via degli Avignonesi 8. Nei locali ricavati nei sotterranei dei Palazzi Tittoni e Vassalli che conservavano le terme pubbliche romane di Settimio Severo, nel 1923 Bragaglia affiancava alla galleria anche il Teatro degli Indipendenti per il quale Virgilio Marchi aveva realizzato il ridotto e il bar: qui, per otto dense stagioni, Anton Giulio sperimentò la sua ‘riforma teatrale’ e le sue idee di rinnovamento delle tecnica scenica mediante l’introduzione di nuovi elementi quali una regia sperimentale, una recitazione innovativa e una scenografia ‘cromatica’. Nel teatro vennero messi in scena gran parte dei testi d’avanguardia italiani e stranieri prodotti in quegli anni dagli artisti più vari, da Jarry ad Apollinaire, dai Futuristi agli Immaginisti: nel 1921, la vecchia sede della Casa d’Arte aveva ospitato anche la mostra di opere dadaiste facente parte della Grande Stagione Dada Romana che aveva messo in programma esposizioni, declamazioni, esecuzioni di musiche dadaiste e una conferenza di Evola su Tzara nell’Aula Magna dell’Università.  l testo di Braibanti è precedente rispetto a quelli di Kaiser e Bachtin, risale al 1951, non può quindi giovarsi delle ricerche dei due autori ma, per le sue finalità, la sorte del grottesco nella storia dell’arte è di importanza relativa. Conosceva e cita altrove il testo di Gino Gori sul grottesco nell’arte, ne apprezza l’impresa ma coglie i limiti della riduzione dello spirito del grottesco all’ambito dell’artistico. Il luogo privilegiato del grottesco è la vita, lo spazio interindividuale è dove si dispiegano le sue epifanie. GORI GINO. Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni. Torino, Fratelli Bocca, 1924. In-8°, pp. (4), 282, (2), brossura editoriale con titolo in rosso e nero entro bordura ornamentale anch'essa in bicromia. Gore al dorso. Una piccola mancanza al margine superiore del piatto posteriore. Bella copia in barbe e a fogli chiusi. Prima edizione. Rassegna della produzione teatrale e delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale a cavallo tra il finire dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla riforma dell'opera   lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte totale, Gori passa a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del "teatro dell'Anima" di Schuré e Claudel, del teatro dell'"esteriorismo" (D'Annunzio, Wilde, Péladan, Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore, Tolstoj, Gorkij, dell'Espressionismo, di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese, del teatro dialettale italiano, del teatro delle nazioni europee minori (discorre anche del teatro dell'Islanda o della Lituania o della Bulgaria), delle "forme rudimentarie" del teatro presso i popoli selvaggi. Gino Gori (Roma, 1876-Sant'Ilario Ligure, 1952), poeta, drammaturgo e critico letterario romano fiancheggiatore del Futurismo, aprì a Roma il famoso Cabaret del Diavolo, realizzato da Fortunato Depero. (cfr. Catalogo mostra Fortunato Depero, Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi diretti da Arturo Farinelli. Cammarota, Futurismo, 248.2 GORI GINO. L'irrazionale. Volume primo. Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello. Volume secondo. L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri giorni. Foligno, Campitelli, 1924. 2 voll. in-8° (200135mm), pp. XI; 182, (2); 183-550, (4) [paginazione continua]; brossure editoriali. Bell'esemplare in parte intonso. Prima edizione e primo migliaio di questo importante saggio di estetica suggestionato dalla poetica futurista GORI, Gino. - Nacque a Roma, il 7 luglio 1876, da Vincenzo Guglielmo e Giovanna Santi. Terminato il liceo, si laureò dapprima in giurisprudenza, iscrivendosi poi a medicina, senza tuttavia nutrire particolare interesse neppure per questo indirizzo di studi. Egli si sentiva piuttosto attratto dalla letteratura, dalla filosofia e, in particolare, dal teatro, di cui prese a scrivere fin dai primi anni del nuovo secolo.  Collaboratore di vari giornali e riviste - tra cui il Don Chisciotte, il Capitan Fracassa, La Vita, La Patria, il Don Marzio, L'Ora, Il Tirso, di cui fu redattore capo nel 1912-13, Aprutium di Teramo, Noi e il mondo, mensile illustrato de La Tribuna di Roma -, si fece presto la fama di critico militante severo e intransigente. Amico di Trilussa e suo ammiratore, compose poesie e canovacci teatrali in romanesco.  Anticlericale e massone, allo scoppio della Grande Guerra fu interventista e irredentista. Nel primo dopoguerra e negli anni successivi prese a sostenere la cultura modernista e il teatro sperimentale, gestendo il cabaret dell'hôtel Majestic, di cui era proprietario. Viaggiò molto sia in Europa (Francia, Spagna, Germania, Russia) sia in America (Messico, California). Il 30 nov. 1929 sposò Giulia Massobrio, vedova di G. Volante. Dopo il matrimonio il G. lasciò Roma, interrompendo l'intensa attività letteraria cui si era dedicato, e si trasferì a Chianciano, dove comprò e gestì l'albergo Excelsior. Sempre a Chianciano fondò e diresse il periodico Il Giornale dell'albergatore.  Intellettuale e poligrafo - fu infatti poeta, romanziere, filosofo con particolare attenzione all'estetica, saggista, critico militante, studioso di teatro - il G., finché si dedicò ad attività culturali, si adoperò principalmente a sostenere e diffondere, nell'Italia del primo Novecento, un clima e un gusto più avanzati e moderni; i suoi maggiori e più significativi contributi, tutti concentrati nel corso degli anni Venti, riguardano le teorie e le pratiche poste a fondamento del processo di rinnovamento del teatro contemporaneo.  Dopo gli studi giuridici e di medicina, il G. aveva provveduto a darsi una solida e rigorosa preparazione letteraria e filosofica, coniugando l'educazione sui classici con un'informazione puntuale e aggiornata sugli orientamenti e sugli esiti più attuali della poesia, della critica, della narrativa, dell'editoria a livello nazionale ed europeo. Insofferente, come molti suoi coetanei, nei confronti dei contenuti e dei metodi del positivismo e degli indirizzi storico-filologici, fu convinto seguace dell'idealismo di B. Croce e della rinascita dell'interesse per la critica di F. De Sanctis; la sua attenzione si estese, da Croce e dai crociani, anche agli intellettuali che dialogavano con Croce dall'esterno dell'idealismo.  Di questa sua posizione egli rende conto in Il mantello di Arlecchino (Roma 1914 [ma 1913]), sostanziosa silloge ricca di indicazioni e di suggestioni critiche, in cui traccia il panorama della letteratura italiana della belle époque.  Se De Sanctis e Croce forniscono modelli e suggerimenti, tuttavia il lavoro critico del G. non è inteso come applicazione pedissequa della dottrina dei maestri: egli integra, rilegge, propone nuove osservazioni. A complemento di questo lavoro è poi allegato un esaustivo tracciato dell'attività editoriale in Italia.  Di umori nazionalisti e interventisti è intrisa la sua prima raccolta di versi in dialetto romanesco, Er libbro rosso de la guera (Roma 1915; che contiene anche il canovaccio teatrale in dialetto Le maschere de la guera, pp. 3-21) mentre, per Trieste italiana e contro il mondo tedesco, il G. pubblicò in Aprutium(IV [1915], f. 8), una canzone, Sorella nostra!, celebrativa della latinità assunta a valore contro la barbarie del "duro settentrione". Fu, comunque, la Grande Guerra a far maturare in lui un processo di piena conversione al moderno, inteso quale gusto, mimesi linguistica, diegesi e strumentazione di idee e di stili fondati sul nuovo.  Si avvicinò a F.T. Marinetti, di cui tra i primi aveva dato un profilo essenziale e pertinente (ne Il mantello di Arlecchino, pp. 193-211), e ne divenne amico, ma corresse anche il giudizio nei confronti dei futuristi, che nell'anteguerra egli aveva adeguato, sulla scorta di G. Papini, a "marinettiani" (ibid., pp. 213-223), tra i quali, invece, venne distinguendo posizioni diverse, sostenendo soprattutto alcuni di essi, come R. Vasari, L. Folgore ed E. Prampolini. Meditò attentamente sul teatro di L. Pirandello, si entusiasmò per il teatro del colore di A. Ricciardi, strinse amicizia con i Bragaglia, con V. Orazi, con M. Bontempelli.  Fu soprattutto l'ispirazione poetica a farsi nel G. più avvolgente e convinta: la parola, che nelle sue composizioni d'anteguerra si risolveva in veicolo di denunzia, di argomentazione e di persuasione, o di descrizioni realistiche (vedi Er libbro rosso de la guera), acquistò nuove sfumature, più allusive, e si dispose su tramature in cui si riscontrano riflessi di G. Pascoli, di G. Gozzano, di C. Govoni, di A. Palazzeschi, raggiungendo talora esito felice, come nelle tre liriche Alla stazione, Ogni giorno così e Limbo, apparse in Le foglie dell'orologio (Roma s.d.), poi riproposte con diverso titolo in Il grande amore (Firenze 1926).  In quest'ultima silloge, accanto alle tre citate, figurano nuove composizioni, ispirate al realismo magico di Bontempelli (Sembra una favola!, A teatro, Le tre vecchine, Orgoglio); e, di fatto, l'avvicinamento a Bontempelli, sia sul versante saggistico-estetologico sia su quello poetico, era iniziato da tempo: già la raccolta Il mulino della luna (Milano 1924; di cui si ricordano in particolare Come un cipresso notturno, L'oca azzurra, L'isola lontana, Pierrots, Si parte, Con la rete dei pensieri, È passato il re, L'automa nella pioggia, Annunciazione, Epilogo), posta cronologicamente fra le due summenzionate, poggiava sostanzialmente su una griglia di suggerimenti metafisico-surreali ascrivibili all'ambito ideale di Bontempelli e ai suoi immediati dintorni.  Non altrettanto positivo e più scontato l'esito raggiunto dal G. nel romanzo e nella novella (per lo più inediti) con l'eccezione di L'oca azzurra (Roma 1925) - che riprende titolo e immagini della lirica de Il mulino della luna, intrisa di un umorismo alla Folgore e di un magismo che rinvia nuovamente a Bontempelli - e di Coriandoli, una raccolta, appunto inedita, di novelle.  Ma gli interventi più interessanti del G. sono quelli legati al discorso critico sul teatro, riguardo al quale egli concordava con avanguardisti e sperimentali sull'ineludibilità del rinnovamento delle sue pratiche, delle sue strategie e dell'idea stessa su cui esso si costituisce. A tal fine, si impegnò innanzitutto concretamente, fondando e gestendo in proprio un laboratorio teatrale posto sotto il segno di un "antigrazioso" irritante e provocatorio; infatti, nel 1921, a Roma, con un anno di anticipo sul teatro degli Indipendenti di A.G. Bragaglia, egli aveva fondato e preso a dirigere quel cabaret, La Bottega del diavolo, sito all'interno dell'hôtel Élite et des étrangers, poi Majestic, di sua proprietà.  Dell'albergo erano frequentatori e gratuitamente ospiti numerosi futuristi, tra cui Marinetti, giornalisti e scrittori; negli scantinati, detti l'"inferno", arredati con mobili e manufatti realizzati da F. Depero, da Prampolini e da altri, e decorati con immagini di diavoli danzanti, armati di forconi e pronti a scaraventare nelle fiamme i dannati, si davano ogni sabato spettacoli futuristi e modernisti. Ai programmi, e alla loro realizzazione, presiedeva una commissione di esperti e primi attori, tra cui erano lo stesso G., nel ruolo di Minosse, Trilussa quale Lucifero, Folgore come Cerbero, e Bontempelli come Barbariccia (per una dettagliata testimonianza sul cabaret, che andò avanti fino al 1927, si veda Un covo di diavoli nella Roma di 40 anni fa, in Il Tempo, 19 apr. 1967). Dietro la facciata di questo underground ante litteram, il G. andava maturando la sua riflessione sul rapporto tra teatro e corporeità, dionisismo, vitalismo, e sulla necessità di accelerare il processo di rivitalizzazione e risignificazione del teatro stesso e delle attività collegate. A monte di tale riflessione specificamente orientata sul teatro, si collocavano i due volumi del saggio L'irrazionale (I, Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello; II, L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri giorni, Foligno 1924), che s'inseriscono, con ogni evidenza, nel quadro generale dell'avanguardia internazionale, impegnata a riconsiderare i fondamenti dell'arte e dell'estetica nella chiave del notturno, dell'inquietante, dell'anamorfico.  Viceversa il discorso specifico sul teatro s'innerva in tre opere successive: Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni (Torino-Milano-Roma 1924), che si propone di indagare sui nuovi linguaggi del teatro nelle sue varie manifestazioni nazionali; Scenografia. La tradizione e la rivoluzione contemporanea (Roma 1926), in cui il G. esamina, tramite lo specifico della scenografia, le vie attraverso le quali si possa raggiungere e comunicare la realtà "che si trova di là dall'apparenza" (p. 210), e come si possa darne una rappresentazione, interrogandosi su intuizioni e tentativi di alcuni tra i nomi più significativi della storia del teatro moderno - a partire da R. Wagner e proseguendo con G. Craig, A. Appia, V. Mejerchol´d - ma soprattutto dando conto delle esperienze del "teatro della sorpresa" futurista - di Vasari in particolare (L'angoscia delle macchine, Milano 1925), ma anche di Prampolini, V. Marchi, Folgore, oltre che del "teatro del colore" di A. Ricciardi e del laboratorio di A.G. Bragaglia -, e studiando le esperienze futuriste del dinamismo plastico, della simultaneità e della sintesi. Seguì infine Il grottesco nell'arte e nella letteratura (ibid. 1927), in cui, riproponendo anche alcuni studi di prima della guerra (sul grottesco nell'Inferno di Dante, sulla maschera turca di Karagöz), il G. approfondisce soprattutto lo studio sul teatro futurista italiano nella chiave del grottesco e del fantastico (in particolare, E. Cavacchioli, L. Chiarelli, L. Antonelli).  Al termine dell'intensa stagione intellettuale degli anni Venti, convinto di essere stato sfruttato e trascurato dalla cultura ufficiale, il G. si appartò, allontanandosi da Roma, senza tuttavia smettere di studiare e di scrivere: lasciò quindi numerosi scritti inediti conservati presso gli eredi.  Nel secondo dopoguerra, il G. si stabilì in una località di mare, Sant'Ilario Ligure (Genova), dove morì il 24 dic. 1952.  Tra le opere del G., oltre a quelle citate nel testo, si ricordano: per la narrativa: Cagliostro(Milano 1925); per la saggistica: Le bruttezze della Divina Commedia (Alatri 1920); Le bellezze della Divina Commedia (Milano s.d. [ma 1921]); Studi di estetica dell'irrazionale(ibid. s.d. [ma 1921]).  Fonti e Bibl.: M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Roma 1969, pp. 274-276 e passim; Id., Prosa e critica futurista, Milano 1973, pp. 314-317, 339; P.D. Giovanelli, G. G.: l'irrazionale e il teatro, Roma 1978; U. Piscopo, G. G., in Dizionario del futurismo, a cura di E. Godoli, Firenze 2001, sub voce.Gino Gori. Keywords: l’eroe e la falce, bello, eroe, falce, irrazionale, mantello dell’arlecchino  – bellezza, futurismo – Refs: Luigi Speranza, “Grice e Gori” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gracco – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tiberio Sempronio Gracco. A Roman statesman and reformer, a friend of Blossio di Cum. He may have followed the Porch himself. He was killed by a mob. He was influenced by Blossio di Cuma.

 

Grice e Gramsci – contro Croce – partito socialista italiano – il comune – l’elite – Mosca -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ales). Filosofo italiano.  Grice: “Some Italians don’t consider Gramsci Italian on account of the fact that Gramsci is not an Italian last name!” Fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia, divenendone esponente di primo piano e segretario, ma venne ristretto dal regime fascista nel carcere di Turi. In seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nei suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista, analizza la struttura culturale e politica di Italia. Elaborò in particolare il concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l'obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne. Gli antenati paterni derano originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero essere giunti in Italia durante la diaspora albanese causata dall'invasione turca. Documenti d'archivio attestano che nel Settecento il trisavolo Gennaro Gramsci, sposato con Domenica Blajotta, possedeva a Plataci, comunità ‘’arbëreshë’’ del distretto di Castrovillari, delle terre poi ereditate da Nicola Gramsci. Questi sposò Maria Francesca Fabbricatore, e dal loro matrimonio nacque a Plataci Gennaro Gramsci, che intraprese la carriera militare nella gendarmeria del Regno di Napoli e, quando era di stanza a Gaeta, sposò Teresa Gonzales, figlia di un avvocato napoletano. Il loro secondo figlio fu Francesco, il padre di Antonio Gramsci.  Le origini albanesi erano conosciute dallo stesso Gramsci, che tuttavia le immaginava più recenti, come scriverà alla cognata Tatiana Schucht dal carcere di Turi: «o stesso non ho alcuna razza; mio padre è di origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra del 1821, ma si italianizzò rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana, fondamentalmente questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco perché anche Crispi era albanese, educato in un collegio albanese.” Ghilarza: casa museo Antonio Gramsci Francesco era studente in legge quando morì il padre; dovendo trovare subito un lavoro, partì per la Sardegna per impiegarsi nell'Ufficio del registro di Ghilarza. In questo paese, che allora contava circa 2.200 abitanti, conobbe Marcias, figlia di un esattore delle imposte e proprietario di alcune terre. La sposò malgrado l'opposizione dei familiari, rimasti in Campania, che consideravano i Marcias una famiglia di rango inferiore alla propria dal punto di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva studiato fino alla terza elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro e, dopo che Francesco Gramsci fu trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta ed Emma. Gramsci nasce secondo il registro delle nascite dello stato civile del comune e registrato con i nomi di Antonio, Francesco. Scondo il registro dei battesimi della parrocchia di San Pietro nasce il giorno dopo,  e viene registrato con i nomi di Antonio, Sebastiano, Francesco. Il padre fu trasferito, come gerente dell'Ufficio del Registro, a Sorgono e qui nacquero gli altri figli, Mario, Teresina, e Carlo. Antonio si ammala del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli impedì una normale crescita: adulto, non supererà il metro e mezzo di altezza; i genitori pensavano che la sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e anche Antonio rimase convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute delicate. Soffrendo di emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai medici, tanto che la madre comprò la bara e il vestito per la sepoltura.  Il padre Francesco fu arrestato, con l'accusa di peculato, concussione e falsità in atti, e venne condannato al minimo della pena con l'attenuante del «lieve valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta. Priva del sostegno dello stipendio del padre, la famiglia trascorse anni di estrema miseria, che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo camicie. Proprio per le sue delicate condizioni di salute Gramsci comincia a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse ncon il massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al ginnasio. Già dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo contributo all'economia domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del catasto di Ghilarza per 9 lire al mese l'equivalente di un chilo di pane al giornos muovendo «registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo». Grazie a un'amnistia, il padre anticipò di tre mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in conciliatura e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del catasto, dove lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli abituali sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel Ginnasio cdi Santu Lussurgiu, «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque classi».  Con tale preparazione un poco avventurosa, riuscì tuttavia a prendere la licenza ginnasiale a Oristano e a iscriversi al Liceo classico Giovanni Maria Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un appartamento in via Principe Amedeo 24, poi, l'anno dopo, in corso Vittorio Emanuele 149, insieme con il fratello Gennaro, il quale, terminato il servizio di leva a Torino, lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio del capoluogo sardo.  La modesta preparazione ricevuta nel ginnasio si fece sentire, perché inizialmente Gramsci nelle diverse materie ottenne appena la sufficienza, ma riuscì a recuperare in fretta: del resto, leggere e studiare erano i suoi impegni costanti. Non si concedeva distrazioni, non soltanto perché avrebbe potuto permettersele solo con grandi sacrifici, ma anche perché l'unico vestito che possedeva, per lo più liso, non lo incoraggiava a frequentare né gli amici, né i locali pubblici. A scuola, mostrò uno spiccato interesse per le discipline umanistiche e per lo studio della storia, anche perché il cattivo insegnamento ricevuto in matematica gli fece perdere l'interesse per la materia.  Nel frattempo, il giovane Gramsci, iniziò a seguire le vicende politiche. Il fratello Gennaro, che era tornato in Sardegna militante socialista, divenne cassiere della Camera del lavoro e segretario della sezione socialista di Cagliari: «Una grande quantità di materiale propagandistico, libri, giornali, opuscoli, finiva a casa. Nino, che il più delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche un'uscita di pochi momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e quei giornali». Leggeva anche i romanzi popolari di Carolina Invernizio, di Barrili e quelli di Deledda, ma questi ultimi non li apprezzava, considerando folkloristica la visione che della Sardegna aveva la scrittrice sarda; leggeva Il Marzocco e La Voce di  Prezzolini, Papini, Emilio Cecchi «ma in cima alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini».  Alla fine della seconda classe liceale, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì Garzia, radicale e anticlericale, direttore de L'Unione Sarda, quotidiano legato alle istanze sarde, rappresentate, in Parlamento da Cocco-Ortu, allora impegnato in una dura opposizione al ministero di Luigi Luzzatti. Gramsci instaurò con il Garzia un buon rapporto, che andava oltre il naturale discepolato: invitato ogni tanto a visitare la redazione del giornale, ricevette la tessera di giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie di pubblico interesse. Ebbe la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo scritto pubblico, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore.  In un tema dell'ultimo anno di liceo, che ci è conservato, Gramsci scriveva, tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà la Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate». La sua concezione socialista, qui chiaramente espressa, va unita, in questo periodo, all'adesione all'indipendentismo sardo, nel quale egli esprimeva, insieme con la denuncia delle condizioni di arretratezza dell'isola e delle disuguaglianze sociali, l'ostilità verso le classi privilegiate del continente, fra le quali venivano compresi, secondo una polemica mentalità di origine contadina, gli stessi operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i lavoratori salariati.  Poco dopo Gramsci conoscerà da vicino la realtà operaia di una grande città del Nord:  il conseguimento della licenza liceale con una buona votazione tutti otto e un nove in italianogli prospetta la possibilità di continuare gli studi all'Università. Il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso, riservato a tutti gli studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, offrendo 39 borse di studio, ciascuna equivalente a 70 lire al mese per 10 mesi, per poter frequentare Torino. Fu uno dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a Torino. «Partii per Torino come se fossi in stato di sonnambulismo. Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza classe delle 100 avute da casa». Conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo posto è uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti.  Si iscrive alla Facoltà di Lettere, ma le settanta lire al mese non bastano nemmeno per le spese di prima necessità: oltre alle tasse universitarie, deve pagare venticinque lire al mese per l'affitto della stanza di Lungo Dora Firenze 57, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, e il costo della luce, della pulizia della biancheria, della carta e dell'inchiostro, e ci sono i pasti«non meno di due lire alla più modesta trattoria»e la legna e il carbone per il riscaldamento: privo anche di un cappotto, «la preoccupazione del freddo non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima gelata». Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da parte sua, non se la passava di certo molto meglio.  L'Università degli Studi di Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Luigi Einaudi, Ruffini, Manzini, Toesca, Loria, Solari e poi Bartoli, che si legò di amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana  Cosmo, contro il quale indirizzò però un articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia«serbo del Cosmo un ricordo pieno di affetto e direi di venerazione era e credo sia tuttora di una grande sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che è propria dei grandi eruditi e studiosi»ricordando anche che, con questi e con molti altri intellettuali dei primi quindici anni del secolo, malgrado divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune: «partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani. Si ritrovò a casa per le elezioni politiche, dopo la fine della guerra italo-turca contro l'Impero ottomano per la conquista della Libia; votavano per la prima volta anche gli analfabeti, ma la corruzione e le intimidazioni erano le stesse delle elezioni precedenti. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base elettorale favorisse i socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico da battere. In quest'obiettivo, "sardisti" e "non-sardisti" si trovarono d'accordo e deposero le vecchie polemiche. Gramsci scrisse di quest'esperienza elettorale al compagno di studi Tasca, dirigente socialista torinese, il quale affermò che Gramsci «era stato molto colpito dalla trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista».  Tornò a Torino, andando ad affittare una stanza all'ultimo piano del palazzo di via San Massimo 14, oggi Monumento nazionale; dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, con il rischio di perdere il contributo della borsa di studio, a causa di «una forma di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per ora, senza che mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli esami nella sessione di primavera. Prese anche lezioni di filosofia da Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione come fa il pensare a far agire come le idee diventano forze pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della palla di piombo come il Sud Italia e generalmente considerato nel Nord che aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista». L'iscrizione al partito gli permise di superare in parte un lungo periodo di solitudine: ora frequentava i giovani compagni di partito, fra i quali erano Tasca, Togliatti, Terracini. “Uscivamo spesso dalle riunioni di partito mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci continuavamo le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti risate, di galoppate nel regno dell'impossibile e del sogno». Nell'Italia che ha dichiarato la propria neutralità nella Prima guerra mondiale in corsoneutralità affermata anche dal Partito socialistascrive per la prima volta sul settimanale socialista torinese Il Grido del Popolo l'articolo Neutralità attiva e operante in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'Avanti! di Mussolini Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, senza però poter comprendere quale svolta politica stesse preparando l'allora importante e popolare esponente socialista.  Sostenne  quello che sarà, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo esame all'Università; il suo impegno politico si fece crescente con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione torinese dell'Avanti!. Trascorse gran parte delle sue giornate all'ultimo piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa Torinese al numero 12 di corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre stanze, erano situate la sezione giovanile del partito socialista e le redazioni de Il Grido del Popolo e del foglio piemontese dell'Avanti!, che comprendeva la rubrica della cronaca torinese, Sotto la Mole; in entrambi i giornali Gramsci pubblicava di tutto, dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle recensioni dei libri alla critica teatrale. Dirà più tardi di aver scritto in dieci anni di giornalismo «tante righe da poter costituire quindici o venti volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano morire dopo la giornata» e di aver contribuito «molto prima di Tilgher» a rendere popolare il teatro di Pirandello: «ho scritto sul Pirandello tanto da mettere insieme un volumetto di duecento pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso». Della commedia di Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse che «è tutto uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più che in una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia, più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che osserva la vita con l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio simpatico dell'uomo artista e la deforma per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale più che visione sincera e spontanea», mentre considerò Liolà  «il prodotto migliore dell'energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in una palude retorica di una moralità inconsciamente predicatoria, e di molta verbosità inutile».  Il fu Mattia Pascal, secondo Gramsci, è una sorta di prima stesura del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica della vita, si è rinnovato diventando una pura rappresentazione, «una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare  è una vita ingenua, rudemente sincera una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica».  Severo fu invece il giudizio sul Così è (se vi pare): dalla tesi pseudo-logistica che la verità in sé non esista, Pirandello «non ha saputo trarre dramma e neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice fatto di letteratura [puro e semplice aggregato di parole che non creano né una verità né un'immagine il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l'intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine della dimostrazione logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città future. Qui mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce, superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo»scriverà«il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e io ero tendenzialmente crociano». Lo zar di Russia Nicola II è facilmente rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee, che chiedono pane e la fine dell'autocrazia: viene instaurato un moderato governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani «borghesi» sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo di democratizzazione in Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese, mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è un atto proletario ed essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista  i rivoluzionari socialisti non possono essere giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che gli organismi borghesi non facciano essi del giacobinismo». Con il ritorno in Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. Gramsci è convinto che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo». Gramsci nega esplicitamente la necessità dell'esistenza di condizioni obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi «sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale». È l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che scriverà subito dopo la notizia del successo della Rivoluzione d'ottobre.  Anche in Italia la guerra interminabile, costata già centinaia di migliaia di morti e di mutilati, la penuria dei generi alimentari, la sconfitta di Caporetto e la stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a Torino sfociarono in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa dal governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città dichiarata zona di guerra con la conseguente applicazione della legge marziale, arresti a catena che colpirono non solo i diretti responsabili ma, indiscriminatamente, anche gli elementi politici d'opposizione e segnatamente l'intero nucleo della sezione socialista, con l'accusa di istigazione alla rivoluzione. In conseguenza dell'emergenza venutasi a creare, la direzione della Sezione socialista torinese venne assunta da un comitato di dodici persone, del quale fece parte anche Gramsci, il quale rimane l'unico redattore de Il Grido del Popolo che cesserà le pubblicazioni. I bolscevichi avevano preso il potere in Russia ma per settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate, finché l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La rivoluzione contro il Capitale, firmato da Gramsci: «La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologia più che di fatti essa è la rivoluzione contro il Capitale di Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico  se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche». In realtà Marx, almeno negli ultimi anni, non aveva escluso che un Paese arretrato potesse giungere al socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico: ma qui interessa rilevare tanto la visione di Gramsci ancora idealistica, volontaristica, dell'azione politica, quanto la critica che di fatto Gramsci rivolgeva ai dirigenti socialisti europei, e italiani in particolare, di concepire lo sviluppo storico in modo meccanicistico.  Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti torinesi del partito, Gramsci lavorò unicamente all'edizione piemontese dell'Avanti!, che allora si stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni giovani colleghi: Giuseppe Amoretti, Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice Platone; ma egli e altri giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Uscì il primo numero dell'Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e animatore della rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il programma fu l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi concreti nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale letterario pubblicato» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per "cultura" intendeva "ricordare", non intendeva "pensare", e intendeva "ricordare" cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine nuovo nei suoi primi numeri». Gramsci intendeva invece definirlo su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica, sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della "libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono l'Ordine nuovo perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: "Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?". Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel s, alla FIAT furono eletti i primi Consigli.  La Confindustria, nella sua Conferenza nazionale, espresse chiaramente «la necessità che la borghesia del lavoro attinga in se stessa il mezzo per un'energica azione contro deviazioni e illusioni» e il 20 marzo i tre maggiori industriali torinesi, Olivetti, De Benedetti e Agnelli fecero presente al prefetto Taddei la loro volontà di ricorrere all'arma della serrata delle fabbriche contro «l'indisciplina e le continue esorbitanti pretese degli operai». Così quando in occasione di una controversia sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione degli industriali metalmeccanici rispose il 29 marzo con la serrata di tutte le fabbriche torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino  e in alcune province piemontesi, mentre il governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla.  Lo sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l'isolamento in cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i lavoratori torinesi; l'8 maggio Gramsci pubblicò sull'Ordine Nuovo una sua relazione, approvata dalla Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari terrieri, appoggiati dallo Stato, Gramsci rilevava che «le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell'attuale periodo il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un'opinione sua da esprimere non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese».   Il numero dell'11 dicembre 1920 Rilevò la mancanza di omogeneità nella composizione del partito, in cui continuavano a essere presenti riformisti e «opportunisti», contrari agli indirizzi della III Internazionale. Non solo: «mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono fortemente organizzati e hanno sfruttato il prestigio e l'autorità del Partito per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali se il Partito non realizza l'unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze anarchiche ».  Il Partito socialista non svolge alcuna funzione di educazione e di spiegazione di quanto sta avvenendo nella scena internazionale, dalla quale esso è assente, non partecipando nemmeno alle riunioni dell'Internazionale comunista, le cui tesi non sono riportate nell'Avanti!. Analogamente, le edizioni socialiste non stampano le pubblicazioni comuniste: «valga per tutte il volume di Lenin Stato e rivoluzione». Occorre pertanto, secondo Gramsci, che il Partito socialista acquisti «una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società comunista i non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente commentata per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie le sezioni devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti l'esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato [.è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito ». La risoluzione dell'Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e dell'avallo ottenuto dagli ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso dell'Internazionale, alla quale il PSI aveva aderito con il congresso di Bologna tenuto nell'ottobre del 1919, i vecchi dirigenti del partito erano riluttanti di fronte alla svolta politica e sociale realizzatasi nel dopoguerra.  In Italia, le rivendicazioni salariali, rese necessarie dall'elevato indice d'inflazione, non trovavano accoglienza presso gli industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a seguito della serrata dell'Alfa Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli operai: la FIOM appoggiò l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le fabbriche metalmeccaniche d'Italia, con la speranza che una tale, estrema iniziativa provocasse l'intervento del governo a favore di una soluzione delle trattative. All'inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano occupate da mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale; alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di Giovanni Agnelli prese possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario.   Giovanni Giolitti Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea milanese che vide riuniti i dirigenti del Partito socialista e della Camera del Lavoro, questi ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito, che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l'agitazione: la proposta estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Un accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine, alla fine di settembre, alle occupazioni delle fabbriche.  Quell'esperienza dimostrò tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto l'impreparazione degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali occorrevano organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII Congresso del Partito socialista, Gramsci scrisse che «la costituzione del Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l'opera nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili, liberati dall'assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro positivo, all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà».  NSi riunì a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e Amadeo Bordiga, Luigi Repossi, Bruno Fortichiari, Gramsci, Nicola Bombacci, Francesco Misiano e Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito Socialista.  La fondazione del Partito comunista  Il congresso di Livorno La scissione si realizzò, nel Teatro San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d'Italia, sezione italiana dell'Internazionale». Il comitato centrale fu composto dagli astensionisti (Amadeo Bordiga, Ruggero Grieco, Giovanni Parodi, Cesare Sessa, Ludovico Tarsia e Bruno Fortichiari), dagli ex-massimalisti (Nicola Bombacci, Ambrogio Belloni, Egidio Gennari, Francesco Misiano, Anselmo Marabini, Luigi Repossi e Luigi Polano) e dagli ordinovisti Gramsci e Terracini. Diresse l'Ordine nuovo, divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto deputato alle elezioni: Gramsci non ha capacità oratorie, è ancora giovane e anche la sua conformazione fisica non lo agevola nell'apprezzamento di molti elettori.  Alla fine di maggio partì per Mosca, designato a rappresentare il Partito italiano nell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Vi arrivò già malato e nell'estate fu ricoverato in un sanatorio per malattie nervose di Mosca. Qui conobbe una degente russa, Eugenia Schucht, membro del Partito, figlia di Apollon Schucht, dirigente del Pcus e amico personale di Lenin, che aveva vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di lei, la sorella Giulia (Julka)  che, violinista, aveva abitato diversi anni a Roma diplomandosi al Conservatorio Santa Cecilia.  Giulia, ventiseienne, è bella, alta, ha un aspetto romantico; Gramsci ne è conquistato: ricorderà «il primo giorno che non osavo entrare nella tua stanza perché mi avevi intimidito al giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo grande e terribile ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi hai dato l'amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso cattivo e torbido.  E quell'immagine di lei, viandante in un mondo grande e terribile, con il suo senso doloroso di distacco, ritornerà ancora dal carcere: «Ricordi quando sei ripartita dal bosco d'argento ti ho accompagnata fino all'orlo della strada maestra e sono rimasto a lungo a vederti allontanare così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi brevi, col violino in una mano e nell'altra la tua borsa da viaggio, così pittoresca». Si sposano e avranno due figli, Delio e Giuliano. Il figlio di quest'ultimo porta il nome del nonno, vive a Mosca e pratica la musica medievale. Giulia membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico. La moglie di Gramsci e i figli Delio e Giuliano A differenza di Bordiga, tutto inteso a salvaguardare la «purezza» programmatica del partito, e perciò contrario a qualunque iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato, Gramsci guardava anche a obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili utilizzando le contraddizioni presenti negli strati sociali e le forze che potevano rappresentare elementi di rottura, come il movimento sindacale cattolico di Guido Miglioli e l'intellettualità progressista liberale di cui Piero Gobetti è allora tra i maggiori rappresentanti. Tuttavia nei suoi scritti fino al 1926 ribadisce che l'obiettivo finale era la eliminazione dello stato borghese e la dittatura del proletariato e anche nei suoi scritti successivi non si riscontrano critiche al regime sovietico.  Nel III Congresso dell'Internazionale comunista, di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria rappresentata dalle sconfitte delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria, si decise la tattica del fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la maggioranza dei dirigenti comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di Roma, base programmatica del II Congresso del Partito, tenuto a Roma. Gramsci vi aderì ma scrisse di aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse erano presentate come una opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale comunista] e non come un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento». Nel IV Congresso dell'Internazionale, di fronte all'avvento al potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu posta con ancora maggior forza la necessità di fondersi con corrente socialista degli internazionalisti, capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di costituire un nuovo Esecutivo, mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario a ogni accordo. Lo stesso Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia nel febbraio 1923 e, in settembre, a Milano, furono incarcerati anche i rappresentanti del nuovo Esecutivo: Gramsci restò così il massimo dirigente del Partito e si trasferì a Vienna per seguire più da vicino la situazione italiana. Fu allora che egli ritenne necessario rompere con la politica di Bordiga: «Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga a prospettarci il problema di costruire il partito ed il centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza». Uscì a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista l'Unità e dal primo marzo la nuova serie del quindicinale l'Ordine nuovo. Il titolo del giornale, da lui scelto, venne giustificato dalla necessità dell'«unità di tutta la classe operaia intorno al partito, unità degli operai e dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo».Alle elezioni venne eletto deputato al parlamento, potendo così rientrare a Roma, protetto dall'immunità parlamentare. Quello stesso mese, nei dintorni di Como, si tenne un convegno illegale dei dirigenti delle Federazioni comuniste italiane: pubblicamente, si fingevano dipendenti di un'azienda milanese in gita turistica, con tanto di pubblici discorsi fascisti e inni a Mussolini, mentre, a parte, discutevano dei problemi del partito.  Nel convegno si affrontò il «caso Bordiga», il quale aveva rifiutato la candidatura al Parlamento, era in rotta con la maggioranza dell'Internazionale e rifiutava ogni azione politica comune con le altre forze politiche di sinistra. Delle tre mozioni presentate, che rispecchiavano le tre correnti in seno al Partito, la corrente di destra di Tasca, di centro di Gramsci e Togliatti, e di sinistra di Bordiga, questa raccolse l'adesione della grande maggioranza dei delegati, confermando la notevole importanza di cui il rivoluzionario napoletano godeva nel Partito.  Il 10 giugno un gruppo di fascisti rapì e uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti; sembrò allora che il fascismo stesse per crollare per l'indignazione morale che in quei giorni percorse il Paese, ma non fu così; l'opposizione parlamentare scelse la linea sterile di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione dell'Aventino: i liberali speravano in un appoggio della Monarchia, che non venne, i cattolici erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e questi ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. Gramsci avanzò al «Comitato dei sedici»il nucleo dirigente dei gruppi aventinianila proposta di proclamare lo sciopero generale che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal «Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo Gramsci, non aveva alcuna volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione». Giacomo Matteotti Malgrado le divisioni dell'opposizione antifascista, Gramsci credeva che la caduta del regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia. L'apparato industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro. La disgregazione sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona industrial. Le elezioni del 6 aprile segnarono l'inizio di quella ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio dell'on. Matteotti le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista si ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita campagna di minacce contro le opposizioni e l'assassinio del deputato unitario”. “Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alla storia nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi». S'ingannava, perché l'inerzia dell'opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i fascisti riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una delle tante viene aggredito anche Gobetti. E dopo il 12 settembre, quando il militante comunista Giovanni Corvi uccide in un tram il deputato fascista Armando Casalini, per vendicare la morte di Matteotti, la repressione s'inasprisce. Il 20 ottobre Gramsci propose vanamente che l'opposizione aventiniana si costituisca in «Antiparlamento», in modo da segnare nettamente la distanza e svuotare di significato un Parlamento di soli fascisti; ipartì per la Sardegna, per intervenire al Congresso regionale del partito e per rivedere i famigliari. Il 6 novembre si congedò dalla madre, che non avrebbe più rivisto. Il deputato comunista Repossi rientrò in Parlamento, dove sedevano solo i deputati fascisti e i loro alleati, per commemorare Matteotti a nome di tutto il suo partito; il 26 vi rientrò anche tutto il gruppo parlamentare comunista, a segnare l'inutilità dell'esperienza aventiniana. Il quotidiano di Giovanni Amendola Il Mondo pubblicò le dichiarazioni di Cesare Rossi, già capo ufficio stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la complicità del duce» e Mussolini, in un discorso rimasto famoso, a confermare quella testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il via a una nuova azione repressiva.  In febbraio Gramsci andò a Mosca, per stare con la moglie e conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia a maggio, il 16 tenne il suo primoe unicodiscorso in Parlamento, davanti all'ex compagno di partito Mussolini, ora Primo ministro, che aveva descritto l'anno prima come un capo che «è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Mussolini è il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica». Con il pretesto di colpire la Massoneria, il governo aveva predisposto un disegno di legge per disciplinare l'attività di associazioni, enti e istituti: continuamente interrotto, Gramsci respinse il pretesto che il governo si era dato, «perché la Massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine».  E ironizzando: «Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito e un'organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione degli insegnamenti marxisti».  Concluse: «Voi potete conquistare lo Stato, potete modificare i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere sulle condizioni obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin oggi più diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi». Si svolse clandestinamente a Lione il III Congresso del Partito. Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i maggiori responsabili, Bordiga, Gramsci, Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti, Scoccimarro: vi era anche Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito socialista di cui era stato a lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome dell'Internazionale, Jules Humbert-Droz. Gramsci presentò le Tesi congressuali elaborate insieme con Togliatti. Con un capitalismo debole e l'agricoltura base dell'economia nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale omogenea e organizzata rispetto alla piccola borghesia urbana e rurale, che ha interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, «come l'unico elemento che per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società.» Secondo Gramsci il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga, l'espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l'espressione della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana» che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria, una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del Nord e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, il Partito andrà bolscevizzato, ossia organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una "disciplina di ferro" negando al suo interno la possibilità dell'esistenza delle frazioni.  Il Congresso approvò le Tesi a grande maggioranza (oltre il 90%) ed elesse il Comitato centrale con Gramsci segretario del Partito. Da allora, la sinistra comunista di Bordiga non ebbe più un ruolo influente nel Partito. Le Tesi di Lione, realizzate da Gramsci, ribadirono con una certa durezza le posizioni del Pcd’I «la socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata». In questa relazione venne sviluppata la cosiddetta bolscevizzazione del partito: «spetti al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale communista. La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file. La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti socialdemocratici».Tornato a Romada via Vesalio si era trasferito in via Morgagniebbe il tempo di passare alcuni mesi con la famigliala moglie Giulia e il piccolo Delio, oltre alle cognate Eugenia e Tatianache abitano tuttavia in un altro appartamento, in via Trapani: le squadre fasciste, superato da tempo lo smarrimento provocato dal delitto Matteotti, avevano piena libertà d'azione e non era prudente coinvolgere i familiari in loro possibili aggressioni; a Firenze, era stato ucciso l'ex-deputato socialista Gaetano Pilati, la stessa casa di Gramsci era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre gli esponenti dell'opposizione antifascista prendevano la via dell'emigrazione Gobetti, che muore ia Parigi, in conseguenza delle bastonate squadriste, Amendola, Salveminiun processo farsa condannava a una pena simbolica gli assassini di Matteotti, difesi dal capo-squadrista Roberto Farinacci.  La moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio Giuliano, lasciò l'Italia e il mese dopo fu la volta della cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio Delio: Gramsci non l'avrebbe più rivisto.   Giustino Fortunato Elaborando temi già affrontati nelle Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò a scrivere un saggio sulla questione meridionale, intitolato Alcuni temi sulla quistione meridionale, in cui analizzò il periodo dello sviluppo politico italiano dal 1894, anno dei moti dei contadini siciliani, seguito nel 1898 dall'insurrezione di Milano repressa a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo Gramsci, la borghesia italiana, impersonata politicamente da Giovanni Giolitti, di fronte all'insofferenza delle classi emarginate dei contadini meridionali e degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con le forze agrarie, cosa che avrebbe dovuto comportare una politica di libero scambio e di bassi prezzi industriali, scelse di favorire il blocco industriale-operaio, con la conseguente scelta del protezionismo doganale, unita a concessione di libertà sindacali.  Di fronte alla persistenza dell'opposizione operaia, manifestatasi anche contro i dirigenti socialisti riformisti, Giolitti cercò un accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord. Il problema è allora di perseguire una politica di opposizione che rompa l'alleanza borghesia-contadini, facendo convergere questi ultimi in un'alleanza con la classe operaia.  La società meridionale, secondo Gramsci, è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come impiegati statali: costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta contribuiscono alla formazione dell'intellettualità nazionale, con personalità del valore di Croce e di Fortunato e sono, con quelli, i principali e più raffinati sostenitori della conservazione di questo blocco agrario. Croce e Fortunato sono, per Gramsci, «i reazionari più operosi della penisola», «le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della reazione italiana». Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe la formazione di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le due classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini poveri con il proletariato urbano. Tuttavia Gramsci non aveva un'opinione positiva sui contadini, scrisse: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito» «Non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini»  (Antonio Gramsci, Lettera alla madre) In Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata da Trotskij, Zinov'ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un solo paese» che porterebbe all'involuzione del movimento rivoluzionario. Il dissidio, che porta all'esclusione di Zinov'ev dall'Ufficio politico del Partito sovietico, si era fatto sempre più aspro con la costituzione in frazione della minoranza e si era esteso anche all'interno del Partito comunista tedesco, provocando una scissione. Il New York Times, forse su ispirazione di Trotsky, pubblicava il testamento di Lenin, con i suoi noti rilievi sul carattere di Stalin e sul pericolo rappresentato dal troppo potere che la carica di segretario del Partito gli concedeva. Su incarico dell'Ufficio politico, Gramsci scrisse a metà ottobre una lettera al Comitato centrale del Partito sovietico. Egli si mostra preoccupato per l'acutezza delle polemiche che potrebbero portare a una scissione che «può avere le più gravi ripercussioni, non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i principi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie formali». Riconosciuto ai dirigenti sovietici il merito di essere stati «l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi», li rimprovera di star «distruggendo l'opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il partito comunista dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin: ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale. Nel merito del fondamento del contrastola contraddizione di un proletariato formalmente «dominante» in URSS, ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe «dominata»Gramsci appoggia la posizione della maggioranza, rilevando che «è facile fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato è in questo elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente».  Gramsci concludeva esortando all'unità: «I compagni Zinov'ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione sono stati tra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell'attuale situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato centrale del partito comunista dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta a evitare le misure eccessive. L'untà del nostro partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali». Togliatti, allora a Mosca quale rappresentante italiano all'Internazionale, criticò le ultime considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d'ora in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai difficilmente realizzata in modo continuo». Non ci sarà tempo e occasione per approfondire la questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, Mussolini subì a Bologna un attentato senza conseguenze personali, che provoca una tale pressione poliziesca da far fallire il convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto per l'eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia: il governo sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. L'8 novembre, in violazione dell'immunità parlamentare, Gramsci venne arrestato nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il giorno successivo fu dichiarato decaduto, insieme agli altri deputati aventiniani. Dopo un periodo di confino a Ustica, dove ritrovò, tra gli altri, Bordiga, fu detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Qui ricevette, in agosto, la visita del fratello Mario, le cui scelte politiche erano state opposte alle suegià federale di Varese, ora si occupava di commercioe, soprattutto, quella della cognata Tatiana, la persona che si manterrà sempre, per quanto possibile, in contatto con lui. L'istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà a montare su di lui accuse credibili: fu anche fatto avvicinare da due agenti provocatoriprima un tale Dante Romani e poi un certo Corrado Melanima senza successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda, iniziò finalmente a Roma; Mussolini aveva istituito il Tribunale Speciale Fascista. Presidente è un generale, Saporiti, giurati sono cinque consoli della milizia fascista, relatore l'avvocato Buccafurri e accusatore l'avvocato Isgrò, tutti in uniforme; intorno all'aula, «un doppio cordone di militi in elmetto nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna» Gramsci è accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò concluse la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: «Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per venti anni»; e infatti Gramsci venne condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Raggiunse il carcere di Turi, in provincia di Bari. Fin da quando si trovava in carcere a Milano, era intenzionato a occuparsi «intensamente e sistematicamente di qualche soggetto» che lo «assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore». Il detenuto 7.047 ottenne finalmente l'occorrente per scrivere e iniziò la stesura dei suoi Quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di 16 argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora svolti solo in parte. Caratteristico era il suo modo di lavorare. Quasi tutti i giorni, per alcune ore, camminando all'interno della cella, rifletteva sulle frasi da scrivere e poi si chinava sul tavolino, scrivendo senza sedersi, un ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare. A fare da tramite tra Gramsci e il mondo esterno, e in particolare con Sraffa e tramite questi col Pcus e il PCd'I, fu la cognata Tatiana Schucht, essendo la moglie di Gramsci tornata in Unione Sovietica.  Intanto, il Congresso dell'Internazionale comunista, tenutosi a Mosca aveva stabilito l'impossibilità di accordi con la social-democrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso fascismo. Era la tesi di Stalin il quale, liquidata l'opposizione di Trockij, eliminava anche l'influenza di Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra di Trockij, era rimasto il suo principale oppositore da destra. Al nuovo orientamento dell'Internazionale, riaffermato nel X Plenum del Comitato esecutivo ndovevano adeguarsi i Partiti nazionali, espellendo, se necessario, i dissidenti. Il Partito comunista d'Italia si adeguò alle scelte dell'Internazionale, espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma con l'accusa di trotskismo, prima, iBordiga, poi, ifu la volta di Leonetti, Tresso e Ravazzoli. Teneva, durante l'ora d'aria, dei "colloqui-lezioni" con i compagni di partito: non esistono dirette testimonianze delle opinioni espresse da Gramsci riguardo alla «svolta» politica del movimento comunista, ma può costituire un indiretto riferimento un rapporto che un suo compagno di carcere, Athos Lisa, amnistiato, inviò subito al Centro estero comunista. Secondo quella relazione, riferì la teoria della necessità dell'alleanza fra operai del Nord e contadini meridionali che già stava elaborando nei suoi Quaderni: «L'azione per la conquista degli alleati diviene per il proletariato cosa estremamente delicata e difficile. D'altra parte, senza la conquista di questi alleati, è precluso al proletariato ogni serio movimento rivoluzionario». Qui s'intende che il proletariatola classe operaiadebba allearsi con i contadini e la piccola borghesia: «Se si tiene conto delle particolari condizioni nei limiti delle quali va visto il grado di sviluppo politico degli strati contadini e piccoli borghesi in Italia, è facile comprendere come la conquista di questi strati sociali comporti per il partito una particolare azione. La lotta per la conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi il primo passo attraverso il quale bisogna condurre questi strati sociali è quello che li porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L'inutilità della Monarchia è ormai compresa da tutti i lavoratori a questo obiettivo deve improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d'ordine della Costituente». Ma l'azione del partito «deve essere intesa a svalutare tutti i programmi di riforma pacifica dimostrando alla classe lavoratrice come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria».  La richiesta di una Costituente, e dunque di un'iniziativa politica che si ponesse obiettivi intermedi, avrebbe comportato necessariamente una convergenza, per quanto temporanea, con altre forze antifasciste, e se è difficile considerare tale linea politica come «social-democratica», durante le discussioni nel cortile del carcere qualche suo compagno arrivò a sostenere che egli era ormai fuori del Partito comunista. Probabilmente le reazioni di alcuni erano esasperate dal clima di detenzione» ma certo le posizioni dovevano apparire in contrasto con la linea politica indicata in quegli anni dal Partito comunista. È in questo periodo chevenne a contatto con Pertini, esponente del PSI e detenuto anch'egli alla Casa Penale di Turi. I due, nonostante i pensieri politici differenti, divennero grandi amici e Pertini, anche dopo la scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le tristi condizioni di salute che lo stroncavano. Gramsci, oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall'infanzia, fu colpito da arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cercò di reagire alla detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni politiche, filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute continuarono a peggiorare e in agosto ebbe un'improvvisa e grave emorragia. Anche la moglie, in Russia, era sofferente di una seria forma di depressione e rare erano le sue lettere al marito che, all'oscuro dei motivi dei suoi lunghi silenzi, sentiva crescere intorno a sé il senso di un opprimente isolamento. Scriveva alla cognata: Non credere che il sentimento di essere personalmente isolato mi getti nella disperazione io non ho mai sentito il bisogno di un apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia vita tanto meno oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato un più alto grado di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi sentivo quasi orgoglioso di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la meschinità, l'aridità, la grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà. Quando la madre morì, i familiari preferirono non informarlo. Ebbe una seconda grave crisi, con allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, senza farsi illusioni sul suo immediato futuro. Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con l'intelligenza e ottimista con la volontà. Oggi non penso più così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma significa che non vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna riserva di forze». Eppure lo stesso codice penale dell'epoca, all'art. 176, prevedeva la concessione della libertà condizionata ai carcerati in gravi condizioni di salute. A Parigi si costituì un comitato, di cui fecero parte, fra gli altri, Rolland e Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri detenuti politici, ma venne trasferito nell'infermeria del carcere di Civitavecchia e poi nella clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in camera e all'esterno. Mussolini accolse finalmente la richiesta di libertà condizionata, ma Gramsci non rimase libero nei suoi movimenti, tanto che gli fu impedito di andare a curarsi altrove, perché il governo temeva una sua fuga all'estero; solo il poté essere trasferito nella clinica "Quisisana" di Roma, dove giunse in gravi condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e all'arteriosclerosi soffriva di ipertensione e di gotta. Passò dalla libertà condizionata alla piena libertà, ma era ormai in gravissime condizioni: morì di emorragia cerebrale, nella stessa clinica Quisisana. Il giorno seguente la cremazione si svolsero i funerali, cui parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana. Le ceneri, inumate nel cimitero del Verano, furono trasferite nel Cimitero acattolico di Roma, nel Campo Cestio. I 33 Quaderni del carcere, non destinati da Gramsci alla pubblicazione, contengono riflessioni e appunti elaborati durante la reclusione. Furono definitivamente interrotti a causa della gravità delle sue condizioni di salute. Furono numerati, senza tener conto della loro cronologia, dalla cognata Schucht, che li affidò all'Ambasciata sovietica a Roma da dove furono inviati a Mosca e, successivamente, conseg Palmiro Togliatti. Dopo la fine della guerra i Quaderni, curati dal dirigente comunista Platone sotto la supervisione di Togliatti, furono pubblicati dall'editore Einaudi unitamente alle sue Lettere dal carcere indirizzate ai familiarii n sei volumi, ordinati per argomenti omogenei, con i titoli “Il materialismo storico e la filosofia di Croce”;  “Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura”; “Il Risorgimento”; “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno”; “Letteratura e vita nazionale”; “Passato e presente”.  I Quaderni furono pubblicati Valentino Gerratana secondo l'ordine cronologico della loro elaborazione. Sono stati raccolti in volume anche tutti gli articoli scritti da Gramsci nell'Avanti!, ne Il Grido del Popolo e ne L'Ordine Nuovo.  Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire che le forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono la politica di quel determinato paese e dominano le forze sociali che a tale politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia.  Vi è distinzione fra direzione egemonia intellettuale e morale e dominio esercizio della forza repressive. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere. Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente. La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione del mondo. A quel punto, la classe sociale sub-alterna, se riesce a indicare concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova alleanza di forze sociali, divenendo “egemone.” Il cambiamento dell'esercizio dell'egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovra-struttura in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale –, ma poi trapassa nella società nel suo complesso investendo anche la struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico», termine che indica l'insieme della struttura e della sovra-struttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro riflessi ideologici. Analizzando la storia di Italia e il Risorgimento in particolare, rileva che la classe popolare non trova un proprio spazio politico e una propria identità, poiché la politica dei liberali di Cavour concepì l'unità nazionale come un allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia. Rritiene che l'azione della borghesia avrebbe potuto assumere un carattere rivoluzionario se avesse acquisito l'appoggio di vaste masse popolari, in particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione. Il limite della rivoluzione borghese in Italia consistette nel non essere capeggiata da un partito giacobino, come in Francia, dove le campagne, appoggiando la Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle forze della reazione aristocratica.  Il partito politico italiano allora più avanzato fu il “Partito d'Azione” di Mazzini e Garibaldi, che non seppe impostare il problema dell'alleanza delle forze borghesi progressive con la classe contadina. Garibaldi in Sicilia distribuì le terre demaniali ai contadini, ma gli stessi garibaldini repressero le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare l'egemonia contro i moderati guidati dal liberale Cavour, il “Partito d'Azione” avrebbe dovuto legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino specialmente per il contenuto economico-sociale. Il collegamento delle diverse classi rurali che si realizza in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazione di base e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori». Al contrario, i cavourriani liberali seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo tanto i radicali che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che erano proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud.  Il Piemonte assunse la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe dirigente favorevoli all'unificazione. Questi nuclei non volevano dirigere nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e ancora. Volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione, divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte, che ebbe una funzione paragonabile a quella di un partito. Questo fatto è della massima importanza per il concetto di “rivoluzione passive”, che cioè non un gruppo sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno stato, sia pure limitato come potenza, sia il dirigente del gruppo che di esso dovrebbe essere dirigente e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza politica-diplomatica. Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel dirigere la lotta di rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la funzione di “dominio” e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia. Il concetto di “egemonia” si distingue da quello di “dittatura”. La dittatura uesta è solo dominio, quella è capacità di direzione. Non prese mai posizione contro la “dittatura del proletariato” né espresse critiche significative al regime sovietico in Russia.  Le classi subalterne  Gustave Courbet, Lo spaccapietre Le classi subaltern esotto proletariato, proletariato urbano, rurale e anche parte della piccola borghesianon sono unificate e la loro unificazione avviene solo quando giungono a dirigere lo stato, altrimenti svolgono una funzione discontinua e disgregata nella storia della società civile dei singoli stati, subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti anche quando ad essi si ribellano.  Il "blocco sociale", l'alleanza politica di classi sociali diverse, formato, in Italia, da industriali, proprietari terrieri, classi medie, parte della piccola borghesia, non è omogeneo, essendo attraversato da interessi divergenti, ma una politica opportuna, una cultura e un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che quei contrasti di interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano provocando la crisi dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica dell'intero sistema di potere.  In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle classi dominanti è ed è stata parziale. Tra le forze che contribuiscono alla conservazione di tale blocco sociale è la Chiesa, che si batte per mantenere l'unione dottrinale tra fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia esistono e che essa non è in realtà in grado di sanare, ma solo di controllare. La Chiesa è sempre stata la più tenace nella lotta per impedire che ufficialmente si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella delle anime semplici, una lotta che ha fatto risaltare la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del clero che ha dato derte soddisfazioni alle esigenze della scienza e della filosofia, ma con un ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano "rivoluzionarie" e demagogiche agli "integralisti" ».Anche la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata dalle scuole filosofiche di Croce e Gentile, non ha «saputo creare una unità ideologica tra il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali, tanto che essa, anche se ha sempre considerato la religione una mitologia, non ha nemmeno «entato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione infantile, e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non confessionali e atei, concedono l'insegnamento della religione perché la religione è la filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non metaforica. La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di sub-alternità.  Le classi dominanti hanno derubricato a “folklore” la cultura della classe sub-alterna.  Annota nel I Quaderno, che il “folklore” non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una cosa tutt'al più pittoresca; ma deve essere concepito come una cosa molto seria e da prendere sul serio, e va studiato in quanto «oncezione del mondo e della vita di certi strati della società determi tempo e nello spazio, cioè del popolo inteso come l'insieme della classi strumentale e sub-alterna di ogni forma di società finora esistita». È dunque necessario mutare lo spirito delle ricerche folkloriche, oltre che approfondirle ed estenderle. La frattura tra gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che non tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. L'azione politica realizzata dalla «filosofia della prassi» così chiama il marxismo, non solo per l'esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria opponendosi alle culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni a una superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale e morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. La via che conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e morale della società.  Tuttavia l'uomo attivo di massa, cioè la classe operaia, non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né della sua condizione reale di sub-ordinazione, Il proletariat non ha una chiara coscienza di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza anzi può essere in contrasto col suo operare. Esso opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza ereditata dal passato, accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione di sé avviene attraverso una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale. La coscienza politica, cioè l'essere parte di una determinata forza egemonica, è la prima fase per una ulteriore e progressiva auto-coscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano. Ma auto-coscienza significa creazione di un gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste organizzazione senza intellettuali, uno strato di persone specializzate nell'elaborazione concettuale e filosofica. Già Machiavelli indica nei moderni Stati unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola dalla fine del Quattrocento. “Il Principe” di Machiavelli non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obiettiva. E una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale. Ma gli elementi passionali, mitici si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe realmente esistente. In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la nazione perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una situazione interna economico-corporativa, politicamente la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante. Mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che a Francia ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha fondato lo stato moderno. A questa forza progressiva si oppose in Italia la «borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale. Forze progressive sono i gruppi sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, se le grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese. In questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno fecondo, della sua concezione della rivoluzione nazionale. Modernamente, il Principe invocato dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto, ma un organismo e questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali. Il partito è l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, che concretamente si manifesta con un programma di riforma economica, divenendo così la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume. Perché un partito esista, e diventi storicamente necessario, devono confluire in esso tre elementi fondamentali. Primo, un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Secondo, L'elemento coesivo principale dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva da solo questo elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani». Terzo, Un elemento medio, che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo fisico, ma morale e intellettuale. Gramsci negli scritti compresi ribadì i principi espressi dalla Terza Internazionale, insistendo sulla disciplina ferrea del partito e contestando qualsiasi forma di frazionismo. Socialisti e sindacalisti venivano pesantemente criticati e messi sullo stesso piano del regime fascista. Tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale. Nn si può separare l'homo faber dall'homo sapiens, in quanto, indipendentemente della sua professione specifica, ognuno è a suo modo un filosofo, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione dell’ intellettuale.  Storicamente si formano particolari categorie di intellettuali, specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo sociale dominante. Un gruppo sociale che tende all'egemonia lotta per l'assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici. L'intellettuale tradizionale è il letterato, il filosofo, l'artista e perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali, mentre modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasorema non assolutamente il vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni il quale deve giungere dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il gruppo sociale emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende a conquistare alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo, forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali si misura con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento. Essi operano tanto nella società civilel'insieme degli organismi privati in cui si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all'acquisizione del consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante quanto nella società politica, dove si esercita il dominio diretto o di comando che si esprime nello Stato e nel governo giuridico. Gli intellettuali sono così i commessi del gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni sub-alterne dell'egemonia sociale e del governo politico, cioè, primo, del consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante; secondo, dell'apparato di coercizione statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono. Come lo Stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito politico, ancor più compiutamente e organicamente dello Stato, elabora i propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico, fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all'organico sviluppo di una società integrale, civile e politica. Il compito della riforma intellettuale e morale non potrà che essere ancora degli intellettuali organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone come sintesi attiva di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione politica di classe lotterà per l'egemonia. Il partito comunista, per Gramsci, è intellettuale collettivo; e l'intellettuale comunista è organico alla classe e dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve costruire il nuovo mondo. Pur essendo sempre stati legati alle classi dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali.  In molte linguein russo, in tedesco, in franceseil significato dei termini «nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione è libresca e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Si è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai romanzi di appendice del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai racconti polizieschi inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle opere del Chesterton e di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di Honoré de Balzac, fino ai capolavori di Dostoevskij e di Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia. In Italia, la letteratura non si è diffusa e non è stata popolare, per la mancanza di un blocco nazionale intellettuale e morale tanto che l'elemento intellettuale italiano è avvertito come “più straniero degli stranieri stessi”.  Fa eccezione, per Gramsci, il melodrama verista (“Cavalleria rusticana”, “Pagliacci”), che ha tenuto in qualche modo in Italia il ruolo nazionale-popolare sostenuto altrove dalla letteratura. Il pubblico icerca la sua letteratura all'estero perché la sente più sua di quella italiana: è questa la dimostrazione del distacco, in Italia, fra pubblico e scrittori. Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo può essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di una egemonia straniera. Così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialism.. Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo. La insufficienza dell’intelletuale è «uno degli indizi più espressivi dell'intima rottura che esiste tra la religione e il popolo. Questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale. La religione è rimasta allo stato di superstizione l'Italia popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Contro-Riforma. La religione, tutt'al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio. Sono rimaste famose le note di Gramsci sul Manzoni: lo scrittore più autorevole, più studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una dimostrazione del carattere elitista della letteratura italiana. Ecco le parole dai Quaderni del carcere, confrontandolo con Tolstoj. Il carattere aristocratico di Manzoni appare dal compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia i popolani, per Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali. Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una società di protezione di animali niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento di Manzoni verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana vede con occhio severo tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo non c'è popolano che non venga preso in giro e canzonato. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo il suo atteggiamento verso il popolo e elitista ed aristocratico. Una classe che muova alla conquista dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente. Intanto, nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà letteraria presente, e vede nella critica svolta da Sanctis un esempio privilegiato. La critica di Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo di Sanctis. Piace sentire in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde. Sanctis opera nel periodo risorgimentale, in cui si lotta per creare una nuova cultura: di qui la differenza con Croce, che vive sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo della loro affermazione, per cui la passione e il fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Quando poi quei valori culturali, così affermatisi, sono messi in discussione, allora in Croce sub-entra una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida, e pertanto non confrontabile con quella di Sanctis. Una critica letteraria marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve fondere, come Sanctis fece, la critica estetica con la lotta per una cultura nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia della letteratura, individuandone le radici nella società in cui quegli scrittori si trovavano a operare.  Non a caso, progettava nei suoi Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani», dal nome di Bresciani, tra i fondatori e direttore della rivista La Civiltà Cattolica e scrittore di romanzi popolari d'impronta reazionaria; uno di essi, L'ebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio di  Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono gli intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia reazionaria con un «carattere tendenzioso e propagandistico apertamente confessato». Fra i «nipotini»individua, oltre a molti scrittori ormai dimenticati, Antonio Beltramelli, Ugo Ojetti, la codardia intellettuale dell'uomo supera ogni misura normale, Panzini, Bellonci, Bontempelli, Fracchia, Baratono -- l'agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile -- teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria coniglieria – Bacchelli -- nel Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche letterario: la Ronda fu una manifestazione di gesuitismo artistico -- Salvator Gotta --di Salvator Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del Rapisardi: Oremus sull'altare e flatulenze in sagrestia; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca», Ungaretti.  La vecchia generazione degli intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.) ma ha avuto una giovinezza. La generazione attuale non ha neanche questa età delle brillanti promesse, Rosa, Angioletti, Malaparte, ecc.). Asini brutti anche da piccoletti. Croce, il più autorevole intellettuale dell'epoca, da alla borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati per delimitare i confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una parte, e il movimento operaio e socialista dall'altra; è allora necessario mostrare e combattere la sua funzione di maggior rappresentante dell'egemonia culturale che il blocco sociale dominante esercita nei confronti del movimento operaio italiano. Come tale, Croce combatte il marxismo, cercando di negarne validità nell'elemento che egli individua come decisivo: quello dell'economia. Il Capitale di Marx sarebbe per Croce un'opera di morale e non di scienza, un tentativo di dimostrare che la società capitalistica è immorale, diversamente dalla comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità umana e sociale. La non-scientificità dell'opera maggiore di Marx sarebbe dimostrata dal concetto del “plusvalore.” Per Croce, solo da un punto di vista morale si può parlare di “plusvalore” rispetto al “valore”, legittimo concetto economico. Questa critica del Croce è in realtà un semplice sofisma. Il “plusvalore” è esso stesso valore, è la differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx deriva direttamente da quella dell'economista liberale Ricardo la cui teoria del valore-lavoro non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa, perché allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, dove acquistarla solo con la Economia critica. La filosofia crociana si qualifica come storicismo, ossia, seguendo Vico, la realtà è storia e tutto ciò che esiste è necessariamente storico ma, conformemente alla natura idealistica della sua filosofia, la storia è storia dello Spirito, dunque storia speculativa, di astrazionistoria della libertà, della cultura, del progresso non è la storia concreta delle nazioni e delle classi. La storia speculativa può essere considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre e meno ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in discredito come vuoti e retorici e registrati in diversi libri dello stesso Croce. La storia etico-politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco storico, in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è storia la storia di Croce rappresenta figure disossate, senza scheletro, dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello scrittore. L'operazione conservatrice di Croce storico fa il paio con quella di Croce filosofo. Se la dialettica dell'idealista Hegel era una dialettica dei contrariuno svolgimento della storia che procede per contraddizioni la dialettica crociana è una dialettica dei distinti: commutare la contraddizione in distinzione significa operare un'attenuazione, se non un annullamento dei contrasti che nella storia, e dunque nelle società, si presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere storiche di Croce. La sua Storia d'Europa, iniziando e tagliando fuori il periodo della Rivoluzione francese e quello napoleonico, non è altro che un frammento di storia, l'aspetto passivo della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto d'Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione riformistica che durò fino al 1870. Analoga è l'operazione operata dal Croce nella sua Storia d'Italia la quale affronta unicamente il periodo del consolidamento del regime dell'Italia unita e si «prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto in cui un sistema etico-politico si dissolve e un altro si elabora in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma, e invece Croce assume placidamente come storia il momento dell'espansione culturale o etico-politico. Gramsci, fin dagli anni universitari, fu un deciso oppositore di quella concezione fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, per la quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da sé, facendo posto a una società socialista. Questa concezione mascherava l'impotenza politica del partito della classe subalterna, incapace di prendere l'iniziativa per la conquista dell'egemonia.  Anche il manuale del bolscevico russo Nikolaj Bucharin, eLa teoria del materialismo storico manuale popolare di sociologia, si colloca nel filone positivistico. La sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente i fatti storici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare sperimentalmente le leggi di evoluzione della società umana in modo da prevedere l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio dalla quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico. La comprensione della realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile utilizzando la dialettica marxiana della quale non vi è traccia nel Manuale del Bucharin perché essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la loro provvisorietà, la loro storicità determinata dalla prassi, dall'azione politica che trasforma le società. Le società non si trasformano da sé. Già Marx aveva rilevato come nessuna società si ponga compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni almeno in via di apparizione né essa si dissolve, se prima non ha svolto tutte le forme di vita che le sono implicite. Il rivoluzionario si pone il problema di individuare esattamente i rapporti tra struttura e sovrastruttura per giungere a una corretta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo. L'azione politica rivoluzionaria, la prassi, è anche catarsi che segna l passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè l'elaborazione superiore della struttura in super-struttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall'oggettivo al soggettivo e dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così  il punto di partenza di tutta la filosofia della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultate dallo svolgimento dialettico. La dialettica è dunque strumento di indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della politica e può essere compresa solo concependo il marxismo come una filosofia integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime. Il vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva, esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si trova già dato di fronte a noi. Ma va rifiutata «la concezione della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica» dal momento che «a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo». Se noi conosciamo la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire storico, anche la conoscenza e la realtà stessa sono un divenire.  Come potrebbe esistere un'oggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di tale oggettività? La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente soggettivo. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie. C'è dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario». La formazione linguistica di Antonio Gramsci inizia durante gli anni universitari a Torino con la frequentazione delle lezioni di Bartoli. Gramsci apprende che la lingua è un prodotto “sociale" e che non può essere studiata senza tenere conto della storia generale: ciò vuol dire che non è possibile comprendere i mutamenti di una lingua senza riflettere sui mutamenti sociali, culturali e politici della popolazione che la parla. È stato notato che fece aderire le teorie apprese da Bartoli alle letture filosofiche che lo formarono politicamente; in primo luogo all'Ideologia Tedesca di Marx, dove Marx afferma che il tessco, come la coscienza dei tedesci, appartiene alla sfera degli istituti sovra-strutturali, cioè al mondo dell'organizzazione politica e giuridica della società. Le più interessanti riflessioni linguistiche gramsciane sono contenute nei Quaderni del carcere e riguardano da una parte la questione delle lingue in Italia, ovvero lo studio delle ragioni che hanno reso difficile la diffusione di una lingua per la nazione o tutta la poppolazione, dall'altra il tema dell'insegnamento linguistico nelle scuole primarie. Soprattutto il secondo tema è di fondamentale importanza per Gramsci, perché riguarda direttamente il riscatto culturale delle grandi masse popolari e la creazione di uno spirito nazionale in grado di superare ogni forma di particolarismo regionale. I Quaderni del carcere sono costellati in maniera asistematica di molte note dedicate a problemi di caratteri linguistico; queste note tracciano una vera e propria storia della lingua italiana e racchiudono le riflessioni di Gramsci in merito alla cosiddetta questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si riallaccia a un altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle responsabilità degli intellettuali italiani per la formazione di uno spirito nazionale unitario. A tal proposito Gramsci scrive: «mi pare che, intesa la lingua come elemento della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua della nazionalità e popolarità degli intellettuali, questo studio non sia ozioso e puramente erudito». Nell'affrontare una ricostruzione storica delle vicende linguistiche italiane Gramsci cerca dei termini di confronto con altri paesi europei come la Francia: mentre in Francia il volgare viene usato per la prima volta nella storia per redigere un documento ufficiale di carattere politico-istituzionale, in Italia il volgare appare per la registrazione di documenti privati legati al commercio o a questioni giuridiche:  «l'origine della differenziazione storica tra Italia e Francia si può trovare testimoniata nel giuramento di Strasburgo, cioè nel fatto che il popolo partecipa attivamente alla storia (il popolo-esercito) diventando il garante dell'osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno; il popolo-esercito garantisce giurando in volgare, cioè introduce nella storia nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano, presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia nazionale. Questo fatto demagogico dei Carolingi di appellarsi al popolo nella loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della storia francese e la funzione che vi ebbe la monarchia come fattore nazionale. In Italia i primi documenti di volgare sono dei giuramenti individuali per fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere antipopolare («Traite, traite, fili de le putte»).»  (Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi) In Francia i gruppi dirigenti si rendono conto dell'importanza del popolo negli affari di Stato: la demagogia di cui parla Gramsci è da intendere, oltre che come strumento di propaganda, anche come un nuovo atteggiamento politico in grado di crearsi «una propria civiltà statale integrale», in cui si stabilisce un rapporto diretto tra governati e governanti: il popolo diventa testimone di un fatto storico legittimato dal suo giuramento. Ricorda nei suoi appunti come in Italia l'uso del volgare si diffonda con l'avvento dell'età comunale, non solo per la redazione di documenti privati, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per la creazione di opere letterarie: in particolare, il volgare toscano, lingua della borghesia, ottiene un certo successo anche nelle altre regioni. Firenze esercita una egemonia culturale, connessa alla sua egemonia commerciale e finanziaria. Bonifazio VIII dice che i fiorentini sono il quinto elemento del mondo. C'è uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone colte, rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza di Firenze, l'italiano diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con una parlata storica.” Da questo momento si verifica una cristallizzazione della lingua. I promotori del nuovo volgare, provenienti dalla borghesia, non scrivono più nella lingua della loro classe d'origine perché con essa non intrattengono più nessun rapporto, nella visione di Gramsci essi “vengono assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono letterati borghesi, ma aulici.” In questo senso, vede sciupata l'occasione di una diffusione graduale del volgare toscano su scala nazionale, occasione compromessa soprattutto dalla frammentazione politica della penisola e dal carattere “elitario” del ceto intellettuale italianio. Affronta con maggior vigore la questione delle lingue in relazione al periodo post-unitario. Nella seconda metà dell'Ottocento, lo stato e per gran parte “dialettofono”, mentre la lingua della nazione venne usata solo a livello letterario e come lingua delle istituzioni. La scarsa diffusione di una lingua per la nazione testimonia la frammentazione politica e culturale della popolazione italiana. Questo fenomeno venne avvertito come un problema politico, soprattutto da molti intellettuali di tendenze democratiche come Manzoni.  Nella sua ricostruzione storica Gramsci scrive che “anche la questione delle lingue posta da  Manzoni riflette questo problema, il problema della unità intellettuale e morale della nazione e dello stato, ricercato nell'unità della lingua.” Eppure, sebbene Gramsci riconosca al Manzoni di aver compreso la questione linguistica italiana come una questione politica e sociale, si distingue da lui nel modo di interpretare la risoluzione del problema. Durante il suo apprendistato glottologico presso Bartoli a Torino ha modo di confrontare le posizioni del Manzoni con quelle di Ascoli, del “Archivio Glottologico.” Mentre Manzoni prevede la diffusione di una lingua per la nazione sul modello fiorentino imposta per decreto statale e per mezzo di maestri di scuola di origine toscana, Ascoli concepiva la nascita di una lingua nazionale come il frutto di un'unificazione culturale prima ancora che linguistica.  Secondo Ascoli l'unità culturale e linguistica, prima di tutto, deve avere un centro irradiante, cioè un determinato 'municipio' in cui si concentrano e da cui provengono gli elementi essenziali della vita nazionale: beni di consumo, stimoli culturali, mode, ritrovati della tecnica, istituti statali e giuridici, ecc. Se quel dato municipio riuscirà a stabilire un primato politico, economico e culturale su tutta la nazione, riuscirà anche a diffondere, per conseguenza, il suo particolare idioma. Per Ascoli, una lingua nazionale altro non può e non deve essere, se non l'idioma vivo di una data città. Deve cioè per ogni parte coincidere con l'idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi stromento livellatore, dell'intiera nazione. Ascoli, nel suo Proemio, prende la Francia come esempio per avvalorare la sua tesi. Infatti, l'unità linguistica di Francia corrisponde all'egemonia politico-culturale di Parigi. La Francia attinge da Parigi la unità della sua favella, perché Parigi è il gran crogiuolo in cui si è fusa e si fonde l'intelligenza della Francia intera. Dal vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni impulso dell'universa civiltà francese. Viene da Parigi il nome, perché da Parigi vien la cosa. E la Francia avendo in questo municipio l'unità assorbente del suo pensiero, vi ha naturalmente pur quella dell'animo suo; e non solo studia e lavora, ma si commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli vuole. E quindi è necessariamente dell'intiera Francia l'intiera favella di Parigi. Gramsci ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni. Poiché il processo di formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini proposti saranno tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata lingua unitaria. Si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità e l'intervento organizzato accelera i tempi del processo già esistente. Quale sia per essere questa lingua non si può prevedere e stabilire. Alla nota Focolai di irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse, compila un elenco di tutti gli strumenti utili alla diffusione di una lingua unitaria. Primo, La scuola. Secondo, i giornali. Terzo,  gli scrittori d'arte e quelli popolari. Quarto, il teatro e il cinematografo sonoro. Quinto, la radio. Sesto, le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose. Settimo, I rapporti di ‘conversazione’ tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti. Ottavo, i dialetti locali, intesi in sensi diversi (dai dialetti più localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così il napoletano per l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la Sicilia ecc. Al primo posto di questo elenco troviamo la scuola. Per tradizione, a scuola, gli insegnanti introducono gli alunni allo studio di una lingua attraverso la grammatica “normativa”. Gramsci definisce la grammatica normativa come una fase esemplare, come la sola degna di diventare, organicamente e totalitarmente, la lingua comune di una nazione, in lotta e in concorrenza con le altre fasi e tipi o schemi che esistono già. Le riflessioni gramsciane in materia di grammatica si pongono in netto contrasto con la riforma della scuola realizzata da Gentile, di basi griceiana. La riforma, in linea con l'impianto idealista gentiliano, prevede che l'apprendimento della lingua della nazione nelle classi elementari si basasse su quello chi Gentile chiama la “espressione” viva o parlata e non sulla grammatical normativa, considerata questa come una disciplina “astratta” e meccanica. Nell'ottica di Gramsci il metodo apparentemente liberale di Gentile-Grice, racchiude uno spiccato carattere “classista” o elitist, in quanto gli scolari appartenenti alle classi sociali più alte sono avvantaggiati dal fatto che apprendono l'italiano in famiglia, mentre gli scolari del basso popolo possono contare su una comunicazione familiare realizzata esclusivamente in “dialetto” --. In questo senso la grammatica normativa si presenta come uno strumento in grado di livellare le differenze sociali permettendo a tutti la conoscenza della lingua della nazione.  Secondo Gramsci la conoscenza della lingua della nazione presso le classi sub-alterne è fondamentale per la loro organizzazione politica. Un proletariato “dialettofono” non può partecipare alla vita politica di una nazione e non può sperare di crearsi un ceto intellettuale in grado di competere con i ceti intellettuali tradizionali. Il dialetto non deve sparire, ma restare funzionali a un tipo di comunicazione familiare o locale che non può garantire, per cause interne al suo sistema, «la comunicazione di un contenuto culturale ‘universale’, caratteristico della nuova cultura esercitata dal proletariato. Gramsci prestò attenzione anche alla lingua dell’impero romano. Espresse in più occasioni che lo studio del latino fosse particolarmente utile nella formazione filosofica, in quanto abituare il filosofo allo studio rigoroso e a pensare storicamente. Contesta il “nazionalismo” degli studi e criticò ripetutamente gli intellettuali che, durante la prima guerra mondiale, chiedevano che fossero messe al bando le edizioni dei testi romani e la grammatica latina compilate da autori tedeschi! Anche nei Quaderni del carcere si sofferma sulla questione e ribadì l'utilità intrinseca della antica lingua romana, osservando che e uno strumento importante nella fase della formazione filosofica nella quale è necessario un insegnamento "disinteressato", cioè non legato a questioni pratiche. Però, sottolineò anche che in futuro lo studio delle lingue morte avrebbe dovuto essere sostituito da altre materie: era un cambiamento difficile, ma necessario, per promuovere la formazione di un nuovo tipo di intellettuale.Scrisse nel Quaderno 12:  Bisognerà sostituire il latino e il greco come fulcro della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non sarà agevole disporre la nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine didattico che dia risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità, partendo dal fanciullo fino alla soglia della scelta professionale. In questo periodo infatti lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere (e apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.  Machiavelli influenzò fortemente la teoria dello Stato di Gramsci. Marx, filosofo, storico, critico dell'economia politica e fondatore del materialismo storico Engels Lenin, Labriola, primo notevole teorico marxista italiano, riteneva che la principale caratteristica del marxismo fosse quella di aver creato uno stretto nesso fra la storia e la filosofia. Sorel — sindacalista che ha respinto il principio dell'inevitabilità del progresso storico. Pareto — economista e sociologo italiano (nato a Parigi di madre francese), noto per la sua teoria sull'interazione fra masse ed élite. Croce — liberale italiano, filosofo anti-marxista e idealista il cui pensiero fu sottoposto da Gramsci a critica attenta e approfondita. Pensatori influenzati da Gramsci. Gramscianesimo. Zackie Achmat Eqbal Ahmad Jalal Al-e-Ahmad, Althusser Perry Anderson, Giulio Angioni Michael Apple Giovanni Arrighi Zygmunt Bauman Homi K. Bhabha, Gordon Brown Alberto Burgio, Butler Alex Callinicos Partha Chatterjee Marilena Chauí, Chomsky Alberto Mario Cirese Hugo Costa Robert W. Cox Alain de Benoist Biagio de Giovanni Ernesto de Martino, Eco John Fiske, Foucault Paulo Freire, Garin Eugene D. Genovese Stephen Gill Paul Gottfried Stuart Hall Michael Hardt Chris Harman David Harvey Hamish Henderson Eric Hobsbawm Samuel Huntington Alfredo Jaar Bob Jessop, Laclau, Mariátegui, Mouffe, Negri, Nono, Omi, Pasolini, Pigliaru, Pira, Portantiero, Poulantzas Gyan Prakash William I. Robinson Edward Saïd Ato Sekyi-Otu Gayatri Chakravorty Spivak, Sraffa Edward Palmer Thompson Giuseppe Vacca Paolo Virno Cornel West Raymond Williams Howard Winant, Wittgenstein Eric Wolf Howard Zinn. Gramsci al cinema e in televisione Il delitto Matteotti, regia di Vancini, Antonio GramsciI giorni del carcere, regia di Fra, Gramsci, regia di Maielloserie TV, Gramsci, film in forma di rosa, regia di Gabriele Morleocortometraggio, Gramsci, regia di Emiliano Barbucci, Nel mondo grande e terribile, regia di Daniele Maggioni, Maria Grazia Perria e Laura Perini. Gramsci nel teatro Compagno Gramsci, di Maricla Boggio e Franco Cuomo, regia di Maricla Boggio, Gramsci nella musica Quello lì (compagno Gramsci), canzone di Claudio Lolli contenuta nell'album Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita, Piazza Fontana, canzone dei Yu Kung contenuta nell'album Pietre della mia gente Nino, canzone dei Gang contenuta nell'album Sangue e Cenere () Gramsci, il teatro e la musica È nota la passione di Gramsci per il teatro e per la musica, che si può leggere nelle lettere scritte a Tania. Egli ha scritto circa il melodrama “verdiano” che per lui segnava l’apertura dei teatri al pubblico, svolgendo una funzione conoscitiva, pedagogica e politica in senso generale. Per Gramsci l’opera diviene l’arte più popolare e i teatri aperti i luoghi dove si esercitava parte del conflitto politico.  Una frase quasi ironica di Gramsci da citare, per quanto riguarda l’importanza dell’opera per l’Italia: “siccome il popolo non è letterato e di letteratura conosce solo il libretto d'opera ottocentesco, avviene che gli uomini del popolo melodrammatizzino”. Nelle sue lettere si può leggere anche riguardo alla moda europea del jazz; egli sostiene che questa musica aveva conquistato uno strato dell’Europa colta e aveva creato un vero fanatismo: Opere: “Alcuni temi della questione meridionale, in Lo Stato Operaio, Opere,  Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, premio Viareggio, con centodiciannove lettere inedite, I quaderni dal carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Croce” (Torino, Einaudi); “Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura” Torino, Einaudi, Il Risorgimento, Torino, Einaudi, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno, Torino, Einaudi, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi,Passato e presente, Torino, Einaudi, L'Ordine Nuovo. Torino, Einaudi, Scritti giovanili. Torino, Einaudi, Sotto la mole. Torino, Einaudi, Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, La costruzione del Partito comunista. Torino, Einaudi, L'albero del riccio, Milano, Milano-sera, 1Americanismo e fordismo, Milano, Ed. cooperativa Libro popolare, Ultimo discorso alla Camera. Padova, R. Guerrini, Antologia popolare degli scritti e delle lettere di Antonio Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Il Vaticano e l'Italia, Roma, Editori Riuniti, Note sulla situazione italiana, Milano, Rivista storica del socialismo, 2000 pagine di Gramsci Nel tempo della lotta. Milano, Il Saggiatore, Lettere edite e inedite. Milano, Il Saggiatore, Elementi di politica, Roma, Editori Riuniti, La formazione dell'uomo. Scritti di pedagogia, Roma, Editori Riuniti, Scritti politici La guerra, la rivoluzione russa e i nuovi problemi del socialismo italiano, Roma, Editori Riuniti, Il Biennio rosso, la crisi del socialismo e la nascita del Partito comunista, Roma, Editori Riuniti, Il nuovo partito della classe operaia e il suo programma. La lotta contro il fascismo, Roma, Editori Riuniti, Scritti Milano, I quaderni de Il corpo, Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, La nuova sinistra, Paolo Spriano, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, L'alternativa pedagogica, Firenze, La nuova Italia, I consigli e la critica operaia alla produzione, Milano, Servire il popolo, La lotta per l'edificazione del Partito comunista, Milano, Servire il popolo, Il pensiero di Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Il pensiero filosofico e storiografico di Antonio Gramsci, Palermo, Palumbo, Resoconto dei lavori del III congresso del P.C.D.I. (Lione), Milano, Cooperativa editrice distributrice proletaria, Scritti sul sindacato, Milano, Sapere, Aul fascismo, Roma, Editori Riuniti, Quaderni del carcere Quaderni, Torino, Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, 1975. Quaderni, Torino, Einaudi, Apparato critico, Torino, Einaudi, La rivoluzione italiana, Roma, Newton Compton, Arte e folclore, Roma, Newton Compton, Scritti Inediti da Il Grido del Popolo e dall'Avanti. Con una antologia da Il Grido del Popolo, Milano, Moizzi, Ricordi politici e civili, Pavia,Scritti nella lotta. Dai consigli di fabbrica, alla fondazione del partito, al Congresso di Lione, Livorno, Edizioni Gramsci, Scritti sul sindacato, Roma, Nuove edizioni operaie, A Delio e Giuliano, Milano, N. Milano,  I consigli di fabbrica, Milano, Amici della casa Gramsci di Ghilarza, Centro milanese, Favole di libertà, Firenze, Vallecchi, Scritti, Cronache torinesi. Torino, Einaudi, La città futura. Torino, Einaudi, Il nostro Marx. Torino, Einaudi, L'Ordine nuovo, Torino, Einaudi, Nuove lettere di Antonio Gramsci. Con altre lettere di Piero Sraffa, Roma, Editori Riuniti, Forse rimarrai lontana.... Lettere a Iulca, Roma, Editori Riuniti,  Gramsci al confino di Ustica. Nelle lettere di Gramsci, di Berti e di Bordiga, Roma, Editori Riuniti, Le sue idee nel nostro tempo, Milano, l'Unità, Lettere dal carcere, con nuove lettere in parte inedite, Roma, l'Unità, Il rivoluzionario qualificato. Scritti, Roma, Delotti, Il giornalismo, Roma, Editori Riuniti, Lettere, Torino, Einaudi, Per una preparazione ideologica di massa: introduzione al primo corso della scuola interna di partito, aNapoli, Laboratorio politico, Scritti di economia politica, Bollati Boringhieri, Torino, Vita attraverso le lettere, Torino, Einaudi,  Disgregazione sociale e rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Napoli, Liguori, Piove, Governo ladro. Satire e polemiche sul costume degli italiani, Roma, Editori Riuniti, Contro la legge sulle associazioni segrete, Roma, Manifestolibri, Lettere, Torino, Einaudi, Le opere, Roma, Editori Riuniti, Critica letteraria e linguistica, Roma, Lithos, Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma, Carocci, La nostra città futura. Scritti torinesi,Roma, Carocci, Pensare l'Italia, Roma, Nuova iniziativa editoriale, Scritti sulla Sardegna. La memoria familiare, l'analisi della questione sarda, Nuoro, Ilisso, Scritti rivoluzionari. Dal biennio rosso al Congresso di Lione, O. Micucci, Camerano, Gwynplaine, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti,  Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana-Cagliari-L'Unione Sarda, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Antologia, Antonio A. Santucci, prefazione di Guido Liguori, Roma, Editori Riuniti university press,. Il teatro lancia bombe nei cervelli. Articoli, critiche, recensioni, F. Francione, Mimesis Edizioni. La taglia della storia. Idea e prassi della rivoluzione, NovaEuropa Edizioni,.Note  Luigi Manias, Antonio Sebastiano Francesco Gramsci, Marmilla Cultura, International Gramsci Society, su international gramsci society.org.  Genealogia dei Gramsci (JPG), su albanianews.  Luigi Manias, Ma quando è nato Gramsci?, Marmilla Cultura,  Manias, Ales. La sua storia. I suoi problemi, Marmilla Cultura, Così Gramsci ricordava con ironia l'episodio, nella lettera dal carcere alla cognata Tatiana, aggiungendo che «una zia sosteneva che ero risuscitato quando lei mi unse i piedini con l'olio di una lampada dedicata a una Madonna e perciò, quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi, mi rimproverava aspramente, ricordando che alla Madonna dovevo la vita»  «Noi eravamo tutti molto piccoli. Lei dunque doveva anche accudire alla casa. Trovava il tempo per i lavori di cucito rinunziando al sonno». Così ricordava quegli anni la sorella Teresina Gramsci, in Fiori, Lettera a Tatiana Schucht, così scriveva per invitare la cognata a non eccedere nelle sue preoccupazioni sulla sua vita di carcerato. La lettera prosegue infatti: «Ho conosciuto quasi sempre solo l'aspetto più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male»  Lettera a Tatiana Schucht, Numerose sono le richieste di denaro al padre:  gli scrive di essere «proprio indecente con questa giacca che ha già due anni ed è spelacchiata e lucida [oggi non sono andato a scuola perché mi son dovuto risuolare le scarpe» e, il 16 febbraio, che «per non farvi vergognare non sono uscito di casa per dieci giorni interi»  Fonzo, Testimonianza in Fiori, Testimonianza della sorella Teresina in Fiori, Fiori, L'articolo è riportato in Fiori, Riportato in A. Gramsci, Scritti politici  Antonio Gramsci, Dizionario di Storia, Treccani  [«io pensavo allora che bisognava lottare per l'indipendenza nazionale della regione: "Al mare i continentali". Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale». Cfr. A. Gramsci, lettera a Giulia Schucht, in A. Gramsci, Lettere. Gramsci e l'isola laboratorio, La Nuova Sardegna  A. Gramsci. Lettere. Progettando, in carcere, uno studio di linguistica comparata, mai realizzato, in una lettera dal carcere dalla cognata Tatiana, ricorda come «uno dei maggiori "rimorsi" intellettuali della mia vita è il dolore profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli dell'Torino, il quale era persuaso essere io l'arcangelo destinato a profligare definitivamente i "neogrammatici"» della linguistica. Tuttavia già l'economista Amartya Sen aveva avanzato l'ipotesi che il passaggio ai giochi linguistici di Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche fosse stato ispirato dai Quaderni dal carcere. Nel suo recente studio Gramsci and Wittgenstein: an intriguing connection, Pipero ha aggiunto nuovi elementi che dimostrano il collegamento fra Gramsci e Wittgenstein tramite Sraffa. Infatti il filosofo viennese venne a conoscenza del Quaderno 29, grazie proprio al suo amico Sraffa che aveva conosciuto a Cambridge. Lettera dal carcere: in essa Gramsci ricorda ancora un simpatico e patetico episodio. Dopo la rottura avvenuta a causa di quell'articolo che fece «piangere come un bambino e stette chiuso in casa il Cosmo per alcuni giorni», essi s'incontrarono nel nell'Ambasciata d'Italia a Berlino, dove il professore era segretario: «il Cosmo mi si precipitò addosso, inondandomi di lacrime e di barba e dicendo a ogni momento: Tu capisci perché! Tu capisci perché! Era in preda a una commozione che mi sbalordì, ma mi fece capire quanto dolore gli avessi procurato nel 1920 e come egli intendesse l'amicizia per i suoi allievi di scuola»  Lettera dal carcere a TSchucht  In Fiori, In A. Gramsci, Scritti politici, I56-59  Davico12.  Lettera dal carcere a Tatiana Schucht Lettera dal carcere a Tatiana Schucht, Recensione Recensione Recensione Spriano, Note sulla rivoluzione russa, ne Il Grido del Popolo, in Gramsci,  I massimalisti russi, ne Il Grido del Popolo, iSpriano, La rivoluzione contro il «Capitale», nell'Avanti!, Nella lettera Marx scriveva a Vera Zasulič che la tipica proprietà comune agricola russa poteva essere salvata dalla distruzione minacciata dallo sviluppo dei rapporti capitalistici: «Per salvare la comune russa, occorre una rivoluzione russa. Se la rivoluzione scoppierà a tempo opportuno, se l'intelligencija concentrerà tutte le forze «vive del paese» nell'assicurare alla comune agricola un libero spiegamento, allora la comune ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime capitalistico». Inoltre, nella prefazione all'edizione russa del Manifesto,Marx ed Engels avevano scritto che «l'odierna proprietà comune potrà servire di partenza per una evoluzione comunista». È anche vero, tuttavia, almeno nel caso della lettera alla Zasulič, che Gramsci all'epoca non poteva conoscerne il contenuto. (Cfr. Cinella, L'altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Genova, A. Gramsci, Ordine Nuovo, A. Gramsci, ibidem  Corriere della Sera, Archivio Centrale dello Stato, Min. Int., Dir. Gen. PS, Ordine Nuovo, 8 maggio 1920, in Scritti politici, IConcluso con un ordine del giorno che prospettava la conquista violenta del potere e la dittatura del proletariato  Per un rinnovamento del Partito socialista, ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Lenin, nel suo discorso all'Internazionale Comunista, invitando a espellere dal partito socialista l'ala destra riformista, disse che «all'indirizzo dell'Internazionale Comunista corrisponde l'indirizzo dei militanti dell'Ordine Nuovo e non l'indirizzo dell'attuale maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del loro gruppo parlamentare». Lenin, Opere, Ordine Nuovo, in Scritti politici, GRAMSCI La sposa mandata da Lenin  Lettera, in A. Gramsci, Lettere Lettera dal carcere. Un profilo di Antonio Gramsci junior, su channelingstudio.ru.  Su alcune note di uno sconosciuto bolscevico Vladimir Diogotche sosteneva, fra l'altro, di essere a conoscenza di un tentativo di rovesciamento della monarchia italiana da parte di Nitti in accordo con i socialistilo storico Jaroslav Leontiev ha sostenuto nche la conoscenza tra Gramsci e la Schucht sia stata "pilotata" da Lenin in persona: cfr. Link archivio del Corriere  Amendola,  In Togliatti, In Togliatti, Lettera di Gramsci a Giulia Schucht,  Lettera a Giulia Schucht, La crisi italiana, ne L’Ordine Nuovo, 1º settembre 1924, in Gramsci, Camera dei Deputati, XXVII legislatura del Regno d'Italia, "Capo", in L'Ordine Nuovo, pubblicato successivamente col titolo di Lenin capo rivoluzionario, in l'Unità, «Capo», ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Anche alle autorità francesi fu nascosto lo svolgimento del Congresso. Sul III CongressoSpriano, Storia del Partito comunista italiano, Spriano, Spriano,  Spriano, Spriano, Antonio Gramsci, Tesi di Lione, Lione, Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti,  «Alcuni temi della quistione meridionale». Stato operaio,  Citato in Rosario Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale, Roma-Bari, Laterza, Antonio Gramsci, Cinque anni di vita del partito, L'Unità,  Fiori, Spriano, Aurelio Lepre, Il prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Editori Laterza, Bari, La lettera, non datata, si ritiene sfu pubblicata per la prima volta in Francia da Tasca. Su tutta la questione della lotta interna nel partito comunista sovietico di questo periodoSpriano, cit., II, ca 3 e 5  A. Gramsci, Lettere Lettera di Togliatti a Gramsci, Commissione di assegnazione al confino di Roma, ordinanza dcontro Antonio Gramsci (“Dirigenti e deputati del PCd'I dichiarati decaduti”). In Pont, Carolini, L'Italia al confino, Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali (ANPPIA/La Pietra), Tornata Camera dei deputati Fiori,  In Fiori, Sentenza contro Antonio Gramsci e altri (“Ricostituzione di partito disciolto, propaganda, cospirazione, istigazione alla lotta armata ecc.”). In Pont, Carolini, L'Italia dissidente e antifascista. Le ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputati di antifascismo, Milano (ANPPIA/La Pietra),  Amendola142.  Spriano, Lettera a Tatiana Schucht, Fiori, Fiori,  Fiori, Risoluzione per l'espulsione di Amedeo Bordiga  Fiori, Pubblicato in «Rinascita», In «Rinascita», cit.  Dalla biografia di Pertini pubblicata nel sito web del Circolo Sandro Pertini di Genova: «Chiesi al maresciallo dei carabinieri che comandava la scorta se poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi fece il nome di Turi me ne rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei incontrato Antonio Gramsci, un uomo che avevo sempre ammirato per il suo coraggio». A Turi incontrai Gramsci in un angolo del cortile dove coltivava un'aiuola di fiori; era piccolo di statura e con due gobbe: una davanti ed una di dietro. Mi avvicinai a lui, mi presentai, gli affermai che venivo da Santo Stefano e che ero onorato di fare la sua conoscenza. Gli davo del lei e lo chiamavo Onorevole Gramsci. Lui si mise a ridere, dicendomi: "Perché mi dai del lei? Siamo antifascisti, vittime del Tribunale speciale tutti e due. Io gli ricordai che per loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori. Disse di lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e parlò di Turati e Treves in maniera che mi sembrò offensiva ed io risposi con durezza. Il giorno dopo si scusò, dicendo che il suo era un giudizio politico, non aveva avuto intenzione di offendere le persone, e capiva la mia reazione in favore di due compagni che si trovavano in Francia. Da allora diventammo buoni amici. Parlavamo a lungo insieme anche perché era stato isolato dai suoi. Per certi versi costoro lo consideravano un traditore e chiedevano la sua espulsione dal partito, come poi fecero anche con Ravera. In cella Gramsci era perseguitato dai carcerieri. L’ordine di non lasciarlo dormire arrivasse direttamente da Roma. Io andai dal direttore del carcere a protestare perché i carcerieri, ogni volta che Gramsci si addormentava, lo svegliavano facendo scorrere sulle sbarre della finestra dei bastoni, con la scusa di controllare che le sbarre non fossero state segate per un'evasione. Dissi al direttore che se la situazione non fosse cambiata, avrei scritto una lettera al ministero. Il risultato fu che Gramsci, già gravemente malato di tubercolosi poté dormire tranquillo. Le mie proteste costrinsero il direttore del carcere di Turi a concedere a Gramsci anche alcuni quaderni, delle matite, un tavolino ed una sedia. Così poterono nascere i quaderni dal carcere. La mia amicizia mi mise in contrasto con il direttore del carcere e forse non fu estraneo al mio trasferimento a Pianosa. Lettera a Tatiana Schucht, Lettera a Tatiana Schucht,  Alla fine degli anni settanta cominciò a circolare la voce secondo la quale Gramsci in punto di morte si sarebbe convertito alla fede cattolica. Tale affermazione venne però ritrattata dallo stesso religioso che l’aveva inavvertitamente messa in circolazione, chiamando a supporto della smentita l’allora cappellano della clinica Quisisana. Nonostante le chiare argomentazioni della rettifica, trent’anni dopo la medesima tesi fu riproposta da un altro sacerdote. Essendo priva di riscontri documentali e di prove testimoniali, la teoria della conversione di Gramsci non è mai stata avvalorata dagli storici. Cfr. S.Fio., Gramsci e il sacerdote pentito, La Repubblica, Il Vaticano: «Gramsci trovò la fede», Il Corriere della Sera, C. Daniele, Togliatti editore di Gramsci, Carocci, Quaderni del carcere, Il Risorgimento, Einaudi, Torino, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce Quaderni del carcere, Quaderni del carcere, ed. Gerratana,  Cirese, Baratta, Giulio Angioni, Gramsci e il folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle culture, Il Maestrale, Note sul Machiavelli,  Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Quaderni del carcere, cLetteratura e vita nazionale, Il materialismo storico e la filosofia di Croce, L. Rosiello, Problemi e orientamenti linguistici negli scritti di Antonio Gramsci, Quaderni dell'Istituto di glottologia di Bologna,A. Gramsci, V. Gerratana, Torino, Einaudi, A. Gramsci, Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, Gramsci, Gerratana, Torino, Einaudi, G. I. Ascoli, Proemio, AGI, Gramsci, 'Quaderni del carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi, 'Quaderni del carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, L. Rosiello, Lingua nazione egemonia, Rinascita Il Contemporaneo, Rapone, Leonardo, Cinque anni che paiono secoli: Gramsci dal socialismo al comunismo, 1a ed, Carocci,,  Fonzo,  Maria Luisa Bosi, Antonio Gramsci, su scuolalo divecchio. giovannicarpinelli, Gramsci e la musica, su Palomar, La passione sconosciuta di Gramsci per la musica, in L’Huffington Post. Premio letterario Viareggio-Rèpaci, Amendola, Storia del Partito comunista italiano Roma, Editori Riuniti, Perry Anderson, Ambiguità di Gramsci, Bari, Laterza, Giulio Angioni, Gramsci e il folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle culture, Il Maestrale, Francesco Aqueci, Il Gramsci di un nuovo inizio, Quaderno, Supplemento al n. 19  di «AGON», Rivista Internazionale di Studi Culturali, Linguistici e Letterari, Francesco Aqueci, Ancora Gramsci, Roma, Aracne,. Nicola Auciello, Socialismo ed egemonia in Gramsci e Togliatti, Bari, De Donato, Nicola Badaloni e altri, Attualità di Gramsci, Milano, Il Saggiatore, Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Roma, Carocci, Bobbio, Saggi su Gramsci, Milano, Feltrinelli, Calamandrei e Calogero, La conoscenza di Gramsci in Inghilterra. Una lettera di Guido Calogero e una nota di Franco Calamandrei, in «L'Unità» Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata, Venezia, Marsilio,. Antonio Carrannante, Sull'uso di 'galantuomo' in Gramsci, in "Studi novecenteschi",  Antonio Carrannante, Antonio Gramsci e i problemi della lingua italiana, in "Belfagor",  Iain Chambers, Esercizi di potere. Gramsci, Said e il postcoloniale, Roma, Meltemi editore, Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, Marco Clementi, Le ceneri di Gramsci in Stalinismo e Grande Terrore, Roma, Odradek, Guido Davico Bonino, Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi, Biagio De Giovanni e altri, Egemonia Stato partito in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, D'Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Torino, Einaudi,. Dubla,Giusto (a cura), Il Gramsci di Turi, Testimonianze dal carcere, Chimienti editore, Michele Filippini, Gramsci globale. Guida pratica agli usi di Gramsci nel mondo, Bologna, Odoya,.Giuseppe Fiori, Vita di Gramsci, Bari, Laterza, Fiori, Gramsci Togliatti Stalin, Roma-Bari, Laterza, Erminio Fonzo, Il mondo antico negli scritti di Gramsci, Salerno, Paguro, Eugenio Garin, Con Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Valentino Gerratana, Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti, Noemi Ghetti, Gramsci nel cieco carcere degli eretici, Roma, L'Asino d'Oro Edizioni, Gramsci jr., La storia di una famiglia rivoluzionaria, Roma, Editori Riuniti-University Press. Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Hobsbawm, Gramsci in Europa e in America, Roma-Bari, Laterza,Aurelio Lepre, Il prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Bari, Laterza, Liguori e Voza, Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, Piparo, “I due carceri di Gramsci”, Donzelli, Roma, Losurdo,Gramsci. Dal liberalismo al comunismo critico, Roma, Gamberetti editrice, Mario Alighiero Manacorda, Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e conformismo, Roma, Editori Riuniti, Michele Martelli, Gramsci filosofo della politica, Milano, Unicopli, Mondolfo, Da Ardigò a Gramsci, Milano, Nuova Accademia, Raul Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, Roma, Editori Riuniti University Press, Omar Onnis e Manuelle Mureddu, Illustres. Vita, morte e miracoli di quaranta personalità sarde, Sestu, Domus de Janas, Paggi, Gramsci e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, Pastore, Gramsci. Questione sociale e questione sociologica, Livorno, Belforte, Portelli, Gramsci e il blocco storico, Bari, Laterza,Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo, Carocci, Roma, Rossi, Vacca, Gramsci tra Mussolini e Stalin, Roma, Fazi editore, Angelo Rossi, Gramsci da eretico a icona. Storia di un "cazzotto nell'occhio", Napoli, Guida editore,. Angelo Rossi, Gramsci in carcere. L'itinerario dei Quaderni, Napoli, Guida editore, Santhià, Con Gramsci all'Ordine Nuovo, Roma, Editori Riuniti, Santucci, Gramsci. Palermo, Sellerio, Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano,I, Torino, Einaudi, Spriano, Storia del Partito comunista italiano,II, Torino, Einaudi, Spriano, Gramsci e Gobetti. Introduzione alla vita e alle opere, Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Gramsci in carcere e il partito, Roma, Editori Riuniti, Elettra Stamboulis, Gianluca Costantini, Cena con Gramsci, Padova, Becco Giallo,. Giuseppe Tamburrano, Gramsci: la vita, il pensiero e l'azione, Bari-Perugia, Lacaita, 1963. Palmiro Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano Roma, Editori Riuniti, Togliatti, Scritti su Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Vacca, Gramsci e Togliatti, Roma, Editori Riuniti. Treccani, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Casa museo Gramsci a Ghilarza, Fondazione Istituto Gramsci. Antonio Sebastiano Francesco Gramsci. Antonio Gramsci. Grice: “When Austin speaks of ‘ordinary language,’ he knows what he is talking about; when Gentile, Gramsci, and Ascoli, do, they don’t!” -- Grice: “Elites are so relative; when I came to Oxford, I was regarded as a ‘Midlands scholarship boy’ and thus assigned Corpus; there was no way I would socialise with Hampshire, Austin, and the others who were philososophising at All Souls on Thursday evenings – I had just been born on the wrong side of the track. So it was particularly obtuse for me when Gellner started to criticise me as elitist! Perhaps he had read too much Gramsci!?” Gramsci. Keywords: “Grice, elite” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gramsci” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Grecino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). FIlosofo italiano. Giulio Grecino. An amateur philosopher. Seneca describes him as  man of distinction, but with little serious philosophical ability of interest.

 

Grice e Gregorio – l’arte grammatica degl’angeli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Da roma -- il grande: Grice: “For one, he is the punning Pope!”  Grice: “What WAS Gregorio’s implicatura? A complex one, since he uses the counterfactual: “si angeli fuessent.” Grice: “In The Sellars/Yeatman rewrite, the meta-implicata is that you must have read Bede!” Grice: “Poor Gregorio Magno had to fight with the Lonbards, and the sad thing is he lost!” --  Grice takes inspiration on Shropshire’s argument for the immortality of the soul from Gregorio Magno (Dialogo, IV). Figlio di Gordiano, appartenente all'aristocrazia senatoriale, la classe dominante dell'antica Roma che mantene prestigio economico e sociale, nonostante la caduta dell'Impero, e di Silvia, appartenente a una ricca famiglia siciliana. La sua "ars grammatica" fu limitata e lo stile che denota i suoi scritti è in linea con quello degli scrittori tardo-antichi. Di questi imita, in particolare, solo poche figure retoriche come l'anafora ed il gusto dell'esempio e dell'aneddoto moralizzante. La sua conoscenza del diritto si centra in Cicerone, da cui riprende anche definizioni e nozioni filosofiche del stoicismo. Insegna su colle Celio. Secondo la tradizione, mentre Gregorio attraversava, alla testa della processione, il ponte che collegava l'area del Vaticano con il resto della città (chiamato allora "Ponte Elio" o "Ponte di Adriano", oggi Ponte Sant'Angelo), ebbe la visione dell'Arcangelo Michele che, in cima alla Mole Adriana, rinfoderava la sua spada. La visione (che secondo alcune fonti fu condivisa da tutti i partecipanti alla processione) venne interpretata come un “segno” celeste pre-annunciante l'imminente fine dell'epidemia, cosa che effettivamente avvenne. Da allora i romani cominciarono a chiamare la Mole Adriana "Castel Sant'Angelo" e, a ricordo del prodigio, posero più tardi sullo spalto più alto la statua di un angelo in atto di rinfoderare la spada. Ancora oggi nel Campidoglio è conservata una pietra circolare con impronte dei piedi che, secondo la tradizione, sarebbero quelle lasciate da Michele quando si fermò per annunciare la fine della peste.  Vede alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi di aspetto e pagani, tanto da aver esclamato, rammaricato: "Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…".  Comunque in meno di due anni diecimila Angli, compreso il re del Kent Ethelbert – e la famiglia di Grice -- si convertirono.Obiettò invece sulla proibizione ai soldati imperiali di diventare «soldati di Cristo», ovvero di entrare a far parte del clero. Gregorio avrebbe dettato i suoi canti a un monaco, alternando la dettatura a lunghe pause; il monaco, incuriosito, avrebbe scostato un lembo del paravento di stoffa che lo separava dal pontefice, per vedere cosa egli facesse durante i lunghi silenzi, assistendo così al miracolo di una colomba (che rappresenta naturalmente lo Spirito Santo), posata su una spalla del papa, che gli dettava a sua volta i canti all'orecchio. Opere: “Expositio super Cantica canticorum – “Cantico dei cantici”; “Moralia in Job (Giobbe); “Homiliae in Evangelia”, omelie sui Vangeli; Homiliae in Hiezechihelem prophetam, oomelie su Ezechiele; A Sacramentarium Gregorianum con cui riformò il canone della messa, rendendola più semplice ma più solenne; Antiphonarius centola nuova redazione del libro dei canti liturgici; Dialoghi; Libro su santi italiani a lui coevi; “San Benedetto da Norcia” “Sul destino dell'anima” “Su alcune profezie”; “Regula Pastoralisun manuale per la vita e l'opera dei vescovi e in generale di coloro che ricoprono il ministero pastorale; Le Epistolaeun registrum,«12 marzoA Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto il grande, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione.»  «3 settembreMemoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l'incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre.”“Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale.”Il Proprio del santo in rito romano contiene la seguente colletta:[ «Deus, qui pópulis tuis indulgéntia cónsulis et amóre domináris, da spíritum sapiéntiae, intercedénte beáto Gregório papa, quibus dedísti régimen disciplínae, ut de proféctu sanctárum óvium fiant gáudia aetérna pastórum. Per Dominum nostrum Iesum Christum»  La Chiesa di Manduria custodisce un frammento d'osso del suo braccio destro. La Chiesa di Casola custodita un frammento d'osso della sua mano destra. G. Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia,  Dizionario Biografico degli ItalianiVolume 59, Roma, Claudio Mareschini, Gregorio Magno e la cultura classica” Gregorio scrisse di sé «ego quoque tunc urbanam praeturam gerens pariter subscripsi», ma poiché in una variante del testo praeturam è sostituita da praefecturam, dalle sue epistole non è possibile sapere con esattezza se fu "prefetto dell'Urbe" o piuttosto "pretore dell'Urbe".  S. Gasperri, Italia longobarda, Laterza, Dialogi, Roma, Tipografia del Senato, Dizionario biografico degli italiani, Opera Omnia dal Migne patrologia Latina con indici analitici. Gregorio da Roma – Grice: “Gregory did not know what those were: ‘angeli,’ his companion answered. Adamant, Gregory corrected him: “No. They are Anglicans, they are not angels!” -- The grammatical structure of Latin of the seventh to eighth centuries had changed in comparison with the Latinitas of the fourth century. Although Bede builds his argument on the Grammar textbooks of Antiquity, he adopts Gregory the Great’s directive to subject the grammar rules to the language of the Scriptures and not to ancient Grammar textbooks. GREGORY THE GREAT, Moralia in Iob, PL 75, col. 516: ‘quia indignum uehementur existimo, ut uerba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati’ (‘I consider it strongly unworthy to restrict the words of divine revelation to the rules of Donatus’). Gregory did NOT write an ‘ars grammatica’ – Bonifacio did! – Gregorio does mention the ‘sub regulis Donati’ – which is worth transcribing: “sed tam pueriliter istum labi non indignum fortasse fuit, qui litteras fastidit et pro nugis habet, iisque studere episcopum, impium et profanum putat – et alibi pene gloriatur se artem loquendi, quam magisterial disciplinae exterioris insinuant, servare despexisse, non barbarism confusionem devitare, situs motusque praepositionum, casusque servare contemnere, quia indignum (inquit) vehementur existimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati – quasi vero humani divinique sermonis leges addiscere et observare, id sit caelestia oracular subiiere. —Non metacismi collisionem fugio, non barbarism confusionem devito, situs motusque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum vehementer exisitimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati – Non rifuggo dalla collisione del metacismo, non evito la mescolanza di barbarism, non tengo conto della posizione, degli spostamenti e delle preposizioni con I casi che esse reggono, perche repute cossa assai indegna coartare le parole del celeste oracolo entro le regole di Donato – Ep. Miss. C. 5 PL LXXXV, 516 B – Cio che a Gregorio sembra indegno non e l’obbedire alle regole della grammatica – anche in questo e uomo di disciplina – ma la retorica di Donato, che teoreizza e prescribe, contro la LIBERTA dell’espresione originale, il capriccio del maestro – Ructat corde bonum sine lege Donati verbum – la parola buona erompe dal cuore senza le leggi di Donato. – sommamente disdicevole assogettare le parole dell’oracolo celeste alle regole di Donato. L’esegeta del libro di Giobbe non trascura di continuo le norme grammaticali. Gregorio sa scegliere tra due letture di un medesimo vesetto, indicare I tropi di paragone e di metonimia, il valore della congiunzione di coordinarzione, l’etimologia di una parola. Insomma, Gregorio non esclude dall sua esegesi il iicorso ai metodoi di I spegazione grammaticale classica. Facendo mostra di una conosenza ostentata della tecnologia grammatical Gregorio si preoccupa evidentemente di far comprendere che il suo NON-VOLERE non e un NON-Sapere. It was said a pigeon dictated his Gregorian chants. Not only did he see the angel land on ponte sant’angelo, but was able to retrieve the stone and give it to the Campidoglio – he joked on the anglii being potentially angels, should they were Roman!” – I limite dei arti liberali in Gregorio. Grice: “It was a good thing for Western civilization that Gregorio could care less about Greek!” --  Gregorio il Grande, Gregorio I – Gregorio Magno. Gregorio. Keywords: angeli, ars grammatica – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gregorio: implicatura e grammatica” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Grandi – il progresso all’infinito della rosa di Grandi -- implicatura infinita – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo.  Grice: “I like Grandi – and Grandy – for one, Grandi (if not Grandy) proves that geometry is a branch of mathematics with his rose curve – a geniality!” – Figlio di Piero Martire,  ricamatore, e Caterina Legati, compì i suoi primi studi di grammatica sotto la guida di Canneti e poi nel locale Collegio dei Gesuiti, dove ebbe come maestro Saccheri. Entra nel monastero camaldolese di Classe in Ravenna, assumendo il nome Guido in sostituzione degli originari Francesco Lodovico, e qui ritrovò il maestro Canneti.  Proseguiti gli studi a Roma e Firenze, insegna a Firenze. Pubblica “La quadratura del cerchio” “La quadrature dell'iperbole” al cui interno scopre il paradosso: la somma parziale di una serie (“serie di Grandi) a segni alterni di numeri può non convergere (serie di Grandi). Divenne membro della corte presso il granduca di Toscana. Insegna a Pisa. Studia la curva algebrica da lui chiamata "rodonea" per la forma che ricorda il rosone delle chiese e fu autore degli Elementi di Geometria di Euclide (Venezia, Savioni). Fu il primo l’analisi degli infiniti. Saggi: “De infinitis infinitorum”; “Trattato delle resistenze” (Firenze); “Geometrica demonstratio vivianeorum problematum” (Firenze, Guiducci); “De infinitis infinitorum, et infinite parvorum ordinibus disquisitio geometrica” (Pisa, Bindi); “Epistola mathematica de momento gravium in planis inclinatis” (Lucca, Frediani); “Dialoghi circa la controversia eccitatagli contro Marchetti” (Lucca, Gaddi); “Prostasis ad exceptiones clari varignonii libro de infinitis infinitorum ordinibus oppositas circa magnitudinum plusquam-infinitarum vallisii defensionem et anguli contactus” (Pisa, Bindi); “Del movimento dell'acque trattato geometrico” (Firenze); “Relazione delle operazioni fatte circa il padule di Fucecchio” (Lucca, Venturini); “Trattato delle resistenze” (Firenze, Tartini); “Compendio delle Sezioni coniche d'Apollonio con aggiunta di nuove proprietà delle medesime sezioni” (Firenze, Tartini); “Instituzioni Meccaniche” (Firenze, Tartini); “Istituzioni di aritmetica pratica” (Firenze, Tartini); “Sectionum conicarum synopsis” (Firenze, Giovannelli); “Idraulici italiani."Rodonea" deriva dal greco Ροδή, rosa. La curva rodonea è anche chiamata "rosa di Grandi" in suo onore. G. Ortes, Vita del abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia,  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Rodonea Sofisma algebrico Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. Carteggi del padre camaldolese matematico. Francesco Lodovico Grandi – Grice: “I like Grandi: I have two ways to deal with ‘mean’: ‘no sneaky intention allowed, including this – (o) all intentions are open ones, including this one – self-reference; or ‘optimal infinite’ potential infinite/actual infinite – titular versus de facto. In any case, both are better than pseudo-Schiffer!” Grice: “While I say, “Schiffer and others,” it should be pointed out that the first to show this was, of all people, my tutee Strawson – Stampe and Patton came close! (I love them guys! Patton is a gentleman, and Stampe, too! Both brilliant philosophical gentlemen, too!” --  In geometria è detta rodonea la curva algebrica o trascendente il cui grafico è caratterizzato da una serie di avvolgimenti attorno ad un punto centrale. Nei casi più noti tali avvolgimenti producono figure a forma di rosone, da cui deriva alla curva il nome rodonea (dal greco rhódon, ròsa). La curva rodonea è chiamata anche rosa di Grandi da Luigi Guido Grandi, il matematico che la battezzò e studiò intorno al 1725.   Rodonee ottenute per valori diversi del parametro {\displaystyle \omega ={\frac {n}{d}}} Tartapelago rosaGrandi 04.gif  Vari modi per la costruzione di Rose di Grandi. Animazioni realizzate in MSWLogo[1] La rodonea si può considerare un caso particolare di ipocicloide.  Equazione della curvaL'equazione delle rodonea in coordinate polari {\displaystyle (\rho ,\theta )}è:  {\displaystyle \rho =R\sin \omega \theta }, dove R è un numero reale positivo che rappresenta la massima distanza della curva dal centro degli avvolgimenti, e \omega  è un numero reale positivo che determina la forma della curva. È possibile anche scrivere la rodonea come {\displaystyle \rho =R\cos \omega \theta }, che produce una figura analoga, ma ruotata di un angolo pari a {\displaystyle {\frac {\pi }{2\omega }}}radianti.  Proprietà Se \omega  è un numero intero, la curva ha un numero finito di avvolgimenti, tutti passanti per l'origine degli assi, che generano una serie di "petali" componenti la figura a forma di rosone; il numero dei petali è pari a:  \omega , se \omega  è dispari; {\displaystyle 2\omega }, se \omega  è pari. Osserviamo che non è possibile ottenere rose con un numero di petali pari a {\displaystyle 4n+2}. Per {\displaystyle \omega =1} si ottiene un unico petalo, ovvero una circonferenza non centrata nell'origine.  L'area della superficie racchiusa dalla curva è pari a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{2}}} per k pari, a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{4}}} per k dispari.  Se \omega  è un numero razionale {\displaystyle {\frac {n}{d}}}, la curva ha un numero finito di avvolgimenti, che si intersecano in più punti creando una serie di petali parzialmente sovrapposti; nella figura a fianco sono visualizzate le rodonee ottenute per alcuni valori di n e d. Come caso particolare, per {\displaystyle \omega ={\frac {1}{2}}}, si ottiene il folium di Dürer.  In entrambi i casi precedenti, la curva ottenuta è algebrica; se invece \omega  è un numero irrazionale, la curva è trascendente ed ha un numero infinito di avvolgimenti che non si chiudono e formano un insieme denso, passando arbitrariamente vicino a ogni punto del cerchio di raggio R.  Note Giorgio Pietrocola, Curve storiche, Rose di Grandi, su Tartapelago, Maecla, 2005. URL consultato il 26 aprile 2021. BibliografiaRhodonea Curves, in The MacTutor History of Mathematics archive, School of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland. URL consultato il 16-07-2008. Voci correlate Ipocicloide Figura di Lissajous PAGINE CORRELATE Sistema di coordinate polari sistema di coordinate bidimensionale  Atomo di idrogeno atomo dell'elemento idrogeno  Metodo simbolico  Il progressus in infinitum (in italiano «progresso all’infinito») o regressus in infinitum («regresso all'infinito») [1], è un'espressione della filosofia scolastica che indica un modo di argomentare logicamente, quando, per spiegare qualcosa, si ricorre a un termine, il quale però rende necessario il rinvio a un nuovo termine, e questo a un ulteriore termine; e cosi via senza che si possa mai giungere a un punto di spiegazione ultimo e definitivo. Questo procedimento logico, usato largamente da Aristotele e dagli scettici, vuole quindi dimostrare l'insufficienza di un'argomentazione. La differenza tra le due espressioni consiste nel ricercare la causa prima (ad esempio: causalità ideale platonica) o spiegazione definitiva di una cosa (ad esempio: causalità naturale aristotelica) procedendo logicamente in avanti (progressus) o all'indietro (regressus). Un esempio di un procedimento logico basato sul regressus in infinitum si ritrova nell'"Argomento del terzo uomo" di Aristotele.  Immanuel Kant (1724-1804) nella settima sezione della sua Critica della Ragion Pura (1781) chiamava «progressus in indefinitum» questo "infinito per addizione" che «non ammette nessuna limitazione se non quella provvisoria che gli può essere assegnata ad ogni suo passo, prima di procedere al passo successivo». Si tratta di un infinito irraggiungibile, non potendosi contare effettivamente infiniti numeri naturali.   Per questo motivo Aristotele (384-322 a.C.), affermava che «il numero è infinito in potenza, ma non in atto». [3] come appare chiaro se si rappresentano i numeri naturali con una serie di punti equidistanti, che si susseguono senza fine lungo la retta in una successione infinita discreta nel senso che tra due elementi consecutivi c'è uno spazio vuoto, da intendersi come assenza di elementi. Si parla anche di un'infinità numerabile, giacché di questi infiniti elementi è possibile dire qual è il primo, il secondo, il terzo, e così via.  L’infinito potenziale è perciò un infinito ottenuto per divisione; «la caratteristica di tale infinito, che Kant chiamava “regressus in infinitum”, è che esso è interamente contenuto in una totalità limitata: dividendo all’infinito un segmento in parti sempre più piccole, risulta evidente che tutti gli elementi della divisione sono in realtà già assegnati e presenti, prima ancora che la stessa divisione abbia inizio; appartenendo ad una forma limitata essi non possono sfuggire e non possono che essere ritrovati durante un processo all’infinito che inevitabilmente li raggiunge tutti.   La differenza tra “progressus in infinitum” e “regressus in infinitum” secondo Kant sta proprio in questo: nel primo caso gli elementi vanno cercati al di fuori della totalità parziale, sempre finita, che non si cessa mai di ottenere; nel secondo essi vanno trovati in un tutto preesistente.» [4]  Note Dizionario internazionale.it ^ Enciclopedia Treccani alla voce "Regressus in infinitum" ^ Bocconi - Aristotele e l'infinito ^ Mathesis   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di FilosofiaLuigi Guido Grandi. Grandi. Keywords: infinite implicature – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grandi: implicatura infinita” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Grassi – D’Ovidio a Vico: la metafora inaudita e il concetto di stato in Machiavelli – filosofia fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I like Grassi. He philosophised, like I did, on the metaphysics of Plato.” Grice: “Grassi has the gift of the gab: ‘metafora inaudita,’ ‘potenza dell’imagine,’ –“ Grice: “Grassi has mainly explored Heidegger.” – Grice: “I like Grassi’s general use of ‘imago’ to re-approach rhetoric!” -- Si laurea a Milano sotto Martinetti. Opere: “Metafisica platonica” (Laterza, Bari) – cf. A. D. Code on H. P. Grice on the axioms of metaphysical Platonism --. “Apparire ed essere” (Nuova Italia, Firenze). “Il bello e l’antico” (Paravia, Torino).“Heidegger e umano – Mann in Heidegger” (Guida, Napoli). “La preminenza della metafora” (Mucchi, Modena). “La filosofia dell'umanesimo. Un problema epocale” (Tempi, Napoli). “La follia -- Umanesimo e retorica” (Mucchi, Modena) “Potenza dell'immagine -- ivalutazione della retorica” (Guerini, Milano) “La metafora inaudita, -- cf. la lingua inaudita -- Massimo Marassi, Aestetica, Palermo “Potenza della fantasia” Guida, Napoli Filosofare noetico non metafisico (Congedo, Galatina); “Vico e l'umanesimo” Guerini, Milano Il dramma della metafora. Ovidio, Massimo Marassi, Tipografica, Roma,“Arte e mito”La Città del Sole, Napoli, “Retorica come filosofia. La tradizione umanistica”, Massimo Marassi, La Città del Sole, Napoli; “Tra antropologia, logica e ontologia”; “l'incidenza di Vico nell'antropologia di Grassi”; “Platone nell’onto-antropo-logia di Grassi Dizionario Biografico degli Italiani. “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine della parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica?“L’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocaleAccostandoci ai lavori di Ernesto Grassi possiamo avere, non senza qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”, dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi abbiamo seguito come filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita.  “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine della parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica? “L’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica dell’esistenza”, E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Accostandoci ai lavori di Grassi possiamo avere, non senza qualche fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello stile grassiano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il movimento di “anabasi” e “catabasi”, dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di Grassi abbiamo seguito come filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita dell’autore su cui autorevoli interpreti si sono diffusamente espressi1. Il coacervo di autori, prospettive e tematiche, pone in luce i numerosi ambiti toccati dal filosofo: Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, Palermo, Centro Internazionale di studi di estetica, 2001; G. Civati, Un dialogo sull’umanesimo. Hans-Georg Gadamer e Ernesto Grassi, l’Eubage, Aosta 2003; R. J. Kozljanic, Ernesto Grassi. Leben und Denken, München, Fink, 2003; W. Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di Ernesto Grassi, in “Giornale critico della filosofia italiana”, LXXXIX, 2010, fasc. I, pp. 148-176; Id., Ernesto Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, München, Alber 2009; J. Sànchez Espillaque, Ernesto Grassi y la filosofìa del humanismo, Sevilla, Biblioteca Viquiana- Fenix Editora, 2010; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, Vaprio d’Adda, GDS, 2008; Id., La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, Vaprio d’Adda, GDS, 2009; M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti 1922-1946, La città del Sole, Napoli 2011.  ! 4!  mitico/metaforologico, antropologico, filosofico, storia delle idee e storia della cultura. In questo contesto teorico emerge la centralità del concetto di Lichtung, il quale consente di comprendere la direzione metaforologica del pensiero grassiano che nei saggi giovanili si era concentrato maggiormente su una tematizzazione dell’ontologia fenomenologica. Si tratta di una Lichtung di evidente sapore heideggeriano che allarga il suo raggio di incidenza sulla cultura e sulla società trasformandosi nelle vichiane luci della Scienza Nuova. La nostra attenzione si concentrerà sui temi che accompagnano l’iter grassiano dall’ontologia alla metaforologia. In questo percorso ovviamente alcuni temi o spunti resteranno sullo sfondo – come l’agire delle condizioni storico-politiche (magistralmente ricostruite da Büttemeyer) – e si privilegeranno quegli autori e quei temi che più ci appaiono attinenti con l’argomento grassiano che vogliamo mettere in risalto. Dal nostro punto di vista la prospettiva grassiana va interpretata come il tentativo di approntare una nuova filosofia, nell’epoca in cui se ne è decretata la morte, che sia innanzitutto esperienza del mondo e non solamente conoscenza. O meglio: di conoscenza pur sempre si tratta, il punto di riferimento è pur sempre la ragione, ma una ragione non classica: una “ragione fantastica”. La svolta grassiana è verso la fantasia e la metafora2, da una teoria del concetto a una teoria dell’inconcettualità per usare una ben nota espressione blumenberghiana. Il filosofo italo-tedesco accoglie in tutta la sua problematicità l’eredità di quel discorso posto a partire dal Settecento in modo sistematico all’interrogazione filosofica: il conflitto tra ragione e sentimento che agita le pagine degli empiristi, dei poeti, della critica kantiana fino alla tematizzazione husserliana. La questione è ancora una volta quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, attingendo a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura si intersecano. Sulla svolta metaforica dell’ontologia fondamentale di Grassi cfr., S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit.  ! 5!  In questo orizzonte di ricerca dobbiamo compiere atti continui di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare per il filosofo è quella della ratio e dell’atto dell’io penso di Cartesio, padre del pensiero moderno. Ma tale operazione decostruttiva, tale filosofia col martello, per usare una ben nota metafora nietzscheana, non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi della ragione, del tramonto della civiltà in cui cultura e civilizzazione si sono definitivamente separate, con la conseguenza di una dilagante inautenticità dell’esperienza. Non ritroviamo mai in Grassi una rassegnazione al declino dell’Occidente, un compiacimento quasi edonistico della dissoluzione delle categorie, ma sempre una ricerca costante di un Altro inizio del pensiero. Un inizio che è strettamente correlato alla potenza delle immagini. Il significato attribuito all’immagine, alla forma, all’eidos3, esemplarmente condensato nell’aneddoto di Poliziano sulle streghe nelle selve, raccontato agli studenti in apertura del corso sull’Organon aristotelico4 e ricordato da Grassi in Potenza dell’immagine, va contestualizzato all’interno della questione più generale del rapporto tra filosofia e retorica, tra linguaggio dimostrativo e indicativo già avvertito in maniera problematica dalla riflessione sofistica gorgiana e di conseguenza platonica. E procedendo a ritroso, i termini della questione ci conducono sulla strada di un’esatta definizione della teoria della visione a cui l’eidos rimanda per sua stessa definizione: “se infatti la forma dimostrativa, come pure quella indicativa, del discorso hanno le loro radici nella teoria, nella vista, si deve allora riconoscere che il vedere, la visione, oltrepassa l’ambito del linguaggio e che l’immagine, l’eidos, giunge in primo piano. Dobbiamo dunque affermare tanto l’inadeguatezza del linguaggio razionale quanto di quello indicativo, dato che essi si basano sul vedere quale atto più originario dello stesso linguaggio?”5. L’immagine si riferisce non solo all’oggetto di cui essa è immagine ma anche al senso che diviene rappresentazione, una forza di sintesi con caratterizzazioni qualitative proprie. Husserl ha parlato non Grassi usa il termine immagine nella sua identità con l’eidos come forma, schema e tipo. Cfr. E. Grassi, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini, Milano 1989, p. 17. 4 Ivi, pp. 15-16. 5 Ivi, p. 17.  ! 6!  a caso di sintesi passiva come genesi del simbolico, lezione che Grassi accoglie nel suo tentativo di ricostruire un intero, una realtà dotata di sensi molteplici e stratificati, senza il sacrificio di alcuna dimensione dell’esperienza. La concettualizzazione messa a punto da Grassi dei grandi temi della filosofia, dell’arte e della letteratura, mostra l’attenzione verso le dimensioni del mondo storico, delle passioni dell’uomo, delle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’Occidente. La luce gettata su questi campi di esperienza spesso è offuscata dal tono della polemica e della rivendicazione degli ideali del passato, che spiegano anche l’andamento della pagina grassiana: si tratta di uno stile sempre mosso da un’inquietudine esistenziale, che si traduce in un’espressione non sempre pacata e in un linguaggio lineare, ma in una parola che ora è invettiva, ora icastico assioma. Il linguaggio non raggiunge mai la trasparenza della deduzione sillogistica o della spiegazione logica, configurandosi piuttosto come un linguaggio assiomatico e arcaico, che forse trova una spiegazione nella critica grassiana al deduttivismo logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis. Il discorso non può prendere che una piega allusiva e indicativa, propria di un altro modo di relazionarsi alla realtà. Grassi in qualità di cultore attento delle scienze umane, mostra quella partecipazione esistenziale ed emotiva ai temi cruciali per l’esistenza dell’uomo tipica di coloro che esperiscono la filosofia come bios pratico e teorico, e solo secondariamente come gnoseologia e epistemologia. Dalla sua prospettiva la ricerca logico-deduttiva urta definitivamente contro l’indimostrabilità dei principi, tema, questo, che ricorre in gran parte dei suoi saggi. Ma, allora, qual è la via di accesso a ciò che ci sovrasta e ci governa? Come esperire l’archè originaria? Non attraverso la ratio si accederà ai principi, ma attraverso il pathos: un sapere arcaico, un theorein che non si limita ad usare i principi, ma a rifletterci sopra nel modo giusto. L’essere si rivela attraverso un vedere che è patire poiché “la passione svela la realtà del nulla che chiama a decidere, a violare il silenzio dell’abisso svelando il senso segreto che in esso ci parla” 6 S. Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale, cit., p. 4. ! 7!   A una pars destruens, a cui è dedicato parte del pensiero del filosofo, si accompagna anche una pars construens, che si concretizza nell’ipotesi metodologica ed epistemologica del sapere arcaico – che coinvolge tutta la riflessione riguardo il mito, il pensiero topico, la metaforologia, l’ingenium e la phantasia. L’apogeo della critica alla deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione della intima correlazione delle nozioni aristoteliche di pistis e di episteme. Il filosofo afferma in Significare Arcaico che “la pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile, perché fondamento di ogni spiegazione, è propria del mondo originario e, come tale, solo il mondo della fede è fecondo”7. Per pistis Grassi intende non un’opinione o una forma di persuasione ma “il modo di realizzarsi in noi dell’originario che comanda”8. La pistis diviene il fondamento della retorica originaria che ha carattere ingegnoso e arcaico. Il collegamento istituito tra nous/ingenium e archè mette in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi colti attraverso la passione. Secondo Grassi “ogni discorso dimostrativo razionale si radica nel discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che presiedono al mondo umano”9. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Il fondamento del reale, del mondo storico e del mondo umano, è quell’abissale fondamento di ogni fondamento, che, sulla scia heideggeriana, il pensatore individua sia in Il dramma della metafora, quando la riflessione si concentra sull’abissale nous passionale, sia in Das Reale als Leidenschaft. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso, non compromettono tuttavia lo spessore speculativo della proposta di Grassi che resta  7 E. Grassi, Significare arcaico, in “Archivio di filosofia”, Roma, 1966, p. 490. 8 Ivi, p. 489. 9 Ivi, p. 491.  ! 8!  filosofica proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. La sua prospettiva, che abbiamo scelto di definire onto-antropo-logica, può essere annoverata all’interno del più ampio dibattito che anima la filosofia del ‘900: quello che vede incrociarsi i temi dell’antropologia filosofica con quelli della riflessione sulla retorica. Sullo sfondo agisce il paradigma dell’incompletezza: l’uomo come animale carente. Il filosofo, sensibile alla riflessione dei biologi teoretici e degli antropologi a lui coevi, è convinto che l’uomo sia di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso; da qui il suo disorientamento e condizione di estraneità. Per il pensatore “la differenza essenziale tra vita animale e umana sta nella razionalità di quest’ultima che (contrariamente a quanto siamo soliti credere) in un primo tempo non segnala una superiorità, bensì una certa inferiorità dell’uomo di fronte all’animale”10. Tale inferiorità – il paradigma della carenza – appare in tutta la sua evidenza se si tiene in considerazione che nell’animale la “regia dei sensi”11 restituisce il significato immediato dei fenomeni. Il disancoraggio umano da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’umo compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. Nascono la techne, che “ordina i fenomeni in funzione a fini da realizzare”12, e l’episteme, che “delimita i fenomeni in funzione a principi, a ragioni”13. La prassi, l’azione, l’energheia e l’ergon, come compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione Ivi, p. 489. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 490. 13 Ibidem.  ! 9!  dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale processo antropogenetico per Grassi la retorica occupa un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Essa avrà un doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana. All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del senso, semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del segno e del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello di filosofia in quanto dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano (ergon anthropinon)”14. La questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, la semiosfera da cui si dipartono mondi possibili dell’umano. Su questo sfondo teorico denso e complesso nella sua ricchezza tematica si staglia la questione della rivalutazione dell’umanesimo, connessa alla tematizzazione della co-originarietà di logos e pathos (dove il trascendentale dell’esperienza è il sostrato patico che va a fondare la stessa vita cogitativa), e alla critica del moderno. L’interpretazione grassiana dell’Umanesimo è lontana dai presupposti teorici e metodologici a lui coevi che privilegiavano il contributo ficiniano nel superamento del pensiero immaginifico e retorico: lo scopo di Grassi è quello di mostrare come l’attività filosofica non corrisponda sic et simpliciter con l’attività razionale e concettuale ma comprenda anche l’attività della fantasia e della parola figurata. Oltre alle posizioni di Spaventa e Gentile ad essere messa in discussione è anche la via epistemologica cassireriana15. Si tratta di spostare i termini della questione sul versante ontologico- Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, La città del Sole, Napoli 1997, p. 194. 15 Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, Tempi Moderni, Napoli 1988, pp. 17-36.  ! 10!  ermeneutico che si concreta nella retrodatazione dell’inizio del moderno all’Umanesimo e al Rinascimento – contro la tesi che individua in Cartesio l’inizio della modernità – in cui emerge la questione della connessione tra soggetto e oggetto nell’espressione linguistica. A partire dalla messa in discussione del pregiudizio heideggeriano nei confronti dell’umanesimo, sia esso considerato come epoca storica ben determinata o piuttosto come Weltanschauung inautentica, Grassi porta avanti la direzione della Humanistische Bibliotek per l’editore Fink contribuendo alla pubblicazione di cinquanta volumi a tema umanistico, come le opere di Petrarca, Salutati, Valla, Pico. La questione dell’Umanesimo non è ristretta nei confini della paideia che ha a cuore la rivalutazione della dignità dell’uomo ma ha una vocazione metafisica e ontologica in quanto aperta al problema dello svelamento. Come è stato messo in luce dagli interpreti l’attenzione è spostata verso l’Umanesimo problematico anziché verso quello sistematico, verso la ricchezza del possibile e non verso l’unilateralità del vero16. Gli autori prediletti da Grassi mostrano tutti una critica verso gli schemi astratti ed aprioristici e un’apertura verso la giurisprudenza, la retorica, la religione dei miti e la politica. La dimensione retorica va considerata secondo il filosofo non come elocutio ma come inventio: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora, stabilendo con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre provvisorio”17. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a Grassi di porre l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero, più che alla sua fase declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose, che altro non è che Cfr., A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, pp. 385-404, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, La Città del Sole, Napoli 1996, p. 387. 17 Ivi, p. 390.  ! 11!  “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova, Degnità XIV), Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un discoro che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. Riconosciamo in questa impostazione l’agire delle categorie interpretative del maestro degli “anni mitici”, Heidegger, il quale sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione ontologica, valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo18, tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio19avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio , nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum20, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo21, poiché l’uomo diventa subiectum22, il fondamento e la misura di ogni Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, §§ 19-21. 19 Sull’interpretazione heideggeriana del pensiero di Cartesio cfr., J. F. Courtine, Les meditations cartèsiennes de Martin Heidegger, Les ètudes philosophiques 2009/1, n ̊ 88, p. 103-115. 20 È fin troppo nota la tesi cartesiana espressa a mo’ di slogan nel Discorso sul metodo (CARTESIO, Discorso sul metodo, Paravia, Torino 1990, p. 72). Tale espressione indica la scoperta del soggetto, scoperta che nonostante l’ergo non ha la caratteristica di un ragionamento discorsivo, bensì quella di una certezza intuitiva. Il cogito è infatti innanzitutto una esperienza incontrovertibile, poiché indubitabile e inaggirabile, e poi il principio più importante della filosofia, come è possibile leggere in Id., I principi della filosofia, parte I, § 7. Per un approfondimento circa la questione del cogito cfr. G. Mori, Cartesio, Carocci, Roma 2010, pp. 116-122. 21M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 22 Ivi, p. 168.  ! 12!  certezza e verità. “La tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”23. Tale metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”24. Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica, è posto per la prima volta secondo il pensatore in modo teoricamente articolato nella filosofia vichiana soprattutto nel testo De ratione studiorum del 1709 del quale Grassi ricostruisce in Vico e l’umanesimo minuziosamente le tappe della critica del napoletano al razionalismo cartesiano: la pretesa di partire da un primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione del verisimile25. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica, immaginativa, fantastica, ma anche politica, della vita umana, ridotta al suo puro aspetto cogitativo. Sebbene il rapporto di Vico con il cartesianesimo si presenti come un problema storiografico e filosofico complesso26 si può senz’altro convenire con Grassi sull’opposizione vichiana alla critica Ivi, p. 169. 24 E. Grassi, Vico e l’Umanesimo, Guerini, Milano 1996, p. 25. 25 Ivi. 26 Cfr. N. Badaloni, Introduzione a G. B. Vico, Feltrinelli, Milano 1961.  ! 13!  cartesiana nel contesto della rivendicazione della priorità della topica: “giacchè, come l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”27. Non è la deduzione che precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di un ritrovamento di luoghi28. Si tratta dell’arte “topica che si chiarisce così come una dottrina dell’invenzione”29 di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”30. La questione è ancora una volta quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della realtà tenendo conto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La ricerca del vero particolare, circostanziale, storicamente determinato ci spinge a concordare con Bons riguardo alla centralità dell’idea di agire situativo31, sullo sfondo del quale si comprende la proposta retorica grassiana. Si tratta di un agire situativo che alla formula cogito ergo sum sostituisce la formula coactus sum ergo ago32: non “penso, dunque sono”, ma “sono costretto, G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Postfazione di M. Sanna, ETS, Pisa 2010, cap. III, p. 39. 28 Sulla figura di Vico in Grassi Cfr. G. Cantillo, Ratio e inventio nell’interpretazione dell’umanesimo, pp. 371-378, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. ivi, A. Verri, Ernesto Grassi: Linguaggio e civiltà in Vico, pp. 405- 423; ivi, S. Roic, Vico, Grassi e la metafora, pp. 425-435; A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di E. Grassi, cit.; ivi, A. Pons, Vico e la tradizione dell’umanesimo retorico nell’interpretazione di Grassi, pp. 437-446; ivi, L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470; ivi, J. Vincenzo, La ripresa grassiana di Vico, l’unità di pietà e sapienza, pp. 471-491. Cfr., sull’incidenza dell’interpretazione grassiana di Vico nel panorama degli studi vichiani contemporanei G. Cacciatore, In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 2015, soprattutto p. 38 nota 5; Id., Verità e filologia. Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in “Noema”, n. 2, 2011, pp.1-15, http://riviste.unimi.it/index.php/noema; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos in Vico y Ortega, soprattutto il III capitolo, Retòrica como filosofìa. Vico, Heidegger, Grassi y el problema del humanismo retòrico, pp. 146-227. 29 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 34. 30 Aristotele, Topica, 101 b 3. 31 E. Bons, Il pensiero di Ernesto Grassi. Una breve sintesi, pp. 75-98, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 81. 32 R. Wisser, Ricordo di Ernesto Grassi. Arte e mondo, pp. 159-191, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 188.   ! 14!  quindi agisco”. Proprio la ricchezza del reale viene salvaguardata in un pensiero topico, ingegnoso capace di apprendere maggiormente rispetto al pensiero critico tutto confinato all’interno della catena delle deduzioni. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Si comprende allora l’accostamento ai temi metaforologici che per il filosofo sono la base del discorso retorico e filosofico33. La metafora è il luogo, lo spazio-di-tempo- in cui si dà la manifestatività dell’essere e il suo appello. Poiché l’essere è un Altro di cui l’ente nel suo significato è trasposizione la parola metaforica sarà l’unica in grado di accogliere l’appello dell’essere34. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche, ma ciò che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce. Su questo sfondo si può comprendere la declinazione antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”35 in cui la metafora riveste un ruolo particolare. Essa si configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda. Seguendo le tappe fondamentali della sua ricerca teoretica riscontriamo che l’elemento riflessivo – sia esso orientato verso l’attualismo, sia esso ispirato dalla “metafisica immanente” di Heidegger, sia, infine, caratterizzato dalla propria originale prospettiva del filosofare noetico non metafisico – è tutto spostato verso la pratica filosofica nel suo farsi e compiersi e non verso un astratto razionalismo. Accompagnandosi costantemente ad una filosofia attenta alla correlazione uomo-essere, mai chiusa in una dimensione esclusivamente ontologica, Grassi si misura con una continua operazione di E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 75. 34 Id., La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990, p. 62. Sul tema della metafora in Grassi cfr., D. Di Cesare, Metafora e differenza ontologica. Grassi versus Heidegger, pp. 25-48, in AA. VV., Un filosofo europeo: Ernesto Grassi, Aesthetica, Palermo 1996. 35 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 113.  ! 15!  storicizzazione delle strutture del mondo storico umano: il bello, il buono, il vero, la triade concettuale alla quale il filosofo riconduce la totalità del mondo storico. L’avventura filosofica di Grassi mette al centro il soggetto umano e la sua coscienza – la coscienza temporale umanistica – senza cadere nell’idealismo vecchio e nuovo, né in un soggettivismo di cartesiana memoria, proprio perché la coscienza per il pensatore è un compito, uno sforzo e un impegno. Concetti, questi, che scandiscono i momenti della vita pratica e politica del mondo umano e vanno ad intrecciarsi con le idee di disancoramento, oggettività e coscienza temporale umanistica. Il compito, lo sforzo e l’impegno, trattati in forma estesa in Il reale come passione. L’esperienza della filosofia36 hanno una connotazione ermeneutica, non solo pratico-politica, poiché permeano anche il processo dell’interpretazione. La formazione umana – il cuore della retorica grassiana37 – fondata sull’interpretazione, ha carattere esistenziale per il filosofo. Egli sostiene che tra formazione, interpretazione ed esistenza c’è un’intima co-appartenenza, come emerge dalle pagine in cui il filosofo afferma che: “l’interpretazione è il risultato di un ipotetico progetto in cui viene in seguito verificato se contiene e chiarisce effettivamente tutti gli aspetti e tutti gli elementi; questo procedimento è l’essenza dell’atto dell’intelligenza. Poiché l’uomo è un essere aperto al mondo e non dispone di schemi già pronti, la sua formazione acquista un carattere esistenziale. Esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo senza evitare la decisione che è sempre richiesta”38. L’esistenza interpretante secondo Grassi ha carattere trascendente, dove la trascendenza è sempre intra-mondana poiché “si fonda sulla necessità di formare, di portare ad uno schema, ad una forma [...] la teoria della formazione diventa qui la dottrina della struttura dell’accadere umano alla luce dell’origine del nostro divenire; E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. 995-1029, soprattutto pp. 1022-1024, e Id., Prefazione a Der tod des Sokrates di Guardini, ivi, pp. 985-989, soprattutto p. 986 37 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 192. 38 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73.  ! 16!  diventa una ricerca arcaica, nella misura in cui si riferisce agli schemi fondamentali (archai) dell’autorealizzazione umana”39. L’analisi grassiana mira a proporre un’idea di “totalità del fatto umano” il cui pieno sviluppo è obiettivo dichiarato della sua proposta neo-umanistica. Grassi sostiene che “il fine degli studi umanistici è il pieno sviluppo di tutte le capacità dell’uomo, dell’!"#$% &%'"()*%$%”40. Se la coeva concezione del sapere si concentra solo sul suo aspetto di utilità all’uomo, misconoscendo la diversità delle fonti dell’esistenza umana (il vero, il buono, il bello) per il filosofo occorre svoltare verso una scienza che “riconosce che ci sono capacità differenti, autonome l’una rispetto all’altra e nondimeno appartenenti tutte quante all’essenza e all’interezza dell’uomo, e che dal loro pieno sviluppo sorgono le diverse opere dell’uomo”41. Per il filosofo bisogna ammettere che il sapere, il bello, il buono, non dipendono dall’applicabilità e che “solo liberando le fonti della vita e rispettando la loro autonomia, sia può realizzare l’opera complessiva dell’uomo, quella totalità che era anche l’antico ideale della comunità politica, ossia della comunità umana”42. L’intima connessione strutturale di pensiero, volontà e passione – in cui riecheggia la lezione diltheyana appresa durante lo stage tedesco degli anni giovanili – e la relazione dialettica di continuo scambio tra uomo e mondo circostante caratterizzano una nuova visione del tempo che non trova più il suo fondamento nell’a-priori formale della ragione ma nelle concrete e sempre nuove connessioni che l’uomo istituisce attraverso le espressioni linguistiche, artistiche, civili, politiche. Tutti i contributi grassiani muovono dal rifiuto di assolutizzare un’essenza universale dell’umano e dal proposito di rendere ragione della condizione umana attraverso l’indagine dei possibili punti di mediazione di ragione e passione, logos e pathos, tramite una ricerca che potremmo definire ivi, p. 74. 40!Id., Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I primi scritti, cit., p. 979.! 41!Ibidem.! 42 Ibidem.  ! 17!  fenomenologia storico-ermeneutica – almeno per quanto riguarda gli scritti tardi come La potenza della fantasia, La potenza dell’immagine, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Retorica come filosofia, La filosofia dell’umanesimo, Vico e l’umanesimo, La metafora inaudita, Il dramma della metafora – che fa capo ad un concetto sintetico-trascendentale della fantasia che si costituisce come strumento indispensabile di mediazione tra l’esperienza storica e pratica finita e la generalizzazione dei miti, delle metafore. Lungo questo processo complesso e ricco di articolazioni nel campo della psicoanalisi (Freud), della letteratura (Eschilo, Sofocle, Euripide, Ovidio, Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Ungaretti, Poe, Mallarmè, Proust, Wagner, Hölderlin), dell’antropologia e della biologia teoretica (Scheler, Plessner, Gehlen, Driesch, Von Uexküll padre e figlio), della retorica (Cicerone, Quintiliano, Tesauro, Graciàn) e naturalmente della filosofia, avviene quello slittamento verso una “teoria dell’atto metaforico” che è l’esito della sua filosofia. La ricerca sulla metafora non si configura semplicemente come una fenomenologia metaforologica che si limita alla descrizione delle metafore che ha prodotto la storia umana, ma come una teoria che indaga il plesso azione-metafora. Si tratta di una teoria che guarda all’energheia metaforica e al processo del metapherein segnando una distanza netta dall’astrazione concettuale. Quest’ultima fissa il reale bloccandone il flusso e la vita in una staticità, cristallizzazione e immobilità, mentre la teoria grassiana pone in luce l’aspetto arcaico, nel senso di fondativo, dell’atto metaforico che genera il mondo umano proprio attraverso un atto di trasposizione che agisce su due livelli: linguistico (linguaggio metaforico); pratico-politico (fondazione della comunità umana a partire dalla umanizzazione della natura tramite pratiche di trasposizione di significato). L’accento della riflessione si sposta dalla ricerca sul perché e sul che cosa alla domanda sul come il reale si impone alla nostra percezione. Il reale, l’originario, l’essere si impongono nell’urgenza dell’appello ermeneutico in cui l’ente svela la propria mutevolezza e l’uomo la propria risposta agli appelli dell’essere. Nel corrispondere all’appello dell’essere si impone all’attenzione il pathos e la sua funzione manifestativa:la passione ha infatti carattere di apertura mondana e il logos, la parola, emergono come “rottura del sacro”, destino della Menschwerdung. Logos come risposta al silenzio primordiale, quello della ingens sylva, che dice del fondamento il suo ! 18!  essere al contempo puro apparire e progetto creativo. Il pathos arcaico, luogo del manifestarsi dell’abissale potere dell’essere, non può che trovare espressione in un logos lontano dall’astrattismo intellettualistico ma piuttosto vicino all’orizzonte poetico, che più che essere interpretato come orizzonte letterario è ricompreso all’interno della filosofia come meditazione esistenziale, pratica concreta di ricerca del senso. É nel rapporto tra poesia e filosofia che si apre l’orizzonte di comprensione dell’essere. In Grassi si ravvisa la traccia di un pensiero “integrale o integrativo”, sottratto alle rigide categorie della ragione metafisica ma aperto all’irruzione del novum. La ricerca filosofica si costituisce allora come indagine dei punti di mediazione, di unità e distinzione delle forme dell’essere. La questione suprema è la domanda sul luogo e le modalità originarie in cui accade la nostra apprensione della realtà. Il logos metaforico si scopre come linguaggio originario dell’essere, come espressione della dualità creativa e patica dell’esperienza dell’originario. Un’esperienza in cui “la poiesis diventa un momento della praxis”43, e non un gioco effimero del dire, e la metafora si tramuta nella “serietà del pensare filosofico”44. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso particolare”45. Solo attraverso il dire metaforico si apre, nel silenzio tragico dell’aperto, quello spazio abitabile dall’uomo. E. Grassi, La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, in “Quaderni di italianistica”, Vol. IX, N. 1, 1988, p. 19. 44 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 178. 45 Jaspers in una lettera indirizzata a Heidegger scrive: “il messo di questa lettera, Grassi, di Milano, desidera parlarle di persona. Studia filosofia tedesca, ha letto il suo libro e ne ha una conoscenza sorprendente – naturalmente con tutti i fraintendimenti dovuti alle interferenze della tradizione, ma tuttavia con una buona, stupefacente approssimazione. Credo che il suo vivace interesse le farà piacere.”  Heidegger risponde: “Grassi mi ha fatto in un primo momento una grande impressione per via della sua intensità e di una particolare sensibilità. Ma mi è poi venuto il dubbio che si tratti di una natura giornalistica” Anche Jaspers, poi, si pronuncerà in un modo altrettanto poco benevolo definendo Grassi un brillante intervistatore ma non di certo un filosofo. Oltre questi giudizi, in fondo sbrigativi, possiamo ricordare quelli di Guido Calogero, il quale in riferimento al primo libro di Grassi, Il problema della metafisica platonica, pubblicato dall’editore Laterza grazie all’interessamento di Croce, e dedicato a Heidegger, afferma che egli avrebbe fatto meglio a scrivere un libro su Heidegger dopo aver studiato Platone invece che scrivere un libro su Platone dopo aver studiato Heidegger. Croce scrisse: “insegnante in Germania, Grassi si propone il problema di avvicinare e indurre a concorde collaborazione la filosofia italiana e quella tedesca. I1 problema non ha consistenza, perché non c’è né la filosofia tedesca né quella italiana, ma solo la filosofia senza aggettivi, nel cui nome unicamente giova parlare a italiani, a tedeschi e a ogni altro popolo e individuo” M. Heidegger-K. Jaspers,  tr. It. Di A. Iadicicco, Milano Cortina. Ivi, pp. 73-74. G. Calogero, Recensione a Grassi, “Il problema della metafisica platonica”, Bari, in “Giornale critico della filosofia italiana”. B. Croce, Pagine sparse, Laterza, Bari. E così De Ruggiero, Vanni-Rovighi, Ottaviano50. Insomma, negli anni in cui il filosofo milanese ambiziosamente cerca di ritagliarsi un posto nella cerchia degli intellettuali più prestigiosi dell’epoca i giudizi sulle sue idee non furono troppo favorevoli. Grassi appare un brillante intervistatore a caccia di filosofi, la cui opera è da considerare al massimo come prova cattiva di un ingegno Ottimo. Ma stanno proprio così le cose? Quanto di vero c’è in queste affermazioni e quanto, invece, di approssimativo? Un breve ripercorrimento dell’itinerario speculativo di Grassi consentirà di comprendere la plausibilità o meno dei giudizi critici ora ricordati. Dopo aver brevemente assistito ai corsi di  Scheler e di Jaspers – andai a Marburgo da Heidegger che si dichiara disposto a seguire il mio lavoro di libera docenza. I luminari dell’università di Friburgo erano Husserl (che tene il suo ultimo corso come professore emerito), Heidegger (che  assume la cattedra di filosofia), È il 1986 e Grassi, ripercorrendo le tappe salienti della propria autobiografia intellettuale, pensa a quegli anni friburghesi definiti mitici. Si tratta, infatti, degli anni mitici e indimenticabili delle lezioni di colui al quale Grassi guarda sempre – nonostante le prese di distanza di natura politica – come ad un autentico maestro: Heidegger. L’arrivo a Friburgo di Grassi era stato preceduto da un lungo periplo intellettuale, oltreché geografico, che ha indotto alcuni interpreti, come Cacciatore a definire quella di Grassi filosofia del viaggio. Ruggiero, G., Recensione a E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, Bari, “La Critica”, Ottaviano C., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München, in «Sophia», Napoli, Vanni-Rovighi S., Recensione a E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, München,  «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano,  E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 20. 52 Sul tema del viaggio e del resoconto di viaggio in Grassi come fenomeno non meramente odeporico ma innanzitutto cognitivo cfr., G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofìa del viaje”de Ernesto Grassi, pp. 79- 91, in Id., El bùho y el còndor. Ensayos entorno a la filosofia hispanoamericana, ed. e trad. di M. L. Mollo, Planeta Bogotà 2011. “Serìa entonces un error garrafal esperarse del libro de Grassi elementos meramente descriptivos o Grassi, nativo di Milano, dopo aver conseguito la laurea in filosofia con Martinetti discutendo una tesi dal titolo L’unità formale della vita e l’impostazione del problema teologico, trae orientamento decisivo nel suo iter filosofico dall’incontro con Chiocchetti, uno dei primi maestri della neoscolastica milanese aperto al confronto con i temi della modernità. Autore di un importante volume, La filosofia di Croce, frutto di studi, Chiocchetti porta avanti ricerche sui temi del modernismo, del pragmatismo e della gnoseologia e su autori come Gentile e Vico che affascinano molto Grassi, i cui primi lavori apparsi sulla rivista Rassegna Nazionale, di stampo nazionalista, conservatore e cattolico, mostrano idee ispirate al pensiero del “carissimo ed onorato Chiocchetti” e a valori liberali e cattolico-attivisti, come si evince soprattutto dai saggi A proposito di un volume dedicato alla figura di Mazzini; Germania, un resoconto di un viaggio “alla ricerca di idee che affratellino i tedesci e italiani”55; Il partito popolare italiano. momentos narrativos de situaciones, paisajes, modelos de vida, costumbres, mentalidades hay que leer las pàginas grassianas ante todo como una experiencia personal que enterpreta el viaje (y la secuencia de sus movimientos: la preparaciòn, la espera, el acercamiento, el estar y el retornar) como un sìmbolo, como una metàfora del pensamiento occidental en busca de sus orìgines. Y se trata de una bùsqueda que se afina y se perfecciona voluntariamente, con la adeguadeza de la reflexiòn y con la dilataciòn de la perceptiòn, precisamente en la situaciòn lìmite de una experienza espacio-temporal distinta, de una apropriaciòn continua de imàgenes inèditas de naturalezas diversas, de olores que nunca se han sentido, de sensaciones visuales y tàctiles que nunca han sido experimentadas”.  Mi permetto di rinviare al mio saggio La hora de Pan en Reisen ohne Anzukommen. Eine Konfrontation mit Sudamerika -- Grassi, pp. 323-336, in A. Scocozza-G. D’Angelo (a cura di), Magister et discipuli: filosofìa, historia, polìtica y cultura, Penguin Random Hause, Bogotà 2016; Ead., Meditazioni sudamericane: la tappa sudamericana dell’onto-antropo-logia di Grassi in cds in “Studi Interculturali”, Trieste, Proposito della rivista era quello di collocarsi a metà strada tra i contributi dedicati unicamente ai settori storici e scientifici e quelli di carattere politico-religioso: “Cattolici e italiani, pur rispettando sempre le convinzioni e le credenze altrui, noi coopereremo, per la nostra parte, a conservare le istituzioni religiose, morali, sociali, civili e politiche dell’Italia. Le istituzioni religiose, poiché noi cattolici e sincerissimamente devoti alla Chiesa cattolica, quando sorgano questioni di attinenza tra la religione e lo stato, pur riconoscendo la necessità che lo stato mantenga i diritti propri, ci proponiamo di insistere e raccomandare la sacra necessità di rispettare i diritti della chiesa e delle coscienze: non rispettati i quali, si offendono o prima o poi anche i diritti della civile società”, La rassegna nazionale, I, 1879, vol. I, p. 5. 54 E. Grassi, L’impatto con Heidegger, p. 75 in M. M. Olivetti (a cura di), La recezione italiana di Heidegger, pp. 73-82, Cedam Padova 1989. 55 Id., Germania, in “Rassegna Nazionale”, XLIV, novembre 1922, seconda serie, vol. XXXIX, pp. 100-109 ora contenuta in E. Grassi, I Primi scritti, cit., p. 18.  ! 22!  I successivi lavori grassiani, a partire da Il tragico del 1923 – che espone in nuce nodi concettuali che il filosofo avrebbe più estesamente tematizzato negli ultimi lavori: La metafora inaudita e Il dramma della metafora – per proseguire con Scolastica e storia dello stesso anno e Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato del 1924, mostrano uno slittamento da una concezione negativa del principio di immanenza ad una considerazione molto positiva del contesto politico, quale nuovo luogo di emancipazione umana dopo la crisi del primato della trascendenza. Soprattutto dopo la stesura del saggio su Machiavelli possiamo riscontrare una “prima svolta” grassiana dovuta con molta probabilità ad un’analisi dettagliata del pensiero di Croce, Gentile e degli umanisti, primo fra tutti Dante. Ci sembra convincente l’ipotesi di Messori secondo la quale a partire da questo momento, ossia dal saggio del 1924, l’Umanesimo diviene il terreno privilegiato della riflessione grassiana, la quale, grazie al pensiero politico di Machiavelli, riscopre un altro inizio del pensiero moderno, un altro ingresso alla filosofia, non gnoseologico e teologico, ma unicamente antropologico. Si tratta di un risultato di grande importanza poiché tra gli anni Trenta e Quaranta il filosofo milanese mette a tema quell’endiadi concettuale – il nesso logos-pathos, in cui il pathos appare come a priori dell’esperienza umana nella sua totalità, e dunque anche del momento cogitativo – che ritroveremo costantemente espressa e concettualizzata nella successiva produzione, da Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica del 1970, a Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale del 1979, a Retorica come filosofia. La tradizione umanistica del 1980, fino ai testi degli anni Ottanta, Heidegger e il problema dell’umanesimo (1983), Umanesimo e retorica. Il problema della follia (1986), La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale (1986), Vico e l’umanesimo, che raccoglie una serie di saggi pubblicati singolarmente dal 1969 al 1990. Almeno in questa fase, tuttavia, occorre sottolineare che la considerazione dell’antropologica umanistica si pone ancora fortemente come una visione antropocentrica, mentre solo R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto I cap. ! 23!   successivamente all’incontro con Heidegger e alla scelta del concetto di Lichtung quale filo conduttore del nuovo approccio all’umanesimo, approccio da noi definibile onto-antropo-logico, tale visione sarà più orientata verso una tematizzazione del nesso uomo-essere. In questo periodo Grassi collabora anche con l’informatore bibliografico del Circolo Filologico milanese, la Rassegna di coltura, fondato nel 1872 e sul quale pubblica tra il 1925 e il 1927 una serie di contributi dai quali traspare uno studio di Croce e dell’attualismo gentiliano. Conseguita la laurea nel 1925, incomincia per il pensatore l’ambiziosa avventura europea57, in Francia e in Germania, alla ricerca di un proprio accesso alla filosofia. In seguito al soggiorno a Aix en Provence, durante il quale conosce Blondel58, scrive La più recente attività della filosofia dell’azione in Francia del 1928, in cui la filosofia dell’azione è considerata come filosofia della trascendenza che non nega i valori dell’immanenza, ponendosi, piuttosto, come condizione di possibilità della processuale manifestazione dei valori immanenti, e Il platonismo cristiano di M. Blondel del 1932, il cui merito sarebbe stato quello di liberare la metafisica dal presupposto gnoseologistico. È a partire da questo saggio che si profila quell’avvicinamento all’attualismo che successivamente si sarebbe coniugato con la questione filosofica heideggeriana59 e che spinge Grassi ad approfondire la cultura filosofica tedesca. Ad un peccato di ambizione si deve, con buona dose di probabilità, l’adesione di Grassi al partito fascista il 3 maggio del 1933. Secondo la documentata ricostruzione di Büttemeyer, l’iscrizione al fascio fu fatta per ottenere la tessera senza la quale non era possibile partecipare ai concorsi in Italia. Cfr., Büttemeyer, Ernesto Grassi. Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, cit. 58 Sui rapporti Grassi-Blondel cfr., il lavoro di S. D’Agostino, La metafisica di Ernesto Grassi tra Platone e Blondel, pp. 275-295, in P. Pagani- S- D’Agostino- P. Bettineschi (a cura di), La metafisica in Italia tra le due guerre, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2012. 59 Cfr., W. Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e “Studia Humanitatis” di Ernesto Grassi, cit., p. 159: “La prima formazione filosofica di Ernesto Grassi è dovuta a Emilio Chiocchetti, la cui concezione di una neoscolastica moderata si mostra negli scritti dell’allievo dal 1922 fin verso il 1925. Mediata da Chiocchetti, vi si aggiunge la conoscenza dell’estetica di Benedetto Croce (1923) e della sua gnoseologia (1925) nonché del modello dialettico della storia della filosofia che si concretizza nell’interpretazione gentiliana del Rinascimento (1923-1924). Grassi mostra momentaneamente simpatie per Miguel de Unamuno (1924-1925), per il concetto martinettiano dell’Unità assoluta (1924-1925) e per la filosofia di Bernardino Varisco (1925-1926), che gli era stato anche maestro con i suoi lavori; ma essi non esercitano se non un’influenza marginale. Rimane invece escluso l’attualismo e immanentismo di Giovanni Gentile: pur avendolo conosciuto nei seminari di Chiocchetti e poi sulle opere, lo recepisce positivamente soltanto a partire dal 1926, dopo aver già presentato una ventina di pubblicazioni”.  ! 24!  Dopo aver affannosamente girovagato per la penisola italiana in cerca di una propria via al filosofare Grassi approda finalmente nella terra materna e lì, nella riflessione heideggeriana, trova un punto di partenza per una Weltanschauung più ampia rispetto a quella giovanile, ancora troppo influenzata dall’ambiente neoscolastico. In questi anni pubblica numerosi saggi apparsi sulla “Rivista di filosofia”: Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea del 1929; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea dello stesso anno, in cui Grassi rimprovera a Husserl la mancanza di una solida base storico-filosofica, in particolare una superficiale interpretazione dell’idealismo tedesco e un’assenza di conoscenza della filosofia italiana, da Spaventa a Gentile, pur riconoscendo alla fenomenologia il merito di aver trovato uno spazio di riflessione oltre la linea psicologista e naturalista e storicista. Secondo Grassi “da un canto la scuola neo-kantiana si era isterilita sui problemi della scienza e sui rapporti astrattamente concepiti e quindi insolubili, della conoscenza filosofica e scientifica, naturalizzando le categorie e risolvendole parzialmente nelle leggi naturali. D’altro canto lo storicismo e la superficiale conoscenza del pensiero di Dilthey non aveva portato nessun nuovo contributo, cosicché nella generale crisi e disorientamento, tutti si rifecero a Husserl”60. Insomma, il filosofo di Prossnitz, in quello che per Grassi è quasi un deserto filosofico – psicologismo, neokantismo e storicismo –, costituisce un’oasi intellettuale che, tuttavia, ha molti limiti e non solo di natura storico-filosofica: l’astrattismo, e la disattenzione per il pensiero pensante a favore del pensiero pensato, l’incomprensione del pensiero concreto. Per Grassi gli aspetti negativi sono tali da rendere la filosofia husserliana attiva solo per lo spazio di vent’anni e cieca a quella concretezza del pensiero e dell’esistenza che solo Heidegger avrebbe portato alla luce con Essere e Tempo “realizzando per primo in Germania la critica della fenomenologia di Husserl”E. Grassi, Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in “Rivista di filosofia”, Milano XX, aprile-giugno 1929, n. 2, pp. 129-151, ora in Id., Primi scritti, cit., pp. 186-187. 61 Ivi, p. 187.  ! 25!  In questo periodo Grassi opera quella collocazione della proposta filosofica heideggeriana all’interno della propria formazione intellettuale, formulando l’ipotesi del possibile incontro tra la teoria gentiliana dell’atto e la questione del Dasein, quale luogo storico del disvelamento dell’essere di stampo heideggeriano, che aveva proprio lo scopo di destrutturare quella categoria di coscienza rappresentativa che dal cogito cartesiano era rifluita nelle teorie di Kant, Hegel e Husserl. Heidegger diviene il perno principale attorno al quale gravita l’attenzione filosofica di Grassi che si concretizza nella stesura del saggio del 1930 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger e de Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger del 1937. Il merito del filosofo di Messkirch sarebbe stato quello di proporre una visione dell’uomo come Dasein, come esistente, atto immanente, metafisico e autorealizzantesi62 che amplifica l’interesse per la concretezza e la fatticità dell’esistenza contro ogni razionalismo e astrattismo, superando la contrapposizione tra soggetto e oggetto. Intanto appaiono tra il 1932 e il 1935 i saggi Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico e Paideia e neoumanesimo che riprendono tematiche trattate in Il problema della metafisica platonica e che mostrano una coniugazione della proposta filologica di Jaeger con il ripercorrimento teoretico heideggeriano del pensiero greco nel contesto più generale di un progetto paideutico e umanistico che recuperasse il senso autentico dell’humanitas attraverso l’esperienza filosofica della grecità, per Jaeger e Heidegger, e della latinità, per Grassi. L’incontro tra la proposta jaegeriana e heideggeriana circa il tema del neoumanesimo si affianca all’altro intreccio, quello tra l’ontologia fenomenologica ermeneutica di Heidegger e l’attualismo di Gentile. In Dell’Apparire e dell’essere. Seguito da Linee della filosofia tedesca contemporanea del 1933, sullo sfondo dell’incontro Heidegger-Gentile sono espressi alcuni nuclei teorici che avrebbero accompagnato Grassi in tutto il suo cammino di pensiero: il carattere elenchico del principio di non  62 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, Milano- Roma, XI, luglio-agosto 1930, fasc. IV, pp. 288-314, ora in Id., Primi scritti, cit., p. 209.  ! 26!  contraddizione, fondamento di ogni dimostrazione ma a sua volta non dimostrabile; metodo e cogito in Cartesio; concetto di apparenza, manifestatività ed essere; idea di fondamento. Come abbiamo ricordato all’inizio, la prima formazione di Grassi fu di carattere neoscolastico, con un’attenzione particolare alle questioni riguardanti la trascendenza, come emerge dal saggio La dialettica dell’amore in cui il filosofo milanese afferma che “il pensiero umano, la filosofia, è condotta dalla propria immanenza verso la necessità della trascendenza che appunto perciò non può conoscere, realizzare, creare, ma solo ricevere come una “grazia” proprio nel senso teologico della parola”63. Un’impostazione di questo tipo spiega anche una originaria critica dell’immanentismo gentiliano, e della sua scoperta fondamentale, l’autocoscienza come pura forma, che induce Grassi a porsi come un fiero oppositore di tutta la filosofia dell’immanenza64. Ma la difesa della trascendenza messa in campo dalla neoscolastica è avvertita da Grassi come insufficiente: in questo spazio si innesta la figura di Heidegger che diviene quasi un antidoto alle carenze della neoscolastica, ma dello stesso attualismo, che lascia non tematizzata la differenza ontologica tra essere e ente, nonostante l’acquisizione dell’originario come atto del cogitare nel suo stesso compiersi o come autorealizzantesi processo esistenziale e non come oggetto del pensiero. Secondo l’interpretazione di Grassi il superamento gentiliano della dicotomia soggetto-oggetto attraverso la radicalizzazione dell’esperienza approda allo stesso risultato husserliano e  Id., La dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in “assegna Nazionale”, Roma, XLVI, dicembre 1924, seconda serie, vol. XLVII, parte I, La richiesta dell’amore, pp. 137-148, parte II, La sofferenza del Tristano, pp. 148-162; XLVII, febbraio 1925, seconda serie, vol. XLVIII, parte III, La dialettica del dolore, pp. 101-109, parte IV, La gioia può spingere alla vita, pp. 109-114 ora in Id., Primi scritti, cit., p. 122. 64 Ivi, p. 120: “Il concetto di forma pura, inobiettivabile, è proprio caratteristico della realtà infinita eterna, in qualsiasi concezione immanente o trascendente del reale, ed è quindi naturale che il processo di immanenza del pensiero moderno abbia voluto ad esse ridurre la realtà del divenire umano. Infatti se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso stesso l’unico illimitato. L’autocoscienza come pura forma è certo la più grande scoperta di tutta la filosofia dell’immanenza e lo è proprio, merito di Giovanni Gentile. In ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da controbattere”. Per una ricostruzione della presenza di Gentile in Grassi cfr. R. Messori, Le forme dell’apparire, cit.  ! 27!  heideggeriano: quello dell’intenzionalità, della relazione originaria di io e mondo. Una relazione che non può essere messa da parte o a tema attraverso un processo di epochè65: l’esperienza dell’oggetto non consente un’oggettivazione dell’esperienza. Lo spazio di relazione e compromissione tra io e mondo resta uno spazio di indeterminazione e di esperienza che rende l’atto gentiliano simile alla nozione di aletheia di Heidegger e che è merito di Grassi aver sottolineato. Volendo suddividere per comodità, e con tutte le riserve del caso, l’unità di pensiero di Grassi in tre fasi principali, otteniamo lo schema seguente: la fase giovanile formativa, dominata dai temi della scolastica cattolica emergenti nei saggi degli anni Venti66; la fase metafisico-immanente, in cui abbiamo la correlazione dell’attualismo gentiliano con il contributo blondeliano della filosofia dell’azione, con quello crociano dell’estetica e dell’autonomia delle forme dello spirito, e con la metafisica esistenziale heideggeriana67; la fase matura neo-umanistica68 – i cui nuclei teorici già Sottolinea molto bene questo aspetto Natoli, in S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhiei, Torino, 1989, pp. 27-28: “Gentile attraverso la radicalizzazione dell’immanenza supera l’opposizione e la separazione astratta di soggetto e oggetto e attinge a pienamente quel piano dell’intenzionalità che per altre vie viene guadagnato dalla fenomenologia di Husserl. Ma Gentile si porta oltre l’orizzonte della fenomenologia. La relazione intenzionale di impianto fenomenologico, se da un lato supera l’astratta separazione tra soggetto e oggetto, dall’altro lato ne tiene tuttavia ferma la polarità [...], lo sforzo della fenomenologia è quello è quello di svuotare l’io dal mondo perché il mondo appaia nella sua purezza, di svincolare la coscienza dal flusso della vita per far sì che i contenuti d’esperienza appaiano nella loro pura e semplice datità. Questo vuol dire andare alle cose. Non così in Gentile. Alle cose non si va, con esse si è da sempre compromessi. L’attualismo che pure rigorosamente guadagna il piano dell’intenzionalità si rende tuttavia conto che essa non è suscettibile di nessuna epochè”. 66 Cfr., E. Grassi, A proposito di un cinquantenario, pp. 3-8, in Id., I primi scritti, cit.; Id., Germania, ivi, pp. 9-18; Il tragico, ivi, pp. 27-48; Scolastica e storia, ivi, pp. 49-54; La dialettica dell’amore, ivi, pp. 89-128; Tilgher e La visione greca della vita, ivi, pp. 19-22. 67 Cfr., Id., Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, ivi, pp. 55-86; La più recente attività della filosofia dell’azione in Francia, ivi, pp. 137-162; Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 163- 179; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 181-202; Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-233; Il platonismo cristiano di M. Blondel, ivi, pp. 235-254; Dell’apparire e dell’essere, ivi, pp. 273-298; Linee della filosofia tedesca contemporanea, ivi, pp. 299-332; Il problema del logo, ivi, pp. 371-406; Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, ivi, pp. 419-435; La filosofia tedesca e la tradizione speculativa italiana, ivi, pp. 553-575; I rapporti tra filosofia tedesca e filosofia italiana, cit., pp. 753-776; Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 777- 809; L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario, ivi, pp. 811-850; Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, ivi, pp. 967-974; Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, ivi, pp. 995-1029; Vom Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, Munchen, Verlag C.H. Beck, 1939. 68 Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, ivi, pp. 255-271; Paideia e neo-umanesimo, ivi, pp. 357-369; Filosofia tedesca, filosofia italiana e l’antichità. Il problema di una tradizione filosofica, ivi, pp. 851-864; Sul problema ! 28!   ritroviamo in alcuni saggi giovanili69 – che declina la metafisica immanente in una ricerca ricostruttiva dei temi dell’essere, del logos, del pathos attraverso la lettura dei contributi letterari e filosofici dell’Umanesimo e del Rinascimento con un’attenzione particolare ai temi della retorica, della fantasia e dell’ingegno, e della metafora. In tutto il percorso speculativo emerge la radice dell’avventura speculativa del filosofo: la “passione per la vita” in cui l’esercizio intellettuale della filosofia diviene una funzione vitale, un prolungamento della vita stessa, dell’esistenza in situazione. Il pensare diviene metamorfosi esistenziale, impegno nella circostanza, ricerca affannosa del senso. Possiamo dare per acquisito, dunque, che tra gli anni Trenta e Quaranta matura nella riflessione di Grassi un’ipotesi di accostamento tra attualismo e fenomenologia70 che incide profondamente sulla successiva analisi dell’apparire dell’originario e della manifestatività nelle sue diverse forme e che coglie un aspetto critico paradigmatico che rende i numerosi contributi grassiani non una collezione di posizioni filosofiche eterogenee, un coacervo di notizie dell’ultima moda filosofica71, come i giudizi di Jaspers e Heidegger riportati all’inizio sembravano voler asserire. della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, ivi, pp. 901-915; Il problema del sublime, ivi, pp. 917-943; Studia humanitatis come essenza della tradizione spirituale italiana, ivi, pp. 945-950; Del vero e del verosimile in Vico, ivi, pp. 951-966; 69 Come tenteremo di spiegare nel secondo capitolo, per l’impostazione del problema neo-umanistico risultano fondamentali le osservazioni espresse da Grassi nel saggio su Machiavelli del 1924. 70 R. Messori così riassume l’incrocio grassiano di attualismo e fenomenologia: “le due filosofie si intersecano su almeno tre punti essenziali [...] rifiutano di attribuire l’originarietà all’ente, al pensato, di qualsiasi rango esso sia; in secondo luogo entrambi avvertono la necessità di identificare l’originario con un processo che, divenendo, si determina. Il primato del logos come atto, che lo si intenda in senso gnoseologico o ontologico, comporta, in terzo luogo, il superamento della logica tradizionale e quindi del principio di identità e di quello correlato di non contraddizione.”, R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, cit., p. 34. 71 Si sofferma su questo “merito” grassiano Marassi nelle pagine introduttive a I Primi scritti: “così l’atto è da una parte intrascendibile e dall’altra inogettivabile, ossia riassume in sé i tratti distintivi della soggettività kantiano-idealistica e anche quel movimento, non certo conciliabile con la trascendentalità del soggetto, di donazione-sottrazione assimilabile piuttosto alla nozione heideggeriana di aletheia. L’atto è questa complessa dinamica che piega il soggetto al confine del mondo e del suo apparire, lo conduce allo svelamento dell’origine. Qui mi pare che si inserisca il contributo specifico di Grassi dopo l’intuizione della convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere. In altri termini si potrebbe dire che la sua interpretazione non fosse una semplice sommatoria di posizioni eterogenee, bensì cogliesse un aspetto critico paradigmatico”, M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I Primi scritti, cit., p. 44.  ! 29!  Si impone all’attenzione teorica di Grassi la tematica della multiformità del reale (metamorphein) e della sua costitutiva polidimensionalità che affannosamente il filosofo cerca per tutta la vita di interrogare al di fuori dei parametri tradizionali. La questione “urgente” diventa quella di cogliere l’essere nell’atto del suo manifestarsi, nell’attimo arcaico, iniziale e, pertanto, mitico, del puro apparire attraverso un logos adatto (la metafora). Da un lato il pensiero pensante gentiliano72, dall’altro la manifestatività dell’essere heideggeriana, consentono a Grassi di guardare all’idea di fondamento come a quell’originario indeducibile razionalmente che può essere patito e vissuto nell’esperienza della parola più autenticamente che in quella del pensiero tradizionalmente inteso. Secondo Grassi “l’originario non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso”73 e proprio per questa identità di manifestazione e processo, di essere e divenire, è possibile radicare la trascendenza nell’immanenza, il fondamento nel reale e non in un oltre, ciò che non è manifesto in ciò che invece lo è. Secondo il filosofo “il processo deve quindi esser inteso come un auto manifestarsi. È importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”74. Il punto di partenza è quell’indeducibile originario che si mostra e si rivela in un metamorfismo e polimorfismo della realtà che non è un dato semplicemente presente, bensì un divenire storico che continuamente si distingue, Occorre sottolineare che il pensiero gentiliano dell’atto è a metà strada tra una una impostazione soggettivo- trascendentale e un’idea di soggetto come Dasein, come puro evenire, spazio di esperienza, cfr., sul tema S. Natoli, op., cit., p. 90: “l’attualismo gentiliano si tiene a mezzo tra il soggetto trascendentale e il Dasein, tra la determinazione positiva e costituente del pensiero e l’atto come esperienza del puro accadere. In questo tenere il mezzo, l’attualismo finisce per non occupare né una posizione né l’altra e di fatto viene a trovarsi in uno spazio di indeterminazione. L’atto infatti se da un lato è ancora inscritto nei termini della soggettività, sia pure interpretata come attività o come prassi, dall’altro non può essere mai colto come un fatto, non può mai darsi a modo di una semplice presenza”. 73 E. Grassi, Il problema del logo, in “Archivio di filosofia”, Roma, anno VI, aprile-giugno 1936, fascicolo II, pp. 151- 183, ora in Id., I Primi scritti, cit., p. 376. 74 Ibidem.  ! 30!  si differenzia e si scompone in un divenire metamorfico che trova unità nell’esperire patico ed estatico del Dasein. Appare evidente come sullo sfondo di tale posizione teorica resta una domanda cruciale: in che modo occorre ripensare il logos per non ridurre l’essere e la manifestatività ad una realtà monolitica e cosale? Come superare una concezione oggettivistica e soggettivistica? Si tratta delle domande che agitano le pagine teoreticamente dense di Il problema del logo apparso in Archivio di filosofia nel 1936 e in cui Grassi si chiede: “Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la manifestazione può solo essere intesa come uno scindersi e distinguersi di sé – giacchè ogni apparire immediato, oggettivistico è stato già escluso – come deve essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui traduciamo λέγειν, logo. Ma possiamo dire che il logo sia effettivamente il primo, la ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone esso un momento prelogico? Questo è il problema contro il quale urtiamo definitivamente”75. L’operazione di accostamento tra l’ontologia heideggeriana e l’idealismo gentiliano, che ad alcuni interpreti parve una mossa teorica insostenibile76, è per Grassi la condizione di possibilità per sviluppare una riflessione intorno all’umanesimo italiano. Proprio l’approccio a Gentile e a Heidegger, originalmente interpretati attraverso il filtro di una visione del logos molto ampia e ricca, che sembra talvolta porsi come polarità antitetica al pathos, talaltra come macrocategoria che ricomprende in sé la stessa dimensione patica – oscillazione che viene sottolineata con vigore da alcuni interpreti77 che parlano di un irrisolto dualismo nel pensiero grassiano, ma che, come vedremo in seguito, si giustifica tenendo conto proprio della visione complessa e ampia che Grassi ha del reale – offre a Grassi l’opportunità di delineare un percorso teoretico che guarda al reale, all’essere e alla manifestatività senza la mediazione gnoseologistica ed oggettivistica, bensì tramite una pre-  75 Ivi, pp. 376-377. 76 Nella Recensione all’articolo di Grassi Il problema del logo afferma Ottaviano: “dirò subito che la tesi, che cerca di fondare una interpretazione idealistica del pensiero sostanzialmente realistico di heidegger, è, in linea assoluta, per mio conto insostenibile”, C. Ottaviano, Recensione a E. Grassi, Il problema del logo, cit., p. 398. 77 Cfr., la posizione di M. Marassi in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 7-24.  ! 31!  intelligenza pre-categoriale fortemente radicata nella dimensione dell’affettività, del patico e della Stimmung. Emerge così un programma filosofico ambizioso che giungerà ad una riqualificazione della Romanitas e della cultura umanistico-rinascimentale non solo italiana, ma mediterranea e latina in senso lato. Grassi si chiede: “in che senso possiamo affermare che il logo come atto, come λέγειν, ci schiude la molteplicità degli enti in mezzo ai quali ci troviamo – e la cui totalità costituisce ciò che chiamiamo mondo – e in che relazione sta con il sentimento (Stimmung)? È necessario riporre sotto un nuovo punto di vista tutto il problema della originaria svelatezza dell’essere. Finora abbiamo dimostrata l’insufficienza della concezione oggettivistica nel suo aspetto empiristico; ci si impone ora una più precisa e approfondita determinazione dei vari aspetti e momenti metafisici del logo”78. Tale precisa e più approfondita determinazione dei molteplici significati del logos avviene nella metà degli anni Trenta, anni cruciali per la storia d’Europa e per le vicende personali dello stesso Grassi che, come abbiamo detto sopra, si iscrive il 3 maggio 1933 al partito fascista79 più per motivi di “opportunismo” accademico che per convinzione, e in un clima di generale espansione europea delle ideologie fasciste. Ricordiamo che soltanto dodici professori in quegli anni rifiutarono di prestare giuramento e che l’esplicito e dichiarato antifascismo di Croce restava isolato e chiuso nelle mura di palazzo Filomarino, mentre Gentile raccoglieva intorno a sé il meglio della cultura storica e filosofica delle nuove generazioni80. In tale contesto bisogna inquadrare il compito teoretico e culturale che Grassi dava alla sua ricerca di una rivalutazione della filosofia italiana. Così ritroviamo Grassi a Berlino, dove dal 1 aprile del 1938 assume il ruolo di professore incaricato di “filosofia italiana nei suoi rapporti con la filosofia tedesca”. Nei saggi scritti in questo periodo, da I rapporti tra filosofia tedesca e italiana del 1939 fino a Del Vero e del verosimile in Vico E. Grassi, Il Problema del logo, cit., p. 387. 79 Cfr. la dettagliata ricostruzione di Büttmeyer in op., cit. 80 Sul rapporto Croce-Gentile sul ruolo della cultura cfr., G. Cacciatore, Croce e Gentile: la funzione degli intellettuali e l’uso della storia italiana, pp. 477-492, in A. d’Orsi-F. Chiarotto (a cura di), Intellettuali. Preistoria, storia e destino di una categoria, Aragno, Torino 2010.  ! 32!  del 1943, passando per i contributi sul poetico e sul politico nella riflessione italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento, sale in superficie la questione della parola, indagata, secondo Grassi, dagli umanisti non con uno spirito antiquario, erudito, storico-filologico, storiografico, bensì con lo spirito di una lotta per una visione e una costruzione del mondo storico-sociale, che non è un mondo di pura contemplazione, ma è innanzitutto una vita activa, in cui i valori del passato greco, che gli umanisti sostenevano di aver scoperto contro le interpretazioni medievali, potevano contribuire all’educazione e alla formazione della civiltà. Come ha sottolineato Cesare Vasoli nell’Introduzione italiana all’opera grassiana Heidegger e il problema dell’umanesimo: “Grassi considera vero problema centrale dell’umanesimo italiano non tanto la riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti, quanto piuttosto l’illuminazione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo [...] dalle analisi del Grassi, svolte in un ampio arco, da Dante al Boccaccio e al Salutati, dal Bruni al Vico, emerge un tema costante: la poesia come fondazione della comunità umana e della storia, svelamento luminoso dell’essere, e – soprattutto in Vico – principio e ragione della stessa humanitas, con la sua inquietante presenza storica”81. L’umanesimo è, dunque, interpretato alla luce dell’esperienza linguistica che caratterizza il mondo umano e della individuazione dell’apertura primitiva, arcaica e originaria che Grassi rielabora sulla scorta di quanto Heidegger esprime sul concetto di Lichtung: si tratta di un neoumanesimo onto- antropo-logico, che, come sarà esplicitato in seguito, non è un approccio antropologico antropocentrato, poiché la relazione primaria èquella di uomo e mondo, Dasein e Sein. Lo slittamento dell’interpretazione dell’umanesimo da un piano gnoseologico-epistemologico ad uno ermeneutico- ontologico spinge Grassi ad un più serrato confronto con Heidegger e la sua inappellabile condanna dell’umanesimo. Heidegger afferma, infatti che “ogni umanismo rimane metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione, perché a causa della sua provenienza metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende” C. Vasoli, Introduzione a E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, Napoli, Guida 1985, pp. 10-11. 82 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Id., Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 275.  ! 33!  Tale critica in Heidegger si collega ad una precisazione della sua filosofia che non ha mai avuto l’intenzione di essere un esistenzialismo o un umanismo, ma un pensiero che con uno Schritt zurück, con un passo indietro, rispetto all’umanesimo e alla metafisica, cerca di proporre il problema dell’essere. Tenendo in considerazione il tema dell’ultra-metafisica heideggeriana Grassi ha dato una caratterizzazione per così dire non umanistica (in senso heideggeriano) dell’umanesimo individuando in esso numerose analogie con il pensiero di Heidegger. In questo modo, tra un approccio apologetico della modernità ed uno decostruttivo, quale è quello di Heidegger, secondo il filosofo milanese l’umanesimo resta schiacciato in un limitato settore storiografico senza anima propria ma interpretato solo in riferimento ad altre epoche. Grassi si chiede se sia plausibile una simile posizione o se non si tratti, forse, come già accaduto per Cassirer, Kristeller, Spaventa, Hegel e altri, di un errore di prospettiva83. Per tentare di rispondere a queste domande, emerse con vigore negli anni Quaranta, Grassi impiegherà tutta la sua esistenza. In un importante testo, apparso in Geistige Überlieferung – l’annuario frutto della collaborazione con W. F. Otto e K. Reinhardt – L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario del 1940, Grassi porta avanti una vigorosa critica del cogito cartesiano che non tiene conto di quella passione a partire dalla quale soltanto avviene il theorein che è proprio della filosofia. Un theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è “una visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi retoricamente”84. A fondamento del pensiero c’è una necessità esistenziale che non può che rivelarsi e apparire attraverso l’esperienza della parola poetica e metaforica: unicamente quest’ultima può rendere conto del polimorfismo ontologico, che non è un fatto85, ma un continuo divenire, all’appello del quale E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., soprattutto il primo capitolo, Il problema della parola poetica, pp. 31-36. 84 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 17-18. 85 “L’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi [...] il dato originario, come immediata presenza di alcunchè, è il divenire, il processo, cioè ciò che non è ancora diventato, fatto, e in quanto già ! 34!   l’uomo è chiamato a rispondere in modo plurale e non univoco. Grassi afferma che “poiché il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si attuano attraverso [...] una metafora. Allora la metafora, che ricorre per lo più alle immagini” non va considerata un mezzo solo letterario ma “è indispensabile per esprimere l’Originario?”86. Oltre alla collaborazione all’annuario, occorre segnalare anche la progettazione dell’Istituto Studia Humanitatis in cui la partecipazione degli esponenti della cultura italiana e tedesca è inquadrata anche alla luce di un intento politico-culturale: quello di affermare la specificità della Romanitas nei confronti degli ideali del mondo tedesco privilegiando soprattutto tre ambiti problematici: “in primo luogo l’antichità nel suo particolare significato per la tradizione italiana. Inoltre il rinascimento e l’umanesimo [...] infine, una terza questione riguarda il modo in cui il XIX secolo ha compreso e giudicato l’umanesimo e il rinascimento”87. Per Grassi fin dall’inizio gli studia humanitatis hanno un legame con l’agire creativo dell’uomo, che si realizza soprattutto nella comunità politico-sociale88. A partire dal 1945 Grassi si reca in Svizzera in cui progetta con Szilasi la collana Überlieferung und Auftrag presso l’editore Francke di Berna e l’anno successivo incomincia la sua lunga attività di insegnamento a Monaco e di direzione del Centro Italiano di Studi Umanistici e Filosofici. In conclusione di questa breve introduzione alle idee dell’“emigrante con la vocazione per la filosofia”, basti dire che negli anni densi e intensi dell’apprendistato filosofico tra il 1922 e il 1946 si gettano le basi di quei grandi temi che percorrono i decenni successivi: la rivalutazione dell’umanesimo e della latinità come luoghi di riflessione sulla questione onto-antropo-logica, sul nesso uomo-essere; la centralità del linguaggio e della parola poetica, del dire metaforico e della svanito, non più presente. Il dato come oggetto, e quindi come qualcosa di già fatto, non è il dato, bensì una falsa interpretazione del dato”, E. Grassi, Il Problema del logo, cit., p. 375. 86 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 18. 87 Id., Studia humanitatis come essenza della tradizione spirituale italiana, in Studia Humanitatis. Festschrift zur Eröffnung des Institutes, Veröffentlichungen des Institutes Studia Humanitatis, Berlin, verlag Helmut Küpper, 1942, pp. 19-32, ora in Id., I Primi scritti, cit., p. 949. 88 Del periodo berlinese ricordiamo anche l’attività editoriale realizzata con l’appoggio di Helmut Küpper.! ! 35!   retorica. La questione è, ancora una volta, quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, ma di attingere a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura si intersecano. Il “neoumanesimo della complessità” offerto da Grassi può essere concepito come un atto di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare è quella della preminenza della ratio. Ma tale operazione decostruttiva non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi della ragione; del tramonto della civiltà, in cui cultura e civilizzazione si sono definitivamente separate; del tramonto dell’uomo che da animale pregnante, passa ad animale carente, diventando, infine, animale obsoleto e antiquato o, addirittura, come testimoniato dagli attuali studi post-umanisti, segmento di un processo ibridativo con la techne. Nei prossimi capitoli cercheremo di ripercorrere le tappe grassiane del discorso sull’umanesimo che viene a configurarsi come un itinerario onto-antropo-logico in cui il discorso sull’uomo si intreccia indissolubilmente con la questione ontologica. Sarà concesso spazio a quegli scritti del periodo giovanile nella convinzione che solo dall’analisi di quei contributi è possibile comprendere la ricostruzione storica e speculativa di un umanesimo gravitante attorno al concetto di Lichtung. Le questioni sollevate da Grassi costituiscono un contributo fondamentale alla filosofia del Novecento e non possiamo pensare alle sue riflessioni come a temi da “vagabondaggio filosofico”, come dai giudizi dei filosofi ricordati all’inizio di questo capitolo sembrava emergere, ma come l’ennesimo tentativo di ripensare l’uomo a partire dalle proprie strutture immanenti e dal proprio essere-nel- mondo.  Uno dei risultati più importanti della indagine filosofica grassiana portata avanti tra gli anni Trenta e Quaranta è la scoperta della co-originarietà tra logos e pathos: la dimensione patica dell’esperienza umana si pone come un a priori dello stesso ambito cogitativo89. Possiamo rintracciare un doppio binario della ricerca: la critica al pensiero moderno è condotta, da un lato, attraverso l’individuazione degli effetti negativi di un divorzio tra logos e pathos, dall’altro, tramite la ricerca di un certo “luogo” della tradizione culturale umanistico-rinascimentale che il dibattito storiografico ha sempre ritenuto privo di spessore filosofico, o almeno non carico di una serie di motivazioni teoriche che Grassi rintraccia. Secondo il pensatore milanese il “grande rimosso” del pensiero moderno è, di fatto, un momento epocale: la tradizione ha obliato il valore filosofico e storico del linguaggio poetico, nel quale egli rintraccia la possibilità di uscire dal conflitto tra ratio e pathos. Solo fuoriuscendo dal circolo vizioso di ragione e passione è possibile esperire una dimensione dell’umano nuova ed autentica. Ma come nasce per Grassi l’esigenza di rinnovare la questione dell’uomo e del suo rapporto con il mondo? Sappiamo quanto vivo e vigoroso fosse il problema: lo dimostra la tenacia speculativa che, in qualità di direttore della Humanistische Bibliothek dell’editore Fink, mostra patrocinando la pubblicazione di una cinquantina di volumi intorno a temi umanistici, nella speranza che la conoscenza diretta di Petrarca, Salutati, Valla, Pontano, Gianfrancesco Pico potessero rendere giustizia ad un’immagine dell’umanesimo lontana dalle interpretazioni tradizionali. Inoltre, nel 1938 Affronteremo la questione del nesso pathos-logos in maniera analitica nel terzo capitolo. ! 37!   il nostro autore, sotto il patronato dell’Accademia d’Italia, ha l’incarico di fondare e dirigere l’Istituto Studia Humanitatis a Berlino, anche grazie all’interessamento di Enrico Castelli. Accanto a questa opera di edizione e direzione c’è il percorso di ricerca teorica portato avanti per tutta una vita e che pone Grassi in un confronto serrato con i più noti interpreti dell’Umanesimo e del Rinascimento e con due autori in particolare secondo la convinzione di gran parte degli interpreti: Vico e Heidegger, ma noi vorremmo aggiungere anche Cartesio, Aristotele e Leopardi. Da un lato Cartesio ha avuto un ruolo centrale nell’analisi grassiana del logos attraverso la fecondità individuata nei concetti di dubbio e cogito che rivestono un’importanza fondamentale nell’analisi della Leidenschaft. Dall’altro Aristotele ha espresso concetti, quali quelli di archè e pistis, che secondo Grassi gettano luce su un altro percorso possibile per il pensiero: il filosofare noetico non-metafisico in cui si condensa la proposta retorica del filosofo tutta gravitante intorno al nesso phantasia-ingenium-metafora che costituiscono la triade della retorica del significare arcaico. Poi c’è Vico che appare come l’erede della tradizione umanistica: il De antiquissima e la Scienza Nuova ci guiderebbero verso un mondo la cui nota dominante è costituita dalla fantasia e dall’ingegno, che con spirito anti-cartesiano Vico avrebbe contrapposto alla ratio calcolante e al deduzionismo matematico di Cartesio, in difesa delle humanae litterae. Lopardi con il concetto di illusione avrebbe teorizzato una filosofia dell’esistenza in cui il pathos avrebbe raggiunto le vette di una tematizzazione poetico-filosofica che guida la riflessione verso il tema del fondamento e dell’antropogenesi. Infine Heidegger si mostra come il più fiero oppositore dell’Umanesimo e del Rinascimento, trattati alla stregua di espressioni di una mera antropologia ontica che ha come centro della riflessione l’ente e non l’essere. Eppure le riflessioni di Heidegger sul linguaggio e sulla parola poetica, sull’opera d’arte come evento del disvelamento dell’essere, sono richiamate all’attenzione da Grassi che con Heidegger va oltre Heidegger compiendo un vero e proprio iter di oltrepassamento, nel duplice senso di Verwindung (accettazione-approfondimento) e Überwindung (superamento). Secondo l’interpretazione grassiana, quella di Heidegger sarebbe una prospettiva che, nonostante la messa in mora della modernità e l’opera decostruttiva condotta nei riguardi dell’impostazione ! 38!  soggettocentrica, cade preda di quel pregiudizio hegeliano e di tutta la concezione idealistica dell’umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “Heidegger sottolinea che il termine umanesimo si affermò per la prima volta al tempo della repubblica romana come equivalente del termine greco paideia. Per Heidegger è un dato di fatto che ogni umanesimo principia col definire l’essenza dell’uomo, quindi con una filosofia antropologica”90. L’umanesimo come mera antropologia è l’equazione posta da Heidegger che Grassi mette in discussione attraverso un’analisi storico-filosofica che rintraccia nelle riflessioni sul linguaggio un altro inizio del pensiero. Benché Heidegger avesse sviluppato una concezione del linguaggio e della poesia come luoghi del disvelamento dell’essere, la tradizione poetica degli autori italiani del Quattrocento non era ritenuta funzionale al discorso relativo alle “circostanze della manifestatività” ma frettolosamente liquidata in quanto proseguimento della Romanitas, posta da Heidegger in contrapposizione con l’esperienza greca presocratica. Grassi tenta di ricostruire con spirito critico-problematico, più che filologico91 in senso tecnico, la tradizione di quegli autori come Salutati, Valla, Poliziano e Landino che mostrano una ricchezza del possibile in alternativa all’unilateralità del vero. Nelle sue analisi, infatti, emerge quella volontà di far parlare direttamente i testi senza diaframmi, mettendo in evidenza quella mutevolezza del particolare e del contingente senza prescindere dalla situazione data. Denunciando i gravi limiti di ogni inerte visione aprioristica e razionalistica, quegli autori costituiscono per Grassi il polo ineludibile di una riflessione che è attenta a tutte le dimensioni del  E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 58. 91 Del resto le forzature storiografiche che talvolta sono presenti nelle riflessioni grassiane sono state sottolineate da Cesare Vasoli nell’Introduzione all’edizione italiana di E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo: “Grassi è infatti convinto – e lo ripete nel modo più esplicito – che la svolta platoneggiante segnata dal Ficino e la forte ripresa della tradizione aristotelica, nel corso della prima metà del Cinquecento, siano sostanzialmente estranee alla vera filosofia umanistica o, almeno, alle sue ragioni e interessi più vitali. Ciò pone, naturalmente, molti problemi di natura storiografica [...] anche se non può tacersi che anche il giudizio umanistico sul valore fondante della poesia deve non poco a tipici loci platonici e che il tema del furor proprio del Ficino (si pensi soltanto ad alcune notissime pagine del De Amore) ha svolto un ruolo dominante nell’interpretazione sapienziale della poesia e del suo ruolo di theologia originaria”, C. Vasoli, Introduzione, pp. 7-16, in E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 12; titolo originale Heidegger and the question of Renaissance Humanism, Center for Medieval and Early Renaissance Studies, Binghamton, New York 1983.  ! 39!  pensiero: non solo la logica e la teologia, ma la giurisprudenza, la mitologia, la politica, la retorica, la poesia divengono oggetti teorici degni di una riflessione sulle molteplici forme dell’apparire dell’essere. In tale percorso di rivisitazione delle tematiche umanistiche Grassi segue itinerari poetici e teatrali, generi, quali il poema cavalleresco, la lettera familiare, l’elogio, che pongono in luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo Grassi è nelle parole, nei verba, nella ricchezza e complessità di un universo linguistico non chiuso nei ristretti limiti della logica formale che possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici, contingenti, transeunti. Da ciò deriva che il principale compito della nuova filosofia umanistica narrata dal filosofo è l’apprensione del reale non a mezzo “del processo razionale del pensiero che col concetto (horos) e la definizione (horismos) coglie l’essenza (ousia) degli enti, ed astraendo dal tempo e dal luogo, ne stabilisce il significato”92; ma attraverso la parola storica-poetica-metaforica che “è una eikasia (una somiglianza e un apparire) del significato degli enti come risposta alle esigenze esistenziali che sorgono nelle diverse situazioni”93. L’attenzione alla polidimensionalità del reale che si rivela nella polidimensionalità linguistica rende la stessa opera grassiana non suscettibile di sistematicità: leggere Grassi tentando di rintracciare nelle sue pagine un’opera sistematica è un approccio inadeguato, occorre piuttosto seguirlo nelle tracce, nelle indicazioni, nelle pieghe della meditazione94. Del resto questo è un risultato, più che un  Id., La filosofia dell’umanesimo un problema epocale, cit., p. 37. 93 Ivi, p. 146. 94 Secondo l’interpretazione di D. Pietropaolo l’assenza di sistematicità nella filosofia di Grassi costituisce un limite, uno “svantaggio considerevole”, ma secondo il nostro punto di vista si tratta di un riflesso dell’impianto fenomenologico del metodo seguito da Grassi. Se la realtà è multiforme e sfaccettata anche il modo di dire tale realtà procederà per aspetti, frammenti segmenti tutti tesi a mostrare la ricchezza dell’essere. D. Pietropaolo, Grassi, Vico, and the defense of the Humanist Tradition, in “New Vico Studies”, 1992, X, p. 5. Opposto il giudizio di A. Battistini secondo il quale quello di Grassi è un metodo che “rispecchia una ricerca sempre in progress, inappagata, dinamica”, A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di Ernesto Grassi, p. 391, in E. Hidalgo-Serna-M. Marassi (a cura di), Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 385-404.  ! 40!  limite, raggiunto dal filosofo in ossequio all’insegnamento degli umanisti che con la riflessione sulla storicità dell’esperienza umana che parte da bisogni concreti elaborano quella che è una rivoluzione epocale ben più importante di altre rivoluzioni culturali: attraverso la teoria dell’ingegno, che interviene nelle diverse e varie situazioni, in funzione delle necessitates e dell’hic et nunc, tramite l’attività analogica, che assurge a meccanismo catalizzatore del sistema antropo-poietico. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale che “l’umanesimo, non muovendo più dal problema della definizione razionale del reale, realizza un rovesciamento dei procedimenti del pensiero filosofico ben più radicale della così detta moderna “rivoluzione copernicana” del pensiero cartesiano e idealistico”95 e ciò è espresso, dal nostro punto di vista, in conformità alla generale impostazione onto-antropo-logica del pensiero di Grassi, che vede nella indagine linguistica e poetica la possibilità di scorgere quell’appello dell’essere che spinge l’uomo a rispondergli creativamente in base alle molteplici circostanze esistenziali. In tale contesto l’agire umano per Grassi “implica la necessità di realizzare non cognizioni astratte di una metafisica ragionata ma una metafisica metaforica, fantastica ma non arbitraria perché risposta oggettiva alle urgenze vissute differentemente nelle varie situazioni”96. Ma torniamo al problema dal quale siamo partiti: come giunge Grassi alla domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo? Decisivo è stato l’incontro con il maestro degli “anni mitici di Friburgo”? Oppure dobbiamo attendere quella che, secondo alcuni interpreti, è la svolta vichiana? Domandarsi della genesi del problema onto-antropo-logico in Grassi è una operazione teorica non semplice, poiché si tratta di percorrere un iter in absentia: il filosofo non usa esplicitamente l’espressione “onto-antropo-logia” per qualificare la propria riflessione, ma, a dispetto di quest’assenza terminologica, possiamo riscontrare le tracce – non tanto nascoste – di tale ambito problematico che si costituisce come l’orizzonte di pre-comprensione imprescindibile per accedere ai settori teorici toccati dal filosofo di Milano: retorica, metaforologia, umanesimo. Riferirsi al  E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 96. 96 E. Grassi, Vico e Ovidio. Il problema della preminenza della metafora, in “Bollettino del Centro di Studi Vichiani”, 1992-1993, XXII-XXIII, p. 174.  ! 41!  contesto onto-antropo-logico ci consentirà agevolmente di sfatare anche un’ipoteca storiografica che pesa sul suo pensiero, talvolta preda di un’interpretazione che lo ritiene mera espressione eclettica o privo di una adeguata articolazione teoretica97. Grassi affronta i temi dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani già nel 1924 nel saggio Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato apparso sulla rivista Rassegna Nazionale. Ben prima dell’incontro con Heidegger, ben prima dell’incontro con Vico dunque. In questo saggio Grassi offre un’interpretazione degli scritti machiavelliani puntando l’attenzione sui concetti di uomo e umanità, riconoscendo l’importanza decisiva che nella sua prospettiva onto-antropo-logica assumono le questioni di stato e patria. L’impostazione teorica che emerge è di stampo idealistico98 e tende a dare credito ad alcune interpretazioni correnti, quali l’affermazione della dignità umana come valore immanente; l’incapacità di inquadrare in un sistema concettuale il pathos della ricerca; la collocazione entro la cornice teorica della modernità dell’Umanesimo e del Rinascimento. Secondo il filosofo di Milano ciò che emerge dalle riflessioni di Machiavelli è un principio di immanenza che permea tutta la riflessione moderna. Grassi afferma che “il medioevo e il rinascimento - secondo una distinzione larga – nascono come espressione di due pensieri fondamentalmente distinti: mentre il pensiero antico, medioevale cercava la razionalità del reale – ossia il principio di ogni realtà in un principio trascendente, che ci supera – il pensiero moderno – di cui il rinascimento e l’umanesimo sono la prima affermazione – cerca la razionalità del reale in un principio immanente, che è in noi”99. Pur accogliendo tale distinzione tra Medioevo e Rinascimento il filosofo riconosce tuttavia il limite di un’impostazione di questo genere poiché la realtà storica e filosofica risulta pur sempre più ricca e complessa di rigidi schemi che non tengono conto delle mille sfaccettature di correnti di pensiero e di singoli intellettuali. Emblematico è il caso di Dante che in questo scritto appare essere !! Cfr., l’interpretazione di G. Modica, Oltre Heidegger e Vico. Sulla prospettiva filosofica di Ernesto Grassi, pp. 77-88, in AA. VV, Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit. 98 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., in particolare il terzo capitolo, Umanesimo e modernità, pp. 89-125. 99 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi Scritti, cit., p. 55.  ! 42!  un Giano bifronte, proteso sia verso l’impostazione classica e medioevale, che rintraccia nell’“essere per essenza – o per seguire la loro denominazione – Dio – l’essere da cui tutto proviene e in funzione del quale tutto si distingue e supera il soggetto di cui è origine e causa”100; sia verso un aspetto proto- moderno che troverà nell’epoca successiva un dispiegamento considerevole. Secondo Grassi nella concezione politica di Dante abbiamo un primo embrione della modernità: “la nuova epoca non si – può – far nascere dal secolo XV, ma molto prima, come ci rivela l’espressione volgare della Divina Commedia, del Convivio, e il ghibellinismo di Dante”101. La riflessione della modernità matura sarà contraddistinta da una serie di elementi che metteranno in crisi l’impostazione medievale ma anche classica. Contro l’idea che proprio gli umanisti proporranno nell’auto-interpretazione della propria epoca, secondo Grassi lo stesso classicismo del Quattrocento e del Cinquecento non è che “semplice scorza con cui la nuova epoca inviluppava le sue tendenze...fredda cenere sotto cui troviamo il primo fuoco dello spirito moderno, l’uomo che ricerca e trova se stesso”102. Nel nuovo contesto culturale la figura di Machiavelli è assunta come baluardo della costruzione del Rinascimento: nel clima generale della critica verso i “barbari medievali” alla vis destruens degli umanisti Machiavelli sa contrapporre una vis construens che si concretizza nella messa a tema del concetto di patria, del valore dell’individuo e della verità effettuale che, secondo Grassi, riveste un’importanza massima: “l’affermazione della verità effettuale è della massima importanza, egli giungerà logicamente col suo metodo induttivo alla concezione della storia come creazione umana” Ivi, p. 56. 101 Ivi, p. 58. 102 Ivi, p. 62. 103 Ivi, p. 66.  ! 43!  La centralità della nozione machiavelliana di verità effettuale viene posta in correlazione con la teoria vichiana del verum ipsum factum, secondo cui il verum storico è conoscibile solo ed unicamente nel factum umano. Il criterio della convertibilità, che ha una tradizione antica, di ascendenze giudaico-cristiane104, e che è possibile definire come il vero assioma di Vico, viene esplicitamente espresso nel De nostri temporis studiorum ratione del 1708. Qui il criterio del verum-factum viene legato all’ambito geometrico: “pertanto queste cose della fisica, che in forza del procedimento geometrico si presentano come vere, non sono se non verisimili, e dalla geometria ricevono sì il procedimento, non la dimostrazione: dimostriamo la geometria perché la facciamo; se potessimo dimostrare la fisica, la faremmo”105. Vorremmo sottolineare che il “vichismo” di Machiavelli individuato da Grassi in questo saggio risente fortemente dell’impostazione crociana. L’inconsapevole vichismo di Machiavelli o il non voluto machiavellismo di Vico compare in numerose opere del filosofo di Pescasseroli. U no dei primi riferimenti crociani al Segretario fiorentino risale a Filosofia della pratica del 1908 in cui Croce, trattando della categoria dell’utile, e quindi della politica, riconosce Machiavelli come il capostipite delle dottrine che hanno considerato la politica come attività indipendente dalla morale e che hanno stabilito dei precetti “empirici” della “ragion di Stato”. Ma allo stesso tempo osserva che la questione “se codesti due termini potessero mai tenersi immediatamente identici”106 è stata indagata da Machiavelli anche se, su tale aspetto, il suo pensiero è stato lungamente non compreso “non essendosi inteso il valore spirituale della volontà utilitaria, considerata per sé senza interferenza della ulteriore determinazione morale” Per una sintesi ben documentata della storia della teoria del verum-factum prima e dopo Vico cfr., M. Martirano, Vero- Fatto, Guida, Napoli, 2007, in particolare i capp., Il criterio del vero e del fatto prima di Vico, pp. 41-101; e Il criterio del vero e del fatto dopo Vico, pp. 105-172. 105 G. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, pp. 49-51. 106 Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica, Laterza Editori, Bari, 1945, p. 266. 107 ivi, p. 267. Secondo Croce solo a partire dall’analisi critica di Francesco De Sanctis si è cominciato a comprendere il carattere complesso della tesi di Machiavelli e quindi a valorizzare il pensiero del Principe giustificandolo a dispetto delle condanne provenienti da correnti moraliste. Nella recensione dell’edizione del Principe curata da Federico Chabod nel 1924, Croce precisa come sia necessario non tanto affermare che la politica si identifica con la forza bensì “insistere e mettere bene in chiaro che cosa sia veramente la forza, e come quella forza, che è la virtus politica, rappresenti un aspetto, necessario bensì ed eterno, ma un aspetto solo della totalità ed integralità umana” – B. Croce, “La Critica”, giugno 1924, p. 314. In seguito nel 1932 in Storia d’Europa nel secolo decimonono ad integrazione la necessità della virtù nella politica ! 44!   Su questo sfondo crociano l’interpretazione di Grassi pone in luce il nesso di verità effettuale108 e verum ipsum factum che dischiude una nuova visione del mondo: dire che “coll’affermazione della verità effettuale, abbiamo veramente l’affermazione che precorre e già contiene implicitamente il verum ipsum factum di Vico”109, significa porre nella realtà l’unico valore, identificando valore e realtà, essere e valore, e ha come conseguenza anche l’adozione di un metodo innovativo di indagine del reale. L’importanza di questo saggio giovanile è degna di nota se consideriamo che proprio qui emergono alcune dicotomie concettuali che ritroveremo nella produzione successiva e che sottolineano quanto già a partire dagli anni Venti la questione onto-antropologica fosse viva nella riflessione del filosofo. Risulta evidente allora che la questione onto-antropo-logica, il problema dell’umanesimo, della correlazione Da-sein e Sein nell’orizzonte della Lichtung non compare in Grassi solo ed unicamente a partire dall’incontro con Heidegger o dalla svolta vichiana di un fantomatico “secondo Grassi” ma affiora già nelle riflessioni sulla “scienza nuova” machiavelliana. La “scienza nuova” offerta da Machiavelli secondo il pensatore milanese è innanzitutto una scienza induttiva e non deduttiva, è una intelligenza dei fatti che può realizzarsi solo abdicando al principio di autorità e all’a-priorismo e la denuncia della mera attività politica senza responsabilità è lampante: “se alla libertà si toglie la sua anima morale...si toglie la purezza del fine; se alla disciplina interna alla quale essa si sottomette spontanea si sostituisce quella della eterna guida e del comando non rimane se non il fare per fare, il distruggere per il distruggere...ne vien fuori l’attivismo. Il quale è dunque in questa traduzione riduzione e triste parodia che in termini materialistici compie di un ideale etico, sostanzialmente una perversione dell’amore per la libertà” – B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza Editori, Bari 1972, p. 300. Croce risolve in maniera definitiva la questione posta da Machiavelli saldando assieme l’etica alla politica sia nella sua concezione della storia, sia nella sua filosofia politica tanto da unire nell’unica opera Etica e politica (1931) i precetti morali alle riflessioni sulla politica. In questo testo egli cita Vico come il solo ed autentico successore dell’impostazione di Machiavelli, ritenendo che i suoi veri prosecutori non sono né coloro che elaborano una precettistica della “ragion di stato”, né coloro che escludono qualsiasi commistione tra politica e etica e predicano l’avvento di un regime basato sulla pura bontà e giustizia, né chi non cerca di risolvere l’antinomia tra politica e morale ma la relativizza a carattere meramente accidentale della storia. Vico è ai suoi occhi colui che più di tutti è “pieno del suo spirito, che egli chiarifica e purifica, integrando il suo concetto della politica e della storia, componendo le sue aporie, rasserenando il suo pessimismo” – B. Croce, Etica e politica, Laterza Editori, Bari, 1931, p. 254. 108 L’espressione verità effettuale compare nel XV capitolo del Principe: “ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”, N. Machiavelli, Principe, XV, 280 A. Cfr., su questo aspetto V. Raspa, Della verità effettuale della cosa e del riscontrare le cose. Riflessioni intorno al XV capitolo del Principe, pp. 152-184, in AA. VV, Machiavelli: immaginazione e contingenza, a cura di F. Del Lucchese-L. Sartorello-S. Sartorello, Ets, Pisa 2006. 109 E. Grassi, Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Id., Primi scritti 1922-1946, p. 66. ! 45!   logico. La grandezza del segretario fiorentino risiede nella ricostruzione politica del Rinascimento, che è allo stesso tempo una restituzione alla storia di una razionalità intrinseca. Ma in che modo è possibile offrire al dominio di Dio o del caso – la storia – una propria razionalità? La domanda che secondo Grassi Machiavelli si pone trova nelle pagine del Principe una risposta, l’unica possibile. Assodato che con il Rinascimento registriamo una rottura, un crollo dell’impalcatura teorica e pratica del Medioevo, la dissoluzione dei valori religiosi e l’affermazione della forza dell’individuo, come garantire l’integrità della vita activa, come riparare la nuova idea di azione umana dal pericolo di una dispersione irrazionale di energia? Secondo Grassi la stessa affermazione del soggetto empirico va superata e si supera con Machiavelli: “l’affermazione del soggetto empirico andava superata e condotta a un concetto di unità di individualità superiore, ma il problema doveva essere posto negli unici termini possibili: superare l’individualità empirica per mezzo dell’affermazione dell’individualità stessa”110. Il problema dell’individualità si pone come un dato di importanza considerevole per due ordini di ragioni: innanzitutto l’ascesa del soggetto è individuata come un tratto distintivo della modernità, sebbene in questo contesto l’autoaffermazione assuma una valutazione positiva che in seguito perderà, a fronte di una impostazione teorica che vede nella compagine soggettocentrica della filosofia un aspetto negativo; poi mostra l’aporia aperta dalla figura di Machiavelli e che rifluisce nella tematizzazione grassiana successiva: l’aporia tra la componente irrazionale, quella che successivamente sarà definita patica, e l’esigenza di un inquadramento razionale e logico. Il Principe ha un valore emblematico e attesta un tentativo di coniugazione estremamente importante: “l’affermazione del Principe di Machiavelli è così il passaggio dal concetto dell’Umanesimo, dell’individualità empirica, a quello di nazione”111. Passaggio, questo, che fa emergere quanto Machiavelli percepisse “l’irrazionalità in cui si dibatte il Rinascimento: il contrasto delle varie affermazioni di tirannidi”112 e che rende la sua opera una !!! Ivi, p. 73. 111 Ivi, p. 74. 112 Ivi, p. 76.  ! 46!  sorta di “fisica delle forze umane”113. Si tratta di un’aporia che nel Principe si struttura come tensione tra le antinomie etico-psicologiche e unità del principe-centauro; e nei Discorsi trova espressione nel contrasto tra il conflitto socio-politico e l’unità istituzionale. Una contesa che è connotata positivamente da Machiavelli per il quale le “dissensioni”, i conflitti, non sono elementi esiziali per la salvaguardia della res publica, ma necessarie e proficue114. Alla figura di Machiavelli, all’importanza della sua teoria politica nella ridefinizione dei parametri della modernità umanistica, e all’impronta innovativa offerta dal suo concetto di verità effettuale al “cambiamento di paradigma” del Cinquecento, per usare una fortunata espressione kuhniana, Grassi dedica molta attenzione tra gli anni Venti e Quaranta. Ciò è testimoniato dalle pagine conclusive del saggio Pensieri sul poetico e sul politico del 1939, in cui si asserisce che “l’essenza politica di Machiavelli consiste quindi nell’aver riconosciuto l’urgenza della politica (necessità), il suo imporsi, come una forma autonoma e in sé indipendente da ogni altra forma del dischiudersi della realtà [...] questo inarrestabile realizzarsi del politico è ciò che Machiavelli chiama fortuna, la quale non significa sorte, bensì la concreta situazione politica in cui sempre ci troviamo”115. Qui viene espresso quel concetto di costrizione, necessità e coercizione che il reale esercita sull’essere umano e che è importante richiamare all’attenzione poiché quello di Nötigung sarà un concetto che ritroveremo in seguito e che andrà a costituire una delle caratteristiche della onto- antropo-logia di Grassi, la quale ha di mira l’individuazione dei meccanismi arcaici di antropo-poiesi, dei dispositivi che sono fortemente radicati nella situazione particolare, nell’Appello dell’essere e  Ibidem. 114 Cfr., G. M. Barbuto, Il pensiero politico del Rinascimento, Carocci, Roma 2008, in particolare le pp. 39-75 dedicate a Machiavelli. 115 E. Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico, in Id., Primi scritti, cit., p. 793. Il saggio appare originariamente in tedesco con il titolo Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens nel 1939 in Schriften für die geistige Überlieferung, Erstes Heft, herausgegeben von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1939. Nel saggio rifluiscono due conferenze, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des Humanismus, e Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition.  ! 47!  del reale, la cui carica di estraneità è oltrepassabile solo tramite l’azione concreta e storica che ha struttura metaforica. L’attività metaforologica ha infatti una connotazione onto-antropo-logica in Grassi: riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo circostante. Non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per Grassi un dispositivo antropo-poietico. Come si afferma in Retorica come filosofia. La tradizione umanistica: “alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro mondo”116. In conclusione possiamo dare per acquisito che la lettura di Machiavelli e i saggi dedicati al Segretario fiorentino e alla politica pongono in luce la fondamentale importanza che in tale ricostruzione di un nuovo paradigma assume la conoscenza storica del passato117, il tema della fortuna – la concreta situazione storica – e quello della virtù – come abilità di commisurarsi alla fatticità dell’esistenza118, quello dell’autonomia dell’agire politico119. Questi elementi ci dicono che “non Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 76. 117 Id., Francesco Guicciardini e il concetto della politica nel Rinascimento italiano. Prologo alla prima edizione tedesca dei Ricordi, pp. 887-900, in Id., Primi scritti, cit., p. 891. Il saggio appare nel 1942 con il titolo Francesco Guicciardini und der Begriff der Politik in der italienischen Renaissance. Prolog zur ersten deutschen Ausgabe der “Ricordi”, in “Europäische Revue”, Stuttgart-Berlin, XVIII, 1942, n. 3. 118 Id., Teoria della politica nella tradizione del rinascimento, pp. 967-974, in Id., Primi scritti, cit., p. 971. Il saggio appare nel 1945 con il titolo Theorie der Politik in der Ueberlieferung der Renaissance, in “Neue Zürcher Zeitung”, Jahrgang 166, nr. 1016, 30. Juni, 1945, Morgenausgabe, Blatt 4. 119 Id., Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, in Id., Primi scritti, cit., p. 786.  ! 48!  possiamo sottrarci di fronte all’occasione, alla circostanza, alla necessità impellente di prendere posizione nei confronti di ciò che accade. Perciò la nostra situazione si trova sempre nel mezzo di un aut-aut”120. L’essere in mezzo ad un aut-aut ci costringe a decidere, a scegliere, ad affrontare il reale come impegno e compito come Grassi afferma nel 1942 in una lettera-saggio indirizzata allo “stimatissimo amico” W. F. Otto, Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, che mostra un metodo “inattuale” di fare filosofia: si tratta di esercitare la riflessione con “lettere aperte, denunciando così il carattere particolare di questo impegno comune, per il quale esso si distingue e deve distinguersi rispetto alle occupazioni scientifiche”121. Si tratta di quel metodo inattuale, difeso anche da Husserl, che solo i filosofi autentici possono realizzare nella consapevolezza di essere “funzionari dell’umanità”, orientati verso un telos che può trovare concretezza solo nell’esercizio dell’atto filosofico122. Umanesimo e pseudo-umanesimi: la pars destruens del discorso grassiano. La riflessione sull’Umanesimo e sul Rinascimento e sul loro spessore filosofico elaborata da Grassi a metà degli anni Venti e Trenta si concretizza, come abbiamo visto, nel saggio su Machiavelli proseguendo nelle produzioni saggistiche successive al 1924. In queste ultime è presente anche un intento di chiarificazione storiografica e di presa di distanza dalle coeve interpretazioni della “tradizione epocale”. Riferirsi ad un’epoca storico-culturale, come quella al centro della riflessione Id., Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana. A Walter F. Otto, pp. 901-915, in Id., Primi scritti, cit., p. 912. Il saggio appare in tedesco nel 1942 con il titolo Über das Problem des Wortes und des individuellen Lebens. Erwägungen aus der italienischen Überlieferung. An Walter F. Otto, in Geistige Überlieferung. Das zweite Jahrbuch, in Verbindung mit Walter F. Otto und Karl Reinhardt, herausgegeben von Ernesto Grassi, Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1942. 121 Ivi, p. 902. 122 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. a cura di Filippini, il Saggiatore, Milano 1960, p. 46, “Noi siamo dunque, e come potremmo dimenticarlo, nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi, nella nostra vocazione interiore personale, include anche le responsabilità per il vero essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un telos, e che se può essere realizzato lo può soltanto attraverso la filosofia. È possibile di fronte a questo sè esistenziale sfuggire?”.  ! 49!  di Grassi, significa innanzitutto prendere in considerazione un “mito storiografico”123. Inoltre, il concetto grassiano di umanesimo è bivalente: accanto all’idea di Umanesimo come categoria storiografica limitata ad un periodo storico circoscritto e ad autori precisi troviamo un concetto di umanesimo come macro-categoria che comprende una riflessione generale sull’humanitas. A partire dal grande affresco burckhardtiano del 1860 Die Kultur der Renaissance in Italien e dal saggio di Jules Michelet del 1855 Histoire de France au sezième siècle, il mondo moderno e i suoi tratti distintivi sono stati legati alla riscoperta dell’uomo e del mondo e dei valori immanenti i cui prodromi erano già presenti nella civiltà italiana del Trecento e del Quattrocento. Del resto questo era il punto di vista degli stessi umanisti che per primi parlano di una rinascita della civiltà contro i “barbari medievali”, che erano barbari non “per avere ignorato i classici, ma per non averli compresi nella verità della loro situazione storica”124. Posizione, questa, che importanti cultori di studi medievali contemporanei hanno messo profondamente in crisi propugnando una rinnovata idea di Medioevo come età della sperimentazione125 e dimostrando l’alto grado di sviluppo intellettuale raggiunto dalla cultura filosofica e letteraria del Medioevo126, contro un atteggiamento che si è consolidato anche nell’immaginario collettivo, oltreché in quello filosofico e storico-culturale: quello che vede nel Medioevo un altrove – sia esso negativo (la prospettiva umanistica) o positivo (la prospettiva romantica) – o una premessa. Come ricorda Sergi “nell’altrove negativo ci sono povertà, fame, pestilenze, disordine politico, soperchierie dei latifondisti sui contadini, superstizioni del popolo e corruzione del clero. Nell’altrove  Cfr., per una discussione particolareggiata delle molteplici interpretazioni dell’umanesimo e del rinascimento C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, pp. 3-25, in AA. VV, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino, Mondadori, Milano, 2002. Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, Laterza, Roma- Bari 1964. 124 E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 21. 125 Cfr., G. Sergi, L’idea di medioevo, pp. 3-41, in AA. VV, Storia medievale, Roma 1998; C. Azzara, Le civiltà del Medioevo, Introduzione, pp. 7-12, Il Muligno, Bologna, 2004. 126 Per un’analisi dettagliata delle interpretazioni dell’antirinascimento della rivolta dei medievisti, cfr., C. Vasoli, Il rinascimento tra mito e realtà storica, cit., soprattutto le pp. 18-22. ! 50!   positivo ci sono i tornei, la vita di corte, elfi e fate, cavalieri fedeli e principi magnanimi. Ma è anche discutibile l’uso del medioevo come generica premessa”127. Per introdurre il discorso decostruttivo grassiano faremo riferimento innanzitutto alle interpretazioni messe in discussione dal pensatore milanese, soffermandoci in particolare sulla figura di Cartesio e infine sul capo di imputazione principe – Heidegger – e sul significato che la riflessione sull’umanesimo riveste nell’ambito dell’onto-antropo-logia grassiana. II. II. Che cos’è l’umanesimo? Grassi parte dal quesito: “che cosa significa umanesimo?” e risponde individuando la genesi del termine nell’ambito politico: “questo termine nasce per la prima volta in Italia nel XIV secolo e lo troviamo negli scritti politici di Coluccio Salutati, il primo segretario politico di Firenze”128. La domanda è il punto di partenza di un saggio scritto in occasione di una conferenza tenuta nel 1938 durante la seduta della Klopstock Gesellschaft a Quedlinburg, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition des Humanismus, rifluito insieme ad un altro saggio, Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition, in Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen Tradition Italiens. Per Grassi durante l’epoca umanistica si esprime per la prima volta un nuovo atteggiamento dell’uomo verso il mondo, si tratta del passaggio dall’“uomo greco”, a quello medievale”, per finire con l’“uomo del Rinascimento”. Una linea evolutiva che può essere condensata nelle note ed efficaci immagini proposte da Vernant, Le Goff e Garin: la transizione dall’uomo guerriero di Omero all’uomo politico di Aristotele129, all’homo viator e penitente130 e all’uomo moderno131. Cfr., G. Sergi, op., cit., p. 5. 128 E. Grassi, Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, pp. 777- 802, in Id., Primi Scritti 1922-1946, cit., p. 780. 129 Cfr., J. P. Vernant, Introduzione, in Id., (a cura di), L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 3-23. 130 Cfr., J. Le Goff, L’uomo medievale, in Id., (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-38. 131 Cfr., E. Garin, L’uomo del Rinascimento, in Id., (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-12.  ! 51!  Per quanto sia discutibile l’ipotesi grassiana di una frattura così radicale tra due visioni del mondo occorre sottolineare che egli riproporrà in tutti i suoi scritti tale dicotomia non tematizzando estesamente la plausibilità del presunto iato storico-culturale: ovviamente Medioevo e Rinascimento non sono entità metafisiche e monolitiche chiuse e incomunicabili, ma soprattutto Medioevo e Antichità greco-romana, spesso da Grassi accomunate in un disegno sintetico, non sono sovrapponibili nella difesa del principio di trascendenza. Eppure è lo stesso pensatore a riconoscere lo stato quantomeno problematico di un’impostazione di questo tipo come è possibile leggere nel saggio su Machiavelli del 1924, e nelle pagine di Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico del 1932 in cui si afferma: “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella rinnovata posizione delle medesime domande?”132. Tali riserve espresse con convinzione tuttavia non impediranno a Grassi di assumere una prospettiva teorica di forte impianto idealistico che pone la questione in termini di slittamento dall’ipotesi trascendente a quella immanente. Secondo il filosofo ciò che è in gioco con l’Umanesimo è una questione che da una visione contraddistinta dall’astrattezza e dall’universalità passa ad una concezione della finitezza umana in cui il telos è avvertito come un aspetto positivo e non come una mancanza: “pertanto, in Italia, l’umanesimo doveva nascere anzitutto come concezione e affermazione politica; perché tutta la storia, l’arte, la filosofia e la lingua dell’antichità spingevano qui alla realizzazione di un nuovo mondo storico “Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno. Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella rinnovata posizione delle medesime domande?”, Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., Primi scritti, cit., p. 259. 133 Ivi, p. 781.  ! 52!  Infatti, per Grassi lo sviluppo dell’uomo nelle sue estreme possibilità accade innanzitutto nel contesto, nell’apertura originaria, che è un’apertura comunitaria, nella quale soltanto l’essere umano può istituire nessi e relazioni con il contesto circostante, può stare al mondo in una relazione che è innanzitutto comprendente: si tratta di comprendere e di cogliere le molteplici forme dell’essere e del suo apparire che ritroviamo soprattutto nella parola poetica, prima che nella parola logica. La valutazione autentica dell’Umanesimo sarà possibile allora solo tenendo conto dell’aporia ineludibile che il problema dell’umano ci pone dinanzi e consentirà di elaborare quel filosofare noetico non metafisico che tenta di tenere insieme l’ontologia e l’antropologia senza chiuderle in un orizzonte logico ma immettendole nel mondo metaforologico: si tratta della coniugazione “inaudita” che Grassi cerca di realizzare lungo tutto il suo percorso filosofico, dalle riflessioni sulla manifestatività in Dell’apparire e dell’essere e Il problema del logo degli anni Trenta, a quelle sulla dimensione patica dell’esperienza dell’originario in L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario e Il reale come passione e l’esperienza della filosofia degli anni Quaranta, per finire con gli scritti sul valore della metafora e del pensiero noetico non metafisico. Lo scopo dell’interrogazione sull’umanesimo come epoca storica determinata e come proposta di una rinnovata visione del mondo è dominata dall’esigenza di “un indicare a partire dal destino, dalla necessità entro la quale appaiono gli enti, e non da una loro astratta definizione. Ora lo studio di questa problematica compete a un sapere particolare che dobbiamo chiamare ontologia, distinguendola dalla metafisica tradizionale e intendendo con questo termine il rapporto che lega gli enti in situazione all’origine comune che li attraversa e perciò insieme li unifica e differenzia: ontologia non logica ma situazionale”134, ontologia noetica e non metafisica, e pertanto metaforologica, in cui l’ente appare solo nella parola umana che costruisce universi di senso. La critica di Grassi si appunta innanzitutto contro l’assolutizzazione di un aspetto particolare della filosofia quattro-cinquescentesca: il precorrimento di quegli elementi della modernità che nell’Umanesimo troverebbero una infanzia primitiva. Tale posizione se, da un lato, può sembrare a  Id., Il problema della morte: l’Alcesti di Euripide. Filosofare noetico non metafisico. Vico, in E. Grassi-E. Hidalgo- Serna, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo Editore, 1991, Galatina, p. 30.  ! 53!  prima vista contraddittoria rispetto all’ipotesi interpretativa esposta nel saggio del 1924 – in cui la centralità di Machiavelli è ribadita proprio all’insegna della veste moderna che le riflessioni del fiorentino assumono – dall’altro, trova una spiegazione se la critica che va conducendo Grassi a certi luoghi del moderno viene inserita nel contesto più generale di una messa in questione della supremazia che l’ambito logico-gnoseologico assume nelle opzioni storiografiche analizzate. Si tratta di una messa in discussione dello stesso concetto di ragione e di logos, che non enuncia un congedo dalla ricerca filosofica – che cerca di istituire una relazione comprendente tra uomo e mondo – per mettersi sulla china dell’irrazionalismo, ma palesa, al contrario, l’esigenza di costruire o ritrovare una ragione complessa e ampia nella quale momento patico e logico trovano una ricomposizione nell’unità dell’esperienza individuale e vissuta. In Filosofia dell’umanesimo: un problema epocale Grassi passa in rassegna diverse tappe interpretative rifiutate per una sostanziale misinterpretazione dell’Umanesimo. Il testo, che si pone in linea di continuità con il saggio L’inizio del pensiero moderno, ha un primo scoglio da superare. Il macigno che pesa, intollerabile, sul cuore del filosofo è Heidegger e liberarsi da questo fardello è il compito verso cui il pensiero di Grassi sarà rivolto sviluppando le problematiche degli scritti onto- antropo-logici di Grassi: Macht der Phantasie 1979; Macht des Bildes 1970; Rhetoric as Philosofy 1980; Heidegger and the question of renaissance Humanismus 1983 e in ultimo aggiungiamo, sebbene nell’elenco stilato direttamente da Grassi non fosse annoverato135, Vico e l’Umanesimo136. Quale è l’idea di Umanesimo che Heidegger offre all’attenzione del suo allievo eterodosso? Prima di rispondere a questa domanda, analizzeremo di seguito le nove posizioni “inautentiche” proposte da Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale. Sullo sfondo della polemica diretta contro precisi personaggi abbiamo anche la censura al pensiero della filosofia analitica di cui, almeno in questo  La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 29. 136 Ovviamente Grassi non poteva annoverare questa opera perché essa vedrà la pubblicazione nel 1990 in lingua inglese. Si tratta di una raccolta di saggi che coprono circa due decadi di riflessione filosofica, dal 1969 al 1985 e che comprendono i testi americani di Grassi. Cfr, D. P. Verene, Prefazione a E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp. 19-24. Il testo è pubblicato in lingua inglese due anni prima con il titolo Vico and Humanism. Essays on Vico, Heidegger and Rhetoric, Peter Lang publishing, New York, 1990.  ! 54!  luogo, Grassi non esplicita i rappresentati. Più chiarezza è rintracciabile in altri testi, come Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, in cui è esplicito il riferimento polemico a Wittgenstein, portavoce dell’impostazione scientifica del pensiero e autore di quel Tractatus logico-philosophicus che riduce il mondo alla triade: dire, mostrare, tacere137. Come è noto i sette Sätze del Tractatus si chiudono con la nota proposizione: “ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”138. Affermazione, questa, da cui traspare per il pensatore italiano un’attenzione esclusiva al piano denotativo del linguaggio che riduce il logos a tecnica di formalizzazione, a calcolo scientifico in cui l’uomo e la sua storia travagliata scompaiono. Afferma Grassi che “è considerato scientifico quel pensiero che procede nella struttura di un processo razionale, cioè nella sfera della dimostrazione. Nella teoria logica moderna questa tesi è portata avanti in modo significativo nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein [...] al di fuori del mondo simbolico del sistema abbiamo solo silenzio e mistero”139. Dalla prospettiva grassiana nell’orizzonte wittgensteiniano della filosofia l’unico linguaggio accettabile è quello del calcolo, della formalizzazione, della logica che esclude dall’orizzonte di significatività la dimensione retorica del logos ordinario – che esprime il sensus communis – e del logos patetico della poesia. Eppure Wittgenstein riabilita in qualche modo il livello connotativo del linguaggio, quella dimensione del mistico e dell’etico, relegati nel Tractatus nell’ambito del silenzio, attraverso la riflessione che si condensa nelle Ricerche filosofiche. Grassi non prende in considerazione la riflessione wittgensteiniana contenuta in questo testo, che possiamo definire come una sorta di drammatizzazione di una lotta, quella di Wittgenstein contro se stesso, contro il se stesso di un tempo, quello del Tractatus. Afferma Wittgenstein che “questo chiedere [il nome degli oggetti] e il suo correlato, la definizione ostensiva, costituiscono, potremmo dire, un gioco linguistico a sé. Ciò  Cfr., L. Perissinotto, Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 2003. 138 L. Wittgen stein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, proposizione 7. 139 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 35.  ! 55!  vuol dire propriamente: veniamo educati, addestrati a chiedere “come si chiama questo?” – e a ciò segue la denominazione dell’oggetto”140. La definizione allora appare come un particolare gioco linguistico che non si identifica sic et simpliciter con l’atto originariamente istitutivo del linguaggio. L’origine del gioco linguistico è una “reazione” sulla base della quale possono innestarsi le forme più raffinate di linguaggio. Esso inoltre non si origina dalla riflessione ma è una porzione141 del gioco linguistico. Colpevole142 di aver escluso “dall’ambito della filosofia le discipline umanistiche (filologia, storia, poesia e retorica)”143, che non consentono di rendere chiaro e distinto il linguaggio filosofico ma al contrario lo oscurano, il Cartesio di Grassi diviene un altro bersaglio polemico. La critica è diretta alle affermazioni contenute negli scritti cartesiani Regulae ad directionem ingenii (Regola III) pubblicate postume nel 1701144 e al Discorso sul metodo (I libro) del 1637. La III regola cartesiana delle Regulae recita: “riguardo agli oggetti da trattare si deve fare ricerca non di ciò che altri ne abbiano opinato o di ciò che noi stessi congetturiamo, bensì di ciò che da noi stessi si possa intuire con chiarezza ed evidenza, e dedurre con certezza; poiché solo così si acquista scienza”145. Secondo Grassi in questo passo si afferma che il ricorso all’esempio degli Antiqui è un escamotage del tutto empirico, mnemonico, che produce storia, mai scienza. Questa si costituisce a un livello differente, nella trasparenza dell’intrinseca dinamica dei nostri processi cognitivi, come emerge dalla riflessione matematica. Secondo Grassi l’emarginazione dell’esperienza, lo svuotamento di senso scientifico della tradizione proposti da Cartesio sono riconducibili alla generale impostazione che muove dal paradigma matematico. In questo orizzonte di ricerca è esclusa ogni forma di congettura probabile,  Id., Ricerche filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, I, § 27. 141 Id., Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 391. 142 E. Grassi, La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, cit., pp. 31-32. 143 Ivi, p. 31. 144 La stesura delle Regulae risale agli anni compresi tra il 1625 e il 1629. Sulla questione della datazione delle Regulae cfr., G. Mori, Cartesio, Roma 2010, pp. 37-38. 145 Cartesio, Regole per la guida dell’intelligenza, tr. it. di G. Galli, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, p. 21.  ! 56!  che pretenda di mescolarsi e assimilarsi sulla base dell’abitudine a conoscenze certe e evidenti. La stessa valutazione dei saperi umanistici compare in I principi della filosofia. Qui il filosofo afferma che “se desideriamo consacrarci seriamente allo studio della filosofia e alla ricerca di tutte le verità che siamo capaci di conoscere, ci libereremo in primo luogo di tutti i pregiudizi, e faremo conto di respingere tutte le opinioni da noi un tempo accolte in nostra credenza, finché non le abbiamo esaminate da capo. Faremo in seguito una rassegna delle nozioni che sono in noi, e non raccoglieremo per vere se non quelle che si presenteranno chiaramente e distintamente al nostro intelletto”146. La scienza, così, è in ultima analisi tale nella misura in cui si concentra rigorosamente su ciò che non può essere intaccato dal dubbio. Inoltre, nel primo libro del Discorso, nell’ambito dell’esposizione del proprio iter autobiografico, Cartesio rende manifesta l’insoddisfazione verso quei saperi, gli studia humanitatis ai quali si era tanto dedicato durante gli anni della formazione a La Flèche, insofferenza dovuta agli inestirpabili dubbi ed errori che quelle discipline per il loro oggetto e metodo intrinseco non potevano non contenere. La critica a quei saperi, che spinge Cartesio a dire che leggere i libri antichi è come viaggiare e conversare con uomini di altri secoli147, dimenticando ciò che caratterizza il tempo presente, trova il suo esito più compiuto nella difesa della mathesis universalis, del nuovo metodo, della scienza nuova che unisce matematica, logica, geometria seguendo lo schema tetravalente di evidenza, divisione, ordine ed enumerazione. Da questo tipo di impostazione del discorso filosofico, matematizzante e logicizzante, occorre liberarsi per Grassi che afferma, con tono polemico in riferimento a Cartesio, che “egli rinfaccia alla retorica – disciplina fondamentale per gli umanisti – di turbare, influenzando l’emotività degli uditori, la chiarezza e la coerenza del pensiero razionale, deduttivo. Egli rifiuta pure la validità del senso comune, giacchè solo il rigore logico è garanzia del filosofare” Cartesio, I principi dellafilosofia, p. 64, in Id., Opere, Vol. III, tr. it. a cura di A. Tilgher e M. Garin, Laterza, Roma- Bari 2005. 147Id., Discorso sul metodo, tr. it. di M. Garin, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, cit., p. 295, “Conversare con gli uomini di altri tempi è quasi come viaggiare [...] ma se si passa troppo tempo a viaggiare, si finisce col diventare stranieri nel proprio paese; e quando si è troppo curiosi delle cose che avvenivano nei secoli passati, si resta per lo più molto all’oscuro di quel che si fa al giorno d’oggi”. 148 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 32. ! 57!   Vorremmo sottolineare tuttavia che il filosofo italiano non tiene conto di una certa riabilitazione da parte di Cartesio dei concetti di verosimile, tradizione e pregiudizio nell’ambito della riflessione morale, come si evince dal Discorso, dai Principi e dalle Passioni dell’anima, oltre che dalla corrispondenza. Secondo la nostra interpretazione ciò accade per diversi ordini di ragioni: innanzitutto incide l’impostazione idealistica che Grassi riceve negli anni di apprendistato alla Cattolica, per cui l’inizio del moderno e la nascita del soggetto avrebbero in Cartesio un punto di partenza fuori discussione149; inoltre, l’impostazione heideggeriana che, come è noto, si concentra molto sulla critica a Cartesio, interpretato come colui che avrebbe compiutamente formalizzato un passaggio cruciale nella storia della metafisica, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo150, poiché l’uomo diventa subiectum151, il fondamento e la misura di ogni certezza e verità. In Il nichilismo europeo si asserisce che “la tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”152: tale metodo è il cogito e le sue strutture. Infine la forzatura grassiana della contrapposizione Cartesio/Vico è finalizzata a delineare una nuova via d’accesso alla filosofia le cui radici storico-culturali egli rintraccia nell’Umanesimo di matrice latina e mediterranea in senso lato. Ritornando a Cartesio e agli aspetti meno teoreticisti del suo pensiero, tralasciati da Grassi, possiamo prendere come riferimento il significato della nota metafora della casa153 del Discorso che  “Devo richiamare alla mente la situazione filosofica della filosofia italiana negli anni ’20, periodo in cui compii i miei studi. A quell’epoca la filosofia hegeliana predominava in Italia grazie a Croce e Gentile ed era stata introdotta fin dalla fine del XIX secolo da Bertrando Spaventa”, E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 31. 150 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003, p. 158. 151 Ivi, p. 168. 152 Ivi, p. 169. 153 “Prima di cominciare a ricostruire la casa da abitare, non basta demolirla e provvedersi di materiali e architetti, o impegnarsi personalmente nell’architettura, e averne tracciato inoltre un accurato progetto; bisogna essersi procurati un altro alloggio dove si possa dove si possa stare comodi nel corso dei lavori; allo stesso modo, per non restare indeciso ! 58!   vuole comunicarci la necessità di prendere delle posizioni in ambito morale: ciò che assolutamente era precluso in sede di conoscenza, ossia il fare affidamento ai pregiudizi e a ciò che sembra ragionevole e sensato, seppure privo di certezza assoluta, è consentito in ambito morale: “tuttavia si deve notare che io non intendo che noi ci serviamo d’una maniera di dubitare così generale, se non quando cominciamo ad applicarci alla contemplazione della verità. Poiché è certo che, in quel che riguarda la condotta della nostra vita, noi siamo obbligati a seguire bene spesso delle opinioni che non sono che verosimili [...] la ragione vuole che ne scegliamo una, e che, dopo averla scelta, la seguiamo costantemente, come se l’avessimo giudicata certissima”154. Il concetto cartesiano di sagesse humaine è bivalente: ha una valenza teoretica e pratica, e la nozione di bona mens, cui fanno capo tutte le scienze, è quel sapere del vero e del falso grazie al quale l’uomo riesce ad orientarsi nella vita. Inoltre già nel cogito abbiamo una co-determinazione da parte del volere, fattore costituente dell’atto di giudizio: “con la parola pensiero, io intendo tutto quel che accade in noi [...] non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che pensare”155. Del resto lo stesso Grassi riconosce la portata più ampia del cogito cartesiano nel contesto dell’analisi del metodo portata avanti nel saggio Dell’apparire e dell’essere. Il pensatore milanese afferma che “la metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente intenda con “cogitare”. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un momento”156. Se l’atto del cogito non è solo un atto logico, ma anche di sensazione, immaginazione, volontà, per Grassi si profila il problema del rapporto e della distinzione che passa tra queste forme nel processo di manifestazione dell’essere157. Ancora più discordante rispetto all’interpretazione di Cartesio esposta negli scritti maturi è l’affermazione presente in L’inizio del pensiero moderno. Della passione  nelle mie azioni mentre la ragione mi obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non smettere perciò di vivere quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria, riconducibile a tre o quattro massime sole”, Cartesio, Discorso, cit., pp. 305-306. 154 Id., I principi della filosofia, cit., p. 22.  Ivi, p. 25. 156 E. Grassi, Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 289. 157 Ivi.  ! 59!  e dell’esperienza dell’originario in cui il cogito – a cui precedentemente già era stato riconosciuto quel carattere elenchico-costrittivo158 che successivamente andrà a connotare il concetto di principio del filosofare noetico-non metafisico – è concepito nella sua intima connessione con il dubbio come espressione dell’urgenza e dell’impellenza dell’essere. Asserisce il filosofo che il cogito inteso come mentis inspectio non “significa qui rivolgere lo sguardo a qualcosa di oggettuale; piuttosto il vedere dell’inspectio coincide con questo soggiacere al dubbio e seguirlo fino al punto in cui si rivela l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende possibile [...] di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra come il vero fondamento del sapere”159. La posta in gioco che emerge è quella del riconoscimento della priorità della manifestatività dell’essere quale fulcro tematico della filosofia. Il reale come punto di partenza della riflessione comporta una ricerca sul metodo, sulle vie di accesso, che per Grassi – questa volta non in opposizione ma in linea con Cartesio – ci pone di fronte ad una molteplicità di forme che sono in un rapporto di intima co-appartenenza. Nelle riflessioni appena ricordate traspare un’immagine di Cartesio più articolata rispetto alla semplicistica riduzione caratterizzante gli scritti tardi che si condensa nella opposizione Vico /Cartesio (pensiero topico e pensiero critico) e che sorregge anche l’idea grassiana della presenza di un cartesianesimo razionalistico nella prospettiva hegeliana. Hegel160 avrebbe riproposto una visione dell’umanesimo sostanzialmente negativa e l’opera che Grassi prende in considerazione è Lezioni di storia della filosofia in cui l’Umanesimo appare come una filosofia volgarizzatrice e non speculativa, che non realizza in modo adeguato l’idea ma si ferma all’ambito della fantasia e dell’arte, e le cui radici ciceroniane, sono fortemente criticate. Secondo il pensatore milanese “Hegel accusa la filosofia degli autori latini, ai quali fa riferimento l’Umanesimo, di essere  Ivi, pp. 286-287. 159 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I Primi scritti, cit., pp. 817-818. 160 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., pp. 32-33.  ! 60!  volgarizzatrice (eine Populärphilosophie) o non speculativa. Egli rifiuta la tesi che lo sviluppo del diritto romano abbia un valore filosofico”161. Nell’ambito della definizione del concetto di filosofia e delle due sfere affini ad essa, la scienza e la religione, Hegel fa riferimento alla filosofia popolare: “sembra che vi sia un terzo momento che congiunge i due suddetti – momento soggettivo e formale della scienza e momento oggettivo in forma figurata o storica della religione –: cioè la filosofia popolare. Essa si occupa di argomenti universali, filosofeggia su Dio e sul mondo [...] però anche questa filosofia dobbiamo lasciarla da parte. Ad essa si devono ascrivere gli scritti di Cicerone”162. Lo stesso Cicerone, al quale Montesquieu avrebbe voluto assomigliare163, recentemente definito come l’esponente dell’umanesimo universalista164 è al centro anche delle riflessioni dello storico Mommsen – come ricorda Grassi nel catalogo delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo165 – che lo valuta come “l’impiastricciafogli dallo stile giornalistico”166. Altra “vittima” degli strali di Grassi è il romanista Curtius, annoverato tra coloro che riducono il caso della filosofia umanistica a mero esempio di “esercitazione stilistica”167. Nell’elenco compaiono anche Cassirer, Apel, Kristeller e Jaeger. Dell’interpretazione di Cassirer per Grassi è inaccettabile o perlomeno fuorviante il punto di partenza: ricondurre il pensiero filosofico sotto l’egida del problema della conoscenza non consente di rintracciare nell’età dell’umanesimo alcuna innovazione  Ivi, p. 32. 162 G. W. F. Hegel, Introduzione alla storia della filosofia, introduzione di L. Pareyson, tr. it. di A. Plebe, Laterza, Roma- Bari 1987, p. 132. 163 Montesquieu, Discorso su Cicerone, in P. Ciaravolo (a cura di), La personalità filosofica di Marco Tullio Cicerone, Aracne, Roma 2007, pp. 7-8: “il primo, presso i romani, che ha tolto la filosofia dalle mani dei dotti e l’abbia liberata dall’intralcio di una lingua straniera. Egli l’ha resa comune a tutti gli uomini, come la ragione, e nel plauso che ne ha ricevuto i letterati si sono trovati d’accordo con la gente comune. Io non sono in grado di ammirare abbastanza la profondità dei suoi ragionamenti in un tempo in cui i saggi non si distinguevano che per bizzarria dei loro vestiti. Vorrei soltanto che fosse venuto in un secolo più illuminato e che avesse aiutato a scoprire la verità”. 164 Uso l’espressione di L. Battaglia contenuta in Le virtù moderne di Cicerone. Appunti sulle Tusculanae disputationes, pp. 157-169, in P. Ciaravolo, op., cit., p. 157. 165 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 34. 166 T. Mommsen, Storia antica di Roma antica, Sansoni, Firenze, 1963, p. 1275. 167 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 34.  ! 61!  significativa168. I testi citati polemicamente da Grassi sono Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento e Storia della filosofia moderna. Il filosofo tedesco, di formazione neokantiana, si occupò intensamente dei problemi matematici e fisici della modernità, e la predilezione per alcuni autori, quali Galilei, Keplero, Newton, Cartesio, Spinoza e Leibniz, ci fa comprendere quanto potesse valere nel tragitto filosofico tracciato da Cassirer il ruolo affidato all’umanesimo. Secondo Grassi per Cassirer “laddove nell’Umanesimo filologia e filosofia si congiungono, non si giunge nella filosofia a nessuna vera innovazione nel metodo”169. Se prendiamo in considerazione il testo Dall’Umanesimo all’Illuminismo, che fu pubblicato postumo nel 1967 e che raccoglie i contributi cassireriani sulla storia del pensiero occidentale dall’Umanesimo all’Illuminismo, ci troveremo di fronte a pagine di considerazione scarsa circa lo spessore filosofico dell’Umanesimo. Nel saggio La posizione del Ficino nella storia del pensiero – recensione al libro di Kristeller La filosofia di Marsilio Ficino – Cassirer afferma: “alle sue origini e per il suo scopo principale l’umanesimo non può dirsi un movimento filosofico. Tra gli umanisti più noti non troviamo grandi pensatori veramente indipendenti. Il loro interesse era l’erudizione e la letteratura, non la filosofia”170. L’unica importanza dell’Umanesimo e del Rinascimento sarebbe la mutazione della dinamica delle idee171 e lo slittamento dal particolare all’universale172. In questa fase la riflessione sui principi della conoscenza non ha trovato ancora un motivo cosciente173 e la filosofia sembra avere una efficacia limitata174. E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze 1963. 169 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 34. 170 E. Cassirer, Il Ficino nella storia del pensiero, in Id., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, a cura di P. O. Kristeller, tr. it. a cura di f. Federici, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 36. 171 Id., L’originalità del Rinascimento, in Id., Dall’Umanesimo all’Illuminismo, cit., p. 11. 172 Ivi, p. 8. 173 Id., Storia della filosofia moderna, Vol. I, Dall’umanesimo alla scuola cartesiana, Tomo I, La rinascita del problema della conoscenza, tr. it. di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1978, p. 100. 174 Ivi, pp. 97-98.  ! 62!  Sembra trovare una parziale giustificazione allora la critica grassiana rivolta al pensatore tedesco: Cassirer “preoccupato di rintracciare nella tradizione umanistica ciò che per lui costituisce l’essenza della filosofia – ovvero il problema della conoscenza – dovette ammettere di rilevarne solo poche tracce”175 nell’Umanesimo. Ma si tratta di una critica solo in parte condivisibile poiché Grassi e Cassirer non sembrano tanto lontani nella comune attenzione rivolta verso il mondo del simbolico. Nonostante questo punto di contatto Grassi pone una netta differenza tra la sua teoria di una logica della fantasia e quella cassireriana delle forme simboliche176. Afferma Grassi che “sarebbe un errore e un fraintendimento molto grave interpretare Vico come se la logica della fantasia fosse limitata a una pura logica di forme simboliche, per esempio nel senso di Ernesto Cassirer”177. Il filosofo tedesco, in particolare all’interno dell’opera Filosofia delle forme simboliche (1923-29), analizza la funzione del mito, inteso come originaria “forma di vita”, essenziale per la scoperta e la comprensione del mondo storico. Le produzioni mitiche prendono evidentemente origine dall’immaginazione, anche se il filosofo non si sofferma sulla relazione specifica tra mito e immaginazione, bensì insiste sulla relazione tra mito e immagine. Quest’ultima ha una funzione più importante del mero segno in quanto, secondo il filosofo, l’immagine conterrebbe l’essenza stessa delle cose: “l’immagine, espressione di un fenomeno, non ha un semplice carattere di rappresentazione, che indica qualcosa di oggettivo al di là di essa, ma in essa si dà per noi qualcosa di reale, in essa qualcosa di demonicamente vivente viene colto e posto dinanzi a noi in piena presenza”178. Dal passo sopra citato emerge la ricerca di una struttura originaria che permetta la rielaborazione dei processi storici dell’uomo dei tempi antichi, a partire dalle sue creazioni mitico-simboliche.  E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. 176 Id., La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 56 177 Ivi, pp. 56-57. 178 Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Arnaud, La nuova Italia, Firenze 1967, p. 30.  ! 63!  Queste strutture non hanno una funzione solamente comunicativa ma agiscono da mezzo col quale si determina la compiutezza dei loro contenuti. A partire da questa premessa dobbiamo considerare il mito, la religione, il linguaggio non come forme di dominio sul mondo, bensì come forme essenziali per la scoperta del mondo storico dell’uomo. La formazione simbolica costituisce così il medium tra l’elemento trascendentale e il mondo storico-reale. La funzione di sintesi, affidata alla formazione simbolica, diviene fondamentale strumento di concezione della storia che vuole liberarsi da una visione assolutistica e assoluta o da qualsiasi riduzionismo empirico- descrittivo. Scrive Cassirer in Saggio sull’uomo: “per semplice che esso possa sembrare, ogni fatto storico può venire determinato solamente in base ad una preliminare analisi di simboli. La prima e più immediata materia della conoscenza storica non è costituita da cose e da avvenimenti, bensì da documenti e monumenti. Soltanto grazie alla mediazione e con l’introduzione di questi dati simbolici si può avere una idea della realtà storica, degli avvenimenti e degli uomini del passato”179. Riprendendo la teoria vichiana del mondo storico come creazione dell’uomo, aggiunge: “in nessun altro campo, la mente dell’uomo è più vicina a se stessa che nella storia. Non il mondo fisico, ma il mondo storico è creato dall’uomo, e dipende dalle sue facoltà [...] Il campo di studio elettivo dell’uomo non è dunque il mondo matematico né quello fisico, ma il mondo storico, la società civile. Quel che Vico chiede è una filosofia della civiltà: una filosofia la quale sveli e spieghi le leggi fondamentali che governano il corso generale della storia e lo sviluppo della cultura umana”180. Se non sapessimo che è Cassirer l’autore potremmo pensare che questo passo esce direttamente dalla penna del Grassi autore di Vico e l’umanesimo. Per entrambi i filosofi i linguaggi del mito e della fantasia permettono agli studiosi moderni di comprendere la coscienza storica dell’umanità. Il mito è una forma comunicativa, espressiva e esplicativa di eventi e fenomeni e va ben oltre una Id., Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umna, a cura di Carlo d’Altavilla, Armando, Roma 2009, pp. 296-297. 180 Id., Desartes, Leibniz e Vico, in Id., Simbolo, mito e cultura, a cura di D. P. Verene, tr. it. di G. Ferrara, Laterza, Roma- Bari 1981, p. 111-112  ! 64! rappresentazione illusoria che nasconde il vero stato delle cose. Il Cassirer lettore di Vico mostra non pochi punti di contatto con Grassi che del filosofo napoletano sottolinea proprio la priorità di quegli ambiti mitici, poetici, simbolici, fantastici su cui il filosofo delle forme simboliche a lungo si è soffermato. Se Grassi esplicitamente menziona la presenza di una logica della fantasia in Vico – in cui “il concetto fantastico e immaginativo [...] cristallizza un essere attraverso l’atto dell’ingegno, con una visione diretta di una totalità pittorica”181 –, Cassirer si riferisce a Vico indicandolo come il creatore di una logica dell’immaginazione: “l’umanità, secondo lui, non poteva cominciare con il pensiero astratto e il linguaggio razionale. Dovette passare per lo stato del linguaggio simbolico, del mito e della poesia. I primi popoli non avrebbero pensato in concetti ma in immagini poetiche [...] in realtà il mondo in cui vive sia il poeta che il foggiatore di miti sembra essere lo stesso. L’uno e l’altro sono dotati dello stesso potere fondamentale, del potere di personificare. Non possono contemplare nessun oggetto senza dargli una vita interiore e una forma personalizzata”182. La breve sosta sulla filosofia cassireriana ci ha consentito di istituire un interessante confronto Grassi-Cassirer che ha come scopo quello di mettere in luce un comune terreno di ricerca filosofica sugli ambiti del simbolico, del mitico, del poetico e del fantastico. Altri due autori inseriti dal filosofo milanese nell’elenco delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo sono Apel e Jaeger, entrambi colpevoli di aver misconosciuto l’essenza autentica dell’Umanesimo183. Per il pensatore italiano Apel “sostiene la tesi che gli umanisti nella loro disamina della logica scolastica usano un armamentario filosofico poverissimo sostituendo agli argomenti razionali asserzioni patetiche”184. Infatti Apel afferma che “da questa programmatica polemica d’un nuovo Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 54. 182 Saggio sull’uomo, cit., pp. 266-267. 183 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 35; Id., Il problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 209; Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, in Id., Primi scritti, cit., 255- 271; Id., Paideia e neoumanesimo, in Id., Primi scritti, cit., 357-369. 184 Id., La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. ! 65!   metodo gnoseologico, così come essa è caratteristica dell’epoca umanistica di passaggio fra scolastica e scienza moderna, non si potrà trarre una profonda intelligenza della logica formale (una sensibilità per il formalismo dell’astrazione logica, e quindi per le autentiche acquisizioni della logica da Aristotele in poi, fece difetto a tutti gli umanisti)”185. Dal suo canto Jaeger riconduce lo spessore dell’approccio umanista a mera prosecuzione degli ideali greco-romani186: secondo Jaeger le origini dell’umanesimo non sono rintracciabili nel pensiero degli umanisti italiani del Quattrocento. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo che “Jaeger dichiara che l’Umanesimo è solo la manifestazione di un particolare ideale culturale che ha per meta la formazione dell’uomo”187. Jaeger, infatti, asserisce in Paideia che “sin dalle prime tracce che abbiamo dei Greci, troviamo l’uomo al centro del loro pensiero. Gli dei antropomorfi, il predominio assoluto del problema della figura umana nella plastica greca e nella pittura stessa; il procedere conseguente della filosofia dal problema del cosmo a quello dell’uomo, nel quale culmina con Socrate, Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema inesauribile, da Omero in poi e per tutti i secoli seguenti, è l’uomo in tutta la estensione del termine; infine lo Stato greco, di cui comprende la natura solo chi lo intenda quale plasmatore dell’uomo e di tutta la sua esistenza: tutti questi sono raggi di un medesimo lume”. E aggiunge che si tratta di “manifestazioni di un sentimento umanistico della vita, che non trova ulteriori derivazioni o spiegazioni, e che compenetra ogni creazione dello spirito greco. I Greci furono così il popolo antropoplasta per eccellenza [...]. Siamo ora in grado di enunciare più precisamente che cosa costituisca l’originalità dei Greci [...]. La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io soggettivo, ma l’acquisita coscienza della legge universale della natura umana. Il principio spirituale dei Greci non è l’individualismo, bensì l’umanesimo” K. O. Apel, L’idea di lingua nella tradizione dell’Umanesimo da Dante a Vico, il Mulino, Bologna 1963, p. 292. 186 W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, tr. it. di L. Emery e A. Setti, Bompiani, Milano 2003. La concezione di Jaeger la paideia ha un ruolo prepolitico, intendendo l’attività educativa come punto di incontro tra antichità e presente. Secondo l’esponente del cosiddetto “terzo umanesimo”: “per l’età moderna, il concetto di umanesimo è legato alla relazione consapevole della nostra cultura con l’antichità. Ma questa non si fonda, a sua volta, se non sul fatto che la nostra idea della cultura universale dell’uomo ha colà, appunto, la sua origine storica. L’umanesimo, in questo senso, è sostanzialmente una creazione dei Greci”, ivi, p. 517. La paideia greca ha in effetti caratterizzato, per Jaeger, sia il Cristianesimo che il Rinascimento, in quanto il fine della stessa era la formazione di una umanità superiore. 187 Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit., p. 35. 188 Ivi, p. 14. I corsivi sono nostri.  ! 66!  Infine, nel catalogo grassiano degli pseudo-umanesimi compare la figura di Kristeller che secondo il pensatore italiano non avrebbe avuto attenzione per quell’umanesimo non platonico che al contrario egli cerca in gran parte della sua produzione di mettere in luce. Afferma Kristeller in Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento che “gli umanisti non erano filosofi di professione, e i loro scritti su diversi argomenti mancano della precisione terminologica e della consistenza logica che abbiamo il diritto di aspettarci da filosofi di professione [...] in altre parole, anche se potessimo ricostruire una filosofia coerente per un determinato umanista, non possiamo trovare una filosofia comune a tutti gli umanisti, e quindi non è possibile definire il loro contributo in termini di dottrine specificatamente filosofiche”189. Secondo Grassi Kristeller “al quale dobbiamo uno studio su Ficino e molte ricerche erudite sull’Umanesimo [...] valorizza il pensiero umanistico soprattutto nel ripensamento della tradizione platonica e neoplatonica”190. II. III. Il maestro degli anni mitici di Friburgo Il confronto grassiano con l’umanesimo non poteva non relazionarsi alla filosofia di Heidegger che contro l’umanismo si era espresso molte volte. Il testo La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale è significativamente dedicato alla memoria di Heidegger eletto da Grassi a suo maestro. Eppure Heidegger, come ricorda Grassi stesso, “ha negato radicalmente qualsiasi valore alla filosofia dell’umanesimo. Egli riconosce in tale tradizione l’ideale romano dell’affermazione dell’homo humanus, nobilitato grazie al concetto di paideia [...] afferma che la concezione umanistica non coglie l’essenza dell’uomo”191. P. O. Kristeller, Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento, tr. it. di A. Gargano, Bibliopolis, Napoli 1991, p. 90. Afferma Kristeller: “Diversamente dalle arti liberali del primo Medioevo gli Studia humanitatis non includevano la logica o il Quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica), e diversamente dalle Belle Arti del Settecento gli Studia humanitatis non comprendevano le arti figurative o la musica, la danza o l’arte dei giardini. Non comprendevano neppure le materie principali che si insegnavano alle università del tempo, cioè la teologia, la giurisprudenza o la medicina, o le materie filosofiche all’infuori dell’etica, cioè la logica, la filosofia naturale o la metafisica. In altre parole, diversamente da ciò che si è pensato molte volte, l’umanesimo non costituisce il sapere e pensare intero o completo del Rinascimento, ma soltanto un suo settore parziale, ben limitato, per quanto importante. L’umanesimo aveva il suo centro e la sua base negli Studia humanitatis. Le altre materie del sapere, compresa la filosofia (con l’eccezione della filosofia morale) avevano un loro sviluppo separato, che era in parte determinato dalla tradizione medievale, ma che fu poi lentamente trasformato da osservazioni, problemi e teorie nuove, trasformazione in cui anche l’umanesimo ebbe la sua parte, ma agendo piú che altro dall’esterno e indirettamente”, Id., L’umanesimo italiano del Rinascimento e il suo significato, tr. it. di A. Gargano, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 2005, p. 16. 190 E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo, cit. p. 35. 191 Ivi, pp. 35-36.  ! 67!  Dedicare un testo sull’umanesimo ad un anti-umanista sembra un’operazione quantomeno ardita poiché effettivamente Heidegger appare molto duro nei confronti di una tradizione culturale che avrebbe meritato, se non un giudizio differente, perlomeno una più attenta riflessione e analisi. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale: “il presente lavoro è dedicato alla memoria di Heidegger che è stato il mio maestro: anche il mio primo lavoro scientifico, iniziato negli anni 1929-1930 sotto la sua direzione e pubblicato nel 1932 (Il problema della metafisica platonica) fu dedicato proprio a lui”192. Il magistero filosofico di Heidegger e la sua negazione dell’importanza speculativa dell’umanesimo sollecitano nel giovane Grassi tematiche speculative che renderanno possibile la problematica sviluppata in “Macht der Phantasie (1979), in Macht des Bildes (1970), e nel volume Rhetoric as Philosophy (1980), ma anzitutto in Heidegger and the Question of Renaissance Humanismus (1983)”193. In Lettera sull’Umanismo Heidegger tende a precisare più volte l’aspetto non-umanistico del suo pensiero, che si configura come un’ontologia fenomenologica ed ermeneutica in cui l’uomo e il discorso sull’uomo sono funzionali alla ricerca ontologica. Egli si domanda se si possa qualificare il suo pensiero come umanismo, ma la risposta è negativa; e non può essere altrimenti se per umanismo si intende qualcosa di metafisico e di esistenziale. “L’umanismo pensa metafisicamente [...] esso è esistenzialismo e sostiene la tesi espressa da Sartre: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a seulment des hommes. Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a principalement l’Etre”194. La tesi alla quale Heidegger fa riferimento, come è noto, è espressa dal filosofo francese in L’esistenzialismo è un umanismo195, ed è inserita nel contesto della metafisica dell’umanismo che ! Ivi, p. 17. 193 Ivi, p. 29. 194 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it. A cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 61. 195J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1996, p. 40.  ! 68!  “non pone l’humanitas dell’uomo ad un livello abbastanza elevato”196. Una metafisica di questo tipo, che eleva l’uomo a soggetto despota dell’essere e dell’ente, non riesce, secondo Heidegger, a comprendere il legame dell’uomo e dell’essere, quell’ηθος che è il soggiorno dell’uomo197, la radura- Lichtung del mondo. C’è da dire che, stando all’auto-interpretazione heideggeriana, il suo pensiero non è né umanistico né inumano. Non è umanistico perché la questione fondamentale del suo pensiero è l’essere, la Lichtung, l’Ereignis. L’uomo, allora, verrebbe ridotto ad accidente periferico dell’essere? Umano e inumano sono concetti inadeguati per un pensiero che vuole andare oltre l’alternativa tra scienza e filosofia. Queste ultime sono per Heidegger sostanzialmente la stessa cosa. Dopo l’incontro di Grassi con Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta nera si profila quella tormentata e difficile rottura con il maestro destinata a non ricomporsi. La connessione istituita da Heidegger tra l’uomo greco e l’uomo tedesco tralascia l’umanesimo in quanto interpolazione romana- latina tra l’uomo greco e l’uomo tedesco, erede del greco; valutando negativamente anche il Rinascimento come renascentia romanitatis. Le radici di questa profonda avversione sono rintracciabili nel contesto più generale della critica alla metafisica che Heidegger conduce: “ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che presuppone già, sia consapevolmente sia inconsapevolmente, l’interpretazione dell’ente, senza porre la questione della verità dell’essere [...] nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione”198. Ogni umanismo in quanto tale è un’antropologia ontica che muove da un ente senza tenere conto del riferimento all’essere – il grande impensato della tradizione metafisica occidentale, rea di un doppio occultamento: il ritrarsi dell’essere (oblio come κρύπτεσθαι); oblio della ritrazione dell’essere (con l’imporsi della verità dell’ente e solo dell’ente). Pensare all’umanesimo antropocentrico e non attento  M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 56. 197 Ivi, p. 90. 198 M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., p. 43.  ! 69!  al nesso essere-uomo significa pensare innanzitutto a quell’uomo oggetto dell’orazione pichiana che accende un dibattito filosofico nel 1487, promosso proprio da Pico della Mirandola199, e che è dominata dalla centralità dell’uomo all’interno della realtà, peculiarità riconducibile all’essenza particolare del suo status ontologico. A differenza degli altri enti l’uomo è quell’ente che non ha una essenza specifica, una natura propria e definita, chiusa e circoscritta: “l’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uomo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà”200. Il problema posto da Heidegger circa lo statuto dell’umanesimo/umanismo non poteva lasciare indifferente Grassi che ritiene inaccettabili quelle affermazioni e che trova in Heidegger se non proprio un momento di svolta201, uno spunto teorico importante per il tentativo di risemantizzazione del concetto di umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “storicamente dobbiamo osservare che la definizione che Heidegger dà del pensiero occidentale (una metafisica razionale deduttiva che sorge e si sviluppa esclusivamente dal rapporto tra gli enti e il pensiero, cioè nel quadro della verità logica) non regge. Nella tradizione umanistica c’è sempre stata una preoccupazione cruciale circa il problema del disvelamento, dell’apertura, dove il Da-sein storico può fare la sua apparizione. Per questa ragione noi dobbiamo rivedere e rivalutare le categorie storiche che ancora guidano il nostro pensare”202. Occorre precisare, secondo Grassi, che accanto all’umanesimo ci sono gli pseudo umanesimi: la prospettiva onto-antropo-logica grassiana ha come scopo teorico proprio la chiarificazione del Cfr., E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 135. 200 Ivi, p. 136. 201 Parla di svolta riguardo all’incidenza di Lettera sull’umanismo di Heidegger nel pensiero di Grassi D. Di Cesare in Metafora e differenza ontologica. Grassi versus Heidegger?, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., p. 25: “la Lettera rappresenta pure, di riflesso, una svolta per Grassi, non solo nel confronto con Heidegger, ma anche nel proprio itinerario. La sua attesa è rimasta delusa: non vi è traccia, nella Lettera, di un ripensamento critico, o meglio autocritico, sul valore filosofico della tradizione latina e italiana, di quel che Grassi chiama Umanesimo [...] per Grassi si produce allora una difficile e tormentata rottura con Heidegger. Destinata a non ricomporsi, questa rottura costituirà però il vero e proprio avvio non solo e non tanto della sua originale interpretazione dell’Umanesimo, quanto di un’autonoma riflessione filosofica che ha al suo centro la metafora”. Dal nostro punto di vista, l’incontro a Todtnauberg tra Grassi eHeidegger, sebbene significativo, non costituisce una svolta. La prospettiva della studiosa non tiene conto delle affermazioni sull’umanesimo espresse da Grassi nella produzione giovanile. Infatti, la questione dell’umanesimo si pone già a partire dal saggio su Machiavelli del 1924, come abbiamo cercato di chiarire nel primo capitolo e nel ventennio che intercorre tra il 1924 e il 1946 Grassi ha già maturato le coordinate fondamentali del suo itinerario speculativo, in cui certamente Heidegger riveste un ruolo centrale ma tuttavia non esclusivo. 202 E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 38. ! 70!   significato filosofico dell’umanesimo. Non l’umanesimo storico, né quello politico sono al centro della sua riflessione, ma unicamente lo statuto speculativo di esso. In Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne lo studioso afferma: “sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico [...] che significato può dunque oggi avere un umanesimo?”203. Cercare di dare una risposta a questa domanda spinge Grassi a misurarsi con le questioni della tecnica, del metodo e dell’oggettività. Si tratta di accenni polemici che egli non discuterà a fondo e dettagliatamente ma che ci consentono di comprendere quanto fosse viva in lui la consapevolezza del declino di una visione globale dell’uomo e dell’emergere del disancoramento dalla realtà che le scienze naturali cercano di ridurre ma che al contrario contribuiscono ad espandere a dismisura: “qui nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo”204. L’approccio scientifico è per Grassi responsabile di quella trasmutazione del mondo vero in favola, di una de-realizzazione del reale, in seguito alla quale la realtà, la dimensione dell’oggettivo svaniscono, divenendo un’astratta costruzione: “la realtà che invece mediano le scienze naturali è un’astratta costruzione in quanto il risultato di un interrogare la realtà fenomenica in funzione a principi presupposti”205. Accanto a questa ricerca tecnico-scientifica dei principi c’è la ricerca filosofica che dischiude il tempo umano, il suo mondo storico, in cui motivi etici, politici ed etico religiosi si intrecciano indissolubilmente in quel contesto originario, nella dimensione pre-teoretica e pre-categoriale che l’analisi sulla Lichtung mette in luce. II.! IV. La pars construens del discorso grassiano: il lascito heideggeriano A questo punto abbiamo messo insieme una serie premesse teoriche che ci consentono di uscire dall’impasse in cui il coacervo delle interpretazioni analizzate da Grassi ci aveva condotti: esaminate Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, in AA. VV, Umanesimo e scienza politica. Atti del convegno internazionale di studi umanistici, a cura di E. Castelli, Roma- Firenze 1949, p. 202. 204 Ibidem. 205 Ibidem.  ! 71!  tutte le posizioni critiche rispetto alla tradizione storica dell’umanesimo italiano ci è consentito ora di individuare il nucleo attorno al quale la ricostruzione del suo senso autentico diviene possibile. Il percorso onto-antropo-logico di Grassi staziona a lungo presso il concetto di Lichtung, e non si tratta di un semplice omaggio al maestro dei “mitici anni friburghesi”. La co-appartenenza di umanesimo e Lichtung è fondativa della prospettiva onto-antropo-logica e costituisce, secondo il nostro punto di vista, il plesso teorico cardine su cui si innestano le riflessioni che successivamente avremo modo di analizzare: quella sull’ingegno e la fantasia; quella sulla metafora e la retorica. Prima di sciogliere i nodi del pensiero grassiano della Lichtung ripercorriamo brevemente la storia heideggeriana di questo concetto, ciò ci consentirà di mettere a fuoco lo sfondo su cui si staglia la particolare declinazione che della Lichtung offre Grassi. II. V La Lichtung in Heidegger Come ha sottolineato Amoroso quello della Lichtung heideggeriana è un esempio di etimologia per antifrasi come il latino lucus a non lucendo, dove il lucus, il boschetto sacro, viene fatto derivare per antifrasi da lucere, perché esso ha poca luce. La Lichtung ha tre rimandi principali: al luminoso (Licht e lux), all’oscuro (lucus), e al leggero (Leicht). Con il termine Lichtung non ci riferiamo ad una espressione metaforica per indicare ciò che si sottrae all’espressione razionale: siamo di fronte ad un fenomeno di base di cui fanno parte i domini spaziali e temporali dell’uomo e la sua capacità di creare corrispondenze ontologiche. Nel pensiero di Heidegger la concettualizzazione filosofica della Lichtung206 si dipana nell’arco di più di 35 anni di speculazione filosofica: dal ’27, anno di pubblicazione di Essere e Tempo al ’62, anno di  Resta ancora aperta tra i critici la questione di una possibile traduzione efficace del termine che conservi il senso filosofico originario senza andarne a ledere le relazioni morfologiche e foniche. Sono note le riserve etimologiche addotte da Cicero circa la traduzione di Lichtung con radura, che non renderebbe né l’affinità fonica e verbale con lux e Licht, né quella speculativa di orizzonte inapparente di ogni apparenza ontica. Altri modi di traduzione italiana come è noto sono quelli di Chiodi che traduce con illuminazione; di Caracciolo che rende con radura-luminosa; la traduzione di Vattimo è apertura-slargo; quella di Mazzarella e Volpi è radura; Amoroso traduce con luco; Marini con chiarita; Cicero usa il verbo lucare. Cfr., per una ricostruzione dei molteplici significati del termine Lichtung il fondamentale studio di L. Amoroso, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg&Sellier, Torino 1993. Per una ricostruzione etimologica dettagliata rimando a V. Cicero, Parole fondamentali di Heidegger ricorrenti in pensare e poetare, pp. 195-230, in M. Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, tr. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2010. Mi permetto di rinviare al mio Saggio sulla Lichtungsgeschichte in M. Heidegger, pp. 33-67, in “Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche”, Giannini, Napoli 2015.  ! 72!  pubblicazione di Tempo ed Essere, e oltre. Le sue molteplici “apparizioni testuali” hanno sensi e significati di volta in volta diversi, ma sempre interconnessi e riferiti alla problematica della ostensione della correlazione e coestensione di Da-Sein, Sein, e aletheia. Tale correlazione se nella prima fase di pensiero del filosofo è pensata più a partire dall’esserci e dall’analitica esistenziale, nella fase tarda, invece, è tematizzata a partire dal legame stesso, da quel plan di cui si asserisce l’identità con l’essere, come possiamo leggere a partire da Lettera sull’umanismo207. La Lichtung heideggeriana ha una articolazione pentavalente: (i) Da- sein, (ii) arte, (iii) mondo-spazio, (iv) verità e (v) nulla sono i poli con i quali la Lichtung si converte di volta in volta. (i) Nell’opera del ‘27 la Lichtung appare come Da-sein nel senso di Erschlossenheit208 con evidente correlazione all’immagine classica del lumen naturale, dunque alla luce. La caratteristica della non-chiusura o dell’apertura è correlata all’esserci e alle sue note distintive: la spazialità propria dell’esserci e la sua gettatezza intramondana – benchè si tratti di un’intramondanità trascendente in quanto l’uomo non sta mai al modo dell’ente semplicemente-presente ma esiste, è esposto alla radura dell’essere. Inoltre, l’Erschlossenheit è convertibile con l’ἀληθεύειν, perché ha una connotazione duale: aprente e aperta, distinguendosi, pertanto, dalla Entdecktheit, che contrassegna l’ente difforme dall’esserci. La semplice presenza ha come nota caratteristica quella di essere uno svelato che non può aprire un mondo di significati ma che si trova già sempre immerso in una totalità di appagatività. L’esserci, invece, ha una capacità di apertura che lo rende quell’essere che può scoprire, mentre la semplice-presenza è l’ente che può essere scoperto. Si tratta di comprendere il denso senso del Da-sein, che esprime sia il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto essenziale dell’uomo con l’apertura (il ci) dell’essere come tale.  “Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où il ya principalment l’Etre. Ma da dove proviene e che cos’è le plan? L’Etre e le plan sono lo stesso”, M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, cit., pp. 61-62. 208 L’Erschlossenheit fa la sua comparsa al § 28: “qui e là sono possibili solo in un “Ci”, cioè solo se esiste un ente che, in quanto essere del Ci, ha aperto la spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non chiusura. L’espressione “Ci” significa appunto questa apertura essenziale. Attraverso essa, questo ente (l’Esserci) “Ci” è per se stesso in una con l’esser-ci del mondo [...] che esso sia illuminato significa che è in se stesso aperto nella radura in quanto essere-nel-mondo, cioè non mediante un altro ente, ma in modo che esso stesso è la radura”, M. Heidegger, Essere e Tempo, tr. it., a cura di, Longanesi, Milano, p. 165.  ! 73!  (ii) La relazione tra Lichtung e arte emerge in L’origine dell’opera d’arte. Qui il termine radura è declinato come Offenheit209, come luogo aperto e possibilità stessa dei fenomeni. In quanto apertura essa è quell’accadere non solo del diradarsi ma anche del trattenere, dello svelamento e del nascondimento come si evince dalle pagine sulla lotta tra Welt e Erde o tra luogo e contrada in L’arte e lo spazio. L’arte ci conduce sul sentiero della verità, essa anzi è la messa in opera della verità dell’ente, il suo accadere e stanziarsi. Così viene declinata l’innovazione ontologica di cui è foriera l’opera d’arte: “l’opera d’arte, nel modo che le è proprio, fa insorger l’essere dell’ente. Nell’opera accade questo far insorgere, ossia: la verità [...] l’arte è il mettersi in opera della verità”210. Ciò che insorge è la dimensione ontologica della Lichtung quale contesto originario di senso. (iii) L’idea di Lichtung come mondo si collega al principio di manifestatività, ed è frutto della coniugazione della problematica trascendentale e della dottrina del mondo. L’io trascendentale e il soggetto mondano risultano coincidenti. Tale sovrapposizione tenta di superare l’incapsulamento del mondo nella coscienza e di dare risalto ad una idea di mondo come vero e proprio donatore di senso, come originaria dimensione costituente. Ciò che consente agli enti di manifestarsi va rintracciato nelle strutture della mondità e non in quelle del soggetto. Afferma il filosofo tedesco che “in Essere e Tempo la “cosa” non ha più il suo luogo nella coscienza, ma nel mondo”211, e ciò perché il mondo è la condizione di possibilità dell’esperienza, cioè, del rapportarsi dell’esserci all’ente212, costituendo l’accessibilità dell’ente. Sappiamo dall’analitica esistenziale che la spazialità dell’esserci è possibile solo sul fondamento dell’in-essere, insomma non è riconducibile all’ordinaria nozione dello spazio  Il termine Offenheit è impiegato soprattutto in riferimento al mondo e alla Lichtung. L’essere aperto e al contempo aprente contraddistingue la Welt come welten, come farsi-mondo. Il mondo, infatti, come l’opera d’arte è innanzitutto Stiftung: istituzione, donazione e fondazione le quali aprono alla dimensione dell’apparire dell’ente, facendo sì che l’ente “insorga” in quanto essente, assurgendo a dimensione della donazione di senso. 210 Id., L’origine dell’opera d’arte, p. 51. 211 Id., Seminari, tr. it. Di M. Bonola, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1992, p. 158. 212 Cfr., V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Urbino, Argalia, 1976.  ! 74!  omogeneo naturale213. Inoltre, risulta impraticabile la deduzione dello spazio dal tempo, poiché spazio e tempo sono fenomeni originari, anzi, cooriginari. Essi costituiscono quello Zeit-Raum di cui si parla in Tempo e Essere in relazione all’evento, all’eventuarsi dell’essere, al suo destinarsi storicamente, al suo essenziarsi aletico. Il concetto di spazio come lasciare e concedere spazio, mondo e soggiorno è strettamente connesso al concetto di Lichtung che dirada il luogo di ogni manifestatività e presenza, ma anche il luogo di ogni assenza e oscurità, l’aperto per tutto ciò che è presente o assente. (iv) Il legame di Lichtung e verità si pone con forza in un suggestivo paragrafo di Essere e Tempo, che reca il significativo titolo di Esserci, apertura e verità214. Qui Heidegger afferma che un’asserzione è vera innanzitutto perché è apofantica, ossia è manifestazione dell’ente215. Nell’ambito dell’analitica esistenziale la verità è connessa ad un concetto di Lichtung da intendere, sia, come Offenstandigkeit (come uno stare aperto da parte dell’uomo), sia, come Offenbarkeit (esser- manifesto da parte dell’ente). La grande sfida che si apre alla riflessione del filosofo tedesco è quella di portare al linguaggio quello sfondo sul quale si staglia la stessa manifestatività come tale. Si tratta di quel fondo nascosto e oscuro su cui si pone la luminosità del manifesto e a partire dal quale possiamo comprendere il discorso sulla non-essenza della verità. Preminente secondo Heidegger nella dottrina del vero è l’Anwesung, l’atto del presentarsi della cosa, e non il Wassein, il contenuto essenziale. E proprio tale separazione tra il contenuto dell’apparire e l’orizzonte dello stesso ha generato per il filosofo tedesco quel “riferimento al vedere, all’apprensione, al pensare e  Ma soprattutto dall’analitica sappiamo che la spazialità è possibile solo sul fondamento della temporalità. Nel noto § 70 di Essere e Tempo lo spazio sembra emergere in netta subordinazione al tempo, alla temporalità estatico-orizzontale, che sola rende possibile l’entrata dell’esserci nello spazio. Successivamente, è lo stesso Heidegger ad avvertire l’impossibilità di continuare a sostenere la posizione espressa in Essere e Tempo: “il tentativo di ricondurre la spazialità dell’esserci alla temporalità compiuto nel § 70 di Essere e Tempo non è più sostenibile”, M. Heidegger, Tempo e essere, cit., p. 30. Anche nelle dieci conferenze tenute a Kassel del 1925 Heidegger afferma nel contesto della disamina di “ciò che è vivo e ciò che è morto” del pensiero diltheyano che «lo spazio del mondo ambiente non è quello della della geometria. Esso è essenzialmente determinato dai momenti usuali della vicinanza e della lontananza [...] non ha dunque la struttura omogenea dello spazio geometrico», Id., Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l’attuale lotta per una visione storica del mondo, cit., pp. 34-35. 214 Il riferimento è al § 44 di Essere e Tempo. 215 Ivi, pp. 264-265.  ! 75!  all’asserire”216 della verità che è caduta sotto il giogo dell’idea, con il conseguente mutamento della verità in orthotes. (v) L’altro concetto fondamentale intrinsecamente connesso a quello di Lichtung è quello di nulla, di cui Heidegger parla soprattutto in Che cos’è metafisica?. Qui il nihil è contraddistinto da una peculiare relatività e rivelatività. Lichtung e Nichtung divengono sinonimi perché la peculiare funzione di diradamento della prima, e il ruolo di annientamento della seconda, vigono entrambi nell’ente e nella sua luminosità, consentendo ad esso di apparire. Lichtung e Nichtung costituiscono quella “notte chiara” in cui l’ente appare e il mondo diviene mondo. Nondimeno, radura e nulla non vengono alla luce alla stregua dell’ente, ma si annunciano in quella differenza nei confronti dell’ente che appare217. In conclusione di questa incursione nella teoria della Lichtung heideggeriana possiamo dare per acquisito che essa si pone come l’inapparente fonte di ogni apparenza ontica. Si tratta del mero “che c’è”, del fatto, dell’evento. Ma un pensiero così originario, che nel suo regressus verso l’inizio retrocede verso un indisponibile e pre-teoretico darsi può ancora edificare? Su quali fondamenta e a quale scopo? Quale telos l’“uomo della radura” può porsi e come può orientarsi?  Id., La dottrina platonica della verità, in Id., Segnavia, a cura di F. W. Von Hermann e F. Volpi, Milano, Adelphi, p. 192 217 Se in Essere e Tempo il discorso si dipana su un piano che è più strettamente analitico-esistenziale, nella prolusione Che cos’è metafisica (1929) la questione si pone sul terreno ontologico. Qui il discorso sull’angoscia si inserisce nella cornice tematica del rapporto tra essere e nulla. In questo caso ad attirare l’attenzione non è tanto l’Unheimlichkeit – l’esperienza dello spaesamento – propria dell’angoscia, quanto l’esperienza di Seinsoffenheit – di apertura dell’essere – della stessa: «solo nella notte chiara del niente dell’angoscia sorge quell’originaria apertura dell’ente come tale [...] il niente è ciò che rende possibile l’evidenza dell’ente come tale per l’esserci umano”, M. Heidegger, Che cos’è metafisica, in Id., Segnavia, cit., pp. 70-71.  ! 76!  II. VI. Lichtung, umanesimo, metafisica: la proposta grassiana Queste sono le sfide che il pensiero heideggeriano pone e che Grassi rimedita in modo originale coniugando Lichtung e umanesimo. In quell’umanesimo in cui Heidegger intravedeva un pericolo per l’esperienza autentica dell’originario Grassi individua una possibilità, anzi la possibilità, la scommessa del filosofare noetico-non metafisico da sempre bandito dalla riflessione formale e razionalistica. Afferma il filoso italiano in La metafora inaudita, nel contesto dell’analisi del linguaggio e del pensiero razionalmente intesi, che “qualsiasi umanesimo – nel contesto suddetto – che tenti di trascendere il pensiero formale tenendo conto dei problemi della vita e dell’uomo, deve essere escluso e con esso ogni elemento patetico, proprio del linguaggio poetico o retorico. Il linguaggio razionale e scientifico deve necessariamente prescindere dalle passioni dell’uomo; il suo ideale è quello matematico e il legame del mondo umano con la razionalità genera il terrore di cadere nel soggettivismo, nell’arbitrarietà”218. Per il filosofo italiano occorre compiere un movimento inverso a questa prospettiva e la riflessione sul tema heideggeriano della Lichtung, connesso all’articolazione umanistica e vichiana del concetto, rappresenta un tentativo di costruire un nuovo accesso al mondo umano. Per Grassi quello compiuto da Heidegger è un regressus, un movimento di retrocessione dal dato al darsi, che tuttavia si arresta all’Es gibt, all’evento in cui l’esserci è gettato. Nella Lichtung riecheggia quel φύειν greco, quel generarsi, prodursi, sbocciare, portare a manifestazione, quell’essere che l’uomo può contemplare, al cospetto del quale sente la meraviglia e su cui non ha potere. Si tratta del mondo nel quale ci si sente situati, immersi in una tradizione e in una pre-comprensione, forme, queste, di mediazione che ci immettono immediatamente nel mondo, in quella modalità linguistica che induce il filosofo a parlare del linguaggio come casa dell’essere. Urge tuttavia ripensare l’idea ereditata dal maestro intraprendendo una analisi teoretica e storica delle prospettive degli antesignani della teoria della Lichtung che infine approda ad una prospettiva metaforologica originale che coniuga l’analisi  E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 11. ! 77!   della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno globale di tipo cognitivo innanzitutto e secondariamente linguistico. Nel contesto della Lichtungsgeschichte di Grassi emergono in primo piano i temi del non- nascondimento – la verità come aletheia – e della physis. In Heidegger e il Problema dell’umanesimo219 dopo aver affrontato l’analisi del concetto heideggeriano di Lichtung, di Unverborgenheit e di φαινεσθαι, Grassi afferma che “uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo [...] questi problemi non sono trattati dal pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio”220. Da questo passo emerge la precisa declinazione che Grassi conferisce a tale idea: si tratta di una declinazione ontologica perché il problema che la Lichtung heideggeriana pone è, come abbiamo visto, quello del fenomeno di base dell’evento, della manifestatività, dell’esistenza e dell’appello dell’essere al quale è chiamato l’uomo. Ma allo stesso tempo emerge anche una nota linguistica perché l’appello dell’essere che avviene nella dimensione della Lichtung coinvolge innanzitutto il mondo linguistico dell’uomo. Inoltre, Grassi rimarca più volte la retrodatazione della concettualizzazione della Lichtung: interpretata come riflessione sull’evento originario del rapporto uomo-essere la Lichtung compare già nelle riflessioni umanistiche, soprattutto in quelle che riguardano il linguaggio. L’idea di Lichtung che Ortega y Gasset, il collega di corso di Grassi durante gli “anni mitici di Friburgo”221 faceva risalire al 1914222, in realtà è molto più antica per Grassi: precede Heidegger e Ortega di secoli.  Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., pp. 20-21. 220 Ivi, p. 26. I corsivi sono nostri. 221 Id., La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, cit., p. 21. 222 Ortega ha sempre rivendicato la priorità, rispetto a Heidegger, di alcune intuizioni filosofiche fondamentali: “Ci sono appena uno o due concetti importanti di Heidegger che non siano preesistenti, talvolta con un’anteriorità di tredici anni, nei miei libri”, Ortega y Gasset, Lettera a un tedesco (1932), in Id., Goethe, tr. it. di A. Benvenuti, Medusa, Milano 2003, pp. 15-48: p. 47, nota 2. I concetti sui quali Ortega, stando alla sua autointerpretazione, si sarebbe espresso con anticipo rispetto ad Heidegger sono quelli di essere, verità, cura e lingua. Per una analisi approfondita dei concetti ora ricordati rimando a G. D’acunto, Ortega critico di Heidegger, pp. 67-78, in “Studi interculturali”, 1/2015 Trieste. Vorremmo richiamare all’attenzione i passi orteghiani del 1914 in cui si dice sia prefigurato il concetto heideggeriano di Lichtung, ! 78!   Secondo il filosofo milanese, infatti, il problema della radura risale alle riflessioni dell’umanesimo italiano: “già dagli inizi degli studi umanistici un secolo fa, con Burckhardt e Voigt, fino a Cassirer, Gentile e Garin, gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti. Questa interpretazione, largamente diffusa, è la ragione per cui Heidegger [...] si è insistentemente impegnato in polemiche contro l’umanesimo, considerato alla stregua di un ingenuo antropomorfismo. E tuttavia uno dei  reso con la metafora della radura nel bosco, e che esprime al contempo l’idea di verità come αληθεια e non nascondimento. Ortega, già nel 1914, affermava che: “la verità è caratterizzata da una pura illuminazione subitanea che possiede, però, solo nell’istante in cui viene scoperta. Per questo il suo nome greco, aletheia – che in origine ebbe lo stesso significato della parola più tarda apocalipsis –, vuol dire scoperta, rivelazione, o meglio, svelamento, toglimento di un velo”, J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, tr. it. a cura di G. Cacciatore e M. L. Mollo, Guida, Napoli 2016, p. 68. In Ortega, dunque, sarebbe presente quella metaforica presente anche in Heidegger: la radura nel bosco (Lichtung), intesa come il luogo in cui si apre lo spazio che lascia entrare la luce e la fa giocare con l’oscurità. Secondo Ortega “il bosco è una natura invisibile – per questo in tutte le lingue il suo nome conserva un alone di mistero [...] il bosco sfugge allo sguardo [...] il bosco è sempre un po’ più in là del luogo in cui siamo [...] Ciò che del bosco si trova davanti a noi in modo immediato è solo un pretesto affinché il resto rimanga nascosto e distante”, ivi, p. 62-63. Vorremmo sottolineare come l’importanza della metafora in Ortega non sia legata solo alla sua notevole capacità di espressione letteraria, a quella volontà di stile mai disgiunta da una chiara coscienza linguistica, ma abbia una radice filosofica molto forte nell’estetica del pensatore. In Ortega y Gasset bisogna guardare tra le pieghe di testi quali Renàn, Ensayo de estètica a manera de pròlogo, Las dos grandes metàforas, La deshumanizaciòn dela rte per rintracciare un’analisi della metafora che travalichi l’ambito pittorico e letterario e mostri una componente filosofico-conoscitiva e una costante preoccupazione antropologica e non solo estetico-ornamentale della metafora. Questa preoccupazione antropologica si materializza come è noto nella bella immagine del naufrago a cui la cultura viene in soccorso come una “zattera”: “la vita è in se stessa e sempre un naufragio. Naufragare non è affogare. Il povero essere umano, accorgendosi di affogare negli abissi, agita le braccia per mantenersi a galla. Questo agitare le braccia, con cui egli reagisce al suo smarrimento, è la cultura: un movimento natatorio. Quando la cultura è soltanto questo, essa compie la sua funzione e l’essere umano riemerge dal suo stesso abisso”, J. Ortega y Gasset, Goethe dal di dentro, in Id., Meditazioni sulla felicità, tr. it., di C. Rocco e A. Lozano Maneiro, Sugarco, Gallarate, 1994, p. 193. Spostandoci da una “pragmatica metaforica” orteghiana ad una “teoria sulla metafora” sarà possibile constatare che il tema della metafora svolge una funzione fondamentale nell’economia del pensiero orteghiano e umano in generale, poiché tenta di ancorare il linguaggio alle radici che lo generano. Come leggiamo nelle pagine di La disumanizzazione dell’arte “ecco così un “tropo” di azione, una metafora elementare anteriore all’immagine verbale e che si genera nell’ansia di evitare o eludere la realtà. [...] Ecco l’elusione metaforica”. J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, tr. it. di S. Battaglia, Sossella, Roma 2005, p. 45. Per il filosofo spagnolo il logos stesso è un’operazione metaforica: “il logos stesso è un’espressione metaforica [...] così, se quanto diciamo non coincide esattamente con quanto pensiamo, si deve intendere che perlomeno lo suggerisce. E tale dire che è suggerire è la metafora”, J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, cit., p. 46. Cfr., G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Mulino, Bologna 2013 soprattutto il saggio “La zattera della cultura. Filosofia e crisi in Ortega y Gasset”, pp. 47-77; G. Cacciatore-A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di J. Ortega y Gasset, Moretti e Vitali, Bergamo 2012; F. J. Martìn, Teoria del linguaggio e linguaggio ingegnoso in Ortega y Gasset, pp. 313-327, in F. Ratto-G. Patella (a cura di), Simbolo, metafora e linguaggio nella elaborazione filosofico- scientifica e giuridico-politica, Sestante 2000; G. D’Acunto, Ortega y Gasset: La metafora come parola esecutiva, pp. 39-51, in “Studi interculturali”, n. 2, 2014; F. Cambi, La pedagogia e la Bildung in Ortega, in F. Cambi, A. Bugliani, A. Mariani, Ortega y Gasset e la Bildung. Studi critici, Unicopli, Milano 2007, pp. 13-66; G. Cacciatore-C. Cantillo (a cura di) Omaggio a Ortega, Guida, Napoli 2016; mi permetto di rinviare al mio Un intellettuale di vocazione. A proposito di La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di Ortega y Gasset, pp. 230-243 in “Studi interculturali”, Trieste 2014; G. Ferracuti, Il punto di vista crea il panorama: molteplicità di sguardi e interpretazioni in Ortega y Gasset, pp. 96-118, in “Studi Interculturali”, Trieste 2015.  ! 79!  problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”223. L’apertura originaria, definita altrove come l’ursprünglich Rahmen224, al centro delle speculazioni umanistiche coinvolge i temi del linguaggio, della correlazione tra cosa e pensiero. Oltre all’approccio logico al nesso tra cosa e pensiero per Grassi abbiamo una tradizione che si preoccupa del manifestarsi storico dell’ente attraverso il linguaggio, dell’eventuarsi dell’essere in quel rapporto di co-estensione ineludibile di essere-pensiero-linguaggio. Ma che cos’è il logos per Grassi? Può ridursi sic et simpliciter all’ambito della razionalità, del concettuale, del deducibile? Si tratta unicamente di una polarità irrimediabilmente antitetica al pathos? Ma soprattutto in che relazione è l’idea di logos con quella di Lichtung? Come vedremo nel prossimo capitolo in maniera più dettagliata occorre analizzare i molteplici significati di logos offerti da Grassi e connetterli con le questioni dell’apparire e della passione dell’originario per meglio comprendere il significato della Lichtung nel pensiero del filosofo italiano al di là dell’ipotesi dualista225. Vorremmo anticipare che nel saggio del 1936 Il problema del logo il filosofo milanese sembra proporre un’idea di logos completamente opposta alle tesi mature. Ma si tratta di una contraddizione solo apparente come vedremo poiché l’idea di logos è inteso in maniera complessa. Ad apparire problematiche sono le affermazioni del periodo a difficilmente compatibili con quelle del periodo b. -! a: “l’originario atto della differenza ontologica non è la distinzione di enti precedentemente dati, bensì l’originario rendere possibile la manifestazione di una molteplicità in cui concretamente ci si trova e nella quale ci si delimita. Così il fondamentale carattere della concretezza, cioè il trovarsi in mezzo ad una molteplicità [...]  E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 224 Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 225 Parla di ipotesi dualista M. Marassi, Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., p. 10. Completamente opposto è il giudizio di Rita Messori che sostiene con fondamento la coappartenenza di logos e pathos. Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di E. Grassi, cit., soprattutto le pp. 66-84.  ! 80!  è radicato nella differenza ontologica, col che si conferma la nostra originaria tesi della precedenza del logo. La Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein”226. -! b: “il termine retorico” – che in Grassi indica l’ambito di progettazione del pathos – “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale”227. Come conciliare allora il periodo a -! “si conferma la nostra originaria tesi della precedenza del logo [...] il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein” con il periodo b? -! “retorica è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale” Grassi stesso avverte durante tutto il suo iter di pensiero la necessità di una ricomposizione di queste due vie del filosofare tanto che giunge ad affermare che le analisi svolte sull’umanesimo sono da concepire come “uno sforzo per gettare un ponte tra logos e pathos”228. A questo punto si impongono una serie di osservazioni: Grassi non parla in maniera univoca di logos – così come non parlerà in maniera univoca di retorica – anzi, individua due logoi differenti, o meglio due forme di logos: una disgiunta dal pathos, l’altra radicata nel pathos. Ed è proprio sull’opposizione tra un logo inteso secondo una modalità logico-formale e un logo intrinsecamente legato alla dimensione patica che si può comprendere il suo pensiero. Abbiamo un significato di logos da interpretare come “processo del manifestarsi”, in cui si sperimenta un nuovo rapporto di essere e nulla, un nuovo concetto di identità che non si fonda sulla logica del pensato ma sulla logica del pensare, dell’atto  E. Grassi., Il problema del logo, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 227 Id., Retorica e filosofia, pubblicato in “Philosophy and Rhetoric, IX, 1976, The Pennsylvania State University Press, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 228 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 170.  ! 81!  pensante, che porta a manifestazione. La lezione heideggeriana di L’essenza del fondamento e di Che cos’è metafisica coniugata a quella gentiliana della Logica è evidente. Grassi intuisce la convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere e forte di questo connubio è in grado di porre il vero problema che potremmo definire autenticamente fenomenologico229. La questione che la Lichtung e il nesso logos-pathos pongono in primo piano è quella dell’individuazione delle vie di accesso all’originario, all’atto fondativo del reale. Come poter dire e vedere l’inizio, il primo in cui accade la differenza ontologica tra essere ed ente, tra il puro apparire e ciò che appare? Come esperire la Lichtung, il coappartenersi di uomo-essere-linguaggio? Se da un punto di vista teorico l’approccio al tema della Lichtung risulta connesso strettamente ai temi della manifestatività e dell’essere, al nesso logos-pathos (poiché l’analisi della Lichtung significa una analisi della manifestatività dell’essere), da un punto di vista storico-filosofico una connessione molto interessante risulta essere quella istituita d Grassi tra la Lichtung heideggeriana e le luci vichiane. Si profila allora una questione ben più complessa della secca alternativa tra logos e pathos. L’intima coappartenenza del momento patico e di quello logico determina la forma della manifestatività. Il tema dell’apparire su cui ci concentreremo nel terzo capitolo è fondamentale per Grassi e mostra quanto la problematica della Lichtung (espressa in modo esplicito negli anni della maturità), sia già presente nella produzione giovanile riguardante i temi dell’essere, dell’apparire, della manifestatività e dell’esperienza patica dell’originario. II. VII. Lichtung e lucus Come abbiamo sottolineato in precedenza Heidegger rappresenta un punto di riferimento centrale all’interno della prospettiva grassiana, sia per quanto riguarda il valore della parola poetica Analizzeremo in modo approfondito questo aspetto nel prossimo capitolo.  ! 82!  come linguaggio originario, sia per il parallelismo istituito tra la Lichtung e le luci vichiane230. Contro l’impostazione heideggeriana dell’umanismo come metafisica dell’ente uomo Grassi – a sua volta con categorie ermeneutiche mutuate dal maestro – individua un’anti-metafisica nelle riflessioni retoriche degli umanisti. In questo percorso di riabilitazione del pensiero retorico231 latino Vico risulta essere una tappa fondamentale. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che “il problema della verità logica [...] deve essere sostituito dal problema molto più originario del disvelamento, dal problema della schiarita (aletheia) nella quale primariamente appare ciò che è, l’essente. Ciò assegna un nuovo compito alla filosofia: quello di sostenere il primato e l’originarietà del linguaggio poetico rispetto al linguaggio razionale; rammentiamo a questo proposito la spiegazione heideggeriana della Lichtung. La tesi di Heidegger ci riporta a quel pensatore del XVIII secolo con il quale la tradizione umanistica raggiunge la sua più profonda espressione e significanza filosofica: Giambattista Vico”232. In Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, la questione dell’apparire, della fantasia, del lavoro e della Lichtung è esplicitamente connessa con la figura dell’“ultimo umanista”: Vico. Grassi pone il seguente problema: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa?”233. La risposta è individuata nella Lichtung. Il divenire uomo dell’uomo (e la conseguente comparsa del mondo, del cosmo dal caos originario) è un processo che parte dalla originaria estraneazione dell’uomo, intesa da Grassi come “angoscia originaria dello smarrirsi nella foresta primordiale”234 e, passando per le varie tappe storiche dello sviluppo antropologico, approda all’istituzione della comunità umana mediante la parola. Questa più che configurarsi come rispecchiamento dell’ente – in tal caso saremmo di fronte ad una teoria adeguativa della verità e del linguaggio ad essa connesso  Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Scritti in memoria di Ernesto Grassi, cit.; Id., Lichtung: leggere Heidegger, it.; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos en Vico y Ortega, cit., pp. 146-173. 231 Cfr., Espillaque, op., cit. 232 Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 35. 233 E. Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 251. 234 Ivi, p. 253.  ! 83!  – assurge ad atto istitutivo del reale, del mondo umano, mostrando una virtù onto-poietica. “Nella libera decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”235 Grassi rintraccia l’autentica caratura onto-antropo-logica del discorso vichiano. Infatti per Grassi la Scienza Nuova vichiana delinea il problema del disvelamento in cui appare l’uomo e il suo mondo e solo secondariamente affronta la questione della storicità e dell’antropologia. Soffermiamoci sul confronto tra la dottrina heideggeriana della Lichtung e la teoria vichiana delle luci. Nella Scienza Nuova appare la problematica principale del filosofo napoletano: quella del disvelamento del modo in cui sorgono l’uomo e il suo mondo attraverso l’interrelazione della parola poetica con lo spazio storico che tramite l’atto linguistico stesso si istituisce. L’affermazione grassiana fa perno sul passo vichiano della Scienza nuova in cui la teoria pre-heideggeriana della Lichtung comparirebbe. In Vico e l’umanesimo il tema della Lichtung è correlato a quello vichiano della “schiarita della foresta primordiale”236. Mettere insieme Vico e Heidegger segnatamente al tema della Lichtung è per Grassi un’operazione che ha come esito un esame della metafisica in generale e non solo di una metafora, per quanto importante, della filosofia occidentale. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza. Il gioco delle analogie tra Vico e Heidegger che possiamo ricostruire – come di fatto è stato ricostruito magistralmente da Amoroso237 –, per quanto interessante, rischia di rimanere molto generico se non calato in un orizzonte teorico più ampio che fa interagire i due autori sul terreno della metafisica. Conscio della grande distanza che corre tra il tentativo vichiano di una riforma della metafisica e di quello heideggeriano di un suo superamento, ma nondimeno consapevole della contrapposizione di entrambi alla “barbarie della riflessione” e ai trionfi della ratio, Grassi pone l’accento sul tema della Lichtung quale terreno di confronto tra due autori che alla ritematizzazione di un rapporto autentico-essere-uomo-linguaggio hanno dedicato gran parte delle proprie opere. La metafora che  Ivi, p. 251. 236 Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 127. 237 Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, pp. 447-470, in AA. VV., Studi in memoria di E. Grassi, parzialmente modificato in Id., Nastri vichiani, ETS, Pisa 1997, pp. 99-122.  ! 84!  Grassi eredita dal maestro degli anni mitici di Friburgo, come abbiamo visto, declina la dimensione della luce con quella dell’oscurità e la stessa coappartenenza viene rintracciata in Vico. Ovviamente la metafisica della luce, che è a fondamento della scienza nuova, va intesa nel senso di un neoplatonismo cristianizzato. Nella metafisica del suo De Antiquissima Italorum sapientia Vico afferma che la chiarezza del vero è come quella della luce. Qui la luce vale come metafora della verità metafisica di Dio e delle sue idee, le forme che l’uomo può vedere solo nel contrasto. “Il vero metafisico è sommamente luminoso, non è racchiuso da alcun limite, e pertanto non lo si discerne con nessuna forma: e ciò perché è il principio infinito di tutte le forme, mentre le cose fisiche, opache, cioè formate e finite, son quelle in cui vediamo la luce del vero metafisico”238. L’alternanza di luminosità e opacità va quindi letta nel senso di un neoplatonismo cristianizzato e non come l’esempio di quell’impensato della tradizione occidentale contraddistinta da quell’oblio dell’essere di sapore heideggeriano. Perché dunque Grassi mette insieme Vico e Heidegger – che avrebbe definito Vico un appartenente alla costituzione onto-teo-logica della metafisica – su un tema che sembra segnare, invece, una distanza tra loro? La risposta è nel linguaggio poetico. Per entrambi gli autori – l’uno attento alla Provvidenza; l’altro al Geschick, quel destino che genera la storia, la Geschichte; l’uno sensibile al ruolo fondativo della poesia; l’altro alla valutazione del linguaggio poetico quale casa dell’essere – è significativo il tema della intima co-appartenenza di luce e oscurità nella analisi della genealogia del mondo umano. Secondo Grassi “l’unico pensatore che [...] avrebbe potuto aprire la comprensione per il pensiero di Vico sarebbe stato Heidegger”239 poiché la Lichtung heideggeriana è molto affine al tema del lucus vichiano. Entrambe le nozioni rientrano in un pensiero dell’origine storica del mondo dell’uomo che ha natura innanzitutto linguistica e poetica. Come leggiamo nella Scienza Nuova “le prime città, quali tutte si fondarono in campi  G. B. Vico, p. 84, La metafisica del 1710, Introduzione, trad. commento di A. Corsano, Adriatica Editrice Bari 1966. Si tenga conto della funzione del raggio di luce della Dipintura che dall’occhio divino discende sulla figura femminile della metafisica e si rifrange su Omero, simbolo della poesia e della scoperta dei caratteri poetici, della sapienza poetica, la vera chiave maestra per intendere la nuova scienza quella antropologia delle origini del mondo umano e civile. Cfr., L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica cit., p. 115. 239 Grassi, Vico e l’umanesimo, p. 194.  ! 85!  colti, sursero con lo stare le famiglie lunga età ben ritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’ boschi religiosi, i quali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e, conl’idea comune a tutte, si dissero dalle genti latine “luci”, ch’erano “terre bruciate dentro il chiuso de’ boschi”240. Mosso dal convincimento di tale sorprendente convergenza di temi Grassi sottolinea come la dimensione di apertura del lucus vichiano analoga a quella della Lichtung heideggeriana mette in questione il tema dell’origine della storia, del linguaggio, della poesia e del sacro. Il Vico di Grassi, antropologo delle origini, avrebbe attribuito una centralità a quella dimensione linguistica, che oggi è divenuta quasi un luogo comune241. La ricerca antropologica che si diparte dalla analisi del contesto originario – la Lichtung/lucus – coinvolge la trattazione delle problematiche linguistiche che in Heidegger si modulano come riflessione sulla poesia e sull’etimologia e in Vico come etnologia e filologia. La poesia vichiana secondo Grassi è una mitopoiesi spontanea, nasce come risposta da parte dei primi uomini allo stato di necessità in cui si trovano e con essa assistiamo alla genesi del linguaggio, del mito, della religione, del diritto e della storia. La questione della Lichtung accomuna non solo Vico e Heidegger242, ma diversi umanisti che si sono interessati alla questione della radura, del contesto originario all’interno della disamina del valore della parola poetica. Se la questione della Lichtung aperta da Heidegger rimanda al problema dell’individuazione e dell’espressione del contesto primordiale e del fenomeno originario dell’antropo-poiesi allora la suggestione grassiana circa la possibilità di retrodatare la problematica della Lichtung all’epoca umanistica non sembra tanto peregrina. Secondo Grassi con Vico abbiamo un distacco dalla metafisica tradizionale razionalistica e la Scienza Nuova viene a costituire non una nuova teoria della storia o una scienza antropologica tout court ma la scienza “del disvelamento originario nel quale appare l’uomo”243. Chi volesse interpretare G. B. Vico, La Scienza Nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, p. 795. 241 J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia in Vico, Laterza, Roma-Bari 1996. 242 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., pp. 115-117. 243 Ibidem.  ! 86!  il pensiero del napoletano come un’antropologia o una riflessione sulla storia sbaglierebbe poiché “il problema di Vico è quello del campo in cui l’uomo appare”244. La questione del contesto originario si declina in Vico come ricerca arcaica del “disvelamento della foresta primordiale” che altro non è che il problema del fondamento del mondo umano, identificato nei principi “universali ed eterni” che soggiacciono al divenire della storia. Nel passo vichiano prima ricordato il filosofo milanese individua numerosi punti di contatto con la teoria heideggeriana della Lichtung: l’utilizzo del termine luce; la spaesatezza e l’angoscia originaria dell’uomo primitivo; l’atto pratico di umanizzazione della natura. In questo “atto di disboscamento” viene collocato il punto di origine dell’umano e la fine del “divagamento ferino dentro la gran selva di questa terra”245. Il passaggio dal ferino all’umano, la transizione dall’uomo all’animale, mette in moto una potenza straordinaria che viene interiorizzata dalle menti primitive – i bestioni – che in tal modo umanizzati si avviano verso un percorso faticoso che va dalla barbarie agli ordini civili. Il significato della luce vichiana è infatti innanzitutto civile, politico e comunitario. Come sottolinea Carillo “il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario”246. Del termine vichiano luce Grassi mette in rilievo soprattutto la valenza di interruzione nella frequenza della selva. Come possiamo leggere in Vico, Marx e Heidegger (1983) “nel terrore che coglie l’uomo, nell’esperienza della sua alienazione dalla natura, questi crea e fonda il primo luogo umano nella storicità, il regno della fantasia e dell’ingegno”247. Nel bosco primordiale – in cui si fa esperienza dell’alterità della natura – l’uomo crea il luogo della storicità. Appare il tema del disvelamento e del disoccultamento come punto di partenza per una Id., Vico, Marx e Heidegger, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 182. 245 G. B. Vico, La Scienza Nuova, cit., p. 793. 246 G. Carillo, Vico. Origine e genealogia dell’ordine, Editoriale scientifica, 2000, p. 284. 247 E. Grassi, Vico, Marx e Heidegger, pp. 173-191, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 181.  ! 87!  ricerca dell’umanità delle origini che non ha solo il significato di indagine archeologica-filologica ma il senso di una ricerca fenomenologica sui presupposti del pensiero e sulla possibilità di uscire dalla metafisica. Il nesso Vico-Heidegger tematizzato da Grassi pone in luce che il concetto heideggeriano della schiarita, dell’apertura originale in cui gli esseri appaiono “coincideva con quello di Vico nella Scienza Nuova, in cui appare sorprendentemente il termine luce, come apertura nella foresta (schiarita nel bosco), il solo campo in cui gli esseri, la città, il tempio e l’uomo nella sua umanità, possono apparire”248. Proprio il riferimento al tema dell’apparire e del disvelamento mostrano la valenza fenomenologica dell’ipotesi interpretativa grassiana: il tema della Lichtung non è altro che la metafora pretesto per dare avvio ad un’indagine sulle forme del rivelarsi e dell’apparire della realtà. Al problema del reale, dell’apparire e della manifestatività, su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo, egli dedica il già citato Dell’apparire e dell’essere del 1933 in cui la manifestatività si costituisce non nella modalità della pura apparenza negativa, ma come luogo in cui l’uomo è colpito dal reale, ne risulta affetto, ne patisce la presenza non in una condizione di pura passività, bensì nell’ambito della sua capacità di progettazione e umanizzazione. L’originario pensiero vichiano del lucus diviene per Grassi un pensiero epocale poiché “la tesi fondamentale di Vico è che la metafisica non deve partire né da principi razionali né dal problema degli enti ma dalla parola che svela la storicità umana”249. L’epocalità della sua filosofia risiede nel suo carattere anti-razionalistico e fenomenologico. Il filosofo milanese afferma in G. B. Vico filosofo epocale che “la sua opera – quella di Vico – è una vera fenomenologia, una descrizione di come a poco a poco appaia (phainesthai) il reale umano”250. Pur non analizzando le numerose sfaccettature del termine lucus in Vico – luce civile; senso teologico del termine; nesso lux-lucus (luce/oscurità); lucus-delucare; Latium/latere251 – Grassi si Ivi, p. 177. 249 Id., G. B. Vico filosofo epocale, pp. 193-211, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 194-195. 250 Ivi, p. 195. 251 Molto interessante risulta la ricostruzione etimologica di Latium da litibula. Leggiamo in De Constantia philologiae “donde il nome Latium (Latium unde dictum)? I Romani custodirono queste altre vestigia di una siffatta antichità. Dai ! 88!   sofferma sul senso ontologico-trascendentale del termine vichiano coniugando in maniera originale i temi heideggeriani e vichiani in una prospettiva che vuole essere l’occasione per un ripensamento della filosofia che riconosce la propria matrice fantastica, ingegnosa, mitica, poetica. Si tratta di un pensiero che passa “dalla metafisica degli enti a quella dell’agire, della prassi umana”252: per Grassi occorre partire dalla tematizzazione delle necessitates come fonti naturali dei mondi umani. Egli definisce l’ingegno – che non esclude mai il processo razionale – come teoria che “scopre ora e qui similitudini, connessioni, apre la premessa per un processo razionale, che deduce dalla scoperta inventiva le conseguenze e quindi costruisce un mondo”253. L’ingenium è allora l’originaria capacità di vedere il simile ed è la prima risposta a quelle necessità naturali alle quali l’uomo deve far fronte nel faticoso percorso di sopravvivenza e di civilizzazione. L’ingegno può essere comparato per la sua struttura dinamica e multifunzionale a quel processo che gli attuali studi sull’apprendimento celati accoppiamenti degli eroi, per cui essi andavano in cerca di nascondigli (latibula) che offrivano i boschi venne la parola Lazio: perché di lì ebbe la sua prima origine quella gente”, G. B. Vico, Il diritto universale, in Opere giuridiche, introd. Di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, p. 524. Un’altra connessione degna di nota è quella tra il termine lucus e l’occhio di Polifemo. Leggiamo in Dissertazioni che i giganti come Polifemo che “abitavano in spelonche sulle montagne [...] avevano un occhio solo. Ciò fu inventato da lucus. Infatti per osservare nei boschi da qualche parte il cielo al fine di prendere auspici, in qualche parte essi diedero la luce ai boschi e così è vero quello che insegnano i filologi che lucus è detto del luogo in cui non c’è luce; e tuttavia lucus fu chiamato così da lux, ossia da quella parte dove c’era la luce”, G. B. Vico, Dissertazioni, in Id., Opere giuridiche, cit., p. 830. Per ulteriori approfondimenti sui diversi significati etimologici del termine vichiano rimando a Gennaro Carillo in Vico. Origine e genealogia dell’ordine, cit., p. 284 e sgg. L’autore sottolinea come in relazione al termine lucus “la valenza privilegiata è quella di bosco sacro. Tuttavia in Vico questa valenza presuppone un lungo percorso disseminato, al solito, di suggestioni etimologizzanti. Esito di lucere, emettere luce, o di lucesco, venire alla luce, sorgere, il lucus vichiano è definibile come un’interruzione nella frequenza della selva. Aprire un lucus equivale ad aprire una falla, uno slargo, in un viluppo fittissimo che preclude la vista del cielo. É evidente il senso teologico-civile di questo diradare la selva per poter contemplare, attraverso uno spiraglio, il cielo onde interpretare i segni divini, ossia trarne gli auspici. In questo modo il lucus diventa in Vico il primo locus, il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio originario [...] nel De Costantia philologiae il nesso tra lucus e lucere sortisce anche un effetto semantico opposto, denotando assenza di chiarore e visibilità [...] In quest’accezione in cui la derivazione di lucus dalla luce si ottiene per antifrasi la sacertà del bosco sacro deriva dal suo essere nascosto [...] di qui la possibilità di ricondurre il nome Latium alla latenza offerta dai boschi sacri ai primi abitatori della regione [...] nelle Dissertationes il lucus si combina alla descrizione dei Ciclopi omerici [...] l’occhio dei Ciclopi non è che la trasfigurazione poetica del delucare lucos, del far luce nel bosco diradandolo”. 252 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 204. 253 Ivi, p. 203.  ! 89!  definiscono come problem solving254: si parte da una condizione inizialmente critica: il problema, la necessitas; si approntano strategie di risoluzione: la risposta alle necessitates; si elabora un pensiero creativo che scalza la rigidità degli schemi cognitivi classici e mette in moto la creatività: fantasia/ingegno come facoltà intuitive e ricettive ma allo stesso tempo attive e creative. L’ingegno – altrove inteso da Grassi nella sua identità con il nous aristotelico255 – ha come suo primo prodotto il mito che, come vedremo nell’ultimo capitolo, “costituisce di volta in volta la storicità delle varie epoche”256. Il mito nel suo carattere sacrale e esemplare, come universale in funzione del quale “si determina il particolare sotto l’urgenza che segna il tempo”257, non è inteso solo come praxeos mimesis – racconto mitologico – ma come origine di un ordine linguistico che non ha natura razionale: si tratta del linguaggio fantastico che si condensa nella metafora. La struttura topica dell’ingenium, vichianamente concepito come arte “d’inventare, di trovare, di invenire”258, produce il mito e allo stesso tempo quella “locuzione poetica che nasce da necessità di natura”. Grassi sostiene che “se la poesia come attività ingegnosa è originaria forma per adeguare le necessità naturali scoprendo similitudini, è essa che trasforma il reale”259. Emerge da questo passo la vis plastica del logos che per Grassi non è astorico, razionale, ma sempre attento alle circumstantiae storiche. Allora si comprende come tale logos include al suo interno tutta una serie di elementi che non hanno mai trovato spazio all’interno della filosofia. Come possiamo leggere in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale: “suoni, segni, atteggiamenti indicativi, semantici, anche il tacere, acquistano Per un’analisi del problem solving cfr. il classico G. Polya, Come risolvere i problemi di matematica. Logica ed euristica nel metodo matematico, Feltrinelli, 1983. 255 Cfr., Significare arcaico, cit. 256 Id., G. B. Vico filosofo epocale, cit., p. 199. 257 Ibidem. 258 Ivi, p. 203. 259 Ivi, p. 206. Il corsivo è nostro.  ! 90!  significato esclusivamente nell’originario ambito dell’abissale che ci riguarda: fuori dell’appello tutto è silenzioso, indeterminato, oscuro come nella selva senza schiarita, senza radura, senza il palcoscenico per la storia”260. Solo attraverso la prassi – sia essa linguistico-metaforica; mitico- politica; pratico-poietica – sorge il mondo, l’Umwelt diviene Welt e si compie quella Menschwerdung faticosa e incidentata che dall’indeterminato della ingens sylva trae fuori spazi e tempi di determinazione. II. VIII- L’essere dalla Gelassenheit all’Arbeit Proprio lo slittamento dalla passività all’attività insita nell’esperienza umana dell’essere e del contesto originario – la Lichtung – spinge Grassi a definire tale apprensione del reale non nei termini di una Gelassenheit dal sapore heideggeriano, di un abbandono agli “invii dell’essere”, ma in termini di Arbeit, di lavoro – come “mediazione specifica dell’umano dotata di scopo” – e fondazione etico- politica della comunità sociale261. All’atto linguistico per eccellenza – la prassi metaforica – corrisponde dal punto di vista pratico l’atto pratico dell’umanizzazione del reale che si realizza nel lavoro. Il doppio significato di lavoro (come prassi e come fondazione politica) mette in luce il processo di umanizzazione del reale attraverso la prassi lavorativa che si riversa anche nella istituzione del linguaggio. Per il filosofo l’uomo dispiega la sua essenza nella formazione (Bildung), nelle risposte “umane, troppo umane” alle urgenze patite del reale e di un’oggettività individualmente esperita: conseguentemente l’affectio non viene espulsa dal logos ma si immette nel processo del leghein. Egli affronta il tema dell’Arbeit nel suo significato politico e poietico in maniera esplicita confrontando le figure di Vico e Marx. La connessione tra Vico e Marx si profila come analisi comparativa dei concetti di Arbeit e Phantasie. Si chiede Grassi se le pratiche umanistiche di opposizione alla filosofia  Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 197. 261 Cfr., S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., pp. 278-281; G. Petrovic, Marx, lavoro e abbandono. Lettera a Ernesto Grassi, pp. 127-157, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit. ! 91!   aprioristica scolastica – con la conseguente attenzione alla giurisprudenza, alla grammatica e alla retorica – possano essere in definitiva considerate valide e concrete o ricadano dell’astrattismo medievale: “Tutti questi canoni, che gli umanisti oppongono alla filosofia aprioristica della scolastica, soddisfano realmente la loro pretesa di essere concreti? Qui è pertinente l’obiezione del marxismo. La sorgente originaria del divenire umano si trova nella trasformazione originaria, e perciò, nella umanizzazione della natura mediante il lavoro. La giurisprudenza, il linguaggio, la retorica, sono concrete solo in quanto manifestazioni della storia di classe [...] la storia del lavoro è la storia dell’evoluzione dell’uomo”262. Grassi analizza dettagliatamente l’idea del lavoro in Marx, esposta sia nel Capitale sia nei Manoscritti economico-filosofici, sottolineando quattro aspetti importanti del lavoro: 1-) il lavoro umano è distinto da quello degli animali poiché è espressione di una volontà intenzionale e spezza la relazione di immediatezza che secondo Marx l’animale ha rispetto al mondo circostante: “la sua relazione con ciò che produce è immediata”263. Per Marx “l’animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa stessa”264. 2-) La seconda definizione del lavoro “consiste nel riconoscere che esso rappresenta il superamento dell’immediatezza, attraverso l’attività creativa. Il processo del lavoro è un passaggio da ciò che esiste ancora, ed è solo possibile, a ciò che diviene realtà [...] il lavoro come processo di metabolismo significa l’appropriazione della natura a favore dell’uomo” E. Grassi, Marxismo, Umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pp. 69-94, in Vico e l’umanesimo, cit., p. 83. 263 ivi p. 84. 264 K. Marx-F- Engels, Opere, Editori Riuniti, Roma 1976, Vol. III, p. 303 265 E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 84.  ! 92!  3-) Il lavoro è possibile solo se l’uomo è concepito come essere libero: “il lavoro può esistere solo a condizione che l’uomo sia libero. Bisogna intendere la libertà [...] come la facoltà di trasformare la natura in nuovi sistemi di interrelazione non prefissati per l’uomo”266. 4-) Il lavoro ha una funzione sociale. Secondo Grassi l’importanza del lavoro come fattore di umanizzazione e di distanziamento dall’orizzonte dell’animalità è rintracciabile anche negli umanisti – come l’attenzione agli ambiti della giurisprudenza, della filologia e della retorica testimoniano – e in Vico, il cui problema della storia altro non è che il problema del lavoro e della fantasia. Per il filosofo italiano “il problema che ora sorge è: che cosa Vico considera come la concreta radice del divenire umano? La risposta indica due fattori principali e tra loro correlati: il lavoro e la fantasia”267. Il pensatore milanese analizza le figure di Ercole e Cadmo, entrambi simbolo della fondazione della società umana, ricordate da Vico nella Scienza Nuova, e la triplice funzione della fantasia: nella fantasia l’uomo “sperimenta la propria libertà ed esce dal chiuso mondo della foresta naturale”268; attraverso la fantasia l’uomo argina la paura e il terrore dell’Aperto e “procede a costruirsi il proprio ordine, o un adattamento della natura”269 (infatti per il filosofo la fantasia crea le prime analogie tra i fenomeni, e produce le prime connessioni e definizioni); l’ultima funzione della fantasia è quella di dare un significato al lavoro. La costituzione trivalente della fantasia consente di concepire l’affinità e la distanza tra la critica di Marx all’apriorismo della filosofia e la critica umanistica all’astrattismo medievale: da un lato emerge una convergenza degli intenti decostruttivi di entrambi gli approcci, dall’altro Grassi sottolinea come una teoria del lavoro priva di una teorizzazione antropologica e filosofica dell’umano  ivi, p. 85 267 ivi, p. 86 268 ivi, p. 89 269 Ibidem.  ! 93!  sia concettualmente monca e praticamente inutilizzabile. Afferma Grassi che “Marx considera il lavoro – come il superamento dell’immediato impatto con la natura, come l’adattamento di essa – l’origine della storia. Se però, tale adattamento nell’interesse dell’uomo differisce da quello degli animali per il fatto che l’animale lavora solo per il proprio nutrimento e la conservazione della specie, e in accordo con i suoi modelli congeniti, allora il problema circa il significato dell’adattamento della natura da parte dell’uomo non può essere risolto col dire semplicemente che l’uomo è un essere che media e accomoda, né col riferimento alla sua attività lavorativa, ma solo chiarendo e definendo lo scopo specifico di questa mediazione. A meno che non ammettiamo l’urgenza di questo problema, ci troviamo ridotti a dire che l’animale è un essere molto più alto dell’uomo”270. In quest’ultimo passo Grassi esprime l’idea secondo la quale se è vero che il lavoro è il primo atto di umanizzazione ciò è possibile nella misura in cui non si riduca il lavoro a semplice atto di mediazione – il metabolismo della natura, il lavoro come fatica, ponos – ma lo si consideri come atto di mediazione guidato da scopi – il lavoro come ergon, opera. Nel concetto di lavoro più che della prassi lavorativa occorre tenere conto del telos che la sorregge: qui si inserisce il discrimine tra uomo e animale. Secondo il filosofo il lavoro, inteso come adattamento della natura, è solo un mezzo in vista di uno scopo, la realizzazione umana del mondo in cui la fantasia rivela il suo ruolo fondativo rispetto al lavoro stesso: solo grazie alla facoltà di visione delle somiglianze è possibile trasformare ed umanizzare la natura implementando ordini di realtà e progettando mondi dotati di senso. L’intima coappartenenze della componente tecnica (lavoro come fatica) e di quella fondativa-civile (lavoro come opera) risulta decisiva nella concezione grassiana del labor tutta gravitante attorno al tema della produzione del mondo storico sociale e dell’umanizzazione della natura: l’uomo, con il suo ingenium e la sua phantasia “per mezzo del labor – lavoro e fatica – determina il reale nel suo significato

Ivi, p. 93.  ! 94!  umano facendolo assurgere ad opera; solo in tal modo il reale diventa storico, si umanizza quale opera dell’ingegno”271. Se, da un lato, allora, il presentarsi della manifestatività rende affetto l’uomo, e, colpendolo, ne rivela la componente di passività, il suo essere soggetto-a, tale che l’uomo non può non patire, non può sottrarsi, dall’altro, l’uomo è quell’ente capace di rispondere, di offrire una risposta attiva mediante il lavoro. Per Grassi infatti ciò che ci circonda, l’oggettivo, la natura, l’essere “appare solo nei limiti da noi progettati – e tuttavia – è altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa oggettività [...] è la risposta che la natura dà entro i nostri diastema”272. Entro i limiti della nostra progettazione, del nostro lavoro, della nostra opera – che per Grassi non è un’operazione soggettivistica e arbitraria, ma rispondente alle circum-stantiae di volta in volta mutevoli, alle necessitates nelle quali è già da sempre immerso l’uomo – significa entro i limiti dell’orizzonte della fantasia quale attività ordinatrice della materia primordiale che per Grassi “ci impedisce di trovare una qualsiasi unità; essa è materia della facoltà ordinatrice del pensiero”273. Il tema della determinazione concreta del reale risulta strettamente intrecciata a quello del lavoro umano nel suo significato ontologico trascendentale e a quello della fantasia come “attività originaria che scopre le relazioni sulla base della visione delle somiglianze”274 e non come “attività che ci presenta qualcosa di irreale”275, come “rappresentazione dell’irreale, come pura facoltà della finzione, E. Grassi, Politica e religione. La riscoperta della tradizione latina, pp. 33-43, in “Archivio di filosofia”, Padova 1978, p. 43. Le riflessioni grassiane sul lavoro mostrano molti punti di contatto con la distinzione arendtiana tra lavoro come ergon e come ponos presente in Vita activa. 272 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, Discorso letto alla seduta inaugurale del Congresso per il IV Centenario della fondazione dell’Università di Lima, in “Archivio di filosofia”, 1952, p. 68. 273Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., p. 279. In relazione all’attività ordinatrice della selva originaria Grassi in questo saggio parla di un’attività fantastica in modo duplice: sia come facoltà sensibile – il significato secondario – sia come attività del lasciar apparire – significato ontologico-primario in cui si dà la coapparteneza di aisthesis e leghein. 274 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 190. 275 Ivi, p. 276.  ! 95!  come capacità di mostrare qualcosa di fantastico”276. In questo caso essa è una ritenzione semplice che si fonda su una dimensione conservativa e combinatoria delle immagini, senza avere come punto di riferimento il referente reale delle immagini, ma la libertà e l’arbitrio soggettivo277. La fantasia ontologicamente intesa, base del linguaggio poetico, insieme al lavoro è capace di istituire il mondo storico. Per Grassi “la trasformazione della natura, che l’uomo realizza con lo scopo di liberarsi dai propri bisogni, nasce dunque dall’attività fantastica ingegnosa”278 che, insieme al senso comune, si ritrova nella teoria vichiana del lavoro. Il filosofo asserisce in La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi che “il senso comune, secondo la definizione vichiana, ha lo scopo di fornire all’uomo ciò che gli è utile e di cui ha bisogno”279 e prosegue chiedendosi “se e come l’ingegno e la fantasia contribuiscano al senso comune e quale relazione esista fra di loro”280 visto che per Vico sono a fondamento dell’emergere del mondo umano e dei suoi bisogni. L’atto di risposta umana ai bisogni originari è il lavoro, catalizzatore del processo di civilizzazione come le fatiche di Ercole ricordate nella Scienza Nuova esemplifica. “Le fatiche di Ercole presuppongono una interpretazione della natura come essa fu prima della sua umanizzazione, cioè come realtà asservibile all’uomo e presuppongono anche una visione del successo ottenibile con tale agire. Il lavoro quindi dev’essere concepito come la funzione di conferire un significato e di far uso del medesimo, mai come un’attività puramente meccanica o una trasformazione puramente tecnica della natura, estranea al contesto generale delle funzioni umane” Ivi, p. 191. 277 Cfr., M. Ferraris, L’immaginazione, Il Mulino, Bologna 1996. 278 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 241. 279 La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, pubblicato in Vico and Contemporary Thought, Humanities Oress, New Jersey 1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p. 51. 280 Ibidem. 281 Ivi, pp. 51-52.  ! 96!  Il labor appare strutturato metaforicamente poiché è un atto di trasposizione di significato al mondo circostante, la “funzione mediante cui i bisogni umani vengono soddisfatti”282. La struttura metaforica operante all’interno del linguaggio poetico secondo Grassi soggiace anche nel lavoro nel quale si intrecciano il sensus communis – che non “consiste, quindi, in un modo di pensare popolare o comune”283 – l’ingenium e la phantasia. La connotazione storico- esistenziale284, più che etica o politica, del lavoro emerge laddove si presta attenzione al labor come risposta ad un bisogno di decifrazione della situazione umana e delle sue strutture di esistenza. Secondo l’interpretazione del filosofo occorre ricostruire una storia pre-marxiana del lavoro attraversando le tappe della filosofia umanistica. Si chiede il pensatore: “è possibile trovare nell’umanesimo italiano una teoria del lavoro come fonte della storia, una teoria del lavoro che simultaneamente comprenda l’importanza filosofica della giurisprudenza, della filologia e della retorica?”285. Proprio questa apertura disciplinare che contraddistingue la teoria del lavoro umanista costituisce per Grassi la dimostrazione che “il problema concernente il significato del lavoro comporta una rinnovata giustificazione della filosofia”, che in qualità di meditatio de homini dignitate non può essere ridotta a “semplice sovrastruttura di una temporanea e storica struttura sociale”286. Volendo trarre una prima conclusione dalle osservazioni precedenti si può asserire che nella prospettiva onto- antropo-logica di Grassi assume un ruolo centrale la relazione fondante dell’Arbeit/labor nella lettura comparativa di Vico e Marx. Vico, Marx e gli umanisti – ai quali si aggiungerà Heidegger qualche  Ivi, p. 51. 283 Ivi, p. 52. 284 Parla di connotazione etica del lavoro in Grassi S. Limongelli in Il problema dell’umano, cit., p. 277 e sgg. 285 Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pubblicato originariamente in Giambattista Vico’s Science of Humanity, the John Hopkins University Press, Baltimore (Maryland) 1976, ora in Vico e l’umanesimo, cit., p. 85. 286 Ivi, p. 93.  ! 97!  anno dopo287 – concordano nella critica alla filosofia a priori e al pensiero teoretico contemplativo: il problema vero della filosofia è quello “delle origini del divenire umano e, conseguentemente, della sua realtà storica”288. La critica all’impostazione metafisica del pensiero operata da Marx tuttavia per il filosofo non riesce a superare lo schema del pensiero tradizionale. Leggiamo in Vico, Marx e Heidegger che “il rovesciamento della filosofia, che Marx riteneva di aver compiuto con la sua critica di Hegel, non supera lo schema del pensiero tradizionale [...], la sfera di un antropologismo”289. Pur ritenendo fondamentale la teoria dell’alienazione – che “indica l’assenza di radici dell’uomo occidentale”290 – per delineare una via di accesso autentica all’umano Grassi – sulla scia di Heidegger –considera poco sostenibile l’identificazione di umanità e socialità operata da Marx291. Tale identificazione avrebbe come conseguenza la “riduzione del materialismo a pensiero della tecnica”292. E sappiamo che Grassi accoglie la lezione heideggeriana per la quale la tecnica è estrema propaggine della metafisica. Ma occorre andare oltre la “barbarie della riflessione” e qui interviene Vico che di volta in volta supera, secondo Grassi, i limiti delle prospettive toriche degli autori – in questo caso Marx e Heidegger – in una sintesi filosofica che coniuga giurisprudenza, poesia e retorica con le tematiche del lavoro e della Lichtung. Asserisce il filosofo milanese che “il lavoro per Vico è un adattamento dell’impatto diretto e immediato con la natura, un adattamento mediante il quale l’uomo esce dalla natura; e qui egli sceglie le figure di Ercole e Cadmo come simboli di essa”Cfr., Id., Vico, Marx e Heidegger, apparso in origine in Vico and Marx. Affinities and contrasts, Humanities Press, Atlantic Highlands (New Jersey) 1983, ora in Vico e l’umanesimo, cit., pp. 173-191. 288 Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 92. 289 Id., Vico, Marx e Heidegger, cit., p. 190. 290 Ivi, p. 189. 291 Ivi, p. 190. 292 Ibidem. 293 Id., Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86.  ! 98!  L’uso vichiano dell’universale fantastico294 di Ercole – vera e propria tipologia poetico-simbolica utilizzata ai fini della comprensione delle origini mitiche della storia dell’umanità –, o meglio degli Ercoli295, è finalizzato alla rappresentazione della faticosa impresa umana della costruzione della società il cui mito, narrato nella Scienza nuova, non appare a Grassi come una concessione al gusto antiquario della ricostruzione erudita dell’antichità ma come il simbolo “dell’assoggettamento della natura [...] che porta all’autoaffermazione dell’uomo”296. Secondo Grassi “Vico costruisce la sua teoria dei generi e degli universali fantastici non mediante l’astrazione, ma creando, secondo i suoi termini, i ritratti ideali, i caratteri esemplari [...] così il concetto fantastico cristallizza un essere attraverso un atto dell’ingegno con una visione diretta di una totalità pittorica. Esso rappresenta una figura contemporaneamente esemplare e allegorica”297. Tale logica della fantasia fondata sui generi universali e fantastici assume il ruolo di primo coordinamento delle idee che ha carattere arcaico, poiché è fondante rispetto alla razionalità, e immediato, indicativo, semantico. Sullo sfondo degli universali fantastici si staglia la figura di Ercole che ha non solo il ruolo di carattere poetico ma quello di fondatore della comunità storica dell’uomo. Come osserva lo studioso di Vico Giuseppe Cacciatore “il ricorso vichiano al genere fantastico aiuta, dunque, a comprendere quella costitutiva procedura del pensiero che riduce a generi e a caratteri la molteplicità dispersa delle cose naturali”, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, pp. 53-70, in Id., In dialogo con Vico, cit., p. 65. Recita la Degnità XLIX “queste tre Degnità ne danno il Principio de’ Caratteri Poetici; i quali costituiscono l’essenza delle Favole: e la prima dimostra la natural’inclinazione del volgo di fingerle, e fingerle con decoro: la seconda dimostra, ch’i primi uomini, come fanciulli del Gener’umano, non essendo capaci di formar’ i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi, o universali fantastici da ridurvi, come a certi Modelli, o pure ritratti ideali tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti”, in Sn 44, in G. B. Vico, la Scienza Nuova, cit., p. 872. 295 Vico, infatti, nella sua ricostruzione della complessa trama della cronologia dela storia universale menziona gli Ercoli, i Bacchi, i Sesostri quali prototipi dei fondatori delle città che hanno avuto sempre un eroe nella loro genesi. Afferma Vico in SN ’44 che “questa stessa Degnità con l’antecedente, che ne danno prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercoli tralle Nazioni Gentili, oltrechè ne dimostrano, che non si poterono fondare senza religione, né ingrandire senza virtù: essendono elle ne’ lor’ incominciamenti selvagge, e chiuse”, Sn 44, ivi, p. 871, Degnità XLIII. Cfr. sul tema dell’Oriente in Vico le condivisibili osservazioni di G. Cacciatore esposte in Il posto dell’oriente nel pensiero di Vico, pp. 169-178, in Id., In dialogo con Vico, cit. 296 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, cit., p. 86. 297 Id., La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, cit., p. 54.  ! 99!  Ercole effettua la trasformazione della natura piegandola attraverso il lavoro – l’uccisione del leone nemeo – al mondo umano. L’uccisione del leone nemeo – simbolo della ingens sylva primordiale nella quale l’uomo erra nel terrore dell’aperto – simboleggia il primo atto di fondazione della civiltà. Lo stesso Vico nella Spiegazione della Dipintura afferma che “questa scienza ne’ suoi Principj contempla primieramente Ercole [...] il quale si truova essere stato il carattere degli Eroi politici”298. Attraverso la lettura del mito di Ercole Grassi rintraccia in Vico una prima teorizzazione del tema del lavoro nella sua connessione con l’ingegno, la fantasia, e il senso comune, da un lato, e con il concetto di Lichtung e con l’analisi delle strutture dell’esistenza umana, dall’altro. Si chiede il pensatore: “quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa? Nella libera decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo umano”299. Quale importanza Grassi annetta al ruolo, al contempo storico e filosofico-speculativo, che svolge, nel complesso del suo itinerario onto-antropolo-logico, la questione dell’origine dei processi storici dell’umanità è testimoniato dalla collocazione del tema della Lichtung – che accomuna Vico e Hiedegger – accanto a quello del lavoro – che vede fianco a fianco Vico e Marx. Sostiene il filosofo in Vico e l’umanesimo che “secondo l’opinione di Vico, grazie alla radura aperta nella foresta originaria”, attraverso il lavoro, “divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il tempo”300. Si intrecciano indissolubilmente le questioni del disvelamento/Lichtung – la vera “chiave maestra” della lettura grassiana degli umanisti – quella del lavoro nel suo significato esistenziale e quella delle strutture dell’esistenza umana. Nella prospettiva del pensatore milanese è attraverso il lavoro, l’atto di umanizzazione della natura – il disboscamento G. Vico, Sn 44, cit., p. 786. 299 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 251. 300 Ibidem.  ! 100!  della selva primordiale – che si apre quello spazio-di-tempo in cui sorge la storia umana che ha “origini favolose” dicibili solo attraverso un linguaggio poetico. Come è emerso dalle precedenti riflessioni sulla rivalutazione dell’umanesimo a partire dal tema della Lichtung, dell’ursprünglich Rahmen, a venire in primo piano è una densa concettualizzazione dei temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati ad un’analisi delle strutture dell’esistenza umana. Nelle considerazioni seguenti intendo richiamare l’attenzione sui concetti ora ricordati focalizzandomi sulla costituzione onto-antropo-logica della metafisica immanente o ontologia situazionale301 grassiana e sul nesso essere-uomo-linguaggio su cui essa si costruisce. Secondo la nostra ipotesi di ricerca Grassi enuncia importanti riflessioni sparse in diversi saggi che contribuiscono a corroborare l’idea della presenza di un’analitica dell’esistenza umana a fondamento delle ricerche svolte sui pensatori umanisti – e non solo – all’interno del progetto di rivalutazione dell’umanesimo e di critica alla filosofia intesa come scienza. La questione dell’umanesimo in Grassi è analizzata da due punti di vista: storico e teoret  ico. Egli afferma l’esigenza di porre la questione dell’essenza della nostra umanità sia sul terreno speculativo sia su quello storico in un articolo del 1932 su Jaeger Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico. Secondo Grassi “questa essenza della natura umana è un problema filosofico e non esiste né può venire concepita come qualcosa di dato. Ne viene che l’umanesimo [...] può avere il suo fondamento [...] solo nella rigorosa ricerca filosofica. Il vero umanesimo deve essere oggi filosofia. Ciò vale non solo speculativamente, ma anche storicamente”E. Grassi, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo Editore, Lecce, 1991, p. 30. 302 Id., Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, pp. 255-271, in Id., I primi scritti, cit., p. 258.  ! 102!  La ricerca grassiana si configura, da un lato, come riflessione storica sull’umanesimo, in cui la lettura dei testi degli umanisti ha l’aspetto di una re-interpretazione filologico-speculativa di quel nucleo essenziale – la Lichtung – venuto ad espressione consapevole con Heidegger. L’attenzione accordata alla filologia, che per Grassi non si riduce a “una mediazione delle opere antiche”303 ma è una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema della parola304, conduce verso una dilatazione del periodo storico dell’umanesimo sia in direzione del passato sia in direzione delle epoche successive. Entrano così a far parte della tradizione umanistica anche gli autori della latinità quali Cicerone e Quintiliano; quelli barocchi come Graciàn, Peregrini e Tesauro; Vico, Leopardi e, in ultimo, lo stesso Heidegger, il quale ha concettualizzato in forma teoretica densa ed esplicita il tema della connessione Da-sein/Sein. Dall’altro lato, accanto alla lettura testuale, affiora un’indagine teoretica sui temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività e sulle strutture d’essere dell’uomo. Proprio su questi aspetti ci concentreremo maggiormente in questo capitolo prendendo in considerazione due gruppi di saggi. La selezione di questi saggi – tutti risalenti al periodo compreso tra gli anni Trenta e la fine degli anni Cinquanta – è stata guidata dall’idea di una presenza nel filosofo di un’attenzione alle strutture dell’esistenza umana, connesse alla questione di quella che potremmo definire “ontologia  Id., Il confronto con la filosofia tedesca in Italia, in Id., I primi scritti, cit., pp. 871-886, p. 883. 304 Per Grassi occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione: “come è noto, la tradizione filosofica italiana ha inizio proprio con l’umanesimo e il rinascimento. Come ho già accennato altrove, il filosofare italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...] ricordo solo che il compito umanistico della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”, ivi, p. 881. Cfr., anche Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, p. 72: “Il processo interpretativo, prima di divenire il metodo delle moderne scienze scienze naturali, era già da lungo tempo abituale nell’ambito delle scienze dello spirito. Anche qui si dimostra che il presupposto della formazione non è tanto la mediazione delle conoscenze, quanto piuttosto lo sviluppo della capacità interpretativa. Nel dialogo interpretativo con i testi tramandatici stabiliamo la relazione con la comunità umana del passato e soltanto in questa e con questa relazione possiamo giungere al nostro proprium, in quanto siamo esseri storici”.  ! 103!  fenomenologica semantica” di Grassi, in cui il tema dell’essere, identificato con quello della manifestazione e delle forme dell’apparire, è indissolubilmente legato a quello semantico, come campo dell’esperienza costrittiva dei principi indicato nel fondamentale saggio Significare Arcaico (1966) in cui è condensato tutto il valore della proposta retorica grassiana. Solo partendo dall’analisi del contenuto tematico di questi contributi è possibile una più profonda comprensione delle indagini grassiane sull’Umanesimo e sul Rinascimento storici su cui la bibliografia si è concentrata maggiormente. Del gruppo comprendente Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario (1940), Il reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945), saranno selezionati i temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, i quali mostrano la volontà grassiana di recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. In questo tentativo Grassi coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza ontologica,305 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale non come esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività dell’essere. Dell’altro gruppo fanno parte i seguenti saggi: Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959). In quest’ultimo gruppo di articoli emergono alcuni concetti fondamentali che trovano un’articolazione in una analitica Per una ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII.  ! 104!  esistenziale che mira a svelare le “strutture esistenziali del mondo del Da-sein”306. Le osservazioni che seguono si focalizzeranno maggiormente sul fondamento teorico – l’analitica dell’esistenza – che soggiace alla rivalutazione di Grassi dell’umanesimo. Credo sia plausibile poter collocare la riflessione grassiana sull’umanesimo sullo sfondo ontologico e fenomenologico dei saggi giovanili dedicati ai concetti di apparire, essere, manifestatività e delle idee connesse di disancoramento, angoscia, coscienza temporale umanistica, oggettività, dismondanizzazione e assenza di mondo. Com’è noto, Grassi mostra nella sua disamina degli pseudo-umanesimi una insofferenza nei confronti delle letture storiografiche e teoretiche a lui coeve, a suo avviso gravate dal pregiudizio idealistico ed hegeliano, rivendicando l’esigenza di una collocazione del tema onto-antropo-logico sul terreno strettamente speculativo, teoretico. Nella prospettiva del filosofo “il termine umanesimo è diventato più che mai polisenso. Si parla di un umanesimo da un punto di vista storico, si parla di un umanesimo da un punto di vista filosofico, si parla di un umanesimo da un punto di vista politico [...] sia dunque ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico: si tratta dunque di delimitare una concezione speculativa dell’uomo che prenda chiara posizione di fronte ai differenti motivi speculativi nei quali si rispecchia la nostra attuale coscienza filosofica. Che significato speculativo può oggi avere un umanesimo?”307. Indagare questo significato speculativo dell’umano, al di là della polisemia che inevitabilmente lo connota, per Grassi significa affrontare il problema della reinterpretazione antitradizionale della filosofia umanistica nella convinzione che la filosofia umanistica abbia costituito il fulcro e la svolta del pensiero filosofico occidentale, la vera “rivoluzione copernicana”308. Il compito di questo progetto neoumanistico che già dalla metà degli anni Venti emerge – a partire dal saggio su Machiavelli analizzato in precedenza – per rifluire nelle riflessioni filosofiche successive, si articola come ricerca dell’unità di senso della realtà, come compito preliminare nel processo di determinazione di una teoria dell’uomo che !E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 243 e sgg.! 307 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 202-206. I corsivi sono nostri. 308 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 261, “Il rovesciamento della filosofia, la rivoluzione copernicana, non ha avuto luogo né con Descartes né con Kant, ma con l’Umanesimo italiano. Ma le conseguenze che derivano dalla nuova valutazione della fantasia, dell’ingenium, della preminenza dell’immagine, possono essere discusse solo sulla base di un’ulteriore ricerca sull’essenza della tradizione umanistica italiana”.  ! 105!  mantenga l’originaria integrità e unità delle sue strutture fondamentali. Negli stessi anni in cui i maggiori esponenti dell’antropologia filosofica del Novecento – Scheler309, Plessner310, Gehlen311 –  Max Scheler in La posizione dell’uomo nel cosmo esprime l’idea di uomo attraverso una ricerca antropologica come scienza fondamentale dell’essenza e delle strutture essenziali dell’uomo. Esplorare la dimensione umana e la sua posizione nel cosmo comporta un confronto con le dimensioni della spiritualità del conoscere, dell’amare, del volere. Per Scheler l’indagine sull’uomo della nuova antropologia prende le mosse da ciò che è esterno all’uomo per poi indagare e definire la sua essenza: “è compito di un’antropologia filosofica mostrare esattamente in che modo scaturiscano dalla struttura fondamentale dell’uomo, tutti i monopoli, le funzioni e le opere specificamente umani: come la lingua, la coscienza morale, lo strumento, l’arma, il concetto di giusto e ingiusto, lo Stato, l’azione di guida, le funzioni espressive delle arti, il mito, la religione, la scienza, la storicità, la socialità”, M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M. T. Pansera, Roma 1999, p. 186. Scheler analizza l’impulso affettivo “privo di coscienza, di sensazione e rappresentazione” che è presente nelle piante e nei gradi più bassi del mondo organico; l’istinto che è un comportamento teleologico; la memoria associativa il cui fondamento è il processo del riflesso condizionato, basato sul principio del successo e dell’errore per cui l’animale compie movimenti di prova in maniera spontanea ripetendo solo quelli utili; infine l’intelligenza pratica caratterizzante la facoltà di libera scelta dell’uomo. Il fattore discriminante fondamentale tra l’uomo e il resto del mondo è costituito dal concetto di spirito, il Geist che rappresenta la possibilità dell’essere aperto al mondo da parte dell’uomo e lo svincolarsi dal legame con quanto è organico: “la caratteristica principale di un essere spirituale consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con quanto è organico, dal legame con la vita [...] un essere spirituale non più legato alla tendenza e all’ambiente, ne è libero, e perciò aperto al mondo”, ivi, p. 144. 310 Per Plessner occorre partire dal concetto di vita che costituisce la “parola chiave di un’intera epoca”, H. Plessner, I gradi dell’organico, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 27-28. All’interno della impostazione plessneriana l’uomo è contraddistinto dalla sua posizione eccentrica: l’eccentricità è la disposizione dell’uomo rispetto al mondo nei confronti del quale si trova de-situato. Plessner, a conclusione di I gradi dell’organico. Introduzione all’antropologia filosofica, passa in rassegna tre leggi antropologiche fondamentali: la legge dell’artificialità naturale secondo cui l’uomo non vive in modo rassicurante nel suo ambiente immediato ma in modo artificiale, costruendo a partire da una natura una cultura; la legge dell’immediatezza mediata secondo cui l’uomo si appropria di ciò che gli è dato in precedenza in modo immediato attraverso forme di mediazioni quali invenzioni, scoperte, conoscenze; la legge del luogo utopico che afferma che l’uomo prende le distanze dall’immediatezza e volge il suo sguardo verso un fondamento assoluto del mondo che in sé non ha alcun fondamento. Egli afferma che “la sua forma eccentrica spinge l’uomo al perfezionamento, stimola bisogni che possono essere soddisfatti soltanto mediante un sistema di oggetti artificiali e insieme imprime loro il marchio della caducità”, ivi, p. 363. 311 Arnold Gehlen si pone sulla linea di ricerca scheleriana elaborando una idea di uomo nell’opera L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, partendo dai risultati multidisciplinari delle scienze positive. L’antropologia “elementare” gehleniana, partendo dagli aspetti più semplici che accomunano l’essere umano all’animale sottolinea allo stesso tempo la specificità dell’umano che consiste paradossalmente nella sua indeterminatezza costitutiva: se gli altri viventi sono contraddistinti da un indice di specializzazione alto come testimoniato dallo sviluppo della percezione e dall’istinto l’uomo presenta una indigenza che però stimola latenze di potenzialità più alte, superiori, che rendono l’uomo autodeterminabile proprio perché indeterminato. Per Gehlen prima di tutto l’uomo è l’essere determinato all’azione: l’azione sarà il tema chiave per poter comprendere un essere che agisce sulla natura per trasformarla al fine di assicurare la sua sopravvivenza. L’uomo è poi distinto dall’animale per una serie di caratteristiche: la “primitività” del suo corredo organico e istintuale; la sua “incompiutezza”; la sua “non-specializzazione” organica. Già Herder aveva tracciato una distinzione tra l’uomo e l’animale che guardava all’uomo come ad un “essere biologicamente carente”, un “essere manchevole”, un essere privo persino di un ambiente proprio (Umwelt). Per Gehlen “la “deficienza organica” e le peculiarità organiche dell’uomo vanno perciò considerate alla luce dell’idea cardine della “non-specializzazione”: [...] primitivo è = non specializzato = originario, o in senso ontogenetico (embrionale) o in quello filogenetico (arcaico). Per specializzazione è da intendersi la perdita della pienezza delle possibilità esistenti in un organo non specializzato, a vantaggio del grande sviluppo di alcune di queste possibilità a spese di altre, cfr., A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010, pp. 127-128. Accettando il paradigma interpretativo della carenza si pone il problema di coniugare questa non specializzazione umana con il suo esser collocata all’interno di una catena biologica evolutiva. La dotazione organica non specializzata dell’uomo e i suoi primitivismi rendono problematica la sua esistenza che solo grazie all’azione e alla costitutiva apertura al mondo continua e progredisce. Categoria fondamentale all’interno ! 106!   elaborano le note teorie sull’uomo, Grassi, forte della sua formazione culturale a metà strada tra filosofia italiana, filosofia tedesca e francese, sente l’esigenza di indicare l’insufficienza sia di un approccio scientifico all’uomo sia i limiti di una impostazione speculativa classica mediata soprattutto dalle letture heideggeriane di cui abbiamo già detto. Attraverso l’analisi delle teorie degli esponenti dell’antropologia gehleniana è quella dell’esonero Entlastung che indica la capacità umana di distaccarsi dagli oneri del mondo esterno. L’esonero costituisce il primo atto per spezzare il cerchio dell’immediatezza e per liberarsi dalla pressione dell’hic et nunc: l’uomo deve allontanarsi dalla pressione dell’immediato interponendo tra lui e il mondo una distanza sempre maggiore, solo in questo modo può trasformare l’Umwelt, l’ambiente, in un mondo abitabile, la Welt.  ! 107!  della biologia teoretica quali Driesch312, Plessner313, Jacob Von Uexküll314 e Gehlen315, Grassi cerca di porre in luce gli aspetti negativi che derivano dalla confusione del “contributo delle scienze con quello della filosofia”316 . Accogliendo la critica crociana alla perdita di autonomia del filosofo che 312 Hans Driesch (1867-1941) fu un biologo e filosofo tedesco. Egli lavorò a Napoli presso la stazione zoologica dal 1891 al 1900 e successivamente insegnò a Heidelberg tra il 1909 e il 1920 Filosofia della natura, in seguito anche a Colonia e Lipsia. Fu convinto assertore del vitalismo contro la teoria meccanicistica di matrice darwiniana. Il suo pensiero è diretto verso la valorizzazione del finalismo della natura e verso il riconoscimento dell’importanza dell’entelechia, concetto ripreso da Aristotele, interpretata come principio immanente superindividuale. Tra le opere più importanti ricordiamo Storia del vitalismo (1905), Filosofia dell’organismo (1909), Corpo e anima (1916), Il problema della libertà (1917), Metafisica (1924). Di Driesch Grassi mette in luce il neo-vitalismo presente nelle osservazioni sulla vita organica e l’importanza del concetto di entelechia esposto dal Driesch in Philosophie des Organischen. Grassi, in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, sostiene che “in molti ambienti la filosofia rimane concepita sul fondamento delle scienze, cioè sintesi e classificazione di fatti, ed è perciò stesso incapace di raggiungere in questa forma un reale valore conoscitivo e metafisico. L’influenza di concezioni simili si scorge oggi in tutta quella corrente speculativa della filosofia tedesca contemporanea che ha vivo l’ideale empiristico di una scienza naturale elaborata in filosofia, filosofia della natura, che in realtà non diventa che un prospetto empirico di scienze naturali e di arbitrarie ipotesi naturalistiche. Appartengono a questa corrente di idee il Driesch, o zoologi come il Plessner – che con osservazioni scientifiche e biologiche tentano di raggiungere una costruzione metafisica [...] nella sua Philosophie des Organischen a mezzo dell’analisi dello sviluppo delle forme dell’organismo e mettendo in luce con osservazioni biologiche l’originalità della vita organica, egli giunge ad una concezione neovitalistica. Le sue osservazioni biologiche, la sua teoria dei sistemi equipotenziali, assumono un’importanza scientifica ed egli concluse che accanto ai fattori fisici e chimici, per spiegare un organismo, è necessario ammettere un nuovo fattore, che egli chiama entelechia”, in Id., I primi scritti, cit., pp. 165- 166. Cfr., anche Linee di filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., pp. 299-332, in particolare il primo paragrafo dedicato a Driesch, pp. 299-305. 313 Di Plessner Grassi evidenzia i limiti strutturali che l’approccio scientifico all’umano inevitabilmente porta con sé. Egli afferma che “una concezione di una filosofia fondata sulla scienza la troviamo anche in altri pensatori come Plessner, scolaro di Driesch e originariamente zoologo, autore di Die Einheit der Sinne. Grundlinien einer Aistesiologie des Geistes e più recentemente di un altro volume Die Stufen des Organischen un der Mensch. Einleitung in die philosophische Antropologie, volumi ai quali l’acuta raccolta di fatti e le osservazioni scientifiche conferiscono pregio, ma che non raggiungono una concezione speculativa. Una antropologia non diventa speculazione e affermazione filosofica se non si nega ogni aspetto ontologico ai gradini della realtà naturale, rifiutando di considerarli come assolute gerarchie del reale e risolvendoli nella nuova affermazione della realtà come atto dello spirito, ivi, p. 168. In questo passo emerge la convinzione grassiana – di evidente ascendenza gentiliana – del limite strutturale delle coeve antropologie filosofiche che per diventare autentiche meditazioni sull’uomo devono collocarsi su uno sfondo filosofico che indaghi la realtà a partire dall’idea di atto e non di dato. 314 Grassi richiama l’attenzione sul concetto uexkülliano di cerchio funzionale simbolico e fa riferimento alle sue teorie sia nel saggio Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (cit., p. 205) sia più diffusamente in La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofia, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo III; in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; infine in Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 315 Cfr., Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 67-69. Grassi sottolinea la connessione istituita da Gehlen tra apertura di mondo e cultura. 316 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, In Id., I primi scritti, cit., p. 204. ! 108!   si è messo a servizio della scienza espressa in Logica317 Grassi asserisce che la concezione bio- metafisica su cui l’empirismo si basa “si traveste oggi assumendo nuove forme in veste anti- positivistica”318. L’empirismo va messo da parte, così come gli altri modi di accedere all’umano che la coeva filosofia tedesca aveva prodotto, poiché non supera “gli schemi del procedere naturalistico”319 che si avviluppa in “pseudo-concetti che sulle generalità scientifiche vorrebbero fondare distinzioni filosofiche”320. Il riferimento polemico è alle correnti neokantiane, allo storicismo diltheyano, alla fenomenologia husserliana321 incapaci di elevarsi a quella metafisica esistenziale che solo Heidegger ha portato ad espressione. A questo punto appare indispensabile soffermarsi, seppur brevemente, sulle figure di Dilthey e Husserl, la cui conoscenza costituisce una tappa importante per la comprensione dell’atteggiamento speculativo grassiano. In Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger Grassi mette insieme storicismo, fenomenologia, metafisica esistenziale e attualismo. Egli afferma che il filosofo di Messkirch “presenta una speculazione metafisica originale, inverando il tentativo di due pensatori, l’Husserl e il Dilthey, che alla fine del sec. XIX e al principio del XX iniziarono il primo tentativo di liberazione dall’empirismo”322. In che senso si parla di inveramento delle filosofie di Dilthey e Husserl nella metafisica immanente di Heidegger e come quest’ultima a sua volta radicalizza l’attualismo323?  B. Croce, Logica, Laterza, Bari 1920, p. 264: “perché quando non si tratta d’altro che di classificare e di sistemare quei risultati, lo scienziato sente a ragione di non aver bisogno del soccorso dei filosofi”. 318!E. Grassi, Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 205.! 319!Ibidem. 320 Ibidem. 321 Cfr. sulla critica a neokantismo, storicismo e fenomenologia gli articoli di indole informativa generale che seguono: Id., Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., e Id., Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti, cit., 181-202. 322 Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. Cfr., anche le pagine grassiane su Heidegger del saggio Was ist Existentialismus?, pp. 75-124, in N. Abbagnano, Philosophie des menschlichen Konflikts. Eine Einführung in den Existentialismus, Rowohlt, Hamburg 1957, soprattutto pp. 91-97 e 106-114. 323 Già nel saggio del 1929 Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea (in Id., Primi scritti, cit., pp. 181-202) Grassi, sviluppando in forma più articolata le poche battute su Heidegger contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (p. 174), afferma quell’identità di problemi tra attualismo ! 109!   La “meditazione diltheyana” di Grassi si focalizza soprattutto sui concetti di Lebenzusammenhang, di Weltanschauung e di psicologia324. Secondo il pensatore milanese Dilthey fu il primo a intravedere il problema della realtà e della storia come problema della realtà vivente, rivendicando l’importanza dei sui scritti speculativi e tralasciando quella dei testi a carattere maggiormente storico325. In Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (1929) leggiamo che il problema dal quale muove Dilthey, quello della distinzione tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, di scarsa importanza in sé rileva Grassi, va ricondotto alla più generale operazione teoretica di ricerca intorno al fondamento spirituale delle scienze dello spirito individuato in “una scienza di carattere psicologico. Gli elementi del mondo storico sono gli individui, quindi lo studio di essi e la descrizione dei vari tipi di vita spirituale diventa la base della comprensione storica [...] l’esame della struttura della vita dello spirito cerca di conquistare nella molteplicità di situazioni coesistenti la sua caratteristica unità”326. La psicologia diltheyana per Grassi ha il merito di ricondurre ogni concreta realtà storica alla concatenazione vitale dell’atto di coscienza in cui si realizza il rapporto tra io e mondo. Tuttavia il e ontologia immanentistica heideggeriana che in Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger del 1930 troverà una articolazione teoretica più approfondita. Infatti, in Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea leggiamo che “Heidegger realizzò una delle più importanti speculazioni metafisiche immanentistiche ed una delle più rigorose critiche del tentativo di Husserl. L’interpretazione e o sviluppo attualistico del pensiero fenomenologico assume un significato storico e teoretico tutto particolare”, p. 198. 324 Per una analisi dettagliata di questi temi diltheyani rimando alle osservazioni di G. Cacciatore in Scienza e filosofia in Dilthey, 2 Voll., Guida, Napoli 1976; Id., Dilthey: connessione psichica e connessione storica, pp. 211-223, in AA. VV, Una logica per la psicologia, Il Poligrafo, Padova 2003; Id., Vico e Dilthey. La storia dell’esperienza umana come relazione fondante di conoscere e fare, pp. 17-58, In Id., Storicismo problematico e metodo critico, Guida, Napoli 1993; cfr., ivi anche Id., Spirito oggettivo e oggettivazione della vita: Dilthey e Hegel, pp. 105-125; Id., La tipologia delle visioni del mondo tra critica storica della ragione ed essenza della filosofia, pp. 153-172; Id., Il fondamento dell’intersoggettività tra Dilthey e Husserl, pp. 249-287; Id., Ortega y Gasset e Dilthey, pp. 289-318; Id., Vita e storia tra Zubiri e Dilthey, pp. 177-187, in Id., Saggi di filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Il Mulino, Bologna 2013; Id., Dilthey tra universalismo e relativismo, pp. 213-230, in Id., Dallo storicismo allo storicismo, ETS, Pisa 2015. 325 “Durante la sua vita i suoi sforzi teoretici passarono quasi inosservati e anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1911, Dilthey rimase per alcuni anni completamente dimenticato come filosofo, mentre i suoi lavori storici venivano molto apprezzati [...] i primi suoi lavori sono tra i più notevoli della storia e della filosofia dei suoi tempi: l’acutezza delle indagini, la facoltà ricostruttiva di un’epoca o di una personalità danno ai suoi saggi grandissimo valore e molti lo considerano come il più grande “Geistesgeschichtsschreiber” dopo Hegel [...] ma l’importanza e l’interesse che Dilthey desta in seno alla filosofia tedesca – per cui dobbiamo fermarci in modo particolare sulla sua figura – è dato non dai suoi lavori storici, ma dai suoi scritti di carattere speculativo e polemico”, E. Grassi, Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 171-172. 326 Ivi, pp. 172-173.  ! 110!  passaggio auspicato dal pensatore milanese da una “teoria dell’atto di comprensione” ad una “metafisica immanente” rimane incompiuto nel filosofo tedesco che “non giunse alla chiara coscienza che una volta riconosciuto il tratto fondamentale del reale nell’atto completo di comprensione, se ne coglie al tempo stesso il carattere assoluto che impedisce ogni relativismo”327. Così per il filosofo italiano Dilthey ricade nell’astrattismo di una “tipologia che prese il posto della filosofia”328, la quale riduce la fondamentale categoria della Lebenzusammenhang a forme astratte, a classi e tipi e al relativismo329. Se le riflessioni su Dilthey pongono in luce l’attenzione verso l’esistenza concreta e le strutture psicologiche che soggiacciono alla costruzione del mondo storico umano, quelle su Husserl mettono in risalto il tentativo di riconquistare il rigore alla filosofia – il progetto di una filosofia come scienza rigorosa – un rigore metodologico, che invera “la psicologia fenomenale di F. Brentano”330. In Linee della filosofia tedesca contemporanea Grassi sostiene che “la meta di Husserl fu la conquista di un fondamento assoluto e universale su cui costruire con sicurezza la ricerca filosofica [...] egli scorse con chiarezza l’impossibilità di fondare la filosofia sulle scienze”331. Una critica radicale in questo senso è costituita dalle Ricerche logiche che tentano di “raggiungere il concetto della logica, della filosofia come scienza a priori, libera da ogni empirismo”332. Per il filosofo milanese, Husserl individua il fondamento del reale attraverso la riduzione fenomenologica, la quale, sospendendo ogni  Ivi, p. 174. 328 Ibidem. 329 Cfr. sulla critica grassiana al concetto di tipologia anche, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea (1933), pp. 299-332 in Id., I primi scritti, cit., soprattutto le pp. 307-311 e ivi Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, cit., soprattutto pp. 420-421. 330 Cfr., Id., Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, pp. 181-202, in Id., I primi scritti, cit., p. 182. 331 Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 313-314. 332 Ibidem.  ! 111!  giudizio di esistenza333 – epochè –, guadagna una certezza indubitabile: “il mondo della coscienza pura coi suoi vari momenti e significati [...]. Non c’è più il mondo dommaticamente affermato e poi la sua rappresentazione, ma solo l’immediato essere del mondo come oggetto ideale della nostra coscienza”334. Questo mondo trascendentale è il Vorurteil, il quale condiziona ogni nostro giudizio di esistenza e rende possibile quella scienza fenomenologica che coniuga la ricerca sulle proposizioni formali della logica con i temi etici ed estetici. Il cuore della fenomenologia è colto da Grassi nell’andare zu den Sachen selbst tramite la Wesenschauung. Infatti, sempre in Linee della filosofia tedesca contemporanea, il filosofo sottolinea come la fenomenologia non sia una metafisica ma “un metodo a mezzo del quale si isolano degli elementi assoluti, trascendentali, coi quali ciascuno può e deve costruirsi con rigore scientifico un concetto della realtà [...] le essenze logiche non possono venirci dimostrate, ma possono solo mostrarsi per se stesse a mezzo della loro evidenza, chiarezza e distinzione, immediatezza ultima. La fenomenologia non vuole essere una costruzione, ma semplicemente un esame intuitivo, uno “schauen” dei concetti [...] coglie così l’essenza delle cose e pretende di andare direttamente zu den Sachen selbst”335. I concetti husserliani su cui egli si sofferma maggiormente sono quelli di epochè, riduzione fenomenologica, Vorurteil, evidenza336. L’analisi di questi temi, da un lato, sottolinea l’importanza e la fecondità speculativa della fenomenologia husserliana – poiché seppe con maggior forza contrapporsi all’empirismo e al naturalismo rispetto allo storicismo diltheyano337 – ma, dall’altro,  Grassi riesce a cogliere in poche battute tutto il senso della riflessione husserliana: “se noi ci manteniamo in un fondamentale e metodico atteggiamento critico rispetto al reale e cerchiamo di raggiungere un ultimo fondamento sul quale non sia più possibile esercitare il nostro dubbio, (e che come tale costituisce la base sicura su cui poggiare ogni altra affermazione o costruzione), giungiamo al riconoscimento del carattere trascendentale, assoluto, del pensiero in quanto puro pensato. Sospendendo ogni giudizio di esistenza, (!)$+,), ci troviamo infatti di fronte ad un mondo di molteplici significati ideali che hanno un senso solo in quanto sono dati così o così nella nostra coscienza. Il mondo del pensato come pensato, dell’inteso come inteso, è l’elemento ed il residuo ultimo su cui non si può più esercitare il nostro dubbio, come già aveva intravisto Cartesio”, ibidem. 334 Ivi, p. 315. 335 Ivi, p. 316 336 Cfr., V. Costa- E. Franzini- P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002. 337 “La posizione di Husserl, come abbiamo visto, è caratterizzata da una chiara coscienza delle necessità di pensare gli universali nella loro purezza, sciogliendoli dalle contingenze sociali, storiche, psicologiche. Sotto questo aspetto il suo ! 112!   getta luce sui limiti intrinseci di ciò che Grassi definisce “positivismo razionalistico”. La fenomenologia è un positivismo razionalistico poiché riduce il “dato empirico al suo significato logico razionale, sostituendo al dato di fatto dell’empirismo il dato del mondo razionale”338. Da qui la definizione di positivismo razionalistico”339. Sia Dilthey che Husserl – i maggiori esponenti della filosofia tedesca coeva secondo Grassi – non hanno declinato queste ricerche in direzione di una metafisica dell’essere come “concreto sviluppo storico, processo di autorealizzazione immanente”340. Questo inveramento si ha con Heidegger la cui originalità storica è ricondotta all’interno dell’orizzonte metafisico e non solo fenomenologico. In Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger Grassi afferma che nel lavoro del pensatore di Messkirch “confluiscono così in un fecondo superamento gli sforzi di Husserl e Dilthey: la medesima analisi del Dasein come fondamentale atto di rapporto e il suo dettagliato sviluppo seguito piano per piano, attraverso le varie forme di esistenza, non è che un riprendere il tentativo di Dilthey [...] la ricerca del significato d’essere attraverso la concreta analisi del Dasein è sufficiente a mostrare un nuovo orientamento della sua fenomenologia”341 che non ha una componente intuizionistica – sia essa intesa come l’intuizione eidetica husserliana o nel senso generale irrazionalistico e vitalistico –, ma si pone come ricerca della concreta storicità dell’esistente: la fenomenologia diviene Hermeneutik der Faktizität. Solo sulla base di un’analitica dell’esistenza è possibile porre la questione ontologica e fenomenologica – dove per fenomenologia dobbiamo intendere l’analisi di stampo hegeliano dei vari momenti e sviluppi della realtà storica. Grassi afferma che il pensiero di Heidegger assume una particolare rilevanza per quanto riguarda il problema metafisico mostrando una certa affinità con i pensiero segnò un momento fondamentale in seno alla filosofia tedesca contemporanea contrapponendosi con maggiore chiarezza di Dilthey all’empirismo ed al naturalismo nelle sue più varie forme”, E. Grassi, Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323. Cfr., anche le pagine dedicate a Husserl in E. Grassi, Was ist Existentialismus?, cit., soprattutto le pp. 80-91. 338!Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., p. 323.! 339 Ibidem. 340Id., Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 341 Ivi, p. 223.  ! 113!  temi dell’attualismo. Il filosofo italiano sostiene in Il problema della metafisica immanente che “pur essendo nato da problemi e posizioni speculative completamente lontane dalle premesse del pensiero immanentistico italiano esso giunge a delle conclusioni che rivelano un’aspirazione metafisica”342. Il significato e l’importanza di quella originaria “attualità esistenziale – per cui l’essere si dà precedentemente a qualsiasi riflessione – il suo superamento ed inveramento della logica astratta nella logica concreta, e a sua volta la posizione che questa logica concreta ha in seno ad una metafisica esistenziale” 343 ha un’importanza tutta particolare per Grassi ed implica una serie di problemi decisivi: proprio in relazione alla questione della metafisica esistenziale “comincia a delinearsi la precisa posizione di Heidegger rispetto all’idealismo hegeliano e all’attualismo idealistico di Gentile”344. Sullo sfondo di quanto appena detto, possiamo comprendere come nelle analisi grassiane degli anni Trenta siano molto vivi i temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati a quelli dell’evidenza del fondamento e della ricerca delle strutture esistenziali umane che si modulano come indagine sui rapporti tra la filosofia attualistica di Gentile e la metafisica immanente di Heidegger. La coappartenenza di queste problematiche mette in luce una triplice costituzione del pensiero grassiano: ontologica, antropologica, logica. Come tenteremo di esporre nel corso della trattazione, il pensiero di Grassi si configura come riflessione ontologica perché si muove nell’orizzonte dell’essere e della ricerca del suo senso: l’essere è inteso alla luce della differenza ontologica (concetto mutuato da Heidegger) come manifestatività e allo stesso tempo trascendenza, per cui il piano ontologico che si manifesta in quello ontico – l’ente come ciò che appare nella sua differenza dall’essere – si sottrae all’orizzonte di pura luminosità dell’apparire proprio nel suo differire. Attraverso la lezione heideggeriana Grassi coniuga il problema  Ivi, pp. 226-227. 343!Ibidem.! 344 Ibidem.  ! 114!  della trascendenza, così vivo nella sua formazione iniziale, con quello dell’immanenza presente nella fase gentiliana della sua riflessione. La centralità di questi temi, in cui immanenza e trascendenza si co-appartengono, permane anche nelle riflessioni sulla Lichtung caratterizzanti gli scritti successivi, dove la Lichtung altro non è che la parola che dice del costitutivo rimandare l’una all’altra di immanenza e trascendenza, di piano ontico e ontologico. In Heidegger e il problema dell’umanesimo, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, il filosofo afferma che “gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”345. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come una forma più o meno larvata di antropologia tout court, è la problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema del contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come ricerca delle strutture del mondo umano. In questa ricerca grassiana, accanto all’attenzione all’ambito ontologico, lasciatogli in eredità da Heidegger, ritroviamo una centralità della dimensione ontica – le concrete Lichtungen – che dal suo maestro degli “anni mitici” sembra essere stata accantonata a favore di una concentrazione più sugli aspetti di oblio dell’essere della filosofia occidentale che non su quelli in cui l’essere si dà in maniera autentica: se in Heidegger a dominare è l’idea dell’oblio dell’essere, in Grassi riscontriamo il tentativo di ricostruire una storia dell’evento autentico dell’essere – da qui l’indagine storico-filosofica sui temi umanistici. La riflessione di Grassi è poi antropologica perché attenta all’orizzonte umano a partire dal quale si pone la domanda sul senso dell’essere: l’universo linguistico e artistico del mondo umano in cui accade la verità dell’essere. In Heidegger e il problema dell’umanesimo leggiamo che l’analisi del  Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. I corsivi sono nostri. ! 115!   contesto originario si declina innanzitutto come ricerca linguistica: “la cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...] il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”346. Con l’umanesimo, secondo il filosofo, non ci si interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua prigione. Grassi, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per il pensatore occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, al contrario, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione umana”347. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis”348. Infatti, per il pensatore milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Il senso classico dell’ontologia come logos intorno all’on si tramuta in Grassi in ricerca dell’unità di logos e on, come discorso sul nesso ontologico. La delucidazione del nesso logos-on o, per usare i termini  Ibidem. I corsivi sono nostri. 347 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 80. 348 Ibidem.  ! 116!  grassiani, della correlazione di verbum e res, induce il filosofo ad approfondire i temi della retorica, della metafora, della fantasia e dell’ingegno, i quali mettono in luce come l’ontologia grassiana sia un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi, scorci, campi, forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico: poiché il metapherein – la trasposizione – è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il reale. La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, ossia in Il dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”349 in cui possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni indicativi”350 provenienti dal “colloquio con l’abissale che urge, che per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo l’indeterminato”351. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una momentanea radura (Lichtung)”352 che mette in campo una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca l’importanza dell’esperienza storica”353. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo di superare le falle dell’hòros, del concetto, che è incapace di dire la natura temporale e metamorfica degli enti che si esprimono nei sempre diversi significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti, per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di un’indicazione, da qui  349 Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica, Napoli 1992, p. 165. 350 Ivi, p. 14. 351 Ibidem. 352 Ibidem. I corsivi sono nostri. 353 Ivi, p. 15.  ! 117!  la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, su cui ci soffermeremo nell’ultimo capitolo. Egli asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”354; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”355, abbiamo il logos ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Ritornando al nesso metafora-concetto Grassi afferma che a quest’ultimo “spetta come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo fondamento universale. Il significato di hòros può essere colto nella sua portata originaria soltanto mediante il verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione (horismòs) esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”356, che è compito della retorica autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora, non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”357, grazie alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza dell’uomo”358, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno identificati con il nous aristotelico interpretato alla stregua di “unica espressione delle archai nel loro  354Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 355 Ibidem. 356Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 357Id., Significare arcaico, in Archivio di filosofia, Roma 1966, pp. 479-495, p. 494. 358Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 202.  ! 118!  carattere palesante e immediatamente indicativo”359, profondamente influenzate dall’analisi heideggeriana della Einbildungkraft kantiana come “facoltà di darsi le vedute”360. Del resto, sebbene Grassi non citi nella sua analisi più sistematica della fantasia, ossia nel testo La potenza della fantasia, la teoria kantiana della Einbildungskraft, egli conosceva benissimo la lettura offerta da Heidegger della facoltà di immaginazione kantiana, come emerge dalla citazione di Kant e il problema della metafisica definito in uno dei primi saggi come il lavoro che più “sembra atto ad introdurre nel suo pensiero chi non ha famigliarità con la sua terminologia”361. Possiamo ipotizzare che il mancato riferimento alla teoria kantiana da parte di Grassi sia dovuto a un’interpretazione del kantismo sostanzialmente mediata dal filtro neokantiano su cui Grassi si sofferma a più riprese soprattutto nei primi lavori stesi durante il soggiorno tedesco362. Tra i neokantiani, dei quali non può che criticare l’impostazione matematizzante, intellettualistica ed astratta, Grassi riconosce l’importanza di Cassirer che “ha [...] il merito di essere il più importante storico della filosofia che questa scuola abbia dato”.363 Oltre al tema linguistico, nell’analisi del mondo umano, emergono i concetti di disancoramento e angoscia, dalla temporalità cairologica come struttura di temporalizzazione fondamentale dell’esserci in cui i tre momenti del tempo si co-appartengono e rendono possibile il raggiungimento del secondo livello di oggettività: quello della coscienza temporale umanistica (l’oggettività di primo livello è quella della physis in quanto diastema), in cui gioca un ruolo fondamentale la decisione come espressione della storicità del mondo umano e della sua formazione (Bildung), che in questo modo  359Id., Significare arcaico, cit., p. 494. 360 Cfr., M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma- Bari, 2004. 361 Cfr., E. Grassi, Heidegger e il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 209. 362 Cfr., le riflessioni sul “ritorno a Kant” contenute in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, cit., soprattutto pp. 164-165; Id., Linee della filosofia tedesca contemporanea, cit., pp. 301-302. 363 Ivi, p. 165.  ! 119!  acquista un carattere esistenziale. Infatti “esistere significa sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo, senza evitare la decisione richiesta”364. Sul terreno ontologico dinamico in cui il discorso sull’essere è imprescindibile da un discorso sulle forme dell’apparire dell’essere – fenomenologia – e sul suo senso nell’orizzonte umano di esistenza – semantica – si comprende la critica grassiana alla struttura soggettocentrica e logicista della filosofia. Per il filosofo “si manifesta sempre la preminenza dell’urgere della passionalità, in quanto continuamente affiora nell’ambito della contraddizione logica dell’esperienza che l’essere non si rivela mai completamente nel divenire degli istanti. È in questo divenire del metaforico traslarsi del reale che viene passionalmente vissuta la contraddittorietà della logica astratta. Questo ritmo arcaico del palesarsi e dell’occultarsi non cessa mai, è esso che ordina – nei limiti di storiche, differenti radure – che appaiono in istanti – i tumulti che incombono”365. Solo attraverso un’esperienza originaria della filosofia secondo il pensatore – esperienza preclusa alla logica astratta che è solo un determinato atteggiamento filosofico e non l’unico – è possibile erigere mura per difenderci dal “vento del tempo che distrugge la stessa temporalità”366. La filosofia di Grassi tuttavia non va interpretata come una forma illogica di irrazionalismo. Anzi ciò che, a nostro avviso, va sottolineato è il valore logico della sua ricerca che tenta di proporre un concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza. Sorretta da una simile struttura onto-antropo-logica, la ricerca grassiana mira a sondare “la legittimità di tutti quegli pseudo-umanesimi che credono di poter dedurre secondo i canoni delle scienze naturali la realtà dell’uomo”.367 La messa in discussione dell’impostazione scientifico- naturale del problema dell’uomo avviene attraverso alcuni concetti fondamentali: disancoramento e oggettività, angoscia e nulla che, come vedremo, sono strettamente connessi a quelli di logos, pathos  364Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 73. 365Id., Il dramma della metafora, cit., p. 15. I corsivi sono nostri. 366 Ibidem. 367 Id., Heidegger e il problema della metafisica, cit., p. 203.  ! 120!  e manifestatività. Nelle analisi che seguono, cercheremo di ridurre ai suoi nodi teoretici essenziali il tragitto onto-antropo-logico del pensiero grassiano. III. II. Essere, apparire e manifestatività tra logos e pathos. La fallacia dell’accusa di dualismo Secondo Grassi è possibile fare esperienza dell’essere non solo attraverso il linguaggio razionale ma soprattutto tramite la contraddizione. In La preminenza della parola metaforica egli riprende il tema già affrontato in Heidegger e il problema dell’umanesimo e analizza il problema dell’essere come fenomeno linguistico e espressione della contraddizione originaria che caratterizza il mondo. Egli sostiene che “l’ambito dell’Essere – in funzione del quale parliamo – non è quello della razionalità nel quale vige il principio di identità ed esclusione della contraddittorietà: il suo ambito è quello della contraddizione [...] siamo dunque obbligati a riconoscere che l’Essere preme, si impone, urge originariamente in un linguaggio non logico”368. Il campo in cui esperiamo l’essere come evento della contraddizione, ossia come evento della differenza ontologica, non è quello di una logica che espelle la contraddizione, ma quello di un logos che include anche il pathos. Occorre soffermarci su quest’ultimo tema e farlo interagire con quello del logos per mostrare la complessità di questi due concetti che non attestano un presunto dualismo369 nel filosofo o una kehre370 tra un “primo Grassi”, dominato dalla questione del logos in pieno clima  368Id., La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister Eckhart, Novalis, Mucchi, Modena, p. 18. 369 Mi riferisco alla posizione di Massimo Marassi del quale condivido l’interpretazione complessiva del pensiero di Grassi e dal quale tuttavia mi allontano a proposito del tema del presunto dualismo. Egli afferma in Ernesto Grassi e l’esperienza del fine che “ancora nei primi scritti la conoscenza concettuale, accanto a quella patetica, costituiva una forma particolare di ordinamento della realtà che manteneva una dignità peculiare. È invece nell’ultima produzione che emerge un’insistenza quasi ossessiva sulla preminenza del pathos. Ma così, bisogna riconoscerlo, Grassi non tiene fede al tentativo di superare il dualismo logos-pathos. In effetti egli avrebbe dovuto ricercare uno sbocco unitario del problema, il solo capace di elidere le difficoltà del dualismo. Invece è semplicemente passato dalla preminenza della concettualità a quella del pathos, invertendo il segno del dualismo, ma restandone prigioniero”, M. Marassi, Ernesto Grassi e l’esperienza del fine, cit., p. 10. 370 Cfr. la posizione di Limongelli secondo la quale il pensiero di Grassi va inteso come un vitalismo o esistenzialismo o ontologia dell’agire storico situativo. Pur accettando parte della ricostruzione del cammino di pensiero di Grassi – soprattutto le sezioni che mettono in rilievo la presenza di Nietzsche e Heidegger – non condividiamo la tesi secondo cui in Grassi è riscontrabile una svolta. Scrive Limongelli in riferimento a Vom Vorrang des Logos che “tale scritto del Grassi ! 121!   attualistico, e un “secondo Grassi”, sensibile alla tematica linguistico-retorica. Secondo la nostra analisi, che coniuga la disamina storica delle opere grassiane con l’indagine teoretica sul tema onto- antropo-logico, nel pensatore milanese il filo conduttore della ricerca si identifica con l’analisi del mondo umano in tutte le sue manifestazioni. In questo percorso l’esperienza filosofica, non ridotta a scienza concettuale, ma vissuta ed esperita come metamorfosi esistenziale e impegno mondano, si caratterizza come indagine fenomenologica sul “come” il reale e l’essere ci appaiono nell’orizzonte umano del mondo storico. In questa ricerca più che il dualismo a emergere è una volontà di ricomporre e non di riproporre quei dualismi che la tradizione filosofica ha lasciato in eredità alla riflessione novecentesca come problemi ineludibili: teoria e prassi, natura e spirito, ragione e passione, immagine e concetto. Nella prospettiva grassiana “se si parte dal dualismo di immagine e concetto, è impossibile trovare successivamente un ponte tra i due [...] ora si tratta di riconoscere una radice comune dell’attività fantastica, metaforica, e di quella razionale – una radice che fonda in ultima analisi la realtà dell’individuo”371. La questione grassiana di delineare uno spazio espressivo per dire l’esperienza dell’originario, del fondamento – la Lichtung – si concretizza nella ricerca di un’unità complessa che salvaguarda il senso del reale senza chiuderlo nelle morse della definizione. Proprio per questo non condividiamo la prospettiva di coloro che leggono il pensiero di Grassi come un passaggio da una preminenza del logos a una del pathos e, quindi, riconducibile sotto il segno del dualismo. La “questione uomo”, intrecciandosi strettamente con quella dell’essere, non può che collocarsi su uno sfondo fenomenologico in cui le forme dell’apparire dell’uomo e del mondo sono indagate in una sostanziale unità, quella del reale372. L’ipotesi che muove queste pagine guarda alla caratterizzazione  rappresenta non solo il punto di svolta nel suo pensiero, ma al tempo stesso si presenta come il manifesto teoretico del suo progetto filosofico futuro”, S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di Ernesto Grassi, cit., p. 95. 371 E. Grassi, Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 66. 372 Sottolinea con forza questo aspetto unitario e non dualistico Rita Messori in Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi, cit. Afferma la studiosa che Grassi lega “pensiero e passione ! 122!   complessa di logos e pathos in Grassi. Ma prima di trattare di questo argomento è necessario soffermarci sul tema dell’essere e della manifestatività seguendo le tappe del discorso grassiano al fine di mostrare come nella teoria ontologica, che fa da sfondo a quella del logos e del pathos, siano da rintracciare i motivi di una inconsistenza del presunto dualismo grassiano. III. III. Essere e apparire Secondo l’interpretazione di Grassi l’essere si converte con l’apparire, con la manifestatività, e non va identificato, come accade nella prospettiva oggettivistica, con un dato. L’essere si dà solo e unicamente come processo della manifestazione e per gradi di evidenza e forme distinte. La necessità di riformulare la questione dell’essere è avvertita dal pensatore a partire dagli anni di confronto con Gentile, al quale Grassi fa riferimento già nel saggio La dialettica dell’amore (1924) in cui traspare una posizione anti-immanentista che poco dopo sarà soppiantata dall’accoglimento della filosofia di Gentile coniugata all’esistenzialismo heideggeriano. La dialettica dell’amore insieme al saggio Il tragico, dell’anno precedente, pongono in luce, da un lato, la centralità dei temi esistenziali del dolore e del tragico come contrassegni dell’esistenza umana373 – centralità rifluita nei testi degli ultimi anni come La metafora inaudita e Il dramma della con un duplice nodo: ciò che fa essere il pensiero è una fondazione di tipo estetico; ciò che fa essere l’estetico è il suo fondarsi nel logos. Tra logos e pathos vi è dunque un rapporto di reciproca appartenenza”, ivi, p. 66. 373 In questo saggio Grassi si autodefinisce ancora come oppositore dell’immanentismo (E. Grassi, La dialettica dell’amore, pp. 89-128, in Id., I primi scritti, cit, p. 120) e tale opposizione viene collocata dal pensatore milanese proprio sul terreno esistenziale. La questione del dolore in questo periodo ancora anti-immanentista gioca allora un ruolo importante. Essa attesta da un lato l’attenzione verso la dimensione concreta dell’esistenza che in Grassi emerge già in questi anni attraverso le letture di autori quali Unamuno, Ibsen, Shakespeare, Eschilo, Giobbe, dall’altro un primo confronto con l’immanentismo avvertito ancora come distante dal proprio orizzonte speculativo. Afferma Grassi in La dialettica dell’amore: “Il dolore assurge a un’importanza senza pari, è esso l’anima di tutto il divenire della Realtà in quanto ci permette questo essere una personalità, ossia coscienti e coscienza, che è l’essenza della nostra umanità in quanto in ciò si innesta la possibilità della libertà [...]ora al moderno pensiero immanentista che afferma la realtà, considerata come processo di coscienza, risolve ogni antinomia ed irrazionalità, noi dobbiamo chiedere che esso risolva anche il problema del dolore”, ivi, pp. 118-119. Il dolore si pone come nota distintiva dell’orizzonte umano e come limite per ogni filosofia immanentista attestando una trascendenza che ci sovrasta e che non può essere risolta nell’autocoscienza come forma pura e sintesi delle opposizioni.  ! 123!  metafora – tanto che Grassi giunge ad affermare che “il dolore è in realtà l’anima di tutta la dialettica del Reale”374. Dall’altro, sottolineano il legame ancora profondo di Grassi con il concetto di trascendenza, che andrà dapprima sfumandosi con il saggio del 1924 su Machiavelli per poi essere completamente sostituito nei contributi successivi dall’emergere della questione dell’immanenza. Il mutamento di prospettiva consumatosi in questo periodo – caratterizzato dalla presenza delle idee di Chiocchetti, da un avvicinamento a Croce, da un primo confronto con l’attualismo, che in questa fase appare, in modo evidente, incapace di risolvere quelle questioni esistenziali già ricordate e di garantire uno spazio di operatività del trascendente – è evidente se raffrontiamo due passi grassiani scritti a distanza di pochi anni l’uno dall’altro. Leggiamo in La dialettica dell’amore che “se la realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e il limite, rimanendo esso l’unico illimitato”375. In polemica con l’idea di un’autocoscienza come pura forma (interpretata dal filosofo come la più grande scoperta di tutta la filosofia d’immanenza di Giovanni Gentile) Grassi asserisce poco dopo che “in ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da controbattere, che esso proprio costituisce lo sbocco e l’affermazione alla quale tutto il pensiero moderno [...] doveva per interna necessità logica giungere, posta la sua premessa”376. Qui il pensatore si pone in opposizione all’attualismo gentiliano, all’immanentismo e alla riduzione della realtà alla forma pura dell’autocoscienza, sottolineando i limiti di una teoria che risolva il dato empirico-individuale, come quello del dolore e del tragico, nella trasparenza del pensiero che dissolve ogni contraddizione. Nel novembre del 1928, appena quattro anni dopo le affermazioni appena ricordate, egli asserisce in una lettera inviata all’amico Enrico Castelli Gattinara 374Ivi, p. 118. 375!Ivi, pp. 120.121.! 376 Ibidem.  ! 124!  di Zubiena che la sua posizione speculativa va senz’altro ricondotta nell’alveo dell’attualismo italiano gentiliano coniugato all’ontologia di Heidegger, pur riconoscendo il punto di partenza cattolico della propria formazione filosofica. Scrive Grassi all’amico: “Durante le mie peregrinazioni germaniche nell’anno scorso ho trovato in M. Heidegger uno dei più interessanti pensatori contemporanei [...] il mio filosofare è partito e parte da un desiderio di ripensare il pensiero cattolico, ma siccome in campo filosofico non valgono le intenzioni ma solo la conquista realizzata, non posso dare quello che oggi non ho ancora [...] la mia posizione attuale è il riconoscimento storico dell’attualismo come la forma più coerente e matura del pensiero moderno. Attraverso lo studio dei classici spero di giungere a nuovi orizzonti. Di qui ne consegue che anche il mio lavoro sulla filosofia tedesca è animato da quel riconoscimento dell’attualismo italiano e concretamente dall’ontologia immanentistica di Heidegger. Eccoti riassunta la mia posizione”377. Abbiamo posto l’attenzione su questi due passi per far emergere un aspetto di non secondaria importanza per una comprensione della questione onto-antropo-logica in Grassi. Durante gli anni della formazione giovanile la questione ontologica è contraddistinta dalla compresenza della componente della trascendenza, della realtà del dolore e del tragico, dell’ontologia heideggeriana e dell’attualismo gentiliano in cui la questione dell’essere, della Realtà, dell’apparire nella molteplicità delle forme distinte si intreccia con la dimensione umana, troppo umana dell’esistenza, tutta votata all’interpretazione del mondo circostante, all’elaborazione di categorie ermeneutiche che strutturano lo stesso essere del Da-Sein. Si tratta degli anni in cui il periodo di studio presso Husserl e Heidegger dà i suoi frutti: il problema grassiano della coniugazione di immanenza e trascendenza si incontra con quello fenomenologico (declinato in senso heideggeriano) nel tentativo di guadagnare un concetto di a-priori non gravato dal teoreticismo. Sebbene Grassi non si autodefinisca mai come fenomenologo, secondo la nostra interpretazione dei saggi del primo gruppo su di lui agiscono non solo le esplicitate fonti heideggeriane Cfr., l’epistolario raccolto da M. Simonetta in Un inquieto scolaro di Gentile: Ernesto Grassi, pp. 287-299, in “Idee”, 28/29, Lecce 1995, pp. 292-293.  ! 125!  e gentiliane, ma anche la questione fenomenologica husserliana letta attraverso la versione eretica heideggeriana 378 Di “eresia heideggeriana in seno alla galassia fenomenologica” parla Vincenzo Costa in La fenomenologia, cit., in cui si afferma che “la storia del movimento fenomenologico è senza dubbio segnata dalla rottura che si venne a creare tra Husserl e Martin Heidegger all’apparizione di Essere e Tempo”, ivi, p. 264. Nel corso del semestre estivo Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925) Heidegger passa in rassegna quelli che a suo avviso sono i concetti fondamentali della corrente fenomenologica e che, a suo dire, Husserl non avrebbe radicalizzato, rimanendo impigliato, nonostante l’intenzionalità, nella dialettica di soggetto-oggetto. Il filosofo di Messkirch sente, infatti, l’esigenza di una presa di distanza da quella impostazione husserliana che egli vede come “lacunosa”. L’intenzionalità è una struttura dei vissuti psichici e non “una teoria della relazione tra psichico e fisico”, M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, § 5-B, P. 44. Il concetto di intenzionalità indica una relazione tra intentio e intentum, tra l’atto e il contenuto intenzionale. Tale nozione non indica una relazione intenzionale tra un soggetto e un oggetto, ma tra una intentio e un intentum, ossia tra un atto che si dirige verso e un ente nel come del suo essere inteso o intenzionato. Tra loro, per Heidegger, non c’è iato, né diffrazione. Essi sono distinti ma non eterogenei dal momento che sorgono da un’unica fonte. L’individuazione di questa fonte unica e comune di atto noetico e contenuto noematico è il luogo in cui Husserl e Heidegger separano i loro percorsi. Abbiamo detto, infatti, che l’intenzionalità indica una relazione della coscienza con qualcosa; la coscienza è sempre un dirigersi verso... su questo punto Heidegger e il suo maestro Husserl concordano. Ma qual è la radice dell’intenzionalità? Sappiamo dalle Idee che per il filosofo di Prossnitz dall’epochè fenomenologica, ossia dalla riduzione, la coscienza risulta quale residuo fenomenologico, come possiamo leggere al § 33: “Se il mondo intero, inclusi noi stessi con tutto il nostro cogitare, viene posto fuori circuito, che cosa può ancora rimanere? [...] la coscienza in se stessa ha un suo essere proprio che non viene toccato nella sua propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito. Essa quindi rimane come residuo fenomenologico, come una regione dell’essere per principio peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova scienza – della fenomenologia”, E. Husserl, Idee, § 33, PP. 74-76. Da questo passo emerge con chiarezza che attraverso l’epochè la coscienza emerge in tutta la sua intenzionalità fungente, per riprendere un’espressione di Crisi, un’intenzionalità che rende la soggettività trascendentale un’attività costitutiva e funzionale. La coscienza indica la condizione di possibilità del mondo e non un pezzo di esso. Per Husserl, secondo Heidegger, “la coscienza, l’essere immanente, dato in modo assoluto, è ciò in cui si sostituisce ogni altro ente possibile, in cui esso è autenticamente ciò che è. Assoluto è l’essere costitutivo. Ogni altro essere in quanto realtà è soltanto in relazione alla coscienza, cioè relativo ad essa”, M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., § 11 C, P. 131. Heidegger tenta di riguadagnare il terreno dell’intenzionale tramite un’operazione opposta all’epochè husserliana e cioè attraverso l’analisi del mondo come dimensione originaria di ogni possibile intentio e intentum, di ogni loro possibile rapporto. Il mondo non è un correlato di coscienza e l’intenzionalità mette in luce proprio questo. La seconda scoperta fondamentale della fenomenologia è l’intuizione categoriale, interpretata da Heidegger come il radicarsi dell’intenzionalità nell’essere-nel-mondo. Essa consente di pensare la categoria come dato, come oggetto in carne e ossa. Si afferma, infatti, al § 6 dei Prolegomeni che “la scoperta dell’intuizione categoriale è la prova, in primo luogo, che c’è un semplice coglimento del categoriale, di quelle entità nell’ente che si delineano tradizionalmente come categorie [...] in secondo luogo è soprattutto la prova che questo cogliere è investito nella percezione quotidiana in ogni esperienza”, ivi, p. 61. L’intuizione categoriale è presente, cioè, in ogni percezione concreta; inoltre, quest’ultima non è sufficiente a mostrare in che modo noi ci rapportiamo agli enti in quanto “l’ente percepito si mostra sempre soltanto in un determinato adombramento”, p. 62. La percezione non è mai adeguata a conoscere completamente l’ente, il quale si dà solo parzialmente. In altri termini, l’intuizione categoriale permette di gettare luce sul dato, attraverso la categoria, in un atto unico che ci permette di identificare un oggetto. Infatti, le sensazioni non permettono all’ente di apparire nella sua identità oggettuale, esso si presenta come oggetto unicamente tramite un’eccedenza, costituita appunto dall’intuizione categoriale. É possibile istituire un parallelo tra il senso dell’intuizione categoriale di cui si parla nei Prolegomeni e quello dell’intuizione pura affrontata in Kant e il problema della metafisica se si pensa al fatto che l’intuizione categoriale, come quella pura, consentono quel darsi dell’oggetto che secondo Heidegger è reso possibile dalla sintesi a-priori dell’immaginazione e che ritroveremo in Grassi nei termini di fantasia e ingegno come modalità di apprensione del reale. La terza scoperta fondamentale della fenomenologia è il concetto di a-priori. Rispetto all’impostazione classica che lega l’a-priori alla sfera del soggetto “la fenomenologia – avverte Heidegger – ha mostrato che l’a-priori non è limitato alla soggettività”, ivi, pp. 92-93, ma è un titolo dell’essere. Esso non è solo qualcosa di “immanente che appartiene primariamente alla sfera del soggetto”, ibidem, e nemmeno qualcosa di “trascendente, che inerisce specificamente alla realtà”, ibidem. In quanto tale, l’a-priori “diventa esibibile in se stesso in una semplice intuizione”, ibidem. Questa esibizione intuitiva dell’a-priori, ossia l’intuizione categoriale/pura e la connessa intenzionalità mettono in luce come il vero “trascendens puro e semplice” non sia il soggetto, nè l’oggetto, ma la relazione stessa, l’intenzionalità che è possibile solo in quella Lichtung che è il mondo. ! 126!   Sarebbe un’operazione forzata includere in seno alla “galassia fenomenologica”, sia pure nella sua variante eterodossa, anche Grassi. Tuttavia ci pare doveroso sottolineare, al di là degli esiti e dei metodi di ricerca certamente differenti, una comunanza di tematiche e di interessi di innegabile evidenza: i temi della manifestatività, delle forme e dei gradi dell’apparire, dell’immanenza e dell’evidenza, della critica all’obiettivismo. Infatti, è in questo periodo fecondo che si impone il ripensamento del tema della manifestatività nella sua identità con la questione ontologica. In Il problema del logo si afferma che la ricerca della manifestatività si identifica con la questione dell’essere: “L’originario vero non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso. Se il processo di distinzione non fosse il primo, non sarebbe possibile passare dal non manifesto a ciò che è manifesto [...] il processo deve quindi essere inteso come un auto-manifestarsi. É importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere”379. In questo passo si profila un’idea di essere come processo e automanifestazione lontana dall’ontologia oggettivistica che riduce l’essere al dato. Comprendere l’essere è possibile soltanto se lo si identifica con il processo di manifestazione. L’originario, il fondamento a cui l’antropogenesi è indissolubilmente correlata, si presenta non come dato ma come processo, atto della manifestazione. Ciò comporta un’analisi ontologica che Grassi fa partire da una messa in discussione del concetto oggettivistico dell’essere in quanto dato inteso come presenzialità immediata. Se la ricerca del vero della prospettiva empiristica si fonda su una riduzione dell’essere al dato, allora questa concezione sottintende un’aporia che Grassi prontamente mette in evidenza: “l’empirismo rinvia all’immediata presenza quando deve legittimare la propria verità. Soltanto dobbiamo domandarci se il “fatto” come tale, ci porga veramente l’immediata presenza: ove ciò non avvenisse, ove l’immediata presenza non fosse racchiusa nel fatto, quella verità, cui l’empirismo si richiama, sarebbe proprio per esso irraggiungibile” E. Grassi, Il problema del logo, in Id., I primi Scritti, cit., p. 376. 380 Ivi, p. 374.  ! 127!  La contraddittorietà del dato in qualità di immediata presenza mostra come l’originario non possa mai darsi come un dato – poiché in questo caso sarebbe qualcosa che è già diventato, realizzato – non indicando ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi, ciò che “sta essendo”. L’immediata presenza a cui l’empirismo si richiama non può essere un fatto o un dato ma il divenire, il manifestarsi poiché “il presente, l’attuale, non può mai assumere la forma di un fatto, di qualcosa che è solo in quanto diventato, finito. Il dato, il fatto presente, nel senso naturalistico- empiristico è una contraddizione in sé, perché vorrebbe affermare che qualcosa, che è già diventato, sia attualmente presente [...] l’essenza della presenzialità immediata – che dovrebbe essere l’essenza della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi”381. Dalle tesi grassiane sull’essere emerge la presenza di una teoria metafisica immanente dell’esistente, del Da-sein come attualità concreta, che coglie l’essere attraverso una facoltà che è sia logica che patica. Abbiamo visto che l’essere per Grassi non è più un dato empirico o un concetto trascendente, ma è fondato nell’esistente come attualità, autorealizzazione originaria e trascendentale, dove l’hic et nunc, il qui e l’ora dell’autorealizzazione del Da-Sein, rivela la sua intrinseca storicità. L’essere indica per Grassi “ciò che sta essendo”, quindi un divenire, un processo che dice della dynamis insita nell’essere. Si tratta, quindi, di un’ontologia dinamica e non statica, che comporta anche una riforma del sapere, del linguaggio e del metodo. Pertanto afferma Grassi che “il metodo per il conseguimento del sapere non può più essere razionale, fondante, in quanto esso può essere determinato soltanto sul fondamento della risposta alla domanda su come e attraverso cosa viene originariamente esperito. Un tale pensiero non può più essere formale, perché si tratta di questo, di rispondere all’appello dell’essere che ci riguarda, cioè si tratta della domanda in quale non-nascondimento (Unverborgenheit), in quale schiarita (Klärung) – (le luci, le radure (Lichtungen) nel bosco di cui parla G. B. Vico) – l’ente – al quale l’uomo appartiene – appare certamente” Ivi, p. 375. 382 Id., Il colloquio come evento, tr. it. di R. Messori, La Città del Sole, Napoli 2002, p. 81.  ! 128!  III. IV. Metodo statico e metodo aporetico Al metodo statico della tradizione filosofica tradizionale, quello che per Grassi mira alla definizione del concetto che dice della cosa unicamente il suo essere ente e non la sua polisemia costitutiva, il filosofo contrappone una via di ricerca, un metodo aporetico, che pone in luce come la verità non sia la verità di un oggetto, sia esso empiristico o razionalistico, ma quella di un processo. Su questo aspetto Grassi si sofferma soprattutto in Il problema della metafisica platonica del 1932. Le “meditazioni platoniche” grassiane sono dominate dai temi della verità, dell’essere, della manifestatività e della pluralità delle forme, che qui trovano una prima esplicazione sistematica correlata anche alla questione dell’umanesimo. Il tema di Il problema della metafisica platonica è individuato da Grassi nell’ambito della problematizzazione del concetto di forma. Il tema dell’eidos è coestensivo a quello della ricerca del ti esti e si viene configurando secondo il filosofo milanese come risposta da parte di Platone all’oggettivismo sofistico. La ricerca sulla forma è in generale la ricerca dei modi della manifestazione del reale come modi di determinabilità383. Scritto nel 1931, il testo è pubblicato grazie a Benedetto Croce nel 1932 presso l’editore Laterza ed è dedicato a Heidegger, il filosofo al quale Grassi si sentirà legato per tutta la sua esistenza e che insieme a Gentile ha maggiormente influenzato il suo pensiero. In questo testo Grassi analizza il dialogo platonico Menone in polemica con le interpretazioni tradizionali che guardano a Platone come il rappresentante di un astratto razionalismo. Egli si chiede se sia legittima una interpretazione oggettivistico- razionalistica del pensiero platonico o se, invece, non si debbano gettare le basi per un discorso su Platone partendo dalla teoria della reminiscenza ed enucleando il significato teoretico del dialogo. Il filosofo sostiene che lo scopo di Il problema della metafisica platonica “è di porre solo in discussione il problema della legittimità della tradizionale interpretazione della metafisica platonica. Ricorre veramente Platone a un oggettivismo razionalistico – che egli contrappone a quello empiristico della sofistica – per fondare quella conoscenza oggettiva e certa, quella metafisica, la cui possibilità negavano i sofisti? Non è forse lecito avere alcun dubbio riguardo Id., l problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, p. 60. ! 129!   all’affermazione che egli come filosofo, ha cercato di superare l’obiezione sofistica [...] fondando una teoria del sapere come reminiscenza?”384. Il pensatore sottolinea l’attenzione di Socrate verso l’anamnesi385 come tentativo di arginare la carica distruttiva dell’ipotesi eristica di Menone, per il quale non è possibile indagare né ciò che non si conosce, né ciò che si conosce, perché nel primo caso non si saprebbe cosa cercare, mentre nel secondo la ricerca è inutile386, e legge la tesi platonica attraverso un filtro attualistico-esistenziale. Scrive Grassi che “se il processo di reminiscenza non ha inizio, la verità non è affatto al di là del processo di ricerca, ma coincide con esso. Ciò che noi chiamiamo verità, ciò che si manifesta, è contenuto nel processo dell’atto filosofico, è anzi quell’atto medesimo”387. La verità non è al di là del percorso di ricerca, ma si identifica con il suo stesso formarsi, con il processo; inoltre il tema del vero si incrocia con quello dell’apparire, del manifestarsi mostrando come entrambi – il vero e l’essere – non siano alcunché di trascendente, ma al contrario si identifichino con il domandare stesso: il domandare, il ricercare in cui si alternano in un ritmo incessante certezza e dubbio. L’oggettività del vero e dell’essere trova il suo fondamento nel comune terreno del dialogo e non in ciò che è esterno a noi. “Se il determinarsi della realtà si realizza nel logo, il dia-logo è la concreta forma della manifestazione dell’essere; in questo caso nel dialogo la  Ivi, p. 8. 385 “SOCR. Poiché dunque l’anima è immortale ed è rinata più volte, e ha visto tutte le cose, sia quelle di qui sia quelle dell’Ade, non c’è nulla che non abbia appreso. Perciò non deve meravigliare che essa, sia sulla virtù sia sulle altre cose, possa ricordare ciò che conosceva già prima. Dal momento che tutta quanta la natura è affine e che l’anima ha appreso tutte quante le cose, nulla impedisce che, ricordandosi di una cosa soltanto – ciò che gli uomini chiamano appunto apprendimento – riscopra tutte le altre, sempre che si tratti di qualcuno coraggioso e che non desista dal ricercare. Infatti ricercare e apprendere sono in generale reminiscenza”, Platone, Menone, a cura di F. Ferrari, Milano 2016, 81 c 8- d 6, pp. 201-203. 386 “MEN. Ma in quale modo cercherai, Socrate, ciò che non sai affatto che cosa è? Quale delle cose che non conosci proporrai come oggetto della ricerca? E nel caso in cui ti imbattessi veramente in essa, come farai a sapere che è proprio quella che non conoscevi? SOCR. Capisco che cosa intendi dire, Menone. Bada che stai richiamando l’argomento eristico in base al quale per l’uomo non è possibile ricercare né ciò che conosce né ciò che non conosce: infatti non cercherebbe ciò che conosce – perché lo conosce e non ha bisogno di una simile ricerca – , e neppure cercherebbe ciò che non conosce – perché non saprebbe che cosa dovrà cercare”, ivi, 80 d 5- e 7, pp. 193-195. 387 E. Grassi, Il problema della metafisica platonica, cit., p. 116. ! 130!   contesa, !"*-, diventa ed è essenzialmente ricerca”388. Vorremmo sottolineare – a sostegno della nostra ipotesi interpretativa che nega una svolta retorica-patica di un “secondo Grassi” rispetto ad un “primo Grassi” dominato dal problema del logos – che già in questo testo del 1932 la problematica retorica appare centrale come discussione intorno al valore del dia-logo come metodo di ricerca della verità in opposizione all’arte eristica e sofistica come “forme spurie di retorica”389. Qui il pensatore mostra di aver fatto proprio il motto platonico esposto nel Cratilo secondo cui la quintessenza dell’umano riposa nella ricerca390, come possiamo leggere anche in un saggio del 1932, Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, nel quale l’essenza di ànthropos, fatta derivare dall’etimologia del termine, riposa proprio nello sforzo interpretativo, nella fatica costante del pensare la realtà, il mondo oggettivo. In tale sforzo, in tale compito, in tale impegno, risiede l’essenza del neoumanesimo grassiano: “Se con atteggiamento umanistico si intende un ritorno alle radici della nostra umanità, e se questa non sta in una realtà storica esteriore ma in noi, allora quel ritorno non può essere fecondo che portando alla luce la nostra umanità nell’atto filosofico educato allo sforzo interpretativo”391. Ritornando al tema della funzione del dialogo e della sua capacità di aprire l’ambito dell’oggettività e della determinazione possiamo rilevare come in Grassi “la determinatezza dell’oggetto da cui parte una domanda, non è solo il fondamento della sua oggettività, ma anche il fondamento dell’oggettività di un dialogo, e quel ti esti è l’unica base di una ricerca comune  Ivi, p. 87. 389 Ibidem. 390 “Questo nome, ànthropos, significa che, mentre gli altri animali sulle cose che vedono non indagano nulla, non congetturano e non anathrèi (osservano attentamente), l’ànthropos nel momento stesso che vede – e cioè òpope (ha visto) – anathrèi e ragiona su ciò che òpope. Di qui perciò all’uomo, unico fra gli animali, è stato dato correttamente nome ànthropos, in quanto anathròn hà òpope (osserva attentamente ciò che ha visto)”, Platone, Cratilo, 399 c, tr. it. a cura di F. Aronadio, Laterza, Roma- Bari 1996, p. 43. 391 E. Grassi, Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico, “Rivista di filosofia”, Milano XXVIII, aprile-giugno 1932, n. 2, pp. 136-154 ora in Id., I primi scritti, cit., p. 271. Corsivo nostro.  ! 131!  positiva”392. La determinatezza della cosa si fonda allora non nella cosa stessa, ma nella nostra ricerca che ha origine nell’atto aporetico con il quale ha inizio il ricercare. “L’aporia come ricerca (.,/,μ&)”393 ha fatto emergere la co-appartenenza dell’aporia con il tema della visione dell’!*'$-. Secondo il pensatore milanese il punto di partenza della ricerca è la situazione di dubbio in cui si trova colui che ricerca e afferma che “se la determinazione si dà attraverso l’attualità aporetica [...] questa attualità aporetica, è il fondamento delle determinazioni”394. L’attualità aporetica, il dubbio, è il fondamento reale della manifestazione, dell’essere ed è l’essenza di ogni possibilità di discriminazione e comprensione395: qui risiede il valore metafisico-esistenziale delle teorie platoniche, le quali non vanno interpretate alla luce di un dualismo che fa capo alla dottrina dei due mondi ma come metafisica della finitezza396. Viene in primo piano in questo testo anche la centralità del tema del dialogo che, per Grassi, non gioca solo il ruolo di una forma espressiva tra le tante possibili, ma va a costituire la struttura e l’architettura del pensiero platonico che è intrinsecamente aporetico. Anzi solo come aporia il filosofare dispiega la sua essenza autentica: il filosofare “è nella sua essenza approfondire, essere capaci di domandare sempre più radicalmente, il filosofare è essenzialmente una )!%*&, una fatica, e solo in essa ci si conquista la realtà”397. La fatica del ricercare non ha solo una connotazione psicologica ma è l’“elemento caratteristico e veramente intrinseco alla struttura dell’atto speculativo” Id., Il problema della metafisica platonica, cit., p. 21. 393 Ivi, p. 86. 394!Ivi, p. 71.! 395 Ibidem. 396 “In funzione del chiedere si dà l’essere, la sua manifestazione e in quanto il chiedere è sempre determinato, quest’essere che appare è sempre finito, e l’affermazione metafisica che a suo riguardo si può fare, è l’affermazione metafisica di un essere finito. Con questa finitezza dell’essere non s’intende di fare né un’affermazione scettica o relativistica, né un’affermazione che limiti la filosofia. In quanto l’essere – così come esso di dà – è sempre finito, la metafisica è nella sua essenza, metafisica del finito”, ivi, p. 72. 397 Ibidem. 398 Ivi, p. 74.  ! 132!  La fecondità teoretica dell’aporia platonica nell’iter di pensiero grassiano va di pari passo con la sua costante critica alla concezione oggettivistica della filosofia che caratterizza non solo lo scritto platonico del ’32, ma tutti i contributi che, a partire dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Quaranta, sono improntati alla definizione di un’idea di logos complesso al di fuori dei cardini dell’obiettivismo tradizionale e più aperto alla dimensione patica. In un testo tardo, Il colloquio come evento, frutto degli incontri zurighesi a carattere seminariale avvenuti a partire dal 1977 con colleghi appartenenti a diversi settori disciplinari, emerge in modo esplicito il senso che la pluralità delle forme espressive in generale e il dialeghesthai in particolare riveste per Grassi399. I dialoghi platonici offrono l’occasione di pensare all’atto linguistico in modo nuovo: nel dialogo si realizza un colloquio. Il filosofo è mosso dal convincimento che occorre distinguere il dialogo dal colloquio, al fine di ritrovare il senso autentico di un dialogo non ridotto a monologo scientifico: “se alla fin fine il dialogo scientifico si radica in un monologo, emerge la questione circa il luogo in cui trova posto il colloquio. Quali sono l’essenza e la struttura del colloquio? Noi distinguiamo ora il dialogo dal colloquio perché abbiamo visto che il dialogo razionale viene condotto come un monologo, mentre un colloquio presuppone una situazione storica come punto di partenza e come misura”400. Il concetto di situazione acquista per il filosofo un significato prioritario poiché rappresenta la forma originaria in cui l’uomo agisce, pensa e vive; e proprio il legame tra il dialogo-colloquio e la situazione mette in luce il valore metafisico del dia-leghestai come de-limitarsi dell’essere all’interno del domandare stesso. Si tratta di un evento semiotico in cui i dialoganti, attraverso l’Erfahrung linguistica, esperiscono la possibilità che sorge dal linguaggio in atto di accedere alla verità, ai recessi dell’essere, attraverso l’esercizio della parola e del domandare. È l’atto del domandare l’atto di nascita del filosofare, del tendere continuo al sapere nell’esercizio vivo della domanda. Cfr., R. Messori, L’affettività del colloquio, pp. in E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., e V. Mathieu, I temi di Grassi nei “Colloqui Zurighesi”, in AA. VV, Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., pp. 305-314 e H. Schmale, Lo spirito dei colloqui di Zurigo, ibidem, pp. 315-323. 400 E. Grassi, Il colloquio come evento, cit., p. 61. Corsivo nostro. ! 133!   L’unico metodo per il filosofare nasce dall’aporia, dall’assenza di certezze e nella insistenza nel ricercare da parte del dialogante che tenta di arginare l’ambiguità del dire e il dinamismo intrinseco della realtà e dell’essere nello spazio interumano di costruzione del senso. Il senso autentico della metafisica immanente di Grassi emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua funzione storica è metaforica.”401 L’importanza della tesi di libera docenza del 1932 è emersa in tutti i suoi aspetti teoretici fondamentali facendo venire in superficie temi centrali in tutto il cammino di pensiero di Grassi. In questo testo l’essenza della verità è ricondotta alla struttura del dialogo. Grassi tenta quell’accordo tra apofansis e poiesis, tra manifestazione e creazione, tra enunciazione della verità e la condizione che la rende possibile, tra verità e significatività attraverso l’analisi della questione metodica da cui risulta un’idea di verità extra-metodica: nel vero siamo già da sempre immersi poiché il vero è il processo stesso della ricerca. La fecondità teoretica dell’aporia, che non è una strada sbarrata per il pensiero ma l’unica percorribile, consente a Grassi anche di pensare all’idea di un rinnovamento linguistico che può esserci solo se si riconosce l’origine metaforica del linguaggio. La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica, come vedremo nell’ultimo capitolo, è guidata proprio da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale del linguaggio. In Il problema della metafisica platonica il tema della determinazione del ti esti,  Ivi, p. 71.  ! 134!  incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà, pone anche il tema della verità e del sapere. Se il vero non è mai un dato, ma è raggiunto nel processo di ricerca, il sapere ad esso adeguato non sarà un sapere concettuale che fossilizza e rende statico ogni elemento della ricerca, ma un sapere noetico che, per Grassi, è arcaico e indicativo. Qui risiede il valore semantico dell’ontologia fenomenologica di Grassi che gravita intorno al concetto di nous, sinonimo di ingegno e di fantasia. Il nous ha l’aspetto di una “intelligenza senziente” o di una sensazione intelligente per dirla con Zubiri, il quale, insieme a Grassi e Ortega, è uno degli allievi “latini” di Heidegger, come ricorda Grassi in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale402. L’essere si presenta originariamente non nella forma di essenza concettuale ma come atto, in un’attualità che sta prima di ogni riflessione teoretica. L’essere come oggetto di ulteriori atti di riflessione è, infatti, dipendente dall’attualità del Da-Sein in cui l’essere si dà, si determina. La determinazione ante-predicativa è resa possibile solo perché l’essere in qualche modo ci è già manifesto prima di ogni possibile rapporto di predicazione. Tale pre-intelligenza dell’essere è da intendersi come il logos originario che dice non il factum – l’essere ridotto al datum – ma il fieri – il processo di manifestazione. In questo discorso si inserisce anche il tema del nulla. III. V. La funzione metafisica di nulla e angoscia Grassi, in Il problema del logo, sostiene che “se la svelatezza dell’essere si chiude in un processo, allora esso [...] deve contenere in sé il nulla e l’essere, giacché ogni processo, ed anzitutto quello metafisico, realizza sempre un passaggio dal nulla all’essere. Ne deriva che a loro volta i concetti del nulla e dell’essere determinano il nostro concetto di processo”403. L’importanza della questione del nulla come co-fattore, insieme all’essere, nella  Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 31. 403 Id., Il problema del logo, cit., p. 377.  ! 135!  determinazione del divenire è centrale nella definizione di un’idea di logos capace di dire il processo di manifestazione. Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la manifestazione va intesa come uno scindersi e distinguersi di sé, “come deve essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i vari termini con cui traduciamo 0!#!*%, logo”404. La centralità del logos, quale modalità in cui l’essere accade in quanto processo, potrebbe essere confusa con un’ennesima concessione alla logica tradizionale. Tuttavia Grassi distingue un significato inautentico di logos da uno autentico come modalità di svelamento dell’essere. “Il logo come oggetto della logica tradizionale è il logo in quanto pensato, oggettivato. Il logo non viene da essa studiato come un atto concreto, come un auto-distinguersi realizzantesi, bensì come verità di giudizio [...] in quanto il manifestare logico, come verità di giudizio, si fonda in una verità più originaria, sorge la necessità e la legittimità di distinguere due differenti concetti del manifestare: la verità del giudizio (come verità logica nel senso tradizionale) e la svelatezza originaria degli enti”405. É precisamente in questa direzione che il filosofo conduce la propria ricerca, collimante con la filosofia italiana a lui coeva e il pensiero heideggeriano, con l’intento di guadagnare un concetto di logica al di fuori dell’orizzonte obiettivante che riduce l’essere al dato, all’ob-jectum senza riguardo verso il processo di manifestazione, verso quel divenire che è passaggio dall’essere al nulla. Un logos adeguato all’espressione del divenire è un logos che riesce a pensare il nulla senza oggettivarlo, quindi senza cadere in contraddizione. La tradizione filosofica pensa il logos come 0$#$- /*%$-, dove il /*%$- è un $% rispetto a cui il logos è adaequatio. Il problema è quello di guadagnare un “nuovo significato di logo, libero da ogni dialettica formale”406 che riesca a relazionarsi al nulla e a farlo oggetto di domanda e di esperienza. Si chiede Grassi: “in che rapporto stanno il Nulla e l’Essere? L’Essere sorge dal nulla? Ma in che modo è il nulla? Si può dire senza contraddizione che il Nulla sia?”407.  Ibidem. 405 Ivi, p. 378. 406 Ivi, p. 379. 407 Ivi, p. 380.  ! 136!  L’importanza del nihil all’interno dell’indagine ontologica è direttamente conseguente all’assimilazione del processo di manifestazione all’auto-distinzione, dove lo svelamento contiene in sé già l’essere e il nulla, la possibilità di mostrarsi ed occultarsi, come quella dell’errore e della verità. Ora se la logica tradizionale rifiuta ogni tipo di trattazione scientifica del nulla per i motivi già espressi dobbiamo cercare un altro modo in cui il nulla si manifesta. Una simile ricerca consente anche di porre la questione dell’essere al di fuori del circuito oggettivistico – sia esso empiristico o razionalistico – e secondo Grassi in questo tentativo di ripensamento di una via di accesso al nulla giunge in aiuto la proposta heideggeriana della priorità della Stimmung dell’angoscia/ansia408, che viene ad incontrarsi con quella attualistica del logo come atto. Si chiede Grassi: “esiste dunque il nulla, e qual è il suo rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico?”409. Sorge il tema della funzione metafisica dell’angoscia che sollecita un approfondimento del rapporto tra angoscia, logos e manifestatività, ossia della correlazione problematica e non dualistica di logos e pathos. L’essere originario, dunque, se non è un dato, un oggetto trascendente, ma un divenire, un processo, esso comprenderà al suo interno anche la questione del nulla. Il nulla non è ma esiste e il suo urgere per Grassi si rivela nell’angoscia esistenziale costitutiva dell’uomo: “il nulla sorge [...] esclusivamente nell’esistente come il vanificarsi dell’esistente medesimo nella sua totalità. Questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione”410. Il nulla come vanificarsi dell’esistente appare nel sentimento dell’angoscia in cui l’essere si manifesta nella sua assoluta alterità, nella sua convertibilità con il nulla. L’angoscia è il fenomeno I termini angoscia e ansia sono usati indistintamente da Grassi, tuttavia egli usa il termine ansia in riferimento all’Angst heideggeriana solo nel saggio del 1929 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, cit., p. 220, in Id., I primi scritti, cit., pp. 203-228. Nei saggi successivi il termine ansia viene sostituito da angoscia. 409 Ivi, p. 385. 410 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, cit., pp. 328-329.  ! 137!  stesso del fondamento, è la modalità in cui il processo di manifestazione dell’essere nella sua differenza accade: “l’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come il vanificarsi della totalità dell’esistente, è la fonte della possibilità di pensare [...] è allora proprio che l’esistente si manifesta e può diventare oggetto di domanda nella sua totalità”411. Il nulla che appare nell’angoscia nella sua convertibilità con l’essere, e che connota l’intero atto di manifestazione e auto-distinzione dell’originario, è la condizione trascendentale del logos. Il logos è il modo umano del darsi della co-estensione e coappartenenza di essere e nulla. Quest’ultimo non va quindi inteso nel suo valore logico di negazione ma nel suo valore di annientamento dell’esistente e di pura possibilità. Solo attraverso il nulla l’essere appare come realizzazione delle pure possibilità umane e quindi come compito, sforzo e atto, concetti, questi, davvero fondamentali nella filosofia di Grassi che mostrano, da un lato, la presenza di una componente etica del sui pensiero nel senso generale di ethos come “orientamento della vita al telos”, dall’altro il radicamento di tale orientamento nella struttura temporale della coscienza umanistica, che, come vedremo, è caratterizzata da una componente cairologica che fa convergere tutta l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno”, e quindi verso la scelta, la decisione. In Grassi più che agire una temporalità contrassegnata dall’eschaton di heideggeriana memoria è presente l’attenzione verso il kairòs, il “tempo opportuno” che va a strutturare la nostra relazione con il mondo circostante. Come abbiamo tentato di dire in queste pagine il reale, l’essere, il suo apparire si manifestano nel perimetro antropico in molteplici modi, tutti interrelati, in cui una delle molteplici forme dell’apparire non può essere dedotta da un a priori logico. A giudizio del filosofo alla logica del pensato non può spettare l’ultima parola sulla vita e un’intelligenza ante-predicativa, pre-teoretica del reale è possibile solo se si getta luce su un’esperienza originaria del reale, dell’essere, di cui la logica è solo una forma di apparire derivata e secondaria. Come si relazionano il logos e il pathos in questo orizzonte di ricerca?  Ivi, p. 329.  ! 138!  III. VI. Logos et pathos convertuntur Grassi distingue un doppio significato per entrambi i concetti: uno autentico e uno inautentico. Da una parte abbiamo il logos inautentico, quello della logica astratta, del razionalismo deduttivistico, dell’a priorismo gnoseologico e il pathos inautentico, quello ridotto a fenomeno psicologico e privato, a esperienza chiusa nella singolarità. Dall’altra ci sono il logos autentico proprio del pensiero pensante e concreto, che sperimenta la manifestatività dell’essere nell’autodistinzione, e il pathos autentico che va inteso in senso metafisico. L’angoscia costituisce appunto questo pathos autentico. Per Grassi il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza ontologica: secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”412. Esso è “passione abissale”413 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi: il pathos metafisico indica il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Nell’esperienza patica l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria angoscia in cui “questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”414. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso tempo di implementare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo, su cui ci soffermeremo a breve, sono il regno dell’Aperto  Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 413 Ivi, p. 40. 414 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti, cit., p. 329.  ! 139!  in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Il filosofo asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”415. A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”416. Essa consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica: in questo contesto ontologico si installa la visione antropologica di Grassi. L’esperienza dell’oggettivo, dell’essere ai cui appelli dobbiamo corrispondere rende possibile la costruzione del secondo livello di oggettività, quella dell’umano. Il corrispondentismo, che permea quell’ambito gnoseologico messo da parte dal filosofo, viene recuperato sul piano ontologico: l’adeguazione dell’oggettività dell’essere, dell’originario, il nostro corrispondere all’evento va di pari passo con l’antropogenesi. Solo grazie a ciò l’uomo diventa uomo e l’Umwelt diviene Welt attraverso le pratiche di umanizzazione della natura. A parere del filosofo “noi ci troviamo di fronte al compito di un ordinamento solo perché circondati e sommersi in un mare di fenomeni nei quali dobbiamo riconoscere di non saperci orientare: esperimentiamo l’angoscia primordiale dell’assenza di mondo. Questa esperienza della negatività, della mancanza di mondo è il primo ed originario aspetto della necessità della trascendenza, in funzione alla quale solo incontriamo un materiale per la formazione del nostro mondo”417. Sulla base di quanto detto è emersa una prospettiva che lega indissolubilmente la tematica dell’essere e quella del nulla alla Stimmung dell’angoscia generando una rinnovata idea di logos. Se  Id., Assenza di mondo, cit., p. 226. 416 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 417 Id., Mito e arte, cit., p. 147. I corsivi sono nostri.  ! 140!  il reale è processo di manifestazione, divenire e passaggio dall’essere al nulla, allora il logos capace di dire questo processo, questo apparire, questa manifestatività autodistinta, non può essere il logos logico inteso in senso tradizionale. Occorre ripensare il logos al di là dei cardini di un riduzionismo logico, tenendo conto della co-originarietà delle forme del manifestarsi del reale. La funzione del logos in Grassi ha destato non pochi problemi per gli interpreti, come abbiamo visto. Se nei saggi giovanili come Il problema del logo del 1936 il logos è considerato nella sua preminenza rispetto alla Stimmung, nei saggi successivi come Il reale come passione e L’inizio del pensiero moderno abbiamo un capovolgimento di questa posizione soprattutto sulla scorta dell’analisi del dubbio. Di seguito riporto le affermazioni che possono aver suscitato l’idea di dualismo. In Il problema del logo il filosofo afferma che “la Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del legein”418. Da questo passo pare emergere la riconduzione della questione del patico all’interno dell’orizzonte logico: il pathos viene visto quale modalità del logos. Qualche anno dopo Grassi sembra cadere in contraddizione affermando l’esatto opposto di quanto asserito in Il problema del logo. In L’inizio del pensiero moderno si sostiene che “nel dubbio qualcosa è per noi originariamente non indifferente [...] in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra appunto il carattere patetico e passionale del pensiero”419. La difficoltà per l’interprete sorge allorché si tenta una conciliazione delle tesi appena citate e apparentemente contrapposte: una vede nel pathos una modalità del logos, un’altra rintraccia nel logos un carattere passionale. È possibile uscire dall’impasse? È nel pathos o nel logos che facciamo esperienza dell’originario? La complessità di una loro possibile connessione viene esplicitata e avvertita dallo stesso Grassi che già in Il problema del logo si chiede: “possiamo dire che il logo sia  Id., Il problema del logo, in Id., I Primi scritti, cit., p. 403. I corsivi sono nostri. 419 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit., p. 824. I corsivi sono nostri.  ! 141!  effettivamente il Primo, la Ragione e il fondamento di ogni manifestazione, oppure presuppone esso un momento pre-logico? Questo è il problema contro il quale urtiamo definitivamente”420. Infatti egli interpreta il logos come legein, cioè come atto del portare a manifestazione sia l’essere che il nulla. Solo sulla base di questa manifestatività originaria, di questa svelatezza originaria degli enti (aletheia ) si può porre il tema della verità logica tradizionalmente intesa come connessione di soggetto e predicato. Il pensatore riconosce nella svelatezza originaria l’essenza della propria ricerca filosofica ed è mosso dal convincimento che ogni vero logico, il vero del giudizio che si esprime sull’on, sia già sempre radicato in un vero più originario: quello appunto della svelatezza o manifestatività. Per Grassi “la logica tradizionale vorrebbe essere proprio una logica dell’identico in senso oggettivistico, in quanto l’essenza del logo non sta nel legein – cioè nel processo di distinzione (e così nel divenire, nell’essere e non essere) – bensì nell’identità dell’oggetto razionale od empirico. Ma questa identità non viene affatto raggiunta, né può venir dimostrata. Se quindi questo originario legein va concepito come un manifestarsi, e se questo nuovo concetto del logo, come logica del pensare, va contrapposta alla logica del pensato, allora non dobbiamo concepire questa logica come una logica della non identità, bensì come una logica che raggiunge un nuovo ed approfondito concetto dell’identità”421. La questione di primaria importanza non è concepire il logos, l’atto di intellezione, come totalmente altro dal pathos, il sentire. É appunto questa l’accusa che Grassi rivolge a gran parte della filosofia occidentale: la considerazione di logos e pathos, di intellezione e sentire, come atti di due facoltà, decreta inevitabilmente la superiorità dell’intelligenza rispetto al sentire, che per quanto sia il primo modo di apprendere il reale è votato all’inautenticità. Grassi ha in mente piuttosto un’intellezione senziente o un’apprensione intelligente del reale che però non troverà mai una formalizzazione teoreticamente compiuta nel suo pensiero, restando sullo sfondo della sua rivalutazione dell’umanesimo interpretato all’insegna del concetto di Lichtung.  Id., Il problema del logo, in Id., I primi scritti, cit., p. 377. 421 Ivi, p. 378.  ! 142!  Si chiede Grassi in Vom Vorrang des Logos (1939): “questa tonalità affettiva (Stimmung) deve essere dunque intesa come momento determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza (Unverborgenheit)?”422 La questione è comprendere se la passione possa essere considerata come esperienza dell’originario, nelle sue molteplici forme. Il tema della Stimmung in Grassi più che intrecciarsi alla Befindlichkeit – al sentirsi situati – si coniuga con la metafisica del leghein come risulta evidente dal testo del ’39 nel contesto dell’analisi della disposizione d’animo e della differenza ontologica heideggeriane423. Qui Grassi individua la possibilità di una corretta interpretazione del pensiero di Heidegger solo nell’operazione di collegamento del concetto di Stimmung all’atto processuale del leghein. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza poiché mette in luce come in Grassi la questione della Stimmung non abbia una connotazione psicologico-individuale ma un carattere ontologico-metafisico. Leggiamo in Vom Vorrang des Logos che “con tonalità affettiva (Stimmung) non va inteso qualcosa che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un divenire, di un essere, di un non- essere, e dunque ad essa appartiene insieme alla trascendenza e la tonalità affettiva anche il perché”424. La co-appartenenza di Transzendenz, Stimmung e Warum rende palese come il discorso sulla Stimmung travalichi il confine psicologico e si installi direttamente sul terreno dell’ontologia e della  “Muss nun diese ursprüngliche Stimmung also in wesentliches Moment des Prozesses, den wir als Grund der Unverborgenheit erkannt haben, aufgefasst werden?”, Id., Vom Vorrang des Logos, Beck, Munchen 1939, p. 52. La traduzione è nostra. 423 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit., pp. 66-67. 424 “Damit bedeutet die Stimmung nicht etwas, das dem ursprünglichen Prozess der Unverborenheit vorhergeht, und auch nicht etwas, das den Prozess bedingt, und von ihm unterscheiden ist; es ist nichts Unmittelbares, sondern zum Grund der Unverborgenheit als Prozess ursprünglich gehörend. Wenn die Unverborgenheit prozesshaft geschieht, so ist die – wie früher schon gesagt – auf Grund eines Werdens, eines Seins und Nichtseins, und so gehört ihr wesenhaft, mit Transzendenz und Stimmung das Warum an, dritte Weise, in der der Grund der Unverborgenheit – wie Heidegger sagt – gestreut ist”, E. Grassi, Vom Vorrang des Logos, cit., pp. 57-58. Traduzione nostra.  ! 143!  manifestatività. L’analisi della Stimmung pone in luce l’azione delle riflessioni heideggeriane di Von Wesen des Grundes più che quella di Sein und Zeit, mostrando una netta differenza di interpretazione rispetto a quella seguita dagli studiosi della analitica del Dasein degli anni ‘40425. L’articolazione del nesso logos-pathos trova una prima via d’uscita nella riflessione sulla fantasia, reciprocabile con l’intuizione e con l’intelletto, in quanto “facoltà di darsi le vedute” e forma di organizzazione a priori dell’esperibile: essa mette insieme il logos e il pathos. La questione della correlazione di pathos e logos comporta per Grassi anche un ripensamento dell’identità (un’identità  Ha sottolineato acutamente questo aspetto Messori in Le forme dell’apparire, cit. (p. 86 nota 20) ponendo un parallelo tra le interpretazioni di Grassi e di Henry Maldiney circa la questione della Stimmung come momento patico a-priori del pensiero, e sottolineando anche la distanza tra le teorie di Grassi e quella di Bollnow e Biswanger che negli anni Quaranta si confrontano in modo critico rispetto al tema della Stimmung heideggeriana. Circa il tema della distanza di vedute tra Bollnow e Grassi occorre mettere in evidenza come Bollnow in Das Wesen der Stimmungen del 1941 pone la ricerca antropologica sotto il segno della critica al concetto di fondamento heideggeriano, insistendo sull’infondatezza del dualismo autentico-inautentico insito, secondo Heidegger, nella dimensione della quotidianità. Nonostante la messa a distanza del tema ontologico nella “antropologia pedagogica ermeneutica” di Bollnow è riscontrabile un punto di contatto, su cui Messori non si è soffermata, ossia il comune riferimento, di Bollnow e Grassi, alla storicità come fondamento di ogni antropologia filosofica che guarda all’umano come continua produzione di forme. Nel filosofo tedesco ritroviamo “l’idea che la storicità della vita significa creatività, produzione di forme che portano a espressione la vita in manifestazioni specifiche” – (S. Giammusso, La forma aperta. L’ermeneutica della vita nell’opera di O. F. Bollnow, Franco Angeli, Milano 2008, p. 93) – che converge con l’impostazione generale del pensiero di Grassi che punta ad un rinnovamento del problema antropologico seguendo il filo conduttore delle espressioni storiche del fondamento – le Lichtungen. Altro punto di sinergia teorica di entrambi è il tema pedagogico umanistico. In Bollnow la pedagogia, influenzata dallo storicismo diltheyano e dal contesto generale della Lebensphilosophie, “non muove da principi astratti [...] ma considera ipoteticamente i fenomeni della sfera educativa come parti dotate di senso in una connessione più generale e rintraccia tale senso nella originaria relazione attraverso cui l’uomo come produttore della cultura esprime se tesso” (ivi, p. 137). Bollnow, in Die Macht des Worts, afferma che la questione antropologica è connessa al potere formativo della parola e “la questione circa l’essenza del linguaggio diventa in una maniera fondamentale la questione circa l’essenza dell’uomo in generale”, O. F. Bollnow, Die Macht des Worts. Sprachphilosophische Überlegungen aus pädagogischer Perspektive, Essen, Neue Deutsche Schule Verlaggesellschaft, 1964 (terza edizione 1971), p. 16, citato in S. Giammusso, op., cit., p. 154. Anche in Grassi il tema pedagogico è correlato alla questione della via di accesso alla “totalità umana” e alla individuazione dell’essenza del neoumanesimo e, ancora, al tema filosofico dell’amicizia che permea sia il sapere sia il linguaggio. Grassi, nella prefazione alla traduzione tedesca del Discorso di Pericle di Tucidide ad opera di G. P. Landmann, sostiene che “questa forza dell’amicizia è confluita nelle parole, da cui siamo legati, filologia e filosofia. L’amicizia sospende il rapporto tra maestro e allievo, fa del maestro un discente anch’egli e libera l’allievo dall’asservita ristrettezza dell’epigono, del seguace. Così, la corrente che tutti ci trascina si mantiene ininterrotta, e nessuno sa più dove nello scambio abbiano inizio i pensieri, dove essi nella continua riproduzione abbiano fine. Questo accadere autentico, questo modo del discorrere e del pensare che riesce a penetrare ogni isolamento, la dia-lettica – il venire a svelatezza attraverso il logos, attraverso la parola –, tutto ciò Platone l’ha scoperto nel nobile sentimento dell’amicizia [...] questo concetto non relativo e non soggettivo dell’amicizia si lega a quello della tradizione e dell’impegno”, E. Grassi, Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, pp. 975-983, in Id., I primi Scritti, cit., p. 977. Grassi enuncia in poche battute un’idea di pedagogia legata ai temi della fiducia (Vertrauen), del reciproco affidarsi (Anvertrauen) e del dialogo che mostrano molte affinità tematiche – pur nella diversità degli approcci – con Bollnow, più numerose delle pur evidenti differenze sottolineate da Messori.  ! 144!  che contenga in sé l’elemento della differenza e della non-identità) e una ricerca sulla costitutiva co- appartenenza di essere e nulla nel processo di manifestatività. Secondo la prospettiva tradizionale: “il nulla non può diventare oggetto del pensiero, perché il nulla esclude in sé una interpretazione oggettivistica. Un oggetto che non è, è una contraddizione”426. Invece per il filosofo occorre aprire un varco nell’esperienza del nulla al di fuori delle coordinate oggettivanti del pensiero proprio perchè il nulla ci pone di fronte all’impossibilità di renderlo ob- jectum. C’è un’altra modalità di accesso al nulla: la sua esperienza attraverso l’angoscia. Così come lo Heidegger di Che cos’è metafisica anche Grassi crede che “il nulla non si rivela dunque come un oggetto, come un pensato, bensì come ciò che si manifesta in un fondamentale stato d’animo (Grundstimmung) che incalzandoci ci toglie ogni punto d’appoggio”427. Da quanto detto in precedenza è possibile comprendere come il filosofo già a partire dal saggio Il problema del logo ponga in questione, con la discussione sul nulla e sull’angoscia, la priorità del logos. Egli si chiede se a partire dall’esperienza dell’angoscia sia ancora possibile mantenere la priorità dell’atto logico: “esiste dunque il nulla e qual è il suo rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto dell’atto logico? In che modo l’atto logico sarebbe condizionato dall’angoscia, tanto che l’originarietà del logos sarebbe infranta? Se il nulla è, e non come un oggetto, ma come una realtà che ci si manifesta nell’angoscia sorge il problema dell’angoscia, della sua funzione metafisica [...] è dunque nell’angoscia che si radica la possibilità di manifestazione degli enti e noi stessi li trascendiamo in quanto fin dall’inizio siamo sospesi nel nulla”428. Il legame tra angoscia, nulla e manifestazione dell’essere mette in crisi quella che in un primo momento sembrava essere una posizione apparentemente dualistica: il dualismo è solo apparente se guardiamo all’idea grassiana di logos che si distingue da quello della logica obiettivante tradizionale. Nel leghein per Grassi accade quella scissione, quell’auto-distinzione della manifestatività, che consente di pensare la coappartenenza di logos e pathos.  E. Grassi, Il problema del logo, cit., p. 382. 427 Ivi, p. 383. 428 Ivi, pp. 383-384.  ! 145!  Un ulteriore chiarimento riguardo il presunto dualismo logos-pathos o Kehre tra un primo e un secondo Grassi ci giunge dalle analisi grassiane di Cartesio. Nel saggio L’inizio del pensiero moderno Grassi porta avanti le sue analisi delle “meditaizoni cartesiane” incominciate in Dell’apparire e dell’essere del 1933, constatando come l’importanza di Cartesio vada rintracciata nella fecondità dell’idea di dubbio. Solo attraverso l’analisi del dubbio è possibile guardare al cogito cartesiano come ad una realtà complessa che va identificata come atto, attività del cogitare. In quanto atto il cogito è il luogo in cui la manifestatività, l’apparire e l’essere, che in Grassi sono sinonimi come abbiamo visto, si dànno: “il cogito è l’unico primo ed originario essere che incontriamo e fondandosi sul quale solo si può ricostruire e ricavare tutta la ricchezza dell’esistenza. La metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente intenda con cogitare. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica non è che un momento [...] l’atto del cogito – come originaria unità, monade – contiene in sé già tutto”429. Appare qui evidente la funzione ontologica del dubbio come “apertura esistenziale” della questione della manifestatività. La suprema attività del cogitare, il cogito in quanto atto, non è altro che il dubbio, il dubitare che nel momento in cui dubita, in cui attua l’attività del dubitare, porta in superficie “l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende possibile”430. Nell’atto del dubitare si compie un’urgenza: quella del reale che non ci è indifferente ma che ci affetta, ci riguarda e nel quale siamo da sempre immersi e compromessi in quanto esseri gettati nel mondo e “di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si mostra così come il vero fondamento del sapere”431. Pertanto il pensare (logos) si rivela nella sua identità costitutiva con il patire (pathos) in quanto forme di espressione dell’originario nella sua urgenza e nella costrittività dei suoi appelli. Per il filosofo italiano “il pensiero è una forma di esperienza dell’originario, e non si può pensare ogni volta Id., Dell’apparire e dell’essere, cit., pp. 289-290. 430 Id., L’inizio del pensiero moderno, in Id., I primi scritti, cit., p. 818. 431 Ibidem.  ! 146!  che lo si desidera o lo si vuole. Perché l’originario, sempre e in ogni forma, si mostra a noi solo al modo di una urgenza”432. Il soggiacere a tale costrizione e urgenza rende il logos convertibile con il pathos quali modalità di apprensione dell’originario. Se “solo questa costrizione, questa urgenza è l’evidenza dell’originario”433 allora noi ci troviamo in una situazione di pura passività rispetto al reale? In che modo è possibile coniugare questo essere soggetti a con il concetto di atto? L’atto, come abbiamo visto, cerca di rendere conto del rapporto dinamico tra piano ontologico e piano ontico, i quali rifluiscono continuamente l’uno nell’altro. A tale dinamica processuale prende parte anche la tonalità affettiva che appare come il luogo in cui accade la manifestazione dell’essere nella molteplicità delle sue forme. La Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Un altro termine con cui Grassi si riferisce alla passione è, infatti, Leidenschaft, di cui è importante sottolineare il leiden, il patire nel senso di soffrire e penare. Usando tale traduzione l’accento è tutto posto sulla dimensione della gettatezza e passività originaria che contraddistinguono il Dasein, l’uomo che è tale nella misura in cui si riconosce esposto all’apertura dell’essere, all’assenza di codici interpretativi precostituiti e innati e pertanto intimamente legato alla ricerca di chiavi di lettura del reale possibili e mai date. La Leidenschaft è quindi l’essere-affetti dal reale, che ci afferra e ci trascina nell’aperto delle pure possibilità, senza che noi possiamo sottrarci allo Zwang e alla Nötigung, da Grassi interpretati come due fenomeni dell’originario. La Leidenschaft è originaria e metafisica, da essa non possiamo liberarci e riconoscere la sua centralità è la condizione di possibilità per il nuovo inizio del pensiero auspicato da Grassi. Per il filosofo “in questo orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso metafisico del termine [...] qui si mostra il carattere patetico e passionale del pensiero”434. Tale pathos metafisico e originario è un’urgenza che non può essere Id., Il problema del sublime, pp. 917-943, in Id, I primi scritti, cit., p. 935. 433 Ibidem. 434 Id., L’inizio del pensiero moderno, cit., p. 824. I corsivi sono nostri.  ! 147!  dedotta né mediata poiché ci sopraggiunge così come l’aporia platonica, che abbiamo ritrovato in Il problema della metafisica platonica, e il dubbio cartesiano di Dell’apparire e dell’essere e di L’inizio del pensiero moderno. Per Grassi Cartesio, tanto criticato dal filosofo negli ultimi scritti, ha il merito di aver portato ad espressione un significato patico-esistenziale del dubbio, che dall’interpretazione tradizionale è stato unicamente ridotto ad epochè del giudizio, e quindi a stallo conoscitivo. Il dubbio cartesiano, invece, si mostra come la condizione di possibilità affinché si dia il sapere in tutte le sue forme. Tuttavia Cartesio per Grassi non ha portato fino in fondo il suo discorso, inclinando piuttosto verso una impostazione gnoseologistica del sapere, non traendo quelle conclusioni a cui erano pervenuti gli Umanisti. Le riflessioni grassiane hanno messo in luce il pathos come esperienza di ciò che è primo e indeducibile razionalmente perché fondamento di ogni deduzione: “l’essenza della forma del rivelarsi di qualcosa di originario e di primo, o anche del pensiero, risulta essere la passione, e precisamente non la passione in senso psicologico ma in senso metafisico”435. La Leidenschaft consente di ripensare l’idea di soggettività: il soggetto non ha un carattere soggettivo o individualistico, esso “è essenzialmente ciò che soggiace al primo, all’originario”436. In quanto upokeimenon o sub-jectum il soggetto patisce il reale, che si mostra nel suo carattere di istantaneità (Augenblick):attraverso il pathos facciamo esperienza della realtà nell’istante, in quella visione istantanea a cui dobbiamo corrispondere implementando progettazioni di mondi umani dalle forme molteplici (l’arte, la poesia, il sapere, la prassi, la politica sono le forme in cui l’uomo risponde agli appelli dell’essere). In ogni momento della vita l’uomo si trova a dover portare avanti il suo impegno, il suo sforzo di esistenza, la sua diligentia (termine mutuato da Leonardo Bruni), che rendono palese il suo essere irrevocabilmente compromesso con il mondo circostante.  Ivi, p. 846. 436 Ivi, p. 847.  ! 148!  Secondo Grassi “in ogni atteggiamento originario non possiamo mai scegliere la nostra occupazione, perché la nostra scelta sta già sotto il segno di ciò che ci occupa. Non siamo noi ad occuparci delle cose, ma sono le cose stesse – in virtù della loro distinzione – a tenerci occupati”437. Il filosofo pone come indeducibili forme del manifestarsi del reale il vero, il buono e il bello: il sapere, l’azione e l’arte sono i modi in cui si mostra, in cui appare il mondo e non c’è priorità di un momento sull’altro ma nesso dei distinti. Occorre ripensare l’autonomia delle forme del rivelarsi del reale, pur tenendo in considerazione la fondamentale unità che le contraddistingue: esse sono modi autonomi, distinti, di manifestazione dell’essere, sono Lichtungen del reale, aperture di contesti significativi, tutti accomunati dall’azione di ordinamento conferito al mondo. Il pathos è l’avvertimento della non- indifferenza del mondo circostante, è l’esperienza della costrizione e del vincolo, del legame indissolubile uomo-mondo: “per il fatto che veniamo strappati, nell’esperienza del dubbio, all’indifferenza verso la totalità dell’ente, si presenta anche una separazione del nulla dall’essere, e tuttavia il nulla non è affatto prima dell’essere bensì entrambi vengono partoriti come gemelli nel medesimo istante. Perciò i Greci parlavano dell’aletheia, del non latente [Un-Verborgene], come del vero, perché tutto ciò che si mostra viene sottratto alla latenza solo dall’esperienza del dubbio, che lascia rilucere gli opposti”438. Nella Leidenschaft, nel patire il dubbio a cui non possiamo sottrarci, rintracciamo l’essenza del sapere: il sapere nasce dalla messa in questione del mondo circostante per ricercarne il fondamento, si tratta di una ricerca a cui ci sentiamo costretti, che incombe su di noi. Tale carattere costrittivo e urgente del fondamento è ciò che Grassi trova teorizzato nel concetto aristotelico di archè o assioma: “questa dottrina è ciò che esprime Aristotele quando dice che i principi originari o assiomi, come lui li chiama, che sono il fondamento di ogni dimostrazione, non hanno un carattere apodittico, bensì elenchico, cioè non possono venire dimostrati [...] ma si mostrano da se stessi in quanto anche colui che li nega, deve presupporli e impiegarli. Così questi principi fondamentali dimostrano se stessi nella misura in cui non ci lasciano liberi”4 Ibidem. 438 Id., Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, pp. 995-1029, in Id., I primi scritti, cit., p. 1003. 439 Ivi, p. 1005.  ! 149!  Possiamo dare per acquisito che in Grassi non c’è un rapporto dualistico logos-pathos, per cui da una priorità giovanile del logos si passerebbe alla matura posizione della preminenza del pathos. I due momenti sono sempre interrelati tanto da confondersi in una paradossale unità che è al tempo stesso dualità. É lo stesso pensatore a domandarselo e a individuare il problema di una connessione dinamica tra logos e pathos: “ora esiste un’unità che sia al contempo dualità? Ogni differenziale, cioè il compiersi di un atto unitario, fa apparire ciò che è differenziato nella misura in cui quest’ultimo si determina [...] quest’atto del separare rivela dunque essenzialmente una realtà fantastica, dove l’espressione fantastico non viene tratta dalla fantasia come attività distinta dall’intelletto, bensì dalla fantasia secondo l’espressione greca phainesthai, mostrarsi”440. Secondo Grassi l’accadere, l’apparire, la manifestatività vanno interpretati al di fuori dell’opposizione logos-pathos, tale dualità è solo secondaria e derivata, poiché primario e originario è l’atto in cui si mostra l’essere nella sua processualità dinamica: in tale processualità dinamica le coppie oppositive “in sé-per noi”, “uno-molti”, “logos-pathos” perdono i contorni netti e definiti di polarità antitetiche, tra cui non è possibile gettare un ponte, per divenire realtà mobili e fluide. La struttura dinamica e processuale della realtà è resa dal filosofo attraverso l’immagine della scena/accadere scenico/allestimento (Schau-Stuck): “soltanto in questo accadere si radica il singolo soggetto concreto, il quale possiede un oggetto correlativo, perché la scena, l’allestimento, prescrive a entrambi dei ruoli determinati [...] l’allestimento è dunque l’originario, in cui i singoli elementi del molteplice risultano visibili in virtù del ruolo che la scena prescrive loro”441. Tale scena originaria regge il fondamento della vita: è la sua condizione trascendentale. Essa è definita anche scena fantastica proprio perché scena e fantasia si configurano come un tutto unitario, a priori e sintetico. La scena forma in via primaria relazioni, atti di collegamento, è l’orizzonte di ogni veduta possibile, così come la fantasia è la facoltà di apprensione di questa scena. La fantasia in Grassi va intesa come la facoltà di formazione della veduta/scena (schau) che ha la funzione di schema trascendentale: “l’elemento originario dell’esperienza sensibile – come in generale di ogni forma dell’apparire dell’ente non è quindi una dualità di oggetto e soggetto né una  Ivi, p. 1012. 441 Ivi, p. 1013.  ! 150!  molteplicità di esperienze sensibili, bensì una unità che si compie, che rivela se stessa nel discernere e nel separare [...] la scena fantastica, il mostrarsi, non vale soltanto per la determinazione filosofica dell’ente o per quella dell’ente sensibile, bensì per l’ente nella sua totalità”442. Interpretata in questo modo la fantasia appare come facoltà del lasciar apparire, dell’Erscheinenlassen che è al contempo il Sich-Offenbaren, l’automanifestazione, dell’oggettività. Lo svelarsi originario dell’essere ha carattere eidetico e immediato, esso si manifesta nell’istante indeducibile perché arcaico-fondativo della “visione pato-logica. La realtà nella sua automanifestatività si impone nella sua Nötigung, nell’accadere dell’attimo della visione il cui fenomenizzarsi è il dubbio. III. VII. L’analitica esistenziale: dismondanizzazione, assenza di mondo e coscienza temporale umanistica Per comprendere meglio le categorie dell’analitica esistenziale elaborata da Grassi vorremmo concentrarci sull’esperienza sudamericana del filosofo mossi dal convincimento che essa costituisca una tappa fondamentale nell’elaborazione di alcune categorie concettuali elaborate dal filosofo: dismondanizzazione e assenza di mondo; coscienza temporale umanistica; natura. Tali plessi concettuali, presenti soprattutto nei saggi Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949), L’uomo e l’esperienza dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954), L’esperienza dell’assenza di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo (1959)443, sono correlati al tema della manifestatività dell’essere, emergente nei primi scritti, quali Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (1930), Dell’apparire e dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il problema  Ivi, p. 1014. 443 Cfr., Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., pp. 201-206; L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., pp. 65-72; Apocalisse e storia, cit., pp. 7-20, L’esperienza dell’assenza di mondo, in “Aut-Aut”, 1955, 2, XXVI, pp. 97-119; Mito e arte, in “Rivista di filosofia”, Torino, 1956, 2, XXVII, pp. 140-164; Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma 1959, pp. 217-147.  ! 151!  del nulla nella filosofia di M. Heidegger (1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza dell’originario (1940), Il reale come passione e l’esperienza della filosofia (1945)444. Come abbiamo visto in precedenza in questi saggi vengono in luce le questioni dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, che testimoniano la volontà grassiana di recuperare un’esperienza dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma rispetto ad un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace di restituire la complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. Come è noto, in questo tentativo Grassi coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica crociana e la teoria heideggeriana della differenza ontologica,445 rielaborando tutto alla luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito estetico in generale, non come esempio di gnoseologia inferior o teoria dell’arte, ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività dell’essere. Nel suo percorso onto-antropo-logico si segnalano alcuni testi per la curiosa correlazione che si viene ad istituire tra gli innumerevoli riferimenti all’esperienza di viaggio sudamericana e l’analitica dell’esistenza: mi riferisco ad Arte e mito e Viaggiare ed errare, oltre che, naturalmente, ai saggi prima citati Assenza di mondo, L’esperienza dell’assenza di mondo, Mito e arte, i quali costituiscono i maggiori contributi che Grassi ha dedicato al tema “Sudamerica”. III. VIII. L’importanza del viaggio in Sudamerica Aveva asserito Kant nella Prefazione a Antropologia pragmatica che “ai mezzi per l’ampliamento dell’antropologia appartiene il viaggiare”446 e Grassi non sembra sia stato insensibile  I saggi sono raccolti in E. Grassi, I primi scritti 1922-1946, cit. 445 Per una ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di Grassi cfr., Rita Messori, Le forme dell’apparire, cit., soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica, pp. 23-61. Cfr., anche M. Marassi, Introduzione a E. Grassi, I primi scritti, cit., pp. IX-LXXXVII. 446 I. Kant, Antropologia pragmatica, tr. it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 4. ! 152!   a questa affermazione kantiana: lo attestano i numerosi viaggi che per tutta la vita ha condotto in giro per il mondo alla ricerca di occasioni di riflessione sul “tema uomo”. Viaggio e riflessione antropologica: l’accostamento non risulterà peregrino se si accantona – come fa il filosofo italiano– un’idea di natura umana fissa e immutabile, chiusa nei confini di una razionalità auto-riferita, per accogliere l’idea di una condizione umana, tema di un neo-umanesimo attento alla multilateralità della vita, alla polidimensionalità del reale, e, dunque, alle molteplici forme di apprensione dell’essere e di dizione dell’essere. Il legame tra il viaggio e l’elaborazione di categorie esistenziali volte ad un rinnovamento neo-umanistico della filosofia è del resto esplicitato dallo stesso filosofo che nella Prefazione a Viaggiare ed errare afferma che le “annotazioni sull’incontro con il continente sudamericano sono sorte dalla verifica costante di categorie e concetti fondamentali europei: non sono quindi né espressioni di rinuncia al nostro mondo europeo né una descrizione esteriore della realtà sudamericana. Spazio, tempo, parola, arte, tutto acquisisce laggiù nuovamente un significato originario che in Europa abbiamo spesso dimenticato”447. Corredato da una fitta trama di descrizioni paesaggistiche, di situazioni emotive, di relazioni, presenze e assenze che il viaggio in Sudamerica aveva suscitato nel filosofo il testo Viaggiare ed errare presenta, accanto alla narrazione di esperienze comuni, una interpretazione prospettica di una realtà nuova, fatta di rovine antiche, foreste sterminate, indigeni e animali che non costituiscono solo allegorie di ciò che sfugge alla comprensione filosofica, ma sono l’occasione di esperire il “totalmente altro”. Per Grassi il viaggio può avere questo significato solo se lo si correla al luogo preciso in cui è avvenuto: il Sudamerica. Perché? Come abbiamo visto in precedenza quello in Sudamerica non è il primo viaggio né l’ultimo di Grassi, eppure in questo territorio si realizza una presa di coscienza molto forte dei limiti e delle possibilità della filosofia occidentale. Su questi limiti e possibilità il pensatore ha ragionato una vita intera, ma Le citazioni riportate di seguito fanno riferimento all’edizione italiana del testo di Grassi: E. Grassi, Viaggiare ed errare. Un confronto con il Sudamerica, tr. it. di C. De Santis, a cura di M. Marassi, La Città del Sole, Napoli, 1999, p. 27. Il testo ha avuto tre edizioni Reisen ohne anzukommen. Südamerikanische Meditationen, Hamburg, Rowohlt, 1955; Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Munchen-Gutersloh-Wien, Bertelsmann, 1974; Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Chur, Ruegger, 1982.  ! 153!  lì, in Cile e in Brasile, nella fitta vegetazione della foresta, sulla catena delle Ande, ciò che il filosofo milanese sperimenta non è un ragionamento. Lì patisce e vive una situazione contraddittoria: storicità e astoricità; natura e techne. Il Sudamerica è il luogo in cui si consuma la dissoluzione delle categorie storiche e si dà la possibilità di riflettere sulla condizione umana. Leggiamo in Viaggiare ed errare: “una volta si sapeva dove si era di casa; ci si sentiva protetti nel mondo sicuro della tradizione, ci si poteva recare in paesi stranieri con il proprio blasone e si ritornava a casa senza turbamenti. Ma noi? Dove siamo di casa?”448. Il testo, allora, non è un esempio, l’ennesimo, di letteratura odeporica, solo un resoconto autobiografico, un diario di impressioni del viaggio da Madrid a Barcellona, fino in Brasile e Cile. In esso si raccolgono le idee più interessanti circa il viaggio come evento semiotico: oltre a Reisen ohne anzukommen degne di nota sono le osservazioni sparse in Kunst und Mythos449. In questi testi il viaggio è inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione, e circum-stantia e le descrizioni narrate “non vogliono essere semplici descrizioni; vogliono piuttosto far luce su tutte quelle seduzioni che turbano l’uomo moderno occidentale quando viene a contatto con mondi nuovi”450. Ha sottolineato acutamente questo aspetto Giuseppe Cacciatore che ha dedicato al tema grassiano del viaggio un saggio: América latina y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje” Ivi, p. 33. 449 Il testo, edito per la prima volta in tedesco nel 1957 con il titolo Kunst und Mythos, Hamburg, Rowohlt 1957, e ristampato nel 1990 in un’edizione riveduta e ampliata dall’autore, costituisce la rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel 1956 sulla “Rivista di filosofia”, in lingua italiana dal titolo Mito e Arte, cit., pp. 140-164. 450 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 34. 451 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo en la “filosofia del viaje”, cit. Pubblicato precedentemente in italiano con il titolo America latina e pensiero europeo nella filosofia del viaggio di Ernesto Grassi, in “Cultura latinoamericana”, Annali 1999-2000, nr. 1-2, pp. 367-381. Come è noto, nella vastissima e variegata produzione saggistica di Cacciatore il riferimento alla figura di Ernesto Grassi compare soprattutto nei lavori vichiani dello studioso in cui l’accento verso i temi della rivalutazione vichiana della sapienza poetica, del ruolo antropogenetico della fantasia, di quello arcaico-fondativo del mito e dell’ingeniosa ratio trova non poche affinità con le analisi svolte da Grassi. Al riguardo cfr., soprattutto G. Cacciatore-G. Cantillo, Studi vichiani in Germania 1980-1990, in G. Cacciatore-G. Cantillo (a cura di), Vico in Italia e in Germania, Bibliopolis, Napoli 1993, p. 37; Id., Poesia e storia in Vico, in F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico. Vico nel mondo, Guerra, Perugia 2000, p. 144, nota 5; G. Cacciatore, Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, in G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici, Guida, Napoli 2004, p. 120, nota 10; Id., Le facoltà della mente ‘rintuzzata dentro il corpo’, in Il corpo e le sue facoltà. G.B. Vico, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna e A. Scognamiglio (a cura di) in «Laboratorio dell’ISPF» (www.ispf.cnr.it/ispf-lab), I, 2005, ISSN 1824-9817, p. 104, nota 41; Id., L’ingeniosa ratio ! 154!   de Ernesto Grassi, concentrandosi in particolar modo sul testo Reisen ohne anzukommen. Lo studioso mette in luce uno spettro semantico ampio del viaggio: è possibile individuare un significato ontologico; teorico-storico; cognitivo; simbolico-metaforico. Vorremmo soffermarci sui quattro sensi del viaggio in Grassi individuati dallo studioso, con lo scopo di mostrare che l’esperienza del viaggio sudamericano non è marginale nella riflessione del filosofo poiché si inserisce nel cuore della sua prospettiva onto-antropo-logica e diviene decisiva nella messa a fuoco dei concetti di dismondanizzazione e assenza di mondo452, che insieme a quelli di coscienza temporale umanistica e oggettività, costituiscono le categorie dell’analitica esistenziale grassiana. Cacciatore afferma che il senso ontologico del viaggiare è rintracciabile nello stesso titolo tedesco: Reisen ohne annzukommen indica il “viajar humano sin arribos, sin metas prefiguradas”. El viajero [...] llega a un nuevo mundo cargado de bagajes conceptuales, orgulloso y seguro de su patrimonio cultural y de su tradiciòn històrica”453. E tuttavia al cospetto di un mondo totalmente estraneo Grassi sente di non poter più fare affidamento sul proprio corredo categoriale. Occorre un mutamento di prospettiva, una svolta. In quanto viaggiatore in terra straniera Grassi si sente anche viaggiatore nell’interiorità, e il malessere vissuto dal filosofo per l’opposizione tra un’idea di Europa da cui ritiene di doversi congedare e la volontà di ricostruire un neoumanesimo all’insegna di un rinnovamento dei concetti di Vico tra sapienza e prudenza, in C. Cantillo (a cura di), Forme e figure del pensiero, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 225, nota 1; Id., Il mare metafora del limite e del confine, in S. Amendola- P. Volpe (a cura di), Il mare e il mito, M. D’Auria editore, Napoli 2010, p. 49; Id., In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. 452 Ovviamente le categorie ora menzionate risentono della trattazione heideggeriana di Welt e Umwelt e in generale della riflessione degli esponenti dell’antropologia filosofica e della biologia teoretica coeve, che Grassi conosceva molto bene: Scheler, Plessner, Gehlen, Uexküll, Driesch. Cfr., E. Grassi, Linee di filosofia tedesca contemporanea, in Id., I primi scritti 1922-1946, cit., pp. 299-332, Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, ivi, pp. 203-228, La filosofia como obra humana, pp. 1573-1578 in “Actas del Primer Congreso Nacional de Filosofia”, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo III; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 62-66 e 151-152; Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., pp. 181-182. 453 G. Cacciatore, America latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. ! 155!   fondamentali del pensiero occidentale, si palesa soprattutto nelle pagine dedicate al concetto di “dismondanizzazione”. III. IX. Dismondanizzazione e assenza di mondo Egli sostiene che “le molteplici ragioni della dismondanizzazione ci sopraffanno e possono condurre all’immobilità, alla completa apatia. Ogni processo di dismondanizzazione incomincia dal terrore avvertito per la scomparsa del consueto”454. Una spaesatezza, una solitudine esistenziale che sorge non solo in terra straniera ma anche nella propria patria. Si tratta del terrore primordiale della selva di cui ci parla Vico secondo il quale “grazie alla radura aperta nella foresta originaria divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la possibilità di computare il tempo”455. Il filosofo ritiene che “anche in Europa si prende congedo dal proprio mondo. La speranza di liberarci in qualche modo, in chissà quali paesi lontani, dai nostri dubbi, è solo espressione del fatto che non ci sentiamo più a casa negli spazi della nostra storia”456. Nel pathos dell’angoscia e della noia per Grassi noi esperiamo la dismondanizzazione e la possibilità allo stesso tempo di generare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare quell’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. I due concetti – dismondanizzazione e assenza di mondo – indicano due fenomeni diversi, ma connessi, che possono essere compresi meglio ricorrendo ad una metafora molto cara a Grassi, quella della luce: “assenza di mondo” come aurora e “dismondanizzazione” come tramonto dell’uomo. La condizione di assenza di mondo (aurora) è quella dell’uomo primitivo o delle origini, immerso nella realtà circostante che è astorica, mitica, ripetitiva e di cui Grassi crede di poter fare esperienza nell’ingens sylva sudamericana, che in realtà  Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 126. Corsivo nostro. 455 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 251. 456 Id., Viaggiare ed errare, cit., Ivi, p. 49.  ! 156!  si rivela essere solo una selva ideale. Il pensatore ritiene che “la condizione di assenza di mondo inizia, infatti, ogniqualvolta una cultura si trova a una svolta decisiva”457. L’esperienza della realtà nella condizione di assenza di mondo si caratterizza per l’incapacità umana di orientamento: infatti “non appena quest’ordine comincia a vacillare, l’uomo esperisce improvvisamente che le direttive consuete non sono più valide”458. In questo momento di svolta inizia la storia dell’uomo come “storia del suo accadimento”. Secondo Grassi “la storia dell’uomo è quindi espressione di ciò che lo costringe continuamente [...] a stare su una soglia, a partire dalla quale egli traccia linee di confine tra scelto e non scelto, tra ricordato e dimenticato, tra ordinato e non ordinato. A partire da questa soglia si aprono i confini del mondo in cui viviamo. Il progetto, attraverso il quale di volta in volta aderiamo sempre a ciò che ci riguarda e ci mette in tensione, costituisce il nuovo spazio spirituale in cui ci muoviamo”459. Nella condizione di assenza di mondo l’uomo, come l’animale, è totalmente immerso in un cerchio funzionale simbolico che ad un certo punto si disintegra e lo getta in una condizione di spaesatezza che lo costringe a trovare codici di interpretazione del reale: “poiché l’uomo esce dalla natura e in essa non è più al sicuro, egli progetta criteri sulla base dei quali costruire il suo mondo”460. La condizione di dismondanizzazione (tramonto) è quella che caratterizza l’uomo occidentale che cerca nuovi strumenti per abitare il mondo, avendo sperimentato l’inutilità e il danno delle proprie categorie filosofiche. Essa è ben distinta da “una rinuncia volontaria al mondo: è anzi il contrario. Questa esperienza di dismondanizzazione nasce dallo sgomento che tutto quello che di solito ci circonda, e che con gli anni abbiamo costruito come un nostro ambito, viene a mancare” Ivi, p. 132. 458 Ibidem. 459 Ivi, p. 146. 460 Ibidem. 461 Id., Assenza di mondo, cit., p. 222. ! 157!   Nel primo caso si tratta di una situazione di privazione originaria che dice della gettatezza dell’uomo nell’aperto – la Lichtung – della propria esistenza, privazione che al contempo è condizione di possibilità affinchè l’uomo divenga uomo e l’ambiente naturale divenga mondo. Nel secondo caso siamo di fronte ad una dimensione di perdita delle coordinate categoriali classiche del pensiero occidentale. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo non sono nient’altro che il regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento ma in cui Angst e Langweile agiscono quali operatori metafisici nel contesto della Lichtung che, come ci ricorda Agamben, “è veramente in questo senso, un lucus a non lucendo: l’apertura che in essa è in gioco è l’apertura a una chiusura e colui che guarda nell’aperto vede solo un richiudersi, solo un non-vedere”462. Grassi asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza [...] qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”463. Nel viaggio in generale e in quello sudamericano in particolare noi facciamo esperienza di una epochè dell’abituale e del consueto e constatiamo il vacillare dell’esistenza, il nostro non poterci tenere a niente. Emerge in aggiunta al tema dell’esperienza dell’eventualità/Lichtung dell’essere, che l’alterità radicale del mondo sudamericano rappresenta in maniera esemplare, la questione non marginale del pathos: per Grassi esso ha una componente metafisica e non psicologica, dal momento che grazie ad esso facciamo esperienza dell’originario. Come è noto, la passione per il filosofo ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo poiché consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. Afferma Grassi che “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe ! G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 71. 463 E. Grassi, Assenza di mondo, cit., p. 226.  ! 158!  come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”464. La Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Possiamo rintracciare un secondo senso del viaggio sudamericano: teorico-storico. Come ricorda Cacciatore “en uno de los ùltimos capìtulos del libro, el filòsofo traza la lineas de una autèntica, aunque breve, teorìa e historia del viaje, centrada en la significativa diferencia que caracteriza las relaciones y las descripciones de los viajeros de la edad moderna y las de los contemporaneos”465. Differenza che testimonia anche il profondo mutamento storico tra un’epoca, quella moderna, in cui le categorie filosofiche erano forti e la ragione non aveva ancora perso la propria terraferma; e l’epoca contemporanea che vive i tormenti della propria debolezza categoriale sgretolandosi pian piano. La Conclusione di Reisen ohne anzukommen, che reca il suggestivo titolo di Filosofia e Paesaggio, in cui è narrata questa breve storia del viaggio, mette in luce, inoltre, la correlazione del viaggiare con l’idea di paesaggio. Grassi si pone un interrogativo sul paesaggio e sul suo paradossale nesso con la filosofia. La domanda si sviluppa in una breve storia in cui entrano in scena personaggi – Platone, Petrarca, gli umanisti, Herder, Melville – che sul paesaggio si sono espressi. Il filosofo si chiede: “che cos’è il paesaggio? Che cosa può produrre insieme alla filosofia? [...] il paesaggio può offrire lo spunto per riflessioni teoretiche, dal momento che il piacere che esso suscita si avvicina alla sfera dell’arte?”466. Rispondere a questa domanda significa porre in atto una vera e propria rivoluzione filosofica, una Kehre: abbandonare le categorie della razionalità astratta e fare posto agli elementi mitici e poetici, alla dimensione del pathos che schiudono una modalità di esistenza autentica in cui la potenza delle immagini, a cui è inevitabilmente associato il paesaggio, diviene la linfa vitale della filosofia. Secondo il pensatore il paesaggio “non ha nulla di ovvio, anche se tutti  Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 465 G. Cacciatore, Amèrica latina y pensamiento europeo, cit., p. 80. 466 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 173.  ! 159!  credono che esso sia immediatamente accessibile dal momento che lo si vede; il goderne non richiede alcuna riflessione, ma è impossibile esprimere la sua essenza senza riflettere”467. Esso mostra e indica la contraddizione tra ciò che ci sovrasta nella sua immensità, riluttante a qualsiasi espressione univoca e definitiva, e la volontà umana di comprensione. Il paesaggio ci mette di fronte alla nostra incapacità di interrogare in modo nuovo ciò che ci circonda: l’essere. Quelle che sono annotazioni di viaggio, riflessioni e considerazioni si rivelano come i punti di partenza di interrogativi filosofici ineludibili e pressanti. Ineludibilità e necessità che contraddistinguono anche il paesaggio: “qui il paesaggio sembra una realtà alla quale non possiamo sottrarci”468. Un ulteriore significato del viaggio è quello cognitivo. L’esperienza di viaggio si carica di una valenza cognitiva poiché consente quella relazione del sé stesso con l’altro che è fonte di ricchezza quanto più profonda risulta la distanza, la cesura, lo iato. Come afferma Cacciatore in America latina “en esta experiencia cognitiva [...] el viaje y la partida misma tienen sentido en la medida en que remiten immediatamente al retorno, a la estaciòn originaria. Por ello la confrontatiòn de Grassi con Sudamérica es un relacionarse del Sì mismo con el Otro, però tambièn un hallarse el Otro en las raìces històricas y culturales del Sì mismo”469. In questo contesto di relazioni con l’alterità in tutte le sue forme – l’altro uomo, l’altra cultura, e la suprema alterità rispetto al nostro mondo storico, la natura – la distanza assume un ruolo fondamentale quale esperienza catalizzatrice della cognizione che nel viaggiare si realizza. Secondo il filosofo milanese, che menziona in modo innovativo un tema che nella filosofia sicuramente è inusuale, l’organo di misurazione delle distanze è l’olfatto, che meglio del tatto e della vista riesce a restituire tutta la “potenza della distanza”. Egli afferma in Viaggiare ed errare che “a Casablanca, la tappa successiva del nostro viaggio, viene in primo piano ciò che a Madrid era solo annunciato in modo vago. Il mondo chiuso della tecnica, che nel frattempo si era ridotto a una cabina d’aereo, si riapre: una realtà completamente nuova, che ancora non si vede, Ivi, 179. 468 Ivi, p. 184. 469 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 81.  ! 160!  che non si può nemmeno cogliere con l’udito [...] anche il tatto non può far altro che occuparsi della cartella che d’abitudine ci si porta appresso. Ma improvvisamente all’olfatto spetta un inatteso primato [...] è attraverso l’olfatto che sorprendentemente si percepisce la distanza”470. L’esperienza cognitiva del viaggio in Sudamerica si configura come un movimento verso l’ignoto e l’abissale i cui effetti sono incerti: l’incontro con l’altro può avere un esito liberatorio o distruttivo471, può indurre l’uomo a rinunciare alla sua storia particolare, ma può anche sollecitarlo a dubitare del tutto della realtà storica. Quest’ultimo aspetto è particolarmente problematico: l’insistere del filosofo milanese sull’opposizione tra natura e storia, tra Sudamerica e mondo europeo, appare poco argomentato e poco incline a mediazioni, tracciando una cesura ontologica tra l’uomo sudamericano e quello europeo. Occorre prendere “la expresiòn grassiana naturaleza no historica con mucha cautela”472. Nonostante le dovute cautele rispetto a quelle espressioni che cristallizzano le opposizioni tra una presunta temporalità ontologica e immobile – quella sudamericana – e una temporalità storica – quella europeaa –, bisogna riconoscere il merito del filosofo per aver eletto il viaggio sudamericano a occasione per ripensare e rinnovare i termini e i limiti dello strumentario concettuale dell’Occidente. La posizione di Grassi che guarda all’Europa nei termini di un “relitto di una vita inattuale” e al Sudamerica come natura astorica non passa inosservata: i colleghi universitari, primo fra tutti Carlos Astrada, ma anche Juan Rivano, in La Amèrica ahìstorica y sin mundo del humanista Ernesto Grassi, e Humberto Giannini, in Experiencia y Filosofìa473, non potevano accettare le affermazioni del filosofo italiano senza qualche riserva. Tuttavia Grassi intende questa assenza di storia in modo più complesso e articolato: essa dice della possibilità del nuovo474. Se l’Europa ha esaurito tutte le sue possibilità il Sudamerica, per il primitivismo che la contraddistingue,  470 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 55. 471 Ivi, p. 50. 472 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo...cit., p. 86. 473 Per una ricostruzione dell’intera vicenda cfr., J. Barcelò, op., cit., pp. 252-253. 474 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 24.  ! 161!  non è ancora stata sopraffatta dall’asfissia storia: “abbandonata una vita carica di storia, aspiriamo all’altro mondo in cui speriamo di trovare soprattutto l’astorico. Tuttavia non troviamo questo, ma una storia che inizia, una storia completamente estranea a noi europei d’oggi [...] laggiù la vita respira completamente nell’atmosfera di fine secolo e ci appare come un passato che non è ancora riuscito a diventare definitivamente passato. Esso continua a vivere nel nostro presente, ma sembra estraneo e superato”475. Un ultimo aspetto del viaggio è quello simbolico-metaforico. Nel percorso di ampliamento dei propri orientamenti conoscitivi ed esperienziali traspare il motivo della ricerca delle proprie origini. In questa ricerca delle origini e degli inizi dell’umanità si fa esperienza di immagini inedite e di un accesso alla realtà notevolmente diverso. Quando Grassi descrive il passaggio per la grande catena montuosa delle Ande sta narrando una storia che emblematicamente ci ricorda il vichiano “divagamento ferino per la gran selva della terra” della Scienza Nuova. Ma non si tratta semplicemente di una reminiscenza filosofica: in quel momento Grassi non cita Vico, ma descrive, vedendolo, quello che Vico aveva ipotizzato: “vagando in questo territorio, si aprono continuamente nuove prospettive. É l’accesso a un mondo inquietante: come potrebbe infatti un essere vivente storico ritrovare il proprio orientamento in questo silenzio, in queste ombre, in queste fosse? [...] ma questo non è il caos stesso? Anzi è il caos inteso non nel senso di disordine, ma nel senso che a qualsiasi forma può essere impresso un ordine [...] qui nelle Ande esperiamo la realtà di un mondo di pure possibilità”476. La natura, l’ingens sylva, appare, allora, come la metafora di quello spazio edificabile nel quale si apre all’uomo lo spettro di possibilità inedite di instaurare il mondo umano, quel mondo storico che solo con cautela possiamo opporre alla natura. Un mondo in cui la questione onto-antropo-logica viaggia sul doppio binario dell’oggettività data – la natura, il mitico, l’astorico, l’essere – e dell’operazione di determinazione di tale oggettività – la progettualità umana, la genealogia dell’ordine e della storia, quella che Grassi definisce “coscienza temporale umanistica”. Da questo percorso di transizione, che è il viaggio, verranno in superficie, contro la ragione totalitaria, la ragione  Ivi, p. 69. 476 Ivi, pp. 80-81.  ! 162!  frammentaria, inquieta, balbettante, critica e discontinua, da sempre trattenuta nei silenzi e nelle pieghe nascoste del logos, ma presente nel mito e nella tragedia, nella metafora e nella fantasia. Il viaggio inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione, e circum-stantia, è motivo centrale della riflessione filosofica di Ernesto Grassi e pone in luce il legame indissolubile e non estrinseco tra il luogo geografico di elaborazione di questi innumerevoli significati del viaggio, il Sudamerica, e l’idea di filosofia del pensatore milanese. Un’idea che si costruisce intorno ad un progetto di riattualizzazione della problematica umanistica e dei concetti di retorica, metafora e ingegno, ripercorrendo itinerari poetici, teatrali, filosofici, artistici, che pongono in luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo Grassi è nella pluralità delle parole, nei verba che possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici, contingenti, transeunti. L’attenzione alla multilateralità del reale, che si rivela nella polidimensionalità linguistica, si colloca nel contesto più generale della domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo. Si tratta del problema onto-antropo-logico a cui gli scritti grassiani di retorica, metaforologia, umanesimo477 tentano di dare delle risposte. Il Sudamerica diventa l’occasione per un ripensamento del proprio passato filosofico e per gettare luce su un presente avvertito come estraneo. Grassi ha voluto confrontare la sua esperienza di europeo con il modo di vivere sudamericano, assillato dal dubbio intorno alla validità universale delle categorie della storicità e della tecnica dominanti in Europa, scoprendo una serie di aspetti inediti della cultura americana: innanzitutto l’esperienza dei sensi, che non è la pura e semplice empeiria, ma il luogo visibile del dissidio e della contraddizione, come testimoniano gli scorci descrittivi delle località cilene. Il filosofo asserisce in riferimento al soggiorno cileno di trovarsi in una realtà che è al contempo unità e molteplicità senza relazione: “ci troviamo nel nord del Cile, nella contrada delle grandi miniere di rame, !Cfr., soprattutto E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit.; Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; Id., Umanesimo e retorica. Il problema della follia, tr. it., di E. Valenziani e G. Barbantini, Mucchi, Modena 1988; Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit.; Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Vico e l’umanesimo, cit.; Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit.  ! 163!  in prossimità del confine peruviano a 3800 metri di quota [...] mi confonde il fatto di essere abituato a costruire la realtà mediante una combinazione di diverse esperienze sensibili, e per la prima volta apprendo che i sensi, abbandonati a se stessi e non ordinati dall’intelletto, rivelano il contraddittorio nella sua essenza: la realtà è contemporaneamente un’unità e una molteplicità senza relazione”478. Oltre all’esperienza dei sensi, un altro concetto importante che emerge dai resoconti del viaggio sudamericano, è quello di oggettività: i sensi non rivelano solo qualcosa di soggettivo e di transeunte, ma l’oggettivo. I concetti di natura e oggettività si legano profondamente a quelli di mito, di cominciamento, di originario che solo la poesia può dire e non la filosofia, che si muove nell’ambito del deduttivo e dunque del non-originario. Per Grassi “non basta il sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principii nei quali ancorare tutti i nostri progetti”479 ma bisogna tentare di ricostruire le tappe di una “sapienza arcaica”, o di una “sapienza poetica”, per usare un binomio vichiano, in cui si rinnovano i significati di teoria e prassi e si fa spazio ad un concetto di pistis che esula dai limiti definiti della religione per rivelarsi come il fondamento della retorica originaria: “questo riconoscimento capovolge diametralmente il rapporto tra pistis e logos. La pistis, intesa come fondamento dell’inspiegabile perché fondamento di ogni spiegazione, è propria del mondo originario”480. Nell’esperienza sudamericana l’oggettivo appare come una natura che non è più umanizzata e soggiogata, ma che domina l’uomo. Essa diviene smisurata, infinita, sconfinata, apocalittica e si sottrae ad ogni orientamento, criterio e progetto, in una ripetizione ciclica, in un eterno presente. Asserisce il filosofo che “lo spazio astorico della natura può quindi suscitare nell’uomo europeo un terrore sconcertante. Una volta spezzata la coercizione delle passioni, quando gli oggetti non si distinguono più come momenti conformi al fine degli istinti, improvvisamente si precipita nello smisurato” Id., Arte e mito, cit., p. 83. 479 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 72. 480 Id., Significare arcaico, cit., p. 490. 481 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 116.  ! 164!  Entriamo nello spazio del mito dove la differenza tra uomo e mondo svanisce e tutto rientra improvvisamente in un’unità che domina ovunque e che Grassi sente appartenergli nel modo più profondo. Afferma il filosofo che in questa unità “ha luogo un rovesciamento sconcertante: non si tratta ora più di comprendere qualcosa, perché ogni cosa viene compresa nel tutto”482; si tratta di un ordine “di una pienezza che si chiude armonicamente nella quale il nascere e il trapassare non sono che momenti di un duraturo presente”483. Grassi si sta riferendo ad una realtà eterna che sembra avvolgerci: “è’ l’ora di Pan”484. Il Sudamerica è il simbolo dell’ora di Pan, che a sua volta è allegoria di un’esperienza che, prendendo in prestito le parole di Vico, “è affatto impossibile immaginare, e a gran pena ci è permesso di intendere”: qui è possibile guardare autenticamente al mito non alla luce della demitizzazione, non come “prestazione arcaica della ragione”, per dirla con Blumenberg485, ma come “realtà in cui viviamo”. É ancora consentito vivere il mito in quel dissidio, in quella transizione, in quel viaggio dal vecchio continente della cattiva metafisica verso il mare aperto dell’autenticità, dell’altro inizio del pensiero. Un inizio che è principio arcaico nel senso aristotelico del termine: perché governa e dà inizio come leggiamo in Significare arcaico. Il filosofo, reinterpretando lo Stagirita, sostiene che “il principio deve invece avere veramente il carattere di archè, cioè deve mandare, comandare”486 e, non avendo carattere apodittico, bensì elenchico, “non possiamo sottrarci alla – sua – imposizione perché ogni tentativo di sottrarsi ad – esso lo – presuppone”487. L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che non è un gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale Id., Arte e mito, p. 153. 483 Ibidem. 484 Ibidem. 485 Cfr., H. Blumenberg, Il futuro del mito, tr. it. di G. Leghissa, Medusa, Milano 2002. 486 E. Grassi, Significare arcaico, cit., p. 486. 487 Ibidem.  ! 165!  unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo”488. Perché come diceva Vico, uno degli autori prediletti da Grassi: “di questa logica poetica sono corollari tutti i primi tropi, de’ quali la più luminosa, e perché più luminosa, più necessaria, e più spessa è la metafora [...] – che – vien’ ad essere una picciola favoletta”489. L’analisi delle “meditazioni sudamericane” di Grassi ha messo in luce l’intima correlazione dei temi del viaggio, inteso come evento semiotico, con le categorie dell’analitica esistenziale grassiana: dismondanizzazione e assenza di mondo, oggettività, natura, coscienza temporale umanistica. Abbiamo cercato di porre in luce quanto il significato del viaggio in generale e di quello sudamericano in particolare sia fondamentale per comprendere il senso della proposta neo-umanistica grassiana: essa si struttura come ricerca costante di un nuovo strumentario categoriale per l’uomo europeo che ha sperimentato la miseria, la precarietà e il declino della propria storia ma non si rassegna al deserto del nichilismo dilagante ma al contrario, come il viaggiatore, l’emigrante, va alla ricerca di un’umanità perduta, più radicata nella vita. L’esperienza sudamericana si carica allora di un’importanza che occorre sottolineare con vigore: essa è un percorso nell’interiorità prima che essere un itinerario geografico perché “in quanto viaggiatori in terra straniera siamo anche e soprattutto viaggiatori nell’interiorità [...] oggi, viaggiando, non andiamo in cerca di scoperte esteriori, sottoponiamo piuttosto a un esame il mondo della nostra lingua, dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti”490. La meditazione su Sudamerica diviene allora una meditazione sull’Europa. III. X. L’uomo e l’esperienza dell’oggettività: la nascita della coscienza temporale L’analisi del viaggio nel suo significato tetravalente e la focalizzazione sui temi della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo ci consente di inquadrare meglio le altre due idee  Ivi, p. 494. 489 G. B. Vico, La Scienza nuova, a cura di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, ed. 1744, II libro, p. 932. 490 E. Grassi, Viaggiare ed errare, cit., p. 124.  ! 166!  centrali nell’analitica esistenziale grassiana: i concetti di coscienza temporale umanistica e di oggettività. Secondo il pensatore milanese l’esperienza del disancoramento originario dalla realtà è l’elemento principale che caratterizza la “situazione umana”. L’angoscia e il terrore della foresta primordiale, l’agorafobia originaria che genera la paura dell’aperto, spingono l’uomo a cercare di volta in volta i codici di decifrazione della realtà come è emerso dalle precedenti considerazioni sull’incidenza dell’idea uexkülliana di cerchio funzionale simbolico e sulla distinzione tra mondo animale e mondo umano a partire dalla funzione di apertura mondana dell’Angst. Leggiamo in Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne che “la situazione umana è caratterizzata dal fatto che l’uomo ha la esperienza originaria di essere disancorato dalla realtà. Il problema del metodo nasce da questa profonda esperienza, giacchè esso consiste nella ricerca della via per giungere un dato fine. Le prime forme di metodo, cioè di ricerca di un orientamento nella realtà nascono dall’esperienza del carattere ingannevole e relativo e mutevole di ciò che mediano i sensi”491. La situazione in cui l’uomo è gettato è caratterizzata dal nesso disancoramento-metodo- orientamento. Convinto che proprio l’insufficienza dei sensi, che provoca il disancoramento, ci obbliga all’elaborazione del metodo, Grassi individua la nascita delle scienze naturali nell’originaria perdita del rapporto immediato con la natura. Emerge un elemento concettuale di non secondaria importanza: il tema della nascita della coscienza e delle scienze si intreccia indissolubilmente alla questione dell’oggettività e alla ricerca della sua determinazione. Sostiene il filosofo che “nelle scienze singole naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo. Infatti di fronte al bisogno di un metodo, di un’oggettività, appare il caratteristico capovolgimento che avviene nella nostra concezione del reale”492. Si tratta di quel capovolgimento che caratterizza le scienze naturali che mettono da parte l’esperienza originaria della natura – quella immediata dei sensi – in direzione della ricerca di  Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 492 Ibidem.  ! 167!  un’oggettività “stabilita dai principi in funzione ai quali si delimita e circoscrive, facendola oggetto di domanda, la realtà fenomenica”493. L’assenza di coordinate e orientamento mette l’uomo in una condizione di Notwendigkeit che segna anche il discrimine tra mondo animale e mondo umano. La fecondità del tema del disancoramento si pone nel contesto dell’onto-antropo-logia grassiana quale condizione di possibilità della nascita del mondo umano nella Lichtung primordiale. Per il filosofo “la storia umana comincia nell’istante stesso nel quale l’uomo sorge dalla natura in quanto l’immediatezza di quest’ultima non lo soddisfa: l’esperienza della non indifferenza di ciò che gli si presenta fenomenalmente a mezzo dei sensi è espressione di legami che non si identificano con quelli dei sensi”494. L’elevarsi dell’uomo dall’immediatezza dei sensi mette in moto il secondo livello di oggettività e la storia umana. Ma che cosa intende il pensatore per oggettività e in che relazione essa si trova con la storia? III. XI. I gradi dell’oggettività Il filosofo distingue due gradi dell’oggettivo. In L’uomo e l’esperienza dell’oggettività il punto di partenza dell’indagine è ancora una volta quello della “condizione umana” che “si distingue nettamente dalla condizione degli altri esseri viventi per la necessità di ricercare e progettare le unità di misura e di principi in funzione ai quali delimitare il mondo delle apparenze nelle quali ci troviamo”495. L’indagine sulla situazione del Da-sein e sulle sue strutture di esistenza ha come primo risultato l’individuazione di due livelli di oggettività. “Per giungere alla soluzione della realtà umana, e con ciò della sua oggettività, dobbiamo innanzitutto partire dal problema di quali siano i caratteri di ciò che ci si manifesta”496. Tali caratteri possono essere contraddistinti in due modi: -! dipendono dai nostri parametri e dai “limiti da noi progettati” Ibidem. 494 Ivi, p. 203. 495 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 65. 496 Ivi, p. 68. 497 Ibidem.  ! 168!  -! dipendono “dal fenomeno stesso nel ritmo del proprio divenire”498 Da un lato constatiamo che nella vita vegetativa e organica la natura appare nel costante ritmo temporale dell’identico, in un diastema, ossia in “ciò che sta (istemi) tra limiti (dià)”499, dettato dal fenomeno stesso della vita e non da modalità molteplici di ordinare i fenomeni naturali. Dall’altro riscontriamo nel mondo umano infinite unità di misura di questa natura. Per il filosofo “della natura possiamo solo parlare in quanto essa appare entro i diastema stessi, cioè entro determinati limiti”500 e tuttavia dobbiamo riconoscere che si danno alcuni fenomeni “il cui apparire non dipende dalla nostra proiezione di diastema”501. Grassi riporta l’esempio dei molteplici stati di un corpo502: un corpo può apparire in una forma solida o liquida ma la modalità in cui esso appare non dipende da noi: la nostra proiezione di diastema non è l’unica via di accesso all’oggettivo, all’essere, alla natura. “Se è vero che la natura appare solo entro i limiti da noi progettati, è altrettanto vero che non dipende da noi come essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa oggettività dei fenomeni naturali è la condizione dell’esperimento, è la risposta che la natura dà entro i nostri diastema”503. Non a caso il filosofo ricorre a Leonardo per porre in luce il concetto di natura entro i diastema. Nello scienziato Grassi individua un via di accesso alla natura mediata dall’esperimento che mostra il senso autentico del concetto di diastema. Nel Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo “l’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua interezza Ivi, p. 69. 499 Ivi, p. 68. 500 Ibidem. 501 Ibidem. 502 Ibidem. 503 Ibidem.  ! 169!  ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue capacità”504. La natura di Leonardo rimane nondimeno “un mistero che viene svelato in funzione della domanda impellente”505, quindi mantiene una zona di opacità residua. Essa ha una propria oggettività che non può essere colta in maniera esaustiva e definitiva. Il tema della doppia oggettività della natura mette insieme l’idea dell’oggettività della natura, quale fondo oscuro e inaggirabile, e l’idea della natura come banco di prova dell’esperienza umana che risulta essere un progetto gettato. Ecco allora che si profila l’intreccio indissolubile tra il tema ontologico della oggettività, della natura, dell’essere e quello etico-pratico della storia umana dei tentativi, dei progetti, dell’esistenza, del caso particolare, delle circostanze. In questo percorso di superamento dell’oggettività della natura, di trascendimento della sua alterità e di ricerca di principi di determinazione, l’uomo elabora le proprie strategie di contenimento del diverso: inizia la storia del sapere. Per il pensatore italiano “la storia del divenire per giungere alla conoscenza di quei principi primi è la storia del sapere. Ma non basta sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principi nei quali ancorare tutti i nostri progetti, ma bisogna anche saper realizzare in funzione ad essi i nostri diastema, i nostri progetti: sorge così una nuova esperienza del tempo [...]: il tempo umano”506. La coscienza dell’autotemporalità trova la propria genesi nell’angoscia esistenziale che ha per il pensatore una funzione catartica: “quella di guidare l’uomo [...] alla coscienza del carattere perturbante della propria situazione”507. L’autotemporalità della coscienza umanistica si fonda sull’idea del tempo come “distinzione fondamentale fra ciò che non è più e ciò che non è ancora, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 505 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., 165. 506 Id., L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, cit., p. 71. 507 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 259.  504 Id., Introduzione a Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg Rowohlt, 1955, pp. 133-138, traduzione nostra.  ! 170!  passato e futuro”508 in funzione di un presente. Tale presenzialità tuttavia non ha carattere puntuale, “non ha a che fare con un atomo temporale fuggitivo”509. III. XII. Essere e Tempo Il presente al quale si riferisce il filosofo va connesso con l’idea di appello dell’essere. Tempo ed essere sono strettamente correlati nella concezione grassiana del tempo. Come leggiamo in Apocalisse e storia “i momenti del tempo sono il NON-ancora, il NON-più e l’ora. Tutti e tre questi momenti manifestano all’analisi un caratteristico aspetto negativo”510. Il passato e il futuro mostrano un carattere di nullità e sarebbe più corretto parlare di “presente del passato, presente del futuro, presente del presente”511 che si danno nel ricordo e nell’attesa. Una concezione del tempo di questo tipo fa dipendere la nostra capacità di percepire il tempo dalla nostra capacità di essere affetti (affectio animi). Osserva Grassi che una simile concezione della temporalità presuppone l’essere: non nel senso di ciò “che esteriormente ci è dato”512 ma nel senso di ciò che rende possibile le nostre esperienze. L’a-priori di ogni esperienza temporale umana – quella dell’attesa e del ricordo – è l’attenzione: “il termine latino corrispondente ci chiarisce in che accezione appare qui il termine attenzione: attentio significa tendere ad, e quindi attendere. L’attenzione è quindi possibile nell’ambito di una tensione, di una tensio che, come fondamento dell’aspettativa, dell’attesa, è la radice medesima della nostra capacità di intus-legere, dell’intelligenza con la quale costruiamo e ordiniamo i fenomeni in un modo”513. Solo nel contesto di questa attentio/tensio originaria sorgono il presente, il passato e il futuro. La struttura temporale della coscienza è a  Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 509 Ibidem. 510 Id., Apocalisse e storia, cit., p. 13. 511 Ivi, p. 14. 512 Ivi, p. 15. 513 Ivi, p. 14.  ! 171!  fondamento del potere umano di progettare, mondi, cosmi, ordini, unità di misura come strategie di risposta agli appelli dell’essere che urgono e ai quali dobbiamo corrispondere. All’origine dell’autotemporalità storica514 della coscienza umana abbiamo un Dasein che si dibatte tra angoscia e paura, la potenza delle quali irrompe, creando uno strappo nell’unità simbolica di soggetto e oggetto. La ricostruzione di tale unità simbolica, di tale symplokè tra soggetto e oggetto mediante la parola, il linguaggio, è il compito che Grassi si propone di portare avanti attraverso riflessioni che assurgono a prolegomena per una “semiotica antropologica” che indaga il “problema del nuovo potere originario che strappa l’esistenza umana dalla sfera della consapevolezza del semplice segno biologico e la colloca in una situazione di esistenza e di possibilità umane”515. La coscienza umana nasce compensazione di quel disancoramento primordiale, che è a fondamento del mondo umano, e come produzione tecnico-poietica. Se la storia dell’uomo è la storia del suo divenire e del suo superamento dell’immediatezza della natura allora il suo compito fondamentale – il compito del vero umanesimo – sarà quello di riscostruire la storia “di quella realtà originaria che l’ha strappato dalla immediatezza della natura”516. Un sapere che si pone questo obiettivo si costituisce come archeologia dei mezzi umani di ricomposizione della frattura originaria (la rottura del cerchio funzionale simbolico): scienze naturali, tecnica, filosofia, arte517. Per Grassi “di qui sorge la necessità di ricostruire – con i frammenti del mondo sensibile – un mondo nuovo, quello umano. L’uomo può realizzare tale compito solo se chiarisce ciò che lo riguarda originariamente e se conforma la realtà sensibile a questa nuova urgenza [...]: sorge per l’uomo il caso particolare, presupposto alla realizzazione del mondo umano”518. Proprio l’elemento circostanziale, particolare, limitato di ogni singola esperienza individuale ci restituisce la qualità cairologica, più che escatologica della temporalità grassiana, attenta all’istante  Cfr., sul tema dell’autotemporalità come nota distintiva dell’uomo distinta dalla temporalizzazione biologica Id., Vico contro Freud: creatività e inconscio, pp. 133-153, in Id., Vico e l’Umanesimo, cit. pp. 142-145. 515 Ivi, p. 152. 516 Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 203. 517 Ibidem. 518 Id., Apocalisse e storia, cit., p. 12.  ! 172!  giusto, al tempo opportuno: poiché la nuova esperienza di fronte alla quale si trova l’uomo non è solo la conoscenza dell’universale ma innanzitutto quella del caso particolare e singolo. “Bisogna sapere quando, come, dove, di fronte a chi”519. La mancanza di tale conoscenza sarebbe “mancanza di misura, di discrezione, di prudenza, di phronesis”, le uniche capaci di mostrare l’intima correlazione tra vita etica e politica come realizzazioni dell’opera umana, come risposte alla scomparsa del mondo olistico, intatto, della vita organica. Per Grassi resta sullo sfondo un grande interrogativo: c’è da chiedersi “in virtù di che cosa può originarsi il mondo umano, se all’uomo non appartiene alcun ambiente immediato, se quest’ultimo dev’essere sempre costruito da ogni singolo individuo; qual è la radice dell’umanizzazione della natura?”520. Legato al tema antropologico delle origini della storia umana emerge quello del linguaggio e della funzione della retorica grassiana come ricerca sul significare arcaico o semantica antropologica. Siamo così giunti ad un’altra domanda legata connessa ai problemi precedentemente posti a tema: “a quale funzione adempiono la parola, il linguaggio, nel sorgere del mondo umano?”521. Id., Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, cit., p. 205. 520 Id., Potenza della fantasia, cit., p. 256. 521 Ivi, p. 254.  ! 173!  CAPITOLO IV PALAIÀ DIAPHORÀ: PENSARE E POETARE IV. I. Il significato della proposta retorica Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di ricostruire le tappe del pensiero di Grassi seguendo come filo conduttore quello dell’onto-antropo-logia che si è rivelata una chiave di lettura ampia e integrativa. Seguendo le riflessioni sui temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività abbiamo rintracciato a fondamento della proposta neoumanistica un’analitica dell’esistenza che tocca i temi della coscienza temporale, della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo. La focalizzazione su queste problematiche fa emergere un’idea di umanesimo che viaggia sul doppio binario della rivalutazione storica – come dimostra l’analisi dei testi umanisti dedicati al tema della Lichtung, del linguaggio e della poesia – e della chiarificazione teoretica delle categorie dell’esistenza. In questo ultimo capitolo prenderemo in considerazione i temi del filosofare noetico-non metafisico e quelli della retorica ingegnosa come critica delle devastazioni dell’intelletto, di quei “razionalismi stretti e assoluti del positivismo logico, cui Grassi contrappone una logica del discorso diretto, del pensiero come comunicazione discorsiva, fondato sulla metafora non come luogo del falso, ma come spazio del vero concesso all’uomo”522. Sullo sfondo della prospettiva retorica grassiana emerge il paradigma dell’incompletezza e della carenza. L’uomo è di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso. Il disancoraggio da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’uomo compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità di conservazione della vita. L’azione, come  E. Raimondi, La retorica d’oggi, il Mulino, Bologna 2002, p. 77. ! 174!   compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale processo antropogenetico la retorica occupa un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Il codice di cui parla il filosofo è “non soggettivo, non è scelto liberamente, ma sofferto attraverso i sensi, in quanto essi si manifestano nella sfera del piacere e del dolore [...] noi non abbiamo così il dualismo di codice e realtà da decifrare, abbiamo invece il significato continuo, immediato e rivelato di ciò che noi soffriamo con pathos”523. Ad agire sullo sfondo del discorso c’è la riflessione antropologica novecentesca menzionata in precedenza: il concetto di povertà, il paradigma dell’incompletezza, secondo cui l’uomo è concepito come animale carente, che si intreccia saldamente con la rivalutazione della retorica come luogo privilegiato dell’umano. La retorica avrà un doppio ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana. Ad emergere è un significato antropologico di retorica che si configura come la compensazione dell’indeterminatezza dell’essere umano: essa può essere definita come la tecnica di adattamento provvisorio che precede ogni morale e ogni verità. La retorica allora costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in mancanza di evidenza. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea istituzioni: “la società umana ha origine nel poeta come oratore e nel lavoro”524. All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei segni (semata), semiotica, e teoria del senso, semantica arcaica, ben lontana dalla semiotica formale. Una teoria del segno e del senso per il filosofo “dovrebbe essere in grado di elevarsi al livello  E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 242. 524 E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 135.  ! 175!  di filosofia in quanto dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano (ergon anthropinon)”525. La questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, semiosfera da cui si dipartono i mondi possibili dell’umano. La declinazione antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce come “pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita”526 pone in luce come la retorica “assume un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale”527. Essa è la base di quel theorein che è proprio della filosofia: un theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è “una visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera opera anche pateticamente e quindi retoricamente”528. IV. II. La retorica come critica del paradigma scientifico Il nucleo singolare dell’opera di Grassi si rivela come una nuova e specifica prospettiva sull’umanesimo retorico quasi sempre obliato dagli storici della filosofia del Rinascimento tra i quali Kristeller e Cassirer529. Come dimostrato dalla sua intensa attività all’Istituto Studia Humanitatis (inaugurato il 6 dicembre del 1942 nell’università di Berlino), presso il Centro italiano di studi umanistici e filosofici a Monaco (1948) e soprattutto dall’attività editoriale della Humanistische Bibliothek, la collana Tradiciòn y Tarea, Grassi propone un’idea diversa del pensiero umanista. Egli  Id., Retorica come filosofia, cit., p. 194. 526 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro rispetto alla ragione: la sfida della retorica, pp. 99-126, in AA. VV., Studi in memoria di Ernesto Grassi, cit., p. 113. 527 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. I corsivi sono nostri. 528 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., pp. 17-18. 529 Cfr. le osservazioni esposte nel II capitolo.  ! 176!  non riduce tutto l’umanesimo al recupero del platonismo – ricordiamo l’opposizione tra umanesimo platonico e non platonico530 di cui spesso parla il filosofo – ma mette in risalto l’importanza dell’altra corrente dell’umanesimo che rivendica il valore della parola poetica, come parola donatrice di senso, e della prassi vitale e storica. Lo studio dell’umanesimo allora non appare come il frutto di una curiosità storiografica o erudita ma come uno sforzo, un impegno, per immettere la questione dell’uomo sul terreno della correlazione di teoria e prassi che riscrive anche il tema dell’utilità della filosofia e degli studia humanitatis. Come leggiamo in La potenza dell’immagine “solo in base al chiarimento di una concreta tradizione storica – cioè di quella umanistica – può sorgere a una nuova considerazione il problema attuale de “a che cosa serve la filosofia”, e quindi il problema del rapporto tra teoria e prassi [...] la problematica dell’umanesimo italiano – proprio in relazione alla preminenza accordata alla prassi, alla negazione della parola astratta, razionale – presuppone il superamento della dualità di una realtà esistente, sperimentata, e di un mondo corrispondente alla ragione, una dualità che conduce all’insuperabile divaricazione di teoria e prassi”531. Il recupero del passato filosofico – la tradizione umanistica – fa tutt’uno con l’idea di un’utilità pratica della filosofia che per Grassi nasce proprio come naecessitas, come risposta all’appello dell’Abissale, poiché “conservare un passato (è indifferente che si tratti di pensieri, monumenti o avvenimenti), non considerato in relazione a un compito da assolvere nel presente, è il segno di una cultura divenuta sterile. Ogni cultura, ogni tradizione, nella quale il passato perde questa promettente considerazione, decade, avvizzisce. La tradizione si radica solo nella comprensione del presente”532. All’interno di questa prospettiva il filosofo milanese afferma che il vero umanesimo è quello che incomincia con Dante e Boccaccio. Contro l’indirizzo “platonico” costituito dal versante ficiniano dell’umanesimo per Grassi permane attraverso i contributi di Vives, Nozolio, Peregrini, Tesauro, Graciàn, Vico, Muratori, Leopardi, una tradizione non-platonica ma retorica, che resiste a quello  Cfr., E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, capitolo VI “Antiplatonismo e platonismo”, cit., pp. 175-197. 531 Id., La potenza dell’immagine, cit., pp. 259-260. 532 Ivi, p. 133.  ! 177!  spirito razionalista che la relega nell’ambito della letteratura, dissolvendo l’unione di retorica e filosofia. Il punto di vista grassiano sull’umanesimo italiano emerge in netto contrasto all’enfasi sulla ragione e sulla logica privilegiate dal paradigma scientifico. Quest’ultimo si fonda sul presupposto che la conoscenza oggettiva sia l’unico modo per comprendere la realtà. Questo tipo di impostazione logico-analitica, caratterizzata dall’utilizzo del metodo scientifico, non è attenta all’hic et nunc della situazione concreta ma crede di trovare assiomi autoevidenti universalmente validi: rispetto al discorso retorico “il discorso razionale invece è fondato sulla capacità una di trarre deduzioni e quindi di legare delle conclusioni a delle premesse. Il discorso razionale raggiunge la sua funzione dimostrativa e la sua stringenza mediante la dimostrazione logica”533. Ne deriva che il discorso retorico non può avere alcuno spessore filosofico all’interno del paradigma scientifico. Il discrimine fondamentale tra l’approccio scientifico e quello retorico al reale risiede nella ricerca dei principi. La retorica vuole indagare l’origine dei primi principi e la scienza si arresta alla constatazione delle premesse. Se il discorso dimostrativo è quello che lega la definizione di un fenomeno riportandolo ai principi ultimi, alle archai, “è chiaro che le prime archai di qualsiasi prova, e quindi conoscenza, non possono essere esse stesse essere provate, in quanto non possono essere oggetto di un discorso apodittico, dimostrativo e logico”534. Da qui sorge il problema dell’individuazione del tipo di logos adatto ad una ricerca sui primi principi, sulle premesse indimostrabili. La risposta grassiana è nota: “l’uso di tali espressioni, che appartengono all’originario, al non-deducibile, non possono avere carattere e struttura apodittica e dimostrativa, ma solo indicativa. É solo il carattere indicativo delle archai che rende davvero possibile la dimostrazione”535. La ricerca sul metodo adeguato per accedere al reale conduce Grassi a tematizzare l’infondatezza di quella opposizione tra filosofia topica e critica.  Id., Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 25-26. 534 Id., Retorica e filosofia, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 96. 535 Ivi, p. 97.  ! 178!  IV. III. Retorica tra filosofia critica e filosofia topica La dimensione retorica va considerata secondo Grassi non come elocutio ma come inventio536: non si tratta di un ornamento edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung “umanistica tutt’altro che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che opportunamente si salda in Grassi alla centralità della metafora, stabilendo con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre provvisorio”537. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a Grassi di porre l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero più che alla sua fase declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose che altro non è che “nascimento in certi tempi e in certe guise” (Scienza Nuova, Degnità XIV) Grassi rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico, tra un filosofare critico e un filosofare topico, che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un discorso che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. Grassi fa sua la posizione heideggeriana che sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata mannaia della distruzione ontologica valutando l’operazione metodica di separazione tra io e mondo538, tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione della frattura come è possibile Cfr., sulle parti della retorica dalle origini alle nuove retoriche di Perelman-Tytheca, Gruppo di Liegi, retorica del silenzio di Valesio B. Mortara-Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 2012. 537 Ivi, p. 390. 538 Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo cfr., M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., §§ 19-21.  ! 179!  leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio avviene nella metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio, nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova posizione dell’uomo539, poiché l’uomo diventa subiectum540, il fondamento e la misura di ogni certezza e verità. Asserisce il pensatore tedesco che “la tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale, [...] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro”541. Tale metodo è il cogito e le sue strutture. Grassi fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos. Egli sostiene che “all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre materie proprie dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca della verità”542. Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico una contrapposizione tra il piano individuale, storico e temporale della retorica e il piano generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica, viene posto per la prima volta secondo Grassi in modo teoricamente articolato nella filosofia vichiana del De ratione studiorum di cui egli ricostruisce minuziosamente le tappe della critica al razionalismo cartesiano nel saggio Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos  M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, p. 158. 540 Ivi, p. 168. 541 Ivi, p. 169. 542 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico e l’Umanesimo, cit., p. 25.  ! 180!  e ragione. Le questioni poste sul tavolo della discussione sono molteplici: la pretesa di partire da un primo vero attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione del verisimile543. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di impostazione cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica, immaginativa, fantastica, ma anche politica della vita umana, ridotta al suo puro aspetto cogitativo. Grassi pone l’attenzione sul passo vichiano del De Ratione in cui è enunciata la priorità della topica sulla critica: “giacchè, come l’invenzione degli argomenti precede per natura la valutazione della loro veridicità, così la dottrina topica dev’essere preposta a quella critica”544. Si chiede il filosofo milanese: “chi ci assicura che le premesse dalle quali parte il processo critico non rispecchino solo un singolo aspetto della realtà, limitando di conseguenza le conclusioni che ne derivano? Non ha il metodo critico trascurato la retorica, la politica, la fantasia dimostrando così la sua unilateralità razionalistica?”545. Non è la deduzione che precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di un “ritrovamento di luoghi”. Si tratta dell’arte topica, ossia l’arte dell’invenzione di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a “quanti e quali oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione”546. La questione è ancora una volte quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della realtà tenendo conto piuttosto delle innumerevoli forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La radicalizzazione dell’opposizione tra logos e pathos in realtà è spia di un’esigenza  Ivi, p. 35 e sgg. 544 G. B. Vico, Sul metodo degli studi nel nostro tempo, cit., p. 39. 545 E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 36. 546 Aristotele, Topica, 101 b 3. ! 181!   di unità nel quadro di una prospettiva onto-antropo-logica che mira a gettare un ponte tra logos e pathos, tra pensiero retorico e scientifico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “la tesi che l’essenza della filosofia si riduca esclusivamente al processo razionale non regge. Anzitutto perché esso presuppone inevitabilmente un’altra attività, quella dell’invenire, che lo precede”547. Lo scopo del filosofo è quello di trovare il fondamento comune di retorica e filosofia, e la sua prospettiva non-riduzionista è capace di tenere conto di quella torsione che avviene nell’uomo con il sopravvenire del linguaggio, come mediazione tra gli istinti e gli impulsi da un lato e gli scopi dall’altro. Il linguaggio segna e delimita i diversi aspetti dell’umano che esprime il proprio senso della realtà primariamente attraverso un logos metaforico e non tramite la definizione, il concetto, il linguaggio razionale. Di conseguenza la soggettività che traspare dalle riflessioni grassiane non è dotata di una identità monolitica e infrangibile, non è compatta e unitaria ma è una soggettività frammentata e consegnata alla contingenza, alla circostanza, costretta a ridefinirsi continuamente. Il Da-sein è allora atto di ricomposizione, attraverso la “ragione fantasticante”548 (che tiene insieme come compossibili e non come contraddittori logos-pathos), dei cocci dell’esistenza tra i quali ci muoviamo, consapevoli dell’instabilità e della mutevolezza, del divenire che necessita di un logos adeguato alla sua espressione: la metafora. Nell’onto-antropo-logia grassiana ritroviamo un Da-sein che riconosce l’inesistenza di un fondamento ma non rinuncia ad esporsi alla motilità dell’esistenza e a costruire un senso tra le pieghe e le piaghe che caratterizzano il movimento della vita. In questo percorso di fondazione e di costruzione l’idea di retorica si pone in una posizione innovativa. Come sottolinea Gabin nella recensione del 1983 a Retorica e filosofia Grassi può essere collocato di fatto nel contesto della retorica contemporanea che mette in luce uno slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella  E. Grassi, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, cit., Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 33. 548 Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180.  ! 182!  della coerenza549. Afferma lo studioso che “gli echi di Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling e molti altri circolano nelle pagine di Grassi, ragione per la quale egli scrive nella tradizione di coloro che credono nella natura circostanziale del pensiero e nella implicita unità di idea e immagine”550. Tale slittamento mette in luce, attraverso il ripercorrimento della lunga storia della retorica, da Aristotele a Cicerone e Quintiliano, da Dante a Bruni e Valla, da Vico a Nietzsche e Ungaretti, uno scopo ambizioso: capire meglio le ragioni profonde di quella storia e, ripercorrendole, tornare all’universo contemporaneo per cercare di enucleare alcune direzioni di ricerca e suggerire nuovi approcci. La teoria retorica grassiana mette in luce una dimensione pragmatica della coerenza per dirla con McPhail551 che si fonda su una riconsiderazione del tema della credenza/pistis. Il magistero umanistico conduce il filosofo a riscoprire il mondo della storicità umana, il valore conoscitivo della fantasia-ingegno, della metafora, il ruolo civilizzatore e coesivo della retorica, la funzione politico-economica dei miti, il potere metamorfico del lavoro, capace di convertire la natura in cultura. Il filosofo predilige nella sua indagine retorica il momento aurorale, arcaico: i punti di partenza, i presupposti dell’agire, il momento genetico, còlto nelle sue implicazioni gnoseologico- pratiche e antropologiche. Privilegiando la dimensione pre-teoretica, il mondo della vita, il momento che precede quello razionale, le archai originarie, di natura topica e non critica, indicativa e non  Mette in luce l’ipotesi dello slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella della coerenza in Grassi M. L. McPhail, in Coherence as Rapresentative Anecdote in the Rhetorics of Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118 in AA. VV, Kenneth Burke and contemporary European thought: rhetoric in transition, Tuscaloosa, University of Alabama Press, 1995. Sull’importanza di Grassi nella retorica contemporanea cfr., S. K. Foss-K. A. Foss-R. Trapp, Contemporary Perspectives on Rhetoric, Waveland, Long Groove Illinois, capitolo III pp. 54-74. Per un approfondimento dei temi della coerenza e della corrispondenza nelle teorie della verità cfr., M. Dell’Utri, Il falso specchio. Teorie della verità nella filosofia analitica, ETS, Pisa 1996. Cfr., E. Raimondi, La retorica d’oggi, cit., pp. 77-78. 550 R. J. Gabin, Review of Rhetoric and Philosophy: the Humanist Tradition, Quarterly Journal of Speech 69, n. 2 (May 1983), pp. 220-221, p. 221: “Echoes of Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling and many others ring through Grassi’s pages, for he writes in the tradition of those who believe in the circumstantial nature of thought and the underlying unity of idea and image”, p. 221. Traduzione nostra. 551 Cf., M. L. McPhail, op. cit., p. 77. “A comparison of the rhetorics of Burke and Grassi shows that both writers’ conceptualizations of language exemplify the evolution from correspondence to coherence in contemporary rhetorical theory”. “Una comparazione delle retoriche di Burke e Grassi mostra che le riflessioni sul linguaggio di entrambi gli autori esemplificano l’evoluzione dalla teoria della corrispondenza alla teoria della coerenza nella teoria retorica contemporanea”. Traduzione nostra.  ! 183!  dimostrativa, ingegnosa e non razionale, retorica e non logica, egli dedica attenzione particolare ad autori, quali Aristotele, Vico e Leopardi, le cui riflessioni si concentrano sulla dimensione aurorale della fondazione della civiltà. Se con Vico e Leopardi siamo di fronte ad una idea di humanitas all’insegna del pathos, secondo i quali la priorità non è affidata al procedimento razionale, anonimo e astorico, al linguaggio denotativo, chiaro e distinto, ma alla retorica e all’immagine, alla ricchezza e all’opacità dei tropi, con Aristotele possiamo guadagnare un concetto di logica affidata alla pistis, un’idea di sapere non fondata sulla deduzione – il filosofare noetico-non metafisico. Sono in gioco tre aspetti fondamentali: -! la focalizzazione sull’aspetto fondativo del linguaggio -! l’analisi dei principi epistemici fondati sulla dimensione simbolica del pensiero e dell’azione umani -! l’articolazione dell’aspetto ontologico che caratterizza l’esistenza umana in termini di metafora drammatica, che ha una natura affermativa e positiva in quanto forza propulsiva nella Menschwerdung Grassi vede “l’esistenza umana come essenzialmente retorica ed esplora la metafora come l’aneddoto rappresentativo dell’esistenza”552 che ha potere generativo. La concettualizzazione dei grandi temi della filosofia, ma anche dell’arte e della letteratura, sposta l’attenzione sul mondo storico, sulle passioni dell’uomo, sulle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’occidente. La particolare considerazione grassiana dell’umanesimo e della retorica che lo contraddistingue emerge proprio in contrasto con l’enfasi posta dal paradigma scientifico sulla ragione e sulla logica. Il pensiero scientifico e filosofico tradizionale si basa sulla presupposizione che la conoscenza razionale sia la via da preferire per accedere al reale. La critica grassiana al deduttivismo logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis lo conduce verso l’individuazione del momento critico del pensiero razionale nell’indimostrabilità dei principi.  Ivi, p. 79. “Grassi similarly sees human existence as essentially rhetorical, and explores metaphor as his representative anecdote”. Traduzione nostra.  ! 184!  IV. IV. La struttura della presupposizione Come leggiamo in La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi “la logica tradizionale distingue tra due modi per fondare la conoscenza. Il metodo deduttivo comincia da premesse e deriva le inferenze già presenti in esse. Qui è indispensabile che le premesse risultino universalmente valide e necessarie [...] ma le premesse sono necessariamente presupposte nella deduzione”553. A fare problema è la struttura della pre-supposizione, dell’upothesis. Secondo il filosofo “quando si tratta di protasi, di indicazioni di indole arcaica – cioè originaria, dominante – siamo obbligati a riconoscere che essa non ha e non può avere un carattere dimostrativo, discorsivo bensì – come si esprime Aristotele – noetico”554. I primi principi hanno carattere svelante e manifestativo: si tratta del mitologema originario della filosofia, l’aporia contro cui urta il soggetto parlante. Nella struttura della presupposizione, dell’ipotesi, o, nei termini grassiani, dei “principi indeducibili”, si articola l’intreccio di essere e linguaggio, di mondo e parola di ontologia e logica555. Per il filosofo i principi non possono essere dimostrati perché essi sono alla base di ogni dimostrazione. Non attraverso la ratio si accederà ad essi, ma attraverso il pathos, che non è il contrario del sapere ma un’altra forma di sapere, un sapere arcaico. Dalla prospettiva del filosofo dobbiamo chiederci “se le asserzioni originarie non sono dimostrabili, qual è il carattere del discorso con cui le esprimiamo? [...] qui ci si pone di fronte al problema fondamentale del carattere che ha e deve avere la formulazione delle premesse, ossia delle basi”556. Il discorso apodittico, quello che prova e dimostra (apo-deiknymi), pone la definizione di un E. Grassi, La priorità del senso comune e e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, pubblicato in AA. VV., Vico and Contemporary Thought, Vol. I, Humanities Press International, New Jersey 1976, ora in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43. Corsivo nostro. 554 Id., Filosofare noetico non metafisico, cit., p. 17. 555 Sul problema della presupposizione come mitologema originario della filosofia cfr., G. Agamben, Che cos’è la filosofia, Quodlibet, Macerata 2016. 556 Cfr., E. Grassi, Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., 97.  ! 185!  fenomeno riportandolo ai principi ultimi o archai. Ed è chiaro che le prime “archai di qualsiasi prova, e quindi della conoscenza, non possono esse stesse essere provate”557. Tale sapere arcaico coinvolge anche una riflessione sul mito – come “principio instauratore originario di una comunità”558 – sulla dottrina topica-inventiva – interpretata come “dottrina della visione originaria”559 – , sulla metaforologia – come “prassi linguistica e biologica”560 –, sull’ingenium –come “proprietà comprensiva più che deduttiva dell’uomo”561 – e sulla phantasia intesa nella sua funzione ontologica come “attività originaria che scopre le relazioni sulla base delle visioni delle somiglianze”562. L’apogeo della critica contro la deriva razionalistica del pensiero si colloca nell’individuazione dell’opposizione delle nozioni aristoteliche di nous e di episteme. Grassi infatti istituisce un collegamento tra nous e archè, mettendo in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi, colti attraverso la passione. Quella che Grassi definisce come noetica è la forma originaria della filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Leggiamo in Significare arcaico che nella sfera dell’originario non esiste dualismo di pathos e logos e nell’ambito dei segni indicativi noi esperiamo l’aletheia arcaica “sacrale e con ciò estatica, patetica, manica”563. Per il filosofo se “il dualismo di sapere e di pathos non ha luogo nella sfera  Ivi, p. 96. 558 Id., Mito ed arte, cit., p. 162. Cfr., anche Id., Arte e mito, cit. 559 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 93. 560 Cfr., Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 192. “La facoltà del trasferimento di senso, il metapherein, è fin dall’inizio essenziale alla vita”. Cfr., Id., La filosofia dell’umanesimo. In problema epocale, cit., p. 179. “La metafora con il suo carattere immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso particolare [...] l’espressione metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora”. 561 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 94. 562 Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 190. 563!Id., Significare arcaico, cit., p. 491.!  ! 186!  dell’originario”564 – palesandosi solo nell’ambito, razionale, dedotto – allora dobbiamo constatare che “ogni discorso razionale si radica nel discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la visione dei segni originari che presiedono al mondo umano”565. L’aspra critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla matematizzazione di ogni discorso non compromettono tuttavia lo spessore filosofico della filosofia di Grassi che resta integro proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope, visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. Le indagini sulla retorica si inseriscono all’interno del contesto ermeneutico di riabilitazione della retorica che, come è noto, ha inizio con le riflessioni di Perelman. La riflessione condotta a partire da una prospettiva di teoria dell’argomentazione e dell’eloquenza genera un’aporia: l’alternativa teorica che si pone è tra un eccesso di retorica e una chiusura nei confronti della retorica. La questione che Grassi pone travalica l’alternativa tra rifiuto o accettazione566 e ha come fuoco di ricerca l’indagine di quello spazio di sapere collocato tra retorica e filosofia. La domanda che il filosofo si pone è: esiste questo e tra retorica e filosofia? L’opposizione tra retorica e filosofia che è oggetto di Retorica e filosofia del 1980 già si profila a partire da L’inizio del pensiero moderno in cui il linguaggio vive la contrapposizione tra la sua veste scientifico-dimostrativa e quella metaforico-indicativa. Nella nostra analisi prenderemo in considerazione le diverse definizioni di retorica offerte dal filosofo, che corrispondono a funzioni differenti a seconda del contesto nel quale l’argomento retorico è trattato, Ibidem.! 565!Ibidem.! 566 Sulla concezione della retorica in Grassi cfr. M. Marassi, Retorica, storicità ed umanesimo, pp. 199-216, in E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit.; M. Marassi, Introduzione, pp. 11-27, in E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit. P. R. Blum, Rhetoric is the home of trascendent: Ernesto Grassi’s response to Heidegger’s attack on humanism, Intellectual History Review, 22:2, pp. 261-287; M. L. McPhail, Coherence as rapresentative anecdote in rethorics of Kenneth Burke and Ernesto Grassi, pp. 76-118, in B. L. Brock, Kenneth Burke and contemporary european thought, University of Alabama Press, 1995.  ! 187!  allo scopo di mettere in luce non la compromessa unità del concetto di retorica quanto piuttosto l’intrinseca capacità di generare significati e contesti. IV. V. Il logos retorico: la tripartizione del discorso Nel contesto dell’analisi delle molteplici forme di discorso Grassi parte dalla messa in discussione della riduzione del discorso retorico a semplice tecnica di persuasione. Secondo il filosofo il problema retorico può essere affrontato da due punti di vista: si può considerare la retorica in senso tradizionale, “quindi come arte, come tecnica di persuasione”567 o da una prospettiva più generale di interazione con il sapere teoretico. Per comprendere il senso autentico della concezione retorica dovremo prendere le distanze dall’approccio speculativo che la riduce ad arte della persuasione, privandola della componente filosofica. A tal proposito Grassi individua tre tipi di discorso: -! il discorso retorico esteriore -! il discorso razionale -! il vero discorso retorico. Il primo discorso “si riferisce solo alle immagini perché influenzano le passioni”568 ed è il discorso retorico in senso classico. La seconda forma è il classico discorso razionale a carattere dimostrativo. Infine c’è il vero discorso retorico che “scaturisce dalle archai”569: esso non è deducibile ma è indicativo. ! E. Grassi, Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, cit., p. 55. 568 Ivi, p. 75. 569 Ibidem.  ! 188!  Tralasciando il secondo tipo di discorso, quello razionale – di cui si è già detto sopra – vorremmo soffermarci sul duplice senso del discorso retorico: come tecnica della persuasione e come discorso semantico. Lo scopo dell’analisi del filosofo è quello di rintracciare le caratteristiche del discorso semantico sulla base del quale è possibile comprendere sia la retorica come tecnica di persuasione sia il discorso razionale-scientifico. L’indagine sulla retorica allora allarga il proprio raggio di azione ben al di là delle classiche tematiche oggetto della retorica classica per divenire occasione per un ripensamento dei fondamenti del sapere scientifico-filosofico e della tecnica oratoria classicamente intesa. Quella di Grassi è non è l’ennesima sistemazione tassonomica del materiale discorsivo ma una retorica come teoria che assurge a filosofia generale e che ha come oggetto di riflessione i fondamenti pre-teoretici, pre-categoriali, ante-predicativi del sapere. Il filosofo parla non a caso di significare arcaico. Leggiamo in Retorica e filosofia che “il discorso indicativo o allusivo (semeinein) fornisce la struttura in cui può nascere la prova. Inoltre se la razionalità è identificata con il processo di chiarificazione, noi siamo costretti ad ammettere che la primitiva chiarezza dei principi non è razionale, e a riconoscere che il linguaggio corrispondente, nella sua struttura indicativa, ha un carattere evangelico”570. Secondo il pensatore milanese tale tipologia di discorso – quello semantico-arcaico – è una Darstellung, una esposizione fantastica-teoretica. In questa esposizione fantasia e teoria si identificano in quanto facoltà della visione: “in tal modo il discorso che realizza tale esposizione pone dinanzi agli occhi (phainesthai) un significato”571. Il sistema retorico grassiano mira a costruire il ponte tra retorica e filosofia e proprio in questa operazione di integrazione possiamo individuare l’unità del discorso contro l’ipotesi dualista su cui ci siamo già soffermati572. Afferma il filosofo che “la filosofia non è una sintesi posteriore di pathos e logos, ma l’unità originaria di entrambi sotto il potere delle archai originarie [...] quindi la vera filosofia è la retorica e la vera retorica è la Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 571 Ibidem. 572 Cfr. III capitolo.  ! 189!  filosofia”573. Contro la tradizione occidentale razionalista Grassi non pensa che la retorica non sia fonte di conoscenza vera, anzi la retorica nasce dall’“insufficienza del pensiero razionale”574. Così il termine retorica assume un significato essenzialmente nuovo: “retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale”575. Si tratta della tragedia del pensiero razionalistico che si trova a fare i conti con la matrice stessa del suo procedimento. La genesi della struttura del linguaggio razionale, dialettico, dimostrativo è il linguaggio semantico, immediato, illuminante, indicativo. Se il logos indicativo o allusivo fornisce la cornice in cui può nascere la prova, la cui primitiva chiarezza non è razionale, dobbiamo riconoscere che il linguaggio corrispondente ha un carattere indicativo ed evangelico “nel primitivo significato greco di questa parola, cioè di osservare”576. La retorica come punto di partenza della scienza e della razionalità è contrassegnata da una nota antropologica che si configura come compensazione dell’indeterminatezza dell’essere umano. Essa allora costituirebbe una situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in mancanza di codici prestabiliti. Come avrebbe detto Blumenberg “assioma di ogni retorica è il principio di ragione insufficiente”577 e ciò vale anche per Grassi che conosceva bene Blumenberg578 e che asserisce, con una sorprendente consonanza teorica, che la retorica nasce dall’insufficienza del pensiero razionale. La retorica allora mostra l’imbarazzante luogo in cui si trova: certifica da un lato l’insufficienza e dall’altro pone in luce quelle prassi che si dipartono da quell’insufficienza originaria e che non possono essere messe da parte in nome di una scienza della verità e dell’evidenza. E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 74. Corsivi nostri. 574 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. 575 Id., Retorica e filosofia, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 97. 576 Ibidem. 577 H. Blumenberg, La realtà in cui viviamo, Feltrinelli 1987, p. 103. 578 Cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit. Cfr., E. Grassi-H. Blumenberg, Correspondenz, consultabile presso il Deutsches Literatur Archiv di Marbach.  ! 190!  Se in Blumenberg abbiamo una distinzione tra retorica dell’ornatus579 e retorica come prestazione metaforica580, tale che la retorica come compensazione di una mancanza non si articola anche come compensazione di una mancanza di verità e di evidenza – il che conferisce in ultima istanza una piega antiretorica al discorso di Blumenberg – in Grassi la compensazione entra in gioco proprio per l’esatto opposto: per eccesso di evidenza, per eccesso di verità. Il reale contro cui urtiamo definitivamente, che ci incalza e ci chiama – l’Appello dell’Essere – appare nella sua evidenza abbagliante che possiamo solo patire. Come possiamo leggere in La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora “ciò che patiamo non sono gli enti ma ciò che in funzione dei sensi – entro i limiti di piacere e dolore – si impone sempre carico di significato. L’uomo vive esclusivamente sotto l’impeto di “segni indicativi”, cioè dell’Abissale di cui i sensi sono strumenti”581. Das Reale als Leidenschaft: il reale va inteso come passione. Secondo Grassi è il reale, il mondo, con tutto il suo carico di estraneità e di alterità, che fa scattare il meccanismo retorico, la risposta umana alla multilateralità della vita che è evidente, si pone sotto agli occhi, ma allo stesso tempo è caratterizzata da un’opacità che ci costringe al lavoro dell’interpretazione esistenziale – sia essa del testo, della lingua, del concetto. Del resto in Grassi retorica e filosofia, pathos e logos non sono che due approcci metodologicamente distinti ma che hanno una medesima origine: il reale che genera angoscia, la quale indica la “fondamentale esperienza esistenziale dell’inadeguatezza del codice biologico”582. Essa “spezza il cerchio funzionale puramente biologico e [...] a mezzo della parola, porta l’uomo alla conoscenza di tale potenza, cioè alla consapevolezza della propria condizione strana e non addomesticata”583. La proposta retorica e  Quella dell’uomo ricco che possiede la verità. 580 Quella dell’uomo povero che non possiede la verità e che fa della retorica una tecnica compensativa. 581 E. Grassi, La metafora “inaudita”: originarietà e paradossia della metafora, pp. 5-20, in Quaderni di italianistica Volume IX, No. 1, 1988, p. 15. 582 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 189. 583 Ivi. I corsivi sono nostri.  ! 191!  linguistica del filosofo si pone in antitesi alla coeva retorica di Perelman-Tyteca almeno per quanto concerne la teoria dell’evidenza. In Trattato dell’argomentazione abbiamo una definizione del discorso proprio in relazione al suo rapporto con l’evidenza: “la natura stessa dell’argomentazione e della deliberazione s’oppone alla necessità e all’evidenza, perché non si delibera dove la soluzione è necessaria, né s’argomenta contro l’evidenza. Il campo dell’argomentazione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui questo sfugge alle certezze del calcolo”584. Secondo questa concezione il campo dell’argomentazione è la prassi, l’attività umana, e un inaggirabile carattere è quello dell’incertezza. In quest’area dell’indefinibile una volta per tutte rientrano tutte quelle opinioni, giudizi di valore, inquietudini, incertezze che non si qualificano come errori, non si oppongono in modo irrevocabile ad una verità (che risponde solo ai criteri della scienza) ma che rientrano a pieno titolo in quell’idea di ragione integrale in cui il vero si declina come verisimile. Emerge il tema dell’eikos concettualizzato anche da Grassi nella sua lettura di Vico e che mostra il progetto di una nuova retorica che fa appello ad una idea di ragione e verità che non si misura solo con il criterio dell’evidenza ma che salvaguardia il valore di verità delle questioni morali, sociali, politiche e religiose. Afferma il filosofo in Retorica come filosofia che il logos della nuova retorica è quello capace di dire “il fondamento del mondo umano, il mondo come espressione di disperazione nella situazione specificamente umana”585. Tale logos in quanto onoma e rhema, in quanto nome e verbo, dice non solo l’oggetto (objectum) ma la totalità di significatività nella quale è inserito l’oggetto. Sostiene il filosofo che “questa distinzione – quella di onoma e rhema – acquista un significato fondamentale. La parola in quanto nome designa ciò che chiamiamo oggetto (objectum). Ma un oggetto non esiste mai isolato, poiché appare sempre solo nella dinamica di un compito da adempiere rispetto a certi bisogni”586. La parola allora non definisce e non isola i fenomeni sensibili ma è lo spazio in cui accade la loro relazione reciproca e la connessione con C. Perelman-L. Olbrechts-Tytheca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino 2001, p. 3. 585 E. Grassi, Retorica come filosofia, cit., p. 191. 586 Ivi, p. 192. I corsivi sono nostri.  ! 192!  l’essenza umana. “La parola in quanto presupposto e annuncio [...] viene perciò espressa nel linguaggio retorico, in quel linguaggio che si impone nel nostro impegno disperato e patetico, dal momento che la preoccupazione principale è quella di formare l’esistenza umana”587. Proprio perché massimamente evidente nella sua poliedricità il reale trova la sua dicibilità nella multiformità linguistica: attraverso il dire metaforico. Secondo il filosofo la “metafora agisce come una luce perché presuppone un’intuizione di relazioni”588. L’essenza della parola risposa nella sua struttura analogica e traspositiva. L’unica parola capace di indicare il trasferimento, il potere di mutazione e trasposizione è la metafora. Grassi sottolinea come “il traslare (metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario: il termine metapherein indica il tra-sferire un oggetto da un luogo ad un altro – dualità – il che presuppone un passaggio, un transito, un ponte che l’uomo deve progettare, cioè gettare da un luogo ad un altro luogo, da un qui ad un là”589. La questione non è tanto quella di congedarsi dalla verità ma quella di abbozzare i prolegomeni per una riflessione metodologica sui fondamenti del discorso, sui presupposti dell’argomentazione. La nuova retorica grassiana prende congedo da un’idea di evidenza di tipo matematico-scientifico, e fa perno su un’idea di evidenza come certezza: lo sfondo antropologico della retorica sottolinea come il nostro sapere sia basato sulla fiducia, sulla pistis che ha la stessa radice di persuadere. La certezza è una sorta di fiducia originaria. Come il filosofo asserisce in Il ripudio del razionale la pistis “non è opinione né conoscenza [...] poiché non ha le radici nell’indicazione di una ragione, ma è il risultato di un’esperienza fondamentale che porta a un atteggiamento. Tale atteggiamento scaturisce dall’esperienza di un compito (Auf-gabe) nel duplice senso della parola: l’esperienza di una domanda (An-spruch), una dichiarazione nei riguardi dell’essere”590. Il rapporto fiduciario costituisce allora uno dei tratti antropo-biologici fondamentali che solo successivamente si tramuta in techne retorica – la retorica come arte della persuasione. Attraverso la  Ibidem. I corsivi sono nostri. 588 Ivi, p. 167. 589 Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 10. 590 Id., Il ripudio del razionale, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, p. 165.  ! 193!  lunga “preistoria” umanistica dell’antropologia filosofica per Grassi possiamo comprendere il fondamentale incrocio fra la questione della natura umana e quella retorica della funzione della trasmissione del sapere e della costruzione. La retorica diviene una tecnica per condurre la vita, elaborata da parte di un essere, l’uomo, che si scopre povero di mondo, e, dunque, costitutivamente bisognoso di strategie indirette di sopravvivenza per la costruzione di un universo culturale. Il discorso more rhetorico ingloba anche quella categoria del politico all’interno del processo linguistico che rende possibile la fondazione della comunità. L’apertura è verso una considerazione della retorica come meccanismo antropogenetico – la fondazione politico-civile – e come riflessione metodologica sui presupposti del discorso. Accostarsi alla retorica da un punto di vista antropologico, come fa Grassi, significa rintracciare il fondamento tecnico dell’autoaffermazione nella costruzione di un mondo culturale e di un sistema di istituzioni in quanto strategia di sopravvivenza in assenza di una Umwelt naturale che assicuri l’esistenza umana. In questa prospettiva ermeneutica vanno inquadrate le interpretazioni grassiane dell’umanesimo. Come si afferma in Retorica come filosofia la negazione umanistica del primato della logica “rompe con l’ideale matematico della conoscenza”1 e per comprendere questa tradizione umanistica occorre prendere in considerazione quelle teorie che “trattano del problema dell’origine della comunità umana e della funzione politica della poesia”592. La tecnica retorica si configura come forma paradigmatica di quella relazione indiretta, esonerante, con la realtà, che è costitutiva della natura umana. L’idea guida è quella di un agire umano inteso come compensazione dell’“indeterminatezza” cui risulterà coordinata una retorica intesa come faticosa produzione di quelle concordanze che debbono subentrare al posto del fondo “sostanziale” dei codici affinché l’agire diventi possibile. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida il discorso di Grassi relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea istituzioni.  Id., Retorica come filosofia, cit., p. 133. 592 Ibidem. Corsivi nostri.  ! 194!  La radicalizzazione antropologica dell’idea di retorica mette in risalto un aspetto fondamentale dell’interpretazione di Grassi: il comportamento tecnico dell’uomo che genera la retorica, in qualità di prestazione sostitutiva/esonerante, non esce dalla logica compensativa. La retorica rimane per Grassi – proprio per la sua valenza antropologica – una prestazione compensativa/sostitutiva, e la stessa funzione finisce con l’essere attribuita retrospettivamente alla metaforologia e in prospettiva alla creazione di istituzioni. La declinazione antropologica operata da Grassi comporta che il fenomeno storico “retorica” sia privato della sua storia concettuale e delle sue funzioni effettuali nella storia della cultura e della società, e sia eletto a metafora assoluta della conditio humana. Tocchiamo qui uno dei nervi scoperti del discorso di Grassi, che rimane chiuso in un’interpretazione che in ultima analisi lo costringe a considerare il comportamento tecnico dell’uomo come una prestazione sostitutiva/esonerante, non uscendo dalla logica compensativa, e non fornendo in alcun modo una lettura adeguata della natura tecnica dell’uomo, cioè di quella stessa interazione natura/ars da cui pure muoveva l’interesse antropologico per la retorica. La salvaguardia delle molteplici forme di apparire dell’essere – il vero, il buono, il bello – , della metamorphè costitutiva del reale, induce Grassi a ricercare la forma linguistica adeguata a dire tale metamorphè. Il filosofo si pone i seguenti quesiti: -! “attraverso che cosa sorge il mondo umano se l’uomo, a differenza degli animali, non ha un ambiente immediato, se questo deve essere costruito ogni volta dall’individuo? In altre parole, qual è la causa dell’umanizzazione della natura?” 593 -! “come si rapporta questa costruzione del mondo umano al fenomeno del linguaggio, del logos?”594 -! “è possibile superare la concezione puramente formale della conoscenza?” Ivi, p. 183. Corsivi nostri. 594 Ibidem. 595 Ibidem.Corsivo nostro.  ! 195!  Le domande che vengono poste riguardano tre livelli della riflessione: il livello antropogenetico della fondazione della civiltà; il piano linguistico dell’espressione del rapporto uomo-mondo; il tema epistemologico della natura della conoscenza. Cercare di risolvere questi problemi comporta per Grassi un’analisi della storia dell’umanesimo che propone una rinnovata idea di logos. Il logos non può essere ridotto al suo aspetto formalizzato, logicista, scientifico. Una questione fondamentale è quella del passaggio dall’Umwelt alla Welt, dal mondo ambiente contraddistinto dall’immediatezza non-verbale del codice biologico al mondo umano. Secondo il filosofo esiste un’area in cui possiamo trovare segni indicativi e costrittivi senza la mediazione della razionalità e del linguaggio: si tratta del mondo organico. IV. VI. Il mondo organico L’analisi del mondo organico mostra degli aspetti che “possono essere ritrovati nel mondo sacrale”596 e retorico. Nell’ambito dell’organico “ogni genere e specie vivente sta sotto i propri segni determinati e indicativi”597. Tali codici/diastema mostrano che “la realtà appare alla creatura vivente esclusivamente entro selezioni”598. Le selezioni (codici/diastema) si inseriscono all’interno del “cerchio funzionale simbolico della vita” – nozione mutuata da J. Von Uexküll – che indica “un’unità intatta di segni che sono significativi per la vita”599. Secondo il filosofo l’analisi del mondo animale e biologico consente di rintracciare delle analogie con le strutture del mondo sacrale, religioso, retorico che getta luce su un’idea di filosofia rinnovata in senso non intellettualistico.  Ivi, p. 182. 597 Ivi, p. 180. 598 Ivi, pp. 180-181. I corsivi sono nostri. 599 Ivi, p. 181.  ! 196!  Dal punto di vista grassiano i semata che ritroviamo nel mondo biologico mostrano un’intrinseca forza induttiva (epagein-inducere)600, essi hanno un carattere di guida (arcaico) che costringe l’animale a creare il proprio ambiente nei limiti del proprio cerchio funzionale simbolico finalizzato all’autoconservazione. “Questi segni possiedono una funzione metaforica perché trasferiscono un significato a ciò che gli organi manifestano. Attraverso questo trasferimento di significati appare all’organismo il suo ambiente specifico che costituisce la sua sola realtà. I segni hanno un carattere induttivo di guida. L’originarsi di questi ambienti, di questi kosmoi – nel doppio significato del termine greco come ordine e ornamento – avviene a livello organico”601 per l’autoconservazione. L’unità dell’ambiente intatto e olistico dell’animale in cui la comunicazione avviene per voci significative (psophos semantikos) viene meno nell’uomo. La rottura del codice non verbale immediato che porta alla genesi del mondo umano implica anche il superamento del livello della “comunicazione fonetica immediata”602 e la nascita del logos. Con il linguaggio si profila un compito per l’uomo: “il compito di costruire il mondo in cui vivere”603 che spetta all’essere umano come singolo e “non ai segni indicativi immediati del mondo olistico e non problematico”604. L’esperienza della frattura – la disintegrazione del mondo intatto e olistico del biologico – mette l’uomo di fronte alla propria Angst: “gli uomini patiscono l’angoscia che si presenta nell’esperienza fondamentale di non avere a disposizione un codice immediatamente efficace”605. Ma come avviene questa frattura nel mondo animale? Il logos è causa della disintegrazione del cerchio funzionale simbolico o prestazione compensativa per riunire ciò che si era spezzato? 600 Ibidem. 601 Ivi, p. 182. 602 Ivi, p. 183. 603 Ivi, p. 184 604 Ibidem. 605 Ibidem.  ! 197!  IV. VII. Il logos umano: suono, voce, parola Secondo Grassi occorre rifiutare la tesi secondo la quale “il linguaggio stesso è la causa per eccellenza della dissoluzione dell’unità dell’organico poiché astrae e isola gli oggetti della vita da quel ritmo vitale in cui essi emergono e ricevono il loro significato”606. Al contrario il linguaggio sorge nel momento in cui la dissoluzione è già avvenuta. Infatti perché l’uomo dovrebbe cercare un logos – un codice completamente diverso dalla comunicazione fonetica pre- verbale – se l’unità non fosse già scomparsa a favore di una separazione tra soggetto e oggetto? Sostiene il filosofo che “la funzione significativa del linguaggio può essere spiegata solo come superamento di un isolamento o di una astrazione già sopraggiunti precedentemente e come separazione di soggetto e e oggetto. Perciò si impone la necessità di una definizione verbale una volta che si sia indebolita la comunicazione pre- verble”607. Il linguaggio non è la causa della separazione, del dualismo soggetto e oggetto, ma una prestazione compensativa con la funzione di ricostruire un legame. L’inadeguatezza del codice pre-verbale che genera il logos attesta l’assenza nel mondo umano di un codice immediato. “Compito del linguaggio è quello di trovare e formare una symplokè, un congiungimento di soggetto e oggetto”608. Il logos nasce sullo sfondo di un’esperienza: quella dell’angoscia che testimonia la natura “non addomesticata”609 dell’uomo. Per comprendere l’analisi del linguaggio svolta da Grassi dobbiamo prendere in considerazione le sue riflessioni sul suono, sulla voce e sulla parola esposte in particolare nei saggi Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del 606 Ivi, p. 185. Il riferimento polemico grassiano è alla tesi di R. Thom esposte in Modelli matematici della morfogenesi, Einaudi, Torino 1985. 607 Ivi, pp. 187-188. 608 Ivi, p. 188. 609 Ivi, p. 189.  ! 198!  linguaggio, in La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora e nel testo La metafora inaudita. Sostiene il filosofo che per delineare i “prolegomena”610 al problema del linguaggio occorre analizzare i concetti di psophos e phoné. Prendendo in considerazione le affermazioni aristoteliche contenute nel II libro del De anima circa la natura delle voci come suoni semantici costitutivi del linguaggio611 il filosofo italiano pone in evidenza l’intima struttura metaforica della voce – il suono semantico – che va a costituire il linguaggio. “Aristotele distingue fondamentalmente [...] il suono (psophos) dalla voce (phoné) per poi [...] definire la voce come suono indicativo (psophos semantikos). Da ciò dovremmo dedurre che la voce costituisce qualcosa di completamente nuovo in confronto al suono, non solo, ma che la voce è una metafora, cioè nasce dal trasferire (metapherein) un significato, un segno indicativo (sema) al suono (psophos)”612. La dualità tra suono e voce –la voce è ciò che assegna al suono un significato – è fortemente criticata da Grassi che invece ha come scopo quello di superare il dualismo mettendo in discussione l’idea che il suono non abbia un intrinseco significato. Si chiede il filosofo “è dunque valida la concezione tradizionale dualistica di suono senza significato e voce, suono semantico indicativo, phoné?”613. Grassi dispprova la spiegazione aristotelica tecnico-meccanica del suono per tre ragioni: tale spiegazione non tiene conto che il suono appare attraverso uno strumento che nel caso dell’uomo è “l’organo uditivo”614; occorre, al contrario, tenere presente che il suono “ci appare solo entro l’ambito di un codice che si impone”615; bisogna considerare la mutevolezza del codice616. Come Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 611!Aristotele, De anima II, 420 b 29.! 612!E. Grassi, La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 9. 613!Id., Prolegomena, cit., p. 42.! 614!Ivi, p. 43. 615 Ibidem. 616 Ibidem.  ! 199!  è noto Aristotele definisce il suono come ciò che è “sempre prodotto dall’urto di qualcosa contro qualcosa e in qualcosa, perché ciò che lo produce è una percussione. É pertanto impossibile che si abbia un suono in presenza di un solo oggetto, giacchè il percuziente e il percosso sono distinti”617. Affinchè il suono si trasformi in voce occorre tenere in considerazione l’elemento della vita618. Solo l’essere animato può produrre il suono semantico, la voce, la phonè. Se gli elementi determinanti della voce sono la vita (la voce è il suono dell’essere animato) e il suo carattere interpretativo (il suo essere hermeneia tinos) per Grassi occorre risalire all’ambito originario del suono: quello della vita. Proprio l’operazione di radicamento dell’origine del suono nel mondo della vita induce al filosofo ad affermare che “per l’essere organico, cioè per quello che manifesta il mondo attraverso i propri organi, non esiste un suono che non sia voce”619, ossia non esiste un suono di natura puramente meccanica ma solo un suono dotato di un significato. Infatti per il filosofo i suoni semantici schiudono “il teatro, nel significato originario di questo termine, cioè il luogo del vedere, del theorein”620. Ma come e dove si rivela l’ambito significativo testimoniato dal suono? Per Grassi innanzitutto nei sensi. Riprendendo le teorie del fisiologo J. Müller621 sull’energia sensoriale specifica – ossia quella legge secondo la quale ogni senso produce solo il tipo di sensazione che ad esso è specificamente pertinente indipendentemente dal tipo di stimolazione a cui è sottoposto – Grassi individua la possibilità di rintracciare innanzitutto nei sensi la genesi della significazione. Egli afferma che “ogni sensazione è carica di significato”622 e la significatività della voce (che traspone un significato al suono) si radica  617!Aristotele, De anima, II libro, 419 b 10-14.! 618!Ivi, 420 b 7-9. “Quanto alla voce, essa è un suono dell’essere animato. In effetti nessuno degli esseri inanimati emette una voce, ma per somiglianza si dice che ce l’hanno, come il flauto”. 619!E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 31.! 620!Id., La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., p. 19.! 621!Il testo al quale Grassi fa riferimento è Ueber die phantastischen Gesichtserscheinuungen, Koblenz, 1826, pp. 4-5. 622!E. Grassi, Prolegomena, cit., p. 45.  ! 200!  originariamente nella significatività già presente nei sensi. Questi ultimi dotati di un’energia specifica e carica di significato pongono in luce l’ambito originario di formazione del senso: la Lichtung/Rahmen. “Ciò che rivelano i sensi, entro i limiti di piacere e dolore, non è un’opera, un ergon, estraneo ai sensi, non è un’opera meccanica, né un’opera poietica, ma praxis, intesa come parousia”623. Ma quel è la struttura di questa parousia? Tale ambito originario ha una struttura metaforica. Per il filosofo occorre scorgere la metaforicità del reale attraverso la passione che si rivela come l’ambito in cui l’uomo fa esperienza dell’appello dell’essere. Si chiede il pensatore: “in cosa consiste il carattere metaforico dei segni sensibili? Esso si rivela nella passione, nell’ambito della quale l’ente organico – tra i limiti di piacere e dolore – fa l’esperienza dell’oggettività di corrispondere o non corrispondere a ciò di cui è un’indicazione”624. Il problema dal quale partire è quello di corrispondere all’appello dell’essere, alle necessitates che di volta in volta si presentano all’uomo: emerge il tema del superamento della “insercuritas esistenziale”625, del bisogno esistenziale che va soddisfatto attraverso il proprium dell’uomo, ossia la parola. Si chiede il filosofo: “come definire ciò che ci è consueto, ciò che ci è proprio, ciò in cui siamo a casa, ciò in cui ci sentiamo a nostro agio, al riparo, difesi? É forse il linguaggio, la parola? Ma quale linguaggio, quello razionale oppure quello poetico? Che funzione ha la parola nell’affrontare il desueto, la realtà che ci è estranea, sconosciuta, aliena?”626. Il tentativo di superare l’insicurezza esistenziale, la spaesatezza dell’Aperto conduce l’uomo al linguaggio: la dimora che custodisce quella relazione essenziale tra il Dasein e il Sein. A fare problema per Grassi è l’individuazione di un linguaggio che sia casa dell’essere: da qui l’analisi !Ivi, pp. 49-50.! 624!Ivi, p. 50. 625!E. Grassi, Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), in “Studi di estetica”, Bologna, pp. 21-33. 626!Ivi, p. 21.  ! 201!  della metafora nella sua priorità rispetto al concetto, e della poesia come espressione della storicità dell’esistenza. IV. VIII. Metafora e concetto Afferma il filosofo che “il vedere, la visione, insiti nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si attuano attraverso [...] una metafora”627 e si chiede se la metafora “che ricorre per lo più alle immagini, va considerata un mezzo solo letterario [...] o è indispensabile per esprimere l’Originario”628. La Frage che sorregge la sua indagine metaforologica mostra una componente onto-antropo-logica poichè riguarda l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere affetti dal mondo circostante: non un orpello linguistico, una fictio retorica, la metafora è per Grassi un dispositivo antropo-poietico. Sostiene il pensatore italiano che “alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono nei diversi campi [...] la sua funzione è quella di rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa ancora nascosto [...] ma dobbiamo andare più a fondo del piano letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro mondo”629. Siamo al cospetto di una teoria della metafora che coniuga l’analisi della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come fenomeno globale di tipo cognitivo ed esistenziale. Attraverso la metafora godiamo “la visione di una momentanea radura (Lichtung)”630 che mette in campo una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che “riconosca  Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 18. 628 Ibidem. 629 Id., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, p. 76. Corsivo nostro. 630 Id., Il dramma della metafora, cit., p. 14  ! 202!  l’importanza dell’esperienza storica”631. La riflessione sulla metafora è per Grassi un modo di superare le falle dell’hòros, del concetto, che non è in grado di dire la natura temporale, storica e metamorfica degli enti, che si esprimono nei sempre diversi significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti, per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di un’indicazione, da qui la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica. Egli asserisce che “l’indicazione (semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein), poiché forma la cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni”632; essa è la condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che appartiene al mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il linguaggio semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva. Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una “chiarezza che non è il risultato di un chiarimento”633, abbiamo il logos ermeneutico, quello dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Secondo il filosofo “il termine metafora è esso stesso una metafora; deriva dal verbo metapherein, trasferire, che originariamente descriveva un’attività concreta. Alcuni autori limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal suo proprio campo a un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze”634. Alla metafora fa da contraltare il concetto al quale spetta come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo fondamento universale. Nella ricostruzione etimologica grassiana il significato di hòros può essere colto nella sua portata originaria mediante il riferimento “al verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui radice hor- è identica a quella di horào (io vedo): io “vedo” qualcosa nella luce del fondamento. La definizione (horismòs)  Ivi, p. 15. 632 Id., La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, cit., p. 84. 633 Ibidem. Corsivi nostri. 634 Id., Retorica come filosofia, Ivi, p. 76. Cfr., sull’analisi della metafora in Grassi M. Marassi, E. Grassi e il primato della parola metaforica, pp. 264-291, in I. Pozzoni, Voci di filosofi italiani del Novecento, IF Press, 2011.  ! 203!  esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se stesso, il singolo”635, che è compito della retorica autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della metafora non “più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno”636, grazie alla quale è possibile porre “la domanda sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza dell’uomo”637, si affiancano nella filosofia grassiana la fantasia e l’ingegno che con il nous aristotelico, interpretato alla stregua di “unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo” 638, costituiscono la triade del significare arcaico. Il senso autentico della metafisica immanente di Grassi emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel “dire attraverso il logos” il divenire dell’essere, che grazie al logos guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, Grassi afferma che “la forma originaria del colloquio nella sua funzione storica è metaforica”639. IV.IX. La prassi metaforica: metafora e metapherein La volontà di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto traspositivo. La riflessione grassiana su metafora e retorica è guidata proprio da questa idea di una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale del linguaggio. Come 635Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 222. 636Id., Significare arcaico, cit., pp. 479-495, p. 494. 637Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit., p. 202. 638Id., Significare arcaico, cit., p. 494. 639 Id., Il colloquio come evento, cit., p. 71. ! 204!   emerge già a partire da Il problema della metafisica platonica il tema della determinazione del ti esti, incrociandosi inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà, pone anche il tema della fondazione metaforologica. L’atto fondativo e mitico del reale è secondo Grassi indicibile dal logos metafisico e la narrazione di quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo trasformazionale della metafora, che per Grassi non è un gioco letterario ma la prima forma dell’ingegno, del nous “e come tale unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo”640. Il polimorfismo ontologico viene maggiormente salvaguardato attraverso il pensiero topico, ingegnoso, in grado di apprendere e rintracciare i loci dell’argomentazione; capacità, questa, di cui il pensiero critico, tutto confinato all’interno della catena delle deduzioni, sembra essere privo. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche: come possa essere descritto il trasferimento semantico ad esse sotteso, quali componenti riguardi, se proprietà atomiche o interi nodi di storie. Interessa invece ciò che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce, che cosa raccontino del modo attraverso cui l’uomo ha cercato di esprimere il proprio rapporto con la “realtà”. Per Grassi la metafora si configura come un fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda: essa è ed è stata una componente essenziale dei processi attraverso cui le culture interpretano e strutturano il mondo che le circonda. Il filosofo afferma in Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio che “non va dimenticato che il traslare (metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno letterario; il termine metapherein indica il trasferire da un luogo ad un altro luogo e Id., Significare arcaico, cit., p. 494. ! 205!   ciò presuppone un passaggio, un transito, un ponte. L’uomo deve progettare questo passaggio, gettare un ponte da un luogo ad un altro”641. L’approccio antropologico-filosofico descrive e ripercorre una modalità di accesso al senso attraverso la metafora, e allo stesso tempo tenta di ricostruire la storia della fondazione del mondo della vita e della comunità umana individuando nei processi di metaforizzazione e di concettualizzazione i congegni antropogenetici e i fenomeni di base dell’umanizzazione. Nella semantica metaforica di Grassi non trova posto l’usuale contrapposizione del senso traslato con il senso letterale di un’espressione. Infatti “il termine metafora indica originariamente presso i Greci un’azione concreta e per la precisione il trasferimento di un oggetto da un luogo ad un altro; soltanto più tardi il termine compare anche nell’ambito del linguaggio”642. Se l’idea che riduce la metafora ad orpello linguistico – senza tenere conto della sua matrice pratica – va messa da parte occorre anche rifiutare la prospettiva che tenta di sostituire la metafora al concetto. Per Grassi la metafora non si trova a supplire momentaneamente l’insufficienza del concetto, fornendo un significato di passaggio, un senso provvisorio in attesa di esser sostituito da quello proprio dei termini logici. La particolarità dei termini logici – l’esattezza – determina allo stesso tempo una perdita di polisemia, potremmo dire una riduzione delle loro potenziali connessioni di senso. Essi sono contraddistinti da una cristallizzazione del significato in un unico percorso interpretativo, da una pauperizzazione semantica inversamente proporzionale alla chiarezza e distinzione logica: è il fio che occorre pagare per una filosofia pura. Per il filosofo “interrogarsi sul ruolo della metafora equivale perciò a chiedersi se la metafora rappresenti nel linguaggio filosofico soltanto un residuo di rappresentazioni che dev’essere superato allorchè ci si mette sulla via del logos”643. Nella prospettiva tradizionale la metafora sembra peccare di imprecisione, ragione per cui è sempre stata estromessa dalla filosofia, per essere ricompresa nella retorica o nella poetica. Ma a ben 641 Id., Prolegomena ad una concezione della retorica, cit., p. 40. 642!Id., Potenza della fantasia, cit., p. 72. 643!Id., Potenza della fantasia, cit., p. 72. Corsivi nostri.!  ! 206!  guardare quella che per il pensiero logico è una imprecisione, “uno scandalo per la logica [...] un elemento distraente che non ha nulla a che fare con la realtà”644, in realtà è dotata di una precisione intrinseca dettata dalla necessità di natura. Il tratto di precisione della metafora emerge all’interno del discorso su Vico il cui carattere di epocalità è rintracciato proprio in quella divaricazione della metafisica in ragionata e fantasticata. Ricorrendo al principio vichiano dell’homo non intelligendo fit omnia Grassi asserisce che “se con la metafora [...] si risponde alle varie necessità, il linguaggio metaforico, ricco di elementi fantastici è originale, preciso, a differenza di quello astratto che si allontana”645 dal reale. L’analisi della metafora fa emergere l’idea di una metafora drammatica e inaudita646, nel senso di assoluta, riprendendo una feconda espressione di Blumenberg. Essa si rivela uno strumento ermeneutico e va a strutturare i codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro giudizio sulle cose. Del resto già Kant, nel famoso paragrafo 59 della Critica del giudizio (1790), trattando il procedimento della “traslazione della riflessione”, definisce il simbolo647 in maniera del tutto simile alla metafora grassiana. Essa determina un comportamento, un tipo di orientamento nel mondo che si trova a esser strutturato dalla metafora. Attraverso la metafora un’epoca esprime le proprie certezze, ma anche i propri dubbi, le proprie aspirazioni, le aspettative, le azioni e gli interessi. Essa assume la Id., Prolegomena, cit., p. 41 645 Id., G. B. Vico: un filosofo epocale, in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 202. I corsivi sono nostri. 646 Id., La metafora inaudita, cit.; Id., Il dramma della metafora, cit.; Id., Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), cit., pp. 21-33; La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, cit., pp. 5-20. 647 I. Kant, Critica del Giudizio, tr. i. di A. Gargiulo, Introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 183- 385. “A torto e con uno stravolgimento di senso i logici moderni accolgono l’uso della parola simbolico per designare un modo di rappresentazione opposto a quello intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni (Darstellungen- exhibitiones) [...] tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia [...] in cui il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto di una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso, di cui il primo non è che il simbolo [...]. La nostra lingua è piena di queste esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui l’espressione non contiene lo schema proprio del concetto, ma soltanto un simbolo per la riflessione”.  ! 207!  funzione del codice. Per il filosofo occorre “sollevare la questione, di solito trascurata, della relazione tra codice e metafora”648. Sostiene il pensatore che l’atto di leggere e interpretare la realtà con un codice specifico – ossia con “un sistema di segni, gli elementi dei quali ricevono un significato entro il sistema”649 – “costituisce una sorta di attività metaforica”650. L’attività metaforica mostra un’analogia con il codice poiché rende possibile la visione degli enti e soprattutto la similitudo, ciò che è comune a più enti. Riprendendo la teoria aristotelica esposta nella Poetica secondo cui “l’usare bene la metafora significa percepire con la mente l’oggetto affine”651 Grassi pone strettamente in relazione l’eu metapherein e il to omoi on theorein. La metaforizzazione va identificata da un lato con la visione delle somiglianze ma dall’altro libera la sua vis generativa nella scoperta del novum: il me phaneròn. Ciò che è nuovo nella scoperta metaforica è ciò che non era evidente in precedenza. “La metafora scopre ciò che non era stato visto in precedenza, lo porta alla luce, in quanto essa nasce dalla necessità della chiarezza”652. Proprio qui risiede la differenza tra codice e metafora: accomunati dal bisogno di decifrazione653 codice e metafora si separano sul terreno della scoperta del novum. Sostiene Grassi che “nessun codice è capace di adempiere questa funzione, perché un codice non fa che stabilire il sistema ordinatore di relazioni già date, e sulla base delle quali qualcosa viene interpretato. Non esiste un codice che conduca a un nuovo codice [...] funzione della metafora è l’invenzione, scoprire nuove relazioni. É la metafora che produce ogni nuovo codice”654. Risulta evidente che l’apertura metaforologica del discorso di Grassi è paradigmatica e non classificatoria, nel senso che essa si propone come un metodo che risale verso archetipi, i quali !E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 76.! 649!Ivi, p. 75.! 650!Ibidem. 651!Aristotele, Poetica, 1459 a 7.! 652 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 74. 653!Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 77.! 654!Ivi, pp. 76-77. Corsivi nostri.  ! 208!  fungono da paradigmi esplicativi dei comportamenti e degli atteggiamenti cognitivi propri della storia della cultura occidentale. Ogni metafora crea una Lichtung, un Rahmen originario di riferimento, una zona virtuale entro cui si muovono e si espandono i concetti e i confini dei campi semantici, stabilendo nuove connessioni di senso, soprattutto tracciandone i percorsi che poi ogni epoca e ogni autore attualizzano secondo una specifica declinazione del paradigma fornito dalla metafora stessa. La produttività antropologica della metafora viene quindi portata oltre l’antitesi con il concetto, allontanata dalla contrapposizione tra un senso deviante e figurato e un senso proprio, che a sua volta nasconde l’opposizione apparenza/essenza. Occorre risalire dalla domanda che chiede “come è distinguibile il proprium di una parola dalla sua trasposizione?”655 alla domanda che indaga sul terreno di formazione di un senso traslato o proprio della parola e della metafora. Occorre analizzare la struttura di “visione delle somiglianze della metafora”656. In contrasto con una concezione del linguaggio che tende all’univocità oggettiva, la metaforologia grassiana indica un’inconcettualità basica: ciò che interessa non è dunque l’esistenza di un correlato di cui si asserisce l’assenza di formalizzazione linguistica o l’impossibilità di predicazione, ma lo sforzo di esporre linguisticamente l’ineffabilità stessa: la storicità del Da-sein. Grassi elabora una semantica metaforica che affonda le sue radici in un orizzonte di inconcettualità e sposta l’attenzione su quella dimensione di gettatezza, sul nostro essere calati in un mondo di immagini che chiedono di essere interpretate. In uno dei suoi ultimi testi, La metafora inaudita, Grassi si mostra meno interessato al percorso di nominalizzazione che porta la metafora verso il concetto, come accadeva invece nei precedenti lavori sull’umanesimo. La sua ricerca si orienta sempre di più verso il terreno in cui si formano le metafore, e cioè il mondo della vita, la Lebenswelt che mostra tutto il suo assolutismo, che viene contrastato proprio attraverso le prestazioni della distanza nelle forme del mito e delle metafore assolute, e quindi delle diverse pratiche metaforiche che traducono queste  Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 195. 656 Ibidem.  ! 209!  prestazioni, la cui funzione principale risulta allora compensatoria ed esonerante. Leggiamo in Il dramma della metafora che “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”657. I processi di metaforizzazione e di simbolizzazione della realtà sono in altre parole lo strumento con cui l’uomo riesce ad allontanare l’assolutismo della realtà e a rendere meno violenta la sua percezione. L’analisi della prassi metaforica parte dalla domanda “dove, come patiamo l’oggettività dell’essere?”658 che sorge laddove si fa esperienza dell’incapacità di restituire la ricchezza della res – il mondo oggettivo – attraverso l’univocità della definizione. Se “l’essenza della parola consiste nella sua tropicità, cioè nell’essere sempre un traslato, necessariamente il problema della verità sempre e ovunque valida deve venir sostituito dal problema di ciò che di volta in volta si svela nella storia”659. La retorica è la scienza storica per eccellenza: indaga ciò che di volta in volta viene all’espressione e cala la dimensione dell’aletheia in quella dell’Ereignis. Secondo il pensiero tradizionale gli enti vanno definiti mediante un processo razionale che astrae dall’hic et nunc, dalla storicità. È questo il prezzo da pagare per una conoscenza vera e immutabile: porre a distanza tutti quegli elementi legati al qui ed ora: le immagini, le passioni. Sostiene Grassi in Retorica come filosofia che “le teorie cartesiane continuano a determinare ancora oggi l’atteggiamento nei confronti dell’ideale culturale dell’Umanesimo e della supremazia della parola. Opponendomi alle idee di Cartesio desidero esplorare la tradizione dell’Umanesimo italiano”660. Grassi è mosso dal convincimento che Cartesio esamina e valuta le discipline umanistiche del sapere solo per stabilire se e in che misura esse possano trasmettere verità e certezza. Tutta la questione umanistica si riduce ad un problema di erudizione filologica che ha a che fare con la sfera delle 657Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica, Napoli 1992, p. 165. 658Id., Prolegomena ad una concesìzione della retorica (la phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 659 Id., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, cit., p. 156. Corsivi nostri. 660 Id., Retorica come filosofia, cit., p. 80.  ! 210!  passioni e delle immagini. La vera filosofia è quella critica a cui Grassi vuole opporre una priorità trascendentale della topica e per farlo ricorre a Vico e a Aristotele. Contro una simile impostazione che separa scienza e vita Grassi vuole proporre un’idea unitaria di logos e pathos in cui la retorica assuma un ruolo preponderante. Tradizionalmente la retorica – e i suoi elementi fondamentali: le immagini, le metafore – viene considerata come ciò che va respinto in quanto “ragione non ancora realizzata”661, come priva di chiarezza razionale e verità rigorosa generando “l’ideale cartesiano [di] una filosofia disadorna, impersonale, senza tempo e senza luogo”662. Tenendo in considerazione l’importanza che l’umanesimo retorico attribuisce alla parola, come ciò che apre il mondo, la filologia assurge a una posizione fondamentale all’interno degli studia humanitatis. Secondo il filosofo “la parola deve essere considerata un fenomeno originario, non solo espressione del pensiero”663. Nelle analisi svolte abbiamo rintracciato una riabilitazione del pensiero umanista che parte dal convincimento della preminenza del problema della parola su quello degli enti. Secondo il filosofo il legame tra parole e cose non va inteso come semplice corrispondenza delle une alle altre – poiché la parola non designa univocamente la cosa – poiché il significato di una cosa dipende dal contesto concreto in cui la parola viene utilizzata. La riflessione retorica stabilisce un nuovo modo di filosofare noetico non metafisico che parte dalla parola e non dall’ente. In questo percorso Vico riveste un ruolo particolare. IV. X. Phantasia, ingenium, sensus communis: le fonti del mondo storico individuate da Vico La proposta grassiana di ripensamento della retorica nella sua identità con la filosofia viene sempre più a svelare il suo senso esistenziale e intersoggettivo. La secca alternativa tra un filosofare ridotto a ricerca delle verità eterne – condotta attraverso un argomentare poggiante su basi deduttive ed un linguaggio razionale e formalizzato – e una retorica intesa come argomentazione debole o  Id., Viaggiare ed errare, cit., p. 180. 662 Ivi, p. 181. 663 Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 242.  ! 211!  tecnica del bel parlare – induce il filosofo a ripensare la correlazione retorica-filosofia a partire dal nesso vero-verisimile. Il tema è al centro di un saggio su Vico degli anni ’40, Del vero e del verosimile in Vico664, che mostra come la figura del filosofo napoletano sia una presenza costante all’interno dell’iter di pensiero grassiano665 – e non uno sbocco finale della filosofia di Grassi – e costituisca l’occasione di determinare il significato autentico di retorica. In Vico Grassi rintraccia l’originaria funzione ermeneutica del linguaggio retorico, che ha il proprio fulcro nella figura della metafora, prodotto dell’ingenium. Riproponendo una dicotomia – quella di Vico/Cartesio – ritornante in maniera fortemente radicalizzata nei lavori successivi su Vico, Grassi sottolinea come a differenza della filosofia critica poggiante sulla ratio la filosofia topica vichiana si fonda sulle facoltà dell’ingenium e della fantasia che sono facoltà di apprensione del reale immediate e intuitive e non deduttive. Asserisce il filosofo italiano che la fantasia vichiana “è l’espressione dello spirito umano in quell’istante del ciclo storico, che esso deve sempre nuovamente percorrere, quando l’ente originario si rivela all’uomo solo in immagini, simboli, miti. A riguardo si deve notare che anche il mondo della fantasia, come prima fase dello sviluppo dello spirito umano, non è un mondo primitivo in senso negativo; è essenzialmente e perfettamente formato in sé, per certi aspetti è ancora più vicino all’ente originario di quanto non lo sia il mondo della ragione”666. A differenza del pensiero critico il pensiero topico ha come suo oggetto tematico il verosimile che appartiene alla sfera del possibile e non del necessario ed è legato al tempo e allo spazio della situazione. Leggiamo in Retorica e filosofia che “solo l’intuizione delle caratteristiche comuni o condivise nel senso summenzionato rende possibile il conferimento di significati che consentono alle cose di apparire (phainesthai) in modo umano. Poiché tale capacità è tipica della fantasia, è proprio quest’ultima a permettere al mondo umano di !Id., Del vero e del verosimile in Vico, pp. 951-966, in Id., I primi scritti, cit.!! 665 Sulla presenza di Vico in Grassi cfr., R. Messori, Le forme dell’apparire, cit.; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di E. Grassi, cit.; J. Sanchez-Esquillace, E. Grassi y la filosofìa del Humanismo, cit., J. M. Sevilla, Critica de la razon problematica, cit.; G. Cacciatore, In dialogo con Vico, cit. 666!E. Grassi, Del vero e del verosimile in Vico, cit., p. 963. ! 212!   apparire”667. Conseguentemente la fantasia si esprime originariamente nelle metafore “cioè nel conferimento figurato dei significati [...]. La metafora è quindi la forma originaria dell’atto interpretativo stesso che assurge dal particolare all’universale attraverso la rappresentazione di un’immagine, ma naturalmente sempre riguardo alla sua importanza per gli esseri umani. L’atto erculeo è sempre un atto metaforico e ogni atto metaforico e ogni metafora autentica è in tal senso lavoro erculeo”668. É evidente che l’attenzione posta sulla prassi metaforica669 va oltre il piano linguistico. La metafora non è solo rappresentazione immediata di un’immagine poiché per la sua struttura traspositiva assume un ruolo storico-politico: quello della formazione del mondo umano come traspare dalla correlazione atto metaforico-atto erculeo. Il riferimento ad Ercole – come abbiamo visto nel secondo capitolo – cela il riferimento alla dimensione politica della fondazione della civiltà e si staglia sullo sfondo di una prospettiva che si basa sulla priorità della topica e dell’ars inveniendi sull’ars iudicandi. Una impostazione di questo tipo consente al pensatore di guadagnare una concezione integrativa della sapientia come ars vitae in cui filosofia e retorica si identificano nell’orizzonte ampio e più alto di formazione civile670. Il sapere noetico-non metafisico è uno strumento di formazione dell’essere umano nell’interezza delle sue esperienze storiche. In questo contesto si comprende come la poesia per Grassi – sulla scia di Heidegger e Vico671 – rivesta un ruolo fondamentale: essa non ha solo la funzione storico-filologica ma anche un compito etico-politico. Abbiamo visto come il concetto vichiano di fantasia assuma per Grassi una funzione decisiva. Vico afferma in Le orazioni inaugurali che la fantasia “immaginò le divinità maggiori e le minori, essa immaginò gli eroi, essa ora svolge le sue idee, ora le collega, ora le distingue; essa pone sotto i nostri occhi terre infinitamente lontane,  Id., Retorica come filosofia, cit., pp. 38-39. 668 Ibidem. 669 Cfr., Id., Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del linguaggio, cit., p. 48. 670 Come abbiamo visto nei capitoli precedenti Grassi distingue la Bildung dalla Erziehung, la formazione dalla educazione. 671 Cfr. su questo aspetto fondativo e politico della poesia in Vico G. Cacciatore, Passioni e ragione nella filosofia civile di Vico, pp. 3-20, in Id., In dialogo con Vico, cit., p. 18.  ! 213!  abbraccia quelle distinte fra loro, valica quelle inaccessibili scopre quelle inesplorate, apre strade per quelle impervie”672. L’importanza della fantasia nella teoria della conoscenza vichiana è sottolineata da Grassi nell’ambito di una proposta ermeneutica di analisi della fantasia e delle sue forme di funzionamento come paradigmi per delineare una storia del pensiero occidentale673. La rivalutazione della fantasia mira a sottolineare quella straordinaria forza formatrice che la mente umana riesce ad attivare tramite le sue azioni simbolizzatrici messa in luce anche dal Cassirer filosofo delle forme simboliche. Quest’ultimo sostiene che i diversi campi della creatività spirituale sono capaci di costruire “uno specifico libero mondo di immagini: un mondo che per la sua natura immediata porta tuttavia in sé il colore del sensibile, ma che rappresenta una sensibilità già formata e quindi dominata dallo spirito. Qui non si tratta di un sensibile semplicemente dato e trovato, ma di un sistema di molteplicità sensibili prodotte in una qualche forma del libero immaginare”674. Secondo Grassi nella tradizione umanistica la vis plastica e cosmica della fantasia e la relativa attività metaforica vengono interpretate come fonti originarie dell’esistenza e del mondo storico. La domanda dalla quale partire è: “qual è l’ambito originario della fantasia, la cui essenza è – come abbiamo visto – il metapherein?”675. Nel tentativo di risolvere la questione Grassi ricorre a Vico, considerato l’ultima “vetta”676 dell’umanesimo. Egli offre con le sue riflessioni sulla fantasia e sull’ingegno, sul senso comune, l’occasione fortunata per un ripensamento della storia del pensiero occidentale al di fuori dei cardini dell’intelletto calcolante e della metafisica astratta. L’autore della Scienza Nuova ha avuto il merito di sviluppare “la tesi di una logica della fantasia al fine di trovare l’accesso all’umano – nella sua singolarità e concretezza –, un accesso che la logica tradizionale, con G. Vico, Le Orazioni inaugurali, I-VX, a cura di G. G. Visconti, il Mulino, Bologna 1982, p. 83. 673 E. Grassi, La potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit. 674 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, I, La Nuova Italia, Firenze, 1967, p. 22. Cfr. per una correlazione tra la riflessione vichiana sulla facoltà mitico-simbolizzatrice della fantasia e la filosofia delle forme simboliche cassireriana G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, pp. 85-104, in Id., Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Armando Siciliano, Messina 2005. 675 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 239. Corsivo nostro. 676 Ibidem.  ! 214!  la sua ricerca rivolta esclusivamente all’universale, non aveva ottenuto”677. Secondo il pesatore milanese con Vico siamo di fronte ad un logos phantastikòs in grado di penetrare la realtà del mondo storico umano e individuale con maggior successo di quanto non faccia la logica tradizionale678. In tale logica è rintracciato il centro speculativo della Scienza Nuova che non è solo scienza della storia ma antropologia innanzitutto. Il confronto dell’uomo con la natura che rende possibile la nascita del mondo storico avviene sul terreno della ricerca delle attività che liberano l’uomo dai bisogni materiali. Per Grassi il problema fondamentala di Vico “consiste nell’identificare l’ambito originario all’interno del quale soltanto può in generale manifestarsi la storicità, ossia il mondo umano come tale. Si tratta in ultima analisi di scoprire la struttura dell’esistenza umana”679. Questo passo è davvero illuminante poiché da un lato ci consente di apprezzare la specificità della lettura offerta di Vico – un Vico antropologo delle origini del mondo umano storico-politico- linguistico – e dall’altro di cogliere la questione fondamentale che sorregge la Frage onto-antropo- logica grassiana: l’analisi del mondo umano attraverso l’attenzione all’ursprünglich Rahmen680 – la Lichtung – e alla Struktur des menschlichen Daseins681 – l’analitica dell’esistenza di cui abbiamo detto nei precedente capitoli. La questione del cominciamento del mondo umano è intimamente legata a quella dell’origine della storia e dunque alla socialità a cui Vico assegna il ruolo di elemento fondativo delle istituzioni politiche. Grassi punta a sottolineare non tanto l’aspetto metodologico e Ivi, pp. 239-240. 678 Cfr., su questo aspetto della logica della fantasia D. P. Verene, La scienza della fantasia, Armando, Roma 1984 e Vico’s Humanity, “Humannitas. Journal of the Institute of Formative Spirituality”, XV (1979). Qui lo studioso sostiene che la comprensione vichiana dell’umano è mediata non dal concetto e dall’attività razionale ma dall’attività mitopoietica della fantasia, dalle immagini e dalla forza creativa del linguaggio. Cfr., anche G. Costa, Genesi del concetto vichiano di fantasia, in AA. VV., Phantasia/Imaginatio, V Colloquio Internazionale, a cura di M. Fattori, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; M. Sanna, La fantasia che è l’occhio dell’ingegno. La questione della verità e della sua rappresentazione in Vico, Guida, Napoli 2001; G. Cacciatore, In dialogo con Vico, cit. 679 E. Grassi, Potenza della fantasia, cit., p. 240. 680 Ibidem. Cfr., anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, p. 240. 681 Ibidem.  ! 215!  storico-ricostruttivo, pur presente in maniera preponderante nella Scienza Nuova, quanto l’elemento di ricerca dei principi filosofici che sono all’origine del graduale processo di umanizzazione e antropologizzazione del mondo e della natura682 in cui la fantasia assume una funzione chiave e talvolta presentata dal filosofo milanese in maniera troppo antitetica rispetto alla ragione. Ricordiamo che secondo Vico la fantasia è per l’uomo un mezzo di produzione di immagini che rappresentano una griglia interpretativa della realtà, costituendosi come condizione trascendentale della crescita e dell’apertura mentale dell’uomo, del percorso di costruzione ed elaborazione del suo cammino storico. La fantasia consente all’individuo di comprendere il suo essere nel mondo, la sua circumstantia, di persistere nel suo spazio vitale683, sebbene attraverso una comprensione della realtà non adeguata, ma pur sempre vera, dovuta alla impossibilità umana di giungere alla piena conoscenza di fenomeni che sono stati creati da una identità superiore all’uomo. Pur accogliendo la prospettiva grassiana della rivalutazione del tema della fantasia in Vico vorremmo sottolineare come per il filosofo napoletano il mezzo di controllo della fantasia resti in ultima istanza la ragione, la sola capace di regolare il ragionamento fantastico in modo da renderlo attinente al mondo reale – viene salvaguardato in questo modo l’aspetto adeguativo del vero. Qui si inserisce anche il proposito pedagogico presente nel Vico del De ratione, per cui gli uomini, già dall’età della fanciullezza, hanno bisogno di educare il loro modo di ragionare, che per Vico – come per Cartesio – comporta l’utilizzo del metodo matematico. Il filosofo napoletano, come è noto, distingue due fasi della vita di un uomo in cui, a seconda dell’età e dell’esperienza acquisita, queste due capacità intellettive hanno una valenza specifica e una preminenza nei confronti dell’altra: nei giovani prevale la fantasia, negli adulti prevale la ragione. Sostiene Vico che “come nella vecchiaia prevale la razionalità, così nell’adolescenza prevale la fantasia: e davvero non è in alcun modo opportuno nei giovinetti offuscare  Per una lettura antropologia della Scienza Nuova cfr. L. Amoroso, Introduzione alla scienza nuova, cit. 683!E. Grassi, Vico e l’umanesimo, cit., p. 53 e sgg.!!  ! 216!  quella che è sempre stata considerata l’indizio più felice dell’indole futura”684. La condizione mentale dei fanciulli li agevola a sviluppare la loro capacità immaginativa, componente fondamentale in questo determinato periodo della formazione della personalità umana. Con l’età adulta l’uomo inizia invece a inquadrare razionalmente gli enti, a far prevalere la ragione sulla fantasia, ad uscire dallo stato di minorità. Vico accetta entrambi i momenti della formazione dell’individuo, senza porre un antagonismo delle facoltà, un manicheismo gnoseologico, sottolineando con forza come non debba essere oppressa e trascurata la fase originaria dell’essere- nel-mondo umano, quella immaginativa, che è fondamentale per la crescita di una persona. Infatti Vico riconduce la fantasia sotto la categoria della memoria, che a sua volta si suddivide in tre distinte fasi: memoria come attività dell’intelletto umano che “rimembra le cose”; fantasia come attività che “altera e contraffà” il ricordo originario; ingegno come attività che “pone in acconcezza e assestamento” ciò che è stato precedentemente modificato. Come sottolinea Cristofolini occorre tenere presente la duplice valenza della fantasia in Vico: da un lato essa costituisce la capacità “primitiva” di creare un impero della fantasia e del mito; dall’altro necessita di essere limitata e sottomessa alle strutture della ragione685. A differenza di un’ipotesi che ricomprende il concetto di fantasia all’interno di uno sviluppo razionale graduale e progressivo Grassi propende per l’idea che “la fantasia, basata sull’esperienza delle molteplici interpretazioni che si possono dare ai fenomeni sensibili, crea le prime analogie fra tali fenomeni e con essi le prime connessioni e infine le definizioni”686. Secondo il filosofo milanese si tratta del primo adattamento della natura: attraverso la fantasia l’uomo mette in atto quella domesticazione dell’essere che costituisce l’essenza dell’attività mentale. Grassi individua tre significati fondamentali della fantasia  G. B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, p. 37. 685 P. Cristofolini, La Scienza Nuova di Vico. Introduzione alla lettura, Nis, Roma 1995, p. 84. 686 E. Grassi, Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, in Id., Vico e l’umanesimo, p. 89.  ! 217!  vichiana: -! “nella fantasia e mediante la fantasia si mostra che l’essere umano, a differenza dell’animale, non soggiace a modelli dominanti che danno alle percezioni sensibili un significato inequivocabile”687 -! “la seconda funzione della fantasia fu di costringere l’uomo a farsi dominare dalla paura, dal terrore di fronte alle cose”688 -! “la terza funzione della fantasia è quella di essere il primo originario fattore che dà un significato al lavoro”689 Secondo Grassi la fantasia intesa nel primo significato è strettamente correlata alla nascita della poesia; nel secondo senso è legata alla nascita della religione come prima forma di adattamento della natura e di genesi dell’ordine; infine essa va concepita in relazione alla fondazione sociale e politica che è innescata dal lavoro che allarga il proprio raggio di incidenza ben oltre i confini dell’autoconservazione: la fantasia è la facoltà della visione per eccellenza, essa è l’occhio dell’ingegno. Ingegno e fantasia: entrambe facoltà che insieme al senso comune costituiscono la triade ermeneutica per una corretta comprensione di Vico e della Scienza Nuova. Secondo Grassi Vico ricostruisce la storia del mondo storico umano attraverso il ricorso al senso comune. Leggiamo in La priorità del senso comune e della fantasia. L’importanza di Vico oggi che “secondo l’approccio vichiano il mondo storico sorge dall’interdipendenza delle esigenze umane, dagli elementi di cui abbisogna l’uomo. Da esso deriva la necessità di intervenire nella natura umanizzandola e anche la necessità di stabilire istituzioni umane, comunità sociali, organizzazioni politiche”690. Alla base di questa struttura ritroviamo il senso comune  Ivi, pp. 88-89. 688 Ivi, p. 89. 689 Ivi, p. 90. 690 Id., La priorità del senso comune, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., p. 43.  ! 218!  che è guidato dall’ingegno. Per Grassi l’ingenium è la facoltà di scoprire le somiglianze e basata sulla facoltà dell’ingegno “la fantasia [...] conferisce significati alle percezioni sensibili. Mediante tale trasferimento la fantasia costituisce la facoltà originaria del far vedere (phainesthai)”691. Si tratta delle facoltà che appartengono sin dall’inizio alla formazione del mondo umano. Come afferma Vico nella Metafisica del 1710 “i latini dissero facultas quasi dicendo faculitas da cui poi anche facilitates come fosse una spedita, rapida solerzia nel fare. Pertanto è facoltà quella che conduce la virtualità all’atto [...]: senso, fantasia, memoria e intelletto sono facoltà dell’anima”692. Poco oltre il filosofo napoletano sancisce definitivamente il legame tra memoria, fantasia e ingegno, così come tra geometria e fantasia. In questo testo, Vico tenta di definire le tre facoltà dell’intelletto e i distinti ruoli (come anche le affinità) che esse svolgono nell’azione conoscitiva dell’uomo. L’interpretazione grassiana della fantasia, anche definita “l’occhio dell’ingegno”, si focalizza sulla sua funzione di mezzo attraverso il quale l’ingegno umano riesce a riformulare i vari concetti, mediante una rielaborazione delle immagini mentali, e a stabilire un nesso plausibile tra essi, che permette di avvicinarsi il più possibile alla conoscenza della verità. Se per Vico è vero che “la fantasia è una facoltà certissima, poiché usandola, noi foggiamo le immagini delle cose”693, e che l’ingegno è “la facoltà del congiungere in unità cose distanti, diverse”,694 è altrettanto indiscutibile che nel momento in cui l’uomo incomincia ad affinare il suo intelletto e tende ad essere più razionale (in quella fase storica che Vico fa corrispondere all’età degli uomini), incomincia a limitare l’utilizzo della sua capacità immaginativa e a diventare più “mentale”. Più l’uomo esce dal suo “stato di ignoranza”, dunque, più cambia anche il ruolo e l’intensità della fantasia all’interno della esistenza. La fantasia, allora, si trasformerà in un’affinata facoltà poetica, in !Ivi, pp. 49-50.! 692 G. B. Vico, La metafisica del 1710, a cura di A. Corsano, Adriatica, Bari 1966, p. 111. 693 Ibidem. 694 Ivi, p. 114.  ! 219!  una forza creativa che aiuta l’immaginazione dei poeti e la loro capacità inventiva. La fantasia come qualità dei poeti, la trasformazione dell’uso della metafora dalla sua precedente valenza filosofica a quella prettamente artistica. Lo studio della sapienza poetica volta da una vivida fantasia, segno di passionalità e sublimità del linguaggio della poesia che, tuttavia, deve essere ben distinta da quel tipo di sapienza che invece caratterizza il pensiero filosofico. Grassi avverte la possibilità di interpretare attraverso la lente del progresso razionale l’ingegno e la fantasia ma sposta l’attenzione verso l’ambito più originario della formazione del mondo umano. Egli asserisce che “si potrebbe sostenere che Vico attribuisca al discorso fantastico e metaforico solo il significato di un parlare improprio, che diventa appropriato solo attraverso la logica, poichè egli restringe l’uso del parlare metaforico e fantastico a un primo periodo della storia. Noi possiamo rispondere a questa osservazione guardando ai fatti, cioè chiarendo la relazione tra l’attività ingegnosa e immaginativa e senso comune, o esaminando più profondamente il concreto dominio in cui l’ingegno e la fantasia sono capaci di costruire il mondo umano”695. Con la fantasia, l’ingegno e il senso comune è in gioco il tema della fondazione della civiltà che tocca anche l’ambito del mito. IV. XI. L’ora di Pan e la morte di Pan: mito e arte come genesi del mondo umano L’analisi del linguaggio poetico come fondazione della comunità politico sociale ci consente di comprendere l’estensione del discorso grassiano sul mito. In linea con l’interpretazione di Gentili dobbiamo interpretare il ruolo politico che il mito riveste in Grassi alla luce della relazione tra mito e poesia. Nella Introduzione al testo di Grassi Arte e Mito edito per la prima volta in tedesco nel 1957696, ristampato nel 1990, frutto di una rielaborazione di un articolo che Grassi pubblica nel 1956 con il  E. Grassi, La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, cit., in Id., Vico e l’umanesimo, cit., pp. 50-51. 696 Id., Kunst und Mythos, Hamburg, Rowholt, 1957; seconda edizione riveduta e ampliata E. Grassi, Kunst und Mythos, Frankfurt a. m. Suhrkamp, 1990.  ! 220!  titolo Mito e arte in “Rivista di filosofia”, Gentili affronta il problema del mito in Grassi quale evento originario che fonda una catena di relazioni, che dà inizio ad una serie. Il lavoro condotto da Grassi sul mito è inquadrabile all’interno di una prospettiva di demitizzazione che non è omogenea a quella di razionalizzazione. “Nella misura in cui – Grassi – legge il mito alla luce delle sue relazioni, porta allo scoperto il nesso intrinseco tra mito e demitizzazione”697. Come interpretare allora la relazione complessa e articolata tra il mito e i suoi prodotti alla luce del nesso mito-demitizzazione? Grassi analizza il mito quale atto di fondazione originario, arcaico, indeducibile, attraverso le relazioni che lo stesso mito fonda: relazioni retoriche e poetiche, religiose e anche filosofiche. Tuttavia la filosofia interpretata come sapere dedotto e non originario non può avere il ruolo di fondazione che solo la poesia riveste. Per Grassi il “mito fonda (begründet) il logos, quindi il mondo indicativo quello dimostrativo”698. Nella ricostruzione grassiana il mito ha una duplice valenza: esso è il racconto che è alla base delle arti imitative: non solo della tragedia o della commedia, ma persino della musica, della danza – ma è anche l’unità del significato di mito come storia sacra e di mito come fabula. Leggiamo in Arte e mito che “il mito esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria ed onnicomprensiva, costituendo in questo modo un kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine”699. L’essenza del mito va collocata nell’ambito della formazione umana di un mondo dotato di un’unità strutturale e ciò che esso rivela è la temporalità dell’esistenza umana. Si tratta della prima formazione culturale in cui si dispiega la coscienza temporale umanistica poiché nel mito “domina il tempo che costantemente ritorna”700. Il filosofo italiano, anche sulla scorta dello studio di Malinowsky, Kerényi, W. F. Otto, individua due significati fondamentali del mito701:  Id., Arte e mito, tr. it. a cura di C. Gentili, La città del Sole, Napoli 1996, p. 27. 698 Id., Potenza dell’immagine, cit., p. 85. 699 Id., Arte e mito, cit., p. 150. Corsivi nostri. 700 Ivi, p. 166. 701 Id., Mito e arte, cit., p. 162. ! 221!   -! il mito come favola e creazione artistica -! il mito come realtà religiosa esemplare Nel primo significato – il mito come favola e creazione artistica – Grassi si rifà ad Aristotele e all’analisi condotta nella Poetica sul mito come “sintesi delle azioni” in cui è sovrapponibile la sua valenza di fatto con quella di composizione di fatti. Accanto all’idea di mito come realtà vivente, sacrale, in cui la temporalità infinita è sospesa in un orizzonte chiuso e circolare compare il tema dell’arte come favola, racconto, mito, composizione dei fatti. Qui occorre sottolineare un aspetto di non secondaria importanza. L’arte si pone come demitizzazione poiché “nasce nell’istante in cui l’ordine assoluto – espresso dalla realtà religiosa – viene infranto. Nel momento in cui ci si distoglie dall’ordine eterno e in sua vece si manifesta l’ordine possibile, sorgono i progetti umani, individuali”702. L’arte si pone come articolazione specifica di una possibilità intrinseca al mito – il suo divenire possibilità umana – e non come razionalizzazione della dimensione mitico-sacrale originaria. L’arte prorompe laddove si crea uno strappo, una lacerazione, una rottura: la temporalità e la spazialità sacre dell’universo mitico si disintegrano, facendo spazio a quelle profane del mondo artistico. Nel secondo significato il mito appare come realtà sacrale, religiosa ed esemplare. Per Grassi “questo mondo mitico è sostanzialmente distinto da quello profano, in quanto il profano presuppone una temporalità, una caducità, un essere-sempre-diversamente [...] perciò lo spazio profano non è neppure mai chiuso, ma si perde in una dimensione sterminata e senza confini”703. Tra il mito e l’arte dunque ritroviamo una differenza che si situa innanzitutto nei due tipi di temporalità e spazialità vissute. Eppure mito e arte hanno in comune l’esigenza di riunificazione della molteplicità dei fenomeni sensibili sotto un ordine, una legge, un kosmos. Scrive Grassi che “il mito esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima, originaria, onnicomprensiva, costituendo in questo modo un  Ivi, p. 158. 703 Id., Arte e mito, cit., p. 159.  ! 222!  kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine. Stando a questa concezione, il mito racchiude gli elementi eternamente esistenti dell’esistenza umana e li rappresenta: ciò che esso rivela è l’eternamente presente”704. Nel mito viviamo quella connessione con il mondo circostante – l’ora di Pan di cui abbiamo già parlato in relazione all’esperienza sudamericana di Grassi – che appare a Grassi come “l’ora in cui la realtà frammentaria quotidiana si trasforma in una unità ed attualità terribile, fuori del tempo. Nel mito domina la pienezza di una realtà che incombe sul singolo e non lo lascia più sfuggire”705. Se il mito in cui l’uomo si trova, come l’animale immerso nel cerchio funzionale simbolico, è esemplificato con la metafora dell’ora di Pan, l’arte è rappresentata invece come la morte di Pan, come “l’infrangersi del mito”706. Di fronte alla disintegrazione del mondo mitico-sacrale per il pensatore “l’uomo ricorre ai ritrovati tecnici” – l’arte come poiesis e come techne – “quando ha perso di vista i riferimenti a una realtà fuori dal tempo. Propriamente in questo istante sorge l’empeiria, la necessità di trovare un guado attraverso il fiume delle impressioni sensibili che si sono staccate dall’ordine originario”707. L’emepiria va interpretata come una realizzazione del logos (non inteso come ragione o intelletto) e non in senso materialistico. Secondo il filosofo si tratta della prima fase di ordinamento dei fenomeni sensibili. “L’empeiria è il primo passo nell’ordinamento dei dati sensoriali, non è passività, non è impressione”708. Nell’azione di conferimento di unità, di selezione e ordinamento dell’empeiria possiamo rintracciare i caratteri dell’arte. Infatti il filosofo giunge a chiedersi se l’arte e l’empeiria non si identifichino in questo aspetto ordinatore. Tuttavia la differenza fondamentale risiede nel carattere di produzione insito dell’arte.  Ivi, p. 150. 705 Id., Mito e arte, cit., p. 150. 706 Ivi, p. 151. 707 Ibidem. 708 Id., Arte e mito, cit., p. 92.  ! 223!  Se con l’emepeiria siamo di fronte ad una constatazione, per quanto ordinata, dei fenomeni – il termine usato da Grassi è fest-stellen in riferimento all’empeiria709 – con l’arte siamo di fronte alla produzione di un modo umano a partire dal mondo frantumato resoci accessibile attraverso l’empeiria. “L’empeiria sembra avere la sua radice nella necessità di ordinare i fenomeni sensibili, ma non è in grado di conferire ordine complessivo. Essa comunica di volta in volta un mondo frantumato, nei cui frammenti noi vediamo rispecchiato un kosmos in mille parti rilucenti”710. La potenza dell’arte invece risiede nella sua capacità di produrre un cosmo, un mondo ordinato dotato di un’unità significativa. L’arte come il mito è “il progetto universale delle possibilità umane”711 e soprattutto la poesia assurge per Grassi a evento privilegiato della relazione uomo-essere. Ma è possibile attraverso la poesia esprimere e dire in modo immediato il mito? Oppure la dimensione poetica in Grassi è una forma della ricezione mitica, una forma demitizzata del mito? Per comprendere l’essenza e il valore di fondazione del mito non dobbiamo prestare attenzione al passaggio dal mito al logos – dove il mito appare come una prestazione arcaica della ragione e il logos come un mito razionalizzato – ma al nesso tra mito e demitizzazione. Si tratta di un movimento tutto interno al mito e che si intreccia al tema della fondazione. Il mito in quanto “topos atopos” è premessa, origine che non può essere conosciuta ma detta attraverso la poesia. Grassi parte da una idea di mito come fondazione origine e inizio, come prestazione fondativa (Begründung). “In questo senso il mito – sia come realtà religiosa esemplare, sia come creazione artistica e quindi come favola – può venir considerato come il principio instauratore originario di una comunità [...] con l’ordine – che pone una molteplicità di movimenti entro un’unità – si preannuncia la realizzazione dell’aspetto sociale”712. L’interpretazione grassiana della Poetica di Aristotele pone in luce l’aspetto di  Ivi, p. 90. 710 Ivi, p. 94. 711 Ivi, p. 168. 712 Id., Mito e arte, cit., p. 162.  ! 224!  secolarizzazione insito nel mito: il mito disvelando “l’ampia scala delle possibilità umane”713 corre il rischio di generare un’arte secolarizzata: l’estetica714. Come sottolinea Amoroso, in Grassi l’individuazione di una via di accesso al mito, alla poesia e all’arte “in rapporto al concreto operare della storia”715 avviene attraverso il ripercorrimento della filosofia dell’umanesimo che nell’arte avrebbe espresso uno svelamento, una Lichtung dell’essere. IV. XII. La funzione trascendentale dei concetti di Wahn e Langweile nelle meditazioni leopardiane Nel corso della trattazione sono emersi due concetti chiave: quello della fondazione della civiltà e quello del disvelamento: si tratta delle questioni supreme a cui Grassi dedica gran parte della sua indagine storico-filosofica sui temi dell’Umanesimo. In questo orizzonte teorico due figure capeggiano sulla scena filosofica descritta da Grassi: Vico – come abbiamo già visto – e Leopardi, su cui la critica poco si è soffermata. Entrambi appaiono in veste di filosofi delle origini del mondo umano attenti alla ricerca dei fattori primi di umanizzazione e di fondazione politico-civile i cui plessi teorici si inseriscono a pieno titolo nel percorso grassiano di ricostruzione dell’antropologia delle origini, della fondazione civile e del disvelamento. La fondazione fantastica e il disvelamento vichiani e la funzione trascendentale dell’illusione e il ruolo metafisico del pathos della noia come sentimento dell’apertura originaria in Leopardi rappresentano le tappe fondamentali di una ricerca onto-antropo- logica che in Grassi si concretizza come formazione del cosmo umano attraverso la fondazione mitica. Nel corso della sua lunga ed operosa esistenza filosofica Grassi si è spesso misurato con le riflessioni e la personalità di Leopardi. Tenendo presente la centralità che il concetto di pathos assume all’interno del pensiero di Grassi è possibile comprendere come il filosofo dedichi pagine concettualmente dense al poeta di Recanati, istituendo confronti prima con Freud ed Epicuro (sugli Id., Arte e mito, cit., p. 183. 714 L. Amoroso, Da Aristotele a Vico. A proposito di Grassi e il mito, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto Grassi, cit., pp. 61-76, p. 62. 715 Ivi, p. 64.  ! 225!  argomenti del piacere e del dispiacere; del principio di realtà e del principio di illusione; dell’edonè) poi con Schopenhauer (sui concetti di realtà e illusione, di noia e dolore). In questa sede si è ritenuto di non soffermarsi sulle relazioni interessanti con il padre della psicoanalisi e con i filosofi greco e tedesco poste a tema dal Grassi, quanto piuttosto di prendere in considerazione le suggestioni teoriche che il poeta sollecita nel cammino di pensiero del filosofo nella consapevolezza dell’originalità e discutibilità delle tesi grassiane su Leopardi che, come vedremo, non seguono i dettami del “filologicamente corretto” ma piuttosto fanno interagire Leopardi con i concetti chiave del suo sistema onto-antropo-logico. Quale ruolo può avere Leopardi all’interno dell’iter di pensiero grassiano e qual è il valore della teoria dell’illusione a cui il pensatore conferisce tanta importanza da giungere a definire il poeta italiano teoreta dell’illusione716? Il filosofo sottolinea quanto l’approccio leopardiano sia distante dal razionalismo della metafisica astratta del “secol superbo e sciocco” insistendo soprattutto su quei concetti, quali illusione e noia, piacere e dolore, natura e passione in cui Leopardi assume un atteggiamento critico verso l’ottimismo razionalistico e il tema della civilizzazione. Il Leopardi grassiano come critico del tempo moderno e delle devastazioni dell’intelletto segue un percorso nuovo e inesplorato, che si iscrive nel solco della tradizione umanistica di cui il poeta e Vico costituiscono gli “ultimi rappresentanti”. Accanto all’operazione ermeneutica di analisi dell’idea di illusione si situa anche il convincimento che Leopardi può essere considerato come una delle ultime manifestazioni dell’umanesimo. Si tratta di due temi – il “Leopardi umanista” e il “Leopardi teoreta dell’illusione” – strettamente connessi perché consentono di fugare l’idea che la lettura grassiana possa essere considerata come un tributo, l’ennesimo, al grande genio poetico del recanatese e fanno emergere una interessante prospettiva esistenzialistica sul Leopardi critico del moderno. Se prendiamo in considerazione i passi in cui è presente il poeta di Recanati constatiamo che egli appare in forma sparsa e asistematica già a partire da I primi scritti 1922-1946. La lettura dei saggi risalenti  E. Grassi, La metafora inaudita, cit., p. 46. ! 226!   al periodo compreso tra gli anni ‘30 e ‘40 mette in luce la presenza di Leopardi e delle tematiche dello Zibaldone, che resta il preponderante testo di riferimento delle note grassiane sul poeta. Confrontando le citazioni di Leopardi e i contesti teorici di riferimento registriamo che esse compaiono sempre in relazione all’analisi dei concetti di formazione (Bildung), di noia, di illusione: idee centrali se consideriamo quanto essenziale sia la formazione nel nuovo ideale di umanesimo, la noia e l’angoscia nella sua analitica esistenziale, e l’illusione come fattore antropogenetico insieme al mito e al linguaggio nell’analisi antropologica grassiana. In Il confronto con la filosofia tedesca in Italia del 1941 si fa cenno a Leopardi nell’ambito della tematizzazione della Bildung degli studia humanitatis che coinvolge una questione ben più ampia della mera educazione filologica717. Per il filosofo infatti occorre distinguere una pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua formazione. Egli afferma che “il filosofare italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti antichi, il mondo antico [...]. Ricordo solo che il compito umanistico della mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico, letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo [...] conformemente all’antichità, si riconosceva nella parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì sviluppare l’essenza dell’uomo”718. La distinzione tra Bildung e Erziehung mostra come la posta in gioco nella nuova idea di umanesimo sia la messa in discussione dell’essenza dell’uomo, della sua condizione, che accomuna, secondo il filosofo, le figure di Bruno, Vico e Leopardi. Così come per Bruno “ogni rapportarsi  Id., Il confronto con la filosofia tedesca in Italia, pp. 871-886, in Id., I Primi scritti 1922-1946, La Città del Sole, Napoli 2011, p. 882. 718 Ivi, p. 881. ! 227!   originario nei confronti della realtà, sia nel senso politico come in quello concettuale o poetico, scaturisce dall’esperire, dal patire qualcosa di originario e indeducibile, che riveli mondi differenti”719 anche per Vico e Leopardi720 la funzione trascendentale del pathos consente un rinnovamento del concetto di filologia. Il co-estendersi dei temi filologici e antropologici implica una rivalutazione del concetto di pathos da parte di Grassi che tuttavia non indulge ad una forma più o meno celata di irrazionalismo illogico. Anzi il valore logico della sua ricerca emerge laddove egli tenta di proporre un concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza. Nella sua prospettiva il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza ontologica. Secondo il filosofo nel pathos “l’inaudito appare sul palcoscenico della storia”721: esso è “passione abissale”722 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi. Nella prospettiva grassiana il pathos metafisico è ciò che Leopardi chiama illusione e natura. “Le passioni hanno un carattere trascendentale, esse sono cioè condizione delle esperienze e da esse non deducibili”723 e per il poeta indicano il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Grassi afferma che “l’espressione illusione, che Leopardi usa in questo senso, ha, rispetto alla terminologia tradizionale Ivi, p. 882. 720 Ivi, p. 883. 721 Id., La metafora inaudita, cit., p. 92. 722 Ivi, p. 40. 723 Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, pp. 156-175, in AA. VV, Tradizioni della poesia italiana contemporanea, Edizioni Theoria, Roma 1988, p. 166.  ! 228!  che si serve della espressione a-priori, il grande vantaggio di esprimere il carattere esistenziale del trascendentale”724. Nell’esperienza patica rintracciata dal filosofo nello Zibaldone l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria angoscia – che nelle “meditazioni leopardiane” è sostituita dalla noia – in cui “questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere l’ esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda”725. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo stesso tempo di realizzare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per arginare l’“assenza di mondo” in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza di mondo a cui il filosofo fa riferimento sono il regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Egli asserisce che “in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza”726 e ancora che “qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio”727.  Ivi, p. 168. 725 Id., Il problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, in Id., I primi scritti, cit., p. 329. 726 Id., Assenza di mondo, in “Archivio di filosofia”, Roma, pp. 217-247, p. 226 727 Ibidem.  ! 229!  A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario. La passione ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo: “si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente”728. Essa consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. É proprio questo concetto metafisico di pathos che Grassi ritrova nel tema leopardiano dell’illusione a cui si accosta per la prima volta nel saggio Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana del 1942. Si tratta di una lettera scritta all’amico Walter Otto il cui centro teorico è la domanda circa il rapporto sussistente tra il singolo (l’individuo) e il comune (l’oggettivo) che secondo Grassi trova una risposta nella tradizione umanistica italiana attraverso la disamina del problema della parola come massima espressione della vita individuale, la quale però “non ha proprio nulla a che fare con l’individualismo [...] – ma – conduce alla questione sistematica dell’essenza del comune”729. La ricerca grassiana sulle modalità di configurazione del problema della parola nella tradizione italiana e sulla sua correlazione al tema dell’essenza dell’uomo, “non irrigidendosi in una teoria individualistica ma – al contrario – rischiarando il problema di ciò che è comune”730 ha come esito la convinzione che l’individuale sia un concetto molto distante dal soggettivo e dal relativo, da ciò che è “riferito all’io”731, ma sia invece legato all’oggettivo, a “ciò che dischiude il comune”732.  Id., Il dramma della metafora, cit., p. 131. 729 Id., Sul problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, in Id., I primi scritti, cit., p. 903. 730 Ivi, p. 907. 731 Ivi, p. 909. 732 Ibidem.  ! 230!  L’insistenza sul tema dell’oggettivo, l’autenticamente originario che si fa incontro all’uomo e non giace davanti in qualità di objectum, conduce Grassi verso la teoria leopardiana dell’illusione come l’a-priori, il trascendentale che conferisce ordine – infatti Grassi parla di bella illusione – e che come la meraviglia, all’origine del nostro impulso a sapere, si impone come necessaria, essenziale e comune prassi umana di trasformazione del reale733. Anche Il reale come passione e l’esperienza della filosofia del 1945 dedica una sezione molto significativa al poeta in riferimento al concetto di noia e passione. Afferma il pensatore che per Leopardi “la noia si rivela inaspettatamente come passione [...] poiché la vita è sempre nella sua essenza impulso alla compiutezza e alla felicità [...] così l’uomo non può mai sprofondare nell’assoluta insensibilità e indifferenza”734. La noia come morte della vita, vita non vita, vita dell’indistinto e dell’indifferente tuttavia è pur sempre passione, sia pure nel senso del più basso gradino dell’esistenza. Siamo venuti ai temi principali che animano la lettura grassiana di Leopardi presente nei saggi più sistematici dedicati al poeta: Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt (1949), Introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit735; Passione e illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni  Ivi, p. 914. 734 Id., Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, in Id., I Primi scritti, cit., p. 1027. 735 Id., Wahn, Natur und die Kritik der modernen Verstandeswelt. Si tratta di una introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit, Verlag, Bern, 1949, pp. 9-34. Tradotto in italiano da R. Copioli con il titolo, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit.  ! 231!  (1987)736; Der italienische Schopenhauer (1987)737; Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? (1989)738. Il testo del ’49 è una scelta di passi tratti dallo Zibaldone, considerato da Grassi come lo strumento per gettare uno sguardo “all’officina poetica di Leopardi”. Fu pubblicato per la collana Überlieferung und Auftrag che nasce dall’intenzione di porre a tema determinati problemi della tradizione umanistica, che, come è noto, per Grassi sono quelli della rivalutazione della poesia e della retorica, della fantasia e dell’ingenium. Nel saggio introduttivo a Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit tradotto in tedesco da Joseph Partsch Grassi prende le distanze dall’impostazione crociana della interpretazione di Leopardi, accolta anche dal Vossler 739. Contro la negazione del Croce del valore filosofico del poeta di Recanati Grassi ha come scopo dichiarato quello di rivalutare l’aspetto teoretico contenuto nell’opera, al di là dei limiti del pessimismo leopardiano che, sulla scia di De Sanctis740, si è imposto all’attenzione critica. L’idea centrale che ha ispirato la scelta editoriale di selezionare i passi zibaldonici non tenendo conto del loro effettivo ordine cronologico è quella di restituire la genuina antropologia leopardiana attraverso la focalizzazione sul concetto di illusione. Secondo Grassi “generalmente le tesi pessimistiche del Leopardi,  Id., Passione e illusione. Il principio freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni in “Nuovi Annali della Facoltà di magistero dell’università di Messina”, 5 (1987), pp. 69-82, presentato in redazione differente al Congresso su Leopardi a Roma nel 1988. pp. 37-47, contenuto ora in E. Grassi, La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990. 737 Id., Der italienische Schopenhauer, pp. 125-138, in AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart, Piper Munchen 1987 a cura di Volker Spierling. 738 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? In AA. VV, Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C. Ferrucci, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 23-36. 739 Cfr., Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., pp. 158-159. Cfr., le affermazioni crociane contenute in B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946. Croce dopo aver asserito che “la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia ad uso privato”, ivi, p. 99, afferma che “Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite, non sistemate”, ibidem. 740 Cfr. F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e A. Perna, Einaudi, Torino 1960. Per la storia delle interpretazioni del pensiero di Leopardi e delle sue immagini in qualità di ottimista (critica fascista), pessimista, e progressivo (critica marxista) cfr. S. Lanfranchi, Dal Leopardi ottimista della critica fascista al Leopardi progressivo della critica marxista, pp. 247-262, in “Laboratoire italien”, 2012, Lione.  ! 232!  così come esse, per esempio, hanno ricevuto la loro formulazione nelle cosiddette Operette morali, sono note: il nostro compito non potrebbe essere quello di elaborare questo lato del pensiero leopardiano, ma soprattutto quello di delimitare il concetto filosofico dell’illusione nel suo significato sistematico, etico, sociale e storico”741. Lo scopo è esplicitato con tutta chiarezza: Grassi si propone di rendere oggetto di discussione non il Leopardi pessimista, non il Leopardi letterato, ma il Leopardi “antropologo”. Il legame tra antropologia e illusione è al centro dei saggi Passione e Illusione, Lo Schopenhauer italiano, e Leopardi e Freud. Legare antropologia e illusione non sembrerà una mossa azzardata se colleghiamo il tema del Wahn (illusione, mania, pazzia) con quello della Leidenschaft (passione). Nei due saggi dell’‘87, Lo Schopenhauer italiano – che qui proponiamo in traduzione italiana – e Passione e illusione, si analizza l’idea di schönen Wahn – anche definito illusione ingegnosa742. La caratura antropologica dell’illusione è del tutto evidente se si prendono in considerazione le affermazioni grassiane sui concetti di ordine, di costruzione del mondo etico-politico, e di scena. Egli afferma in Lo Schopenhauer italiano: “il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la scena della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori ammessi. Dal momento che l’originario è indeducibile, e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico, esso deve essere così riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica”743. La teoria dell’illusione è in netta contrapposizione alla ragione. Per il filosofo “Leopardi si oppone al predominio della ragione ed esplicitamente alla filosofia tedesca razionale astratta”744. Il riferimento è al passo zibaldonico sulla povertà di immaginazione dei tedeschi745, in cui Grassi crede di trovare traccia del proprio filosofare noetico-non metafisico, che si identifica con una teoria del nous o dell’ingenium in cui “la priorità della natura [...] si esprime attraverso la passionalità come E. Grassi, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, p. 157. I corsivi sono nostri. 742 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit., p. 33. 743 Id., Der italienische Schopenhauer, cit., p. 134. Traduzione nostra. 744 Id., Leopardi e Freud, cit., p. 31. 745 G. Leopardi, Zibaldone, 5-6 ottobre 1821. ! 233!   illusione”746. Dall’angolo teorico dal quale il filosofo guarda allo Zibaldone “il mondo umano non è una costruzione della ragione, del logo, ma è il prodotto di ciò che Leopardi chiama – in antitesi alla ragione – ingegnosa illusione, cioè la sofferenza dell’abissale appello della natura [...] Leopardi contrappone così non solo alla ragione ciò che egli chiama illusione – perché razionalmente non deducibile– ma identifica questa con l’attività ingegnosa”747. Attraverso l’illusione la physis originaria, l’Abissale, realizza la storia, accade il mondo, avviene la parousia della realtà, il suo phainesthai. Altre riflessioni teoriche degne di nota presenti nella lettura di Leopardi sono quelle relative ai concetti di natura e vita. Il filosofo giunge ad affermare che “i concetti di vita, natura, passione e illusione coincidono”748 . La vita – che sin dagli esordi greci della filosofia è stata interpretata come energia ed entelechia, come ciò che ha in sé il lavoro, il limite e il fine, l’ergon e il telos – in Leopardi diviene qualcosa di intimamente connesso al vuoto, al nulla. Questi ultimi concetti non hanno carattere negativo ma sono contraddistinti da una positività originaria generatrice di ordine, di mondo: il nulla prima di generare disperazione e dolore749 entra in contatto con la noia. Nei saggi “leopardiani” di Grassi la Langeweile assume quel ruolo liminare che l’Angst ha nei Primi Scritti: quello di chiusura mondana in cui l’uomo è gettato – il suo fondo animale – e allo stesso tempo di apertura mondana possibile solo su quella chiusura. La noia è l’aperto, la Lichtung nella quale l’uomo fa esperienza della propria vita che è innanzitutto temporalità. La noia in quanto esperienza dell’uniforme e dell’indistinto, è il contrario della vita. La vita invece è esperienza della distinzione e della singolarità. L’esperienza della noia in Leopardi secondo Grassi è caratterizzata da una positività originaria che la rende ben più profonda di una semplice tonalità emotiva. Del resto che il pathos avesse una costituzione metafisico-trascendentale ben più profonda rispetto alla componente soggettivistica appare evidente già dalle riflessioni su Stimmung e sulla  E. Grassi, Leopardi e Freud, cit., p. 32. 747 Ivi, p. 33. 748 Id., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., p. 165. 749 Ivi, p. 160.  ! 234!  Leidenschaft. La noia nel suo carattere esperienziale assurge a “facoltà di patire”. Afferma Grassi che “l’indifferente, l’uniforme, li possiamo cogliere e di essi possiamo avere esperienza, solo se si manifestano in modo finito, e la noia – nella misura in cui noi la sopportiamo – ci evidenzia come noi non possiamo vivere nel non limitato e nell’indifferente. In altre parole: se tutto ciò che è e di cui parliamo può presentarsi solamente a condizione che si mostri entro certi limiti – cioè come qualcosa di definito e distinto – allora anche la noia può essere colta solamente in quanto impossibilità di esistere nel non-limitato, nel non-dipendente”750. Nella prospettiva che abbiamo cercato di delineare emerge che nella noia è coinvolto lo stesso tema della léthe e dell’illatenza: il gioco di svelamento e nascondimento, insito nel cuore della manifestatività, che decide dell’umano. La noia leopardiana come facoltà di patire allora diviene un principio storico-culturale che solo secondariamente scade a povertà di azione e pigrizia ma si erge a condizione trascendentale del mondo storico dell’uomo. Essa è la Lichtung, il nome kat’exochèn dell’essere e del mondo, in cui l’avvento dell’umano accade innanzitutto linguisticamente. Qui si installa un altro tema centrale della lettura grassiana: la critica del mondo moderno presente nelle annotazioni zibaldoniche che mette in luce anche la qualità umanistica del poeta. Come leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo, Grassi afferma, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, che “gli studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti [...] e tuttavia uno dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo”751. Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come una forma più o meno larvata di antropocentrismo tout court, è la problematizzazione del tema della Lichtung, ossia del tema dell’Aperto, del contesto originario dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come ricerca sulle strutture del mondo umano.  Ivi, p. 161. 751 Id., Heidegger e il problema dell’umanesimo, Guida, Napoli 1985, p. 26.  ! 235!  Alla metafora fotica nell’accezione heideggeriano-grassiana sopra delineata fu sensibile già Leopardi, che fin da Memorie del primo amore e poi via via nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, nello Zibaldone, nelle Operette morali e nei Canti mostra un timore irrequieto nei confronti della luce diretta e accecante – sia essa lunare o solare – che genera un guardare piacevole e sublime. Grassi non sottolinea l’importanza della metaforica della luce né l’attenzione alla connessione vita-apertura752 pur presente nello Zibaldone, privilegiando il tema dell’illusione nelle sue molteplici sfaccettature storiche e fondative, nel convincimento che in quel concetto sia esplicato un accesso alla filosofia non pregiudicato da una metafisica razionalistica latente. Leggiamo nello Zibaldone che “per lo contrario la vista del sole e della luna in una campagna vasta e aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole per la vastità della sensazione”753; e ancora : “per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima”754. La priorità trascendentale della radura sulla luce che si offre, si dà in un atto di donazione (l’Es gibt) in cui si co-estendono luce ed essere, è viva anche in Leopardi, il quale usa dei termini molto cari a Grassi – e al suo maestro Heidegger – ma anche a Vico: sylva755, luce756, critica della metafisica757, rivalutazione della poesia. Temi  G. Leopardi, Zibaldone, “Io credo che tutti questi tali verbi sieno originariamente fatti da altri verbi ignoti, come vivesco dal noto vivo, hisco dal noto hio, e altri tali di questa desinenza in sco. E lo credo perché, come vivesco significa divenir vivo, cioè divenir quello che dal verbo vivo è significato essere, cioè esser vivo, e come hisco significa aprirsi, cioè divenir aperto, mentre hio significa essere o stare aperto, ec.; così tutti i detti verbi nosco, nascor, adipiscor, sinesco, adolesco, cresco ec. di cui non si conoscono gli originali, significano però divenire, incominciare a essere o a fare quella tal cosa o azione”, 14 ottobre 1823 [3689]. 753 Ivi, 20 settembre 1821 [1745]. 754 Ivi, [1746]. 755 Ivi, 2-5 luglio 1821 [1276 e segg.]. 756 Ivi, 20 settembre 1821 [1745]. 757 “Perché la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo l’immaginazione lieta aerea brillante e insomma naturale come l’antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più dalla verità, dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva. Come è quella dei settentrionali, massime oggidì, fra’ quali la poca vita della natura, dà luogo all’immaginativa fondata sul pensiero, sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica sublime che colla poesia”, Ivi, 14 ottobre 1820 [276]  ! 236!  fondamentali, questi, che corroborano l’idea, in altro modo proposta da Grassi, di un Leopardi filosofo dell’esistenza umana interpretata come oltrepassamento dell’immediatezza e allo stesso tempo come natura che si apre alla storia. Come abbiamo visto, l’indagine grassiana, accanto all’attenzione all’ambito ontologico, si concentra sulla dimensione ontica delle concrete Lichtungen, che si converte in analisi del linguaggio. Per il pensatore “la cosa sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del linguaggio [...]. Il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo significato”758. Con l’umanesimo, secondo il filosofo non ci si interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e non una sua prigione. Egli, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per Grassi occorre abbandonare l’idea di una metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, di cui Leopardi fa parte secondo Grassi, è capace di restituire la ricchezza fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio attraverso un linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate sfaccettature. Secondo l’interpretazione del filosofo italiano non esistono “cose separate dalle nostre azioni, dai nostri tentativi di trattarle [...] l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo nella e attraverso l’azione umana”759. Occorre quindi riconoscere che “l’oggettività delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis”760. E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, cit., p. 26. 759 Id., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini e Associati, Milano 1998, p. 80 760 Ibidem.  ! 237!  Infatti, per il filosofo milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Entra sulla scena assieme al concetto di prassi e di parola quello di situazione. Eccoci giunti ad un nodo concettuale di grande spessore che coinvolge la figura di Leopardi: la co-estensione del mondo (l’oggettivo) e dell’uomo – che si consuma in un rapporto pratico (la fondazione politico-culturale) e linguistico che eccede i limiti dell’omologhia e dell’adaeguatio e sconfina verso la polisemia – si ritrova nel poeta di Recanati e nella sua teoria dell’illusione che si apre ai temi centrali per Grassi della situazione, della circostanza e dell’occasione. Per Leopardi “attraverso la priorità dell’occasione, della circostanza, della situazione, noi dobbiamo corrispondere all’appello riconoscendo il significato sempre differente degli enti”761. Qui entra in gioco l’illusione nella sua identità con l’ingenium. Per Grassi con la teoria dell’illusione “di cui con estrema lucidità ha riconosciuto la necessità e la vanità, [Leopardi] ha compreso che il problema dell’uomo è quello di essere sempre gettato in una situazione concreta, quello di trovarsi sempre sospeso sul precipizio del qui e dell’ora, che gli pongono domande a cui non è possibile dare una risposta razionale, universalmente astratta, ma solo passionale”762. Con il poeta italiano abbiamo una riconfigurazione del tema antropologico che implica una svolta linguistica e ontologica. Siamo di fronte ad una Kehre verso un logos polisemico che restituisca la multilateralità e polidimensionalità di un reale che si dà fenomenologicamente per scorci, occasioni, circostanze. Siamo di fronte ad una Kehre verso un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi e forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico, poiché il metapherein, la trasposizione, è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della realtà o, per usare un termine caro a Grassi, del nostro atteggiamento verso il reale. 761 Id., Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica?, cit., p. 33. 762 Id., La metafora inaudita, cit., pp. 45-46.  ! 238!  La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, Il dramma della metafora, “la parola metaforica esprime a un tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto”763 in cui possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del significato. La metafora è proprio questo: “annotazione dei segni indicativi”764 provenienti dal “colloquio con l’ abissale che urge, che per pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa spiaggia [...] senza significato, dalla quale sale l’angoscia perché vivremo l’indeterminato”765. Anche in Leopardi Grassi intravede le tracce di un colloquio mai interrotto con l’Abissale, l’Originario, l’Essere in cui si gioca la nostra esistenza: è il senso stesso dell’illusione come ingresso nel ludus dell’esistenza, come reazione all’agorafobia primordiale. “Nel gioco giocato dell’esistenza (e del linguaggio in cui quel gioco viene parlato) si liberano molteplici possibilità, ognora rinnovate, imprevedibili, e dunque tali da frustare qualsiasi tentativo di prevederne razionalmente il senso. Ma che cos’è l’illusione di Leopardi se non, appunto, un in-ludersi, un entrare nel ludus, uno stare al gioco dell’esistenza?”766. Come è emerso da queste considerazioni il “Leopardi di Grassi”, teoreta dell’illusione, è il Leopardi portavoce di una filosofia umanistica che si traduce nell’idea di una antropologia che contiene in sé i temi del linguaggio e dell’essere. Afferma Grassi in La metafora inaudita che “Leopardi insegna [...] che l’unica filosofia in grado di tentare questa spiegazione”767, il gioco dell’esistenza, “è una filosofia dell’esistenza; una filosofia cioè che, senza pretendere di risolvere il  763 Id., Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina Tipografica, Napoli 1992, p. 165. 764 Ivi, p. 14. 765 Ibidem. 766 Id., La metafora inaudita, cit., p. 46. 767 Ibidem.  ! 239!  problema razionalmente, prenda atto dell’abisso su cui ogni passione ci sospende”768. La focalizzazione sui temi dell’illusione e della natura, della noia e della passione, che solo marginalmente toccano l’ambito del pessimismo, ha svelato il legame con il grande tema antropologico della costruzione del mondo umano. Che cos’è l’uomo e quale sia il suo posto nel mondo: sono questi i quesiti che agitano l’onto- antropo-logia grassiana e l’interpretazione dello Zibaldone di Leopardi che diviene ulteriore occasione fortunata – insieme a Cicerone, Quintiliano, Ovidio, Bruni, Valla, Graciàn, Vico, Ungaretti – per una meditatio sull’uomo che permea la sua prospettiva neo-umanistica. Il Leopardi grassiano può essere interpretato, allora, come pretesto per ribadire ancora una volta che l’umanesimo autentico come pensiero poetante, come meditazione noetica e non metafisica, ha ancora una possibilità di essere esperito a partire da una tradizione a cui non è stata conferita la dovuta importanza. La traccia leopardiana nell’iter grassiano ha fatto emergere, attraverso il concetto di ingegnosa e bella illusione, che l’antropogenesi fa tutt’uno con l’antropo-poiesi: la nascita dell’uomo avviene con le produzioni umane della civiltà, della storia, della cultura. Solo illudendoci sperimentiamo la nostra forza, la nostra umanità, come insegna Leopardi, e diveniamo artefici del nostro mondo. La filosofia dell’esistenza proposta da Leopardi diviene un experimentum vocis, una poesia pensante o un pensiero poetante. La )&0&*& '*&2o"& descritta da Platone nella Repubblica769, l’antico dissidio tra poesia e filosofia, viene ripensato da Grassi da un angolo prospettico differente: non da quello di una epistemologia o gnoseologia – in cui il poetico per sua stessa natura incline al vago ed indefinito, come insegna Leopardi, è votato irrimediabilmente al fallimento – ma da quello di una antropologia delle origini del mondo umano in cui la connessione poetico-fantastico-ingegnoso fonda la correlazione umano-civile-politico. 768 Ibidem. 769 Platone, Repubblica, 607 b.  ! 240!  Come è noto il plesso disegnato da Grassi di metafora-fantasia-ingegno ha un valore teoretico- conoscitivo e solo secondariamente poetico-letterario. Si tratta di facoltà che appartengono a quella topica che sempre precede nella storia del mondo, come in quella dell’individuo, l’operazione mentale della critica, l’arte del giudicare. Memore delle riflessioni vichiane della Scienza Nuova e delle teorie barocche dell’ingenium di Graciàn e Peregrini, Grassi affida all’ingegno la capacità di sintesi e connessione del molteplice empirico fino al punto di farne la caratteristica specifica dell’uomo. E non poteva mancare di sottolinearne l’importanza teorica e pratica presente in Leopardi770. Ingenium come capacità di ritrovare; fantasia come facoltà di visione delle somiglianze; metafora come atto di trasferimento del significato e quindi creazione di una pertinenza semantica – e non come tropo linguistico, sia esso di sostituzione o di comparazione – concorrono a delineare i prolegomeni per un’idea di neo-umanesimo in cui la storicità dell’umano si dispiega tra razionalità e fantasia. Quest’ultima si rivela come facoltà di attivazione di procedure di formalizzazione concettuale, vera e propria facoltà di apprensione del reale attraverso una struttura pato-logica, o un’intelligenza senziente – per usare un’espressione di Zubiri, collega di corso in Germania di Grassi. Essa è il catalizzatore dell’umanizzazione del mondo. Concentrandosi sugli aspetti figurativi, simbolici e semantici del logos Grassi non rinuncia mai tuttavia alla filosofia: la filosofia deve mutare le sue vesti e divenire noetica non più metafisica. “Se l’aspirazione profonda del filosofare tradizionale è di giungere a una chiarificazione logica razionale, oggettiva che parte da un’ontologia che culmina in una metafisica”771, quella di Grassi ha come scopo l’elaborazione di un’idea di nous – dove nous si identifica con ingenium772 – che ha come oggetto il G. Leopardi, Zibaldone, 1 luglio 1821 [1254]. 771 E. Grassi- E. Hidalgo, Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo, Lecce 1991, p. 15. 772 Ivi, p. 20.  ! 241!  reale, “l’ontologia non logica ma situazionale”773 in cui la metamorfosi del mondo non può che trovare espressione in un orizzonte di dicibilità che è metaforico. L’antica lotta tra poeti e filosofi supera la secca alternativa tra un tentativo di purificare la lingua da ogni ridondanza poetica e l’impresa di epurare la theoria dal concetto. Nella prospettiva grassiana l’opposizione può trovare una soluzione attraverso una rinnovata idea di umanesimo contrassegnato da un filosofare che sia pratica esistenziale, non sterile sapere erudito privo di vitalità e utilità. In questa ricerca di un’idea autentica di umanesimo Leopardi riveste un’importanza fondamentale poco sottolineata, a nostro avviso, dalla critica, che si è maggiormente concentrata sul Grassi lettore di Vico e Heidegger. La svolta verso un filosofare noetico non metafisico si poggia su un ripensamento, da un lato, della filosofia – sostituzione della metafisica con l’ontologia non statica ma dinamica, non logica ma situazionale; ripensamento del tema della verità connessa alle sue espressioni storiche – dall’altro, della filologia, che non si riduce a “una mediazione delle opere antiche” ma è una “scienza sperimentale”, una meditazione sull’ essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema della parola. La ricostruzione di un’essenza dell’uomo è al centro anche delle riflessioni del Leopardi grassiano teoreta dell’illusione, il cui significato sociale etico e politico viene ribadito contro un’“Europa tutta civilizzata”774 in cui “la civiltà, la scienza e l’impotenza sono compagne inseparabili”775. Viene in mente il mondo vichiano dominato dalla “boria dei dotti” in cui le forze autentiche dell’uomo, la natura e le illusioni, hanno perduto la loro virtualità politico- fondativa per lasciare spazio ad un sapere chiuso nei limiti del mos geometricus. Siamo di fronte all’idea di tenere insieme linguaggio poetico e linguaggio filosofico come due tensioni inseparabili e irriducibili all’interno dell’unico campo del linguaggio umano che tenta di dire non l’indicibile –  Ivi, p. 30. 774 G. Leopardi, Zibaldone, 24 marzo 1821. 775 Ibidem.  ! 242!  l’indicibile non è altro che una presupposizione del linguaggio – ma il dicibile con cui di volta in volta ci si misura. L’attenzione grassiana verso il poetico, che restituisce le circum-stantiae della res attraverso la molteplicità dei verba, va interpretata come l’ennesimo tentativo di dire la cosa stessa della filosofia, l’autò tò pragma, ciò che è in questione nella parola e nel pensiero, la res che, attraverso la parola e il pensiero, è in gioco fra l’uomo e il mondo. “Così poesia e filosofia stanno l’una accanto all’altra: chi non ha immaginazione, sensibilità, capacità di entusiasmarsi o facilità a vivere belle rappresentazioni illusorie, non conoscerà mai la verità, perché ogni analisi può essere portata avanti solo dove la materia della vita è riccamente delineata. Non si tratta di riconoscere il mondo a posteriori ma di giungere a conoscenza dei principi agenti, dai quali innanzitutto può avere origine ogni mondo, anche quello della filosofia”776. E Leopardi con le sue riflessioni ha insegnato, contro le devastazioni dell’intelletto, questa filosofia dell’esistenza che guarda al phainesthai, all’apparire nel quale viviamo, non con l’occhio della metafisica ma con quello dell’ingegno, l’unico in grado di cogliere “l’appello che ci chiama da questo abisso”777. L’appello dell’origine. E. Grassi, Illusione, natura e critica del mondo intellettuale moderno, cit., p. 172. 777 Id., La metafora inaudita, cit., p. 46.  ! 243!  APPENDICE I Traduzione di E. Grassi Natur, introduzione a W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg, Rowohlt, 1955, pp. 133-138. Il nostro concetto di natura deriva dal termine greco 341*1.!Questa parola proviene dalla radice phy (latino fio, fui, tedesco bin), di cui indica lo sviluppo. La! 341*1 racchiude tutto ciò che nasce e diviene, e così comprende il cosmo nella sua totalità. Noi traduciamo!341*1 con il termine “natura”, dalla espressione latina natura, il cui significato esprime quello della parola greca (nasci, esser nato, crescere, affine a gignere). Secondo l’originario concetto greco ciò che è immediato in quanto cresce è visto come una realtà eccellente; tuttavia occorre ricordare che per i Greci il crescere naturalmente realizza sempre la legge insita ad ogni sostanza. Pertanto sotto il termine natura, come principio del divenire, sarà compresa molto spesso l’essenza di una cosa. Il concetto di natura, la rappresentazione quindi che lo spirito umano si costruisce attraversa una lunga e movimentata storia. La conoscenza dei fenomeni naturali muta e di conseguenza cambia anche la concezione della natura. L’età pre- filosofica della Cosmogonia (sei secoli prima della nascita di Cristo) – cioè l’epoca del dibattito sull’origine del cosmo, del Tutto, è pervasa da rappresentazioni mitiche, in cui già sempre la relazione dell’uomo con la natura gioca un ruolo centrale. Un primo inquadramento non più mitico, ma filosofico del concetto di 341*1, di natura, si ha nell’età antica con la Sofistica (Protagora; Gorgia; Ippia e Prodico, i più giovani contemporanei di Protagora) e la filosofia socratica. Non più l’intera realtà è inclusa in questo concetto ma ora solo un suo settore specifico. Per prima cosa i Sofisti hanno messo in gioco la 341*1 contro il!%$μ$1 (legge), hanno posto il “naturale” solo in ciò che è fissato e posto dall’uomo in sua contrapposizione.!Socrate nel porsi domande di natura etica professa una bassa considerazione per una scienza della natura e vi contrappone l’idea di una scienza dell’uomo. Da una parte c’è dunque la natura, dall’altra l’uomo con la sua cultura: così di conseguenza agli albori del pensiero occidentale si pone già il problema se sia più importante conoscere la natura o l’essenza dell’uomo. Dopo un’importante fase iniziale con gli Atomisti e Platone si arriva al grande progetto ! 244!  finale della filosofia della natura greca con Aristotele. Non posso ora soffermarmi sull’analisi del contenuto di questa dottrina a cui si è fatto cenno. Va però ricordato che le scuole peripatetiche come gli epicurei, gli stoici, i neopitagorici, i neoplatonici, apportarono variazioni che per noi non sono determinanti. La divisione tra Natura e Spirito e quindi l’abisso tra la Fisica, da un lato, e l’Etica e la Logica, dall’altro, si è mantenuta nello Stoicismo e nell’Epicureismo, per quanto lo Stoicismo abbia costituito l’ultimo e unico tentativo di riconciliazione universale di entrambi i regni: una lotta gigantesca ma alla fine inutile. Nel Neoplatonismo alla fine la 341*1 perde del tutto la sua importanza e viene considerata come una realtà irrazionale fondamentalmente nulla. Il pensiero cristiano dei primi Padri della Chiesa adotta parzialmente l’originario concetto platonico aristotelico di natura, per quanto questo suo preciso significato cambi e si perda giacchè la natura intera non viene più concepita in modo classico ma come creazione di Dio a partir dal nulla. Anche se nel Medioevo non c’è uno studio autonomo della natura, tuttavia questa epoca conosce una scienza della natura caratterizzata dalla volontà di conservare l’antica tradizione, soprattutto quella aristotelica. Custodi dell’antica tradizione furono in primo luogo i filosofi e gli scienziati naturalisti dell’Islam. L’apice della scienza della natura medievale in Occidente è rappresentato da Alberto Magno, il quale partendo dal pensiero aristotelico propone un quadro della natura completo ed esauriente. Con l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento sorge una nuova concezione della natura, che per noi è della massima importanza. L’accesso alla natura è cercato soprattutto attraverso l’esperimento – un concetto specificamente moderno che per la prima volta con Leonardo Da Vinci assume una chiara forma teoretica (i suoi scritti più noti sono il Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo). L’esperimento è l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non è possibile conoscere la natura nella sua interezza ma solo quelle parti che si danno nel contesto della teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è dunque correlata all’uomo e alle sue capacità. Al concetto dell’esperimento fondato sulla teoria di Leonardo corrisponde anche la nuova ! 245!  fondamentale teoria di Bacone. Attraverso il suo pensiero emerge un secondo tratto decisivo per la moderna conoscenza della natura. Conoscenza della natura significa soprattutto il suo dominio. Sapere è potere. Quindi si impone un aspetto fondamentale della moderna conoscenza della natura che l’Antichità non conosceva: la tecnica, la sua azione non nel senso di un sapere teoretico ma nel senso di lavoro. Il concetto di esperimento si perfeziona con Galileo Galilei e grazie a lui e a Keplero noi facciamo esperienza del capovolgimento del concetto antico di Universo. Il grande difensore di questo nuovo concetto di natura e di universo fu Giordano Bruno. Con lui si assiste ad un ulteriore allontanamento dal concetto copernicano di mondo: perciò non si tratta solo di contrapporre il nuovo sistema solare al vecchio sistema geocentrico ma di riconoscere che si dà non un solo mondo ma infiniti molti. Nonostante la dovuta brevità (di questa trattazione) qui appare doveroso soffermarmi. Fino all’età moderna il sistema del mondo vigente traeva origine dalla cosmologia aristotelica, era diffuso dagli eruditi alessandrini, da Ipparco e infine rappresentato da Tolomeo. Questo sistema aristotelico-tolemaico vedeva il mondo con approssimazione: la terra cioè giaceva immobile al centro del cosmo. La terra e l’universo hanno una forma sferica. I movimenti del globo sono spiegati ipotizzando l’esistenza di dieci sfere fisse, immateriali e concentriche in cui si trovano le stelle. La più lontana tra queste sfere regge le stelle fisse, le altre i pianeti. Ogni pianeta appartiene ad una sfera particolare: queste gravitano intorno alla terra con i suoi annessi corpi celesti. In contrapposizione a questa immagine del mondo Copernico sostiene nel suo scritto De revolutionibus orbium coelestium libro VI che sia il Sole a trovarsi al centro dell’universo e che la Terra farebbe parte dei pianeti e che questi girano completamente intorno al Sole fisso, muovendosi da ovest verso est. Ha parteggiato per questa visione anche Giordano Bruno non limitandosi solo a considerazioni astronomiche ma soprattutto giungendo alla convinzione filosofica che il mondo non può essere finito. Nella sua opera De la causa, che si confronta con la filosofia tradizionale, Bruno insegna che il tutto non ha né centro né confini. Il mondo che l’uomo conosce diviene così solo uno tra molti altri. Ricordiamo infine solo il decisivo cambiamento del concetto di natura in Kant. Andando avanti il problema della natura si risolve nel problema della sua conoscenza. I fenomeni sensibili, attraverso cui noi facciamo ! 246!  esperienza della natura, si riordinano in noi attraverso le visioni personali dell’uomo (spazio e tempo; categorie). In questo modo poi si dà un sistema della natura che sottostà necessariamente alle pure leggi matematiche e fisiche: l’uomo è il legislatore della natura. Ma di nuovo si presenta il problema dell’uomo e della sua libertà. Essa si autodetermina in opposizione alla natura nella misura in cui oltrepassa la necessità causale. Così la natura si limita alle forme di esperienza dell’uomo e la sua esistenza umana e morale in realtà non rientra più nel suo campo. Lo sviluppo del concetto di natura nella filosofia post-kantiana non potrà essere seguito qui in modo approfondito. Certamente il modo di intendere la conoscenza della natura di Hegel come uno stadio iniziale della filosofia dimostrabile a priori ha contribuito a sollevare in Occidente una reazione da parte del naturalismo empirico con il Positivismo e il materialismo. Tuttavia queste eccessive semplificazioni non hanno avuto lunga durata. In ambito fisico dall’inizio del ventesimo secolo il mondo va di pari passo con la matematica o perlomeno può essere descritto solamente attraverso di essa in maniera appropriata. Ciò rappresenta un fatto determinante. Da un punto di vista prescientifico e immediato la natura quindi si erge nella forma in cui l’uomo la coglie attraverso i suoi organi sensoriali. I sensi dunque restano il meccanismo di osservazione principale ma ora l’uomo nella sua ricerca non se la cava più senza la tecnica. Così a poco a poco il mondo dei fisici si allontana necessariamente dal mondo quotidiano dell’uomo. Appena qualche secolo prima si è guardato alla realtà, a come essa è, al sorgere del sole. In seguito ciò è apparso come un inganno e non possiamo fidarci più dei nostri occhi. Siamo arrivati ad un punto tale che il mondo intero a rigor del vero si è trasformato in un mare di inganni. Scenario dopo scenario noi siamo arrivati a credere di stare davanti ad un ultimo passo dalla realtà su cui scorrono solo ombre di elettroni spettrali e inafferrabili. L’intelletto calcolante ha qui l’ultima parola; il mondo passa dal primo piano della percezione verso lo sfondo del pensiero. L’opera di Heisenberg richiama l’attenzione su questo processo, sulla realtà e sul pericolo in cui l’uomo si trova quando egli risolve la natura nelle strutture del suo pensare e la domina in modo smisurato. Come all’inizio del pensiero occidentale anche oggi per noi permane l’ammonimento di riflettere sull’essenza dell’uomo. ! 247!  APPENDICE II Traduzione di Der italienische Schopenhauer, in Schopenhauer im Denken der Gegenwart, a cura di V. Spierling, München-Zürich, Piper, 1987, pp. 125-138. I. Il Problema Ha un senso, in un volume su Schopenhauer, occuparsi di un altro autore, e precisamente di uno che proviene da una tradizione e da una lingua completamente diverse rispetto a quelle tedesche? Non solo: quest’altro autore è uno dei più grandi poeti del diciannovesimo secolo in Italia, nemmeno è stato filosofo. D’altra parte, quando si ha il coraggio di affrontare un lavoro come questo, non dovrebbe esso essere strutturato nella forma tradizionale, in modo tale che si pongano in luce, da una prospettiva scientifica, i parallelismi e le differenze tra i due autori – e perché no, in maniera strettamente meticolosa – che allo stesso tempo implichi una interpretazione di Schopenhauer? C’è una questione ulteriore: il poeta al quale faccio riferimento qui è particolarmente noto in Germania per le sue affermazioni poetiche e per questo è diventato oggetto di indagine e trattazione prevalentemente nel campo della storia della letteratura. Tuttavia ciò accade non solo in Germania: si tratta di Giacomo Leopardi. Anche in Italia gli viene negato un significato filosofico generale, e Benedetto Croce ha affermato in uno studio su Leopardi che dovremmo rinunciare a vedere in Leopardi “un sommo pensatore, le cui argomentazioni e dottrine trovino luogo nella storia della filosofia [...] ma per questa parte, che è quella filosoficamente fattiva, il Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione e preparazione speculativa”778. Karl Vossler nel suo libro su Leopardi si è riallacciato a questo giudizio779. Questa reazione di Croce non è fortuita: Hegel quasi con le medesime parole si era espresso negativamente sugli umanisti in quanto filosofi, e precisamente con la motivazione che gli umanisti italiani si sono B. Croce, Poesia e non poesia, Bari 1942, p. 98. [B. Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1946, pp. 98-99]. 779 [Grassi si riferisce al testo di K. Vossler, Leopardi (1923), tr. it. di T. Gnoli, Ricciardi, Napoli 1925]. ! 248!   arenati in un pensiero simbolico e non sono giunti fino all’altezza del concetto. Letteralmente vuol dire: “se si spogliano i concetti fondamentali dei sistemi che si presentano all’interno della storia della filosofia di quel tanto che concerne la loro configurazione esteriore, la loro applicazione a ciò che è particolare e simili, allora si perviene ai diversi gradi della determinazione dell’idea entro il suo concetto logico”780. Secondo la concezione di Hegel l’Umanesimo non si accorda in modo adeguato alla coscienza dell’idea, esso permane molto nel mondo della fantasia, dell’arte, conficcato nel mondo della metafora: l’arte è per Hegel, come è noto, una forma insufficiente per rappresentare l’Idea. Qui l’Idea permane nel suo legame concreto sensoriale, ossia si comporta ora solo come Ideale. A causa dell’“incapacità di rappresentare il pensiero in quanto pensiero, l’Umanesimo si avvale di aiuti per esprimersi in forma sensibile”781. Così la filosofia umanistica, secondo Hegel, appartiene a manifestazioni superflue “che offrono alla filosofia poco beneficio”782. Perciò sia in Italia, dove per molto tempo l’idealismo tedesco con Croce e Gentile è stato determinante, sia in Germania, la concezione poetica come espressione del pensiero filosofico è stata condannata nel modo più critico. In un lavoro apparso recentemente783 e in una pubblicazione uscita negli Stati Uniti784 io ho trattato l’intera problematica della tradizione umanistica, alla quale Leopardi appartiene, e ho motivato e sviluppato la valutazione completamente errata della tradizione umanistica – che non parte da una metafisica razionalistica ma dal problema della parola, e precisamente dalla parola metaforica e di conseguenza poetica. Questa discussione verrebbe ad essere la giusta premessa per giungere ad una comprensione filosofica di Leopardi nel suo valore generale. Ma qui si tratta proprio della relazione Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, a cura di H. Glockner, Suttgart 1928, p. 59 [G. W. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 568-569]. 781 Ivi p. 121. 782 Ivi, p. 149. 783 E. Grassi, Einleitung in philosophische Probleme des Humanismus, Wissenschaftlische Buchgesellschaft, Darmstadt 1986 [E. Grassi, La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, a cura di L. Rossi, Tempi moderni, Napoli 1988]. 784 E. Grassi, Heidegger and the question of Renaissance Humanism, Medieval Renaissance Texts and Studies, Binghamton, N. Y. 1983 [E. Grassi, Heidegger e il problema dell’umanesimo, a cura di C. Vasoli, Guida, Npoli 1985].  ! 249!  tra Schopenhauer e Leopardi. Io farò riferimento alle tesi di Leopardi senza discutere il parallelismo e la differenza con Schopenhauer. Gli schopenhaueriani possono prendere i testi di Leopardi come motivo per un confronto tra entrambi. A giustificazione di un metodo di analisi di questo tipo sarebbe determinante una parola di Schopenhauer. Nella scorsa metà del secolo scorso Francesco De Sanctis ha notato per primo in un saggio785 su Schopenhauer e Leopardi la rilevanza filosofica del poeta, ma soprattutto ha contribuito a mettere in circolazione quell’immagine del pessimismo leopardiano, come noi oggi ancora comunemente pensiamo. Schopenhauer si espresse sul saggio di De Sanctis nel modo seguente con il suo amico Lindner: “mi devo stupire molto nel vedere quanto questo italiano (De Sanctis) si sia impossessato della mia filosofia e come l’abbia capita bene. Non fa come i Professori tedeschi, specialmente Erdmann, sunterelli ed estratti dei miei scritti, senza vera comprensione e secondo il numero delle pagine. No, egli li ha convertiti in succum et sanguinem, e li ha sulle punte delle dita per adoperarli dove occorre”786. Io qui strutturerò i livelli di pensiero di Leopardi in modo che gli specialisti di Schopenhauer possano discutere la questione delle affinità e diversità tra i due autori. Innanzitutto perché è possibile accostarsi a Schopenhauer anche da un’altra prospettiva, diversa rispetto a quella tradizionale che si trasmette con Kant e l’idealismo tedesco. I temi di Leopardi – il rigetto della priorità della ragione, la natura, l’analisi della noia, il significato filosofico delle passioni, l’illusione, la mania – sono gli stessi di Schopenhauer. Grassi si riferisce al saggio desanctisiano in forma di dialogo Schopenhauer e Leopardi che trae origine dalla lettura da parte di Francesco De Sanctis dell’opera di Schopenhauer all’inizio del 1858. Il saggio di De Sanctis appare in “Rivista contemporanea”, VI (1858), Vol. XV, pp. 369-408 e confluisce in Saggi critici (1874). Cfr., F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, pp. 417-467, in Id., Leopardi, a cura di C. Muscetta-A. Perna, Einaudi, Torino 1983. 786 GBr, Nr. 454, p. 447 [Lettera di Schopenhauer a Lindner del 23 febbraio 1859, in A. Schopenhauer, Colloqui, a cura di A. Verrecchia, Bur, Milano 2010, p. 267, nota 220].  ! 250!  I passi di prosa che ora prenderò in esame provengono dal cosiddetto Zibaldone, una raccolta di pensieri e annotazioni. Esso non era destinato alla pubblicazione nella forma in cui oggi si presenta il testo originale, nonostante Leopardi lo avesse progettato, per quanto ne sappiamo, per pubblicarlo in dieci volumi. Lo Zibaldone è un’opera molto voluminosa: consta di un manoscritto di 4526 pagine. Le annotazioni cominciano a luglio o agosto del 1817 e terminano il 4 dicembre del 1832. La prima edizione apparve nel 1898 e fu pubblicata da Giosuè Carducci con commento critico e filologico con il titolo di “Pensieri di varia filosofia e letteratura” (un titolo che era tratto da un’indicazione di Leopardi). La seconda versione migliorata, che si accorda a questa traduzione787, appare negli anni Trenta: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, 2 volumi, Milano 1938. Io cito dalla traduzione tedesca di K. J. Partsch. Il punto di partenza della riflessione di Leopardi è il contrasto tra la ragione e ciò che egli ha chiamato natura, criticando in tale contesto ogni filosofia che creda di decifrare la realtà sulla base di principi razionali e perciò tutto ciò che ha a che fare con i sensi e le passioni, tutto ciò che è metaforico, lo rifiuta nel suo significato filosofico. In generale questa tradizione concede solo ciò che noi possiamo dimostrare e dimostrare significa mostrare e determinare qualcosa sulla base di un fondamento, di un assioma, di un principio. “E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza che par tutta consistere nell’uso intero della ragione”788. Ogni vita umana ordinata e fruttuosa sembra realizzarsi solo sulla base di fondamento e dimostrazione. Soltanto in questo modo si ritiene di poter prevedere anche l’avvenire in generale per poterlo deviare e per potersi mettere a riparo da esso. Da questo punto di vista l’imprevisto, l’improvviso, il sorprendente, non solo non vengono presi in considerazione ma cancellati, allorché Grassi fa riferimento alla traduzione di Partsch Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit, Ausgewahlt, geordnet und eingeleitet von E. Grassi, aus dem italienischen übertragen von K. J. Partsch, Bern, Francke 1949. 788 G. Leopardi, Zibaldone, 20 gennaio 1820. ! 251!   si manifestano, e giudicati alla stregua di un fallimento delle nostre forze umane e razionali, delle nostre conoscenze, dei nostri desideri di sicurezza e certezza. Ora da questo emerge che l’esistenza umana deve scaturire solo attraverso una certezza sicura e razionale e che tutti i momenti della vita sociale, politica e spirituale devono derivare da un fondamento di tal sorta: perciò poi anche l’insegnamento e l’educazione devono non solo chiarire i fondamenti originari dai quali noi deriviamo le nostre azioni, ma anche prestabilire tutte le possibilità. Invece Leopardi adduce come argomento (il seguente): “e pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli”789. “ Ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dire la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce”790. Partendo dalla tesi della priorità del pensiero razionale, ogni passione, ogni impulso, viene considerato in realtà come un momento da oltrepassare, come un momento che deve essere corretto o annientato. Di conseguenza la conclusione dell’importanza del prevedibile, del sicuro, del giudizio divengono gli ideali a cui poi ci si abbandona: la stessa vita politica, lo Stato, se assicura la vita umana e vuole contribuire al suo sviluppo, deve partire da un’impostazione del genere e attuarla. Una simile concezione della vita, che si prova a dedurre more geometrico, corrisponde a una tradizione razionalistica contro cui Leopardi assume una posizione, che analizza progressivamente per mostrarla come causa delle rovine del mondo occidentale. Ma una concezione di questo tipo non è apparsa e si è realizzata proprio in precise forme di Stato, di insegnamento, di sapere quando ci si è allontanati già dall’originaria fonte della vita? Come è considerato l’esito della priorità della ragione da un punto di vista sociale, politico? “Anche nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principi, nei costumi, nel vizio, nell’egoismo etc...Sono tutti uguali e tutti separati, laddove autenticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti alle grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli”791. In un mondo razionalizzato ogni elemento nuovo, originario, indeducibile e non anticipatamente dimostrabile e sicuro non ha nessuna possibilità. In ogni forma già razionalizzata di vita sociale, politica o culturale nulla di imprevisto può irrompere senza far saltare il contesto esistente. Ma dunque cosa bisogna opporre alla ragione? La natura forse, l’affermazione delle passioni? “La superiorità della natura sulla ragione si dimostra anche in questo che non si fa mai cosa con calore che si faccia per ragione e non per passione”792. Per Leopardi i concetti di natura e passione collimano: di che natura è il loro rapporto profondo e da ciò come emerge una comprensione della loro essenza? “ La ragione è nemica di ogni grandezza: la ragione è nemica della natura”793. “ Qual cosa è più potente nell’uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai né pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda né vive con se stesso (se anche vivesse con gli altri) da vero filosofo”794.  In che cosa risiede la potenza, la capacità della natura con cui possiamo riconoscerla con certezza? A questa domanda noi riceviamo da Leopardi soprattutto una risposta negativa. Da cosa scaturisce l’esperienza profonda del nulla, di cui l’autore italiano si occupa così sistematicamente, e in che misura essa getta luce sui concetti di natura, vita, che egli pone contro la ragione? La profonda esperienza del nulla appare, secondo Leopardi, non nel dolore, non nella disperazione, momenti, questi, che mantengono tutti ancora viva la testimonianza dei valori, ma nella noia. Essa è il contrario della vita, pertanto ad essa non possiamo abituarci. Così afferma Leopardi che la noia è l’esperienza del monotono, dell’indifferente, dell’apatico, che quindi sopraggiunge quando si attenua la capacità di distinguere qualcosa “Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è meraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale [...] del resto l’odio della noia è uno di quei tanti effetti dell’amor della vita [...] e l’uomo odia la noia per la stesa ragione per cui odia la morte, cioè la non esistenza”795. Così la noia scopre dalla sua essenza un’insolita, fenomenologica, molto importante incomprensibilità: nel suo patire deve determinarsi come una passione. Noi possiamo vivere e esperire l’indifferente, l’apatico, il monotono solo se si manifesta in modo limitato e la noia, se ne facciamo esperienza, ci rivela che non possiamo esistere nello sconfinato e nell’indifferenziato. “La noia corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli anni dei viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto cioè lo stato di indifferenza e senza passione non si dà in esso animo, come non si dava in natura [...] o vogliamo dire che il vuoto stesso dell’animo umano e l’indifferenza e la mancanza d’ogni passione è noia, la quale è pure passione”796. La noia fa parte di quei sentimenti deprimenti attraverso i quali si manifesta il declino della vita così silenziosamente e senza emozione. Essa non ha nulla di eroico, è come uno stato d’animo opposto alla natura, poiché in essa ogni disperazione è già apatica. Secondo l’opinione di Leopardi in ciò risiede l’essenza della moderna esperienza del dolore che non ha nulla più di vitale. Si tratta di un’autodistruzione in una perdita di suoni e parole che si muovono in un silenzio disumano, in cui né odio né speranza, né tantomeno interesse e partecipazione sono presenti: è l’ultimo stato in cui si manifesta il naufragio di una cultura, di una classe sociale. Al suo posto la natura si mostra nella potenza della passione: affermazione, dunque, della passione contro la priorità del razionale? Prima di rispondere insieme a Leopardi a questa domanda occorre discutere la funzione e il potere della passione: “le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma qual dolore ha più della vita, anzi massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è sepolcrale, senz’azione, senza movimento, senza calore e quasi senza dolore, ma piuttosto come un’oppressione smisurata e un accoramento”797. “Ma gli antichi sempre più grandi, magnanimi e forti di noi nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse e della forza invincibile che li rendeva infelici, e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato”798. Secondo l’interpretazione di Leopardi gli antichi soffrivano, poiché credevano nella vita, perché la sentivano come un valore; quanto meno ci rinunciavano tanto più l’affermavano nella disperazione. Si tratta del dolore di Niobe, per il quale non si danno nessun sollievo, nessuna assuefazione. E dal momento che per gli antichi la disperazione è allo stesso tempo un’affermazione della vita, così nel loro animo nasceva l’odio, si accresceva attraverso il dolore la loro immaginazione, traducendosi in azione, presentandosi nei miti, i quali non hanno conosciuto ancora nessun sentimentalismo. “Così importanti stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano I dei in comunione della nostra via e dei nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed imprese, come i nostri simili, non dubitando che elle non fossero degne della invidia degl’immortali”799. Da questo punto di vista la vita in ogni suo stadio, sia sensibile che spirituale, non attinge a ciò che è sicuro, sperimentato, calcolabile, non attinge alla certezza razionale e dimostrabile, bensì all’ambito del creativo, dell’imprevedibile, dell’abissale: la prima possibilità dell’esperienza sorge da qui. Se noi oscilliamo continuamente tra successo e fallimento, se inoltre siamo disposti alla realizzazione delle nostre capacità, allora qui si radica la nostra autoaffermazione, che nuovamente richiama l’attenzione all’appello oggettivo e trascendentale a cui dobbiamo corrispondere. Leopardi pone l’attenzione sul fatto che tutte le grandi imprese oltrepassano l’ordine esistente e consueto, infatti dal momento che istituiscono qualcosa di nuovo non possono essere dedotte dal già noto. Già nella vita quotidiana appare impossibile vivere in modo puramente razionale e prevedibile. Gli stessi sentimenti più naturali si mostrano come qualcosa di infondato. Ogni cosa feconda non è mai deducibile e calcolabile: da ciò proviene la priorità storica che i popoli naturalmente rivestono, poiché su di essi agiscono le passioni, ciò che è originario, solamente essi, per questo motivo, trionfano sempre su quei popoli che sono dominati dal razionale. La natura, nel suo significato già spiegato, vive e si fa largo. Solo essa suscita tutte le passioni possibili, solo essa desta i sentimenti naturali che mostrano l’inaspettato. Così Leopardi passa alla descrizione e approvazione delle passioni del mondo antico. Allora quelle forze imperanti fanno tutte parte dell’imprevedibile, di ciò che non è razionalmente deducibile. Si tratta di quelle capacità di mostrare il nuovo sotto forma di immagine, di linguaggio, di azioni, di miti. Quegli stessi esercizi fisici, le lotte, le competizioni sportive e le cerimonie favoriscono la fantasia, destano i miti che non sono il “vero” ma celano in sé il significato dell’esistenza. “Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o a eccitare l’amor della gloria ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole, insomma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle nazioni”800. “Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e vive umanamente cioè abitate o formate di essere uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni, e i silvani e Pane etc..., entrandoci e vedendoci tutto solitudine, pur credevi tutto abitato”801. IV. L’Illusione Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguita però a  Ivi, 7 giugno 1820. 801 Ivi, p. 100.  ! 257!  dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...] le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato”802. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era allora”803. Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non  Ivi, p. 34. 803 Ivi, p. 96.  ! 258!  mette in piedi una indeterminata dottrina dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante. “L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda”804. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la “scena” della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni  Ivi, 24 marzo 1821.  ! 259!  grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante, e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e svela il pezzo di “scena” in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per la storia dei singoli. “La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile [...] le illusioni sono in natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato”805. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in cui l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella di fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso, dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò  Ivi, p. 34.  ! 260!  che è sempre uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi parte in qualità di critico del mondo moderno. “ E’ pure una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era allora”806. Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata dottrina dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante. “L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non ragionate, e grandi illusioni, i  806 Ivi, p. 96.  ! 261!  popoli civili saranno lor preda”807. “Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nella passata età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torniamo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri”808. Attraverso la lettura dei passi leopardiani da me indicati sorge una serie di domande riguardo al problema del pessimismo di Schopenhauer: la conoscenza dell’illusione, dell’ossessione, quale fonte della storia umana, è tragica dal momento che questa potenza, che fonda l’accadere storico dell’uomo, non si può definire razionalmente, cioè conoscere in quanto abissale? Oppure: la conoscenza dell’illusione è tragica per questo, poiché è l’illusione e non la razionalità, secondo la tesi di Leopardi, quella potenza che lascia apparire e scomparire il mondo, e perché questa forza trainante misteriosa ha solo riguardo per lo svolgersi delle più diverse storie, ma nessun interesse per il destino dell’individuo, quando egli gioca e soffre il suo ruolo in questo dramma? Dunque l’illusione è solo un’astuzia con cui l’Abissale conduce l’uomo verso il teatro del mondo? Dove risiede allora l’essenziale identità o differenza tra la teoria dell’illusione di uno Schopenhauer e quella di Leopardi? La formulazione e la risposta a queste domande si discostano radicalmente dall’analisi del pensiero di Schopenhauer, così come tradizionalmente viene eseguita, quando si parte da Kant e dall’Idealismo tedesco per intendere Schopenhauer. Per me era profondamente importante qui mostrare il significato della teoria dell’illusione – che gioca un ruolo così profondo in Schopenhauer – alla luce di una prospettiva completamente diversa e poterne discutere.  Ivi, 24 marzo 1821. 808 Ivi, 18-20 agosto 1820.  ! 262!  APPENDICE III Traduzione di Vom Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, München, Beck, 1939, pp. 218. La ricerca della verità: il fondamento oggettivistico della verità, pp. 37-43. Oggetto di indagine filosofica è la questione relativa alla preminenza del Logos. L’inquadramento del problema e una definizione più veritiera possibile dell’essenza del Logos sono questioni che vanno però inevitabilmente rimandate ad un momento successivo. Ogni indagine filosofica rappresenta in sé una ricerca della verità che parte da un qualcosa di preesistente che in quanto tale presuppone già un determinato concetto di verità. Dal momento che però la filosofia non può presupporre nulla a priori, diventa necessario definire in maniera univoca il concetto di verità. Ma com’è possibile intraprendere un’indagine filosofica partendo da un determinato concetto di verità, se evidentemente questo non può che essere il risultato di una lunga e complessa ricerca? E se la filosofia non può presupporre nulla come sarà mai possibile verificare se il concetto di verità così com’è concepito corrisponde al vero? All’inizio di ogni indagine filosofica ci si ritrova sempre a dover affrontare quella che si rivela essere la difficoltà principale ossia la ricerca della verità presuppone che si conosca già la verità altrimenti come sarebbe possibile riconoscerla? In un suo dialogo Platone enuncia in maniera precisa questa aporia sottolineandone i tre momenti principali ovvero la possibilità dell’indagine, la possibilità del prefiggersi un qualcosa e la possibilità del riconoscere la verità che presuppongono già di per sé una conoscenza della verità. “Come potrai mai cercare una cosa che non conosci e cosa di ciò che non conosci ti prefiggerai di ricercare? E nel caso dovessi imbatterti in esso come riuscirai ad accorgerti che si tratta proprio di ciò che non conosci?”. Tuttavia ammettendo che la ricerca della verità presupponga, per poter aspirare ad essa, già una conoscenza, ciò ci conduce inevitabilmente di fronte a una seconda difficoltà ossia l’indagine filosofica appare superflua. Per quale motivo si dovrebbe cercare qualcosa che già si conosce? Questa riflessione sembra frenare sin dall'inizio qualsiasi indagine. Ma andando ad analizzare la questione più nel dettaglio ci si accorge ! 263!  immediatamente che essa in realtà fornisce già una prima indicazione utile (nell’individuazione del) concetto di verità al quale riferirsi nella ricerca: a quello che rende possibile l’indagine come punto di partenza e giusto approccio filosofico. L’aporia non riguarda la verità in sé ma solo una determinata concezione di essa. Quale? All’essenza dell’indagine appartiene tutto ciò che ricerchiamo e che in un certo senso è già esistente e non esistente. L’impossibilità che qualcosa allo stesso tempo sia e non sia è valida però per tutto ciò che è Ente e che ricade sotto il principio dell’identità: questo principio è applicabile sono ad un determinato ambito dell’Ente ovvero laddove esso in quanto oggetto dell’indagine venga concepito in maniera oggettivistica. Il principio dell’Identità non è applicabile al Divenire poiché in quanto tale esso ha già la caratteristica di poter essere e non essere. Da ciò si evince dunque che se il fondamento della verità viene identificato con l’immediata e concreta semplice-presenza di un qualcosa, la possibilità della ricerca viene meno. L’oggetto ha dunque solo due possibilità: la semplice-presenza e la non-presenza. Un tale fondamento della verità non ammette indagine e l’aporia si rivela come un qualcosa che non va ad interessare tutte le definizioni di verità ma bensì solo una determinata concezione di essa. Ma qual è da un punto di vista storico in generale la concezione di verità che nell’immediatezza della semplice-presenza di un oggetto ne vede il proprio fondamento? È quella concezione di verità che tradizionalmente per analogia accettiamo come valida in quanto afferma che la verità è verità logica essenziale e che in quanto tale appartiene solo al pensiero inteso come pensiero dell’Essere sia nella forma di oggetto razionale, come le idee di Platone, che in quella di oggetto sensoriale come nell’espressione dei sensi (secondo l’interpretazione di Aristotele). Il congiungere, l’atto di unire del pensiero, che si esprime nella concezione di unità come connexio di soggetto e predicato, il giudicare, sono veri nel momento in cui uniscono o separano ciò che si appartiene o non si appartiene, così com’è nell'Essere. In primo luogo è doveroso sottolineare che sulla base di una tale concezione il fondamento della verità appare innanzitutto come l’immediato manifestarsi dell'Essere in quanto oggetto; in secondo luogo che il fondamento della verità del pensiero non si trova nel pensiero stesso ma al di fuori di esso e che per questo la preminenza del Logos come pensiero viene negata; in terzo luogo che la definizione del fondamento della verità ! 264!  in una tale concezione deve essere necessariamente caratterizzata in maniera oggettivistica, indipendentemente dal fatto che si tratti di un fondamento empiristico o razionalistico. L’interrogativo circa il dove storicamente questa concezione si presenti realmente, sotto questa forma, resta dunque ancora da sciogliere. La semplice-presenza come verità dell'Oggettivismo Analizziamo ora in maniera più approfondita la concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come della conoscenza) per verificare se essa effettivamente ha ciò che rivendica. La concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come della conoscenza) si richiama all’immediato manifestarsi di un qualcosa, alla sua semplice-presenza. Il fondamento del rivelarsi nel presente di un qualcosa non si cela però, in una tale concezione, dietro il concetto di semplice-presenza in sé ma consegue da esso, è l’oggetto, il Faktum empiristico o razionale. La contraddizione tipica di questa asserzione è che l’essenziale non viene identificato con il manifestarsi dell’oggetto ma bensì con l’Essere-per-sé, che viene prima dell’apparire, ma allo stesso tempo si richiama alla sua immediata semplice-presenza per poter affermare il suo Essere. Se per poter superare questa difficoltà si identifica il fondamento concreto della verità con la semplice-presenza del manifestarsi di un qualcosa, con il quale esso dovrebbe essere raggiungibile (volendo comunque mantenere ancora l’Essere-per-sè dell’oggetto), l’Essere-per-sè dell’oggetto diventa in questo modo irraggiungibile e indefinibile. Dal momento che in questo caso considereremmo l’oggetto solo fino a che esso continui a rivelarsi in e attraverso una qualsiasi semplice-presenza, non avremmo più alcuna possibilità di fare riferimento al suo Essere-per-sé, e ciò che appariva solo come un processo di appropriazione, ossia mediazione intenzionale della semplice-presenza, diviene il fondamento per il quale un qualcosa può rivelarsi in quanto tale. Hegel respinge questo concetto dualistico tra l’oggetto e il processo dell’apparire inteso come mediazione intenzionale affermando, con la terminologia che gli è propria e che deriva dalla questione al superamento del dualismo teorico-conoscitivo dell’Essere-per-sé e dell’Essere-per-noi, che: “se il conoscere è lo strumento per potersi impossessare dell’essenza assoluta allora è altrettanto evidente come l’utilizzo di uno strumento su un oggetto non lo lasci ! 265!  inalterato ovvero così come esso è per sé stesso ma bensì porti con sé una forma e dei cambiamenti. Altrimenti il conoscere non sarebbe più strumento della nostra attività ma bensì, per così dire, un mezzo passivo attraverso il quale la luce della verità può arrivare a noi, non così com’è in sé stessa ma così com’è attraverso e in un mezzo. Appare dunque chiaro che solo mediante la conoscenza del funzionamento dello strumento si può porre rimedio a questi inconvenienti; poiché tale conoscenza rende possibile escludere da ciò che si ottiene quella parte di definizione che a partire dall’assoluto deriva dall’uso dello strumento e conservarne così solo il Vero puro. Basterebbe questo miglioramento a riportarci nella condizione in cui ci trovavamo in precedenza. Se a una cosa già formata togliamo di nuovo l’effetto che su di essa ha avuto lo strumento, quella cosa, qui l’Assoluto, tornerà a noi così com’era prima di tale superflua premura”. Il fondamento oggettivistico della verità appare dunque falso. Ma se esso non è in grado di spiegare la verità può almeno spiegare la possibilità dell’errore? Come può però un oggetto, così come è stata considerata anche la sua essenza, essere preso per un altro se esso si manifesta solo nell’immediatezza? Questo vale sia per una concezione empiristico-oggettivistica del fondamento del manifestarsi sia per una razionalistico-oggettivistica. In effetti se un qualunque manifestarsi di un qualcosa viene considerato immediato sarà altrettanto necessario considerare immediata, e dunque come un qualcosa di non-presente, la sua velatezza. Per questo motivo non può esserci un passaggio intermedio tra velatezza e manifestazione, e per velatezza va intesa solamente quella di un oggetto, come quella di un qualcosa di immediato che supera la nostra ricerca della verità. Non si può superare questa difficoltà nemmeno affermando di voler passare dalla non-conoscenza alla conoscenza, basandosi solo sulla porzione di verità che si conosce e che può far cadere in errore dal momento che si può confondere ciò che si conosce con ciò che non si conosce. Per questo per la “restante” porzione di verità che non si conosce resta valida l’originaria aporia che riguarda il ricercare. Non possiamo né ricercare ciò che non conosciamo né cadere in errore confondendo ciò che non conosciamo con qualcosa che conosciamo o con qualcos’altro che non conosciamo. L’aspirazione al raggiungimento della verità e l’errore vengono considerati attraverso la concezione del fondamento della conoscenza come un qualcosa di immediato, ! 266!  oggettuale, simile a un’illusione e ridotto ad un niente. In quest’ottica appare anche impossibile un passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza. Il processo come fondamento del manifestarsi di qualcosa È necessario dunque sottolineare che due momenti, quello della possibilità della ricerca della verità e quello della possibilità dell’errore, sono da considerare come i criteri in base ai quali poter riconoscere quella verità che cerchiamo. L’interrogativo circa il fondamento della verità può essere genericamente definito come l’interrogativo sul fondamento del manifestarsi di un qualcosa e che in quanto tale sin dall’inizio non può essere considerato come immediato e oggettuale in quanto una qualsiasi immediatezza oggettivistica non consentirebbe la definizione di un tale rivelarsi che invece qui deve essere oggetto di indagine filosofica: quel manifestarsi che rende possibile la ricerca. La questione della verità resta dunque identificata con l’interrogativo circa l’essenza del manifestarsi di qualcosa. Attraverso ciò appare subito chiaro come il ricercato fondamento del concetto più veritiero possibile di verità sia da trovare mediante un processo assoluto: questo processo deve coincidere in origine con il rivelarsi di qualcosa, di ciò a cui aspiriamo. Se tale processo del manifestarsi si basasse su qualcos’altro al di fuori di esso si verificherebbero nuovamente le difficoltà già esposte in maniera esauriente. Nel caso in cui il fondamento del manifestarsi di qualcosa mettesse radici in un processo, in un divenire, in un avere e non avere, bisognerebbe ammettere che ciò che ci appare ci appartiene dalle origini e allo stesso tempo è celato in noi. Il processo del manifestarsi deve quindi contemplare anche la possibilità del celarsi e dello scoprirsi: il processo del manifestarsi, e dunque qualcosa di non ancora divenuto ma in divenire, è il primo originario. Dal momento che però il manifestarsi di qualcosa non è un qualcosa che va al di là del processo ma è contenuto in esso, il processo stesso e quindi il fondamento del manifestarsi non sono che una lotta per quello che si cela in noi, un ritorno a ciò che abbiamo già, un tentativo di scoprire ciò che è celato. Solo attraverso la vittoria in questa lotta e la conquista di un qualcosa che già ci apparteneva si genera la possibilità della conoscenza, del riconoscere qualcosa da un qualcos’altro, che può diventare la prima ragione di qualsiasi ulteriore affermazione della verità. Da notare che nella logica tradizionale l’essenza della ! 267!  verità è stata ricercata nel Logos, nel pensiero come pensato e dunque oggetto, e analizzata nelle sue forme e nelle sue manifestazioni. L’oggettivismo di una tale concezione si mostra qui in una doppia veste: il fondamento della verità viene visto come l’oggettivistico e immediato manifestarsi di un qualcosa e la verità stessa ricercata nel pensiero come oggetto e nelle forme del pensato. Appare dunque evidente che qualsiasi tentativo di ricercare in qualcosa di oggettuale, anche se è soltanto nel pensiero come pensato, il fondamento e le forme della verità fallirebbe nel suo obiettivo sin dall’inizio dal momento che tutto ciò che è oggettuale non potrà mai essere il fondamento originario del rivelarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro. Allo stesso modo ogni tentativo di trovare una logica del pensato che consideri il pensiero solo come oggetto si rivelerà fallimentare in quanto tale logica non va a ricercare l’essenza della verità nell’ambito originario di un processo o di un atto, nel quale soltanto qualcosa può apparire in quanto tale e dal quale può prendere origine la verità oggettuale. Avendo così la logica tradizionale studiato la verità nel pensiero inteso come pensato, come oggetto nelle sue svariate forme, ed essendo partita da un tale presupposto per la definizione del problema teoretico-conoscitivo, motivo per il quale si è potuto identificare il pensiero come momento di conoscenza dall’Essere, non ci si è più interrogati circa la forma originaria della verità. L’interrogativo iniziale su come un qualcosa possa essere fondamento della verità di qualcos’altro viene sostituito dall’interrogativo sulle forme del pensiero. Per ciò che riguarda in particolare la definizione del problema da un punto di vista teoretico-conoscitivo, dal confronto tra due pensati, l’Essere-per-sé e l’Essere-per-noi, per i quali resta valido sempre e soltanto l’identità come principio dell’Ente oggettuale, appare evidente che mai si potrà ottenere la verità come processo del passaggio dall’uno all’altro. ! Differenza ontologica e disposizione d’animo, pp. 52-58 Non dobbiamo perdere di vista il filo conduttore della nostra indagine. Siamo venuti a conoscenza di un elemento fondamentale ossia che il problema della verità può essere inteso solamente come ricerca del fondamento del manifestarsi e che ciò non deve essere inteso come strettamente oggettuale. ! 268!  Attraverso ciò siamo poi giunti alla definizione del problema del Logos: il fondamento del manifestarsi può essere interpretato unicamente come un processo o un atto che non è altro che unità, congiunzione, leghein come veniva definito dai greci sulla base del significato originario del termine. La questione circa la preminenza del Logos deve essere impostata in modo che né il manifestarsi in sé né le sue forme, così come l’atto originario dell’unire, del congiungere, del completare, possano essere predeterminati. Va verificato se il concetto di svelatezza di Heidegger si celi in una tale concezione del Logos o se, come sembra, il processo originario, per mezzo del quale l’Essere si manifesta e dal quale deriva il problema metafisico, affondi le proprie radici nell’irrazionale, nell’illogico, nell’immediato. Così dicendo si potrebbe pensare che Heidegger neghi la preminenza del Logos soprattutto se in tale contesto si richiama alla mente il suo tanto auspicato tentativo di superamento della preminenza della logica così come le sue asserzioni circa la derivazione del problema metafisico dalla disposizione d’animo. Per giungere alla corretta interpretazione del pensiero di Heidegger bisogna innanzitutto chiedersi cosa si intenda con il fenomeno della disposizione d’animo e se esso sia qualcosa di illogico o se abbia origine in un atto, in un processo del leghein (come unità, legame originario). Nella disposizione d’animo, nella paura si genera, secondo Heidegger, il manifestarsi dell’Essere rispetto all’Ente. Ciascun Ente per poter essere riconosciuto come tale e dunque nel suo Essere, deve già essere manifesto in tale Essere. Questa svelatezza dell’Essere, secondo Heidegger, non è che un separarsi dal nulla e ciò si compie nella disposizione d’animo. Questa primordiale disposizione d’animo deve essere dunque intesa come momento determinante del processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza? Tale processo è fondamentalmente trascendenza, elevazione dell’Ente a totalità che attraverso di esso giunge a palesarsi, alla svelatezza: il dispiegarsi di questa radice originaria come processo contiene in sé già la possibilità dell’interrogarsi, del perché: poiché la svelatezza è processuale ed è possibile per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-Essere essa procede per interrogativi. Così si delinea il problema seguente: su che cosa si fondano la trascendenza, la disposizione d’animo e la possibilità del perché? Heidegger prende come punto di partenza per affrontare questo problema ! 269!  innanzitutto la definizione tradizionale di verità che si orienta alla proposizione, alla connexio tra soggetto e predicato. Questa a sua volta rimanda al fondamento e alla ragione. Per tale motivo il problema della verità è strettamente legato a quello della ragione. La verità della proposizione (anche verità ontologica) non consente però la comprensione dell’Essere dall’Ente ed essa stessa è possibile unicamente sulla base di una svelatezza originaria, definita come verità ontica, una verità sulla base della quale l’Identità o la Non-Identità di soggetto e predicato possono essere riconosciute. La stessa verità ontica si fonda nell’affettività istintiva che è legata dunque alla disposizione d’animo, nell’agire intenzionale che aspira all’Ente; questa non può però essere mai originariamente accessibile all’Ente se prima non c’è stata una comprensione dell’Essere dall’Ente. La verità ontologica e la verità ontica affondano dunque le loro radici in una verità pre-ontologica la cui natura resta ancora da definire. Heidegger sottolinea come tra la comprensione dell’Essere pre-ontologica e l’espressa problematica dell’afferrare la concezione di Essere vi siano diversi passaggi che possono già fornirci un esempio di una qualsiasi precomprensione dell’Essere originaria. Ad esempio i principi basilari delle singole scienze, come ad esempio il fondamento del domandarsi che è proprio ad ognuna di esse, indicano e delimitano un determinato campo come ambito di una possibile oggettivazione attraverso la conoscenza scientifica, senza essere loro stessi oggetto di indagine scientifica. Questo concepire, che è proprio dei principi basilari delle singole scienze, per la prima volta apre il cammino verso l’indagine e dal momento che esso stesso non è oggetto di indagine presuppone una determinata precomprensione dell’essere rispetto all’Ente. Una domanda sorge quindi spontanea: come va intesa l’originaria comprensione dell’Essere rispetto all'Ente, che è ciò che rende possibile ogni comportamento all’Ente (e quindi l’originaria pre-comprensione)? Questo interrogativo assume un’importanza fondamentale dal momento che se la disposizione d’animo dipende da un modo di riferirsi all’Ente ed è un ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente, allora con la risposta all’interrogativo sull’essenza di una qualsiasi pre-comprensione, che è ciò che consente qualsiasi comportamento all’Ente, dobbiamo necessariamente ottenere anche lo scioglimento della questione dell’essenza della disposizione d’animo e dunque dell’origine pre-ontologica della svelatezza rispetto all’Ente. ! 270!  Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dall’Ente è sempre tale del suo Essere; per questo motivo né l’Essere né l’Ente sono separabili l’uno dall’altro in quanto l’Ente può manifestarsi tale solo grazie al manifestarsi dell’Essere e viceversa. Questo legame intrinseco tra unità (dell’essere) e molteplicità (dell’ente) può essere concepito solo come processo, come atto e per questo come realizzarsi dell’unità attraverso la congiunzione e la separazione. Tale atto inteso come fondamento della svelatezza è la differenza ontologica, laddove essa non si determina precedentemente o successivamente al manifestarsi di un qualsiasi atto ma bensì nel suo compimento. Heidegger dichiara che “la così definita e necessaria sdoppiata essenza ontico-ontologica della verità è possibile solo in unione con l’affermarsi di tale distinzione”. Da ciò si evince innanzitutto che il fondamento della svelatezza si presenta come atto e poi che Heidegger definisce tale atto come Logos, come leghein in senso più ampio, poiché afferma, facendo riferimento alla pre-comprensione originaria dell’Essere dell’Ente, che esso è “tutto l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere in senso ampio”. Il fondamento della svelatezza, che dunque rende possibile ogni comportamento all’Ente (verità pre-ontologica che è così fondamento della verità ontica e ontologica e disposizione d’animo laddove essa è intesa come ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente) è Logos ma non inteso in senso tradizionale come atto del pensiero che si deve necessariamente basare su un’originaria semplice-presenza dell’Ente; nemmeno come definizione di una verità logica che deriva da un’indagine del pensiero come oggetto, bensì come processo del ricongiungere e del separare, processo del distinguere come un venire-alla-luce. Il manifestarsi di un qualcosa rispetto a qualcos’altro affonda dunque le proprie radici in un qualsiasi atto originario. Il fondamento della verità può essere realmente inteso come “svelatezza” e tale termine mantiene il suo significato metafisico e logico e si contrappone a una concezione della verità (“come equivalenza”), il cui fondamento è un qualcosa di imminente e oggettuale. Come si pone questa concezione rispetto alla precedente convinzione secondo cui la svelatezza dell’Essere dall’Ente trovava origine nella disposizione d’animo e come si collega ciò alla differenza ontologica? Abbiamo osservato come la differenza ontologica quale fondamento della svelatezza dell’Essere ! 271!  rispetto all’Ente non sia che trascendenza: ma cosa dobbiamo intendere qui con trascendenza? Se si verifica lo svelarsi di un qualcosa in seguito a un processo, a un atto del distinguere, tra la differenza ontologica dell’Essere e dell’Ente, l'essenza di un qualsiasi atto deve essere necessariamente trascendenza in quanto in esso prevale già ciò che si svela. Per questa ragione anche una qualsiasi trascendenza è in origine fondazione e fondamento di tutto l’apparire che non può essere considerato separatamente da esso ma che è bensì ciò che lo rende possibile. L’atto della differenza ontologica, che a seconda della sua essenza porta l’Ente alla svelatezza, è svelatezza di una molteplicità (dell’ente) contenuta in un’unità, in un mondo, in un ordine, in un cosmo. L’Esserci trascende, ovvero è nell’essenza del suo Essere di formare il mondo. Il mondo, come sottolinea Heidegger, non è dunque inteso come totalità degli Enti esistenti, ai quali tra l’altro appartiene anche l’Esserci, ma bensì come la totalità degli Enti in cui e per cui anche l’Esserci è comprensibile. Dal momento che se ciò che si manifesta non precede o segue immediatamente un atto originario allora una qualsiasi svelatezza non risulterà altro che quella dell’atto stesso. Ciò permette di comprendere lo stretto legame esistente tra trascendenza e disposizione d’animo. Trascendere ovvero Esserci in senso metafisico è così fondamentalmente un Essere-nel-mezzo-dell’Ente e dunque trovarsi. Da ciò ne deriva che l’Esserci stesso nella sua essenza e attraverso la totalità degli Enti ad esso appartenenti è un Essere mediato dalla disposizione d’animo. L’Esserci si afferma così realmente nell’Ente in questo modo, laddove si realizza il secondo modo del fondamento. Con disposizione d’animo non va inteso qualcosa che precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-essere, e dunque ad essa appartiene insieme alla trascendenza e la disposizione d’animo anche il perché, terzo modo del fondamento della svelatezza così come lo definisce Heidegger. Dunque nell'ottica di un'interpretazione della differenza ontologica come processo o atto originario, unitario che si compie da sé ne deriva la comprensione ! 272!  della necessità dei tre modi nei quali è insito il fondamento, e della definizione heideggeriana di verità come svelatezza. La possibilità dell’errore e la definizione di logos come processo assoluto, pp. 110-111. L’episteme come doxa alethes. Da un’approfondita critica dell’oggettivismo naturalistico si è approdati a una prima definizione di leghein in cui compare l’Essere. Nella necessità di una definizione ossia di un’affermazione generale (giudicare, pensare) si è giunti al superamento del relativismo e attraverso di essa a una prima comparsa dell’Essere. Tuttavia ciò non risolve né il problema teoretico del Logos né la questione interpretativa del testo di Platone. Come dobbiamo considerare dunque nel dettaglio questo atto inteso come pensiero, come giudizio? E come lo definisce Platone? Ma soprattutto com’è da considerare una qualsiasi necessità? Come una ricerca di soddisfacimento al di fuori di essa stessa? È dunque il pensiero solo una forma esteriore per impossessarsi dell’Essere come suo contenuto e la verità il risultato dell’equivalenza del pensiero con un Essere ad esso esteriore? Questa è la questione che partendo da un punto di vista storico e sistematico dovrebbe portare con la sua risoluzione ad un’ulteriore interpretazione del pensiero di Platone. Che l’anima abbia un’originaria aspirazione all’Essere che riesce ad appagare unicamente aspirando per essa stessa all’Essere, non definisce ancora modi e modalità di alcun processo. Platone dimostra come un atto, un processo del leghein, che si fonda su un qualcosa di oggettivo, non riesca a spiegare il fenomeno dell’errore. Fondamentalmente l’errore è strettamente connesso alla verità; poiché la necessità di affermazione del generale si rivela in modo tale da rendere la tesi relativistica erronea. L’indagine filosofica così come dovrebbe essere interpretato il processo, l’atto del leghein, si cela, come vedremo, dietro il quesito se un fondamento oggettuale del leghein possa spiegare o meno l’errore. La risposta a questo interrogativo la troviamo nel Teeteto: il processo del leghein è completo? Ha una fondamento oggettuale? Abbiamo visto l’Essere ergersi a leghein in una condizione di necessità: leghein significa essenzialmente portare qualcosa alla sua unità e ciò viene a compiersi in una condizione di necessità del pensiero e del giudizio. Si tratta quindi di un rigetto dell’estetica e del presentarsi di un nuovo ! 273!  fondamentale processo. Considerare qualcosa per qualcos’altro sulla base del giudizio, del pensiero è ciò che il filosofo greco distingueva dall’apparizione immediata e che dunque deve essere oggetto dell’indagine filosofica. Questa è la ragione per cui la doxa diventa l’oggetto per Teetèto. Ma a quali doxa, a quale pensiero ci si riferisce qui? Abbiamo dimostrato in precedenza come la stessa teoria relativistica sia già un pensiero, un’affermazione generale: dunque questo nuovo fenomeno è il pensiero. Ma dal momento che non tutti i pensieri sono veri solo per il fatto di essere tali, la doxa dunque può essere sia falsa che veritiera. La doxa può essere identificata genericamente con il pensiero ma non ancora necessariamente veritiero: da ciò ne deriva che il significato generale di doxa come pensiero non è che quello di un’opinione e non di una conoscenza motivata, non un pensiero che abbia in sé la garanzia della verità. Da qui nasce la necessità, dopo aver dimostrato che non si tratta di estetica o fantasia, di riconoscere una nuova definizione di episteme come “opinione vera”. “Di’ ancora una volta cos’è la conoscenza. Dire che tutte le doxai, le opinioni lo siano non è possibile, o Socrate, in quanto ve ne sono anche di false. Di sicuro però l’opinione vera è conoscenza”. Il problema della lingua e il suo significato ontologico, pp. 179-189. Legame tra ricerca del fondamento del manifestarsi e quella del fondamento delle parole e dell’arte. In precedenza abbiamo definito il fondamento dell’apparire di un qualcosa come tale un atto o processo del leghein, il cui carattere resta però ancora piuttosto generico: con esso andrebbe inteso unicamente il congiungere, il riunire, il circoscrivere attraverso cui un qualcosa può manifestarsi come tale. Abbiamo elaborato questa tesi in relazione alla concezione heideggeriana della differenza ontologica intesa come atto del trascendere, origine dei tre modi del fondare, “Logos in senso più ampio”. Alla luce di ciò abbiamo rigettato un’interpretazione illogica del fondamento della verità facendo riferimento alla disposizione d’animo. Quest’ultima non è da intendersi però come un qualcosa di pre-logico che precede un qualunque processo quale fondamento originario del rivelarsi di un qualcosa: ciò conferma anche l’interpretazione dell’affettività. Quando abbiamo però definito la disposizione d’animo come momento logico in senso ampio non era stato detto ancora nulla circa ! 274!  il suo rapporto con il Logos inteso come pensiero: non sapevamo ancora come definire il fondamento del manifestarsi. Solo attraverso l’interpretazione del pensiero di Teeteto e la discussione su quei problemi sistematici in esso contenuti siamo giunti a un’ulteriore definizione del Logos come necessità originaria, che si autoimpone, di affermazione del generale e dunque del giudicare, del pensare. Il processo dell’originario del leghein assume così un primo e determinante significato. Diversamente da quanto si ritrova nel pensiero di Heidegger, esso non è inteso qui come ricongiungere, radunare, riunire ossia riportare a quell’unità originaria nella quale l’Ente può apparire come tale, in senso generale, ma bensì come un ben determinato ricongiungere e riunire: quello del pensiero che si manifesta nella necessità di affermazione del generale. Come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale si manifesta per la prima volta l’Essere, ciò che esiste. Il fondamento del manifestarsi è stato da noi riconosciuto nella parola, nella lingua come un lasciar apparire metafisico di un qualcosa attraverso il legame con la necessità di affermazione del generale. Questa necessità originaria si manifesta in una ben determinata forma di problematicità dell’Ente ogni qualvolta non si sa come intendere una determinata cosa. Dell’origine di tale atto, dell’impossibilità di dedurlo dal pensato, così come è inteso da Hegel, abbiamo già discusso nel capitolo precedente, riassumendo a tal proposito la critica di Gentile al pensiero del filosofo tedesco. Per quanto riguarda il pensiero di Heidegger, va sottolineato che fino a quando non riusciremo a stabilire se egli ha assegnato all'atto della trascendenza (intesa come “Logos in senso ampio) una determinata forma (quella del pensiero pensante) o se ha lasciato la questione irrisolta, anche la nostra interpretazione non potrà essere completa. Se però Heidegger nei suoi scritti avesse in qualche modo iniziato un’implicita dissertazione sulle diverse forme di svelatezza, senza fattivamente distinguerle, ad esempio in “Hölderlin e l’essenza della poesia” in cui egli parla della funzione della parola poetica nel suo carattere di manifestazione, questa non dovrebbe essere assolutamente trascurata. Tale questione non può essere discussa se prima non si definisce il carattere fondante della svelatezza. Ci troviamo così di fronte ad un interrogativo rilevante: il processo originario che si manifesta nella necessità di affermazione del generale è l’unica forma della svelatezza? Dobbiamo attribuire al Logos, ! 275!  alla parola, alla lingua unicamente la necessità di affermazione del generale? A questo punto è necessario far notare che in nessun caso le forme della svelatezza posso essere classificate sulla base di ciò che appare per mezzo del pensiero pensante. Questo perché nel momento in cui dovesse emergere una distinzione nelle forme della svelatezza ciò dovrebbe essere presentato mostrando che oltre alla necessità di affermazione del generale esistono altre forme del fondamento originario del manifestarsi e dunque dell’interrogarsi, dell’aspirare all’Ente. Dobbiamo quindi chiederci se il leghein si impone a noi solo come pensiero pensante e dunque necessità di affermazione del generale o anche sotto altre forme: ovvero se la parola, il Logos abbiano solo un significato “logico”. È evidente come un tale problema si ponga solo se, come nel nostro caso, in precedenza si è definita in maniera chiara una prima manifestazione della forma del Logos ad esempio come necessità di affermazione del generale. Ma come possiamo sviluppare tutti questi differenti quesiti in maniera unitaria ricollegandoli alla precedente indagine? È necessario chiarire tutte le questioni che si presentano anche attraverso la presa di posizione di Heidegger chiedendoci se il Logos come necessità di affermazione del generale costituisca l’essenza delle parole o se esso si manifesti anche sotto altre forme. Per determinare l’essenza delle parole dovremmo innanzitutto capire se nel discutere di ciò Heidegger fosse consapevole del problema; in questo modo potremo determinare definitivamente la nostra interpretazione del pensiero di Heidegger e la nostra posizione in merito. Successivamente andremo a verificare le tesi proposte nella Fenomenologia di Hegel, che si celano in maniera particolare dietro gli assunti del Teeteto, per discutere del legame tra il problema della parola e il problema dell’arte. Va notato come la questione se la parola abbia o meno solamente un significato logico è l’essenza della seconda corrente critica di Hegel in Italia la quale lega strettamente tale questione con l’interrogativo se la parola ad esempio in poesia non abbia una propria forma del manifestarsi dell’Ente. Nella discussione e nel tentativo di risolvere la questione, nella contrapposizione al pensiero di Hegel, si ritorna di nuovo in Italia al piano ontologico. Questo dal momento che se la parola, la poesia e dunque l’arte hanno un proprio manifestarsi dell’Ente rispetto alla parola così come per la filosofia quale necessità di affermazione del generale ciò ha un doppio ! 276!  significato: innanzitutto che tra l’arte come forma del manifestarsi dell’Ente e la filosofia, contrariamente a quanto afferma Hegel, non vi è alcuna relazione dialettica. Su questa scia la filosofia italiana si oppone alla caratteristica tesi heideggeriana sulla morte dell’arte nell’era della filosofia in quanto tale tesi sarebbe espressione della relazione dialettica tra arte e filosofia laddove l’arte appare come un momento che va scomparendo e che si conserva nella filosofia. La seconda cosa che emerge è che questo quesito non è una domanda di estetica ma bensì una metafisica, ontologica in quanto essa rappresenta il rifiuto della concezione dialettica del fondamento del manifestarsi dell’Ente: dunque un quesito molto importante. Il problema ontologico della lingua in Heidegger. Sulla base di una precisa interpretazione dello scritto heideggeriano “Hölderlin e l’essenza della poesia” andremo a discutere dell’imporsi del problema della forma del manifestarsi. La domanda se il Logos come parola, come lingua debba essere inteso solo come unione così com’è nel pensiero, si pone in questo scritto congiuntamente al problema del fondamento del manifestarsi dall’Ente. Heidegger afferma: “La lingua per prima accoglie la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dall’Ente”; “Solo dove vi è lingua vi è mondo”. Poi ancora aggiunge: “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di manifestarsi come tale nell’opera e di custodirlo”. Come dobbiamo intendere ciò? Alla parola deve essere attribuita unicamente la determinazione dell’espressione del generale? Già nello scritto “Dell’Essenza del fondamento” Heidegger aveva identificato il manifestarsi dell’Ente come differenza ontologica e dunque trascendenza. È dunque la differenza ontologica essenzialmente parola e l’essenza della parola nient’altro che il manifestarsi della verità? Se la parola, la lingua, così come inteso da Heidegger, sono strettamente legate alla poesia, dobbiamo dunque ritenere che l'essenza della poesia sia solo verità? E di che verità si tratta? Quella “logica”? Appare evidente che solo sollevando queste questioni nello sviluppo del nostro problema nel tentativo di definire il Logos potremmo prendere una posizione rispetto a quanto asserito da Heidegger. Per questo è innanzitutto necessario capire se l'intera questione della lingua è stata spostata da Heidegger su un piano ontologico. Considereremo il suo scritto proprio da questo punto ! 277!  di vista. Dal momento che la discussione heideggeriana sull’essenza della poesia si sviluppa come interpretazione di un poeta, in un primo momento la questione appare essere considerata da un punto di vista che è al di fuori da qualsiasi piano metafisico e ontologico. Che l’ambito non sia estetico o storico-letterario ma principalmente metafisico si evince però dalla scelta dei versi di Hölderlin che Heidegger pone alla base della sua interpretazione. Le posizioni di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento considerano l’essenza della lingua in congiunzione con l’essenza dell’uomo. Nella sua interpretazione Heidegger afferma che l’uomo nella sua essenza “è colui il quale deve dimostrare ciò che è. Con questa affermazione non si vuole qui intendere un’espressione supplementare e a sé stante di umanità ma bensì la determinazione dell’Esserci dell'uomo”. Cosa deve testimoniare l’uomo? “La sua appartenenza alla terra”. Anche questa asserzione risulta difficile da comprendere in quanto nella nostra comune concezione di uomo la sua appartenenza alla terra è l’unica cosa che non deve essere dimostrata dal momento che non dipende dall’uomo stesso. Appare dunque inspiegabile come essa possa essere considerata un suo compito, un’attività da compiere che si impone costantemente all’uomo, e come essa si leghi alla questione della parola. Da ciò si evince però un punto fondamentale: se per Heidegger l’uomo è tale solo in quanto lo testimonia, ciò significa che la sua essenza non si manifesta nella semplice-presenza ma bensì in un atto da compiere e realizzarsi. Tale atto viene definito da Hördelin come testimonianza “dell’intimità” con la terra. Secondo Heidegger con il termine di Hörderlin “intimità” è da intendersi ciò che pone in conflitto e allo stesso tempo riunisce le cose. La “testimonianza dell’appartenenza a tale intimità avviene attraverso la creazione di un mondo [...] la testimonianza dell’essere uomo e dunque il suo compimento avviene attraverso la libertà della decisione. Questa coglie il necessario e si lega ad un ordine superiore”. Come dobbiamo però intendere l’asserzione secondo la quale l’uomo crea il mondo e in che modo questa creazione ha a che fare con la poesia, la parola e la sua essenza? Heidegger afferma che “l’essenza dell’uomo, il suo vissuto è comprensibile solo come storia e che la storia è possibile solo attraverso la parola.” In ciò ritroviamo una possibile interpretazione della concezione heideggeriana di una qualsiasi creazione del mondo in cui vi sia l’essenza dell’uomo (creare che si lega alla parola). Il ! 278!  mondo che appartiene all’uomo è solo il mondo della parola dal momento che effettivamente si evince che l’uomo si appropria della realtà esistente così come percepita considerandola il proprio mondo solo attraverso il “denominarlo”: solo il “mondo denominato” è il suo mondo, il suo cosmo. Questa appropriazione rappresenta la storia del formarsi dell’uomo. Interpretare in questa maniera il pensiero di Heidegger sarebbe sbagliato in quanto come egli stesso afferma che la lingua non ha il compito di denominare qualcosa che è già esistente per creare un mondo supplementare del significato, ma bensì è nella parola stessa che si rivela per la prima volta l’Ente e lo fa solo nella parola. “La lingua non è solo uno strumento che l’uomo possiede insieme a tanti altri ma bensì la lingua concede innanzitutto la possibilità di stare nel mezzo del manifestarsi dall’Ente. Solo dove c’è lingua può esserci mondo”. “La lingua ha il compito di permettere all’Ente di manifestarsi nell’opera e di conservarlo tale”. In questo modo la parola acquisisce un nuovo e determinato significato: essa non è più la parola pronunciata, il mondo che esprime la fonetica e che ha molte altre possibilità di espressione ma bensì parola significa qui prima manifestazione dell’Ente: parola, Logos come fantasia, come apparizione nel senso più originario del termine. Heidegger aggiunge poi: “La poesia è fondazione attraverso la parola e nella parola”. Ma cosa significa qui fondazione? Se provassimo a tradurlo in termini filosofici (termini legati a una determinata problematica teoretico-conoscitiva e proprio per questo qui evitati da Heidegger) significherebbe qualcosa che non presuppone l’esperienza, la percezione e che non può essere dedotta da essa a posteriori ma bensì a priori. Attraverso il denominare dei poeti “l’Ente viene per la prima volta chiamato e conosciuto come tale [...] ma dato che l’Essere così come l’essenza delle cose non può essere mai né determinato né dedotto dal presente, essi devono essere creati liberamente, fissati e donati. Tale libera donazione è fondazione”. Da ciò si evince che se la poesia fonda l’originaria manifestazione dell’Ente in essa l’uomo raggiunge il proprio fondamento. Così come afferma Heidegger: “Il dire dei poeti è fondazione non solo intesa come libera donazione ma bensì anche come solida istituzione dell’Esserci umano sul suo fondamento”. La definitiva determinazione dell’essenza della poesia è da intendersi come ciò che si realizza nella parola, nella lingua nel discorrere, nel parlare, nell’ascoltarsi e nel comprendersi: il discorrere è possibile però solo ! 279!  sulla base di un qualcosa di condiviso, attraverso il quale possiamo comprenderci poiché altrimenti ognuno resterebbe bloccato nella propria lingua, nel proprio mondo. Ogni parola fondamentale manifesta, come afferma Heidegger, l’uno e lo stesso, qualcosa di duraturo ed esistente e dunque sempre presente. In questo modo però la lingua si manifesta solo nell’ambito del tempo. Se però solo in poesia la manifestazione dell’Ente si realizza originariamente nella parola per poter definire l’intera problematica dell’essenza della poesia è necessario sottolineare che non è quest’ultima che deve essere separata dalla parola, dalla lingua ma bensì al contrario l'essenza della lingua, della parola, dalla poesia: solo così la poesia ottiene il suo primo centrale significato ontologico. Le nostre riflessioni ci portano a riconoscere quanto segue: la parola, la lingua, la poesia mantengono negli scritti di Heidegger una determinazione ontologica ma tuttavia non vi ritroviamo in essi né una definizione della caratteristica della poesia né argomentazioni in merito al fatto che ad essa spetti o meno una manifestazione particolare. La differenza ontologica in sé è valida per qualsiasi manifestarsi: non vi è però discussione in Heidegger su un problema determinante ovvero se e come ad esempio il manifestarsi nella sua forma logica e dunque nella necessità di affermazione del generale così come nel Teeteto, si differenzi dalla forma poetica del manifestarsi. Ciò è tuttavia di fondamentale importanza quando si parla di essenza della poesia così come fa Heidegger nel suo sopracitato scritto. Solo attraverso la risposta a questa domanda la poesia potrà acquisire una propria forma e necessità e dunque una propria definizione. Ciò appare evidente nel momento in cui confrontiamo le due opere “Dell’Essenza del fondamento” e “Hölderlin e l’essenza della poesia”. Nella prima si tratta essenzialmente della definizione di fondamento della verità ontologica (del Logos), laddove la differenza ontologica viene intesa come Logos in senso ampio. Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere “è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dell’Ente e sempre in un certo senso anche quella dell’Essere” (“Dell’Essenza del fondamento” pag. 78), per cui il fondamento della svelatezza si trova nell'atto come differenza ontologica laddove esso è tutto l’agire come processo illuminante della comprensione dell’Essere, del Logos in senso ampio” (pag.77). Questo svelamento si realizza solo per via di tale originario atto del distinguere, così che la ! 280!  sua essenza sia trascendenza e fondazione (pag. 102) e dunque fondamento di tutto l’apparire che non può essere dedotto da esso ma che bensì lo rende possibile (pag. 81). In questo modo, come abbiamo già fatto notare in precedenza, resta però aperta la questione relativa all’ultimo significato di un qualsiasi atto. Per questo motivo nella nostra indagine abbiamo anche sciolto la questione heideggeriana giungendo autonomamente a una definizione il più veritiera possibile di un qualunque processo sulla base del pensiero di Teeteto. Nella sua ricerca sulla poesia Heidegger attribuisce dunque alle parole la manifestazione dell’Essere. Ci è consentito quindi riferirci a questa identità delle definizioni che egli attribuisce alla parola così come accade in poesia e nella differenza ontologica. Egli afferma che la lingua “innanzitutto consente la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dell’Ente” (pag.7) e che la poesia “è fondazione attraverso la parola e nella parola” (“Hölderlin e l'essenza della poesia” pag. 8-10). Così come per la differenza ontologica (origine dei tre modi del fondamento) anche per la poesia si afferma qui che “essa è nella sua essenza fondazione e dunque istituzione determinata” (pag.14). Heidegger afferma ancora che: “Solo dove vi è lingua vi è mondo” (pag.7) e ciò è possibile attraverso la parola, attraverso il denominare l’Ente come “Ente così conosciuto” (pag. 11). Se dunque la differenza ontologica nella sua essenza è comprensione illuminante dell’Essere (“Dell’Essenza del fondamento”, pag.77), fondazione “di un qualunque Ente il quale è svelato all’Esserci e dunque possibile” (pag.81), e se in conclusione l’atto della differenza ontologica (il quale svela la sua essenza nell’Ente) “ è nella sua essenza creatore di mondo” (pag.98) qual è la differenza tra fondazione, mondo, manifestazione dell'Ente (che è proprio della differenza ontologica come fondamento della verità ontologica nella sua generica concezione esistenziale) e poesia come determinato modo di esistere e di manifestarsi? Non vi è forse alcuna differenza? Fin qui siamo stati autorizzati nella determinazione della verità ontologica a limitarci alla definizione di Logos in senso ampio. Ora appare però necessario per poter attribuire alla poesia un significato ontologico trarre la sua definizione da quella verità ontologica generale lasciata irrisolta da Heidegger: solo allora potrà essere chiarito anche il significato di fondazione, mondo, istituzione, manifestazione. Tale problema relativo alle forme della realtà si è manifestato nel corso della nostra ! 281!  indagine laddove siamo stati costretti a decidere se attribuire o meno alla parola solo il significato dell’asserzione generale o anche altri. Gli equivoci che sono venuti fuori nell’interpretazione dei concetti heideggeriano di affettività, disposizione d’animo, Essere-nel-mondo e così via sono dovuti in parte al fatto che la determinazione della realtà come svelatezza non deriva da una considerazione generale antioggettivistica del fondamento del manifestarsi. Non troviamo in Heidegger il problema delle diverse forme della svelatezza nonostante il fatto che egli discuta dell’essenza della poesia. Questo problema sorge solo nel momento in cui si attribuisce alla svelatezza una determinata forma poiché solo in quel momento ci si chiede se questa è l’unica o se ve siano di altre. Già con la definizione di verità come processo del leghein che nell’asserzione del generale si impone come pensiero pensante, si realizza il presupposto per sollevare la questione circa le forme. Con questa affermazione non ci vogliamo porre in maniera critica nei confronti del pensiero di Heidegger ma solo sottolineare la necessità che la discussione nelle sue affermazioni tenga conto anche di tali questioni. Il problema delle forme del Logos, pp. 204-209. Sulla scia del pensiero filosofico italiano, che prende le mosse da De Sanctis, come si evince anche in Heidegger, abbiamo attribuito alla parola un significato essenzialmente metafisico ovvero come manifestazione dell’Ente. Non dobbiamo però dimenticare che già nel pensiero filosofico italiano contemporaneo, che si oppone alla visione di Croce, Gentile nega l’esistenza di diverse forme del manifestarsi poiché ne riconosce una sola: quella del pensiero pensante. Egli afferma che tutto ciò che può essere definito, differenziato, circoscritto attraverso l’atto del pensiero, a cui egli attribuisce un significato ontologico originario, dunque appare. Se ammettessimo diverse forme del manifestarsi senza riconoscerne la loro unità d’appartenenza ci ritroveremmo con un insieme di forme diverse considerabili unicamente da un punto di vista empiristico. Una differenziazione è possibile solo sulla base di un atto originario nel quale e per mezzo del quale la distinzione appaia come atto del pensiero. Dimostrazione di ciò è che ad esempio il processo nel quale l’Ente si rivela all’artista coincide con quello dell’esistere dal momento che per egli la realtà è ciò che gli si manifesta. Unicamente nel ! 282!  momento in cui egli esce dalla sfera artistica e fa di un qualsiasi mondo l’oggetto del giudizio solo allora la realtà gli apparirà come un qualcosa di ottenuto, di soggettivo, come arte e non realtà. “Questa stessa irrealtà e idealità (dell’arte) diviene realtà viva e presente se la si considera così come la fantasia la proietta...questa è dunque la realtà che vaga nella fantasia dell’artista, la realtà assoluta che non può essere separata da quella a cui si fa riferimento nella vita pratica. Per cui tale è per l’artista, fin tanto che si tratta di un artista, la vita stessa”. Secondo Gentile l’arte si cela dietro il sentimento, il soggettivo, è un momento ideale che si ripropone sempre del pensiero pensante. Non possiamo però approfondire la questione. L’argomentazione principale con la quale Gentile nega l’esistenza di diverse forme del manifestarsi è che esse possono essere determinate solo attraverso un atto che le riunisca: il pensiero pensante. Gentile giunge a tale conclusione opponendosi al pensiero di Hegel. È innegabile che ogni distinzione sia possibile unicamente sulla base di un atto nel quale la molteplicità appaia come una e ben determinata. Va sottolineato che questa conclusione è anche il senso fondamentale dell’assunto heideggeriano secondo cui il processo del manifestarsi affonda le sue radici nell’atto, nella differenza ontologica la cui forma non può essere predeterminata. Allo stesso modo abbiamo poi ritrovato queste concezioni nella filosofia antica che per prima ha sollevato la questione metafisica analizzando nel dettaglio il pensiero di Teeteto. Il problema dell’Essere dell’Ente si ricollegava allora espressamente a quello dell’unità e della molteplicità. È stato dimostrato che se si considera l’unità separatamente dalla molteplicità non sarà possibile spiegare l’affermarsi, il rivelarsi della molteplicità. Abbiamo chiarito che l’unità, come fondamento dell’apparire, è un processo che si compie da sé, un atto che nel momento in cui è ben circoscritto non ammette l’errore. Il fondamento della svelatezza (ciò che Heidegger definisce differenza ontologica) affonda le sue radici, così come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale. Laddove la svelatezza dell’Essere viene intesa come conoscenza e questa conoscenza come pensiero vero dante fondazione. Alla verità dell’Essere, così come Platone la identifica con il Logos, appartiene essenzialmente la svelatezza del proprio fondamento. Questa avviene nella trascendenza filosofica, nella conoscenza dell'essere come conoscenza del proprio fondamento: ! 283!  l’ineluttabile necessità di affermazione del generale. Da questo generale e dalla conoscenza che ne deriva non è stata ancora mai creata poesia. Nella conoscenza del fondamento c’è l’essenza dell’atto filosofico. Questa conoscenza riguarda anche la creazione dell’arte ma da essa non deriva alcun tipo di arte: questa conoscenza del fondamento non appartiene all’arte in quanto tale tantomeno si riscontra in essa un inizio di ciò. Questa necessità, che ci costringe alla conoscenza del fondamento e quindi alla conoscenza come asserzione generale, è fondamentalmente un qualcosa di diverso da una qualsiasi necessità che spinge l’artista alla creazione della sua opera. Con l’affermazione di Gentile secondo cui qualsiasi differenziazione si fonda nell’atto del pensiero non si va ancora a toccare il nocciolo della questione che ci riguarda. Il problema delle diverse forme del manifestarsi può essere sollevato o negato solo se non ci si limita a considerare ogni distinzione come atto del pensiero: se ogni differenziazione si realizza per mezzo di un atto, il quale per via della sua origine non può essere né dedotto né motivato (dal momento che esso stesso è il presupposto di ogni motivazione, domanda o risposta), allora dobbiamo chiederci se la necessità nella quale si manifesta l’Essere logico come aspirazione all’affermazione del generale è la stessa necessità per la quale ad esempio si compie la differenziazione poetica. Ogni atto come fondamento del manifestarsi di qualcosa è necessariamente fondazione, trascendenza e dunque possibilità di apparire di una molteplicità, di una differenziazione che non presuppone l’atto; attraverso ogni atto ci troviamo in una molteplicità ordinata, in un mondo (Essere-nel-mondo); in ogni atto c’è la manifestazione di un qualcosa nella forma dell’aspirare, del domandarsi. Si ottiene dunque attraverso il dubbio, dalla necessità di affermazione del generale una differenziazione poetica? Si raggiunge il suo mondo? Il poeta “si trova” in un mondo delle differenze e delle determinazioni che è identico a quel mondo che deriva dal pensiero? Abbiamo definito l’Essere che si manifesta nel pensiero pensante essenzialmente come necessità di affermazione del generale. Da ciò possiamo dedurre che la questione circa la molteplicità delle forme del manifestarsi non può essere sollevata o risolta se si afferma che ogni differenziazione non è altro che la realizzazione di un atto del pensiero ma bensì solo domandandosi se la differenziazione poetica, la determinazione siano da ricondurre alla necessità di affermazione del generale. Rispetto a che cosa ! 284!  misura il poeta la parola, l'espressione? Non da qualcosa che è all’esterno altrimenti come sarebbe possibile farlo da un oggetto? Ma bensì da ciò che in esso si manifesta. Da ciò che è in sé confrontare, scegliere, differenziare, decidere ed è possibile solo sulla base di una necessità, attraverso la quale il poeta capisce se l’espressione è adeguata o meno. Solo ciò che è necessario, fisso ed esistente può essere misurato. Questa necessità che si cela nell’oggetto poetico si manifesta nell’immediatezza dell’originario, del primo che per questo deve essere sempre qualcosa di istantaneo e per questo essa si rivela in un attimo presente e unico. Solo grazie all’attimo, al presente il poeta vede ciò che è già e ciò che ancora non è. Nell’attimo si schiude la temporalità che è sempre temporalità di un determinato manifestarsi. Per tale motivo il processo poetico e il suo paragonare “interiore” per poter trovare l’adeguato vocabolo poetico non deve essere considerato come “interiorità” psicologica e romantica ma bensì come qualcosa in cui si realizza una determinata forma di manifestazione nella quale all’arte, al bello spetta un significato ontologico. Anche l’uomo pensante non misura la verità delle proprie definizioni da qualcosa che si trova al di fuori della necessità di affermazione del generale dato che l’Essere logico è e appare solo in una qualsiasi necessità. Il pensiero vero è solamente quello che riesce a resistere a qualsiasi necessità e mai fugge da essa poiché ricorre a una determinazione che in sé non può giustificarla. In ciò consiste il profondo carattere etico che ogni verità possiede. Già il riconoscere di non sapere è una risposta all’originaria necessità. Allo stesso modo in cui l'uomo pensante guarda solo a una qualsiasi necessità che possa fargli riconoscere la verità della propria determinazione, verità che si cela con la forza attraverso la quale la necessità si manifesta, così il poeta paragona e sceglie la parola poetica non paragonandola all’Ente esteriore ma bensì alla necessità che si manifesta in esso: questo non è però mai un momento di conoscenza del fondamento. Solo rispondendo alla domanda che ci siamo posti sulle forme della necessità, sulla base della quale può essere distinta una molteplicità, si evince, contrariamente a quanto affermato da Heidegger, che i tre modi del fondamento che egli ha indicato come motivo del manifestarsi, fondazione (trascendenza), Essere-nel-mondo (affettività) e possibilità del perché, solo in questo contesto possano essere definiti chiaramente. È importante precisare che attraverso il carattere originario e ! 285!  immediato della necessità dell’Essere dall’Ente, il problema delle forme dell’Essere si cela dietro quello dei diversi attimi per l’ambiguità della parola tedesca Augenblick che può essere intesa sia come visione e dunque manifestazione dell’Ente sia come espressione temporale di attimo, momento. Infatti l’Essere oggetto della nostra indagine che nel dubbio si manifesta originariamente come necessità di espressione del generale ci offre una ben determinata visione di svariati Enti. Questa molteplicità in quanto tale è solamente un momento del compiersi di una qualsiasi necessità. Da ciò si evince anche un ben determinato arco temporale: poiché sulla base dell'imporsi di una qualunque necessità si manifesta un determinato “prima” e “dopo”, una visuale di ciò che vediamo “già” e di ciò che non vediamo “ancora”, un passato e un futuro. Saggi: “Il problema della metafisica platonica” (Bari, Laterza); “Dell’apparire e dell’essere”; “Linee della filosofia” (Firenze, Nuova Italia);“Viaggiare ed errare -- un confronto” (Napoli, Sole);“Arte e Mito” (Napoli, Sole);“Arte come anti-arte. – il bello nell’eta antica” (Torino, Paravia); “Potenza dell’immagine – ri-valutazione della retorica, Milano, Guerini);“Potenza della fantasia” – “Per una storia del pensiero occidentale, Napoli, Guida, “Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, Napoli, Sole, Heidegger e il problema dell’Umanesimo, Napoli, Guida, Umanesimo e retorica. 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Il dolore di Tristano, in «Rassegna Nazionale», Roma La filosofia dell’azione «Rivista di filosofia», Milano Empirismo e naturalismo «Rivista di filosofia», Milano Sviluppo della fenomenologia «Rivista di filosofia», Milano Metafisica immanente  «Giornale critico della filosofia italiana», Milano L’equilibrio come ideale di vita «Rivista di filosofia», Milano Platonismo «Rivista di filosofia», Milano La filosofia in eta antica in «Rivista di filosofia», Milano La reminiscenza «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze “Paideia ed umanesimo”, in «Sophia», Napoli L’eterno ritorno «Sophia», Napoli Logo, in «Archivio di filosofia», Roma La nulla «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze La tradizione speculativa in «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze Esistenzialismo e marxismo, in Atti del Congresso di Filosofia (Roma),  Il materialismo storico, a cura di E. 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Aspekte von Werk und Wirkung, Atti del Convegno svoltosi a  Monaco, il 17 settembre 2014, in cds per l’editore Fink.Ernesto Grassi. Grassi. Keywords: la metafora inaudita, metafora, Vico, Ovidio -- Refs.: Luigi Speranza, “Grassi e Grice: il Vico di Grassi: metafora come implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Grassi – dove fiorisce il limone – filosofia italiana – la giovinezza e il fascismo – parole ai giovane – al senato --  filosofia fascista – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Mascali). Filosofo.  Grice: “I like Grassi; he wrote on Faust!” Inizia gli studi ginnasiali presso il seminario di Acireale fino alla terza ginnasiale, proseguendoli poi a Catania, presso il liceo "Nicola Spedalieri".  Assiduo frequentatore della sala di lettura dell'Catania, conobbe Rapisardi, cui lo legò una profonda stima ed affinità.  Si laurea a Napoli con “La memoria delle immagini acustica e visiva della parola in rapporto specialmente al tempo di "fissazione", suggeritagli da Bianchi (Rivista di Freniatria). Si trasferì a Messina dove divenne assistente di Weiss. Comincia a provare le prime grosse delusioni per l'inconciliabile contrasto fra le esigenze pratiche della professione, che rischiavano di piegarlo a umilianti compromessi, e le alte aspirazioni della sua anima.  Muta bruscamente indirizzo, iscrivendosi alla facoltà di scienze naturali, conseguendo così la laurea con Mingazzini sostenendo una tesi intorno ai pesci di Ganzirri e Faro, che poi fu pubblicata su una rivista veneziana. Mingazzini, chiamato a Bologna, era felice di averlo come assistente. Il suo spirito inquieto cerca altre vie ed altri sbocchi, e così intraprese a frequentare le lezioni che si tenevano nella facoltà di filosofia a Catania, nel Palazzo Grassi, a Via Firenze. Prrofondamente influenzato dalle precedenti frequentazioni messinesi dove campeggiavano figure come Pascoli, col quale strinse amicizia, Cesca, Barbi, Mancini, Ardigò, Dandolo e Salvemini. Si laurea in filosofia presso l'ateneo catanese, con “L'unità dei fatti psichici fondamentali” (Muglia, Muggia, Messina). Insegna a Caltagirone e Catania. Inizia un'intensa attività che vide tra i suoi maggiori corrispondenti Gentile eSturzocon i quali intrattenne un copioso carteggio oltre al letterato Villaroel, Farinelli, Varisco, Majelli, Carabellese e Fassò.  Fonda Prisma a cui collabora, tra gli altri, anche M. Sgalambro.  Altre saggi: “Preludi a un commento alla vita del Faust” (Catania, Studio Moderno); “Commento alla vita di Faust” (Torino, Bocca); “Preludi storico-attualistici alla Critica della ragion pratica” (Catania, Crisafulli); “Medico mancato” (Catania, Legione); “L’assoluto”, Roma, Enciclopedia Treccani); “L’assoluto” Roma, Enciclopedia De Carlo. “Giornale critico della filosofia italiana” “Logica e metafisica”, “Goethe in Italia”, “La musica e le idee” – “Esegesi del Fausto” “tramonto di Occidente”; “REminiscenze e visione paesane”;  “La giovinezza e il fascismo – parole ai giovani” (Senato). “Mazzini”;  “Il faust e il tramonto dell’occidente o di una nuova corrente esegetica del Fuasto in Germania”; “Goethe in Italia”; Membro della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici. Un filosofo dall'anima di poeta, Teoresi Rivista di cultura Filosofica. Da Herbart in poi la psicologi concepisce una unità al fondo di tutte le manifestazioni della vita psichica; ma visono tre modi principali di concepirla: l'intellettualismo (rappresentato specialmente perl'appunto da Herbart), il sentimentalismo (Horwicz,Regalia), e il volontarismo (Schopenhauer, Wundt, Fouillée ecc.). Questo terzo, è pare, all'ultima moda. Lo vediamo informare anche il neo-idealismo, che non si accorge di restringere ancora più la intui rione dal mondo in un piccolo cerchio antropomorfico. Il Grassi esamina le teorie metafisiche dello spirito e le critica tutte e tre, con Egli conclude per il monismo psicologico: ossia contrariamente ai riduttori favorevoli all'uno o all'altro elemento fra i tre fondamentali, si pronuncia per una unità primordiale di tutta la psiche, la quale unità consta ad un tempo di rappresentazioni, di sentimenti e di tendenze integrate in maniera indissolubile, ma capaci di assumere per evoluzione sempre più chiarezza e sempre più distinzione.Cosi Grassi si connette a due psicologi italiani insegnanti nello stesso Ateneo Patavino , ma purtanto dissimili: Bonatelli e Ardigò, due valori anche disugualmente conosciuti e apprezzati in Italia. Un'osservazione critica. Grassi inserisce molte citazioni originali in tedesco, il che (oltre a dar luogo a gravi errori di stampa) induce fatica inutile nell'animo del lettore. Non si è obbligati, tutti, di sapere il tedesco, massime quello dei filosofi e metafisici. Il Trieb, il Drang, il Lust, l’Unlust, il Selbsterhaltung, e simili parolear restano penosa mente. È upa ostentazione di coltura erudita che a scapito della intelligibilità della lettura. Qualche insolente potrebbe supporre che l'autore, messo di fronte ai testi, imbarazzato di tradurre in verbo e nerbo italiani i pensieri, si levi d'impiccio col cominciare periodi e frasi in italiano e col finirle in tedesco. No : si citi pure l'originale, ma in nota e nel testo si metta l'equivalente italiano: la chiarezza non deve essere uccisa dalla pedantesca precisione. RENDAA.,Ladissociazionepsicologica. Torino,F.lliBocca,1905. La dissociazione,dice l'Autore, è un processo normale dell'attività mentale:questa non soltanto associa,ma pur dissocia,poichè «distin  gabile competenza una inne non si può dire per ciò che faccia fica italiana;tutt'altro!L'argomento , ma molto utile filoso è di cosi alta portata che riesce in materia ; egli era stato preceduto dal Faggi opera inutile nella letteratura guardarlo da varie parti e con occhi differenti. E poi , oltre ai tre indirizzi principali, il Grassi parla anche di alcuni scrittori darii,fra cui Ward,Ebbinghaus secon giovane , Brentano, Lipps, Masci ecc. Questo scrittore ha coltura estesa anche nel campo biologico possiamo garantire che darà altri frutii, e succosi e forti, al ,e noi pari del presente volume. Va Uu op.in-8.°,di pag.200.   598 RASSEGNA DI FILOS. “Goethe in Italia”  L'opera fu scritta in tre momenti successivi:  l'Urfaust, scritto tra il 1773 e il 1775, influenzato dalle rappresentazioni del Faust di Christopher Marlowe a cui il giovane Goethe aveva assistito sotto forma di teatro delle marionette (vedi Dottor Faustper il personaggio storico). L'Urfaust appartiene culturalmente alla corrente letteraria tedesca dello Sturm und Drang e venne pubblicato, con alcune aggiunte, nel 1790 sotto il nome di "Faust. Ein Fragment". Più tardi (1808) pubblicò un ulteriore seguito, che già ricade nella corrente letteraria del classicismo, "Faust. Erster Teil" (Faust. Prima parte): viene aggiunto il Prologo in cielo e sono apportate modifiche significative all'Urfaust. Così Mefistofele appare a Faust promettendogli di fargli vivere un attimo di piacere tale da fargli desiderare che quell'attimo non trascorra mai. In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust è sicuro di sé: tale è la sua brama di piacere, azione e conoscenza, che è convinto che nulla mai al mondo lo sazierà tanto da fargli desiderare di fermare quell'attimo. Mefistofele gli fa conoscere la giovane Margarete (Margherita) - detta Gretelchen (Margheritina) e Gretchen (Greta) - la quale si innamora perdutamente di Faust, inconsapevole del fatto che lo slancio (in tedesco Streben) che ispira Faust è nient'altro che il dominio della materia e la ricerca del piacere. La sorte di Margherita sarà tragica. In Faust. Zweiter Teil (Faust. Seconda parte, 1832) la scena si allarga per celebrare l'unione tra letteratura classicistica e mondo classico: Faust seduce e viene sedotto da Elena di Troia. L'opera nel suo complesso risulta di 12.111 versi.   Fausto. Tragedia di Volfango Goethe, trad. di Giovita Scalvini e Giuseppe Gazzino, Le Monnier, Firenze, 1857; Fausto, trad. Giovita Scalvini, 2 voll., Sonzogno, Milano 1882-83 e 1905-06; come Faust, Einaudi, Torino 1953 Fausto. Tragedia di W. Goethe, trad. di F. Persico, Stamperia del Fibreno, Napoli, 1861 Fausto. Tragedia di Wolfgango Goethe, trad. di Andrea Maffei, 2 voll., Le Monnier, Firenze, 1869 Fausto. Parte Prima. Erminio e Dorotea di Wolfgango Goethe, trad. di Anselmo Guerrieri Gonzaga, Le Monnier, Firenze, 1873 Fausto. Tragedia del Goethe, trad. di G. Biagi, Sansoni, Firenze, 1900 Johan Wilhelm von Goethe, Faust. Prima parte, trad. di G. E. Vellani, Cogliati, Milano, 1927 Johann Wolfgang Goethe, Il Faust, 2 voll.: vol. I Versione, pp. 326 + vol. II Commento, pp. 423, versione integra dell'edizione critica di Weimar, Introduzione e trad. e commento di Guido Manacorda, Mondadori, Milano, 1932-45; Collana I Classici Contemporanei, pp. 774, Mondadori, Milano, 1949; ora in Faust, con un saggio introduttivo di Thomas Mann, testo tedesco a fronte, nota al testo di Giulio Schiavoni, Collana Classici, BUR, Milano, 2005-2013, ISBN 978-88-17-06698-3. Volfango Goethe, Faust. Tragedia, trad. di Cristina Baseggio, Facchi, Milano, 1923; Urfaust. Il "Faust" nella sua forma originaria, Introduzione e trad. e commento a cura di C. Baseggio, Collana I Grandi Scrittori Stranieri n.20, pp. 224, UTET, Torino, 1932-1944 Faust. Parte I, trad. di Liliana Scalero, P. Maglione, Roma, 1933; come Il primo Faust, BUR nn. 39-40, Milano, Rizzoli, 1949, pp.190; Il secondo Faust, ivi (BUR n. 339-341), 1951, pp.371. Faust, trad. di Vincenzo Errante, 2 voll.: vol. I pp. 310 + vol. II pp. 476., Sansoni, Firenze, 1941-1942 Faust, trad. di Enzio Cetrangolo, pp. 278, Federici Editore, Pesaro, 1942 [scelta] Faust, introduzioni di Mario Apollonio, note di Renato Maggi, Milano, Bietti. Il Faust. Versione d'arte con testo critico di Weimar a fronte, introduzione e commento a cura di Guido Manacorda. Vol. I, Collana Sansoniana Straniera, pp. 424, Sansoni, Firenze, 1949 Volfango Goethe, Faust, trad. e prefazione e note di Barbara Allason, pp. 450, Francesco De Silva, Torino, 1950, poi Faust, Introduzione di Cesare Cases, Collana NUE n.53, pp. 377, Einaudi, Torino, 1965, ISBN 88-06-00331-3 Faust, trad. di Giovita Scalvini, Collana Universale n.16, Einaudi, Torino, I ed. 1953 - II ed. riveduta su nuovi documenti, pp. 179, 1960; Giovita Scalvini. La traduzione del Faust di Goethe, a cura di B. Mirisola, Collana Biblioteca morcelliana, Brescia, Morcelliana, 2012 Faust. Urfaust, versione integrale, 2 voll., Introduzione e note a cura di Giovanni Vittorio Amoretti, Collana I Grandi Scrittori Stranieri, pp. 459, UTET, Torino, 1950 - pp. 532, 1959 - pp. 588, 1975; in Faust e Urfaust, Collana UEFn.500-501, Milano, Feltrinelli, 1965; ora in Collana Universale Economica. I Classici n.2018-2019, 2001-2014, Feltrinelli, ISBN 978-88-07-90068-6. Faust. Seconda parte, trad. di A. Buoso, Longo e Zoppelli, Treviso, 1962 Faust, Introduzione, trad. e note a cura di Franco Fortini, testo tedesco a fronte, pp. 1180, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1970-2009 ISBN 978-88-04-08800-4; Collana Biblioteca n.18, 2 voll., Mondadori, Milano, 1980-1987; Collana Grandi Classici, Oscar Mondadori, Milano, 1992-1997 - Collana Nuovi Classici, Oscar Mondadori, Milano, 2012 ISBN 978-88-04-52011-5 Faust, a cura di M. Cometa, Collana Idola, Novecento, Faust, trad. di M. Veneziani, pp. 592, Schena Editore, 1984 Faust, trad. di R. Hausbrandt, 2 voll., Dedolibri, 1987 Faust. Urfaust, trad. e cura di Andrea Casalegno, introduzione di Gert Mattenklott, prefazione di Erich Trunz, Collana I Libri della Spiga, pp. 1462, Garzanti Libri, Milano, 1990-1995 ISBN 978-88-11-58648-7; prefazione di Italo Alighiero Chiusano, Collana i grandi libri n.545-546, Garzanti Libri, Milano, 1994-2012 Faust. Testo tedesco, traduzione a fronte e commento di Vittorio Santoli. Prefazione di Fabrizio Cambi, pp. 472, edizioni aicc castrovillari; trad. di Vittori Santoli e V. Errante, Gulliver, Santarcangelo di Romagna, 1996 Faust, trad. e note di Andrea Casalegno, illustrazioni di Eugène Delacroix, presentazione di Mario Luzi, Collana I Grandi Libri Illustrati, pp. 294, Le Lettere, Firenze, 1997 ISBN 978-88-7166-347-0. Il Fausto di Gounod. Dimora casta e pura, dimora si o casta, il mefistofele di Boito. Grice: “I’m not happy with calling Grassi an Italian philosopher. For one, his selected essays were published in Sicily in a collection called “Biblioteca Siciliana di Cultura”. Leonardo Grassi. Grassi. Keywords: dove fiorisce il limone, la giovinezza e il fascismo: parole ai giovani – senato; Mazzini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grassi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Grataroli – sulla memoria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bergamo). Filosofo italiano. Grice: “I like Grataoroli, the Pope called him ‘infamous heretic,” which is a good start! He wrote a book on ‘semiotics’ of the times, but it got lost – you cannot understand Bruno unless you do Grataroli – he philosophised on many subjects, including dreams and alchemy!” –Di una famiglia benestante dedita al commercio di tessuti di lana con la città di Venezia. Questa, originaria del borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco in val Brembana, oltre a possedere gran parte della contrada e dei terreni circostanti (tra cui anche l'edificio che attualmente ospita la casa di Arlecchino), annoverava tra i suoi membri una folta schiera di "phisici", tra i quali si segnalarono il nonno di Grataroli, fondatore del collegio dei fisici di Bergamo, e il padre di Grataroli, Pellegrino, fisico presso la città orobica. Publica una dispensa inerente osservazioni sul mondo della natura. Straparla de le cose pertinenti a la fede et di essa fede et de la autorità del papa, nega il purgatorio, le indulgenze, i suffragi per i defunti, la venerazione dei santi, la presenza del corpo di Cristo nell'eucaristia. Eeretico pertinace et scandaloso et infame, peste contra la fede. Insegna a Basilea. Presso l'ingresso dello studio aè presente un suo busto. Noti sono i suoi trattati sul potenziamento e il mantenimento della memoria, sulle epidemie di peste, sulle proprietà del vino, su erboristeria e veterinaria. Vi sono anche alcuni scritti inerenti all'alchimia. Si segnala per la teoria fisiognomica. Argomenta su Pomponazzi e da indicazioni sia per il mantenimento della salute che per l'utilizzo dei bagni termali, nonché un saggio in cui vengono raccontati i suoi viaggi e forniti consigli ai viaggiatori di quel tempo. Saggi: “De memoria reparanda, augenda ser-vandaque. De salute tuenda. De regimine iter argentium, vel aequitum, vel peditum, vel navi, vel curru, seu rheda”; “Turba Philosophorum”; “De literatorum et eorum qui magistratibus funguntur conservanda praeservandaeque valetitudine compendium” (Perna, Basilea); “Veræ alchemiæ artisque metallicae, citra aenigmata, doctrina, certusque” (Perna, Basilea); “De fato, libero arbitrio et providentia Dei” (Perna, Basilea); “Alchemiae, quam vocant, artisque metallicae, doctrina, certusque modus” (Perna, Basilea); “De balneis” (Bergamo). Quaderni brembani, Storia di Milano  Flavio Caroli, Storia della fisiognomica Arte e psicologia da Leonardo a Freud  M. Meriggi e A.Pastore, Le regole dei mestieri e delle professioni: A. Castoldi, Bergamo ed il suo territorio. Bergamo, Bolis, G. Gallizioli, Della vita degli studi e degli scritti di Gulielmo Grataroli filosofo (Bergamo, Locatelli); M. Meriggi, Le regole dei mestieri e delle professioni: C. Vasoli, Le filosofie.  del Rinascimento, T. Bottani e W. Taufer, Storie del Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento, Ferrari, G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Napoli, Classici. Fisiognomica Mnemotecnica Peste. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. “Prognostica naturalia de temporum omnimoda mtuatione, perpetua & cer-  ùjjìma Jigna rerum, quoe in Aere, Terra, aia Aqua sunt, aut Jìunt , krevìter, &  dare, ordine que alphabetico de scripta per Gulielmum Gratarohun Medicum P/iy/i-  cum y cuni Addinone undcam fìgnorum Motus Terra, ex Antonio Mi^aldo . Basilea?  apud Jacobum Pareum  in 8. Ibi-  dem apud Nicolaum Episcopium in 8. Tiguri in 8. Argentorati in 8. apud Iacobum Ofemianum .   V opera indicata , con le altre due  » De Memoria reparanda t e » De Prje-  diclione morum » > si trovano unite tiell*  accennata edizione di Argentina alli Trat-  tati di Chiromanzia , e di Astrologia natu-  rale di Giovanni Indagine , o sia Giovalini Hagen dotto Certosino del decimoquin-  to secolo ? ed al libro » De Sculptura »  di Pompeo Gauricio Matematico Napolita-  no . Perchè il Grataroli non venga taccia-  to di superstizione o di puerile credulità  a motivo delle cose da esso scritte parlan-  do dei Pronostici naturali e della Predi-  zione dei costumi , credo cosa necessaria  fedelmente trascrivere la Protesta , o sia  Avvertimento al Lettore, che si trova nel-  la edizione di Argentina Devi poi  » avvertire , che generalmente parlando le  » cose dette si verificano nella gente gros-  » solana y vale a dire di coloro , i quali  » non sono rigenerati dallo spirito e dalla  » grazia di Dio , perchè di questi è vero  » ciò che dicesi della depravata natura in  » Adamo , che » Naturce fequitur femina  quifque fucc » : Ma air opposto i rigenerati  » dallo Spirito Santo mortificano la pro-  « pria carne con i suoi vizj , e con le  » sue concupiscenze , sebbene la concu-  » piscenza ed il fomite del peccato vi re-  » stino sempre , e da moltissimi , o Dio ,  anche pur troppo si riducano alla pra-  » tica », A gloria di Gulielmo riporterò  anche la sua opinione sopra la causa del  flusso e riflusso del mare r avendo preco-     6 A   Aizzato più di due secoli prima quasi in-  tieramente il sistema del rinomatissimo Ca-  valiere Isacco Neuton circa lo stesso feno-  meno : opinione approvata ed insegnata  da quasi tutti i Filosofi posteriori a quel  subitine Geometra » : Il moto periodico del-  ia Luna ha grande predominio sopra li  corpi fluidi , quindi fa che il mare s in-  nalzi e si abbassi ^ singolarmente per una  particolare di lei influenza , e ne segua il  flusso , ed il riflusso secondo i differenti  aspetti relativi alla medesima , e secondo  che questi accadono nella maggiore -> o  minore forza della sua influenza : Accade  ciò perchè la Luna ha bensì certa in-  fluenza coir Oceano , ma non già coi la-  ghi e coi mari di poco estesa superficie .  Per la qual cosa mentre quel Pianeta si  muove dall' Oriente verso il mezzo gior-  no , fa che la superficie del mare s' innal-  zi , e che conseguentemente ne segua il  riflusso medesimo . Quando poi si muove  dal mezzo giorno verso Y occidente fa che  il mare si abbassi , e però ne nasce il ri-  flusso . Similmente allorché la Luna si  muove dall' occidente verso V angolo della  notte , o sia da settentrione verso V o-  i icnte , ne segue nuovamente il riflusso r>     II. » Guliclmi Grataroli Bergomatis  Artium > & Mediani? Docloris de Memo-  ria reparanda , augenda > fervandaque ,  Liber omnimoda Remedia > & Pnzceptio-  nes continens cujufivis facultans jhuliofis  apprime utilis «, immo maxime necejjlvius ,  Tiguri ? apud Andream Gesneruni  in 8. , Basilea apud Nicolaum Episcopium  in 8., Lugduni , apud Gabrielem  Coterium in 8., Francofurti apud  Joannem Vichelium in 12. Ibidem  apud Viduam Petri Fischeri in 12.,  Argentorati in 8. » Nel frontespi-  zio dell'accennata edizione di Argentina si  trovano queste parole : » Omnia ab An-  afore correcla P ancia finis > 6' ultimo edita «. La stessa Opera » De Memoria re-  paranda » è stata stampata unitamente all'  altro libro del Grataroli » De confervanda  Valetudine » da Enrico Rantzovio .   De Prcediclione morum naturaque hominum, cum ex infipeclione par*  tìum corporis > tutu aids modis «> Anelare  Gulielmo Gratarolo Medico , & Philojopho B ergo mate • Basilea 1554» in 8., Ti-  guri apud Andream Gesnerum in  8. , Lugduni apud Gabrielem Coterium ,  &* Argentorati 1 6*5 3» Li tre accennati libri De Memoria reparanda: De Temporum  omnimoda mutatìone Prognofìica: De Prce*  diclione morum » furono dati alla luce per  la prima vo ? ta dal Grataroli in Basilea , e  dedicati ad Edoardo VI. Re d'Inghilterra;  siccome pure la seconda edizione di tali  Opuscoli fatta nella medesima Città nell*  anno 1554. fu consagrata a Massimiliano  II. Re di Boemia lutto questo evidente-  mente si rileva dal primo periodo della  Dedicatoria medesima al secondo dei com-  mendati Sovrani , la quale cosi incomincia Nello scorso anno, ottimo Re,  per le pressanti istanze degli amici e del-  io stampatore > sono stato costretto a dare  alle stampe assai più presto di quello che  averei desiderato tre miei libretti intorno  ai quali erano già molti mesi che affatica-  va , e perchè essendo assente , molti er-  rori corsero nello stamparli, però riveduta  di nuovo queir opera , non solo ne cor-  ressi i difetti , ma in oltre impiegando  ogni possibile diligenza ed applicazione , e  prestandovi , come si suol dire , V ultima  mano , F ho accresciuta di parecchie belle  aggiunte a segno, che la presente edizio-  ne è superiore alla prima siccome lo è un  parto di nove mesi a quello di soli sette ,     *7  o pure Toro fino ali* argento • Avevo de-  dicata la prima ad Edoardo VI. Re d' In-  ghilterra , il quale innanzi anche di aver-  ne notizia , non che di averla potuta ve-  dere, fu costretto infelicemente a cambiare  la vita con la morte ». Tale Dedicatoria  fu scritta in- Basilea nel mese di Febbrajo  deiranno  Nondimeno non posso  accertare in quale città siano stati stampa-  ti li sopradetti Opuscoli la prima volta che  dal Grataroli furono indirizzati alli due già  nominati Sovrani .  Pejlis Defcrìptio , Caujjoe > Si-  gnu omnigena > & Proefervatio . Anelare  Guliclmo Gratarolo Medico . Basilea? ; per  Ludovicum Lucium Anno Salutis Humana? Mense Augusto; Lugduni, apud  Gabrielem Coterium 1555. • La prima  edizione di tale veramente aureo Trattato  fu dedicata ad Ascanio Marzo Ambascia-  tore Cesareo presso i sette Cantoni della  Svizzera. Personaggio di molte cognizioni e  virtù fornito ed amico di Gulielmo ; e  questi appunto furono i motivi , che lo  spinsero a sceglierlo per Mecenate con  scrivergli :  La vostra conosciuta  virtù , e la non volgare vostra mansue-  tudine , non meno che il vostro amore per tutte le sane dottrine , e per la pie-  tà , mi hanno costretto a dedicarvi quest'  opera » . Perchè si veda quanto amava le  massime di pietà e di religione conviene  notare , che dopo di aver egli prescritti  neir indicata sua opera li rimedj fisici con-  tro la Peste , raccomanda con fervore li  spirituali con queste parole (81) » Ma  per brevemente indicare li remedj più for-  ti , più giovevoli e generali , prima di  tutto allontanate da voi la paura della  morte , ma non già il santo timore di  Dio . Non perciò doverete amare il peri-  colo , né incorrervi temerariamente , se  non sarete sforzati o dalla carità cri-  stiana del prossimo , o dalla gloria di no-  stro Signore Gesù Cristo > il quale devesi  anteporre a tutte le cose De Litteratorum > & eorurn qui  Magijlratibus funguntur confermando, proe-  fervandaque valetudine , illorum prcecipue  qui oetate confiftentìoe vel non lunge ab  ca ab funt > curn ex probatioribus Auctoribus 3 tum ex ratione , & fideli praxi >  & experientìa concinnatum . Basilea apud  Henricum Petri in 8., Francofurti in 12. apud Ioanncm Vchel ; Ibi-  dem apud Nicolaum Hofmannum \6 17.     ($9  in 8. » La stessa opera è stata tradotta  nella lingua Inglese da Tommaso Neuton P  e stampata in Londra Tanno in  1 2 . Questa dottissima opera è riferita dal  rinomatissimo Medico Ermanno Roerhave  nel suo » Methodus (ludii Medicorum » .   De Confervanda valetudine .  Francofurti apud Henricum Randzov .  Questa opera fu stampata unitamente all'  ultima registrata dallo stesso Randzov •Re girne n omnium iter agentium . Basilea? apud Hemicum Petri \66\.  Argentorati per Vendelinum Rihelium 1 s6%.  in 12. Colonia? apud Petrum Hofmannum  15/1. in 8. V edizione fatta di tale uti-  lissima opera in Argentina fu dedicata dal  Grataroli » alla vera pietà, (82) e nobil-  tà del chiarissimo Egenolfo Barone , e Si-  gnore in Rapolstein Hochen Ack e Ge-  rolzeck in Vassichin » e nel frontispizio  della medesima vi si leggono i seguenti la-  tini versi .   Ut peregrìnands vita ejl jubjecla procellis  Aeris , & varìis undique prejja malis ;   No/ira procelle* fi vario jìc turbine mundi  Volpi tur incertis anxia vita rnodis.     7°   Hoc bene pericolo Jervans prò tempore litro   Tutìor utque voles carpe Vìator iter.   VIII # De Laudibuj Medicina ejus  origine > progrejju ? militate . Argentora-  ti i 5 £3. in 8.   IX. De Pefle Thefes. Basilea in 8. Apud Henricum Petri .   De Vini natura , Artificio , &  Ufu , deque omni re potabili . Basilea ,  Apud Henricum Petri .   XI. Equorum P & Domejlicorum quo-  rundam Ànimalium remedia $ senza data  in tutti i Cataloghi da me veduti Lapidis Philojbphici nomendaturoe . Basilea La medesima opera trovasi inserita nel  Volume in foglio stampato in Colonia Tan-  no 1571. da Pietro Orstio , con il titolo  Veroe Alchimia? Scriptores .   XIII. De janitate menda . Argento-  rati 15 6 5. Trovo quest* opera citata dal  Mercklino nel suo Lindenius renovatus.   XIV. De Thermis Rhoctias , & Val-  lis Tranjc/ierìi Agri Bergomenjis . Si trova  stampata tale opera per la prima volta da  Tommaso Giunti in Venezia Tanno 1553.  nella sua copiosa raccolta di tutti quelli y     fi   che sino alla detta epoca avevano scritto   sopra i Bagni , ed è riportata alla pagina   192. , con questo titolo Guìlhdmus Gra-   tarolus ad Corradum Gefnerum Medicum   Tis'urimim de Thermìs Jxhoetìcìs Tutti  o   quelli i quali a mia cognizione hanno par-  lato di questo trattato di Guliclmo , sia  neir occasione di dare il Catalogo delle  sue opere , o • sia per semplice erudizione ,  e perfino il nostro Padre Donato Calvi ,  non hanno citata nessun' altra edizione  della stessa opera , che quella dei Giunti %  e tutti ne fecero sempre autore il Grataroli , senza mai mettere in dubbio questo  punto d' Istoria letteraria . Ciò nondimeno  non deve recare maraviglia , particolar-  mente delli scrittori oltramontani , e spe-  cialmente di quelli del decimosesto secolo :  ma fa bensì stupore , che siasi continuato  ad attribuire al Grataroli un simile tratta-  to , dopo la nitida e ben corretta edizio-  ne fatta dal valoroso Cornino Ventura X  anno 1582. in 4. di tutti i dotti Medici  Bergamaschi , che avevano scritto sopra i  Bagni di Tres^ore ; poiché apparisce , ed  è anche evidentemente provato da quel  diligente stampatore , e dagli eruditi e  perspicaci fratelli Licini suoi direttori, che     il trattato , che porta quel titolo , appar-  tiene sicuramente a Bartolommeo Albani  Medico Collegiato della Città di Bergamo.,  scritto dal medesimo sino dall'anno 1470.,  vale a dire quasi un secolo prima della  indicata edizione Veneta di Tommaso Giun-  ti • Di fatti T Opuscolo dell' Albani termi-  na precisamente con questa data : anno  mìllejìmo quadrigentefimo y & feptuagefimo  de menje Julii die vìge fimo Ceptimo . Per  ExeelL Artìum & Me dicince Dociorcm  Bartholomceum de Albano. Si fa ancora assai ' più manifesta tale verità da quanto  afferma il Cornino alla decimaquarta pagi-  na della sua edizione degli Scrittori Berga-  maschi circa li Bagni Trescoriani , nella  annotazione seguente posta in fine dell* Q-  puscolo del sopracitato Bartolommeo Albani  per maggiore sua giustificazione » Da un  antichissimo esemplare manoscritto (83) ri-  trovato nella libreria de" Padri Domenica-  ni , il quale si vede eziandio trasportato  nella lingua Italiana , sotto il nome dello  stesso Bartolommeo Albani, nelieCase di Bar-  tolommeo Colleoni , lasciato al Luogo de Ha Pie-  tà, conservato sino a questo tempo ». Non  si deve adunque più dubitare , che il ve-  ro Autore di quel trattato non sia Bariolommeo Albani , mentre anche il Padre Cal-  vi così ha lasciato scritto nella sua Scena  Letteraria (84) >> Bartolommeo Albano della  Medicina celebre Professore fiorì verso la  metà del passato secolo e fu il primo y  che scrivesse sopra i nostri Bagni di Tre-  score j leggendosi le sue degne fatiche con  quelle d 5 altri Autori nel libro » De Bal-  neis Tranfchcrii Oppiai Bergomatis . Ber-  gomi Questa è T accennata edi-  zione di Cornino Ventura. Si noti in que-  sto luogo , che lo stesso Bibliografo indi-  cando l'opera del Grataroli (85) sopra io  stesso argomento , dopo di avere scritto  De Thermìs Rhoeticis, & Vallìs Tranfche-  rii agri ìSergomatis » aggiunge » Questo  si trova nell' opeia Veneta De Balneis » »  Adunque al Calvi era nota tanto V edi-  zione dei Giunti , quanto quella del Co-  rnino : dopo tutto questo, in quale manie-  ra si potrà difendere il Grataroli dalla tac-  cia di plagiario y e di un plagio domestico Ma niente dì più facile , Ricercato  Gulielmo da Corrado Gesnero suo grande  amico , che si chiamava il Plinio dell* Ale-  magna , perchè gli facesse avere delle no-  tizie circa le Terme , o Bagni della Re-  zia , e della Provincia Bergamasca , egli ^per fare cosa grata ad un amico di tanta  rinomanza , prese in mano il manoscritto  dell' Albani , vi aggiunse qualche cosa del  proprio , ed ancora molte cose di quelle  che aveva scritto sopra i Bagni di Tresco-  re il dotto Medico Lodovico Zimalia , le-  vando alcune cose che gli sembravano su-  perflue , o inesatte , con purgato stile la-  ^inò , e con veri termini tecnici rifuse il  manoscritto dell' Albani , e cosi riformato  ed ordinato lo spedì all' amico, unitamen-  te ad una erudita lettera relativa alle Ter-  me della Rezia : e siccome in quei giorni  il Gesnero si trovava in Venezia per de-  scrivere i Pesci , ed i Crostacei del mare  Adriatico , averà consegnato questo scritto  a Tommaso Giunti s che in quel tempo  era occupato a pubblicare la sua grande  edizione di tutti li Scrittori sopra i Bagni  e le aque Termali n siccome ho già di so-  pra notato . Indubitata cosa ella è che il  Grataroli chiude il suo scritto con queste  parole (86) » Ho raccolte brevemente, e  con chiarezza tutte le soprascritte cose a  benefizio , e sollievo del mio prossimo^ io  Gulielmo Grataroli Dottore di Medicina :  frutto tutto questo delle mie oculari osser-  vazioni , e della lettura di parecchi amichi Medici della mia patria » . Appunto   questa sua protesta dalle persone oneste  e giudiziose deve essere considerata una  confessione del fatto , ed ancora del di-  ritto che aveva acquistato di appropriarsi  quello scritto ; tanto più che il Grataroli  nello spedirlo al Gesnero , lo previene con  la seguente onorata e sincera dichiarazio-ne Vi spedisco l'intiera Descrizio-  ne delie Terme Bergamasche , le quali non  sono lontane dalla Rezia più di due gior-  nate di cammino • Di queste niente sino  al presente trovasi pubblicato con i tor-  eh) ; onde mi giova sperare , che diver-  ranno celebri anche in avvenire , siccome  lo furono in passato , dopo che Y occul-  ta, e quasi intieramente ignorata loro vir-  tù sarà fatta nota con le stampe ; purché  non vi rincresca accoppiare le erudizioni  Italiane alle Tedesche » . Poteva qui espri-  mersi Gulielmo con più candida , ed one-  sta sincerità ? Confessa di essere semplice  raccoglitore d^gli altrui scritti, mentre  dice » Ho raccolto dagli scritti di altri  antichi Medici Bergamaschi » Non chiama  sua quella fatica , ma dice semplicemen-  te (89) » Vi spedisco T intiera descrizione  delle Terme Bergamasche > delle quali  niente sin ad ora è stato pubblicato » Non  si deve dunque condannare di plagiario il  Grataroli $ e certamente non conviene , che  egli abbia avuto rimorso di avere commes-  so una cosi vile, e detestabile impostura ,  mentre essendo sopravissuto quasi quindici  anni dopo l'edizione Veneta di queir opu-  scolo , sicuramente non averebbe mancato  di giustificarsi presso il mondo erudito circa il preteso plagiato . Ecco tutto quello ,  si può dire in difesa di questo Medico Fi-  losofo sopra tale inssusistente accusa , né  altro posso aggiungere «> se non che far  noto al mio Leggitore , che per quante  diligenze abbia usate «> non mi è giammai  riuscito di ritrovare i due citati mano-  scritti , e che in oltre il Padre Donato  Calvi , a cui era nota Y edizione di Co-  rnino Ventura , non ha nella sua Scena  Letteraria dimostrato di sospettare dell' o-  nestà letteraria di Gulielmo Grataroli . Pri-  ma di terminare il presente articolo dei  Bagni di Trescore, riferirò il zelante uma-  nissimo Voto, con il quale Gulielmo chiu-  de la sua opera stampata dal Giunti Faccia Iddio , che la Bergamasca Re-  pubblica abbia diligente cura di rimettere  nel primiero loro stato questi saluberrimi  Bagni , che certamente lo può , e lo de-  ve fare » . Faccio io pure fervidi e sin-  ceri voti , perchè abbia effetto tutto ciò  che caldamente raccomanda il Grataroli ;  e per maggiormente incoraggire la mia  Città , ed i miei Cittadini a procurare al-  la patria un vantaggio così rimarcabile ,  vivamente li supplico a leggere T erudita  ed elegante latina lettera di Lodovico Zi-  malia , premessa al suo dottissimo Trattato  dei Bagni di Trescore , dedicato al suo  magnanimo Mecenate Bartolommeo Colleoni  Capitano Generale degli Eserciti della Serenissima Veneta Repubblica , (91) nella  quale prova con una evidenza che sorprende, e che deve intenerire chiunque  senta amore per la sua patria , che quello  famosissimo Eroe deve senza alcun dubbio  essere ugualmente ammirato , e commen-  dato sì per le sue azioni militari , che per  le sue virtù politiche , a benefizio «> ed  eterno vantaggio , e decoro di tutta la  sua amata nazione Bergamasca .   De Notis Antichrìsti, senza data, senza luogo, e senza nome dello stampatore . Tuttavia nominerò ancor io tra  le opere di Gulielmo un libro con tale ti-  tolo , ritrovandolo registrato dal Calvi , e   dal Papadopoli suo copiatore , ma non  dal Frehero , non dal Bayle , non dai  Maizeaux suo illustratore , non dal Mer-  ci: lino , non dall' Eloy , mentre tutti que-  sti si suppone avessero molto interesse di  far autore di un libro Anticattolico  Romano un erudito e dotto Italiano - sic-  come era da tutti considerato il Grataro-  li. Non però verun altro Letterato ha po-  sto nel Catalogo delle sue opere V accennato libro • D' altronde è cosa più che cer-  ta , che si può scrivere dei caratteri dell'  Anticristo anche dalla più religiosa e ze-  lante penna cattolica : ed è certo di più ,  che il Calvi , o non averebbe registrato  un così fatto libro , o non averebbe man-  cato di scriverne qualche parola in dete-  stazione del medesimo . Ma di più anco-  ra quanto al Papadopoli , probabilmente  questi non averà nemmeno veduta quest*  opera , essendosi intieramente riportato al  Padre Calvi , siccome egli stesso scrive  nella sua storia dell' Università di Padova  parlando di Gulielmo Grataroli . Avendo  in oltre riportati i titoli delle altre sue  opere senza data , alterati , e confasi no-  tabilmente, non sarebbe stato egli il primo  a giudicare di un libro mai veduto , nò   letto • A me stesso è accaduta la medesi-  ma sorte y non solo di poterlo trovare >  ma neppure di averne fondata contezza ,  per quante ricerche abbia usate non sola  in Italia , ma altresì nella Germania e nell*  Olanda . Sostengo finalmente , che se que-  st* opera esiste , che io non credo , o se  fu composta da Gulielmo Grataroli -, non  doveva essere tanto malvagia e perversa ,  quanto alcuni senza ragione sospettano ;  mentre che tutte le opere del Grataroli è  vero che sono poste nell* indice de' Libri  proibiti ? ma con la semplice cautela ;  Quandiu emendata non prodieri nt (92) «  Dal che si è da presumere che se que-  sto fosse stato un libro veramente Etero-  dosso , Santa Romana Chiesa lo avrebbe  posto nella classe dei libri empj e mal-  vagi di prima classe •   XV I. Confilium de Proe fervanone a  Vcnenis . Gulielmo Gratarolo Aucìore .  Hamburgi in 8.   Ecco registrate tutte quelle opere che  mi è riuscito di raccogliere, le quali furo-  no composte da questo dottissimo Medico  e Filosofo : ora passerò alla seconda classe  delle opere tradotte e fatte stampare dal  medesimo .    J. Joannis Braccfchi de Alchimia ,  cum propofìtionibus 29. Idem argume ri-  rum compendiofa brevitatc compleclens ex  Italico Aucloris Autographo in latinum  verni -> & edidit Gulìelmiù Gratarolas .  Basilea 156*1. in folio. Apud Henricum  Petri .   Non mi è noto dove sia stata stam-  pata la prima volta questa traduzione; ma  solo ne ho trovata un' altra ed zione fat-  ta in Amburgo neir anno 1^7 3. in 8.   II. Chirurgico rum quorundam Auclo-  rum Libros Gali ice fcriptos latine reddidit ?  & in cap'-ta difiribuit Gulielmus Grataro-  las • Lugduni in 8. Apud Gabrie-  lem Coterium ,   Classe terza delle opere d* altri Scrit-  tori fatte stampare con prefazioni , note y  e commenti da Gulielmo Grataroli .   I. Ve ree Àlchymìce Scriptores aliquota  cum Praefationibus 9 & D celar ationibus col-  Ifgit y & una edidit Gulielmus Gratarolas.  Basilea? , apud Henricum Pctri in  folio .   II. Vetri Apone njls de Vene ni s eo-  rumane Remediis , cum Additionibus Gu-  Udini Grataroli . Francofurti , apud Joan-  n ìm Velici in 8.     8i   III. Hermannl a Ncunare de no-  vo haclenufque inaudito Germanice morbo  ^pompar* idcft judatoria febre , quern vulgo   fudorem Britannicum vócant, libellus a Gu-  lielmo Gratarolo editus. Colonia in  4. Ermanno Ncunare era Conte e Pre-  vosto della Cattedrale di Colonia .   Simeonis Riquinii Judicium do~  clijjimum duabus epijìolis contentimi de  fiutato r ice Febris cura t ione editum a Gu~  lielmo Gratarolo Medico > & Philofopìio  B ergo mate . Colonia in j 6.   V. Joackini Schdlerii ^ o come altri  scrivono Sckilfeni de Pejìe Britannica  Commentariolus aureus a Gulielmo Grata-  rolo Medico & Philofopko editus . Basilea?  1 5 c> 3. Apud Henricum Petri in 12.   VI. Alexandri Benedicii de Pejlilen*  tioe Caujjls s Proe fervanone > & auxiliorum  Materia Liber Jingularis : Omnia ex ma-  nufcriptis exemplaribus auxit y & illujìravit  Gulielmus Gratarolus Medicus 9 & Pialo-  fophus . Basilea? 1559. in 4. Ibidem 1572.  in folio apud Henricum Petri .   VII. Correcliones , & Additiones ad  librum Italicum , falfo tributum Fallopio 7  infcriptum , Secreta Fallopii . Francofurti  irfoò. in folio , e i6"o£. cum operimi   6 1     82   Appendice Guliehni Grataroli Medici Bcr-  gomatis. Girolamo Mercuriali da Forlì coe-  taneo del Grataroli , soprannomato Mercu-  rio e Trimegisto per la vastissima sua  medica scienza , nell' erudita opera : De  ratione dijcendi Mediana/?! , edizione di  Argentina dell' anno 16*07. > m proposito  dei libri falsamente attribuiti a Gabriele  Fallopio , racconta che vi furono alcuni ,  i quali o per malignità , o per sordido  lucro cacciarono fuori opere sotto il nome  del Fallopio , che affatto non sono sue ,  come il libro dei Secreti . Opere indegne  del suo maestro , e soltanto capaci a to-  glierli quella vera , e soda gloria , la qua-  le si era acquistata presso i dotti •   Vili. Cenjura & Additiones in Li*-  bruni Alexii Pedemontani , ubi de Quinta  effentia funplici . Per Gulielmum Grataro-  lum . Venetiis apud Jun£hs in 12.  Conjìha , & Curationes variorum  doclijfimorum Medicorum de Sudore An-  glico a Guliehno Gratarolo edita . Colo-  nia apud Franciscum Hofmannum 1602.  in folio .   X. Thaduei F/orenini , che 1' Alido-  sio chiama Taddeo Aledrotto^ & Guliclnù  a Brixia Conjìlia • Colonia* i^c^. Apud     Iranciscum Hofmannum in 4. Per Gidid-  mum Gratarolum .   XI. Johannis de Kupecijja de Extra-  tione Quinte? ejfentioe omnium rerum prò  u fu Medico . Venetiis apud Juntìas 156*1.  in 1 2.   XII. Theatrum G aleni > hoc eft uni-  verjlv medicince a Galeno diffupz *> fpar-   f inique traduce Promptuarium completimi  & in meliorem ordinem redaclum per Lu->  dovicum Luride llum a Gulielmo Gratarolo  Medico } & Philojbpho editimi . Basilea?  15 68. Apud Henricum Petri in folio «>  Hamburgi apud Joanneni Neumannum >  & Georgium Volfium \6j2. in foiio.  Petri Pomponacii de Incanta*  tionibus libri in quibus dijficilUma Ca-  pita > & Quefliones Theologicoe , & Philosophicoe ex jana Orthodoxoe /idei doclrina  explicantur > & multis rarìs Hijìoriis > &  Glojfulis illujlrantur . Per Gulielmum Gra-  tarolum Medicum , & Philojbpkum Bergo-  matem > qui fé in omnibus Canonica^ Scriptum et Janclorum Dociorum Judicio fubmittit . Basilea? Kalendis Martii ex Offi-  cina Henripetrina in 8. cum Csesa-  rea Majestatis gratia & privilegio. Quesra  edizione del trattato deeli Incantesimi di     &4   Pofnponacio tu consagrata dal Grataroli a  Federico Conte Palatino con una nobilissi-  ma , e giudiziosissima dedicatoria impiega-  ta parte in encomj della virtù e meriti di  quel Principe, e parte in difendere Y ope-  ra di quel Filosofo Mantovano , del quale  afferma e sostiene , che fu a torto impu-  gnato , e perseguitato ; e che se fosse sta-  dio con prudenza e carità Cristiana tratta-  to , sarebbe riuscito uno dei più zelanti e  forti Apologisti della Chiesa Cattolica, come riferisce essere avvenuto a Giustino  Martire , al grande Agostino , ed a mol-  tissimi altri difensori della nostra santissima  religione • Di fatti Pomponacio per atte-  stato di tutti gli Scrittori della sua vita  mori cattolicamente (93) : » Voglio spera-  re , che Pomponacio prima di mandare  fuori T ultimo suo spirito , siasi per singolare grazia delia divina providenza e misericordia ravveduto e pentito , e che non  abbia perseverato neir ateismo . Imperoc-  ché tale essere stato il Pomponacio Y ho  udito spesse fiate a rammentare da Elideo  Medico di Forli chiarissimo ornamento del-  la medica scienza , ed uno de suoi più  cari discepoli » . Ho ricopiato questo sen-  timento dui Grataroli acciocché si conosca quanto grande fosse Sa sincerità e Tat-  , taccamento verso la Chiesa Cattolica. Gis-  berto Voet , o Voezio ^ dotto Professore  di Teologia -, e delle lingue Orientali neìl'  Università di Utrecht , inimico capitale  della Filosofia e di Cartesio , ha parlato  con molta lode della suddetta edizione, dicendo Gulielmo Grataroli Medico  Italiano , li di cui scritti vengono coiti*  mendaci per lo zelo di pietà e di religio-  ne che vi traspirano, e per li encomj de*  quali lo ricolma Teodoro Beza nelle sue  lettere , e per li suffragj di molti altri uo-  mini dotti, che lo trattarono nelle sue ope-  re stampate in Basilea difende Pomponacio  contro li suoi caluniatori, ed afferma, che  abbia terminati i suoi giorni assai piamente. Dalla medesima dedicatoria di Gulielmo da  esso scritta un anno solo prima del suo pae-  saggio all'altra vita si rileva, che già die-  ci anni innanzi egli aveva fatto stampare r  senza che mi sia riuscito di sapere in qua!  parte ^ il Trattato De ìncantationibus di  Pomponacio , perchè così scrive al Princi-  pe suo Mecenate * (9$) » La parte di  questo libro , che tratta delle cause , e  degli effetti naturali, o sia degli Incantesi-     u   mi fatta da me stampare sono già più di  dieci anni , T avevo dedicata e spedita  air Illustrissimo Principe Ottone Enrico  Elettore di felice memoria , e S. A, non  sdegnò di ringraziarmi con lettere di suo  proprio pugno » . Mi è piacciuto di nuo-  vamente riportare quanto Gulielmo Grata-  roli scrisse in quella sua elegante Dedica-  toria , perchè dalla premura e zelo da es-  so dimostrato sino agli ultimi periodi del-  la sua vita , e dalla universale estimazio-  ne , che hanno sempre costantemente fat-  ta palese in faccia di tutto il mondo tanti  letterati del primo ordine , d* ogni nazio-  ne , e d' ogni religione , della dottrina ,  della probità, e dell' amore del vero , e  del giusto , che ha conservato in tutte le  sue operazioni , possa invogliarsi qualche  valente ed erudita penna della sua , e  mia patria a tessere , ed in assai miglior  modo ordinare una più compiuta istoria  scevra dai difetti , dei quali questa mia  pur troppo è ripiena , di un Filosofo e  Medico j che ha impiegati e consagrati  tutti i suoi talenti , e tutti i momenti de'  tuoi giorni a benefizio e vantaggio della  languente umanità , ammaestrando ed illuminando il mondo tutto con le numerose produzioni del sublime suo ingegno, trasportando nella lingua più universale moltissime opere in diversi altri idiomi composte da più dotti e famosi scrittori ed in fine illustrando ed arricchindo di uti-  lissimi riflessi e profittevoli commenti un  numero immenso di interessanti volumi i quali contengono ogni genere di scienze e di cognizioni, siccome ne forma  una evidentissima prova il copioso catalogo delle sue opere da me coordinato ed esteso. Guglielmo Grataroli. Grataroli. Keywords: sulla memoria, de balneis, turba philosophorum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grataroli” – The Swimming-Pool Library.

 

 Grice e Grazia – il principio di benevolenza conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesoraca). Filosofo italiano. Grice: “Grazia is important to understand Galileo, whom Italians consider a philosopher!” Grice: “Grazia also wrote about architecture – a truly Renaissance man!”. Studia a Napoli dove venne condotto, dalla natia Calabria, da uno zio dell'ordine dei Teatini. Si laurea a Napoli. Studia filosofia. Si oppose al Criticismo kantiano e all'Idealismo hegeliano in nome dell'esperienza. Saggi: “Discorso sull'architettura del teatro” (Napoli: Giordano); “La scienza umana” (Napoli: Flautina); “Logica speculativa” (Napoli: Gemelli); “Filosofia: eterodossa ed ortodossa” (Napoli: Poliorama); “Considerazioni sopra 'l discorso di Galileo Galilei intorno alle cose che stanno su l'acqua, e che in quella si muouono. All'Illustriss. ed Eccellentiss. Sig. don Carlo Medici (Firenze, Pignonj). “Della vita e delle opera: Dizionario Biografico degli Italiani. Classe Appetito;Volere.Condizionediogni appetito è l'andarsi rinvigorendo con la reiterazione degli atti fino a rendersi dominante su gli altri appetiti. Condizione della volontà è l'andar con l'esercizio acquistando maggior potere su imoti del corpo sog   3.Classe- Moloriprimitividellavolontà: Tendenza istintiva delle nostre forze all'azione; appetito istintivo del piacere nella sua triplice forma, e avversione al dolore; amor di sè stesso co'tre caratteri di concentrazione, di reazione, di espansione spontanea. Classe- Oggetti dell'amor proprio diconcen nale, onore esterno. Reazione dell'amor proprio: Emo sentimento. Espansione spontanea. Benevolenza. Il benessereè certamente oggetto dell'amor proprio; ma nella classe va distinto dall'amor proprio l'appetito istintivo del piacere, e l'avversione al dolore. Non è perchè a mi a m o n o i s t e s s i, che desideriamo il piacere e fuggiamo il dolore. L'amor proprio si pronunzia nel cercare I mezzi per procurarci l'uno, e per sottrarci all'altro, fino a contrastare a tale uopo altri appetiti. L'appetito quindi del benessere, una delle esigenze dell'amor proprio,é precisamente quel principio, in cui Stewart ha fatto consistere tutto il nostro amor proprio. Un tale appetito abituale non è  getti al suo comando, come anche su l'attenzione riflessiva. Seconda condizione dell'appetito è l'essere accompagnato da piacere, quando è soddisfatto; e da dolore, quando essendo istigato non è soddisfatto. È questo esclusivamente il piacere e il dolore morale. trazione: Benessere, dignità. perso IL METODO. Classe Stati diversi dell'appetito: Desiderio, o contento; godimento, o afflizione, o rammarico; speranza, o timore; pentiinento; disperazione. zione benevola di riconoscenza; ri   invero irreducibile. Ammettendosi in un essere dolori e piaceri ,e ragione e volontà, esso prevedendo le conseguenze delle sue azioni, non mancherà di formarsi un piano di condotta per evitare il dolore, per pro cacciarsi il piacere; e la repressione di altri appetiti entrerà come mezzo in questo piano. Noi intanto a b biamo notato tra fenomeni irreducibili l'appetito del benessere a sola mira di esibire intero nella 4. classe ildominiodell'amorproprio. E lapresenteosserva zione basta a far riguardare con tutto rigore l'addotto esempio di classificazione. Abbiam già completato il quadro de' fenomeni pri mitivi del pensiero, distinguendolo in tre categorie corrispondenti a' fenomeni, Sensazione, Giudizio, Volontà ; e tenendo conto delle condizioni loro comuni. Pria di progredire nel nostro divisamento, daremo fine a questo articolo con la seguente generale osservazione. La semplicità di una classificazione di fenomeni primitivi non si dee giudicare su la classe suprema. Il numero de' princip jignoti è eguale al numero de' fenomeni distinti nella totalità della classificazione. Può quindi avvenire, che due classificazioni sieno nel fondo identiche, mentre si offrono sotto aspetti assai diversi. Se, per esempio, alla prima classe, che comprende i tre fenomeni -- sensazione, giudizio, volere – si fosseanche ascritta la memoria, esi fosse distinta nella riproduzione degli atti mentali, e nel riconosciinento; non si sarebbe nulla cangiato uel nu Inero de' fenomeni irreducibili. Ciò non dimeno un tal cangiamento non sarebbe del tutto indifferente .Nella classificazione da noi preferita i fenomeni della prima classe sono i più differenti di natura. Ma ciò che si riproduce nella memoria non perde la sua natura primitiva. Le idee astratte si riproducono nella loro perfetta integrità. Le sensazioni perdono estremarnente di vivacità al riprodursi nella immaginazione. Niente altro cangiano di loro condizione primitiva. E lostesso avviene nella riproduzione delle affezioni morali. La memoria quindi, presa nel suo più ampio significato, non reca fenomeni di natura differente da que' della sensibilità, dell'intelletto, e della volontà. Queste ultime facoltà somministrano materiali fra loro differenti, e la memoria è addetta a ritenerli in deposito. Cosi la prima classe ha potuto segnalare la prima divisione della scienza ne' tre rami logica, etica, estetica. Non è certamente questo un vantaggio di allo rilievo, ma non v'era alcuna ragione per disprezzarlo.  Si supponga or che  invece di esibire in più ordinii fenomeni primitivi, si fossero enumerati in una sola lista , come è costume: sensazione, giudizio, attenzione, immaginazione, reminiscenza, analisi, sintesi, astrazione, generalizzazione. Il numero de'fenomeni primitivi potrebbe rimanere lo stesso, ma senza esservi marcata la dipendenza tra I medesimi. L'attendere è proprio dell'intelletto. L’immaginazioneè una legge della sensibilità. La reminiscenza o riconoscimento è un giudizio. L'analisi, la sintesi, l'astrazione, la generalizzazione, appartengono all'intelletto. Una tale dipendenza è una condizione di più nel fenomeno: è propriamente una ulteriore parziale riduzione. Così per altro esempio, se i motori della volontà si enunciassero come segue: Tendenza istintiva delle nostre forze all'azione; appetito istintivo del  piacere; appetito razionale del benessere; appetito della dignità personale; appetito dell'onore esterno; emozione benevola di riconoscenza; risentimento; benevolenza ; si avrebbe completo il numero de' motori primitivi, ma niente apparirebbe della loro dipendenza. L’enunciazione non darebbe ultimata la loro riduzione, non si esprimerebbe completo, per quanto a noi si scopre, il sistema della natura de' fenomeni della volontà. Vedula primordial nelle ricerche della origine e della reulià della scienza umana. Sula ipotetica origine a priori delle idee e IL METODO IL METODO VELLA SCIENZA DELLA NATURA.  primitivi ..realtà delle conoscenze. delle conoscenze. Si annunziano I principj, trattida osservazioni parlicolari, su la origine e Classificazione de'fenomeni primitive. Riduzione de'fenomeni particolari a' »esempio tratto dalla estetica Classificazione delle scienze nell'ordine logico. Metodo inventivo nelle scienze nat. Metodo inventivarella scienza delpen Melodo di esposisione nelle varie. Metododiesposizionenellascienzadelpensiero - poche idee sul metodo Utilitàinultimarleriduzioni Classificasione delle scienze. ESPERIMENTI DEL METODO PER LA SCIENZA PRIMA. CORSO PROGRESSIVO DELLA FILOSOFIA PRIMA,  E SUE DEVIAZIONI. Posizioni diverse nella quistione del Metodo. Esemplare classico del metodo speculativo. Primo esemplare del metodo di pura osservazione. Deviazioni del metodo nel periodo sco. Metodo di pura osservazione nella parte  psicologica della Filosofia ortodossa. Progresso della osservazione analitica nella Filosofia, ad onta che i sistemi: declinassero o al sensualismo, o  al’ idealismo. Idealismo assoluto de’ discepoli di Kant. Declinazione della osservazione analitica, e rifiuto de’ suoi prodotti precedenti, surrogandovi una supposta percezione de’.sensi, e una dimessa ma  ra soggettività, e per ultimo rivisioni ontologiche. Sut-nesso detta discorsa Rassegna ci con la  seguente. ESPERIMENTI DELLA FILOSOFIA SPECULATIVA. SULLA LOGICA DI HEGEL.  Su l'identità de’ due contrarii. Le idee fondamentali dell’ intimo senso  Vanno snaturate in ogni panteismo . Su le categorie, e l'Idea assoluta. . vo nella scienza prima   — tende di continuo ad alterare il genuino valore delle idee fondamentali. SU LA FILOSOFIA SPECULATIVA. SULLA IMPOTENZA DELLA RAGIONE INDIVIDUALE , SECONDO IL LAMENNAIS. . ="Sv-t5 EINE DI Dio, DEL cinite, SISI  L'ATTO CREATIVO, SECONDO IL Gro-  SERIE input » Sul secondo a della formola. .IN. Su Te altre parti della Formola, cioè  T Enie e l'alto creativo. .Sulla Visione delle idee in Dio indipendentemente dalle altre parti della    iu DETTE IEEE SU LE CONDIZIONI DELLA FILOSOFIA.  Sul concetlualismo, perenne caasa delle  deviazioni della Filosofia. . . Hi. Su i recenti proget di nuova Filosofia  OROCO: «..-_/._. cs. iu » Influenza della sacks tedesca su la Filosofia. Sulle più famose obbiezioni prodotte da’  moderni contro la Teologia naturale. VW. Riassunto degli articoli precedenti e conseguenze per le scuole d’insegnamento. » ÈNTE IN UNIVERSALE, LUME PERENNE DELL'UMANO INTELLETTO , SECONDO ZL ROSMINI.. Su i modi dialettici adoprati dal Rosmini  nel mostrar conforme al suo sistema la dottrina insegnata da Aquino. Wl, già un anno decorso che uno dei più profondi filosofi di questa Italiana provincia faceva da noi dipartila ! Niun periodico della capitale fra i tanti che pur trattano di futilità e di non nulla , o tutt'al piú di celebrità di teatro,fecealcunmottodilui:ilsoloOmnibus annun ziandone la grave perdita, prometteva una biografia dell'estinto:ma tale promessa insino ad ora non l'ab biamo veduta recare in atto Noi per mera carità di patria e senza pretenzione letteraria di sorta, diamo questi pochi cenni per come abbiamo potuti raccogliergli frugando nella nostra memoria (1). A quella regione ferace di eletti ingegni ed in ispecie di grandi filosofi da Pitagora a Galluppi (tralasciando tanli altri illustri nomi) appartenne il nostro Filosofo, avendo avuto i natali verso il 1792 nell'antica Reazio ,oggiM e  Ahi sugli estinli Non sorge fiore ove non sia d'umane Lodi onorato e d'amoroso pianto. . 7   soraca,inProvinciadiCalabriaultra2.dabaronale ed agiatafamiglia. Passòl'infanzianellaterranatale,ima mostrato avendo svegliato ingegno, fu pensiero di un suo zio, religioso dello insigne ordine de'Teatini di con durlo in Napoli per fargli apparare belle lettere e filosofia appo que'RR.Padri. Quivi dedicandosi alacremente a talistudi,ebbe a con discepoloilfamoso ex Generale de Teatini, P.Gioacchino Ventura, che se tutti ammirano per non comune facondia , per vasto sapere ,per rettitudine ed illibatezza di costumi, gl’Italiani lo avrebbero a ragione desiderato continuatore dell'opera progreditrice e liberale da lui cominciata a p r o p u g n a r e n e g l i a n n i 1 8 4 6 e 4 7 . C o n l u i il De Grazia le g o s s i con tale intima amicizia e scambievole stima , che le m e morie di quella loro prima età insieme trascorsa, dopo tanto volgere d'anni non più cancellaronsi ,abbenchè pel diverso stato da essi prescelto, vivuto avessero quasi sempre l'un dall'altro discosti. Escito il De Grazia da quelle scuole, diessi con tutto ardore agli studi severi delle matematiche , non pure tra lasciando qnelli della filosofia , pe ' quali monstrava incli nazione grandissima. Giovane ancora militò per qualche tempo nel Genio ; m a poscia,smesso il cingolo militare, esercito professione d'Ingegnere, entrando nel Corpo detto allora de' Ponti e Stradë. Si nell'una che nell'altra carriera adempi lode volmente ai doveri della sua carica, e procacciossi giusta estimazione.Ed abbenchè per lasua indipendenza di pen samenti e per la sua modestia , non venisse adoperato come avrebbesi dovuto,pure quello che in varie pro vincie per suoi elaborati disegni in opere pubbliche ed in fatto di edifizi vari, venne eseguito, riusci di uni versale contentamento,e rivelar seppe la sua valentia, tanto da essere ricercato e consultato dagli stessi suoi compagni ed emoli nella professione. Ma nel paese del De Grazia da piú tempo non costruisconsi più quelle opere grandiose da potersi rivelare il genio artistico di un'ar chitetto;e se pure alcuna fiata qualche notevole edifizio debbesi costrurre, l'ingegnosirimanefrapastoje;perché condannato a grame proporzioni di una architettura bor ghese, od a meschine economie che sovente lasciano le opere pel volgere di più anni incomplete,ovvero menate a compimento , ma di gran lunga variate dagli originali disegni. De Grazia, omettendo i lavori per Ponti e Strade e smessa ogni altra cura ed applicazione, si dedicò con tutto ardore a quegli studi filosofici che fin dalla gioventù avea mostrato di molto prediligere. Frutto delle sue lucubrazioni e speculazioni filosofichefulagrave opera:Saggio sulla realtà della scienza umana ; lavoro sapiente e profondo , che pubblicossi a Napoli e che il Silvestri in Milano ed ilFontana a Torino voleano ristampato pe'loro tipi,ma non vedendosi incuorati da   chicchessia a tale pubblicazione , e la stampa tacendo su di un'opera di tanta mole , ne smisero il pensiero. Non è scopo nostro venire in disquisizione sul suo si stema filosofico e sulle opere di lui, secondo che ne fac ciamo qui menzione ,pon sentendoci da tanto,e lasciando a'profondi pensatori un tale incarico. Solo diciamo ,ch'egli rifuggendo da'sistemi oltramontani e dallaservile imita zione, ha tutte leproprietà dell'italiano Filosofo, per quella sua maniera di studiare il mondo esteriore, e per quel pratico senno che loconducono dall'esperienza alla induzione ,per modo da congiungere sempre l'osservazione di fatto colla generalità delle idee.In ciò fare egli seguiva in gran parte le dottrine del sommo Aquinate ,gloria d’l talia e della Chiesa ; senza aver letto ancora Opera alcuna di questo santo Dottore. Per caso in confutando talune teoriche dell'altro nostro celebre italiano , l'abate Rosmini , il quale in un luogo delle sue opere ivaesponendo molte sentenze di S. Tommaso in conferma de'suoi detti,sorse vaghezza al De Grazia di leggere la somma di esso santo; e grandissimo fu il suo compiacimento in rilevare l'ac cordo delle loro dottrine in ciò che concerne ilprincipio di rifuggire da ogni ipotesi speculativa, e di ricondurre la scienza fondamentale al puro metodo di osservazione; e pieno di rispetto e di ammirazione pel santo d'Aquino, iva seco stesso facendo le più alte maraviglie del quanto poco abbia progredito la scienza filosofica in questi u l timi sei secoli. Oltre a molti altri scritti minori , pubblicati in parecchi giornali specialmentenel Progresso enel Calabrese,altra grave sua Opera è quella intitolata : Discorsi sulla Logica di Hegel e sulla Filosofia speculativa , ove adoprandosi dimostrare l'assurditàdi taleLogica,confutaque'filosofi che han cercato con malizia o senza addarsene d'intede scare la filosofia italiana.  Per chi le Opere del De Grazia punto non conosce,riu. scendogli per avventura nuovo un tal nome ,potrebbe di leggieri riputare sospetti i nostri elogi, se non altro ,per troppa carità di patria : noi a renderlo persuaso del con trario, e che anzi,il lodato resta sempre al disotto delle nostre umili laudazioni , citeremo l'autorità di un giudice assai competente ed in nulla sospetto, qual'è il celebre Professore di Heidelberg Cav. Carlo Mittermaier. Questi nel suo Libro Condizioni d'Italia pubblicato nel 1846 e precisimente nella Lettera di appendice indiritta al chiaro abate Mugna , traduttore del suo libro, dopo aver parlato delle celebrità letterarie e scientifiche d'Italia , e m o strando desiderio che le opere filosofiche degl’Italiani fos sero meglio sludiate dagli stranieri ed in ispecie da'suoi connazionali , venendo a parlare di Napoli dice : « Il genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina analisi dello spirito umano,sempre unito a grande dovizia d'idee e ad una tendenzapratica ».Ad essoappartengonoleopere di P. Galuppi e di V. De Grazia, peculiarmente l'opera di questo:Saggio sulla realtà dellascienzaumana.Esa >   minandol’A. gliscrittide'suoipredecessori,non che de'filosofi tedeschi ed entrando in minute particolarità (peresempio vol.2.p.1.174)intornoa'varipensamenti sulla origine delle idee,seguesi con piacere lo stesso A. nel suo ingegnoso sviluppo e si ammira la sua fina analisi intorno alla natura delle conoscenze pure intuitive , e c o noscenze dimostrative. « Fin qui il Mittermaier.Le parole di un tant’uomo sono più che sufficienti a testificare sul merito filosofico del nostro concittadino , ed altre singole illustritestimonianzepotremmopurqui addurre;ma le opere di lui per chi vuole e può leggerle parlano abba stanza.Solo non vogliamo tralasciare di dire che fu in grand'estimazione tenuto da quell'antico uomo di stato e scienziato profondo il Conte de' Camaldoli , Francesco Ricciardi,e che ilsuo grand'emulo il Galluppi (la cui fllosofia era stata in qualche parte del De Grazia confutata perché non severamente italiana, nè in tutto da lui tro vata scevra di straniere dottrine) richiesto un giorno del suo parere sul Saggio della realtà dellascienza umana , rispose:l'operaprocedemoltobene,secondo ilsistema seguito dall'autore.E qui di volo ci si permetta domandare a noi stessi: chi raggiun se piú il vero de' due chiari concittadini nei loro rispettivi sistemi? chi più possedette geniocreatore? A ciòrispondiamoesserpaghidi rilevare inambidue il positive progresso della filosofia appo noi e possiamo riguardarli come continuatori delle dottrine sviluppate da' due filosofi Calabresi Telesio e Campanella  che cercarono di richiamare la filosofia del secolo decimo settimo a'suoi veri principi facendo appello all'esperienza, alla propria ragione ed all'esatto studio del mondo ,quale si offre alla osservazione, e sopratutto cercando di sce verare la filosofia dalle quisquiglie scolastiche del tempo ; per il che ebbero a sostenere aspra guerra per parte de' loro avversari , seguaci delle dottrine d'Aristotile , più in quanto alla forma che alla sostanza. Or nella gran serie di sistemi de' filosofi di Europa , ognuno dei quali nasce per distruggere l'anlecedente , e per essere poi a sua volta distrutto dal successivo,i sistemi seguiti da' due grandi Calabresi, Galluppi e De Grazia, sono sistemi italiani, sopratutto quello del secondo , e sopravviveranno a'posteri assai più,se non c'inganniamo,dell'eccletismo di Francia e del razionalismo puro di Germania ,il quale ultimo sistema argutamente il De Grazia chiama: poema filosofico; abbenchè de' filosofi tedeschiegli faceastima grandissima, especialmentedi Emanuele Kant, ch'èil primo nella serie di quelli che formano la moderna scuola, per la mente profonda, vasta e unicamente originale fra tutti i filosofi di Germania ,per maturo giudizio,fervida imaginazione,esottilissimoingegnoanalitico,ma lamen lava che il suo genio batté la via del eccletismo scettico e del dommatismo razionale. Ma benché per noi sian grandi tutt'e due inostri con cittadini,nondimeno sembra rilevarsi dalle suespresse parole del professore di Heidelberg che nell'opera,da lui citata e da noi di sopra più volte riferita,la penetrazione filosofica e la fina analisi del nostro De Grazia abbiano richiamato la sua attenzione assai più che nol fecero le opere filosofiche del Galluppi. Eppure questi , sebbene tardi, fü almeno ricordato da quel Governo , essendo stato nominato professore di filosofia nella cattedra della universitàdegli studi di Napoli (2) e nella morte di lui fu r o n v i pubblich e esequie e recitaronsi funebri elogi m a il De Grazia vive e muore ignorato, e non fu noto che alla calabraterra, chevidelonascere,edaqualche singola celebrità nostrana e straniera. Di chi la colpa ? Forse de' tempi ? del governo ? o della propria sua indole? Noi crediamo esservi concorse tutte e tre le suindicate cagioni. Circa il governo cui appartenne il De Grazia, il merito non è merce cui è andato per ordinario ed unquemai in traccia; ma nel tempo presente solo il pensarlo è utopia. E finalmente l'indole di lui rifuggente dallo adulare potenti,dalcercarmecenati,dalraccomandare odedicare isuoi scritti achichessia,mantenendosi sempre in dignità  Il secolo che corre: e che appellasi posilivo non ha altripensieridominanticheilcredito,> laborsa,lespe culazioni commerciali, o tutt'al più qualche progresso materiale da solletitare l'ardente brama del guadagno (peste della società presente) che di continuo lo stringe ed arrovella;epperò non è secolo che occupar puotesi di filosofia.  e modestia , coltivando la scienza per abitudine contratta agli studi severi e per naturale inclinazione del suo genio inventivo e calcolatore, senza avere unquemai tenuto scuola (che gli scolari molto influiscono alla fama ed a rendere popolare il nome de’loro maestri)e menando per conseguenza vita laboriosa e ritirata ; fecer si tutte le cosi fatteragionicheilnome suorimanesseignotoall'universale. Ma qui non possiamo fare a meno di non osservare che in questa epoca di generale centralizzazione governativa negli stati di reggimento assoluto sopratutto, ne' quali ė spesso negato a privati di fare puranco il bene (4)o altra innocentissima cosa ,senza previa superiore autorizzazione, o sovrano beneplacito;ove nullapuossi mandare a stampa senzapreventivarevisioneecontro revisione;non rebbe uu richieder troppo da cotali governi se alla mania di voler lutto sapere ed operare aggiungessero un pò di buonavolontàedesideriodiconoscerelegrandi intelli genze , tenerne nota ed applicarle a vantaggio della n a zione. E grata cosa sarebbe riuscita al De Grazia,abbenchè dell'indole qui sopra descritta , e sempre abborrente dalla servitù e dalla vanità, se il governo in modo qualunque avessegli addimostrato di tenerloin pregio, o nominandolo professore di filosofia nella Università, dopo la morte del Galluppi, non essendovi in tutto il reame altri che più diluinefossestatodegno,omostrandogli dipregiarlo in altra guisa qualunque,ma sempre per moto spontaneo, essendo stata sua massima indeclinabile che il merito de  sa   vesi conoscere volenterosamente dagli altri,senza sforzo di sorta per parte propria. Sonovi però di momenti nella vita de' popoli in cui l'opinione pubblica si addimostra regina e manifestasi con tuttalapossibilespontaneità.Un talemomentosifuquando nel 1848 ilDe Grazia,non pure senza brigarlo,ma senza avervinemmeno pensalo,vide ilsuo nome con migliaia di voti sortire dalle urne elettorali, qual depulato cala brese nel Parlamento napoletano.Molto egli si compiacque per tale dimostrazione di stima e di fiducia da parte dei suoi concittadini;ed accetatone il grave mandato ,pieno di buon volere e di coraggio si parti con gli altri deputati per alla volta della capitale. Lusingavansi gli elettori suoi nella speranza di vederlo presto discendere dalle astrattezze filosofiche,alla realtà della vita politica:ma tanto non avvenné,   Equicisi permettanoper poco talune reminiscenze, r i andando 'un tempo, che già fu per i liberali onesti e di buona fede che credevano alla santità ed alla osservanza di giuramenti e del cui gran numero facevano parle quasituttii liberali delleprovincie, traqualiil De Grazia, que' tre primi mesi, con assai più ragione di quello che uno scrittore francese diceva del suo paese nel 1830 furono giorni deliziosi,in cui la generazione nostra conobbe quell'allegrezza,quella ‘speranza, quel non so che si raro nell'umana storia che ci fa dimentichi del peso della vita. L'avvenire non più  rappresentavasitristea'nostrisguardi,scoprivasiun'oriz. zonte sconosciuto, tutto era color di rosa,perché crede vasial progresso indefinitodell'umanità,ealcompimento insperato di tuttele promesse della filosofia moderna. Quelle notizie sempre succedentisi di libertà di popoli, di cessazione di ogni dispotismo e tirannide in quasi tutta Europa, d'indipendenza ed autonomia di nazioni, eccede vano l'immaginazione e faceano degli uomini tanti inna morati viventi in un'atmosfera inebbrianto. Tempi felici! e che non più ritorneranno !perocchè a tutte quelle nobili aspirazioni (forse perché non provegnenti nella gran maggioranza da vero disinteressamento, abnegazione e pura virtú) sono troppo rapidamente succedute le idee finanziarie e di materiali interessi, che stan materializ zandotuttiglispiritiedimmergendoliinunprofondo le targo daimpedirediaddarsidellalenta,ma sempreognor crescente propagazione del dispotismo; e che per sopras sello invece di farei indefinitamente progredire, ci ha fatto, e ne sta facendo precipitosamente indietreggiare (7).E cio di passaggio. Ma ritornando al nostro Vincenzo, egli era uno di quei tanti Filosofi che hanno il coraggio del pen. sieroe non quello dell'azione.Uomo adusato da tanti anni  а star chiuso nella rocca della sua mente per dare corpo e vita a'suoi pensamenti filosofici, riputavasi vestito del lusbergo delpiùsaldoproposito:ma arrivatoalcontatto della fredda realità, divenne esangue ed impallidi. Difatto giunto in Napoli, tosto avvidesi del come furono conce   I fatti che vide nel famoso 15 Maggio , al primo scio gliersidella Camera de'Rappresentanti della nazione, non che nel tempo successivo (da superare f i n a n c o l e sue previsioni e che iscusano la sua condotta inverso chi volle accagionarlo di timidità) fecero d' allora in poi addive nirlo più solitario e ritirato di prima. Lui felice ! che p o teva col pensiero allontanarsi dalla triste realtà che cir condavalo, e vagare tra i nobili e pacifici campi della fi losofia. Fu verso quel torno che rivedemmo per l'ultima volta il'De Grazia,ilquale ci feceaperto diesser egli tuttoap plicato al compimento di un lavoro già concepito quando legge la Somma dell'Aquinate.A questonomeglidichia rammo francamente il desiderio nostro, e di altri suoi amici ancora, che siccome dalle sentenze filosofiche scelte dalla S o m m a presentar volea la Filosofia di S. T ommaso , coll'esame comparativo delle dottrine del nostro secolo; cosi dalla scelta di tutte le sentenze politiche, di che ab bonda quell'aureo libro, ci facesse conoscere la politica di quel santo dottore, in tutto tendente a fare che la s u prema autorità non trasmodasse in dispotismo e tirran nide, e che la macchina governativa fosse tutta intesa a formare il benessere della gran maggioranza della co  48 dute le improvvisate riforme; col suo sguardo scrutatore s'impossesso della situazione politica del momento, e m i surandone tutta la portata, promise a sé stesso di non porre piede nell'aula del Parlamento Napoletano. e   mune Patria; che simili scritti, soggiugnevamo,potrebbero serviredifrenoalpotere,affinchéne'suoiattinon de generasse in forza brutale. Al che il nostro Filosofo (cui sembravagli ancora di sentire il fragore delle artiglierie) mestamente rispose: L'eloquenza della bocca de'cannoni fa ammutolire ogni lingua , e fa cadere la penna dalle p a ralizzatemani.E noidirimbecco:seilcannonedistrugge, la penna può e sa riedificare. Fu dunque nel 1851 che il cennato suo lavoro col litolo di:Prospetto della Filosofia Ortodossa, venne stampato in Napoli, in un volume in 8. di pagine 632. Fra le molle lodi che questo libro ebbe dalla stampa periodicadi di verse parti, furono quelle tributategli con molto calore dalla perma'osa Civiltà Cattolica (8)(anno 3. vol.10. N. 60) connostra grande maravigliaesatisfazione.Ma lamag gior lode che ridondar possa a vantaggio del De Grazia, si è, che per il primo ha cercato di far rivivere la Filo sofiadiS.Tommaso,echeilsuo pensieroè statoposcia seguito dalla Università -parigina e da parecchie di Ger : mania. Era sua intenzione comporre un'opera di Estetica ed un'altra d'Istituzioni filosofiche, questa sopratutto, per esservene secondo lui, gran difetto nelle scuole : m a tale divisamento non potè mandare ad effetto: sonosi tro vati,èvero,de'manoscrittinellasuacasa,ma forte temiamo che andranno perduti. Ferale morbo mina da più tempo isuoigiorni,edegli vide approssimare ilsuo fine con la serenità di un fanciullo e con l'impassibilità di un Filosofo ed il 22 settembre 1857 cessò di vivere. Fu ilDe Grazia di ordinaria statura e di gracile com plessione; di aspetto nobile e dignitoso, ed insieme di tratti gentili, e cortesi epperò riusciva piacevole nella conversazione.Nel suo incesso vedevasi grave e pensoso come se ruminasse qualcosa col cervello,o talmente era assorto da suoi filosofici pensieri,da non por mente alle cose esteriori,e da non addarsi degli amici che passavan gli allato, se questi nol riscuotevano chiamandolo per nome.Visse sempre celibe.Lasciò un'unico nipole, erede de'suoi beni, mostrandosi pur generoso nelle ultime dis posizioni verso due suoi antichi compagni ed i suoi d o mestici. Or un tant’uomo disparve dalla scena di questo mondo senza che nemmeno un fiore si fosse sparso sulla sua tomba ; senza che nè pietra pè parola additassero ove han riposolesueceneriericordasseroilnome diluiagli avvenire ! A voi Italiani,che amate gl'illustri figli della comune sventurata patria nostra, e che vi distinguete per nobili sentimenti di nazionalità, abbiamo rivolta la nostra p a rola:inscrivete,per come é debito, il nome di Vin cenzo De Grazia tra quei grandi nomi che passar denno alla Posterità ! Tu , illustre Mittermaier, che nel fare m e n zione in semplice lettera, de'chiari Italiani, non potesti fare a meno di non dire parole di lode sul merito filoso fico del nostro Eroe: spendine altre poche or ch'ei è trappassato, por vendicare l'ingiusto silenzio tenuto dal  20   21 paese ovo nacque e mori.E tu,o venerando P. Ventura, che non mai dimenticasti il tuo condiscepolo, abbenché sempre gran distanza da lui ti divise, e che forse ignori ch'ei non è più , in rilevare la sua dipartita, scrivi alcun motto per quell'ingegno sdegnoso di ogni schiavitù mas sime se straniera,che co'suoi scritti fè sempre aperta guerra alla filosofia che non attinge i suoi lumi alle fonti del Cristianesimo,ciòinfluirànonpocoafarsicheilnome deltuoanticoamicosiaconto all'universale(9).Le no stre rozze e disadorne parole rassembreranno talco o mica inruvida roccia,ma levostresarannoripetutedagliechi, lontani e renderanno al virtuoso obbliato, dopo morte quel merito che in vita gli fu negato.  0 Napoli febbraio 1858.  Sopra un'amena collina distante una diecina di chilometri dal mar Ionio è situata Mesuraca,paesello che conta un due migliaia e mezzo di abitanti.Uno scrittore che sognasse,ve gliando,gl'irrevocabili portenti della Magna Grecia,nei ru deri che ingombrano il vicino monte Matonteo, crederebbe di scorgere gli avanzi di un vetusto tempio , sacro a Venere ; e nel nome tradizionale della montagna non mancherebbe lo appiglio di ricordare il riso e gli amori , fidi compagni della vezzosaDeadiAmatunta.Noi,nellanostramodestaprosa, ci contentiamo a più vicine,e più certe memorie. Egli adunque contava quindici anni meno del suo illustre compaesano,del Galluppi, ch'era nato il 1770, nella stessa provincia di Catanzaro ,in una piccola cittaduzza posta quasi in riva dell'opposto mare;e,vedi caso,era nato anche lui di casa baronale ; sicchè pare che su lo scorcio del passato se colo lo stemma gentilizio non fosse così ostinatamente avver so agli studi  Addi 19 febbraio 1785, in quel paesello appunto,nasceva da Marco e Laura Brondolillo quel Vincenzo De Grazia, di cui vogliamo esporre la dottrina filosofica. Nasceva di casa baronale ; ma non è quel che ci preme ;nè pare importasse neppure a lui, che aveva il buon senso di segnare a fronte de'suoilibriilproprio nome ecognome asciuttoasciutto,e senza nessun prefisso. Giovanettino ancora di soli cinque anni lascio, o meglio gli fu fatto lasciare il paese nativo, e fu condotto a Napoli, e quivi chiuso nel collegio di San Carlo alle mortelle, dove continuò a studiare,come sisuole,finoallaprimagioventù. Tra le poche carte,non disperse o distrutte,dalle quali ho potuto raccogliere qualche scarsa notizia della vita di lui, avanza una lettera del rettore di quel collegio,certo Teofilo Misa,sottoladatadel15agosto1795,concuisiraggua gl i a v a il padre della b u o n a riuscita de' pubblici saggi dati dai figliuoli di lui.Questa lettera giova non tanto a testimonian za del profitto; chè un baroncino , si sa, fa sempre bene ; e di fatti il buon rettore si lodava non solo di Vincenzo , m a del l'altro fratello Domenico ; quanto ad assodare la data della nascita . Eugenio Arnoni , che laboriosamente s'ingegna di scrivere lememorie dellaCalabria,lofanato il1792:seil1795 da va pubblici esami , quella data è dunque sbagliata ; e rimane accertata quella che ho trovata scritta io nel volume su la logica di Hegel , insieme con l'altra concernente la morte del De Grazia.Il volume appartiene alla famiglia del filosofo,ed iol'hopotutoavere,insieme conglialtridocumenti,perla cortese premura di Antonio Serravalle, valoroso giurecon sulto,e caldo promotore della gloria del nostro paese:qual cuno di casa vi avrà registrato certamente quelle due date. Forniti i primi studi , diessi a coltivare le matematiche, e divenne ingegnere.Ilnapoletano conquistato dalle armi fran cesi,doveva allora,per l'imitazione de'conquistatori, corre re dietro al mestiere delle armi . Il 1811 il nostro De Grazia trovavasi arruolato da sottote nente nel Genio,quando con Decreto Reale comunicatogli da Campredon a nominato ingegnere aspirante di Ponti e Strade. L'an no appresso,con Decreto del 22 aprile 1812, fu promosso ad ingegnere ordinario di seconda classe. Qui i documenti , che abbiamo avuto sott'occhio , finisco no;nèsappiamo,se,cessato ildecennio,eiritirossi disua  2   scelta, o se fu licenziato dal Borbone restaurato sul trono. Dal 1812 ci è forza saltare al 1838 . Il 29 giugno di quell'anno la Società Economica di Cala bria Ultra 2.a lo proponeva a socio : la nomina aveva luogo soltanto il 18 dicembre 1839. Era lentezza,o si erano incon tratiostacoli?nonsisa,efameraviglia,come diunuomo di vaglia, vissuto tra di noi, s'ignorino tante circostanze, che ci aiuterebbero a lumeggiarne meglio la figura. Vero è che le abitudini del filosofo erano molto casalinghe, che dalla famiglia ei visse diviso , che per le vie raro si faceva vedere. E di o m i ricordo, c h e a n d a t o studente a Catanzaro benchè misidicesse cheilDeGraziaci fosseallora, benchèio avessi desiderio di vederlo,nonmiven ne mai fatto d'imbattermegli per via. Questariservatausanza,e'lnon averemaiinsegnato,fe cero sì, che poco si dilatasse la sua fama, e ch'ei passasse quasi sconosciuto. Quando il Serravalle mandommi le sue carte, credevo di trovarci copiose notizie,od almeno un frequente carteggio : m'ingannai :corrispondenze non mantenne,o non conservo ; più facilmente però non mantenne,perchè non ci sarebbe sta ta ragione di conservare alcune lettere, e di distruggere le altre.Nè ciòprovenne,aparermio,danoncuranza,ma da impossibilità; correndo tempi fieramente avversi ad ogni a c comunamento degli animi,pieni di paure e di sospetti.  3 Dueotrenomine diAccademie glivennero,chenoiab biamo trovate fra le sue carte,con una certa cura custodite: una ,a socio onorario dell'Accademia Valentini di Napoli ,che avevaaprotettoreilContediSiracusa,sottoladatadel4giu gno 1842;una seconda,a socio corrispondente della R. AC cademia de'Peloritani,sotto la data del 10 ottobre 1842 ;una terza,più tarda, ma non più celebre,a socio onorario della R. Società Economica della Provincia di Cosenza, sotto la data Ecco gli scarsi onori fatti ad uomo meritevole di maggior fama ! IlMittermaier,professore dell'Università diHeidelberg, scrivevaintantoall'ab.PietroMugna,cheavevavoltatoin italianoilsuolibro sulecondizioni d'Italia,quest'onore vole giudizio sul nostro filosofo : « Il genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina a n a lisi dello spirito umano ,sempre unita a grande dovizia d'idee e ad una tendenza pratica.Qui appartengono le opere di Gal luppi,ediV. deGrazia,peculiarmente l'ultimadiquesto. Esaminando l'autore gli scritti de'suoipredecessori,anche de filosofi tedeschi,ed entrando in minute particolarità,(per esempio vol.II,pag.1-171)intorno a'varî pensamenti sul l'origine delle idee, seguesi con piacere nel suo ingegnoso sviluppo,e si ammira la sua fina analisi (per esempio vol.II, pag . 171 ) intorno alla natura delle conoscenze pure e cono scenze dimostrative ». Così scriveva il giureconsulto tedesco. L'opera del De Grazia,a cui egli alludeva,e che preferiva a quelle dello stesso Galluppi, era appunto il Saggio su la realtà della scienza u m a n a cominciato a pubblicare a N a poliil1839,efinitoil1842. Della importanza di quest'opera,e della mira che l'autore vi si prefisse, discorreremo ampiamente : per ora giova a v vertire, che gli stranieri avevano letto ed ammirato un libro che gl’Italiani di allora quasi ignoravano,e che i contempo r a n e i, per non far torto ai loro maggiori, continuano ad ignorare. Escludo da questo numero Ferri, che nelsuo Saggio sulla storia dellafilosofia in Italia lo riporta nel ca talogo dei libri filosofici (degnazione non piccola) ; guardan dosi,beninteso,di accennarne almeno lo scopo.Forse non lo aveva letto. IlDe Grazia passava ilpiù del suo tempo a Napoli, dove il Galluppi fin dal 1831 teneva la cattedra di filosofia nella  4. Università,ed attirava a sè la gioventù si per l'insegnamen to vivo, come per la popolarità de'suoi elementi .Al De G r a zia mancava l'una cosa e l'altra,perciò non gli riuscì di ave re seguaci. E che desiderasse farsene, l'ho raccolto da una lettera che gli scriveva Lorenzo Zaccaro il 3 marzo 1842 . Nel saggio medesimo da lui pubblicato le allusioni al Gallup pieranofrequenti;mavelate,esenzacitarlodinome.La fama del suo illustre concittadino turbava i suoi sonni ; ma all'emulazione non simescevanessunsenso d'invidia,e molto meno obblique a r t i per soppiantarlo. Tulelli anzi mi ha raccontato, che,vacando per la morte del Galluppi la cattedra della Università napolitana,al De Grazia non sarebbe stato difficile ottenerla,se l'avesse chiesta.M o stratagli questa agevolezza,eiricusò di chiederla,benchè la desiderasse,enon lonascondesse:offerta l'avrebbeaccettata; ma ilGovernonapoletanoparchenonlovedessedibuonoc chio . IlDe Grazia,intanto,alparidelGalluppi sieratenuto ap partato,nè si era mescolato nei rivolgimenti politici:entram bi,per usare una frase del Bonnet,s'erano fabbricato un ri tiro dentro il proprio cervello . Il Galluppi aveva visto le stra gi del 1799 ,gli spergiuri del 1821 , ed aveva continuato tranquillo le sue meditazioni : pubblica, in mezzo a que  rimescolio , i suoi elementi di filosofia. Il De Grazia non a vrebbe potuto, per l'età, prender parte ai casi del 1799;a vrebbe potuto il 1821 , m a nol fece : la filosofia civile e bat tagliera era finita col patibolo di Mario Pagano ; da indi in poi,nel mezzogiorno d'Italia,prevalsero le speculazioni soli tariefattene'penetrali dellacoscienzasubbiettiva.IlGioia ed il Romagnosi scontavano nello Spielberg il delitto di aver applicato l'ingegno alla Statistica,ed al Dritto pubblico :nel Napoletano,tra il 1799 ed il 1848, i filosofi furono esclu sivamente psicologi. Non so se bisogna far eccezione per quel Pasquale Borrelli, che,sotto lo pseudonimo di Pirro    Il 1848 trovavasi il De Grazia avanti negli anni,dedito da quasi cinque lustri agli studi filosofici, stimato, se non cele bre; adatto adunque a rappresentare decorosamente alla C a mera la sua provincia. Pare che questi numeri gli meritas sero isuffragî degli elettori politici,ed egli riuscì eletto con 5103 voti,terzo fra inove deputati della provincia di Catan zaro .L'esito gli fu comunicato il 7 maggio 1848 dal Presiden te Ignazio Larussa, valoroso giureconsulto ,e scelto Deputato anche lui,con queste parole: Tal verbale , nell'essere il mandato legale de poteri a Lei conferiti, è in pari tempo la testimonianza più luminosa del le Sue eminenti virtù ». Il De Grazia però non fece a tempo di saggiarsi nella vita politica : la mala fede del principe aiutata dalla inesperienza politica del popolo insanguinava le vie di Napoli e sgomentava naturalmente l'animo di chi era fatto per la quiete dello scrittoio,anzi che pei clamori e per le zuffe delle piazze . Il De Grazia, senza infamia e senza lod e , torna agl i studi. Lallebasque, scriveva aLugano laGenealogia del pensiero, e che quivi pare balestrato da contrario e prepotente de stino. Dopo lamorte delGalluppi,contro lacuifilosofiaaveva assiduamente armeggiato nel saggio,era nel mezzodì inval saquelladelRosmini edelGioberti,ed,oltreaquesteita liane, quella straniera dell'Ilegel: i due ultimi filosofi aveva no principalmente il sopravvento . Ciò dava molestia a lui, costante e schietto sostenitore della filosofia della sperienza. Se gli era parsa incauta e sdrucciolevole quella che il M a miani chiamava la riservatissima filosofia del Galluppi,è da immaginare quanti pericoli non temesse dalle ardite sintesi del Gioberti e dell’Hegel. In un volume raccolse adunque le critiche di questi sistemi, e di quello del francese Lamen nais,e pubblicollo il 1850.   Pur lodando l'impresa del De Grazia,il Padula non gli dis simulava però che la critica fatta dell'Hegel e del Gioberti era scarsa al bisogno : instava, che ci tornasse sopra,e che raddoppiasse i colpi ; sollecitava da ultimo il filosofo a p u b blicare la Filosofia del pensiero, opera dal De Grazia dovu ta accennare come in via di esser composta. Quest'opera pe rò non venne , nè la critica contro all'Hegel ed al Gioberti fu rinforzata: venne bensì fuora il Prospetto di filosofia ortodossa. L'autore fin dalle prime mosse era dovuto p a rere sospetto di sensualismo,e quindi pericoloso alle creden ze religiose:a lui l'appunto rincrebbe,e si risolse di scagio narsene . Divisò quindi invocare a soccorso la filosofia dell'A quinate, valido usbergo a proteggerlo dai colpi frateschi, ed amettere in salvo la pericolante ortodossia.IlProspetto, invero,piacquealcleronapoletano,piacqueaiGesuiti;ras sicurò l'autore medesimo,che doveva sentirsi in disagio. Padula,ilsolo,credo,cheleggesseallorailibri delDe Graziain Calabria, glibattevalemani da Acri, suo paesenativo.LeletteredelPadulailDeGraziaavevacon servate; gradito applauso in tanto silenzio.Il Padula però gli dipingeva iltrionfo delle idee giobertiane appresso la gioven tù calabrese, ed in una lettera segnata addi 1 del 1851 ,da Acri,gli scriveva,non senza un certo sgomento,così : « Sia comunque , l'epopea giobertiana ha sedotto molti let tori;ed io invano da due anni a questa parte mi vado adope rando a disingannarli. Altro frutto non colsi, che di essere chiamato bestia ». A tergo di una lettera del Padula c'è una bozza di risposta doveilDeGraziaraccontaleliete,enonsoseoneste,acco glienze fatte al suo ultimo libro dal Sanseverino.Ricopio le sue medesime parole: « Oltre l'articolo inserito nella Civiltà Cattolica , al quale accenna la sua pregiatissima lettera,un altro forse se ne pub blicherà nel Periodico la Scienza e la Fede. Eparmichean   8c h e il clero napolitano a b bia accolto con favore il mio piccolo lavoro ;ilche io debbo precipuamente alla imparzialità e dottrina del regio prof. Don Gaetano Sanseverino, profes sore di filosofia nel Seminario di Napoli, il quale ha una m e r i t a t a r i p utazione presso il clero anzi detto. È ben s ì indipendente d a t a l favore v o l e opinione il suffragio de ' redattori della Civiltà cattolica ». Ho detto di dubitare, che queste accoglienze fossero one s t e , quanto erano liet e . Il clero napoletano allora, e i Gesuiti specialmente miravano ascalzare la filosofia del Gioberti,a denigrarla,ametterla inmalavoce.IlGiobertifilosofonon era forse la secreta n:ira de'loro strali :tiravano al filosofo per colpire l'uomo politico : guerreggiavano la costui filosofia per vilipendere quel senso d'italianità che traspirava da tutte le pagine dell'illustre torinese. In quella che il Padula aveva chiamatal'epopeagiobertiana,lafilosofianonerasenonun e pisodio solo;e se gran parte de'giovani corse dietro ai pensamenti di Gioberti , vi cor  e s o spinta da quel caldo patriottismo, onde ilfilosofo aveva saputo ravvivarli.Igiovani hanno più sicuro,che non gliuomini fatti,ilpresentimento dell'avve nire. I Gesuiti se n'erano accorti, e festeggiavano l'opera del De Grazia,perchè vi trovavano un poderoso aiuto.Non dico che il De Grazia sospettasse le riposte intenzioni de'suoi lo datori; egli accettava la lode, perché la credeva di buona fe de.Nell'annunzio che ne dà al Padula,e che noi abbiamo ri ferito,c'è la ingenuità, e direi quasi ilcandore di un fanciul lo che non ha pratica del mondo . Ecco ora l'intonazione dell'articolo della Civiltà cattolica : ne cito solo il primo periodo: ex ungue leonem . « Lode al cielo !Mentre tanti italianissimi fanno di tutto per intedescare la filosofia italiana, intenebrandola colle lar ve di quell'Assoluto che sfuma nel vacuo del possibile,e colla nullità di una logica che teorizza la contraddizione, sorge all'estremità d'Italia , nella patria degli Archita, dei Zenoni ,    dei Campanella, dei Galluppi un ingegno sdegnoso di tale schiavitù, che tenta richiamare gli Italiani a pensamenti meno aerei spezzando gli idoli adorati oggidì dalla filosofia eterodossa, e congiungendo l'osservazione di fatto colla ge neralità delle idee ». Qui la frecciata va agli hegeliani ; e'l contrapposto fra ita lianissimi e tedescanti non poteva essere più abilmente, o più gesuiticamente messo in rilievo : non basta però a colo rire intero il disegno dell'articolista, ed ecco un 'altra frec ciata,che mira più addentro. «Oh questosì,chepotràdirsiunverorinnovamentodifi losofiaitalica!enegode l'animo dipotervaticinarealch. A. esito migliore e maggior riconoscenza per parte dei suoi concittadini , di quella che sperar possono certi rinnovamenti di filosofia italica, i quali tentano di risuscitare i sogni di Pitagora e di Zenone per fingersi Italiani, mentre in verità altro non sono che triste imitazioni del protestantesimo te desco,o dell'eccletismo francese. Mentre costoro per dare lo scambio agli Italiani vanno nella Magnagrecia ad invocare la Pitonessa,perchè risusciti dalla tomba iprofeti del paga nesimo,all'estremità della Magnagrecia presso la calla del cattolico Galluppi la Provvidenza fa sorgere un ingegno sin golare, che passando dalla milizia alla Scuola sembra con trapporsi al Renato ,che abbandonò la milizia per combattere la Scuola ». FinquiilGesuita.Ordunque,notoio,quandosivuolfi losofare alla tedesca , l'Italia è la patria degli Archita , e dei Zenoni,e non istà bene curvarsi a gioghi stranieri: quando poi sirisale a Pitagora,ch'era stato modello adArchita,ed allo stesso Zenone da voi indicato,ecco che questi diventano a un tratto profeti del paganesimo : potremo sapere a quali filosofi bisogna ricorrere per aver il vostro pieno beneplaci to,padre reverendo ?  - « La lettura della bella sua opera mi fa sentire anche più la perdita che io ho fatta;e che sarebbe per me irreparabile se non mi riuscisse di vederla nelle poche ore che passerò in Napoli prima di ripartire per R o m a . Se in tale occasione p o tessiriceverel'onorediunasuavisita,mi stimereifelicedi conoscere il Ristoratore della filosofia ortodossa ». Mi son fermato su questi giudizî,perchè qualcuno ne ave va indotto,aver ilDe Grazia nell'ultima opera cangiato via, ed essersiaccostato alTomismo.IlDe Grazia,qui come nel Saggio,rimane saldo nella sua dottrina sperimentale: se di fetto v'ha in lui, è la ripetizione quasi puntuale delle m e d e sime idee,e delle medesime parole stemperata in molti volu mi;ma cangiamenti non glisipossono imputare.Quel che si trova dippiù nel Prospetto di filosofia ortodossa è lo sforzo di far parere tomistica la sua filosofia. Perchè ciò gli pre messe,non indovino : era per tranquillità della propria co scienza ? era per capacitare gli altri ? era per aver dalla sua il clero, e col mezzo di questa cooperazione diffondere la sua dottrina ? nol saprei dire: certo la sua filosofia rimase quasi sconosciuta, nè le lodi del clero napoletano e de'gesuiti le valsero allora, e forse le nocquero più tardi : successe di lei ciò ch'era succeduto di un teatro da lui disegnato,e costruito a Cosenza ; il quale fu disfatto per impiantarvi un collegio di gesuiti. Ma lasciamolo làil Gesuita,che non siaccorge,quanto la filosofia del De Grazia possa arrecar di nocumento alla sua fede:ilcritico non va a cercare tanto per lo sottile,e siap paga dell'autorità di san Tommaso ,e del titolo del libro:più inlànonvede.NèpiùinlàvideilP.Taparelli,contuttala fama di dotto, perchè in una lettera scritta al nostro De G r a zia da Sorrento,in data del 12 agosto 1852,lo salutava,senz'altro, ristoratore della filosofia ortodossa. Il De Grazia, saputolo a Napoli , era stato a fargli visita : non lo aveva trovato , e d il Taparelli , i n f o r m a t o n e , gli aveva scritto così.   Meritava egli quest'obblio? Certo che no ; e noi ci studie remo didimostrarlo,facendouna rapidaesposizionedellesue dottrine contenute ne'libri finora accennati. E primadi tutto: qualieranolecondizionifilosofichedelle provincie meridionali , quando egli diessi a filosofare ? Quale fine si propose egli ? Quali mezzi aveva sotto mano ? Queste notizie sono indispensabili per valutare equamente il risulta to delle sue ricerche . Vincenzo de Grazia aveva avuto una coltura matematica ; e, come porta questa coltura, il suo spirito ne aveva attinto un bisogno di dimostrazioni rigorose,ed un'avversione alle conclusioni frettolose, ed alle sintesi arrischiate. Da parec chie testimonianze si raccoglie,ch'ei diessi alla filosofia sui quarant'anni, quando già la fantasia è manco vivace pur n e gli u o m i n i c h e p i ù n e a b b o n d a n o . E l ' e d u c a zion e a d u n q u e e l'età lo attiravano per quella via piana e sicura, dove un pie de va innanzi l'altro, senza intoppi, e senza bisogno di salti. Nel 1825,quando all'incirca eisimise afilosofare, ilGal luppi aveva lastricato quella via, ed additatala ai suoi con cittadini.La filosofia sperimentale era in voga. Erainvoga,ma lestavasempre difronte,temutaavver saria,quella filosofia che rivendicava all'attività dello spiri to un'attività produttrice ed indipendente, benchè sotto v a rie forme. Il Locke nel secolo diciassettesimo aveva combat tuto l'Innatismo cartesiano,ma era stato alla sua volta com battuto da Leibniz :l'Innatismo ricompariva sotto altro aspet to.Non dicogiàchelefiguresianobell'edisegnatenelmar mo,dicevaLeibniz;ma ilmarmo nonèperòliscioeschiet to,c'èuna certavenatura,che messa inrisalto siaccosta as sai alle linee che ti occorrono a figurarle. Stefano Bonnot di  11 Il De Grazia mori a Napoli, quasii gnorato : era attorno ad altri lavori , fra i quali un'Estetica, eleIstituzionidifilosofia;ma diquestimanoscrittiforsela sciati a Napoli non si è potuto avere nessuna notizia.   Condillac ripigliava l'impresa del filosofo di Wrington , e non c o n t e n t o d i d i v o l g a r l o t a l e q u a l e , c o m e a v e v a f a t t o il V o l t a i r e , lo semplificava,lo facilitava,sicchè la sola sensazione faceva a lui quell'ufficio, pel quale al Locke erano occorsi due coef ficienti : la riflessione del filosofo inglese era sbandita come soverchia.IlCondillacaveva,come suolesuccedere,comincia to con ricalcare fedelmente le orme di Locke , poi aveva ri fatto a modo suo : e la sua semplicità maravigliosa piacque in Francia più della circospetta indagine del filosofo inglese. Onde,morto luiil1780,ilsuofilosofarecontinuò,inter r o t t o a p p e n a d a l l o s t r e p i t o d e l l a r i v o l u z i o n e ,c h e t e n n e d i e t r o allasuamorte.Cessato,difatti,ilterrore del1793,l'anno appressoicondillachianiriapparveropadronidelcampo filo sofico,edebberoinmanolaScuolanormale,el'Istituto,che allora sorgeva per Decreto della Convenzione attuato dal Di rettorio.Questo gruppo detto degl'Ideologi contava nomi ce l e b r i : C a b a n i s il f i s i o l o g o d e l l a s c u o l a , T r a c y l ' i d e o l o g o p r o priamentedetto,Volney ilmoralista,Garatprofessorealla scuola normale e difensore del sistema ; e poi con loro altri che dipoi deviarono,chi più chi meno ,ma che allora stavano p e r la m e d e s i m a d o t t r i n a : il M a i n e d e B i r a n , il D e G e r a n d o , ilLa Romiguière. Nel decennio corso fra la cessazione del terrore e la fon dazionedell'Impero,dal1794 al1804,questogruppodiva lentuomini si adunava nei giardini di Auteuil, e l'amicizia deglianimi siaccoppiava ne'loro convegni allaconcordia delle dottrine . Sotto l'Impero , il cielo per loro si annuvolo . Tutti sanno il dispregio in cui il primo Napoleone teneva l'I deologia;nontuttinesannoilmotivo.Napoleonenon l'odia va tanto come dottrina,quanto come partito. IlCabanis,ilVolney,ilGarat,ilDeTracy,cheavevan visto di buon occhio il Nettuno che placava le onde tempe stose della rivoluzione, non furono più contenti, quando lo videro troneggiare da Giove . Gli tennero il broncio , ed ei si  12   vendicò nel rimpastare l'Istituto,scartando la sezione delle scienze morali, e destituendo l'Ideologia, secondo la frase del Damiron . Il Villemain racconta gli scoppi della collera napoleonicacontro quegl'innocenti ideologhi,che poinon lameritavano davvero.All'Ideologia Napoleone imputava di scandagliare le fondamenta dello Stato col fine di scalzarle. Vera o falsa che fosse l'accusa,l'Ideologia ne scapitd, alme no perdendo la veste di filosofia ufficiale, e lo spiritualismo, chenespiavalemosse,lasoppiantonellascuolanormale, dove ilRoyer Collard l'introduceva il1811. Seguace del keid,questo eloquente filosofo seppe vincere la preoccupazio ne invalsa, che filosofare liberamente non si potesse fuori della Ideologia;e che quindi o bisognava accettare lo spirito teologico del De Maistre, o schierarsi tra gl'ideologi con a c a p o il T r a c y . C o l R o y e r C o l l a r d l ' a l t e r n a t i v a f u e v i t a t a , e d inaugurata la nuova scuola filosofica della Francia , quella ch'è stata da indi in poi sempre al potere col Cousin ,col R é musat, col Barthélémy de Saint Hilaire, col Waddington , colSimon. In Italia lo spiritualismo ,rinfiancato dall'eccletismo cousi njano,benchè tradotto dal Galluppi,non fece fortuna: gl’Ita liani o tennero la via degl'ideologi, o se ne scostarono per ben altra filosofia, che non fosse l'eccletismo. Più che la filosofia del senso comune proposta dal Reid per fronteggiare lo scetticismo di Davide Hume ,ed accettata dal Royer -Collard per combattere l'Ideologia,diè da pensare agl'I talianilafilosofiatrascendentale di Emanuele Kant.IlGal luppi se ne mostrava profondo conoscitore fin dal 1819, quando incominciava la pubblicazione del Saggio su la cono scenza umana ;sebbene avesse dovuto studiarla nelle scarse e s p o s i z i o n i d e l V i l l e r s . P i ù t a r d i s o l t a n t o , il 1 8 2 1 , t r a d u c e v a laCriticainitalianoilMantovani;ma PirroLallebasque,il 1824,era in grado di studiarla su l'originale, come dimo stra di saper fare nella esposizione che ne dà nella sua Intro  13   duzione alla filosofia del pensiero : caso degno di nota per quel tempo, quando nè la lingua,né la filosofia tedesca era no divolgate, come oggidì, non dico in Italia, ma neppure nella rimanente Europa . Leduevieaperte,daindiinquà,furonoadunque,almeno p e r n o i , q u e s t e d u e : il s e n s i s m o , e d il c r i t i c i s m o . T r a q u e s t e cercava di aprirsi un varco intermedio il Galluppi ; al sensi smopropendeva ilBorrelli,alcriticismo ilColecchi.Pa squale Borrelli scriveva e stampava a Lugano, quasi con temporaneamente al Galluppi, ch'ei conosceva però soltanto di nome .Ottavio Colecchi insegnava pure in quel torno,ma le sue questioni filosofiche non furono pubblicate, se non il 1843. Che ilDe Grazia non abbia quindi conosciuto gli scritti del Colecchi , è certo ; del Borrelli si può dubitare, benchè a certi segni,che appresso additeremo, si possa credere di averne avuto sott'occhio le opere .Indubitato è però che siasi formato sul Galluppi,e che siasi prefisso di camminare su la via dischiusa dal suo gran concittadino, evitando gli svia menti ,in cui l'altro era incorso ,e tirando più dritto alla meta . Più dritto e difilato procedette in realtà;ma verso dove ? ParvealDeGraziacheilGalluppi,scambiodifondarelafi losofia della sperienza, come si era proposto, per incaute concessioni al Kantismo,era finito con darsegli in preda. Cotesto sviamento ei combatté a tutt'oltranza ne'primi libri, come nell'ultimo;primacopertamente,esenzapronunziarne ilnome,poiallasvelata.Onde amenonpiccolasorpresaha cagionato il giudizio di certi nostri storici e critici ad orec chio,iqualiconfondonoilGalluppicolDeGrazia,comese professassero la medesima dottrina. Capisco che iltitolo, c o m u n e a d e n t r a m b i , di filosofia s p e r i m e n t a l e , h a p o t u t o t r a r reinerroreiprelodatigiudici;ecompatirei losbaglio,s'ei fossero dilettanti;ma è da condannare severamente in loro, che si danno l'aria di scrivere storie e critiche, senza leg gere neppure ilibri istoriati e criticati.  14   15 TornooraalDeGrazia.Perdimostrareilprocessostori co de'due opposti avviamenti, ei ricorre alla sorgiva :rifà quindi la storia de sistemi filosofici moderni,ed ammaestra to dagli errori altrui ripropone il problema, e si accinge a risolverlo. Anche qui l'influenza del Galluppi è manifesta, avendo questi pel primo rimesso in onore appresso di noi la storia della filosofia, e dato il più lucido esempio d'innestare le ricerche proprie con le indagini fatte prima da altri sul m e d e s i m o s o g g e t t o : il D e G r a z i a t u t t a v i a r i t e s s e l a m e d e s i m a storia con altro intendimento ;perciò la sua non è ripetizione di quella fatta dal Galluppi, e vale il pregio di essere esposta e conosciuta in disparte. II. La filosofia pel De Grazia si aggira sul problema della scien zaumana,nèpiùnémeno,chepelGalluppi:iltitolodelle due opere capitali scritte dai due filosofi calabresi accusa la medesima intenzione.Il Galluppi scriveva il Saggio plosofi co su la critica della conoscenza ; il De Grazia, il saggio su la realtà della scienza umana . Questa similitudine ha tratto in errore alcuni storiografi dafrontispizî,perchè dallaintestazionesono corsi,senz'al t r o , a d a s s e r i r e c h e il G a l l u p p i e d il D e G r a z i a p r o f e s s a n o l a medesima dottrina.Se non che,questa volta l'hanno sba gliata ; chè se il problema è lo stesso in entrambi , la solu zione è diversa non solo,ma opposta.Il De Grazia scrisse col manifesto divisamento di combattere la soluzione gallup piana. Già nella stessa intestazione il filosofo di Mesuraca accenna a questo punto capitale del suo Saggio , ch'è la real tà della scienza,compromessa,a parer suo, dalla spiegazio ne accettata dal filosofo di Tropea. Ma seguiamo ilprocesso storico delproblema,com'è espo sto dal De Grazia. IlGalluppi aveva dato l'esempio di accoppiare alla sua    Ancora non gli eran potute essere note le tre epoche di stinte da Augusto Comte , che par di non aver conosciuto n e p pure dopo,egiàeglitripartiscelastoriadellafilosofia,aun di presso,con un criterio analogo a quello del filosofo francese. Nella prima epoca la ragione,baldanzosa per inesperta gioventù,silibra a volo,e tenta costruzioni metafisiche, te nendo scarsissimo conto della scienza principale,e facendo ne quasi un'appendice delle sue fantastiche cosmogonie. Nella seconda,ella piglia per verità le mosse dal proble madelconoscere;matostoloabbandona,sedottadallame tafisica. Nella terza,la ragione rinsavita si propone chiaro il suo cômpito,ed'altronon sibriga;senon che,pur nelle solu zioni del problema conoscitivo,di quando in quando,fa capo lino ilrazionalismo. Insomma l'esosa metafisica,lo scapestrato razionalismo s o n o p e r D e G r a z i a il v e r o o s t a c o l o , c h e n o n l a s c i a p a s s a r l a vera scienza per la sua via. Alle tre epoche egli assegna questi intervalli di tempo:la prima si stende dai primi abbozzi ionici fino a Socrate, il fondatore della definizione,e de'ragionamenti d'induzione ; la seconda da Platone e da Aristotele corre fino a Locke ; in terrotta qua e là dai tentativi del Galilei, del Bacone,e del Des Cartes;laterzaduraancora,edènelmeglio delle sue conquiste.  16- dottrina la genesi storica del problema da lui riproposto ; e sirifàdaCartesioaquestaparte,daCartesiocheperluiè il padre della filosofia moderna .Il De Grazia risale più in su , fino ai primordî della filosofia greca , senza perder d'occhio p e r ò il p r o b l e m a d e l l a s c i e n z a . Il s u o c r i t e r i o s t o r i c o è s e m plicissimo:v'èduefilosofie,una che ritienel'osservazione de'sensi,un'altra che l'impugna;e quest'ultima, comechè si argomenti di ricostruire la impugnata testimonianza,m e ritasempreilnome dirazionalismo.   È mestieri,diceilDe Grazia,distaccardeltutto leme tafisiche speculazioni dalla scienza del pensiero,per forzar la ragione al metodo di pura osservazione ». La ragione,secondo lui, ha una tendenza precisamente contraria; ingegnandosi di rimenare all'ordine a priori quel chetrovasidatodainduzione.È necessario adunque che la filosofia n e infreni l' i m p e t o , e n e m o d e r i la foga ; e , p e r n o n esserviriuscitaancora,lametafisica èrimastastazionaria, piena zeppa di ambiziose vedute, non avvalorate da'fatti. «Positivoprogresso dellafilosofiad'oggidì è quello di es sersiridottelericerchemetafisiche,cheuntempo formava no la sterile ricchezza degli scritti filosofici ». L a s t e s s a a v v e r s i o n e h a il D e G r a z i a p e r l o s p i r i t o t e o l o g i c o . « L'intervento divino nella spiegazione de'fenomeni na turali vale quanto la macchina nello scioglimento del nodo diuna tragedia.Perocchè è ben facile espediente ilriporta re ad una causa sovrannaturale quegli effetti, che non siè saputo ricondurre alle cause naturali ». Soggiunge innotaunariserva,èvero;dichiaradinon v o l e r i m p u g n a r e i m i r a c o l i : il p u n t o p r i n c i p a l e n o n è m e n saldo però,l'esclusione loro dalla scienza. QuiilDe Grazia,siacheloconoscesse,oche s'incontras se col Comte , si mostra cosi aperto avversario dell'interven todivino,come delleipotesimetafisiche:teologia,erazio nalismo sviano dalla vera scienza. Il tradizionale metodo della filosofia telesiana rivive dopo tresecolinelDeGrazia:fondamentodellascienzaèlasolaos servazione;e nondimeno riserva di ossequio verso l'autorità religiosa,da parte degli autori. IlDeGrazia rivolgeaifenomeni delpensiero quella os servazione, che il Telesio aveva rivolto a'fenomeni naturali. Ilmetodo ch'ei si traccia,e che si studia di seguire,è il se guente:osservare ifenomeni primitivi,ridurli finoagli ele menti irreducibili.  17 3    «La filosofiaintellettuale,eidice,dopoaverriconosciuto i fatti attuali di coscienza dee saggiar di risalire di riduzio ne in riduzione al fatto primitivo,alla pura veduta intellet Quali sono i fenomeni primitivi del pensiero a cui si fer ma?Sono tre,lasensazione,ilgiudizio,ilvolere;quindi tre parti principali della filosofia,Estetica,Logica,Etica. Lasciando di vedere se questi tre sono proprio i fenomeni irreducibili,certo è però che ilmetodo da lui seguito è pre cisamente quello tenuto dalle scienze esatte.L'autore non dissimula il bisogno da lui sentito di applicare alla filosofia ilmetodo dellematematiche,allequali s'era da prima ad detto, e dal cui studio deriva in gran parte il riscontro che si può scorgere tra la sua filosofia e quella che nel torno m e desimo si coltivava in Francia sotto il nome di filosofia po sitiva. « E p p u r e , e s c l a m a il D e G r a z i a , n o n v ' è c h i p a s s a n d o d a l la evidenza delle matematiche alle ricerche filosofiche non senta irrequieto ilbisogno di sortir fuori delle incertezze, in cui vede implicato il sistema della scienza ». Come dalla semplice osservazione lo spirito possa solle v a r s i a l l a r i d u z i o n e s c i e n t i f i c a d e ' f e n o m e n i , il D e G r a z i a d e scrive in modo molto preciso;e tale che merita esser riferi to con le sue stesse parole. « Ma l'esperienza non è l'osservazione empirica,che si arresta a'fenomeni isolati.Ilmetodo sperimentale sigiova dituttiinostrimezziperiscovrirelaconnessione de'feno meni;del ragionamento astratto,della induzione,delle spe rienze artifiziali, delle ipotesi.Con sì varî mezzi la fisica la vora alle classificazioni de'fenomeni esterni,a ridurre i fe nomeni particolari a'generali,a rilevare dal corso della na tura le sue leggi,cioè le costanti condizioni de'fenomeni,le une costanti e permanenti , le altre costanti nel cangiar dei fenomeni. In tal divisamento non mira soltanto a minorar  tuale ».   l'ignoto,che resta limitato a'fenomeni irreducibili, ma ad uno scopo più positivo,a quello diprevenir l'esperienza,e somministrar così preziosi materiali a tutte le arti ». C h i r i c o r d a il m o t t o d e l C o m t e : « s a v o i r c ' e s t p r é v o i r » r i conoscerà di leggieri il riscontro de due filosofi. Nè risalta meno la comune mira di ridurre i fenomeni fino all'estremo limite, affine di minorare l'ignoto . Trasportandoorailmetodotestedescritto alleinvestiga zioni filosofiche, il De Grazia procede cosi ; osserva , cioè, i fatti della coscienza,qual'è attualmente, e di riduzione in riduzione risale finoaiprimielementi,ond'ellaèstata ge nerata.Eglistessoformolailsuoproblemainquesti termi ni:«coimezzichesonoinnostropotere,ritrovarlagene razione delle verità,di cui siamo in possesso ». Questo metodo ei lo chiama genealogico; e la parola ed il concetto sitrovano inun altro filosofo italiano,noto alDe Grazia,in Pasquale Borelli,che intitolò lasua filosofia,Prin cipii della genealogia delpensiero.Fino a che punto s'ac cordino nel loro intento,toccheremo appresso :qui basta n o tare,chelafilosofiavera,lafilosofiaseriapelDeGrazia co mincia con quest'analisi minuta degli elementi primi del pensiero.Dimodochè sebbene ei lodi Aristotele di aver a m messo la realtà delle idee universali,e più ancora di essersi fondato sul senso,nondimeno,poiché lo Stagirita vi arrivo quasi di lancio,e per un'affrettata generalizzazione,il n o strofilosofononripiglialaverastoriadalui.Ilprimo sag gio genealogico del pensiero sembra a lui,essere stato il Saggiosul'intellettoumano diLocke,chepure ilGalluppi chiamava immortale. QuelSaggio,cadutopoi indiscredito,ebbe una meritata rinomanza;elafamafupiùfondatadeldiscredito.La filo sofia inglese mette capo tutta quanta in esso ; la francese del secolotrascorso nederivò;allatedesca,iniziatadalKant, d i è il p r i m o u r t o p e r m e z z o d i H u m e . O g g i d i , a p p r e s s o d i n o i  19   Il principal merito del filosofo di Wrington era agli occhi del De Grazia quello di aver combattuto ad oltranza le idee innate.Ritenere tutte,o alcune idee per innate,porta ne cessariamente per conseguenza di non ricercarne l'origine; e quindi impedisce il progresso della filosofia, che tutta si dee travagliare attorno a questa ricerca.Cartesio e Leibniz, chesicredonodiaverleammesse,inrealtàleritenneroco me semplici disposizioni ;e fu per colpa di una improprietà dilinguaggio ses'imputòalorodiaverleaccettate.E qui dava una toccatina alGalluppi. Ma ilsistemalockiano,nelrintracciarelagenealogia del pensiero, omise moltissimi atti mentali che vi concorrono ; ed era omissione scusabile in un primo tentativo,ed in ri cerca cotanto complessa.Locke diè,per dir così,una for mola generale,allaqualeeranoapplicabilipiùvalori:Con dillac si avvisa di darle un valore preciso ; ma precisando, disvia.Locke,difatti,aveva riconosciute due sorgenti delle nostre idee,la sensazione,e la riflessione:quest'ultima non era ben definita,erauna funzione che accoglieva un po'di tutto,giudizio,astrazione,ragionamento,volontà,era in definita,siconfondeva con lacoscienza:Condillac dà un va  - 20 - sièpiùgiustiversodelmodesto,delsincero,del pazientis simo Locke ; smessi i superbi fastidî delle sintesi frettolose: al tempo che scriveva il De Grazia le invettive giobertiane erano accolte senza molti scrupoli ; ed al filosofo calabrese f u g l o r i a n o n e s s e r s e n e l a s c i a t o s m u o v e r e . Il G a l l u p p i , c o m e abbiamo visto,lo aveva pregiato assai,ma i consigli del buon vecchio cominciavano ad aver poca presa su gli animi de'giovani.Fuori d'Italia l'Herbart faceva tanta stima del Saggio lockiano,che al Consigliere Clemens,il quale lo ri chiedeva intorno alla filosofia da insegnare ne’ginnasi, riso lutamente rispondeva : dal maestro di filosofia ne'ginnasi anzi tutto ed assolutamente richiederei che avesse letto Locke .  lore preciso , riduce tutto alla sensazione , o semplice , o t r a sformata : sentire è giudicare. IlDe Grazia,come abbiamo visto,fa della sensazione e del giudizio due fenomeni irreducibili ; egli non può dunque nè contentarsi dell'ambiguità della riflessione lockiana, ne moltomeno dellasemplicitàdellasensazionecondillachiana. All'osservazione de'fatti gli pare che il Condillac abbia sosti tuito la tortura del fare sistematico . Gran merito di Kant è quello di avere scorto l'importanza del giudizio,di questo fenomeno irreducibile,stato dal Con dillac confuso con la sensazione. Pel filosofo di Koenisberg gli ultimi elementi delle nostre idee sono da una parte le sensazioni,dall'altraigiudizî:idueelementi appunto che al nostro filosofo paiono indispensabili alla soluzione del p r o blemachesièproposto. Ma con questo gran merito egli imputa al Kant una gran colpa,la soggettività de’rapporti; vizio che gli sembra infet tare la filosofia contemporanea. L a s o g g e t t i v i t à d i K a n t p e r ò , e d il D e G r a z i a n e c o n v i e n e , fu una necessità storica. Locke aveva detto che tutte le n o stre idee nascono dalla sperienza,e che un'idea originale semplice non può derivare quindi da un ragionamento : H u meaccettòlepremesse,econtinuò:mal'ideadicausanon ܚ.ܝ 21- Per lui,come per d'Alembert,lafacoltà distintiva dell'es sere attivo e intelligente,è quella di poter dare un senso al la parola è:ora il Condillac questa distinzione l'ha distrutta. ; i J tà el Seelementisoggettivi,eglinota,simesconoco'dati spe rimentali,in taleipotesinon conosceremmo quel ch'è nel fattoosservato,ma quelcheciapparisce esservi;talchese spogliamo ilfattodiciòch'ènostraproprietà,lanostraco noscenza svanisce.Si vuol che siano elementi soggettivi le ideedispazio,ditempo,disostanza,dicausa?Togliete via dunque dagli oggetti esterni e dal proprio essere siffatti ele menti;e la scienza della natura,e dello spirito è distrutta »,   può derivare dalla sperienza ;dunque non c'è.Cosi tutta la scienza della natura andava in aria,e Reid sirifugiò nel sen so comune ,in una credenza irresistibile,istintiva:Kant a m mise degli elementi aggiunti dall'attività dello spirito. IlDe Grazia nota con molto accorgimento,che in sostan zailsensocomune,dicuitantosicompiacciono certi filo sofi anche oggidi,non salva nulla;che per giunta è pieno di contraddizioni,perchè introduce classificazioni e distinzioni arbitrarie,mentre si era prefisso di accettare le comuni cre denzetaliqualisitrovanonellacoscienzavolgare;che tra Reid e Kant,per ciò che riguarda la realtà della scienza, nonc'èpuntodidivario. «Kantnellospiegareilfenomenolosfigura,elascia sco vrireildubbio:lascuolascozzesetieneoccultato ildubbio perchè non imprende la spiegazione del fenomeno .... È BravoilDeGrazia!Eglinonsilasciaappagaredallepa role,e civedebenaddentro;esel'haconKant,saperò rendergli giustizia,nè condannando lui,assolve quelli che sono intinti della stessa pece. Ed ora viene ilbuono.Nella dottrina kantiana ei capisce subito, che non il numero degli elementi soggettivi aggiunti dallo spirito,ma l'aggiunzione sola,quanta che fosse, era sufficiente a compromettere la realtà della scienza umana . Certi nuovi critici,che in filosofia credono poter servirsi dellastadera,han detto,peresempio:ilKantammette in tuizionipure,categorie edidee,tutte apriori,ilGalluppi, invece, appena appena dà per soggettivi i due rapporti d'i dentità e di diversità,dunque è lampante ch'ei sian discosti le mille miglia uno dall'altro.  sta dunque la differenza, in quanto alla realtà delle nostre conoscenze , tra il proscritto sistema kantiano, e la favorita dottrina della scuola di Reid !> que IlDe Grazia scrive così:«basta ilsupporre una pura ve duta dello spirito il solo rapporto d'identità e di diversità,   ·23 rapporto fondamentale delle nostre conoscenze , per ricadere nel realismo empirico del sistema kantiano ».(Saggio etc. Vol.2,pag.160 - Napoli 1839). Nè contentoacid,altroverincalzalasuaosservazione in questi termini: « M e t t i a m o o r a i n d i s p a r t e il s i s t e m a k a n t i a n o ; c a n g i a m o la sua ripartizione tra gli elementi soggettivi e gli oggettivi accordando più largamente alla sperienza ; o anche tutte le idee diciamole derivate dalla sperienza,e riteniamo bensi solamente che non sono condizioni oggettive i rapporti a n zidetti appresi tra le sensazioni ; noi ricadiamo apertamen te nel realismo empirico della filosofia critica ». (Vol. 3, p.367). Pel De Grazia il kantismo consisteva nell'applicazione di elementi soggettivi alle sensazioni:dovunque riscontra que sto medesimo processo ei riconosce ritenuto il fondamento della filosofia kantiana. Ei si maraviglia anzi che gli altri non siansi accorti di questa medesimezza. « La storia nota a stupore della posterità,che i filosofi tutti hanno accusato d'idealismo il sistema kantiano, e che niuno aveva avvertito, l'idealismo esser nella supposta n a tura soggettiva delle idee di rapporto ».(Vol.4,pag.512). Quale sarebbe stata la maraviglia del De Grazia,se avesse vistoche,quando ebbenotatacotestasomiglianzaloSpaven ta,controluigridaronotutteleoche,vigili sentinelledella rocca filosofica. Parve denigrazione della filosofia italiana, quella ch'era critica aggiustata e seria:parve così a coloro, iquali se ne predicavano sostenitori,quando non l'avevano studiata,e forse neppure letta. Ma torniamo al De Grazia. Ei non cita il Galluppi in tutto quanto il Saggio, se non una volta sola ; egli però scrive il libro per combattere la dottrina del suo gran concittadino,che glipareva derivata a dirittura da quella di Kant.Che però miri al Galluppi, ap    parisce da un'apposita nota,che aggiunge a pag.239 del 4° vol.delsuoSaggio. « La dottrina degli elementi soggettivi,ei dice,è stata da noi detta soggettivismo per denotarla qual vizio radicale del metodo filosofico.Puòanche dirsiformalismo,riferendosi alleformepure diKant,che sono gli elementi soggettivi. Noi abbiamo preferito finora la prima espressione per la c o n siderazione, che nelle dottrine attualmente in vigore si abbraccia l'ipotesi degli elementi soggettivi,e non vi si parla di forme. E siccome credono alcuni di non incorrere nell'idealismo di Kant,tuttochè adottano quella ipotesi;noi nel combatterla sotto qualunque aspetto,dovevamo ritenere il nome or generalmente adottato, quello di elementi sogget tivi.Se cifossimoinvecediretticontro ilformalismo, po teasi credere che prendevamo di mira il solo sistema kantia no.Insostanza,ladistinzionedimateriaediformaintal sistema serve a render più potente l'idealismo,che si rac chiude nella dottrina degli elementi soggettivi.Quindi si son messe in disparte le forme kantiane, e si sono adottati gli elementi soggettivi che Kant appello forme. Ecco come da taluni si è creduto evitare l'idealismo k a n tiano !» Pel De Grazia adunque il divario fra Kant e Galluppi, ed anche tra Kant e Rosmini,come vedremo appresso, era più dinomeched'altro.Checosanediràilprof.Acri?checo sa ne diranno tutti quei ciarlatani grandi e piccini,che sen zaaverlettoneppureifrontispizîdelleopereche citano,lo mitriarono vindice della filosofia italiana ? Ai ciarlatani è inutile rivolgere nessuna domanda;al pro fessore Acri domando che cosa voleva dire,quando scrisse a proposito del Galluppi il seguente giudizio ricavato dal De Grazia .  24 « Ma perciò che Galluppi e Kant affermano tutt'e due che questeidee(identitàediversità)sono soggettive es'accor   dano nelleparole,ne vuoi dedurre che Galluppi sia kantia n o ? Il t u o a r g o m e n t o s a r e b b e q u e s t o n è p i ù n é m e n o : q u e l l ' a n i m a l e lì è c a n e ; q u e l l a c o s t e l l a z i o n e lì è c a n e : q u e l l o a b baia;dunque quell'altra deve pure abbaiare.Se si considera ilpensiero delGalluppi su questo argomento,quantunque non molto lucido e netto, come ha notato quel nostro De Graziadegnodimaggiorfama,sivedesubitochel'idea diidentitàhavaloreoggettivoereale,perchènasce dall'i dentità reale dell'io come cosa,non altrimenti che l'idea di unità ».(Acri,Critica etc.p.31). Quando lessi questa scappata dell'Acri,mi misi a ridere: tralasciai pero di tenerne conto nella risposta che gli feci, non volendo entrare nella esposizione del De Grazia,che sa pevodidovere scriveredopo:eccomioraapoternefartoc care con mano la falsità. Stando all'Acri,adunque,quel nostro De Grazia aveva notato benissimo che per Galluppi le idee di identità e di di versitàerano oggettive;chesoltantonellaespressioneave va questi mancato di lucidezza. HailprofessoreAcrilettodavveroilSaggio delDeGra zia?Iocredo,edebbocrederedino,perchè intutt'iquat tro volumi,quel nostro valoroso concittadino d'altro non biasimailGalluppi,pursenzacitarlodinome,che diaver accettato dal kantismo la soggettività de'rapporti, segnata mente poi di questi due d'identità e di diversità.  - 25 Ilprof.Acri,seavesselettoillibro,non sarebbeuscitoin quella citazione,inesatta non solo,ma assurda ;chi pensi, che ilDe Grazia ad altro fine non scrisse,che a rilevare la medesimezza de'risultati, per rispetto alla realtà della n o stra scienza,si delle forme kantiane,come degli elementi soggettividelGalluppi.Capiscocheilprof.Acri potevafar a fidanza con l'ignoranza assoluta de'suoi ammiratori in fatto di storia della filosofia,ma egli non doveva contare per niente,dunque,neppure isuoi contraddittori?   Padronissimo di creder lui,che que'rapporti pel Galluppi sianooggettivi,ma perchèvolertiraredallasuaancheilDe Grazia,che tuttalavitascrisseappunto per dimostrare il contrario?È un po'troppo,parmi. Finchè visse ilGalluppi,ilDe Grazia non riflni dal com batterneladottrina,congrandeinsistenzaforse,delche si scusava;ma con profondaconvinzione,edopo averne lunga mente ponderato quelli che a lui parevano inconvenienti gravissimi.Nol nominò però mai,altro che una volta sola, c o m e a b b i a m o v i s t o , e p e r l o d a r l o . M o r t o c h e f u il G a l l u p p i , scrivendo egli l'ultima sua opera col titolo di Prospetto della filosofiaortodossa,smettelaprima riserva,elocombatte no minatamente .Ripetendo le antiche obbiezioni ,egli scrive cosi : « Su tutto quel che abbiamo qui osservato intorno alla dottrina della sensazione essenzialmente percettiva, e della soggettivitàdelleideedirapporto,dobbiamo anoistessiil far noto a'nostri cortesi lettori,che fin dal 1839 le stesse osservazioni, più estesamente sviluppate,furono fatte di ra gione pubblica, e non abbiam poi cessato di riprodurle in parte,e ripetutamente in varii articoli pubblicati in diversi giornali ».(pag.141-142). Dimodochè rimane fuori di ogni controversia, che il De Grazia ha inteso combattere la dottrina del Galluppi su la soggettività de'rapporti,e che ha creduto essere questa dot trina conforme a quella di Emanuele Kant . Potrei anzi a g giungere,che la soggettività de'rapporti parve al De Grazia concedere più di quel che Kant medesimo ricercasse:«tutto, egli avverte, si accordava a Kant , anzi ancor più di quanto questiesigea,quando glisiaccordava,che le idee di rap porto sono elementi soggettivi ».(Vol.4,pag.267). Eperchèdippiù?PerchèKantlimitavaalmenoilnumero delle sue forme; mentre la tesi galluppiana della soggettività spaziava più largamente. Ecco le strette in cui il De Grazia pone questa filosofia.  26   «Finché siritiene,eidice,da'filosofilanatura soggetti vadelleideedirapporto,restainconcusso ilprincipio,che isensinonpossonoaltrodarcichenude sensazioni.Questo p r i n c i p i o o r o v e s c i a p e r i n t e r o il s i s t e m a s p e r i m e n t a l e , o deve ammettersi che tutte le nostre idee sono sensazioni:ad un estremo èilformalismoassoluto,all'altroestremo è il sensualismo. Nelle forme pure dello spirito si modella in ideel'informemateriasensibile,dice ilformalista:tutte le nostre idee sono sensazioni, o primitive o trasformate, dice ilsensualista».(Vol.4,pag.269-270). O Kant,oCondillac:eccoilbivio dellafilosofia,secondo il nostro filosofo. Perchè questo bivio? Perchè due soluzioni sono possibili, quando non si tien conto di tutti nostri m e z zi del conoscere.Questi mezzi sono due :sentire,e giudica re;ridurli entrambi ad un solo,importa o lasensazione tra sformata di Condillac,o ilformalismo kantiano. Formalista è dunque il Galluppi, formalista il Rosmini ; entrambi costretti ad ammettere tutt'igiudizi come sinteti ciapriori. « Se l'idea di identità fosse un elemento soggettivo,come essi opinano,e perciò addizionale alle due idee,il nostro giudizio sarebbe in tutti casi sintetico a priori ».(p.286). Ma ilGalluppicombatteigiudizîsinteticiapriori,sidi ilcorollario previsto dal De Grazia non lo tocca dun que .Così ragionerebbe chi si fermasse alla buccia delle q u e stioni;noncosìilDeGrazia,ilquale vipenetraaddentro. È una contraddizione,eglidice,dicuiilfilosofonon s'èac corto, perchè la vera dottrina è quella che non dipende dal la intenzione,o dalla professione di fede che fa un autore, ma quellachesifondanellalogica. Avete un bel dire che giudizi sintetici a priori non vole  27 rà; « Non si è dunque avvertito, che son due tesi contraddit torie, il non esservi giudizî sintetici a priori, e l'essere ele mento addizionale l'idea d'identità ». (loc.cit.).   te ammetterne,quando poisostenete che ogni rapporto è un'identità o totale o parziale ; e quando soggiungete che questa identità è un'aggiunta dello spirito. Quale dottrina contrappone ora il De Grazia a quelle del Condillac,e del Kant ? L'uno diceva : giudicare è sentire ; l'altro, seguito dal Rosmini e dal Galluppi, diceva:giudicare è a g g i u n g e r e ; il D e G r a z i a , d i s c o s t a n d o s i d a l p r i m o e d a l s e condo,dice:giudicare èosservare. Ma prima d'intendere il significato nuovo,ch'ei dà alla funzione del giudizio,necessita ricordare com'egli abbia in teso la sensazione. Né Locke, nè Condillac distinsero abbastanza la sensazio ne dalla percezione ; Condillac anzi le confuse affatto. Alla stessa confusione fu sforzato ilGalluppi.Tralascio le osser vazioni sui primi due,mi fermo a quelle che vanno dritte contro la spiegazione galluppiana,ch'è lamira principale del De Grazia . Due sbagli commette ilGalluppi,uno di confondere ilsen - timento con la coscienza; l'altro di confondere la sensazione con la percezione. « Il sentimento e la coscienza del sentimento sono nel n o stro spirito cosi abitualmente congiunti,che più filosofi han confuso i due fatti affermando, che sentire ed esser conscio di sentire non sono che una operazione medesima dello spi rito ».(Vol.4,pag.17). « Confondendo la coscienza della sensazione con la s e n sazione, non si sono avveduti que'filosofi, che ciò era un confondere il conoscere, il percepire col sentire, c o n fusione che essi medesimi rimproverano a'sensualisti ». (loc. cit.). Queste due confusioni erano state fatte veramente dal G a l luppi,avendoeglicompresosottoilnome disensibilitàin   Il simile si dica della idea dell'ente, che il Rosmini a g giunge ad ogni giudizio; su la quale torneremo altra volta.   29 «Sentireilmesensitivodiunfuordime,glidiceilDe Grazia,èlapiùforzatacontrazione,che potea darsi all'e spressione del fatto di coscienza ».(Vol.4,pag.18). L'industria adoperata dal Galluppi per nascondere questi giudizî elementari e primitivi proviene,a parer del nostro fi losofo, dal perchè egli li aveva tenuti per sospetti di sogget tivismo.Questo medesimo motivo lo indusse ad ammettere le sensazioni oggettive, senza bisogno di spiegare il passag gio dal sentire al percepire . Leibniz e d'Alembert, entrambi geometri , e prima di loro anche il Malebranche, avevano riconosciuto il bisogno di spiegareilpassaggiodalmealfuordime:idueprimiave vano anzi proceduto più avanti,additando come mezzo l'in duzione;ilGalluppitagliòcorto,negò ilproblema stesso; affermando non esservi luogo a passaggio,quando la sensa zione coglie immediatamente l'oggetto. Doppio sbaglioadunque da partedelGalluppi:primo,aver disconosciuto igiudizî primitivi;secondo,aver rifiutato,per la conoscenza del mondo esteriore,ilsoccorso della induzio ne . Contro i giudizî lo aveva prevenuto la dottrina kantiana de'rapporti soggettivi ; contro l'induzione,il presupposto che nessun'abitudine posteriore avrebbe potuto fare ciò che un atto primitivo non aveva potuto.Se una prima sensazio ne non mi fapassareall'oggettoesterno,come,diceva il Galluppi, mi ci potrebbe abilitare una seconda od una terza? Eppure de'giudizî abituali che si frammischiano alle sensa zioni aveva toccato prima il Malebranche , poi il Condillac ;  - ternailsentimentoelacoscienzadelme;esottoilnomedi sensihilità esterna la sensazione e la percezione . Perchèdalsentimentosivadaallacoscienza,edallasen sazioneallapercezionecivuoleilgiudizio;non ilgiudizio galluppianocheaggiungarapportisoggettivi,ma ilgiudi zio che osserva,ed osservando distingue i rapporti reali delle cose.   e della forza dell'abitudine Hume ,e della efficacia della in duzione avevano accennato il Leibniz ed il D'Alembert ! IlDe Grazia riassume e tesoreggia isaggi de'suoi prede c e s s o r i , e li c o m p i e c o s ì . associazione adunque spiega l'origine : l'induzione as sicura la realtà;come si può assicurare, beninteso, una ve rità contingente , la quale non esclude mai la possibilità del l'opposto. Coloro i quali han posto mente alla sola abitudine fonda ta su l'associazione,han detto :ma qual garantia ci porge ella della sua realtà ? Così son rimasti nel circolo descritto 'da Davide Hume. Il D e G r a z i a , s c h i v a le p r i m e e le s e c o n d e difficoltà , e f o r m o l a il p r o c e s s o g e n e a l o g i c o c o s i : l ' a s s o c i a z i o n e c o m i n c i a , senza badare alla realtà;l'induzione legittima ciò che trova, senza doversi brigare del cominciamento. In siffatta guisa il nostro filosofo fa capitale di tutt'i saggi parziali tentatiprimadilui,licollega,liordina,licompie uno con l'altro :la sensazione e igiudizî abituali, intrave duti da Malebranche e da Condillac ;l'osservazione, indefi nitatralemanidiLocke,edaluimeglioprecisata;lamas sima aurea del Kant :pensare è giudicare ;la virtù dell'abi tudine,messa a rilievo da Hume;la induzione accennata da Bacone in generale,additata da Leibniz e dal D'Alembert a  scenze provvisorie. 30 La sensazione dà iprimi dati,ilgiudizio osserva i rap portichevisonocontenuti;l'associazionedelleideecifor nisce leconoscenze prime concernenti ilmondo esterno,in via provvisoria ;l'induzione,più tardi,legittima le cono Gli altri,invece,ponendo mente alla tardiva comparsa d e l l a i n d u z i o n e , h a n n o o s s e r v a t o , c o m e il G a l l u p p i : m a l a i n duzione vien troppo tardi a farmi passare alla realtà ester na,richiede troppi congegni,troppe industrie,dicuil'in fante non si può supporre capace.   31 proposito dellaconoscenzadelleveritàdifatto.Bacone,di fatti,dicendo:sensus tantum 'de experimento, esperimen tum de rejudicet,aveva enunciato un canone applicabile piùaifenomeninaturali,chealnostromodo diconoscerli: l'applicazione speciale alla nostra conoscenza si deve a'due geometri filosofi, cioè al Leibniz ed al D'Alembert. La storia intanto invece di attribuire agli anzidetti filosofi la debita lode di essersi accostati sempre più alla soluzione delproblema delconoscere,ricordalemacchine artificiose de'lorosistemi,l'occasionalismo,l'armonia prestabilita,e simili deviamenti dalla salda filosofia. IlGalluppipoiagliocchisuoihailtortonon solodinon aver profittato de'saggi antecedenti, ma di essere indietreg giato anche al di là di quel che aveva avvertito ilCondillac. Questi aveva ritenuto per obbiettivo, o percettivo il solo tatto: Galluppi estese l'obbiettività a tutti i sensi, occultan do la difficoltà invece di scioglierla.La realtà oggettiva de gli esseri esteriori,ei dice,ha bisogno di essere legittimata: « ciò che non veggono alcuni odierni scrittori,iquali sup ponendo naturalmente percettividell'oggetto esterno i no stri sensi,credono con ciò avere abbastanza legittimata la realtà dell'oggetto esterno ».(Vol.2,pag.254-255). IlGalluppidiffidandodituttociòche civieneinorigine per mezzo de'giudizî,trasporta alla sensazione quanto im mediatamente siapprende con l'atto del giudizio (pag.316). Ei non s'accorge che c'è una contraddizione manifesta tra la realtà oggettiva delle idee e la natura soggettiva de'rap porti (pag.316-317). Ondechesquadrilaquestione,ilDeGraziatorna,edin siste sempre su questo vizio radicale della dottrina gallup piana;vizio che apparve chiaro in Kant,e che in lui rimase occulto per aver dichiarate oggettive leidee,contraddicendo alla loro provenienza . Nel Galluppi rivive la tesi del concettualismo , che il n o    -- stro filosofo combatte aspramente;nel Galluppi,e più anco ranelRosmini.IlDe Graziafautore del realismo,non del platonico però,spende molte pagine nel rilevare gl'inconve nienti del concettualismo medioevale,e più del moderno;ed in questa disputa,trattata largamente in una rassegna appo sitapubblicatail1850,eidifendeSanTommaso dallataccia di concettualista, ed impugna la somiglianza che il Rosmini vuol trovare tra la sua teorica dell'ente possibile, e quella dell'Aquinate. Di questa particolare ricerca diremo appres so : continuiamo intanto ad avvertire, con la scorta del De Grazia , le lacune ch'egli addita ne'sistemide'suoi avversarî. La critica dello stato attuale fu fatta maestrevolmente da K a n t : il D e G r a z i a è l a r g h i s s i m o d i l o d i a l f o n d a t o r e d e l C r i ticismo,filosofo per questo verso inarrivabile.Della origine peròilKantnon occupossi,dichiarandoaggiuntiaprioritut tiquegli elementi, di cui gli pareva arduo rintracciare la ge nerazione.Quanto sitoglieaiverimezzi diacquistar cono s c e n z e , t u t t o si a t t r i b u i s c e a d u n a s u p p o s t a o r i g i n e a p r i o r i , a questo vasto serbatoio di tutte le perdite dell'analisi . Cosi , con una similitudine arguta,ei battezza per vere lacune,per difetto di analisi ogni forma a priori. Nella stessa maniera han combattuto,dopo delDe Grazia,l'apriori ifilosofi po sitivisti.Siricasca inquesto metodo dunque,sempre che, abbandonatalagenesisperimentale,siricorre allospedien te di addizioni di forme pure;sia qualunque ilnome con cui si travestiscano . D'accordo con Kant,dice ilDe Grazia,che la conoscenza risulti dasensazioniedagiudizî;ma giudicare,perme, semplicemente osservare,e non è punto aggiungere. La ve duta èprora quando siosserva nell'oggetto,non già quando  - Ilmetodo daseguire,nelproblema dellaconoscenza,era questo:esaminare lo stato della coscienza,qual'è attualmen te;risalirealleoriginidelleideecheoravitroviamo;legit timarne la realtà.   O siaggiunge dal soggetto.Aggiuntachel'avretevoi,non è più da discorrere della sua realtà. Sicché delle tre analisi da fare, Kant fece benissimo la critica della coscienzaattuale;arrestossi per via nel rintrac ciare le origini della coscienza primitiva;e conseguentemen te non potè legittimare la realtà della nostra scienza. La realtà della scienza è collegata con la dottrina del giu dizio:se questo è una mera osservazione,la realtà è assicu rata; se,invece,è una funzione addizionale,la realtà non si può a nessun patto legittimare. Ed ora noi siamo perfettamente in grado dicomprendere, perchè il De Grazia combatta con tanta insistenza la filoso fia del Galluppi,ed insieme di valutare,quanto poco la mira delDeGrazia siastatascortadaquellichenehannofinora discorso.Egli ritorna spesso su la critica da noi esposta, con una prolissità,ch'è stata non piccola causa dell'esser passatainavvertita,perchèdileggereiseivolumidelle sue opere i più si sono sgomentati. Il significato però di tutta la sua discussione si può ridurre a quest'alternativa in cui egli trovòimpigliatalaricercadellaumana cognizione:gliuni avevan detto col Condillac: giudicare è sentire ;gli altri a vevan ripetuto con Kant :le idee di rapporto sono elementi soggettivi:egliavevarisposto:èfalsal'una el'altraspiega zione.Ilgiudicarenonèsentire,ma osservare;irapporti sono oggettivi,non soggettivi. Il Galluppi intanto , destreggiandosi tra le due spiegazioni , aveva di ciascuna ritenuto una parte.Pur discostandosi dal ladottrinacondillachiana,purdistinguendo ilgiudiziodal la sensazione,aveva però ammesso de'rapporti,iquali era no sentiti:tali erano il rapporto tra modificazione e sostan za,ed ilrapporto tra effetto e causa. Similmente,pur promettendo divolersiappartareda Kant, pur professandosi fedele al metodo sperimentale, aveva a c  ce to B EL er EN 5 0   cettato due rapporti come soggettivi affatto,quello d'identi tà,e quello di diversità. La sottile e giusta critica del De Grazia aveva messo in e videnza le due capitali contraddizioni della filosofia del Gal luppi.La consapevolezza piena,profonda,ch'egli ha delle obbiezioni mosse al suo grande avversario , ve lo fa insistere forse soverchiamente ;ma non senza rivelare una grande perspicacia di mente nell'applicazione che ne fa alle singole questioni. « L'idea di azione,di connessione,egli scrive,è idea di rapporto;eirapportisigiudicano,non sisentono.Sièdi menticato in questa occasione,che una sensazione non è più che una nostra modificazione, e per se stessa non può darci altra idea che quella di un particolar nostro modo di esistere » (Vol.4,pag.140). L'anno appresso,che ilDe Grazia finiva la pubblicazione d e l s u o S a g g i o , il 1 8 4 3 c i o è , u n d o t t o a b b r u z z e s e , O t t a v i o Colecchi,pubblicava in due volumi le sue Quistioni filosofi che,e vi rifaceva lacritica delGalluppi,muovendo da un criterio opposto a quello del nostro De Grazia,ed intanto somigliantissima nel significato. Il Colecchi segue la filosofia kantiana nel concetto fonda mentale,ma senediparteinmoltiparticolari.Riduceleca tegorie tutte quante a quelle di sostanza e di causa;le dedu c e n o n g i à d a l l e f o r m e d e l g i u d i z i o , c o m e a v e v a f a t t o il K a n t , ma dalle anzidette nozioni di sostanza e di causa, congiun te con quelle di spazio e di tempo ; rifiuta lo schematismo kantiano, che gli parve complicato, e superfluo ; e finalmen te crede , che la realtà della nostra scienza non ne sia punto compromessa . Il Colecchi adunque biasima il Galluppi d'incoerenza per averammesso alcuni rapportioggettivi,edaltrisoggettivi; senonche,invecedisoggiungerecomeilDeGrazia:dove vateritenerlituttiperoggettivi,corregge lacontraddizione   io galluppiana in un modo opposto,soggiungendo:dovevate ammetterli tutti per soggettivi. Tralasciando ora le modificazioni arrecate dal Colecchi allafilosofiakantiana,eraffrontandolesueobbiezioni con tro il Galluppi in ciò che s'accordano con le altre antece dentemente mosse dal nostro De Grazia,citiamo in compro va testualmente le parole del filosofo abbruzzese,perchè il lettore ne vegga l'accennata somiglianza. Dopo aver egli ricordato la soggettività de'rapporti d'i dentità e di diversità ammessa dal Galluppi contro del Locke , continua così: « Posto ciò si domanda ora:se rispetto a quelle idee che sono un prodotto dell'analisi che le separa da'sentimenti, e che sono perciò oggettive,venga lo spirito assistito o no dalledue ideed'identitàedidiversità?seno,nonpotràegli separarle punto dai sentimenti;perocchè un bambino puran che ne ha bisogno,per distinguere lasua nutrice da uno stra niero;e tale distinzione è fuor di dubbio un atto di analisi : se sì, le due idee d'identità e di diversità devono precedere le sensazioni:sono dunque per anticipazione,ed anteriori ai sentimenti; e perciò nell'ordine cronologico delle nostre co gnizioni non possono essere posteriori alle sensazioni, ne presupporle come condizioni indispensabili.Come dunque so stenere: che ogni nostra cognizione incomincia con l'analisi, e termina con la sintesi, se per fare qualunque spezie di a n a lisi,ha bisogno lo spirito delle due idee d'identità edi diver sità,le quali, per avviso del nostro autore, sono un prodotto della sintesi che le aggiunge ai prodotti dell'analisi » ? (Qui stionifilosofiche,vol.1,pag.197-198- Napoli1843). Potreicitarealtriluoghi,concuiilColecchinota ildi  - 35 un li ne ato 4 1 Biasima inoltre il Galluppi di aver detto che sono sogget tivesololeideedirapporto,perchèegliammette leideedi spazio,ditempo,disostanza,dicausa,sottoilnome dileggi della intelligenza,che sono soggettive,senza essere rapporti.   verso valore che debbono avere nella ipotesi del Galluppi le idee di identità e di diversità quando si applicano o agli o g getti dellamatematica,oaquellidellasperienza;ma usci reifuoridelmiotema.Amepremeassodarechelecontrad dizioni, in cui s'era avvolta la filosofia galluppiana per m a n co di coerenza,erano state rilevate con mirabile acume dal De Grazia e dal Colecchi. Il prof.Ferri,il quale scrisse due grossi volumi su la sto riadellafilosofiaitaliananelnostrosecolo,non trovòaltro spazio per ricordare idue anzidetti nostri filosofi, che que sto,occupato dalle seguenti parole: « Il faudrait enfin mentionner les écrits de Di Grazia, et de Collecchi , Napolitains, qui, tout en modifiant,ou en c o m battant Galluppi,n'ont cependant pas dépassé le point de vue de l'expérience ou de la philosophie critique ».(Essais sur l'histoire etc. tom . 1, p . 334 ). Certo così il prof. Ferri non si compromette. En m o d i fiant, en combattant, sono frasi tanto diplomatiche che par c h e d i c a n o , e n o n d i c o n o . Il D e G r a z i a h a m o d i f i c a t o il G a l l u p p i ; il C o l e c c h i l ' h a c o m b a t t u t o : c i h o g u s t o : s t a b e n e ; m a c h e c o s a h a n d e t t o ? Q u e s t o è il p u n t o ; e s u q u e s t o , s i l e n zio perfetto.E poi ilDe Grazia non l'ha punto modificato, l'ha combattuto pure : l'avesse combattuto, qual lume si ricaverebbedaquestemezzeparole?Nonerameglioconfes sare di non averne letto sillaba ? E perchè non occuparsene? Forsechèerandamenoditantialtri?Io,peresempio,sen za far torto a nessuno , e salvo la disparità per altri riguar di,trovo più ingegno filosofico nel De Grazia e nel Colecchi, che non nelMamiani.L'ho detta grossa?Chiedo scusa a tutti quelli che ne prenderanno scandalo ;certo di aver con mecoloro,chesen'intendonodavvero;eche intendendo sene ardiscono dire il proprio parere. Del silenzio sul Colecchi il prof. Ferri si scusa quasi ,scri vendo in una nota così :  36   « Les écrits de Collecchi dispersés dans les recueils litté raires n'avaient pas encore été publiés en un seul corps il y a quelques années ». Pardon,prof.Ferri:gliscrittidelColecchi furono stam pati fin dal 1843 in due volumi,che io ho qui sul tavolo,ed hanno questaindicazione:Napoli,all'insegnadiAldoMa nuzio,CarrozzieriaMontoliveton.13,1843.Qualgirodi anni comprendete voi nell'il y a quelques années ? Venticin que non vi bastano ? E perchè non una parola sul De Grazia , che doveva es servi noto,poichè ne registrate ilSaggio nell'indice delle opere filosofiche pubblicate in Italia in questo secolo ? Forse n o n e n t r a v a n e l d i s e g n o v o s t r o , c h ' e r a d i d e s c r i v e r e il p e n siero italiano tutto inteso a cercare ciò che poi ha finalmen te trovato , l'idealismo temperato ? ed allora perchè accusare diparzialitàloSpaventa,cheavevatrascuratinon soquali filosofi, indotto dal suo criterio hegeliano ? Ma passiamo oltre,avvertendo soltanto,poichè siamo su q u e s t o a r g o m e n t o , c h e il c o g n o m e d e l D e G r a z i a n o n v a s c r i t toDiGrazia;echeilColecchinonvarinforzatocome l'ha rinforzatoilprof.Ferri,che loscriveCollecchi.Sarebbero minuzie, se non attestassero la poca diligenza nello scrivere la storia. Morto chefuilGalluppi,ilDeGrazia,benchèricordiqua e là gli sforzi sostenuti nel combatterne le dottrine, rivolge però altrove la propria attenzione. Ne'discorsi pubblicati il 1850 ei se la piglia con la filosofia,che in Italia aveva preso ilsopravvento,echenonsicuravadinascondereildispre gio in cuiteneva l'esperienza.Oramai non si tratta più di scoprire un Idealismo,tutto studioso di occultarsi sotto il nome difilosofiasperimentale,com'erastatoilcasodelGal luppi,ma di combattere un Idealismo che si presentava alla svelata,eche,sottonomi diversi,s'eraguadagnate lementi della nuova generazione.IlDe Grazia comprende tutti que  37   stisistemisotto un nome solo,sottoquello difilosofia spe culativa . Traquestisistemiperò,secondolavaria importanza,al cuni combatte più acremente,altri accenna soltanto.Accen na pure del consenso del genere umano del La Mennais,del tradizionalismo del P. Ventura;delprimo un po'più distesa mente, perchè s'accorda col sistema del Gioberti nel rifiu tare la testimonianza e l'autorità della coscienza subbiettiva. Quanto al P. Ventura, poco seguito aveva trovato in Italia, nèmeritavaimportanza,nèilDeGraziaglienedàmolta. Mente severa, educata alle scienze matematiche, il De Grazia la giustizia sommaria di tutti questi sistemi in un fa scio,ai quali a suo avviso mancava e la base solida, ed il rigoroso ragionamento. «Una volta,eiscrive,erascrittoall'ingressodellascuo. la:nemo accedat,nisigeometra;igiovanettioggi leggono: nemo accedat,sigeometra.E non hanno torto,perché ove si tratta di creare enti, o di manifestazioni del Dio -Cosmo, e di ispirazioni,e di intuiti,o di nuove logiche trascenden tali,non può esservi luogo pe'geometri:non è arena per le loro forze ». Ce n'è per tutti, come si vede, e non risparmia né i si stemi tedeschi,nè i francesi,né i nostrani ;ma vediamo quali obbiezioni particolari muova a ciascuno ;e basterà ac cennarle,perchè oramai abbiamo abbastanza conosciuto il suo criterio. « Più dilettevole trattenimento ci dà il La Mennais nel ravvisar per ogni dove un riflesso del d o m m a religioso ; che  38 Contro del La Mennais nota che la ragione umana collet tivaèun'astrazione,che solo l'individuo esiste;e quindi il c o n s e n s o u n i v e r s a l e n o n h a a l t r o v a l o r e , c h e q u e l l o d e g l ' i n dividui, da cui proviene. Con non dissimulata derisione trat ta poi le spiegazioni fantastiche de'fenomeni naturali per mezzo del domma.   Punzecchiando ilGioberti,siricordadelGalluppi,cheper liberarsidaognimolestiasularealtàde'corpi,concepi ob biettive le sensazioni , e scrive . Le sue celie su la commodità di questi spedienti sono fre quenti;senoncheglisembra che nègl'intuiti,néleispi razioni , nè gli istinti, nè le idee inerenti allo spirito , benchè talvolta simulino l'evidenza,bastano però a surrogarla pie namente . Se ilDe Grazia tralascia gl'influssi divini, cið avviene perchè il Mamiani non li aveva ancora escogitati. Ma torniamo agli appunti ch'ei muove al Gioberti.Come ! eidice,l'intuitoèpresente,enon sivede!È ecclissato,sirepli ca,estabene;ma comeunmotivofinitobastaadecclissarlo? Il D e G r a z i a , p e r q u e s t o i n e s p l i c a b i l e e c c l i s s e , s ' i n s o s p e t  39 d'altronde doveasi toccare con più rispettoso contegno. Fino n e ' s e t t e c o l o r i d e l p r i s m a s c o r g e il t e r n a r i o , d a c h e t r e s o l i secondo l'autore sono iprincipali ». Che cosa avrebbe detto ilDe Grazia,se avesse letto la Vita di Gesù Cristo dell'abate Fornari ? Il Gioberti si studia di sostenere col ragionamento la dot trinaquasiispiratadelLaMennais:ilDeGraziarendegiu stizia al filosofo italiano,nè lo confonde con l'autor dell’Ab bozzo.Eccoperòlasommadegliappunticheglimuove. IlGioberti,perlui,escludeognianalisi delle idee,eper dispensarci dalle minute inchieste psicologiche, ci accorda l ' i m m e d i a t a v e d u t a d e l l e i d e e d i v i n e . C e r t a m e n t e , r i p i g l i a il De Grazia,eivalmegliocontemplarlenellalorointegritàri flesse dal lume divino su le parole, che attentarsi di rima neggiarle con profana analisi ! « P e r t o g l i e r s i d a o g n i i m p a c c i o b a s t a o g g i il d i r e : i o s e n to i corpi esterni,le mie sensazioni sono percettive de'corpi esterni;ovvero per risolvere con un solo atto tutte le qui stioni di ontologia e di psicologia : io intuisco il creato,il creatore,el'atto creativo!»   tiscedellaesistenzadell'intuito.E poi,esso nèsipuòvedere dalla coscienza,nè dimostrare dalla ragione, come fare dun que a verificarlo ? Nè piùplausibileèilsussidiochedovrebbearrecarelapa rola, affinchè dall'intuito si passasse alla riflessione. Il p o t e r e d e l l a p a r o l a , d i c e il D e G r a z i a , è m i s t e r i o s o : n o n circoscrive l'idea,su la quale non ha presa n è punto nè poco ; e non accresce la nostra facoltà intellettiva. Sicchè, tutto ragguagliato, ilGioberti cilasciacon una virtù intellettiva in potenza , e con una riflessione a nude parole. Dove però il De Grazia va più addentro nel sistema giober tiano,è,a parer mio,nella seguente osservazione. «Ma laricercafondamentale,dicuisièsempre taciuto, concernelapossibilitàdellavisioneinDio.La stessanonè solamenteunfattogratuitamentesupposto,ma neppurciè dato sapere, se un essere può vedere le idee di un altro es sere ». Questa obbiezione del De Grazia equivale a quella dello Spaventa,quando osservava,che l'Ente veduto dall'intuito giobertiano non può essere uno spirito. Diciamo ora della critica del Rosmini . Della teorica rosminiana il nostro filosofo s'era occupato nel Saggio ; ci torna di poi nelle opere posteriori alla morte del Galluppi con più larghezza.  40 IlDe Grazia continua:vedere le idee in Dio,presuppone assodato,cheIddioleabbia;ora,cheilmodo dellacono scenzadivinanonsiaconformealnostro;echequindinon si faccia per idee molteplici e rappresentative, pare più ac cettato dalla filosofia ortodossa . E qui riscontra la dottrina giobertiana non solo con quella del Malebranche,ma con quella di Sant'Agostino,e non la trova somigliante,e quin di non la tiene per ortodossa. Nel Galluppi il De Grazia aveva combattuto il concettua   l i s m o , a v e v a c o m b a t t u t o l ' a s s e r z i o n e , c h e le n o s t r e i d e e n o n siano rappresentative.A proposito del Rosmini ripiglia la controversia del concettualismo . Il concettualismo si fonda su la subbiettività de'rapporti, onde risultano le idee:contro ilconcettualismo adunque ba sta contrapporre questa sentenza di san Tommaso : « relatio nem esserem naturae ». O r q u a l d o t t r i n a s e g u e il R o s m i n i ? F o r s e q u e s t a d e l l ' A q u i nate,fondatasulpiùschiettorealismo?No;nesegueuna ambigua , e per tal ambiguità cerca tirar dalla sua l'autorità di San Tommaso . « L ' e n t e i d e a l e d e l R o s m i n i , d i c e il D e G r a z i a , è b i f r o n t e ; da un lato offre l'idea universale di esistenza, dall'altro un ente esistente ». Basterebbe questa profonda osservazione, per dimostrare diquantaperspicaciafossefornitoilDe Grazia;ma egliva più in là ancora,ed addita un riscontro, che rivela la forza della sua critica. « M a , ci si dirà, qui non trattasi di una esistenza sostan ziale, o di accidenti di una sostanza, bensi di una esistenza ideale, qual può competere ad una idea.Si,ciò ricorda l'Idea di Hegel , con la differenza che questa contempla sè stessa, e l'idea universale di esistenza è l'oggetto contemplato da tutte le intelligenze, differenza che gli hegeliani farebbero sparire.Quanto allanaturadellaesistenza,l'entedelRosmi ni non è meno lucido e trasparente, che l'Idea hegeliana, perchè altro non è che l'idea di esistenza, o la possibilità  «Sipongaormente,eglidice,cheiduepuntimessia maggiorrisaltonelnostrolibrosono:1.che ilconcettuali smo è la causa principale delle deviazioni della filosofia,e la grande abilitazione de'sistemi speculativi;2. che l'Aquinate, tenendosi immune dal concettualismo,ha felicemente seguito il metodo di pura osservazione ». 6   42 - dell'esistenza,come lo stesso Rosmini ripetutamente va ri cordando a'suoi lettori ». « Se quindi si ammette una esistenza attuale e indetermi nata;attuale e non reale; se si ammette la possibilità dell'e sistenza essere un'attuale esistenza,si avrà il caso proprio di una identità de'due contrari «.(Esperimenti della filoso fiaspeculativane’sistemidelsecolocorrente -Napoli1850-- 29 Rassegna,pag.288). Ho notato in corsivo l'ultima conclusione del De Grazia, perchè il lettore rifletta su la somiglianza da lui additata tra l'Ente rosminiano,e l'Idea dell'Hegel. Quando lo Spaventa, dopo del De Grazia,e senza sapere forsedelfilosofocalabrese,lecuiopere,specialmente leul time,erano rimaste sconosciute,mise in rilievo con più lar g h e z z a q u e l r i s c o n t r o , la c o s a p a r v e s t r a n a , e ci si v i d e u n o stiracchiamento forzato de'sistemi in servizio di un criterio preconcetto.Piùtardi,coloro chesieranoarrogatalarap presentanzadellafilosofiaitaliana,levarono lavoce,epro testarono contro il malvezzo di voler far parere la nostra filosofiaun'imitazione dellafilosofiatedesca.Sietematti,si disse !il Galluppi kantiano ! Il Rosmini hegeliano ! Le son cosedaridere:voiconfondeteitipicon gliectipi;voi non sapete che in Italia c'è un'abbondanza straordinaria di tipi, e che voi altri li sfigurate barbaramente per poterli tramu tare in ectipi. Questa brava gente,veramente tipica,ignorava,che ilri scontro era tanto poco sforzato, da esser apparso manifesto ad un filosofo, il quale non era punto tenero della filosofia tedesca,e che di tutto si poteva accusare, salvo che della smania divoler costruire la storiaapriori.IlDe Grazia, difatti,aveva a chiare note,e con grande insistenza,segna latoilkantismonelsistemadelGalluppi;econ menodiffu sione,ma con non minor chiarezza,l'hegelismo nel sistema delRosmini.Oh!come dunqueivindici,glistoriografi,i    rappresentanti dellafilosofiaitalianaignoravanotuttalacri tica che si era esercitata nel nostro paese su la nostra filo sofia nazionale ? Ma torniamo alRosmini. IlDe Grazia,dopo avvertita l'ambigua natura dell'Ente rosminiano,dopoaverbiasimatoilRosmini dinonaverte nuto fermo in una sola e medesima sentenza,di averlo una voltachiamatounlumedatodaDio,un'altravoltaillume divinomedesimo,eidimostraugualeaccorgimento nelrile vare altri difetti. L'origine delle nostre idee è doppia,una l'idea dell'ente, l'altra lapercezionesensitiva;ma ilDe Grazia s'accorge, che la vera sorgente,l'unica sorgente rimane quest'ultima, e domanda : « A che serve il contrarre l'espressione di quanto si vuol che noi percepiamo immediatamente con una sensazione ? Il participio sostituito al verbo potrà mai avere ilvalore di nascondereimoltigiudizî,chesicontengono nellaformola «enteagentesuimieisensi»? Il participio sostituito al verbo è difatti il ripiego della i d e o l o g i a r o s m i n i a n a : il D e G r a z i a l ' h a c o l t o a m a r a v i g l i a . « La percezione sensitiva, ei continua,è,o no, un atto del pensiero ? Se lo è,siavrà un pensare identico alsentire; senonloè,siavràunapercezione,allaqualeilnostrospi rito non pensa !O cade in sensualismo, o è nulla pel nostro pensiero ». La percezione sensitiva adunque non si vede in che diver sifichi dalla sensazione, posto che in lei non debba concorre re traccia di pensiero : nè molto proficua è la ragione, che il De Grazia chiama potenza terza e neutrale. Non è intellet to,non è senso:applica ildato dell'intelletto ai dati della sensibilità;d'altro non brigasi;ma chimallevaallorala realtà ?Non l'intelletto che ha da fare col possibile ; non il senso che non può cogliere altro che nostre modificazioni.    « La capacità di sentire e la facoltà di percepire sono due potenze così differenti,che dee tenersi per ugual controsenso l' a t t r i b u i r e l a p e r c e z i o n e a l l a s e n s i b i l i t à , e l ' a t t r i b u i r l a s e n sazione all'intelletto ». Rosmini con la percezione sensitiva attribuisce al senso più che la costui capacità non comporti ; ricasca quindi nel difetto del Galluppi, che fece la sensazione immediatamente percettiva.A questo sbaglio ecco tener dietro un altro,che a noi piace riferire con le stesse parole del De Grazia. « Un'altra opinione sui generis è di ammettere nel fatto la percezione immediata del nostro essere ,e dell'essere ester no , m a il fatto aver bisogno di venire autenticato da una idea innata, per quanto concerne la vera esistenza, perchè altri menti quella da noi appresa nella coscienza potrebbe dirsi apocrifa ! » Meglio non poteasi rilevare la superfluità dell'ente rosmi niano,dopoaverammesso lapercezionesensitivapercoglie re l'esistenza immediata e reale. Come impugni il De Grazia le interpetrazioni date dal RosminialsistemadisanTommasovedremoaltravolta;chè tal ricerca non è semplicemente storica,e meglio si collega allaesposizione della dottrina del nostrofilosofo,ilquale altro non pretende di aver fatto,che di aver rinnovata la filosofia del sommo Aquinate,stata per tanti secoli o scono sciuta o frantesa. Venghiamo al giudizio su l'Hegel. Già pel De Grazia tutt'i sistemi nati in Germania dopo del Kant sono « romanzi filosofici »;questo d'Hegel fra gli altri, anzi a capo degli altri. Ignaro della lingua tedesca,egli tanto sa de'sistemi tede schi, quanto ne ha appreso dal libro di Ott,ch'era stato pub b l i c a t o a P a r i g i il 1 8 4 4 . N o n è d a r e c a r m a r a v i g l i a a d u n q u e ,  - 44 - Al De Grazia non isfugge nessuno dei tortuosi giri dell'ideo logia rosminiana.   45 s'ei qui non possa penetrare sempre addentro nel pensiero dell'Hegel,come ha fatto coi filosofi francesi, e coi nostri. Onde,mentre lasuacritica della filosofia del Galluppi,del Rosmini edelGioberti,benchèprolissaestemperata,abbon da di osservazioni sode e profonde, la critica dell'Hegel rie sce monca e superficiale. A lui mancava la cognizione pie na ed esatta del sistema;pur tuttavia di alcuni appunti non sipuò ameno diammirare lasagacia,elaserietà. Attraverso alle incertezze di una esposizione,dove trovan luogo metafore più proprie ad abbuiare un concetto,che a lumeggiarlo,èdifficilecogliere ilsignificato genuinodiun sistema . Così al De Grazia il divenire hegeliano sembra uno strofinamento dell'essere col non-essere. Par che baleni il sospetto di qualche alterazione al De Grazia stesso,ma tosto si ripiglia, ed afferma che « si può esser sicuro che le pro posizioni fondamentali della Logica hegeliana non valgono in tedesco più di quel che valgano in italiano o in qualsiasi lingua ».Una tal sicurezza veramente fa un poco a calci col metodo d'osservazione adottato dal nostro filosofo. Il quale se avesse conosciuto iltedesco, si sarebbe accorto che non trattavasi nè di movimento,nè molto meno distrofinamento. L'accusaperò,chemuove allaLogicahegelianadiessere un sistema di rapporti senza termini,è molto più fondata. SenonchenellaLogica,itermininonsonoenonpossono essere altro,che relazioni anch'essi ; ma non è vero però, c h ' e i s i a n o u n m e r o n i e n t e , e c h e t u t t o il p r o c e s s o h e g e l i a no riesca al postutto ad un movimento da niente a niente. Cotesta esagerazione è in lui derivata dal non aver c o m p r e s o b e n e il v a l o r e d e l N i c h t - s e i n , c h e n o n e g l i s o l t a n t o , m a parecchi si sono incaponiti ad intendere per un bel nulla. Fisso in questa interpetrazione, ei continua a biasimare questo modo di far della scienzaun tessuto disiedino, lontano da ogni realtà salda,e solo conveniente a quella fi losofia,che riduceirapportiapurevedute dellospirito.Qui,    come si può scorgere,ei non vuol lasciarsi fuggir l'occasio ne di scagliare un'altra frecciata alla tanto combattuta filo sofia del Galluppi, accennando la simiglianza che corre tra la soggettività de'rapporti e l'Idealismo trascendentale ,che poi siassolvettenell'Idealismoassoluto.IlDe Graziaconfino accorgimento perseguita il suo illustre avversario sino alle ultime e non sospettate conseguenze del suo principio. « Un rapporto ideale senza itermini sarebbe appreso dalla. nostramente,sesiammettesse lasupposizione,che irap porti sono pure vedute dello spirito, alle quali nulla corri sponde nelle cose ». Hegel è agli occhi del De Grazia « un elevato e perspicace p e n s a t o r e » , m a il s u o s i s t e m a è u n a p e r p e t u a i r o n i a . L a sola istruzione che se ne possa cavare è quella di capacitarsi della impotenza della filosofia speculativa a cogliere ed a spiegare la realtà. « Ecco dunque l'istruzione ch'egli (Hegel) ci dà in forme le più solenni :volete voi passare dal cerchio delle idee astrat te al mondo reale ? vi è forza porre innanzi tratto, che il reale è lo stesso che l'ideale ! In altri termini : dalle idee astratte non si può derivare la realtà; e questa massima può servir di lezione pe'tentativi,in cui con minori proporzioni, o più propiamente, con meno di purità speculativa, si voles se maneggiare ilmetodo ontologico ».  I due principii che lo informano sono l'Idealismo,e la con traddizione ; dall'uno il sistema hegeliano piglia le prime mosse;coll'altraprocede avanti.Che cosa se ne inferisce? Q u e s t o s o l t a n t o , c h e il c o n c e t t u a l i s m o è f a l s o ; m a l a v e r a f i losofia rimane illesa dai suoi colpi. Il valore che il De Grazia attribuisce ad Hegel è lo stesso, benchè egli nol dica espressamente, di quello che Socrate ebbe verso la Sofistica. L'ironia socratica avrebbe svelato le contraddizioni della Sofistica, come l'ironia hegeliana avreb be tirato le ultime conseguenze del Concettualismo moderno .   H e g e l , s e c o n d o il g i u d i z i o d e l D e G r a z i a , a d d i t o il r i m e d i o contro le forme subbiettive di Kant ,deducendo da quelle pre messe , che dunque « i fenomeni del pensiero sono la sola v e rità assoluta », Tutta la storia della filosofia si spiega,adunque, e siran noda intorno al problema della conoscenza. Tre domande si possono fare: qual è lo stato presente della nostra coscienza ? qual è stata la sua origine ? qual è la sua realtà ? Il criterio con cui il nostro filosofo giudica tutt'i sistemi è il s e g u e n t e : « c i ò c h e l a n o s t r a m e n t e v e d e i n u n f a t t o o è realmente nel fatto, o la nostra veduta è su tal riguardo il lusoria ». D a u n l a t o a d u n q u e c ' è il r e a l i s m o , a f a v o r e d e l q u a l e e g l i s i s c h i e r a ; d a l l ' a l t r o l a t o il c o n c e t t u a l i s m o , c h e p i g l i a d i v e r se forme, finchè non diventi idealismo assoluto, ossia l'iro nia hegeliana, che mette a nudo le coperte magagne de'siste mi antecedenti,Benchè ilibridelDeGraziasianopiuttostopolemiciche dottrinali,pure in essi,e nel Saggio principalmente,si scor gono le linee di una nuova soluzione del problema genealo gico delle idee.Il De Grazia fa consistere in questa soluzio ne tutta la sostanza della filosofia;m a a lui la genealogia non ha lostessosignificato,chehaalBorrelli,dalqualetolse probabilmente ilnome.IlBorrelli,quasi almodo stesso,che fa oggidi l'Herbert Spencer, studia la genesi del pensiero sotto l'aspetto fisiologico : il De Grazia si arresta ai tre fe nomeni primitivi del sentire,del pensare,e del volere,e di quivi soltanto piglia le mosse . Qual è ora per lui l'immediato,o ilfatto primitivo, sul quale riposa la filosofia sperimentale ? IlGalluppi aveva risposto :questo immediato è ilsenti mentodelmeedelfuordime;ilDeGraziarisponde:ilve roimmediatoèilsentimentodelmesolo. Questa prima discrepanza si può dire la origine di ogni divario che corre tra la filosofia de due filosofi calabresi. E n trambi vogliono partire dalla esperienza immediata, m a i li miti di questa immediatezza non sono tracciati al modo m e desimo . «Ilmetodo d'osservazione,dice ilDe Grazia,ciguida a    riconoscere,che ilcampo dellaimmediata percezione di fatti reali è la sola esperienza interna, ove l'oggetto è in noi , è la nostra esistenza,e quanto apprendiamo nelle nostre m a niere di essere.Gli oggetti esterni non sono esposti alla im m e d i a t a n o s t r a p e r c e z i o n e , m a n o i li p e r c e p i a m o c o l m e z z o di più atti mentali ». Questa confusione sembra al nostro filosofo tanto più ine scusabile nel Galluppi,quanto più questi si era chiarito con trario alla tesi della sensazione trasformata . «Potrebbemaicredersi,eidice,chementre egli(ilGal l u p p i ) c o m b a t t e a v i v a m e n t e il p r i n c i p i o s e n s u a l i s t a , g i u d i c a r e è s e n t i r e , a b b i a p o i r i t e n u t o , c h e il s e n t i r e è u n a s p e c i e del pensare ? » Il De Grazia scorge manifesti gl'inconvenienti della spie gazione galluppiana , e li addita così . «Quandosiammette,chelerealtàesteriorisonodanoi sentite,e che poi l'analisi,distinguendo isentimenti che da prima erano confusi,cidàleidee,non sipuòsfuggirealla conseguenza,che dette idee non sono altro che sentimenti distinti;poichè l'analisi non ha cangiato la loro natura pri m i t i v a ; o n d e t u t t o il c a p i t a l e d e l l a e s p e r i e n z a e s t e r n a è c o stituito da ciò che sisente,e da que'rapporti,che il nostro spirito ha in pura sua seduta,ma che non sono nelle cose. Si fatte conseguenze vengono poi confermate ed ampliate con essersidetto,che lacoscienzaèlasensibilità interna,cioè   All'acume del De Grazia non isfuggi la conseguenza,che avrebbe portato il principio galluppiano. Se la realtà este rioreècoltaimmediatamente,dunque ilsentire è lostesso c h e il p e r c e p i r e ; è l o s t e s s o , c h e il p e n s a r e . G a l l u p p i s e n ' e ra aperto con molta chiarezza: la sensazione,per lui,suppo ne l'oggetto sentito,come ilpensare suppone l'oggetto pen sato.Ilsentire era dunque una specie del pensare :sentire e pensare non erano più due fenomeni primitivi, ed irredu cibili,come ilDe Grazia sostiene.   la conoscenza de'fatti interni è sensibilità. Vedesi quindi che con questi principî ilsentire non fu distinto dal pen sare ». Gli estremi , tra cui si studia di librarsi il De Grazia , son questi due:da una parte quello che raccorcia la portata del la coscienza;dall'altra quello che la dilata oltre il convene vole.Chi dice:lacoscienzanon coglielanostraesistenza,e chidice:lacoscienzasiestendeallarealtàesterna,dice u gualmente cosa inesatta ;per difetto, la prima osservazione; per eccesso,la seconda. IlGalluppiammetteundoppioimmediato,ilme edilnon me;ilDeGrazianeammetteuno,ilmesolo:dondeproviene siffatto divario ? Eccolo ,con le parole stesse del De Grazia, le quali compendiano e chiariscono la dottrina galluppiana. « Il dir che partendo dalle nostre modificazioni sensibili, noi veniam per via di giudizî acquistando la conoscenza del m o n d o e s t e r i o r e , v a l q u a n t o il d i r c h e l o s p i r i t o u m a n o c o n i s u o i p r o p r i i e l e m e n t i c o m p o n e il m o n d o . L a f i l o s o f i a s p e r i mentale di Francia su questo punto va a coincidere con l'I dealismo di Kant ». E perchè? Perchè il Galluppi non si affidava ai giudizî per coglierelarealtà;perchèigiudizî,secondo lui,erano pure v e d u t e dello spirito ; d i m o d o c h é , se il m o n d o n o n ci fosse a p parso dal bel principio così,come oggi lo apprendiamo , quel lo costruito di poi sarebbe stato una mera relazione del n o stro spirito,a cui nulla sarebbe corrisposto di reale nella natura.Diffidente della sincerità de'nostri mezzi di conosce re,ilGalluppiquindiappigliossialpartito delReid,edam mise l'immediatezza della sensazione,confondendola con la percezione esterna.  51 « Si è quindi detto,osserva il De Grazia,che nel fatto io s e n t o n o n è c o n t e n u t o il p r o p r i o e s s e r e , e si è t e r m i n a t o d ' a l tra parte con dire che nel fatto io sento si contiene l'essere straniero,ilnonio».    IlDe Graziaritienelasinceritàdelgiudizio,ritieneirap porti come reali,e quindi non alla sensazione,ma ad un pro cessospontaneodell'intelletto,edalconcorso digiudizîdi venuti abituali ed indiscernibili attribuisce le idee de'corpi, quali nello stato presente le troviamo nella nostra coscienza . Esclusa dal De Grazia l'immediatezza della sensazione, non per questo ei mena buoni que'sillogismi, iquali si cre devano più spedito passaggio dalle nostre sensazioni alm o n do esterno. Il De Grazia nota che il modello di questi ragionamenti ri sale fino al nostro Campanella , il quale lo formolò così: Sia monoichemutiamo:dunquesentiamosolonoistessi,enon giàlecose.Noisentiamo lecoseesterne,soloperchécisen tiamomutare,manonsiamonoichecimutiamo;dunqueal tracosacimuta. Questo sillogismo , che , variamente rimaneggiato , è r i m a sto in sostanza il gran ponte di passaggio dal mondo interno all'esterno,nonèparsoabbastanzaconcludentealnostro fi losofo.Le lacune,ch'egliviha scorte,non sipossono logi camente colmare.Anzitutto :chi vi dice che ilprincipio di ogni nostra mutazione sia la volontà ? L'associazione delle nostre idee talvolta non è volontaria, ed intanto è mutazio nenostra.Epoi,poniamochelamutazioneviadditialcun c h è d i e s t e r n o , c h i v i g a r a n t i s c e c h e il p r i n c i p i o e s t e r n o s i a un corpo ?  A taliobbiezioninonc'èdareplicare:ilsillogismoèim potente a discoprire un fatto :esso è utile soltanto a disco prire verità di ragione. Tolta l'immediatezza della sensazione,tolto il sillogismo, il D e G r a z i a t o r n a a l l e r a p p r e s e n t a z i o n i , c o m e i m m a g i n i d e l le cose esterne,ed alla induzione,la quale,travagliandosi su quelle immagini,va legittimando la realtà delle immagini complesse,che l'associazione ha spontaneamente ed abitual mente formate.Non sarà una dimostrazione necessaria,ma   nelle verità di fatto non si dà mai l'assoluta impossibilità dell'opposto,e bisogna contentarsi della certezza morale. L'associazione collega insieme le immagini visive e le tat tili:igiudizîabitualicolgonoirapportiqualirealmente e sistono ;noi adunque venghiamo componendo lo spettacolo del mondo esterno non con vedute subbiettive,ma con ele menti dati dalla realtà stessa dellecose. Questa è stata pure la dottrina dell'Aquinate,e ditutta la filosofia ortodossa. Nell'ultima opera pubblicata col titolo di Prospetto della filosofia ortodossa,ilnostro filosofo sifaforte dell'autorità dell'Aquinate per tutte le parti fondamentali della sua dot trina,salvoimiglioramentich'eicredediavervi arrecato, supplendo a quelli ch'ei chiama desiderata della filosofia to mistica.IlDeGrazianoneraabbastanzaversato nella filo s o f i a a r i s t o t e l i c a , d a a c c o r g e r s i c h e il m e g l i o d i q u e l l a , c h e ei battezzava per dottrina ortodossa,era mutuato da Aristo tele.Vediamo intanto quali principii ei ne accoglie,e ne te soreggia. Primieramente il De Grazia avverte la differenza che l’A quinate mette tra isensibili proprî,ed icomuni;differenza, che noi sappiamo appartenere ad Aristotele. Con molto acume l’Aquinate aveva avvertito di fatti che isensibili proprî sono qualità,come odori,sapori,suoni,co lori,e simili;e che isensibili comuni,invece,sono quanti tà o estensiva,o intensiva,o discreta,come figure,distan ze,movimenti, successione :« sensibilia propria ... sunt qualitates : sensibilia communia omnia reducuntur ad quantitatem ». Finalmente cita la sentenza che accenna alla formazione delleimmagini corporee,echeattribuisceallospirito,enon  53 Dipoi ricorda la dottrina sui rapporti,che San Tommaso hariconosciutocomereali,comeresnaturae,enongiàco me res rationis.   giàaicorpi.«Imaginemcorporisnoncorpus inspiritu, sed ipse spiritus in seipso facit ». Alla quale ultima sentenza ilDe Grazia aggiunge questa avvertenza . E l'avvertenza mira visibilmente a cansare l'equivoco del le forme soggettive,e degli elementi a priori da lui con gran de perseveranza combattuti.Lo spirito si compone egli le immagini de'corpi esterni, l'idea del corpo è un prodotto della sintesi , contro alla opinione del Galluppi, m a in questo raccoglimento non c'è mistura di elementi soggettivi :tutti idati sono reali.Inquestosignificato,enonaltrimenti va intesalaproposizione dell'Aquinate,che ad altri potrebbe parere intinta di kantismo, e che suona così :dat (anima) eisformandisquiddam substantiaesuae. San Tommaso adunque aveva tracciato le prime linee di quella filosofia sperimentale, di cui ilDe Grazia si dà per continuatore: i due filosofi cadono d'accordo sui seguenti ri sultati : 1o che nel senso non v'è altro che il cangiamento del senso;2ocheleimmaginide'corpi sivan componendo con elementi nostri;3ochenoigiudichiamo,essere icorpi simili a quelle immagini. S e n o n c h e S a n T o m m a s o s ' e r a f e r m a t o q u i : il D e G r a zia ha domandato inoltre:con quali operazioni si son for mate quelle immagini ? Con qual criterio le giudichiamo si mili ai corpi esterni ? E alla prima domanda ha risposto : le operazioni sono i giudizî accoppiati alle sensazioni;l'associazione delle im magini visive con le immagini tattili: giudizi ed associa zione che si uniscono spontaneamente ed abitualmente. Alla seconda domanda poi ha risposto: la legittimazione   « Quanto però egli(San Tommaso )enuncia,non lascia dub bio, che nella formazione delle immagini de'corpi esterni ha inteso non mettersi in opra altri elementi,che que'del senso e della imaginazione ».   Quando , difatti, io applico ai fenomeni della estensione le verità della geometria,e l'applicazione riesce,allora è chia ro che alla esistenza de'corpi si aggiunge tutta la forza della dimostrazione induttiva. Mal si è creduto che ogni nerbo di logica dimostrazione consistesse soltanto nel sil logismo e nelle sue forme. « Se l'estensione corporea,dice ilDe Grazia,è reale, la troverò costantemente conforme alle leggi geometriche,ma se è un'illusione de'sensi,mi sipotrà presentare nelle vo lubili forme in cuiapparisce ne'sogni.Nella ipotesi affer mativa v'è la necessità assoluta di trovarsi avverate le ve ritàmatematiche,come sihanell'esperienza:nellaipotesi negativa,l'evento che ne dà l'esperienza, è uno degli in finiti eventi possibili. Questo cenno può far presentire, a qual grado si eleva la pruova induttiva del Leibniz,riguar dandola dal solo lato delle verità matematiche. Esposta in questi termini la mente del nostro filosofo, proseguiamo a raffrontare le differenze conseguenti tra la sua dottrina,e quella del Galluppi. Il Galluppi aveva pareggiata la sperienza interna con l'e sterna,e quindi ammessa una doppia relazione colta imme diatamente, quella tra sostanza e modificazione, e l'altra tra causaedeffetto.IlDeGrazia,invece,distingueleidee pri - si fa non per la immediatezza della sensazione,e neppure per sillogismo,ma per via d'induzione,secondo l'addita mento diLeibniz,ediD'Alembert,idue filosofimatemati ci,mal trascurati dai filosofi posteriori. Non è dimostrazione apodittica cotesta,certamente : an che un incontro fortuito potrebbe essere causa di quella cor rispondenza che noi verifichiamo nella sperienza tra i rap porti quantitativi ideali,eirapporti quantitativi reali dei corpi;ma aqualestremo siassottiglia questa possibilitàdi un incontro fortuito,e di quanta forza non s'ingagliardi sce l'ipotesi della realtà de'rapporti tra corpo e corpo !   mitive dalle derivative ;chiama primitive quelle che sono ricavate dal fatto immediato della coscienza,da lui circo scritto nelsoloiosento;echiamaderivativequelleche na scono poi dalla sperienza esterna. « Si sono messe,ei dice,in una medesima classe,tanto le idee primitive di numero, di sostanza,e di modificazione, di affermazione e negazione,quanto le idee derivative di causa,diazione mutua,delcontingente,delnecessario,del possibile;e non si sono mentovate le idee derivative di spa zio,ditempo,per essersi supposto venirci date dallasen sibilità senza previo lavoro dell'intelletto ». L'originale dell'idea di sostanza è dunque ilnostro pro prio essere:delle modificazioni si dice impropriamente che esistono:ciò ch'esiste è la sostanza.Però se un essere esi stente non avesse punto di modi,ei non sarebbe nè in m o to,nèinquiete;nèpensante,nènon pensante,ecisarebbe u n m e z z o t r a l' e s s e r e e d il n o n e s s e r e ; il c h e è a s s u r d o . Cosi dice egli parlando delle forme kantiane,e l'appun to si può volgere pure al Galluppi,che alla sostanza ed alla causa attribuì, come abbiamo visto, la medesima origine. Pel De Grazia la coscienza è l'lo sento,e in questo fatto permanente della propria esistenza lo spirito apprende la sostanza, come la modificazione nelle sensazioni in cui si senteesistere.Ilmododiesisterenon sipuòdispiccaredal laesistenza,edilDeGraziachiama una rivoluzione filoso fica quella avvenuta in occasione dello scetticismo di Hume , quando si cominciò ad affermare che nel fatto di coscienza v'èilsolomodo diessere,enon giàl'essere.D'allorain poi si cercò di supplire a questo difetto supposto per via di aggiunzioni provenienti da altresorgenti:così ilRosmini suppose che al fatto di coscienza si dovesse aggiungere l'i dea dell'essere.Pel De Grazia ilfatto della coscienza nella sua integrità dà l'uno e l'altro; se non che a cogliere questo rapporto non è attalasensazione,siveramente ilgiudizio.   Senza avere sperimentato il fatto del passaggio da una modificazione ad un'altra,noi non avremmo potuto affer marlo : dopo la sperienza però,noi essendo in un dato m o do pensiamo la tendenza di passare ad un altro; e cotesta tendenza chiamiamo forza, la quale è dunque ciò che han no di costante gli stati successivi della sostanza. Nella originedell'idea di causa noi abbiamo bisogno di al tri dati. a Non siavverte,diceilnostro autore,chelacausa che produce le sensazioni è quella che mette in esercizio la sen sibilità;lacausa cheproduceipensierinon èlapotenzadi pensare,ma èquellachemetteineserciziolapotenzadi pensare;la causa che produce ivoleri non è la volontà,ma è quella che mette in esercizio la volontà ». Chi ricorda ora che a queste tre classi di fenomeni ri duce eglituttalanostraattivitàspirituale,vede chiaramen te cheperluiselacoscienzaporgeilmodellodellasostan za,non èperòbastevoleaspiegarel'ideadicausa.Qui oc corrono più sostanze, di cui una determina l'altra. Nella sostanza la mutazione sopravvenuta è determinata dallostatoanteriore;nellacausaessamutazione èdeter minata e dallo stato anteriore e dalla mutua azione. Il De Grazia riassume la sua dottrina su queste due idee capitali nel seguente modo . « La sostanzapersistenellasuaimmutabilenaturaal can giar delle modificazioni. Nell'ordine naturale nè possono prodursi nuove sostanze, nè leattualiannientarsi. I cangiamenti di una sostanza sono cosi connessi tra lo ro,cheinogniistanteilsuostatoèdeterminatodalsuosta to antecedente,cioè nel corso de'suoi cangiamenti ha per modificazionecostanteunatendenzaalcangiamentocheim mediato vaseguendo,equestatendenzaèquelchenoico  - 57 8   nosciamo della forza interna di una sostanza.La diversa na tura di queste forze ci viene manifestata dalla esperienza, cioè dai diversi cangiamenti della sostanza.Così distinguia mo levarieforzeinternediunasostanza,elevarieforzein terne delle diverse sostanze ». « Una sostanza, che trovasi in uno stato permanente non può da sè stessa,cioè per propria forza,passare ad altro stato ». «Oltrelaconnessionetraicangiamentidiunastessaso stanza v'è anche una connessione tra i cangiamenti di di verse sostanze,cioè una mutua azione tra le medesime ». « Tutti gli avvenimenti dell'universo saranno necessarii, e l'azzardo non è che l'incontro di avvenimenti non con nessi tra loro.Ma questo incontro medesimo è necessario, in quanto son necessarie le serie de'cangiamenti anteriori, che han determinato quegli stessi avvenimenti che s'incon trano ». Ecco la somma della sua dottrina,la quale,intorno alla causalità specialmente, è la traduzione filosofica delle leggi delmoto diNewton.Questeleggi,osservailDeGrazia,ed a ragione, non sarebbero vere leggi degli esseri naturali,se fosse falsa l'ipotesi della mutua azione. Locke intanto aveva negato l'idea di sostanza, Hume la connessione richiesta dalla mutua azione nella causalita ; entrambi per lo stesso motivo,che noi cioè non conoscia mo adeguatamente nè quella,nè questa.Pare al nostro au torecheilragionamentodiHumesiriducaaquestoentime ma:noinonabbiamoideaadeguata diazione;dunque non ne abhiamo punto. Le ricerche,dalle quali Hume era stato indotto a questa conclusione ,la quale troncava i nervi ad ogni attività scien tifica, si possono brevemente esporre così.L'esperienza non dàconnessione,ma semplicecongiunzione:ilragionamento non dà idee nuove :l'abitudine non cangia la natura della  58   prinda percezione,come una serie di zeri è impotente a co stituire una quantità. Con lacoscienzacolghiamolemutazioninostre,elegiu dichiamo appartenereallanostrasostanza:conl'astrazione noi rendiamogeneralequestaconnessioneinterna.La spe rienza esternadipoicimostrafattiincongiunzione,ma con tal costanza,che noi ci avvezziamo a riferire un fenomeno alla presenza di un dato oggetto:noi induciamo,che questa congiunzionesiaunaveradipendenza.Eperchè?«Unacon t r a r i a s u p p o s i z i o n e , ei r i s p o n d e , i m p l i c a l ' a s s u r d o , c h e d u e sostanze con le stesse modificazioni sono condizionate ad e sercitare una mutua azione in un tempo più tosto che in altro;in un luogo più tosto che in altro luogo. In tal guisa tutte quelle funzioni del pensiero,che isolate non sarebberostatebastevoliafornircilaconnessionecau sale,intrecciateabilmente insieme bastano. IlKant,come sappiamo,dallepremesse diHume,lasciate correre senza contrasto,inferi che dunque l'idea di causa è a priori ; evitando con questa origine le scabrose ricerche de]l'analisi.Altri aveva inferito,che ilprincipio di causali tà sia,nongiàsinteticoapriori,ma analiticoadirittura, come trainostriilGalluppiedilRosmini:ilnostroDeGra zia riconosce che nella idea dell'avvenimento non è racchiu s a l'idea della sua causa ; dà ragione alla filosofia critica di averlo sostenuto per sintetico;ma crede di coglierla poi in flagrante contraddizione nel valore che Kant attribuì a tal principio.Giovaesaminarequest'ultimo aspetto della que stione .  .-59 11DeGraziareplicò:altroèilnonavereunaideaadegua ta,ilnonconoscereilcomedell'azione;edaltroilnon a verne la menoma idea.Vero è inoltre,che nè la sperienza, nè il sillogismo,nè l'abitudine bastano da soli,ma intrecciati insieme forsebasteranno:epoisièlasciatafuordiconto l'in duzione,laquale èdiunaiutoinestimabile.Ed eccocome.   Kant aveva attribuito al principio di causalità un'origine apriori,epoiavevaattribuitoallostessounvalore ogget t i v o : il D e G r a z i a i n t e r p e t r a o g g e t t i v o n e l s e n s o d e l l a f i l o s o fiasperimentale,ed affibbiaalKant una contraddizione,che proviene da una poco esatta cognizione della Critica della Ragion pura. «Daunapartesiammette,cheinostriconcettieigiu dizî sintetici a priori hanno un valore oggettivo nella na tura ... Dall'altra parte si sostiene che la causalità non è legge degli esseri, ma legge de'lor cangiamenti sommessi alla nostra esperienza ». Per Kant l'oggettivo non era punto nella natura , m a era semplicemente ciò che si trovava in ogni coscienza,non co me questa o quella coscienza empirica ed individuale,ma in ogni coscienza umana in universale,in ogni coscienza uma na come tale. Onde Kuno Fischer esponendo questa significazione della parola oggettivo nel sistema kantiano scrive appunto cosi: « N u n heisst « verknüpft sein in reinen Bewusstsein » soviel als « obiectiv verknüpft sein ». Ma di tali inesattezze fu causa non la poca penetrazione dellamente,sil'averluiignoratolalingua tedesca;ilche lo costrinse a servirsi di poco sicure traduzioni. N e l l ' e s a m e d e l m o d o , c o m e il D e G r a z i a s p i e g a l ' o r i g i n e dell'idea disostanza,equella dicausa,noi abbiamo indi cato tutto quanto il suo processo analitico nella genealo gia del pensiero,perchè la prima idea è primitiva, la se conda derivativa. Pure di altre principali toccheremo un cenno per chiarezza maggiore,ma prima alleghiamo testual mente la formola del suo metodo. « Pura osservazione di fatto nelle idee primitive;pura os servazione di concetti astratti nelle idee derivative ;ecco i due cardini del presente Saggio. La natura oggettiva delle idee di rapporto , e i giudizî parte integrante di alcune idee sono ledue vedute primordialinellaquistionedellaorigine e realtà delle nostre conoscenze ». Con questo criterio ora ilnostro filosofo si fa ad esami nare ilfatto,ediquivi pervia diastrazione,ossiapervia del giudizio,attinge ogni nostra idea. Percepire ilpossibilevalgiudicare ciò ch'è possibile, come percepireilnecessariovalgiudicareciòch'èneces s-ario,e percepire ilgeneraleval giudicare ciò ch'è gene r ale ». È una falsa opinione il credere che la necessità,la pos sibilità,launiversalità,come altresì laidentità,ladiversi t à non siano contenute tutte quante nella realtà che ci sta davanti : il giudizio non aggiunge nulla di suo, esso è un puro mezzo di osservazione, e nulla più. « Il nostro spirito ha la virtù di apprendere l'identità e la diversità,con cuisioffronoleideeallanostra percezio ne:eccoquantodevesisolamentediredalfilosofo». L'infinito non è pel nostro autore,se non la quantità in finita, e la origine di questa idea è anch'essa dovuta alla e sperienza. « Partendo dal principio,che ilpositivo dee precedere il negativo nell'ordine genealogico, abbiamo conchiuso,la quantità che ha limiti dover precedere la quantità che non ha limiti;ilfinito dover precedere l'infinito;ilsiavanti al no.L'equivoco ènelcredere,che una quantitàinfinita non ènegativa». Che sesiosserva,laquantitàinfinitacomprendere in se tutte le finite, è da osservare altresì ch'essa le comprende non come negazione,ma come quantità:lanegazione siri ferisce al limite. Tra quelli che San Tommaso chiamava sensibili comuni c'erano l'estensione e lasuccessione,rapporti quantitati vi,mentre isensibiliproprîeranoqualità.Oralavorando  Piùcomplicataèlagenesidelleideedispazioeditempo.   62 sopra questi due dati,vale a dire considerando come as soluta la posizione de'punti nella estensione,e degl'istanti nella successione, si ha nel primo caso lo spazio, nel se condo iltempo. « La pura estensione non è tutta intera l'idea dello s p a zio :in questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi punti . L'idea di successione non è tutta intera l'idea del tempo : in questo v'è dippiù il valore assoluto de'suoi istanti ». Che cosa vuol dire questo valore assoluto ? Ecco:l'estensione consiste nella postura de'punti;e c o testa postura è di sua natura relativa. Se ora la postura non si riferisce ad alcuni punti soltanto,ma a tutt'i punti assegnabili,siavrànonpiùunadataestensione,ma lo spa zio.Cosidicasideltempoperrispettoallasuccessione. C'è successione,se un istantesiriferisce ad un istante dato : c'è tempo se la relazione si allarga a tutti gl'istanti a s s e gnabili. Dimodochè lo spazio siha negando illimite della esten sione finita ; il tempo negando il limite della successione finita. Ma l'estensione e la successione,si domanderà, donde provvengono ? IlDeGraziachelichiamasensibilicomuni,ritenendo la nomenclatura tomistica nel Prospetto della filosofia o r t o dossa,nel Saggio ne attribuisce l'origine non alla sensibi lità, ma all'intelletto.Egli anzi combatte la dottrina k a n tiana delle forme pure della sensibilità,osservando che non si può dare estensione e successione senza apprendere del le sensazioni come moltiplici,e quindi come diverse, o meidentiche;sicchènumero,diversità,identitàsono con dizioni dell'apprensione di questi due nuovi rapporti, che si dicono estensione e successione.Kant che le attribuiva alla sensibilità non si accorgeva del concorso indispensa bile dell'intelletto che vi si richiedeva ;ed anzi si contrad  CO   diceva ammettendo, che la materia sensibile prende un pri mo ordinenelleformepuredellasensibilità,echeperesse forme la varietà e la moltiplicità della rappresentazione ac quista un certo ordine. Questa contraddizione era stata avvertita dal Borrelli pri ma delGrazia,eforsequestil'hamutuatadall'autoredella Genealogiadelpensiero.Kant,aveva dettoilBorrelli,tie ne percategoriedell'intellettoladiversitàelamoltiplicità: e d intanto ammette una varietà ed una moltitudine anche nella sensibilità: come va ciò ? Nè il Borrelli, né il De Grazia s'accorsero però che il divario tra categoria, ed intuizione pura consiste non già nel supporre entrambe una moltiplicità;ma nel diverso m o do dellegamecategorico,edintuitivo. Ma è tempo omai di giudicare nel suo insieme il tentati v o del nostro filosofo. Propostosi discoprire lelacunedellafilosofiadelGallup pi principalmente,e di additare i costui sviamenti dal m e todo sperimentale, egli si studia di evitare ogni spiegazio n e ,la quale non si desumesse dal fatto reale.La ragione c'è nonperprodurre,maperosservare:ilpiùchepossafa re èdiastrarre.Per questa disposizione d'animo gliando a sanguelafilosofiadell'Aquinate,che,foggiatasul'ari stotelica, gli parve battesse la stessa via.Ripetendo l'an tico adagioaristotelicocheilpensareèofantasia,onon senza fantasia,l'Aquinate procede difatti di astrazione in astrazione,ma senzadispiccarsimaidalfattosensibile.Che cosaèilfantasma?Similitudinedellacosaparticolare:Si militudo reiparticularis.Checosaèl'attodell'intendere? È laspecieintelligibile,speciesintelligibilis,chesitorna ad astrarre dalfantasma:un'astrazione adoppiogrado.E che cosavuoldireilluminareifantasmi,equelfamoso lu me divino, sulqualetantoavevadisputatoilRosmini,seera Dio stesso,ounsuoriflesso?PelDeGrazianonèaltro,se  non l'effetto della attenzione, che vi si presta. Il giudicare era a lui un fatto irreducibile,da non confondere con la s e n s a zi o n e , m a i n s i e m e e r a u n p u r o m e z z o d i o s s e r v a z i o n e . Osservare adunque è la parola che compendia tutta la sua filosofia . Per questo verso la filosofia del De Grazia è più moderna di quella del Galluppi, e rasenta assai da presso il Positivis mo contemporaneo,cheinqueltorno sistavaconcependo. Il Corso di filosofia positiva dettato da Augusto Comte fu pubblicato in Francia. Il De Grazia avrebbe potuto averne notizia,matuttoinduce acredere,ch'ei non l'abbiaavuta.L'educazioneprimadellasuamente, che al pari di quella del Comte era stata avvezza alle scien zeesatte,elapocapropensione per lespiegazioni trascen dentali poteronlo però sospingere per la medesima via. Il De Grazia al pari de'positivisti dichiara sconosciute le essenze delle cose, limitata ad una mera riduzione di feno meni tutta la nostra scienza:crede anche lui doversi appli care alla filosofia il metodo delle scienze esatte e delle s p e rimentali,e da qui la grande importanza che attribuisce alla induzione , la scarsa che attribuisce al sillogismo .  Se non che all'osservazione immediata ei seppe accoppia re l'induzione,ch'è l'osservazione mediata.Della induzio ne ebbe un concetto preciso,nè lavolle ristretta al sempli ceradunamento de'fattiosservati,ma ne estese la portata oltre ai limiti della sperienza.In questo allargamento però essa non genera nell'animo quella evidenza, che scintilla soltanto dalla osservazione immediata, o dalle verità di r a gione;ma una certezza morale,laquale ammette la possibi litàdell'opposto.Tutte lescienzesperimentali debbono te nersi paghi di quello stato, ch'è pure tanto discosto dal d u b biotormentosolasciatoinereditàdạHume,ilqualedisco nobbe l'efficacia della induzione. Ecco difatti alcune sentenze,le quali si potrebbero cre dere imitate da Augusto Comte.   « Il metodo è il ridurre i fenomeni particolari a'fenomeni generali, e questi ad altri più generali fino ad arrestarsi a pochi fenomeni irreducibili ». « La riduzione viene operata a lume delle verità neces sarie da un lato,e dalle accurate osservazioni dall'altro la to.E un fenomeno generale che resiste agli incessanti rigo rosi tentativi di riduzione,non è perciò dichiarato assolu tamente irreducibile alle note forze primarie delle sostanze corporee,note però negli effetti, e per noi sempre ignote nella loro essenza ». « I nostri mezzi sono impotenti a scovrir la natura degli ésseri.Tutto quel che può scovrire la nostra ragione nella scienza della natura è riposto nel classificare i fatti speri mentali con andarrisalendoda’fattiindividualia'generali, e da questi a'più generali fino a raggiungere ifatti primiti vi,ov'èforzal'arrestarsi». Ma allatoaquestesomiglianzetroviamonelDeGraziadei tratti, che lo differenziano dal fondatore del Positivismo francese;ne addito due come principali. Il Comte trascura affatto il problema della conoscenza , ed invece questo problema rimane pel De Grazia ilprimo ed il capitale. Il Comte attribuisce alla metafisica un valore storico sol t a n t o , il De Grazia è per sua s o c h e l a metafisica po s s a r i m a nere accanto alla scienza sperimentale.Così,sebbene dichia ri inconoscibilel'essenzadell'anima,enotasolalasuama nifestazione nel pensiero,non esita poi di affermare che la metafisica ne ha stabilito la spiritualità, l'immortalità, la vita futura. Questa oscillazione fra le esigenze del suo metodo e le tra dizioni di quella ch'ei chiama filosofia ortodossa fa sì che in lui sipuòravvisareorauntomista,edora un positivista, secondo i casi.Se non che il tomismo stesso a lui or balena 9  va come riflesso dalla filosofia aristotelica,or come lume r a g giante dallarivelazionedivina; edellaortodossia del cre dente si faceva schermo a nascondere gli ardimenti del si losofo . Noiignoriamoqualiaccuseglifuronomosse,equalirim proveri fatti :certo apparisce da alcuni luoghi dei suoi li bri che qualcosa di simile ci debba essere stato : eccone u n o per esempio. « Ci crediamo abbastanza fortunati di aver veduto p r o trattiinostrigiorni,finoall'istantedirassicurarciche il nostro comunquedebolelavoroerasottolaguarentigiadel l'Aquinate, contro le avventate odiose imputazioni ». Ed altrove dice esplicitamente ch'ei ricorre all'autorità diSanTommaso periscagionarsidellatacciad'incredulita. Lo studio di Aquino, e d il Prospetto della filosofia ortodossa che ne fu ilrisultato,ebbero adunque per fine ladifesa della propriadottrina.Meglio forse avrebbe fatto a dispregiare ilvano cicaleccio delvolgo,che di ogni ri cercafilosoficas'adombraes'insospettisce;ma l'indoledel nostro filosofo era dimessa e circospetta, e preferi di ripa rarsi sotto l'egida di un dottore di santa Chiesa; come se u n altrettalespedientefossegiovato al Rosmini edal Gioberti. Senza il bisogno di questa apologia della sua dottrina a vrebbe potuto por mano a quella Filosofia del pensiero, a cui accenna;imperciocchè,contutt'iseivolumidaluimessi a stampa,ilsuo sistema rimane appena delineato nel prin cipioenelmetodo;nèdelleapplicazioni alla Estetica,oal l'Etica si trova più di un semplice accenno: la Logica stessa non vi è di stesa pienamente, sebbene tutto i'l Saggio non s i occupi di altro che di Logica. Stando ai brevi accenni noi sappiamo che le parti della filosofia per lui sarebbero state la logica,l'etica,l'estetica, perchè itre fenomeni irreducibili del pensiero sono ilgiudi care,ilvolere,ilsentire.Ilsillogismo ègiudizio pure;ma  66   un giudizio fondato sopra idee astratte, mentre il giudizio primitivo è la osservazione immediata della realtà concreta. Il sillogismo è applicabile alle sole verità di ragione. La prova induttivá si adopera a slargare la cerchia della sperienza immediata :essa però presuppone la realtà delle idee di numero,identità, diversità, sostanza,modificazione, necessità,possibilità.Queste idee non si possono ricavare per induzione, altrimenti ci sarebbe un circolo:sono ricava te per astrazione dalla osservazione immediata fatta per m ezzo del giudizio. L'associazione è la sorgente spontanea,ma illegittima del le nostre idee: l'induzione dipoi legittima, confermandole , quelle relazioni,che l'associazione delleidee aveva per ipo tesi anticipato. Ecco adunque delineato il compito della logica: analisi d e l senso comune, e giustificazione delle credenze spontanee che quello contiene. E dell'Etica ? Solo per intramessa sappiamo,ch'egli,a differenza di Elvezio , il quale dà per originario il solo desiderio del proprio utile, ammette appetiti disinteressati originalmente, non credendo che l'abitudine potrebbe andare fino al punto di snatu rare laqualitàstessadeldesiderio.Orsenoiabbiamo nella coscienza attuale de motivi disinteressati, è necessità che questi motivi si fondino sopra appetiti primitivameute tali. Anchequiadunqueavrebbe il De Grazia adottatolostesso procedimento della conoscenza :lo spirito avrebbe legittima to conlaragioneciòchelanaturaspontaneamenteavesse in  1 Prima la mente crede, perchè non ragiona ancora ;poi crede,perché laragione ha legittimato lasuacredenza. Fin chè il dubbio non l'assale,la mente riposa sicura sui nessi stretti spontaneamente dalla associazione naturale delle sue idee:quando ildubbio sottentra,la induzione ne la libera, giustificando la spontanea credenza .   origine operato. Se non che, eglisenerimetteaquella Filo sofiadelpensiero,chepoiononscrisse,ononarrivòsino a noi. Meno preciso è il disegno, del qua l e si sarebbe dovuto toccare della Estetica. Noi sappiamo solo, che il Bello è per lui «l'oggetto della percezione,quando ci riesce piacevole il contemplarlo ». Ma ,oltre a questo effetto prodotto dalla bel lezza nello spirito contemplatore,invano si cercherebbero altri schiarimenti . Nei voluminosi libri che scrisse avrebbe il De Grazia po tuto colorire intero il disegno della sua filosofia, se non si fosse allargato troppo in polemiche ed in apologie,soventi superflue, e se avesse usato maggior parsimonia nello stile, ch'èdiffuso,stemperato,eridondante d'interminabiliripe tizioni. I sei volumi si sarebbero potuti restringere in un solo, o in un paio al più, senza nessun danno per le idee che viesprime;eforseconquestoguadagnodippiù,diaverpo tuto trovare maggior numero di lettori. Dobbiamo in questa occasione ricordare,che il sensua lismo era la dottrina favorita de'giovani italiani, pria di comparire il Saggio su la critica della conoscenza, che in parte con la forza del ragionamen to,einparteconquellaautoritàcheilnostroGalluppi ven ne mano mano acquistando pel valore della sua opera, egli riuscì a sradicare l'errore dalle menti giovanili,ed avviarle a'sani principi della morale e della religione.Quindi le sue istituzioni di filosofia, del tutto conformi ai suoi principi del Saggio,furono adottate per quasi tutte le scuole d'inse gnamento in Italia.Un tal positivo giovamento recato alla  68 Il De Grazia combatté la filosofia del Galluppi, finché que sti viveva e professava nella Università napoletana : la combattè perchè la credette sbagliata e perniziosa. Morto che fu ilsuo grande avversario,ei,pur rimanendo saldo nella sua sentenza , scrisse di lui queste parolesua patria è la gloria maggiore cui aspirar mai si possa da un filosofo». Così il De Grazia giudica il Galluppi morto nel Prospetto di filosofia ortodossa ; ed il giudizio ci rivela il carattere integro,leale,generoso di chi lo portava.Combattendo le dottrine di un avversario,ei rispetto,ei lodò le intenzioni ; ei non disconobbe l'utilità che aveva arrecato al suo paese . Talvolta anzi ei par che non agogni,che non cerchi altra gloria, che quella conseguita dal suo valoroso avversario: dispera quasi di conseguirla vivo,pur se l'augura dopo morto, non tanto per sè, quanto a pro della sua patria. «Ese non può goderne chi l'ha meritata, pur questa tar dagloriasiriflettesulasuapatria, servedisprone a'suoi concittadini sopra tutto,nella faticosa carriera letteraria, e riesce di nobile compiacenza per tutti gli spiriti fatti per a m mirare,per amar lavirtù ». Chi scriveva queste magnanime parole ebbe certamente un cuore non minore della mente, e la tarda gloriadaluiinvo cata è un tributo ben meritato da chi non stimolato da biso gno, non allettato da premio, passò la vita, non fragliagi ereditati, manella faticosa palestra dello studio, dove s'in vecchia e simuore anzi tempo,ma dove siha almeno ildrit todicredereche, morendo, non si muore del tutto.Vincenzo Di Grazia. Grazia. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grazia” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gregory – implicature clandestine – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Fellow of the British Academy. Grice: “I like Gregory; being a Roman, he studied Roman philosophy in one of the most interesting epochs: the thirties! Then he explored what he calls the ‘lessico filosofico,’ which Austin detested – “Why do we need the philosopheer’s ‘volition’ when we have ‘would’??” Si laurea a Roma con Nardi. Insegna a Roma. Direttore di Ricerche storico-filosofiche. Direttore della sezione di Storia della filosofia Lessico Italiano. Diresse la collana "I filosofi.” Saggi:“Anima mundi” (Firenze, Sansoni); “Platonismo” (Roma); “Scetticismo ed empirismo” (Bari, Laterza); “L'idea di natura”, “La filosofia della natura  (Passo della Mendola, Firenze, Sansoni); “L’atomismo”, “Aristotelismo” “Il genio maligno”; “Il demonio maligno”; “Mundana sapiential”; “Theophrastus redivivus”; “Erudizione e ateismo” (Napoli, Morano); “Il libertinismo”; “La filosofia clandestina” (Firenze, La Nuova Italia), “L’Etica della critica libertina” (Napoli, Guida); “Forme di conoscenza” (Roma, EStoria e Letteratura); “Lo spazio come geografia del sacro” Della sobria ebbrezza”; “La terminologia filosofica” (Firenze, Olschki); “Speculum natural” (Roma, Storia e Letteratura); “Principe di questo mondo”; “Il diavolo” (Roma, Laterza); “Della modernità, Pisa, Torre); “Vie della modernità” (Firenze, Monnier Università). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. A. ALIOTTA, A. CAPITINI, P. CARABELLESE ETC., Il problema di Dio, a cura di G. Savio e Tullio Gregory, Roma, Universale di Roma, Raccolta di un ciclo di conferenze promosse dal Centro Romano Studi presso l’Università degli Studi di Roma nell’A.A. BRUNO NARDI, Storia della filosofia. Il naturalismo del Rinascimento, a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni Universitarie, 1949, 191 pp.  2  Bibliografia di Tullio Gregory – 1951 torna su 1951 esci 3. BRUNO NARDI, La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1951, 95 pp. 4. BRUNO NARDI, Il problema di Dio nella filosofia medioevale, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1951, 88 pp. 5. Sull’attribuzione a Guglielmo di Conches di un rimaneggiamento della “Philosophia mundi”, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXX, 1951, pp. 119-125. 6. L’Anima mundi nella filosofia del XII secolo, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXX, 1951, pp. 494-508.      3  Bibliografia di Tullio Gregory – 1952 torna su 1952 esci 7. BRUNO NARDI, Le meditazioni di Cartesio, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1952, 51 pp. 8. L’idea della natura nella Scuola di Chartres, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXI, 1952, pp. 433-442. 9. Cattolicesimo e storicismo. La polemica sulla «nuova teologia», «Rassegna di filosofia», I, 1952, pp. 49-66. 10. Gli studi italiani sul pensiero del Rinascimento, I. La polemica sul Rinascimento, «Rassegna di filosofia», I, BRUNO NARDI, Il dualismo cartesiano, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1953, 48 pp. 12. Note sul platonismo della Scuola di Chartres. La dottrina delle specie native, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXII, 1953, pp. 358-362. Diventa, corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi Note e testi per la storia del platonismo medievale (si veda 1955, n. 18) e Nuove note sul platonismo medievale (si veda 1957, n. 23). 13. Gli studi italiani sul pensiero del Rinascimento, II. Platonismo e Aristotelismo, «Rassegna di filosofia», BRUNO NARDI, La filosofia di Dante, a cura di Tullio Gregory, Roma, La Goliardica, 1954. La pubblicazione è in due volumi, il primo di 111 pp. e il secondo di 109 pp. 15. L’escatologia cristiana nell’Aristotelismo latino del XIII secolo, «Ricerche di storia religiosa», I, 1954, pp. 108-119.   6  Bibliografia di Tullio Gregory – 1955 torna su 1955 esci 16. “Anima mundi”. La filosofia di Guglielmo di Conches e la Scuola di Chartres, Firenze, Sansoni, («Pubblicazioni dell'Istituto di filosofia dell'Università di Roma», 3), 294 pp. Indice del volume: I. La vita e le opere di Guglielmo di Conches, p. 1; II. La teologia, p. 41; III. L’anima del mondo e l’anima individuale,  L’idea di natura, p. 175; V. Gli ideali culturali della Scuola di Chartres, p. 247; Indice dei manoscritti, p. 281; Indice dei nomi, p. 285. 17. L’Apologia e le “Declarationes” di Francesco Patrizi, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, I, Firenze, Sansoni, 1955, pp. 385-424. 18. Note e testi per la storia del platonismo medievale, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXIV, 1955, pp. 346-384. Diventa, corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12) e Nuove note sul platonismo medievaleIl maestro interiore nel pensiero di S. Agostino, in BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine- Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia»), Il «De magistro» di S. Tommaso d’Aquino, in BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine- Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia »), pp. 183-201. Si veda anche il 1965, n. 44. 21. La «reductio artium» da Cassiodoro a S. Bonaventura, in BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, I, Il Medioevo, Firenze, Edizioni Giuntine-Sansoni, 1956 («I Classici italiani della pedagogia »), pp. 279-301. 22. Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani, a cura di Antonio Viscardi, Bruno e Tilde Nardi, Giuseppe Vidossi, Felice Arese, con la collaborazione di Gian Luigi Barni, Luigi Brusotti, Don Giuseppe De Luca, Tullio Gregory, Luigi Ronga, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956 («La letteratura italiana. Storia e testi», I), LXXI-1237 pp. I capitoli in cui Tullio Gregory ha curato la nota introduttiva e/o le traduzioni sono: Dalla epistola ad Drogonem philosophum (traduzione), pp. 362-365; Lanfranco da Pavia (nota introduttiva e traduzioni), pp. 420-434; Sant’Anselmo di Aosta (nota introduttiva e traduzioni), pp. 435-470; Gioacchino da Fiore (nota introduttiva), pp. 723-725. Il volume è stato successivamente ristampato da Einaudi (si veda 1977, n. 76 e n. 77).     8  Bibliografia di Tullio Gregory – 1957 torna su 1957 esci 23. Nuove note sul platonismo medievale. Dall’anima mundi all’idea di natura, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXVI, 1957, pp. 37-55. Diventa, corretto e aumentato, il quarto capitolo di Platonismo medievale (si veda 1958, n. 24) insieme ai saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12) e Note e testi per la storia del platonismo medievale Platonismo medievale. Studi e ricerche, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1958 («Studi storici dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 26/27), 159 pp. Indice del volume: I. Il commento a Boezio di Adalboldo di Utrecht, p. 1; II. L’Opusculum contra Wolfelmum e la polemica antiplatonica di Manegoldo di Lautenbach, p. 17; III. La dottrina del peccato originale e il realismo platonico: Odone di Tournai, p. 31; IV. Il Timeo e i problemi del platonismo medievale, p. 53; Indice dei manoscritti, p. 153; Indice dei nomi, p. 155. Per la traduzione tedesca del secondo capitolo si veda 1969, n. 58. Nel quarto capitolo sono raccolti, corretti e aumentati, i saggi Note sul platonismo della Scuola di Chartres (si veda 1953, n. 12); Note e testi per la storia del platonismo medievale (si veda 1955, n. 18); Nuove note sul platonismo medievale (si veda 1957, n. 23), tutti pubblicati sul «Giornale critico della filosofia italiana». 25. Sulla metafisica di Giovanni Scoto Eriugena, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXVII, 1958, pp. 319-332. Con revisioni e aggiunte è diventato il primo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi La polemica antimetafisica di Gassendi. I, «Rivista critica di storia della filosofia», XIV, 1959, pp. 131-161. Per la seconda parte si veda 1959, n. 27. 27. La polemica antimetafisica di Gassendi. II, «Rivista critica di storia della filosofia», XIV, 1959, pp. 243-282. Per la prima parte si veda 1959, n. 26. Entrambi i contributi sono stati stampati, con numerazione continua, in un estratto unico: Tullio Gregory, La polemica antimetafisica di Gassendi, Firenze, La Nuova Italia Editrice, Mediazione e incarnazione nella filosofia dell’Eriugena, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XXXIX, 1960, pp. 237-252. Con modificazioni e aggiunte è diventato il secondo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi Scetticismo ed empirismo. Studio su Gassendi, Bari, Laterza, 1961 («Biblioteca di Cultura Moderna», 557), 254 pp. Indice del volume: I. La polemica antimetafisica, p. 5; II. Scetticismo ed empirismo, p. 119; III. Empirismo e metafisica, p. 179. 30. L’opera di Bruno Nardi, «L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca», II, 1961, pp. 31-52. 31. Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XL, 1961, pp. 163-174. Testo presentato al Convegno “L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del medioevo” e pubblicato negli atti (si veda 1962, n. 33). Diventa il capitolo 9 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 32. Platone e Aristotele nello “Speculum” di Enrico Bate di Malines. Note in margine a una recente edizione, «Studi medievali», s. III, III, 1961, pp. 302- 319.      13  Bibliografia di Tullio Gregory – 1962 torna su 1962 esci 33. Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, in L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del medioevo, atti del 3° Convegno del Centro di Studi sulla Spiritualità medievale (Todi, 16-19 ottobre 1960), Todi, Accademia Tudertina, 1962, pp. 263-282. Apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1961, n. 31). Diventa il capitolo 9 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 34. Per i sessant’anni della Casa Laterza, «Belfagor», XVII, 1962, pp. 701-713. Testo della conferenza tenuta in occasione dell’inaugurazione della Mostra storica della Casa Editrice Laterza, a Roma, il 7 aprile 1962. 35. Discussioni sulla doppia verità, «Cultura e scuola», Giovanni Scoto Eriugena: tre studi, Firenze, Le Monnier, 1963 («Quaderni di letteratura e d'arte», 21), 82 pp. Indice del volume: I. Dall’uno al molteplice, p. 1; II. Mediazione e incarnazione, p. 27; III. «Contemplatio teologica» e storia sacra, p. 58. Il primo capitolo è una rielaborazione, riveduta e corretta del saggio Sulla metafisica di Giovanni Scoto Eriugena (si veda 1958, n. 25). Per una traduzione tedesca del primo capitolo si veda 1969, n. 57. Il secondo capitolo è una rielaborazione, riveduta e corretta del saggio Mediazione e incarnazione nella filosofia dell’Eriugena (si veda 1960, n. 28), entrambi apparsi sul «Giornale critico della filosofia italiana». Diventano i primi tre capitoli del volume Giovanni Scoto. Quattro studi (si veda 2011, n. 224) 37. Note sulla dottrina delle «teofanie» in Giovanni Scoto Eriugena, «Studi medievali»i 38. L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, Firenze, Sansoni Editore, 1964, 43 pp. Testo presentato al Terzo Congresso Internazionale di Filosofia Medievale “La filosofia della natura nel Medioevo” (Passo della Mendola 31 agosto-5 settembre 1964). Successivamente è stato pubblicato negli Atti del Convegno (si veda 1966, n. 46). Diventa il terzo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 39. Aristotelismo, in Grande Antologia Filosofica, diretta da Michele Federico Sciacca, coordinata da Andrea Mario Moschetti e Michele Schiavone, VI, Milano, Marzorati, 1964, pp. 607-837. 40. Einleitung, in PETRUS GASSENDI, Opera Omnia, Faksimile-Neudruck der Ausgabe von Lyon 1658 in 6 Bänden mit einer Einleitung von Tullio Gregory, I, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1964, pp. V-XXII. Il testo in italiano è apparso sul «De Homine» (si veda 1964, n. 42). La traduzione in tedesco è a cura di Franz Rauhut e Hermann Dommel. 41. Filosofia e teologia nella crisi del XIII secolo, «Belfagor», XIX, 1964, pp. 1- 16. Testo italiano di una lettura tenuta all’Instytut filozofii i socjologii della Polska Akademia Nauk di Varsavia il 5 novembre 1963, edito in polacco con il titolo Filozofia i teologia wdobie kryzysu XIII wieku (si veda 1967, n. 51). Diventa il secondo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 42. Pierre Gassendi, «De Homine», 9-10, 1964, pp. 89-114. La traduzione tedesca del saggio, a cura di Franz Rauhut e Hermann Dommel, è pubblicata come introduzione all’Opera Omnia (si veda 1964, n. 40). 43. Studi sull’atomismo del Seicento, I. Sebastiano Basson, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLIII, 1964, pp. 38-65. Il saggio è seguito da una seconda parte su David van Goorle e Daniel Sennert (si veda 1966, n. 47) e da una terza parte su Cudworth e l’atomismo (si veda 1967, n. 50). Tradotto in francese diventa il settimo capitolo della Genèse de la raison classique TOMMASO D’AQUINO, De magistro, introduzione, traduzione e commento a cura di Tullio Gregory, Roma, Armando, 1965, 181 pp. È utilizzata, rivista in più punti, la versione dei testi di Tommaso d’Aquino già pubblicata nel volume BRUNO NARDI, Il pensiero pedagogico del Medioevo, pp. 203-275 (si veda anche 1956, n. 19, 20). 45. Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso d’Aquino, in Per la storia della cultura in Italia nel Duecento e primo Trecento. Omaggio a Dante nel VII centenario della nascita, «Studi medievali», s. III, VI, 1965, pp. 79-94. Diventa il decimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).     17  Bibliografia di Tullio Gregory – 1966 torna su 1966 esci 46. L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, in La filosofia della natura nel Medioevo, atti del Terzo Congresso Internazionale di Filosofia Medievale, Vita e Pensiero, Milano, 1966, pp. 27-65. Diventa il capitolo 3 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). Si veda anche 1964, n. 38. 47. Studi sull’atomismo del Seicento, II. David van Goorle e Daniel Sennert, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLV, 1966, pp. 44-63. Il saggio è preceduto da una prima parte su Sebastiano Basson (si veda 1964, n. 43) ed è seguito da una terza parte su Cudworth e l’atomismo (si veda 1967, n. 50). Tradotto in francese diventa l’ottavo capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173).     18  Bibliografia di Tullio Gregory – 1967 torna su 1967 esci 48. TULLIO GREGORY, GIORGIO TONELLI, World Soul, in New Catholic Encyclopedia, XIV, New York, McGraw-Hill, 1967, pp. 1027-1029. 49. La saggezza scettica di Pierre Charron, «De Homine», 21, 1967, pp. 163- 182. Pubblicato come terzo capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). Tradotto in francese diventa il quinto capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 50. Studi sull’atomismo del Seicento, III. Cudworth e l’atomismo, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLVI, 1967, pp. 528-541. Il saggio è preceduto da una prima parte su Sebastiano Basson (si veda 1964, n. 43) e da una seconda parte su David van Goorle e Daniel Sennert (si veda 1966, n. 47). Tradotto in francese diventa il nono capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 51. Filozofia i teologia w dobie kryzysu XIII wieku, «Studia Mediewistyczne», 8 1967, pp. 3-18. Testo edito in polacco di una lettura tenuta all’Instytut Filozofii i Socjologii della Polska Akademia Nauk di Varsavia il 5 novembre 1963. Traduzione a cura di Ryszard Palacz e Juliusz Domański. Il testo in italiano è apparso su «Belfagor» Pierre Gassendi, in Grande Antologia Filosofica, diretta da Michele Federico Sciacca, coordinata da Michele Schiavone, XII, Milano, Marzorati, 1968, pp. 723-786. 53. Vorwort, in JOANNES DUNS SCOTUS, Opera Omnia, Reprogr. Nachdruck der Ausg. Lyon, 1639, mit einem Worwort von Tullio Gregory, I, Hildesheim, Olms, 1968-1969, pp. V-XII. 54. Gli scritti di Bruno Nardi, a cura di Tullio Gregory e Paolo Mazzantini, «L’Alighieri. Rassegna Bibliografica Dantesca», IX, 1968, pp. 39-58. Si veda anche 1990, n. 123. 55. Bruno Nardi, «Giornale critico della filosofia italiana», s. III, XLVII, 1968, pp. 469-501. 56. Due interventi sull’Università, «Problemi», 7, 1968, pp. 290-291. Il primo intervento è di Salvatore Valitutti (pp. 289-290).     20  Bibliografia di Tullio Gregory – 1969 torna su 1969 esci 57. Vom Einen zum Vielen. Zur Metaphysik des Johannes Scotus Eriugena, in: WERNER BEIERWALTES (Hrsg.), Platonismus in der Philosophie des Mittelalters, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchges, 1969, pp. 343-365. Traduzione tedesca del primo capitolo di Giovanni Scoto Eriugena: tre studi (si veda 1963, n. 36). 58. Das Opusculum contra Wolfelmum und die antiplatonische Polemik des Manegold von Lautenbach, in WERNER BEIERWALTES (Hrsg.), Platonismus in der Philosophie des Mittelalters, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1969, pp. 366-380. Traduzione tedesca del secondo capitolo di Platonismo medievale. Studi e ricerche (si veda 1958, n. 24).     21  Bibliografia di Tullio Gregory – 1970 torna su 1970 esci 59. Opera e studi di Bruno Nardi, «La Provincia di Lucca», X, 1970, pp. 5-13.  22  Bibliografia di Tullio Gregory – 1971 torna su 1971 esci 60. Premessa, in BRUNO NARDI, Saggi sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento, a cura di Paolo Mazzantini, Padova, Antenore, 1971, pp. IX-X. 61. Tre opinioni sulla riforma. Interviste a Pietro Gismondi, Tullio Gregory, Ugo Spirito, a cura di Lido Chiusano, «Riforma Universitaria», I, 1971, pp. 41- 52. L’intervista a Tullio Gregory è alle pagine 45-50.   23  Bibliografia di Tullio Gregory – 1972 torna su 1972 esci 62. Gassendi e Galileo, in Saggi su Galileo Galilei, a cura di Carlo Maccagni, Firenze, Barbéra, 1972, pp. 309-323. 63. Erudizione e ateismo nella cultura del Seicento – Il “Theophrastus redivivus”, «Giornale critico della filosofia italiana», s. IV, LI (LIII), 1972, pp. 194-240. Con numerose modificazioni e aggiunte diventa il primo capitolo del volume Theophrastus redivivus (si veda 1979, n. 79) 64. Abélard et Platon, «Studi medievali», s. III, XIII, 1972, pp 539-562. Comunicazione presentata alla International Conference “Peter Abelard” tenutasi presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Lovanio nei giorni 10- 12 maggio 1971. È stata pubblicata negli atti (si veda 1974, n. 67) ed è diventata il sesto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).     24  Bibliografia di Tullio Gregory – 1973 torna su 1973 esci 65. FRANCESCO ADORNO, TULLIO GREGORY, VALERIO VERRA, Storia della filosofia. Con testi e letture critiche, 3 v., Bari, Laterza, 1973, [199413]. vol. II, Dal Rinascimento a Kant, a cura di Tullio Gregory, VIII-546 pp. Nel 1979 è stata pubblicata un’ottava edizione riveduta e ampliata. Nel 1996 viene pubblicata la nuova edizione (si veda 1996, n. 155). 66. Considerazioni su «ratio» e «natura» in Abelardo, «Studi medievali», s. III, XIV, 1973, pp. 287-300. Traduzione italiana della comunicazione presentata al Colloque International “Pierre Abélard, Pierre le Vénérable”, tenutosi all’Abbaye de Cluny dal 2 al 9 luglio 1972. La versione in francese è stata pubblicata negli atti (si veda 1975, n. 70) ed è diventata il settimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).      25  Bibliografia di Tullio Gregory – 1974 torna su 1974 esci 67. Abélard et Platon, in Peter Abelard, proceedings of the International Conference (Louvain, may 10-12, 1971), edited by Eloi Marie Buytaert, Leuven-The Hague, University Press Leuven, 1974, pp. 38-64. È stata pubblicata in «Studi medievali» (si veda 1972, n. 64) ed è diventata il sesto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 68. Dio ingannatore e Genio maligno. Note in margine alle “Meditationes” di Descartes, «Giornale critico della filosofia italiana», s. IV, LIII (LV), 1974, pp. 477-516. Diventa il capitolo 15 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). La traduzione in francese viene pubblicata nel decimo capitolo di Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173).      26  Bibliografia di Tullio Gregory – 1975 torna su 1975 esci 69. La nouvelle idée de nature et de savoir scientifique au XIIe siècle, in The cultural context of Medieval learning, proceedings of the First International Colloquium on Philosophy, Science, and Theology in the Middle Ages (September 1973), edited with an introduction by John Emery Murdoch and Edith Dudley Sylla, Dordrecht-Boston, Reidel Publishing Company, 1975, pp. 193-212 (Discussion, pp. 212-218) Diventa il quarto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 70. Considérations sur ‘ratio’ et ‘natura’ chez Abélard, in Pierre Abélard, Pierre le Vénérable: les courants philosophiques, littéraires et artistiques en Occident au milieu du XIIe siècle, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Abbaye de Cluny, 2-9 juillet 1972), Paris, Éditions du CNRS, 1975, pp. 569-581 (Discussion, pp. 582-584). Versione in francese del saggio Considerazioni su «ratio» e «natura» in Abelardo apparso su «Studi medievali» (si veda 1973, n. 66). Diventa il settimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 71. Giovanni Scoto Eriugena, in Questioni di storiografia filosofica. Dalle origini all’Ottocento, a cura di Vittorio Mathieu, I, Dai presocratici a Occam, Brescia, La Scuola, 1975, pp. 503-522. 72. L’escatologia di Giovanni Scoto, «Studi medievali», s. III, XVI, 1975, pp. 497-535. Il testo originale francese di questo saggio è stato presentato al Colloquio “Jean Scot Erigène et l’histoire de la philosophie” (Laon, 7-12 juillet 1975). Il testo italiano è stato pubblicato con un apparato di note più ampio di quello in calce al testo francese destinato agli atti (si veda 1977, n. 78). Diventa il capitolo ottavo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). Diventa il quarto capitolo di Giovanni Scoto. Quattro studi (si veda 2011, n. 224).         27  Bibliografia di Tullio Gregory – 1976 torna su 1976 esci 73. La filosofia medievale. I secoli XIII e XIV, a cura di Tullio Gregory, Alfonso Maierù, Franco Alessio, in Storia della filosofia, diretta da Mario Dal Pra, VI, Milano, Vallardi, 1976, pp. 1-232. La cultura filosofica nella prima metà del Duecento, pp. 3-46. Alberto Magno, la Scuola di Colonia e il neoplatonismo medievale, pp. 47- 68. Bonaventura e l’agostinismo, pp. 69-110. Tommaso d’Aquino e le origini del tomismo, pp. 111-146. L’averroismo latino, pp. 147-181. Ruggero Bacone e Raimondo Lullo, pp. 183-208. Enrico di Gand, Goffredo di Fontaines, Egidio Romano, pp. 209-220. Le grandi enciclopedie, pp. 221-232. 74. Rapport sur les activités du «Lessico Intellettuale Europeo», in I Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1976, pp. 21-43. 75. Centro di studio per il lessico intellettuale europeo, Roma. Attività scientifica svolta nel 1975, «La ricerca scientifica», CNR, XLVI, 1976, pp. 1171-1173.   28  Bibliografia di Tullio Gregory – 1977 torna su 1977 esci 76. Scritture e scrittori del secolo XI, a cura di Antonio Viscardi e Giuseppe Vidossi; con la collaborazione di Tullio Gregory, Bruno e Tilde Nardi e Luigi Ronga, Torino, Einaudi, 1977, VIII-319 pp. Questa edizione riproduce esattamente parte del volume Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani (si veda 1956, n. 22), e precisamente le pp. XI-LXXI e 257-510. I capitoli curati da Tullio Gregory sono: Dalla epistola ad Drogonem philosophum (traduzione e note) pp. 108-111; Lanfranco da Pavia (nota introduttiva e traduzioni) pp. 166-179; Sant’Anselmo di Aosta (nota introduttiva e traduzioni) pp. 181-215. 77. Scritture e scrittori del secolo XII, a cura di Antonio Viscardi e Giuseppe Vidossi, con la collaborazione di Felice Arese, Tullio Gregory e Tilde Nardi, Torino, Einaudi, 1977, VIII-289 pp. Questa edizione riproduce esattamente parte del volume Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani (si veda 1956, n. 22), e precisamente le pp. XI-LXXI e 513-735. Tullio Gregory ha curato il capitolo Gioacchino da Fiore (nota introduttiva e note) pp. 213-215 78. L’eschatologie de Jean Scot, in Jean Scot Erigène et l’histoire de la philosophie, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Laon, 7-12 juillet 1975), Paris, Éditions du CNRS, 1977, pp. 377-392. Il testo in italiano della comunicazione qui pubblicata è apparso su «Studi medievali» (si veda 1975, n. 72), con un apparato di note più ampio ed è diventato il capitolo 8 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134).       29  Bibliografia di Tullio Gregory – 1979 torna su 1979 esci 79. “Theophrastus redivivus”. Erudizione e ateismo nel Seicento, Napoli, Morano, 1979 («Collana di filosofia», 20), 217 pp. Indice del volume: I. Gli dei figli degli uomini, p. 7; II. La storia naturale della religione, p. 77; Appendice: Le citazioni di Machiavelli, p. 197. Il primo capitolo del libro riprende, con numerose modificazioni e aggiunte, il saggio Erudizione e ateismo nella cultura del seicento (si veda 1972, n. 63). 80. GIAMBATTISTA VICO, Principj di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, Ristampa anastatica dell’edizione Napoli 1725, a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, 15-270 pp. 81. TULLIO GREGORY, GIORGIO PETROCCHI, Ricordo di Bruno Nardi, con sue pagine autobiografiche, Roma, Casa di Dante, 1979, 28 pp. Nel volume compaiono i testi degli interventi di Tullio Gregory e Giorgio Petrocchi alla “Casa di Dante” in apertura dell’anno di studi 1978-1979. L’intervento di Tullio Gregory è alle pagine 5-13. 82. La conception de la philosophie au Moyen Age, in Actas del V Congreso Internacional de Filosofía Medieval, I, Madrid, Editora Nacional, 1979, pp. 49-57. 83. Pour un Thesaurus mediae et recentioris latinitatis, in Ordo. II Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, pp. 719-738. 84. Lessico Intellettuale Europeo (1974-1976), in Ordo. II Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1979, pp. 779-785.     30  Bibliografia di Tullio Gregory – 1980 torna su 1980 esci 85. Elogio di Henri Gouhier, in Allocuzioni pronunciate durante la cerimonia di consegna di lauree honoris causa. Allocuzioni di Antonio Ruberti, Luigi De Nardis, Tullio Gregory, Carlo Muscetta, Henri Gouhier, Eduardo De Filippo, Roma, Università degli Studi di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1980, pp. 7-10. 86. Ricerche sul Lessico Intellettuale Europeo, in Atti del Convegno sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze dell’antichità (Torino, 28-29 aprile 1978), a cura di Italo Lana e Nino Marinone, Torino, Accademia delle Scienze, 1980, pp. 47-54.   31  Bibliografia di Tullio Gregory – 1981 torna su 1981 esci 87. TULLIO GREGORY, GIANNI PAGANINI, GUIDO CANZIANI, ORNELLA POMPEO FARACOVI, DINO PASTINE, Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, atti del Convegno di studio di Genova (30 ottobre- 1 novembre 1981), Firenze, La Nuova Italia, 1981, XII-430 pp. 88. Il libertinismo della prima metà del Seicento: stato attuale degli studi e prospettive di ricerca, in TULLIO GREGORY, GIANNI PAGANINI, GUIDO CANZIANI, ORNELLA POMPEO FARACOVI, DINO PASTINE, Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, atti del Convegno di studio di Genova (30 ottobre-1 novembre 1981), Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 3-47. Tradotto in francese, diventa il primo capitolo di Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 89. Le biblioteche universitarie, in La riforma universitaria e le biblioteche dell’Università, atti del Convegno internazionale su “Le biblioteche universitarie e i loro problemi di struttura, coordinamento, unificazione”, Roma 4-5 ottobre 1980, Roma, Bulzoni, esci 90. Relazione sulle attività del Lessico Intellettuale Europeo (1977-1979), in Res. III Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, atti a cura di Marta Fattori e Massimo Luigi Bianchi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. 509-518. 91. Foreword, in Global linguistic statistical methods to locate style identities, proceedings of an International Seminar (Gallarate June 5-7, 1981), edited by Roberto Busa S.I., Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. VII-VIII. 92. “Omnis philosophia mortalitatis adstipulatur opinioni”: quelques considérations sur le Theophrastus redivivus, in Le matérialisme du XVIIIe siècle et la littérature clandestine, actes de la table ronde des 6 et 7 juin 1980, organisée à la Sorbonne à Paris avec le concours du CNRS par le Groupe de recherche sur l’histoire du materialisme, dirigé par Oliver Bloch, Paris, Vrin, 1982, pp. 213-218. 93. Aristotelismo e libertinismo, «Giornale critico della filosofia italiana», s. V, LXI (LXIII), 1982, pp. 153-167. Relazione letta al Convegno Internazionale di Studi su “Aristotelismo veneto e scienza moderna” (Padova, 23-27 settembre 1981). È stata pubblicata negli atti del Convegno (si veda 1983, n. 95) e diventa il settimo capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). Tradotta in francese diventa il secondo capitolo di Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 94. La tromperie divine, «Studi medievali», s. III, XXIII, 1982, pp. 517-527. Comunicazione presentata alla Table ronde internationale su “Preuve et raisons à l’Université de Paris. Logique, ontologie et théologie au XIVe siècle”, organizzata dal Centre d’Études des religions du livre (Laboratoire associé au CNRS) a Parigi (5-7 novembre 1981). È stata pubblicata negli atti (si veda 1984, n. 97) ed è diventata il capitolo 14 di Mundana Sapientia Aristotelismo e libertinismo, in Aristotelismo veneto e scienza moderna, atti del 25° anno accademico del Centro per la storia della tradizione aristotelica nel Veneto, a cura di Luigi Olivieri, Padova, Antenore, 1983, pp. 279-296. Apparso su «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1982, n. 93). Diventa il settimo capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). 96. Introduzione, in BRUNO NARDI, Dante e la cultura medievale, nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini, Bari, Laterza, 1983 («Collezione storica Laterza»), pp. VII-XLIV. L’opera è stata ristampata nella collana «Biblioteca Universale Laterza» La tromperie divine, in Preuve et raisons à l’Université de Paris. Logique, ontologie et théologie au XIVe siècle, actes de la Table Ronde internationale organisée par le Laboratoire associé au CNRS (Paris, 5-7 novembre 1981) edité par Zénon Kaluza et Paul Vignaux, Paris, Vrin, 1984, pp. 187-195. Pubblicato su «Studi medievali» (si veda 1982, n. 94), diventa il capitolo 14 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 98. Temps astrologique et temps chrétien, in Le temps chrétien de la fin de l’Antiquité au Moyen Age. IIIe-XIIIe siècles, Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique (Paris, 9-12 mars 1981), Paris, Éditions du CNRS, 1984, pp. 557-573. Diventa il capitolo 12 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 99. Instrumenta Lexicologica Latina: verso un «Thesaurus Patrum Latinorum», «Studi medievali», s. III, XXV, 1984, pp. 449-457. 100. Premessa, in Francis Bacon. Terminologia e fortuna nel XVII secolo, Seminario Internazionale, Roma, 11-13 marzo 1984, a cura di Marta Fattori, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984, pp. 1-3. 101. Introduzione, in Architettura in Provincia. Il centro storico di Sacrofano, a cura di Enrico Guidoni e Pia Pascalino, Roma, Edizioni Kappa, Filosofi, Università, Regime: la Scuola di filosofia di Roma negli anni Trenta. Mostra storico documentaria, a cura di Tullio Gregory, Marta Fattori, Nicola Siciliani De Cumis, Roma-Napoli, Istituto di Filosofia della Sapienza-Istituto italiano per gli studi filosofici, 1985, 506 pp. Presentazione pp. XI-XIII. 103. I sogni nel Medioevo, Seminario Internazionale (2-4 ottobre 1983), a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985, VIII-358 pp. 104. Il Lessico Intellettuale Europeo, in Lo storico e il suo lessico. Atti del Convegno di Prato, 1-3 aprile 1982, a cura di Maria Caterina Cicala. Presentazione di Luigi De Rosa, Società degli storici italiani, [Messina, La Grafica], 1985, pp. 3-14. 105. Introduzione, in BRUNO NARDI, Dante e la cultura medievale, nuova edizione a cura di Paolo Mazzantini, introduzione di Tullio Gregory, Roma- Bari, Laterza, 1985 [19902] («Biblioteca Universale Laterza»), pp. VII-XLIV. La prima edizione dell’opera è apparsa nella collana «Collezione storica Laterza» (si veda 1983, n. 96). 106. I sogni e gli astri, in I sogni nel Medioevo, Seminario Internazionale (Roma, 2-4 ottobre 1983), a cura di Tullio Gregory, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985, pp. 111-148. Diventa il tredicesimo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 107. Discorso di chiusura, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medioevo, atti della XXXI Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo (Spoleto, 7-13 aprile 1983), II, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 1985, pp. 1445-1485. Diventa il capitolo 16 di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 108. L’importanza dei filoni tradizionali, in Cento anni Laterza 1885-1985. Testimonianze degli autori, Bari, Laterza, 1985, pp. 149-151. 109. Premessa, in Trasmissione dei testi a stampa nel periodo moderno, I seminario Internazionale, Roma, 23-26 marzo 1983, a cura di Giovanni Crapulli, Roma, Edizioni dell’Ateneo,  Etica e religione nella critica libertina, Napoli, Guida, 1986 («Interventi», 31), 117 pp. Indice del volume: I. Il libertinismo erudito, p. 11; II. Il «libro scandaloso» di Pierre Charron, p. 71; Nota bibliografica, p. 111. Testi di due lezioni tenute nel 1985 all’Istituto Suor Orsola Benincasa, riveduti per la stampa e arricchiti delle note a piè di pagina e della nota bibliografica. Il volume è stato pubblicato tradotto in polacco con il titolo Etyka i religia w krytyce libertyńskiej (si veda 1991, n. 127). Il primo capitolo diventa il sesto capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256); in una versione leggermente ridotta, è stato pubblicato tradotto in inglese (si veda 1998, n. 168). Il secondo capitolo è stato pubblicato come quarto capitolo nel volume Vie della modernità (si veda 2016, n. 256); tradotto in inglese con il titolo Pierre Charron’s ‘Scandalous Book’ è stato pubblicato in Atheism from the Reformation to the Enlightenment (si veda 1992, n. 135). I primi due capitoli, tradotti in francese, diventano rispettivamente il terzo e il quarto capitolo della Genèse de la raison classique Ideologia e programma dell’Olimpiade delle civiltà, a cura di Tullio Gregory, Achille Tartaro, Venezia, Cataloghi Marsilio, 1987, XIX-173 pp. 112. Le platonisme du XIIe siècle, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», tome 71, 2, 1987, Paris, Librairie philosophiques J. Vrin, pp. 243-259. Testo presentato alla conferenza al Collège de France il 19 febbraio 1986; sono state aggiunte alcune note essenziali.   38  Bibliografia di Tullio Gregory – 1988 torna su 1988 esci 113. The Platonic Inheritance, in A History of Twelfth-Century Western Philosophy, edited by Peter Dronke, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, pp. 54-80. Translated by Jonathan Hunt. Diventa il quinto capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 114. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, «Archives internationales d’histoire des sciences», 38 (1988), pp. 189-242. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria dell’VIII Congresso Internazionale di filosofia medievale (Helsinki, 24-29 agosto 1987) dedicato al tema: “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia medievale”. È stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli atti del Congresso (si veda 1990, n. 124), nella rivista «Il veltro» (si veda 1989, n. 121) ed è diventata il primo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 115. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VI, LXVII (LXIX), 1988, pp. 1-62. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria dell’VIII Congresso Internazionale di filosofia medievale (Helsinki, 24-29 agosto 1987) dedicato al tema: “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia medievale”. È stata pubblicata negli «Archives internationales d’histoire des sciences» (si veda 1988, n. 114), negli atti del Congresso (si veda 1990, n. 124), nella rivista «Il veltro» (si veda 1989, n. 121) ed è diventata il primo capitolo di Mundana sapientia (si veda 1992, n. 134). 116. Lessico Intellettuale Europeo: recherches sur la terminologie intellectuelle du Moyen Age, in Actes du colloque Terminologie de la vie intellectuelle au Moyen Age, Leyden/La Haye 20-21 septembre 1985, edité par Olga Weijers, Turnhout, Brepols, 1988, pp. 105-108 117. Sémantique, in Image & Réalité du Vin en Europe, Actes du Colloque pluridisciplinaire sur le vin et les sciences, Organisé par l’Université Catholique de Louvain, en collaboration avec l’Institut Italien pour le Commerce Extérieur, Louvain-la-Neuve, 28 septembre-1 octobre 1988, pp. 151-154. 118. Necessità di programmare le carriere amministrative in funzione della specificità dei profili professionali. Il ritorno alla selettività e alla preparazione scientifica, in Memorabilia: il futuro della memoria. Beni ambientali, architettonici, archeologici, artistici e storici in Italia. Confronti per l’innovazione, a cura di Alberto Clementi e Francesco Perego, Bari, Laterza, Ricordo di Paul Vignaux, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VI, LXVIII (LXXX), 1989, pp. 129-143. Testo letto in apertura della tavola rotonda su “Théologie et droit dans la science politique de l’Etat moderne” organizzata dall’École française de Rome nei giorni 12-14 novembre 1987; Paul Vignaux – che doveva presiedere la tavola rotonda – era deceduto il 24 agosto in Spagna. Pubblicato negli atti della tavola rotonda (si veda 1991, n. 131). 120. Il calcolatore in lingua, «Il pensiero informatico», 3, 1989, pp. 13-15. 121. Ideali di sapere nella cultura medievale, «Il veltro. Rivista della civiltà italiana», anno XXXIII, gennaio-aprile 1989, pp. 5-51. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria dell’VIII Congresso internazionale di filosofia medievale su “Conoscenza scientifica e scienze nella filosofia medievale” (Helsinki, 24-29 agosto 1987). È stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli atti del Congresso (si veda 1990, n. 124), negli «Archives internationales d’histoire des sciences» (si veda 1988, n. 114), ed è diventata il primo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 122. Presentazione, in GIORDANO BRUNO, Summa terminorum metaphysicorum. Ristampa anastatica dell’edizione Marburg 1609. Nota e indici di Eugenio Canone, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1989, IX-X pp.       40  Bibliografia di Tullio Gregory – 1990 torna su 1990 esci 123. Gli scritti di Bruno Nardi, a cura di Tullio Gregory e Paolo Mazzantini, in BRUNO NARDI, «Lecturae» e altri studi danteschi, a cura di Rudy Abardo con saggi introduttivi di Francesco Mazzoni e Aldo Vallone, Firenze, Le Lettere, 1990, pp. 285-312. Si veda anche 1968, n. 54. 124. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, in Knowledge and the Sciences in Medieval Philosophy, proceedings of the Eight International Congress of Medieval Philosophy (Helsinki, 24-29 August 1987), edited by Monika Asztalos, John Emery Murdoch, Ilkka Niiniluoto, I, Helsinki, Societas philosophica Fennica, 1990 («Acta Philosophica Fennica», 48), pp. 10-71. Relazione presentata in apertura della prima sessione plenaria del Congresso. È stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1988, n. 115), negli «Archives internationales d’histoire des idées» (si veda 1988, n. 114) e nella rivista «Il veltro» (si veda 1989, n. 121). È diventata il primo capitolo di Mundana Sapientia (si veda 1992, n. 134). 125. Théologie et astrologie dans la culture médiévale: un subtil face-à-face, «Bulletin de la Société Française de Philosophie», 84, 1990, pp. 104-130. Prima comunicazione del saggio che poi diventerà il capitolo 11 di Mundana Sapientia, dal titolo Astrologia e teologia nella cultura medievale (si veda 1992, n. 134). 126. Missione scienza, «Ulisse2000», Etyka i religia w krytyce libertyńskiej, przelozyla Anna Tylusińska, Warszawa, Polska Akademia Nauk Instytut Filozofii i Socjologii («Renesans i Reformacja», 6), 1991, 59 pp. Versione in polacco del volume Etica e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110). Indice del volume: I. Libertynizm erudycyjny, p. 7; II. “Księga skandaliczna” Pierre’a Charrona, p. 37; Nota bibliograficzna, p. 57. 128. Sul lessico filosofico latino del Seicento e del Settecento, in Lexicon philosophicum. Quaderni di terminologia filosofica e storia delle idee (V- 1991), a cura di Antonio Lamarra e Lidia Procesi, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1991, pp. 1-20. Relazione presentata al Congresso Internazionale di studi sull’uso scritto e parlato del latino dal Rinascimento ad oggi, Roma, 15-18 aprile 1991. Diventa il terzo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006, n. 200). 129. Intervento, in Per la storia del «vissuto religioso». Gli scritti di Gabriele De Rosa. Interventi di Emile Goichot, Tullio Gregory, Liliana Billanovich, Antonio Cestaro, Fulvio Tessitore, Pasquale Villani, Cosimo Damiano Fonseca, Vicenza, Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, 1991, pp. 21-29. L’intervento di Tullio Gregory è alle pagine 21-29 ed è stato tenuto per la presentazione del volume di Gabriele De Rosa Tempo religioso e tempo storico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1987, avvenuta a Vicenza, presso la Sala degli Stucchi di Palazzo Trissino, il 14 ottobre 1988, per iniziativa dell’Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa, con il patrocinio del Comune di Vicenza. 130. Gli studi di filosofia medievale fra Ottocento e Novecento. Conclusioni, in Gli studi di filosofia medievale fra Otto e Novecento. Contributo a un bilancio storiografico, atti del convegno internazionale (Roma, 21-23 settembre 1989), a cura di Ruedi Imbach e Alfonso Maierù, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, pp. 391-406. Pubblicato in appendice a Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 131. Ricordo di Paul Vignaux, in Théologie et droit dans la science politique de l’Etat moderne, actes de la Table ronde organisée par l’École française de Rome avec le concours du CNRS (Rome, 12-14 novembre 1987), Rome, École française de Rome, 1991 («Collection de l’École française de Rome», 147), pp. 1-16. 42       Bibliografia di Tullio Gregory - 1991 Pubblicata sul «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1989, n. 119). 132. Cultura umanistica e istituzioni, «La rivista dei libri», I, 2, 1991, pp. 18-20. 133. Le discipline umanistiche. Analisi e progetto, Supplemento al Bollettino «Università Ricerca», Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, 1991, 147 pp. Rapporto finale della Commissione Nazionale per la formazione e la ricerca nelle scienze umane, del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, redatto dal Professor Gregory in qualità di coordinatore della Commissione.   43  Bibliografia di Tullio Gregory – 1992 torna su 1992 esci 134. “Mundana sapientia”. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1992 («Storia e Letteratura», 181), 480 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi sulla storia della filosofia medievale pubblicati in sedi e anni diversi. Il saggio Astrologia e teologia nella cultura medievale (capitolo 11) è nuovo, e ne fu data una parziale anticipazione alla Société française de philosophie (si veda 1990, n. 125). Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del volume: Avvertenza, p. V; I. Forme di conoscenza e ideali di sapere nella cultura medievale, p. 1 (si veda 1988, n. 114 e n. 115; 1989, n. 121 e 1990, n. 124); II. Filosofia e teologia nella crisi del XIII secolo, p. 61 (si veda 1964, n. 41); III. L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII, p. 77 (si veda 1964, n. 38 e 1966, n. 46); IV. La nouvelle idée de nature et de savoir scientifique au XIIe siècle, p. 115 (si veda 1975, n. 69); V. The Platonic Inheritance, p. 145 (si veda 1988, n. 113); VI. Abélard et Platon, p. 175 (si veda 1972, n. 64 e 1974, n. 67); VII. Considération sur ratio et natura chez Abélard, p. 201 (si veda 1975, n. 70; la versione in italiano è stata pubblicata su «Studi medievali», si veda 1973, n. 66); VIII. L’escatologia di Giovanni Scoto, p. 219 (si veda 1975, n. 72; per la versione in francese, con un apparato di note ridotto si veda 1977, n. 78); IX. Escatologia e aristotelismo nella scolastica medievale, p. 261 (si veda 1961, n. 31 e 1962, n. 33); X. Sull’escatologia di Bonaventura e Tommaso d’Aquino, p. 275 (si veda 1965, n. 45); XI. Astrologia e teologia nella cultura medievale, p. 291; XII. Temps astrologique et temps chrétien, p. 329 (si veda 1984, n. 98); XIII. I sogni e gli astri, p. 347 (si veda 1985, n. 106); XIV. La tromperie divine, p. 389 (si veda 1982, n. 94 e 1984, n. 97); XV. Dio ingannatore e genio maligno. Nota in margine alle Meditationes di Descartes, p. 401 (si veda 1974, n. 68); XVI. L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto medioevo, p. 443 (si veda 1985, n. 107); Indice dei nomi, p. 469. 135. Pierre Charron’s ‘Scandalous Book’, in Atheism from the Reformation to the Enlightenment, edited by Michael Hunter and David Wootton, Oxford, Oxford Clarendon Press, 1992, pp. 87-109. Traduzione inglese del secondo capitolo di Etica e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110). La traduzione francese compare nel quarto capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 136. Gli atti del Convegno di Lecce: prospettive degli studi cartesiani, in GIULIA BELGIOIOSO (a cura di), Cartesiana, Galatina, Congedo Editore, 1992 («Università degli studi di Lecce, Istituti di Filosofia. Testi e Saggi»), pp. 97- 101. 137. E 42. Utopia e scenario del regime. I. Ideologia e programma dell’Olimpiade della città, a cura di Tullio Gregory e Achille Tartaro, Catalogo della mostra (Archivio centrale dello Stato, Roma, aprile-maggio 1987), Venezia, Marsilio, 1992, XX-180 pp. 138. Préface, in Pierre Gassendi explorateur des sciences. Catalogue de l’exposition, quatrième centenaire de la naissance de Pierre Gassendi (Musée de Digne, 19 mai-18 octobre 1992), rédigé par Anthony Turner avec la contribution de Nadine Gomez; préface de Tullio Gregory, Digne-les-Bains, Musée de Digne, 1992, pp. 11-28. Traduzione a cura di Simone Matarasso-Gervais. 139. Pierre Gassendi dans le quatrième centenaire de sa naissance, «Archives Internationales d’histoire des sciences», 42, 1992, pp. 203-226. Discorso d’apertura al Colloquio internazionale Pierre Gassendi (Digne-Les- Bains, 18-22 maggio 1992). È stato pubblicato negli Atti col titolo Pourquoi Gassendi? (si veda 1994, n. 145). La traduzione italiana è stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1992, n. 140). Diventa il sesto capitolo della Genèse de la raison classique (si veda 2000, n. 173). 140. Pierre Gassendi nel IV Centenario della nascita, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VI, LXXI (LXX), 1992, pp. 202-226. Versione italiana del discorso d’apertura al Colloquio internazionale Pierre Gassendi (Digne-Les-Bains, 18-22 maggio 1992). Diventa il quinto capitolo di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). La traduzione francese è stata pubblicata negli «Archives Internationales d’histoire des sciences» (si veda 1992, n. 139) e negli Atti del Colloquio con il titolo Pourquoi Gassendi? (si veda 1994, n. 145). 141. Presentazione, in Lessico Filosofico dei secoli XVII e XVIII. Sezione latina, a cura di Marta Fattori, con la collaborazione di Massimo Luigi Bianchi, I, a- aetherius, coordinamento di Eugenio Canone e Giacinta Spinosa, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1992, p. VII.        45  Bibliografia di Tullio Gregory – 1993 torna su 1993 esci 142. Storia dell’Italia religiosa, a cura di Gabriele De Rosa, Tullio Gregory, André Vauchez, 3 v., Roma, Laterza, 1993. Il secondo volume è a cura di Tullio Gregory (si veda 1994, n. 144).   46  Bibliografia di Tullio Gregory – 1994 torna su 1994 esci 143. L’eclisse delle memorie, a cura di Tullio Gregory, Marcello Morelli, prefazione di Giorgio Salvini, traduzioni di Marcello Morelli, Roma-Bari, Laterza, 1994, XI-283 pp. 144. L’età moderna, a cura di Gabriele De Rosa e Tullio Gregory, in Storia dell’Italia religiosa, a cura di Gabriele De Rosa, Tullio Gregory, André Vauchez, II, Roma, Laterza, 1994, XX-596 pp. Si veda anche 1993, n. 142. 145. Pourquoi Gassendi?, in Quadricentenaire de la naissance de Pierre Gassendi 1592-1992, actes du Colloque International Pierre Gassendi (Digne-les-Bains 18-21 mai 1992), Digne-les-Bains, Société Scientifique et Littéraire des Alpes de Haute-Provence, 1994, pp. 21-39. Discorso di apertura del Colloquio. Pubblicato con un titolo diverso negli «Archives Internationales d’histoire des sciences»  La traduzione italiana è stata pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1992, n. 140) 146. Gli studi di filosofia medievale di Sofia Vanni Rovighi, in Sapientiae studium. La giornata operosa di Sofia Vanni Rovighi (1908-1990), a cura di Mario Sina, Milano, Vita e Pensiero, 1994, pp. 13-26. 147. L’ordine della natura e l’ordine del sapere, in Storia della filosofia, a cura di Paolo Rossi e Carlo Augusto Viano, II, Il Medioevo, Roma-Bari, Laterza, Diventa, con il titolo Riscoperta della natura e nuove scienze nel secolo XII, il secondo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 148. Considerazioni conclusive in Descartes metafisico. Interpretazioni del Novecento, A cura di Jean-Robert Armogathe e Giulia Belgioioso, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, Introduzione, in Retorica e filosofia in Giambattista Vico: Le Institutiones Oratoriae: un bilancio critico, a cura di Giuliano Crifò, Napoli, Guida, Conclusioni, in Ricerca e terminologia tecnico-scientifica, a cura di G. Adamo, «Lexicon philosophicum., Quaderni di terminologia filosofica e storia delle idee», 151. Dell’Elefante. Parole pronunciate il 12.IX.1994 in occasione della mostra Res Libraria alla Biblioteca Casanatense di Roma, Roma, Edizioni dell’Elefante, 1994, 19 pp. Opuscolo in edizione limitata. Pubblicato in Bibliomania Perennis (si veda 2002, n. 178). 152. Università e Beni Culturali, ricerca – formazione. Relazione della Commissione Nazionale per il Corso d Laurea e Facoltà in Conservazione dei Beni Culturali, Supplemento al Bollettino «Università Ricerca», Roma, Istituto Poligrafico Zecca dello Stato, Relazione finale della Commissione Nazionale per il Corso di Laurea e Facoltà in Conservazione dei Beni Culturali, del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, redatta dal Professor Gregory in qualità di coordinatore della Commissione.  48  Bibliografia di Tullio Gregory – 1995 torna su 1995 esci 153. Introduzione, in “Fabula in tabula”. Una storia degli indici dal manoscritto al testo elettronico, a cura di Claudio Leonardi, Marcello Morelli, Francesco Santi, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1995, pp. 3-8. 154. I «thesauri» dei Padri greci e latini, «Studi medievali», F. ADORNO, T. GREGORY, V. VERRA, Manuale di storia della filosofia, Roma, Laterza. Curail secondo volume, XIV-457 pp. e i capitoli dal 19 al 41 del I volume. Pensiero medievale e modernità, «Giornale critico della filosofia italiana», Relazione tenuta all’Accademia Nazionale dei Lincei in apertura del VI Convegno di studio su “Pensiero medievale e modernità” (Roma, 12-14 settembre 1996) organizzato dalla Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale. Diventa il nono capitolo di Speculum naturale ‘Natura’ e ‘Qualitas planetarum’, «Micrologus», IV, 1996: Il teatro della natura/The theatre of nature, pp. 1-23. Diventa il quarto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 158. Premessa, in Album. I luoghi ove si accumulano i segni, a cura di Claudio Leonardi, Marcello Morelli, Francesco Santi, Spoleto, Centro di Studi sull’Alto Medioevo, 1996, pp. VII-XII. 159. Prefazione in Accademia nazionale dei Lincei-Archivio centrale dello Stato- Consiglio nazionale delle ricerche, Guglielmo Marconi e l’Italia. Mostra storico-documentaria (Roma 30 marzo-30 aprile 1996), catalogo a cura di Giovanni Paoloni e Raffaella Simili, prefazione di Tullio Gregory, introduzione di Raffaella Simili, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, Prólogo, in MICHEL DE MONTAIGNE, Ensayos (selección), Prólogo de Tullio Gregory, Traducción y notas de María Dolores Picazo y Almudena Montojo, Barcelona, Círculo de Lectores, 1997, pp. 9-31. Il testo in italiano è stato pubblicato nel «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 1997, n. 163). La traduzione francese, con qualche variante, diventa il secondo capitolo di Vie della modernità Apertura dei lavori, in Il vocabolario della republique des Lettres. Terminologia filosofica e storia della filosofia. Problemi di metodo, atti del Convegno Internazionale in memoriam di Paul Dibon (Napoli, 17-18 maggio 1996), a cura di Marta Fattori, Firenze, Leo S. Olschki Editore, Les nouveaux outils d'analyse textuelle, in Le Plurilinguisme dans la Société de l’Information, Actes du Colloque International (Paris, 4-6 dicembre 1997), Paris, UNESCO Publications, Per una lettura di Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», Testo italiano della prefazione spagnola all’antologia degli Essais di Montaigne (si veda 1997, n. 160). 164. Nel mondo semantico del virtuale, «if. Rivista della Fondazione IBM Italia», V, 1997, pp. 14-17. 165. Introduzione, in Bibliotheca encyclopaedica: catalogo del fondo storico della Biblioteca dell’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, a cura di Roberto Mauro e Massimo Menna; presentazione di Rita Levi-Montalcini, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, Introduzione, in RENÉ DESCARTES, Discorso sul metodo. Traduzione di Maria Garin. Introduzione di Tullio Gregory, Roma, Laterza, 1998 [201819], pp. V-XLVIII. 167. Conclusion, in Vie spéculative, vie méditative et travail manuel à Chartres au XIIe siècle (autour de Thierry de Chartres et des introducteurs de l’étude des arts mécaniques auprès du quadrivium), Chartres, Association des Amis du Centre Médiéval Européen de Chartres, 1998, pp.135-142. Discorso di chiusura del colloquio internazionale del 4 e 5 luglio 1998. 168. ‘Libertinisme erudit’ in Seventeenth Century France and Italy: The Critique of Ethics and Religion, «British Journal for the History of Philosophy», L’articolo, apparso in italiano con il titolo Il libertinismo erudito come primo capitolo del volume Etica e religione nella critica libertina (si veda 1986, n. 110), è stato leggermente ridotto in alcune parti. Traduzione di Letizia Panizza. 169. Introduction, in Le Dictionnaire de l'Académie Française et la Lexicographie Institutionelle Européenne, Actes du Colloque International (Paris, 17- 19 Novembre 1994), publiés par Bernard Quemada avec la collaboration de Jean Pruvost, Paris, Honoré Champion Éditeur, Nature, in Dictionnaire raisonné de l’Occident médiéval, ed. Jacques Le Goffe - Jean-Claude Schmitt, Paris, Fayard, 1999, pp. 806-820. Diventa il primo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203), restituendo in latino i testi tradotti in francese. 171. Per una fenomenologia del cadavere. Dai mondi dell’immaginario ai paradisi della metafisica, «Micrologus», VII, 1999: Il cadavere/The corpse, pp. 11-42. Diventa il sesto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 172. Sapor mundi: scritti sulla civiltà dei sapori da Il Sole 24 Ore, Roma Raccolta degli articoli di carattere gastronomico pubblicati tra il 1994 e il 1998 su Il Sole 24 ore. Genèse de la raison classique de Charron à Descartes, traduit par Marilène Raiola, préface de Jean-Robert Armogathe, Paris, Presses Universitaires de France, 2000 («Épiméthée», 84), V-365 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi dedicati alle figure e ai problemi appartenenti alla prima metà del XVII secolo francese e europeo, pubblicati in sedi e anni diversi. Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del volume: Notice de Tullio Gregory, p. v; Préface de Jean-Robert Armogathe, La première crise de la conscience européenne, p. 1; I. Le libertinisme dans la première moitié du XVIIe siècle, p. 13 (si veda 1981, n. 88); II. Aristotélisme et libertinisme, p. 63 (si veda 1982, n. 93); III. Ethique et religion dans la critique libertine, p. 81 (si veda 1986, n. 110); IV. «Le livre scandaleux» de Pierre Charron, p. 115 (si veda 1986, n. 110; per la traduzione in inglese si veda 1992, n. 135); V. La sagesse sceptique de Pierre Charron, VI. Perspectives sur Pierre Gassendi à l’occasion du IVe centenaire, p. 157 (si veda 1992, n. 139); VII. Sébastien Basson, p. 191 (si veda 1964, n. 43); VIII. David Van Goorle et Daniel Sennert, p. 235 (si veda 1966, n. 47); IX. Ralph Cudworth, p. 269 (si veda 1967, n. 50); X. Dieu trompeur et malin génie, p. 293 (si veda 1974, n. 68). 174. Vers un «Thesaurus totius latinitatis»: problèmes et perspectives, in L’élaboration du vocabulaire philosophique au Moyen Age, actes du Colloque international de Louvain-la-Neuve et Leuven (12-14 septembre 1998), organisé par la Société Internationale pour l’étude de la Philosophie Médiévale, éd. par Jacqueline Hamesse et Carlos Steel, Turnhout, Brepols, 2000, pp. 539-549. 175. Informatica e analisi testuale, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti. Appendice 2000, I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 919-922. 176. I cieli, il tempo, la storia, in Sentimento del tempo e periodizzazione della storia nel Medioevo, atti del XXXVI Convegno storico internazionale (Todi, 10-12 ottobre 1999), Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2000, pp. 19-45. Diventa il quinto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203) 177. Il liber creaturarum: dal sacramentum salutaris allegoriae alla physica lectio, in Le vie del medioevo, atti del Convegno internazionale di studi (Parma), a cura di Arturo Carlo Quintavalle, Milano, Electa, 2000, pp. 45-48. Diventa il terzo capitolo di Speculum naturale  Scrittura, fondamento di civiltà, in Duemila. Verso una società aperta, 3. Istruzione, scienza, linguaggio, a cura di Marco Moussanet, il Sole 24 ORE, Milano, Apologeti e libertini, «Giornale critico della filosofia italiana», Diventa il capitolo 8 di Vie della modernità (si veda 2016, n. 256).   55  Bibliografia di Tullio Gregory – 2001 torna su 2001 esci 180. Per i cento anni della Casa Laterza. Il sodalizio Croce-Laterza nella cultura italiana del Novecento, «Accademie & Biblioteche d’Italia», s. I, LXIX, 2001, pp. 117-121. Testo del discorso pronunciato al Teatro Comunale Piccinni il 18 settembre 2001, alla presenza del Capo dello Stato, in occasione delle celebrazioni per il 100° anniversario della Casa Editrice Laterza. 181. Come cucinare un filosofo, «l’Erasmo», Introduzione, in VINCENZO CORRADO, Del cibo pitagorico ovvero erbaceo per uso de’ Nobili e de’ Letterati. Opera meccanica dell’oritano Vincenzo Corrado; seguito dal Trattato delle patate per uso di cibo, opera del medesimo autore. Con una introduzione di Tullio Gregory e una nota alle illustrazioni di Francesco Abbate, Roma, Donzelli, Due testi autobiografici di Giordano Bruno, in Memoria di Giordano Bruno  Atti del convegno (Roma) con il patrocinio dell’Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Roma, a cura di Maria Mantello, Roma, VE.GRAF, Dell’Elefante, in Bibliomania Perennis. Mostre delle Edizioni dell’Elefante. Prologhi e testi di occasione, Roma, Edizioni dell’Elefante, 2002, pp. 135- 151. Parole pronunciate il 12 settembre 1994 in occasione della mostra Res libraria alla Biblioteca Casanatense di Roma GEORGE TATGE, Al di là del tiglio. Un ritratto di Todi. Testi di Tullio Gregory, Firenze, Fratelli Alinari, 2002, 112 pp. 186. Il valore di una cultura comune. Il ‘nuovo mondo’ dei dotti del Seicento, «l’Erasmo», Lo spazio come geografia del sacro nell’occidente altomedievale, «Giornale critico della filosofia italiana», Testo integrale della relazione parzialmente letta in apertura della Cinquantesima settimana di studio organizzata dal Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto, 4-9 aprile 2002) sul tema: “Uomo e spazio nell’alto Medioevo”. Pubblicato negli atti del Convegno (si veda 2003, n. 191). Con alcune integrazioni, diventa il sesto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 188. Introduzione, in GEORGE TATGE, Al di là del tiglio. Un ritratto di Todi, Alinari, Firenze, 2002, pp. 11-12. 189. Apertura dei lavori, in Experientia. X Colloquio Internazionale (Roma, 4-6 gennaio 2001), atti a cura di Marco Veneziani, Firenze, Leo S. Olschki Noè ovvero della sobria ebbrezza, in L’ebbrezza di Noè. Sedici artisti per San Gimignano, a cura di Marisa Zattini, Cesena, Il vicolo, 2003, pp. 23-25. Catalogo della Mostra tenuta a San Gimignano nel 2003. Edizione di 1500 esemplari numerati. 191. Lo spazio come geografia del sacro nell’occidente altomedievale, in Uomo e spazio nell’alto Medioevo: settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo (4-8 aprile 2002), Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2003, pp. 27-60. Discussione sulla lezione Gregory, pp. 61-68. Il testo della relazione è apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 2002, n. 187). Con alcune integrazioni, diventa il sesto capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 192. Nani sulle spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi nel medioevo latino, «Studi medievali», s. III, XLIV (2003), pp. 1053-1075. Relazione presentata al VI Convegno Intemazionale di Studi su «Medioevo: il tempo degli antichi», Parma 24-28 settembre 2003 e pubblicata negli Atti del Convegno (si veda 2006, n. 201). Diventa il primo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, si veda 2006, n. 200 e l’ottavo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 193. Un cibo da Bengodi. Viaggio nel mondo della pasta, «l’Erasmo», 15, 2003, pp. 87-95. 194. Istituti culturali e territorio: i problemi della ricerca e della formazione, «Accademie & Biblioteche d’Italia», Apertura dei lavori, in Informatica e scienze umane. Mezzo secolo di studi e ricerche, a cura di Marco Veneziani, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2003, pp. VII-VIII.       58  Bibliografia di Tullio Gregory – 2004 torna su 2004 esci 196. Alle origini della terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi, in «Giornale critico della filosofia italiana», Relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata negli Atti del Convegno (si veda 2005, n. 199). Diventa il secondo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006, n. 200). 197. Introduzione, in MAURO SIMONAZZI, La malattia inglese. La melanconia nella tradizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna, Bologna, Il mulino, 2004, pp. 9-13 198. Presentazione, in GIUSEPPE FINOCCHIARO, Dall’Apiarium alla Μελισσογραφια. Una vicenda editoriale tra propaganda scientifica e strategia culturale, Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Rendiconti della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, s. IX, v. XV, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2004.     59  Bibliografia di Tullio Gregory – 2005 torna su 2005 esci 199. Alle origini della terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi in Significare e comprendere. La semantica del linguaggio verbale. Atti dell’XI Congresso nazionale, a cura di A. Frigerio e S. Raynaud, Roma, Aracne, 2005, pp. 85-116. Relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata su «Giornale critico della filosofia italiana» (si veda 2004, n. 196). Diventa il secondo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca (si veda 2006, n. 200).    60  Bibliografia di Tullio Gregory – 2006 torna su 2006 esci 200. Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2006 («Lessico intellettuale europeo, Opuscula», 1), X- 120 pp. Indice del volume: Premessa, p. IX; Nani sulle spalle di giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi nel Medioevo latino (relazione presentata al VI Convegno Intemazionale di Studi su «Medioevo: il tempo degli antichi», Parma 24-28 settembre 2003 e pubblicata negli Atti del Convegno, si veda 2006, n. 201. Pubblicata in «Studi medievali», si veda 2003, n. 192. Diventa l’ottavo capitolo di Speculum naturale, si veda 2007, n. 203), p. 1; Alle origini della terminologia filosofica moderna: traduzioni, calchi, neologismi (relazione presentata all’XI Convegno Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Milano, 16-18 settembre 2004, pubblicata negli Atti, si veda 2005, n. 199, e in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2004, n. 196), p. 33; Sul lessico filosofico latino del Seicento e del Settecento (testo, con l’aggiunta di una nota finale di aggiornamento bibliografico, della relazione presentata al Congresso Internazionale di studi sull’uso scritto e parlato del latino dal Rinascimento ad oggi, Roma, 15-18 aprile 1991 e pubblicata in Lexicon philosophicum, si veda 1991, n. 128), p. 77; Referenze bibliografiche, p. 109; Indice dei nomi, p. 111. 201. Nani sulle spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli antichi nel Medioevo latino, in Medioevo: il tempo degli antichi, Atti del Convegno internazionale di studi, Parma 24-28 settembre 2003, a cura di Arturo Carlo Quintavalle, Milano, Electa, 2006, pp. 57-64. Pubblicato in «Studi medievali» si veda (2003, n. 192). Diventa il primo capitolo di Origini della terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, si veda 2006, n. 200) e l’ottavo capitolo di Speculum naturale (si veda 2007, n. 203). 202. Paul Vignaux storico del pensiero medievale, «Studi medievali», XLVII (2006), pp. 361-381. Traduzione italiana, leggermente modificata, della relazione francese Paul Vignaux historien et philosophe, letta in Sorbona il 2 aprile 2004, al Colloquio “Paul Vignaux citoyen et philosophe”.  Speculum naturale. Percorsi del pensiero medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007 («Storia e Letteratura», 235), X-254 pp. Sono raccolti in questo volume alcuni saggi sul pensiero medievale, pubblicati in sedi e anni diversi. Di seguito si da l’indice dei capitoli con i rinvii per i saggi già pubblicati. Indice del volume: Nature au Moyen Âge, p. 1 (si veda 1999, n. 170); Riscoperta della natura e nuove scienze nel secolo XII, p. 15 (si veda 1994, n. 146); Il Liber creaturarum: dal sacramentum salutaris allegoriae alla physica lectio, p. 35 (si veda 2000, n. 177); Natura e qualitas planetarum, p. 47 (si veda 1996, n. 157); I cieli il tempo la storia, p. 69 (si veda 2000, n. 176); Lo spazio come geografia del sacro nell’Occidente altomedievale, Per una fenomenologia del cadavere. Dai mondi dell’immaginario, p. 121 (si veda 1999, n. 171); Nani sulle spalle dei giganti. Traduzioni e ritorno degli Antichi, p. 151 (si veda 2003, n. 192, 2006, n. 200 e 2006, n. 201); Pensiero medievale e modernità, p. 173 (si veda 1996, n. 156); Cosmologia biblica e cosmologie cristiane, p. 197; Appendice: Gli studi di filosofia medievale fra Ottocento, Gusto del cibo, itinerario storico sentimentale, «L’attimo fuggente», Presentazione, in JUNE DI SCHINO, FURIO LUCCICHENTI, Il cuoco segreto dei papi. Bartolomeo Scappi e la Confraternita dei cuochi e dei pasticceri, Roma, Gangemi, Per una Storia delle filosofie medievali. Discorso di chiusura pronunciato al XII Congresso Internazionale di Filosofia Medievale (Palermo 16-22 settembre 2007) promosso dalla SIEPM, «Studi medievali», Pubblicato negli Atti. Le acque sopra il firmamento. Genesi e tradizione esegetica, in L’acqua nei secoli altomedievali, Spoleto, Fondazione Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2008, pp. 1-41. 208. Spazio sacro, spazio profano. I confini simbolici nel cristianesimo altomedievale, in Frontiere. Politiche e mitologie dei confini europei, a cura di Carlo Altini e Michelina Borsari, Fondazione Collegio San Carlo di Modena, 2008, pp. 41-70. 209. Cosmogonia biblica e cosmologie cristiane, in Cosmogonie e cosmologie nel Medioevo. Atti del Convegno della Società italiana per lo studio del pensiero medievale (S.I.S.P.M.), Catania, 22-24 settembre 2006, a cura di Concetto Martello, Chiara Militello e Andrea Vella, Louvain-La-Neuve, Brepols, 2008, pp. 169-194. 210. Prefazione, in ROBERTO DE MATTEI, Il CNR e le scienze umane, Attività della Vice Presidenza Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Allocution, in Remise de l’Épée d’Académicien à Jean-Luc Marion, par Marc Fumaroli de l’Académie française de l’Académie des Inscriptions & Belles- Lettres, en Sorbonne, Salon d’honneur de la Cancellerie, 1er décembre 2009, pp. 8-13. 212. Translatio studiorum, «Quaderni di storia»,Testo parzialmente presentato, in inglese, al decimo congresso della International Society for Intellectual History su “Translatio Studiorum”. Ancient, Medieval, and Modern bearers of Intellectual History (Verona, 25- 27 maggio 2009). 213. Prefazione, in XXI Secolo-Norme e idee, direttore Tullio Gregory, Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani), Roma 2009, pp. IX-X.  64  Bibliografia di Tullio Gregory – 2010 torna su 2010 esci 214. Dante e la «Commedia», in Dante e l’Islam. Incontri di civiltà, Biblioteca di Via del Senato Edizioni, Milano 2010, pp. 37-44. 215. Bruno Nardi, storico della filosofia. Uno sguardo d’insieme (Relazione di chiusura al Convegno di Pescia), in Per ricordare Bruno Nardi, a cura di Laura Simoni Varanini, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2010, pp. 43-49. 216. Tullio Gregory incontra Cartesio, «Le interviste immaginarie», Milano, Bompiani, 2010, 19 pp. Ristampato in appendice alla raccolta di saggi Vie della modernità (si veda 2016, n. 256). 217. Il lessico Intellettuale Europeo, in Lectio Brevis. Anno Accademico Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, Anno CDVIII – 2011. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche. «Memorie», Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, Testo della Lectio brevis tenuta il 12 novembre 2010 presso l’Accademia dei Lincei, in apertura dell’anno accademico Eugenio Garin: un ricordo in Normale, «Quaderni di storia», LXXII (2010), pp. 11-29. 219. Claudio Leonardi medievista, «Rinascimento. Rivista dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento», L’ascesa del Poeta è una vera ‘Rinascita’, «La Biblioteca di via Senato – Milano», Postfazione, in LUCIO MARIANI, Farfalla e segno. Poesie scelte (1972-2009), Milano, Crocetti Prefazione, in FRANCA FOFFO, E le stelle stanno a mangiare... La Dolce Vita continua, Roma, Sovera Edizioni, 2010, pp. 9-14. 223. La libraria di Fausto Maria Franchi, in FAUSTO MARIA FRANCHI, Studiolo Crispolti, a cura di Lucia Sabatini Scalmati, Roma, Gangemi,  Giovanni Scoto. Quattro studi, Premessa di Enrico Menestò, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2011 («Uomini e mondi medievali», 24), VIII, 110 pp. Sono ripubblicati i tre studi su Giovanni Scoto Eriugena Le carte di Carlo Lorenzetti, relazione tenuta presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma il 25 febbraio 2011, in occasione dell’inaugurazione della mostra di Carlo Lorenzetti. 226. «Vi esorto alla Bibbia», in Bibbia, cultura, scuola. Alla scoperta di percorsi didattici interdisciplinari, a cura di Gian Gabriele Vertova, Carocci, Roma 2011, pp. 17-20. 227. Alle origini dell’etica moderna, in Per un’Etica civile. Tema di approfondimento culturale per l’a.s. 2010-2011, a cura di Licia Ferro, Roma, Liceo Classico Orazio, 2011, pp. 13-31. 228. Natura, in Dizionario dell’Occidente medievale. Temi e percorsi, 2: Letteratura/e-Violenza, Torino, Einaudi, Il tema della fortuna in Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», s. VII, LXXXX-XCII (2011), pp. 9-26. 230. Il gusto sullo scaffale, in IBC Dossier. Lo scaffale dei sapori, a cura di Rosaria Campioni, Bologna, Istituto per i beni artistici culturali e naturali della regione Emilia Romagna, 2011, pp. 60-63. L’articolo è tratto dalla rivista «IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali», XIX, 3, 2011. Si veda anche 2011, n. 232. 231. L’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, «Nuova informazione bibliografica», Il gusto sullo scaffale, in Lo scaffale del gusto. Guida alla formazione di una raccolta di gastronomia italiana (1891-2011) per le biblioteche, di Rino Pensato e Antonio Tolo, con la collaborazione di Adele Blundo, contributi di Tullio Gregory e Massimo Montanari, Bologna, Editrice Compositori, Montaigne e la fortuna, Modena, Consorzio Festivalfilosofia, 2011 («Paginette») Bibliografia di Tullio Gregory – 2012 torna su 2012 esci 234. Quintino Sella, Roma, l’Accademia dei Lincei, in Le Accademie nazionali e la storia d’Italia, Atti del Convegno Linceo (Napoli), Roma, Scienze e Lettere Editore Quintino Sella, Roma, l’Accademia dei Lincei, in Quintino Sella Linceo, a cura di Marco Guardo e Alessandro Romanello, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2012, pp. 19-42. 236. Per una Storia delle filosofie medievali, in Universalità della ragione. Pluralità delle filosofie nel Medioevo, Atti del XII Congresso Internazionale di Filosofia Medievale (Palermo), Sessioni plenarie, a cura di Alessandro Musco, Fascicolo monografico «Schede medievali», n. 50, Palermo, Officina di studi medievali,  «Studi medievali» Les sources oubliées d’une Introduction à l’Ethica, «Giornale critico della filosofia italiana», Quasi una Prefazione, in FRANCA FOFFO, Il dolce della vita, Roma, Sovera Edizioni, 2012, pp. 9-11.    67  Bibliografia di Tullio Gregory – 2013 torna su 2013 esci 239. Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente, Roma-Bari, Laterza («I Robinson / Letture»). Indice del volume: I. La caduta di Lucifero. II. Apparenza e realtà, p. 17; III. La via del nero, p. 31; IV. Il principe di questo mondo, p. 57; V. Satana e modernità, p. 67; Bibliografia, p. 79. 240. Translatio Studiorum, in MARCO SGARBI (ed.), Translatio Studiorum. Ancient, Medieval and Modern Bearers of Intellectual History, «Studies in Intellectual History», 217, Leiden, Brill, Paul Vignaux, Historien et Philosophe, in Paul Vignaux, Citoyen et Philosophe (1904-1987), sous la direction de Olivier Boulnois, avec la collaboration de Jean-Robert Armogathe, Turnhout, Brepols, 2013, pp. 9-26. 242. Per il XXV della Fondazione Ezio Franceschini di Firenze, «Studi medievali», Presentazione, in GIUSEPPE FINOCCHIARO, La biblioteca di Trisulti. L’ordine dei codici tra il 14° e 16° secolo, Roma, Scienze e Lettere, 2013, pp. 149- 167. 244. Presentazione, in Accademia nazionale dei Lincei. Inventario dell’archivio (1944-1965) a cura di Paola Cagiano De Azevedo, Roma, Ministero dei beni e delle attività culturali,  Le carte di C. Lorenzetti, Discorso pronunciato il 24 febbraio 2011 nel Salone Borromini della Biblioteca Valliceliana in Roma per l’inaugurazione della Mostra “Carte e libri d’artista” di Carlo Lorenzetti, Città di Castello, Bibliografia di Tullio Gregory – 2014 torna su 2014 esci 246. Le plaisir d’une chasse sans gibier. Faire l’histoire des philosophies: construction et déconstruction, «Giornale critico della filosofia italiana», Testo della relazione presentata il 25 settembre 2014 in apertura dell’incontro promosso a Roma dall’Institut International de Philosophie sul tema “Les relations de la philosophie avec son histoire”; in italiano diventa il primo capitolo di Vie della modernità il Lessico Intellettuale Europeo compie cinquant’anni, in Locus- spatium. XIV Colloquio Intrnazionale (Roma 3-5 gennaio 2013), Atti a cura di Delfina Giovannozzi e Marco Veneziani, Roma, Leo S. Olsckhi  Prefazione, in FAUSTO MARIA FRANCHI, PIER LUIGI PICCARI, LUCIA SABATINI SCALMATI, Ricette preziose dal gioiello al pane, Terni 2014, pp. 7-10. 249. Presentazione, in LUISA RUBERTI, Le ricette di Luisa. La cucina campana a modo mio, Firenze-Milano, Giunti, 2014.    69  Bibliografia di Tullio Gregory – 2015 torna su 2015 esci 250. Carlo Lorenzetti e il Lessico, in Segno e parola. Carlo Lorenzetti e il Lessico Intellettuale Europeo, Catalogo della mostra (Roma), a cura di Giovanni Adamo e Cristina Marras, Firenze, Leo S. Olschki Editore, La rinascita nel dopoguerra, in Treccani. Novanta anni di cultura italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2015, pp. 15-18. 252. Dubbio, fede e religioni in Montaigne, «Giornale critico della filosofia italiana», Prefazione, in La cultura e il mondo. Aggiornamento della Enciclopedia Italiana, Nona appendice, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,  Michel de Montaigne o della modernità, Pisa, Edizioni della Normale, 2016 («Variazioni», Translatio linguarum. Traduzioni e storia della cultura, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2016 («Lessico intellettuale europeo, Opuscula», 2), IX-75 pp. 256. Vie della modernità, Firenze, Le Monnier Università, 2016 («Centro Interdipartimentale di Studi su Descartes e il Seicento. Saggi. Nuova serie», 1), 174 pp. Indice del volume: 1. Il piacere di una caccia senza preda. Fare storia delle filosofie: costruzione e decostruzione, p. 1 (testo italiano della relazione francese presentata il 25 settembre 2014 in apertura dell’incontro promosso a Roma dall’Institut International de Philosophie sul tema “Les relations de la philosophie avec son histoire”; apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2014, n. 246); 2. Michel de Montaigne ou «le plaisir de la variété», p. 22 (traduzione francese, con qualche variante, della prefazione all’antologia dell’edizione spagnola degli Essais di Montaigne, si veda 1997, n. 160; 3. La saggezza scettica di Pierre Charron, p. 40 (pubblicato in «De homine», si veda 1967, n. 49); 4. «Il libro scandaloso» di Pierre Charron, p. 55 (pubblicato in Etica e religione nella critica libertina, si veda 1986, n. 110); 5. Pierre Gassendi nel IV centenario della nascita, p. 71 (testo italiano del discorso di apertura del “Colloque International Pierre Gassendi”, pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 1992, n. 140); 6. Il libertinismo erudito, p. 93 (pubblicato in Etica e religione nella critica libertina, Aristotelismo e libertinismo, p. 115 (pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 1982, n. 93, e negli atti del Convegno Internazionale di Studi su “Aristotelismo veneto e scienza moderna”, si veda 1983, n. 95); 8. Apologeti e libertini, p. 127 (pubblicato in «Giornale critico della filosofia italiana», si veda 2000, n. 179); Appendice: Tullio Gregory incontra Cartesio. Commentario (direzione scientifica) in GIORGIO SIDERI DETTO CALAPODA, Portolano 6. 1550, Roma, Treccani, 2016, 236 pp. 258. Ereditare e tradurre, Modena, Consorzio Festivalfilosofia, 2016 («Paginette»), 24 pp. 259. Postfazione “La cultura del vino” in MARCELLO MASI, ROCCO TOLFA, Signori del vino, prefazione di Carlo Petrini, Roma, Rai Eri, 2 Bibliografia di Tullio Gregory – 2017 torna su 2017 esci 260; “L’ambigua dignità dell’uomo moderno” «Quaderni di storia», Bibliografia di Tullio Gregory – 2018 torna su 2018 esci 261. Considerazioni per una storia del pensiero scientifico altomedievale, «Studi medievali», Veritates in mensa, Modena, Consorzio Festivalfilosofia («Paginette»), La biblioteca dei Lincei: percorsi e vicende, Letture corsiniane, Roma, Bardi Edizioni, 2019, 24 pp. 264. Fra i miei libri, «Giornale critico della filosofia italiana», Fra i miei libri, «Voci», Istituto Enciclopedia Italiana, Sapida scientia. Percorsi gastronomici da Il Sole 24 ore (1999-2018), Roma, ILIESI, 2019, 217 pp. Raccolta degli articoli di carattere gastronomico pubblicati tra il 1999 e il 2018 su Il Sole 24 ore. Stampato in numero limitato di esemplari in occasione del novantesimo compleanno di Tullio Gregory.   74Tullio Gregory. Gregory. Keywords: implicatura clandestina, clandestino – cognate with celare and occolto -- terminologia filosofica, libertinismo, filosofia clandestine, il libertino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gregory: l’implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Griffero – l’inter-soggetivo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Asti). Filosofo italiano. Grice: “I like Griffero; for one, he has a taste for neologisms, like his atmospherelogy – He has understood that aesthesis, qua sensatio, is the basis for aesthetics, and he has explored the philosophies of Tarso, Spranger, and Schelling!” Insegna a Roma. Studia a Torino sotto Vattimo su“L’ermeneutica.” Studia Betti (“Interpretare. La teoria di Betti e il suo contesto” – Rosemberg,Torino) ed il concetto di spirito e forma di vita. La filosofia della cultura (Angeli, Milano). Si dedica al rapporto tra arte e mito, scrivendo poi Senso e immagine. Simbolo e mito (Guerini, Milano), Cosmo Arte Natura. Itinerari  (Cuem, Milano), nel quale si concentra sulle caratteristiche del real-idealismo, e infine una ricostruzione dell'apporto dato da questo autore all'estetica filosofica (Estetica -- Laterza, Roma).  La nozione di "immaginazione transitiva", è invece affrontata in “Immagini Attive: beve storia dell'immaginazione transitiva (Monnier, Firenze). Ricostruisce la storia della credenza secondo cui una fantasia particolarmente forte sarebbe in grado di agire, cambiando o addirittura generando la realtà esterna.  In Realismo e Idealismo (Nike, Segrate) analizza il Pietismo Speculativo. La corporeità spirituale è il "fine ultimo delle opere di Dio. L'ampia storia del concetto e esposta in Il corpo spirituale. Ontologie sottili" (Mimesis, Milano).  La ricerca sulla fenomenologia del corpo e della percezione e l'estetica delle atmosfere è affrontata in “Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali (Laterza, Roma). Nel libro Quasi-cose. La realtà dei sentimenti (Mondadori, Milano ) indica e analizza sulla scorta dei un'estetica neo-fenomenologica i sentimenti atmosferici, il dolore, la vergogna, lo sguardo, il crepuscono, il corpo vissuto come quasi-cose, entità aggressive e decisive per la nostra esistenza senza essere riducibili al paradigma cosale tipico della tradizione occidentale   Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica (Guerini, Milano) delinea, a partire dalla nozione estetico-fenomenologica di “atmosfera”, i contorni di un'estetica orientata non allo gnosico ma al patico, che non tematizza un oggetto (come una espressione) speciali come le opere d'arte ma il modo in cui “ci si sente” quando ci si espone, soprattutto involontariamente, ai sentimenti presenti nell'ambiente circostante.  Il tema è sviluppato, esteso a considerazioni sull'atmosfericità del linguaggio, sulla presenza e la inter-soggettività re-interpretate in chiave fenomenologica. Altre opera: Storia dell'estetica (Nuova Cultura, Roma).  5. Quali atmosfere per quali spazi? Dicendo, con precisione tutt’altro che metaforica (cfr. Griffero 2010d) che, ad esempio, l’aria si è fatta pesante e il suono opprimente, l’odore penetrante e il silenzio solenne, ci si riferisce non certo allo spazio locale ma allo spazio assoluto e predimensionale (più o meno transitorio) delle “isole” leiblich. Ne viene – ed è ciò che ovviamente più interessa nel nostro più generale progetto atmosferologico (cfr. Böhme 1995, Griffero 2010 e Griffero 2014) – che lo spazio non locale del sentimento (Gefühlsraum)14, permeato cioè da sentimenti o tonalità emotive (Gefühle o Stimmungen) (cfr. Schmitz 1969), intesi ora come atmosfere, come quasi-cose caratterizzate (quanto meno nella loro forma 12 Una spazialità a rigore non solo non tridimensionale, ma neppure bidimensionale (superficie), monodimensionale (retta) o non-dimensionale (nel senso in cui lo è il punto). 13 L’abitare è per Schmitz, propriamente, cultura-coltivazione dei sentimenti in uno spazio recintato. 14 La tesi secondo cui «i sentimenti sono spazialmente estesi [...] sarebbe inconcepibile o addirittura comica se si riferisse allo spazio locale», giacché in tal caso «un sentimento sarebbe forse una sorta di sfera o un triangolo nel ventre o in prossimità della testa» (Schmitz 1990, p. 292). © SpazioFilosofico 2014 – ISSN: 2038-6788  351  prototipica e cioè oggettivo-distonica) da direzioni abissali, costituisce l’apriori di ogni nostra esperienza, specialmente involontaria. Come le valenze espressive delle singole cose e persone possono invitarci a fare o respingere qualcosa, così le affordances dello spazio del sentimento, irriducibili all’assetto ottico e agli effetti solo pragmatici cui pensa James Gibson, portano infatti in luce l’articolazione decisamente anisotropa (atmosferica) della nostra Lebenswelt. Ma, se avvertire un’atmosfera significa avvertire la qualità affettiva e leiblich “espressa” (un termine da non concepire, in una radicale Erscheinungswissenschaft, nel senso dell’estroflessione di un interno) dai nostri “intorni”, occorre da ultimo interrogarsi sulle atmosfere specifiche dei tre livelli di spazialità menzionati. Allo spazio della vastità c) corrispondono le atmosfere letteralmente s-confinate delle Stimmungen pure, come tali alla base dell’intero edificio della vita emozionale. Troviamo qui da un lato l’estensione piena della soddisfazione, concepibile non come gioia ma come quieto equilibrio (nel senso, ad esempio, dell’intimità famigliare), e dall’altro l’estensione vuota della disperazione, concepibile più come la medioevale acedia o l’ennui (nel senso, ad esempio, della lieve noia che ci coglie nelle stazioni o al cospetto del graduale impallidire serale delle cose) che non come un cruccio opprimente. Allo spazio direzionale b) corrispondono, invece, tre forme di atmosfere vettoriali. Anzitutto b1) le Erregungen pure, vale a dire emozioni strutturate e tuttavia diffuse e prive di un vero tema specifico (per questo abgründig per Schmitz), le quali, contrariamente alle fondamentali direzioni leiblich, possono essere anche centripete, aggredirci ab extra pur in assenza di una fonte precisa (cosa o quasi-cosa che sia) e quindi di una “ragione”. E poi b2) le emozioni “centrate”, le cui terminazioni e condensazioni in un oggetto (quando la Sehnsucht, ad esempio, si precisa come amore), in quanto tali responsabili della (secondo Schmitz fuorviante) teoria dell’intenzionalità dei sentimenti15, possono essere unilaterali (esaltanti o deprimenti), onnilaterali, centrifughe (come la Sehnsucht), centripete (come la paura e la sfiducia indeterminate), ma anche indecise, come nel caso del “presentimento”. Allo spazio locale a), infine, corrispondono16 le atmosfere generate dagli oggetti e dalla loro collocazione, relativa fin che si vuole nella spazialità locale eppure su di noi intensamente “attiva”, ad esempio in virtù di qualità espressive che, eccedendo di gran lunga l’ufficio delle proprietà − in linea di principio accidentali e parassitarie rispetto a un substrato sostanziale (nei sentimenti atmosferici assente in linea di principio) −, fungono da vere e proprie “estasi” (cfr. Böhme 2001, pp. 193-210). Quasi fossero i “punti di vista” con cui le cose in un certo senso escono da se stesse (cfr. Griffero 2005) e che appaiono inspiegabili come mera espressione di un interno (qui propriamente inesistente), le atmosfere o estasi delle cose paiono analoghe a potenze 15 I presunti sentimenti intenzionali – l’ira, ad esempio − sarebbero meglio spiegabili, come sentimenti atmosferici centrati, chiamando in causa una dissociazione tra punto di ancoraggio (lo stato di cose che suscita l’ira) e zona di condensazione (l’uomo o l’oggetto con cui si è adirati): due elementi di solito poco connessi sotto il profilo causale o logico (gestalticamente: figura/sfondo), visto che – ed è forse illogico ma adattivamente funzionale! – si teme, ad esempio, più la persona che potrebbe ucciderci (condensazione) che non la morte come tale (cfr. Schmitz 2007, p. 64). 16 Ma Schmitz qui obietterebbe che, le atmosfere non essendo per lui intenzionalmente producibili e riducibili a cose singole (giusta una più generale campagna contro la forma mentis singolaristica su cui non possiamo qui fermarci), le impressioni suscitate dalle cose non sarebbero autentiche atmosfere. 352   demoniche (numinose) indipendenti dalla nostra volontà. Sono, in altri termini, qualità espressive (inviti, affordances), nella cui manifestazione in certo qual modo le cose si esauriscono, esattamente come il vento coincide col proprio soffiare (cfr. Griffero 2013b). Sono modi-di-essere pervasivi (cfr. Metzger 1941, pp. 77-78) che, generando lo spazio affettivo cui il soggetto accede, danno vita a una co-presenza (proprio-corporea, anzitutto, ma anche sociale e simbolica) di soggetto e oggetto, a un “tra” (un tema caro a Böhme) anteriore alla distinzione soggetto/oggetto, a una relazione che paradossalmente (per la logica ordinaria, s’intende) dev’essere anteriore ai suoi relati, pena una ricaduta nel dualismo aborrito.Tonino Griffero. Griffero. Keywords: l’inter-soggetivo, Betti, ermeneutica, fenomenologia, Vico, il circolo dell’implicatura, implicatura ammosferica-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Griffero” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Grimaldi – implicatura anti-peripatetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cava de’ Tirreni). Filosofo italiano. Grice: “I have spoken of ‘magic’ – “two kinds of magic’ – actually, for Grimaldi there are THREE: ‘black magic,’ ‘artificial magic,’ and my favourite, ‘natural magic’!” Nacque da nobile famiglia locale di origini genovesi. Compì i suoi studi avvicinandosi a Cartesio, di cui fu seguace e fece parte del gruppo chiamato degli epigoni dell'Accademia degli Investiganti. Consigliere Regio. Scrive numerose opere, raccolte poi in "Istoria dei libri di don Costantino Grimaldi, scritta da lui medesimo". Tra quelle più note si possono elencare le “Considerazioni intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli” (Napoli), le “Discussioni filosofiche” (Lucca), la “Dissertazione sulle tre magie, naturale, artificiale e diabolica (Roma). Il figlio gli dedicò "Ragioni genealogiche a' favore della Famiglia Grimaldi del Sig. Cons. D. Costantino Grimaldi. Colli signori Grimaldi di Seminara, e con quelli patrizj di Catanzaro" F. A. Meschini, nel Dizionario Biografico degli Italiani, indica Napoli come città natale. Memorie di un anticurialista del Settecento. Testo, introduzione note V.I. Comparato. Firenze, Olschki, Biblioteca dell'«Archivio storico italiano»,  Franco Aurelio Meschini, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana  Anticurialismo.  GRIMALDI, Costantino. - Nacque a Napoli il 30 genn. 1667 da Francesco Antonio e Antonia Cacace. Ebbe come maestro per le belle lettere e l'oratoria Matteo Taurini. Spinto dallo zio Scipione, sacerdote secolare, a frequentare le Scuole pie di largo dello Spirito Santo, vi strinse amicizia con il padre Tommaso di S. Tommaso d'Aquino, dal quale apprese la filosofia aristotelica. Dopo l'anno di logica, al termine del quale sostenne alcune pubbliche conclusioni, proseguì gli studi non di metafisica, come avrebbe voluto, bensì, per volere paterno, di legge, sotto Domenico Radesca e Matteo De Lellis. Lesse poi, per proprio conto, E. Tesauro, F. Piccolomini e, per i casi di coscienza, la summa di A. Diana e l'opera di M. Bonacina. A sedici anni, con la dispensa del Collaterale per la giovane età, ottenne la laurea.  Prese quindi a frequentare il foro, senza tralasciare, tuttavia, lo studio delle belle lettere sotto la guida del leccese Luca Giordano che lo avviò alla lettura dei moderni: L. Di Capua, T. Cornelio, R. Boyle, P. Gassendi, R. Descartes. Non trascurò i classici, Cicerone e Quintiliano sopra tutti, studiò lo spagnolo e il francese, i rudimenti della geometria su Euclide e la medicina sotto la guida di Tommaso Donzelli. Di lì a poco prese a frequentare il circolo di Giuseppe Valletta e strinse amicizia con diversi personaggi illustri: Francesco Billio, Filippo Anastasio, Giuseppe Lucina, Giacomo Grazini, Domenico Greco, Antonio Monforte, Giacinto Di Cristofaro, Niccolò Capasso, Niccolò Cirillo, Matteo Egizio, Ottavio Ignazio Vitagliano, Amato Danio, Felice Stocchetti.  È di questi anni l'idea, cara all'ambiente vallettiano, di una storia universale della filosofia, che il G. concepì in contrapposizione al gesuita Giovan Battista De Benedictis. Questi nel 1694, sotto lo pseudonimo di Benedetto Aletino, aveva dato alle stampe a Napoli le Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della filosofia peripatetica: cinque lettere indirizzate a personaggi fittizi (ma facilmente identificabili) e reali dell'ambiente investigante. La necessità di una risposta al gesuita fu immediata; lo stesso G. fornisce l'elenco di quanti risposero o manifestarono l'intenzione di rispondere: Giuseppe Lucina, Filippo Anastasio, Francesco D'Andrea, Domenico Greco e Giuseppe Magrino. Da parte sua il G. in un primo momento (è lui stesso a ricordarlo) pensò di rispondere indirettamente, compilando la sopra ricordata storia, che avrebbe dovuto seguire lo sviluppo della filosofia nelle singole nazioni, soprattutto nel suo sorgere presso i Greci, nel passaggio ai Romani, quindi agli Arabi e infine ai moderni.  Quando apparve chiaro che le risposte attese o annunciate non avevano raggiunto lo scopo o che addirittura erano destinate a restare allo stato di progetto, mentre peraltro l'Aletino e i suoi sostenitori continuavano nell'offensiva contro i moderni, il G. si accinse a rispondere al gesuita.  Le tre risposte del G. videro la luce tra il 1699 e il 1703. Nella prima (Risposta alla lettera apologetica in difesa della teologia scolastica di Benedetto Aletino. Opera nella quale si dimostra esser quanto necessaria ed utile la teologia dogmatica e metodica, tanto inutile, e vana la volgar teologia scolastica, stampata a Ginevra per l'interessamento di C. Musitano, presso Tournes, ma datata da Colonia presso S. Hecht), pubblicata anonima, il G. muove dalla distinzione (già in Valletta) tra una buona e una cattiva (volgare) scolastica: la prima che non si discosta dalla Sacra Scrittura, dalla tradizione, dai Padri, dai concili, dall'autorità, la seconda che, al contrario, non fa debitamente ricorso alla tradizione e pretende di provare le verità di fede con la sola ragione umana, muovendo dalla filosofia. Descartes, che secondo uno schema consueto ai novatoresnapoletani viene accomunato spesso a Gassendi, è presentato come estremamente rispettoso nei confronti della sacra dottrina, in contrapposizione a quei filosofi che dialettizzavano la teologia.  La Risposta, di cui ben presto si conobbe il nome dell'autore, procurò al G. notevole fama e apprezzamento anche fuori del Regno e lo mise in contatto con letterati illustri, tra cui G.V. Gravina, L.A. Muratori, A. Magliabechi, J. Mabillon. Nella seconda risposta (Risposta alla seconda lettera apologeticadi Benedetto Aletino. Opera utilissima a' professori della filosofia, in cui fassi vedere quanto manchevole sia la peripatetica dottrina, 1702), non più anonima, data la favorevole accoglienza della prima, e stampata realmente a Colonia "perché trovò le stamperie occupate in Ginevra", sono affrontati più direttamente i problemi della filosofia aristotelica e del suo rapporto con la fede e con la dottrina cristiana.  Con abile mossa il G. trasforma questa seconda risposta in un serrato attacco ad Aristotele, proprio sul terreno più caro all'Aletino, l'affidabilità teologica dello Stagirita. Sulla base di un sapiente incastro di testi (F. Patrizi, P. Ramo, P. Gassendi, ma anche gesuiti come Juan Maldonado, Antonio Possevino, Michel Elizade o domenicani come Melchior Cano) e di abili argomentazioni, il G. dimostra come alla luce dei principî aristotelici diventino insostenibili i cardini della fede cristiana: la provvidenza, la creazione, l'immortalità dell'anima; e, sul versante della scienza, la corruttibilità dei cieli. Diversamente, i moderni, Descartes sopra tutti, hanno professato dottrine non in contrasto con le Scritture: ne è esempio l'impegno del filosofo francese per conciliare la dottrina eucaristica con la sua concezione della res extensa.  Alla terza risposta (Risposta alla terza lettera apologetica contra il Cartesio creduto da più d'Aristotele di Benedetto Aletino. Opera in cui dimostrasi quanto salda e pia sia la filosofia di Renato delle Carte e perché questa si debba stimare più d'Aristotele, 1703), stampata questa volta in Napoli da G. Rosselli, ma sempre con l'indicazione di Colonia (perché senza la licenza dell'arcivescovo), è affidata la difesa di Descartes dagli attacchi dell'Aletino.  Questa risposta, più ancora delle prime due, rappresenta uno fra i più importanti documenti nella diffusione del pensiero e delle opere di Descartes in ambiente napoletano. Il G. appare, anzi, come uno dei più attenti, se non il più attento interprete partenopeo del filosofo francese, sia per la conoscenza pressoché integrale del corpuscartesiano allora disponibile, comprese le lettere e gli Opuscula postuma, sia per l'acume interpretativo. Descartes, "il miglior filosofante di ogni tempo", viene visto soprattutto muovendo dalla sua metafisica: "È ben noto che non solamente il metafisico sistema cartesiano s'aggiri tutto intorno alla cognizione d'Iddio […] ma il sistema ancor fisico tutto quanto è, suppone necessariamente per fabro, e regolatore il supremo facitore" sicché "togliendosi per ipotesi il darsi Iddio, caderebbe e si ridurrebbe a nulla la macchina del Cartesiano sistema" (pp. 186-188). Questa piegatura metafisica, nuova rispetto a pensatori come Valletta e D'Andrea e più in generale all'ambiente investigante e a quello dell'Accademia di Medina Coeli, permise al G. di allontanare da Descartes la pericolosa accusa di collusione con l'atomismo antico, e di inserirlo nell'alveo della tradizione di Platone e di Agostino, di cui, in particolare, Cartesio è detto "fido seguace". Tutti i temi e i testi della metafisica cartesiana, in un discorso che è al tempo stesso giustificazione e ricostruzione del moto rinnovatore napoletano che da quei testi aveva tratto alimento, sono passati in rassegna: il dubbio, il cogito ergo sum, il criterio dell'evidenza (ove grande importanza è data al momento dell'intuitus, il "guardo"), le dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Esaminata e così difesa la metafisica, la fisica cartesiana, di cui il G. discute il ruolo delle ipotesi (diverse dalle supposizioni dei poeti e degli astronomi, spesso impossibili), appare se non più agevole, certo più sicura. Il G., che difende al tempo stesso Descartes e Leonardo Di Capua, polemizza non solo con l'Aletino ma anche con talune sue fonti come il padre G. Daniel e soprattutto l'astronomo Pierre Petit, che l'Aletino aveva indicato come propria guida. Vengono così discusse, cogliendone precisamente i nessi, le principali concezioni fisiche del filosofo francese: il corpuscolarismo legato al rifiuto delle forme sostanziali (concetto applicabile solo all'anima "ragionevole"); la riduzione della materia a estensione e negazione del vuoto; l'universo indefinito (non infinito come gli attribuiva l'Aletino), costituito dal moto che Dio ha impresso alla materia; l'accettazione del principio inerziale, da cui discende che il cosmo è retto dalle leggi del moto e liberato da ogni visione antropomorfica e finalistica. Con questo cosmo materiale l'uomo, non più centro dell'universo, intrattiene un rapporto grazie alle sensazioni e alle passioni, che sono in vista della conservazione e della salvaguardia del composto anima e corpo.  Nel 1703 uscì una replica dell'Aletino alla terza Risposta del G., la Difesa della scolastica teologia, ed ebbe inizio anche lo scambio di accuse tra i due presso il Sant'Uffizio, che diede il via a una serie di relazioni e controrelazioni. Nonostante ciò, il G. trovò a Roma un clima non del tutto sfavorevole, soprattutto tra i prelati filogiansenisti, e l'opera poté liberamente circolare; anzi, grazie soprattutto all'interessamento di A. Magliabechi (cfr. lettera del G. a Magliabechi del 13 marzo 1703, Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., VIII.671), ebbe una notevole diffusione in Italia e fuori. Tra il 1703 e il 1704 il G. abbozzò le risposte contro la IV e la V lettera del gesuita. Nel 1704 venne colto da un colpo apoplettico e l'anno dopo l'Aletino (insinuando che il 28 febbr. 1704 s. Ignazio avesse colpito il G. perché aveva osato "malmenar" la sua Compagnia) intervenne nuovamente con una Difesa della terza lettera apologetica di Benedetto Aletino. La morte improvvisa del gesuita, l'anno successivo (il G. non mancò qualche anno più tardi di vendicarsi delle insinuazioni dell'Aletino, collegando la sua morte a una punizione celeste), la sua stessa malattia, la denuncia alla congregazione romana delle tre risposte, il fatto che altri avessero risposto alla replica dell'Aletino (Filippo Anastasio diede fuori uno scritto, che non venne pubblicato, ma il G. ebbe modo di leggerlo), sono tra i motivi per cui il G. non volle dar seguito allora alla polemica; nello stesso periodo, tuttavia, mise mano a un'Analisi del modo di teologare, il cui bersaglio era pur sempre la teologia scolastica, che l'autore non portò a termine perché chiamato (direttamente dalla corte di Barcellona, su consiglio di Nicolò Caravita) a difendere gli editti regi in materia di benefici ecclesiastici nel Regno di Napoli contro la Curia romana.  Il G., che aveva già ricoperto cariche in seno all'amministrazione (governatore dell'arrendamento dei ferri in Terra di Lavoro e deputato dell'arrendamento del tabacco), venne chiamato a questo incarico il 20 luglio 1708. La pretesa del re Carlo d'Asburgo, espressa negli editti, di conferire benefici ecclesiastici solo a regnicoli, contro la pretesa della Curia romana, venne dunque sostenuta dal G. nelle Considerazioni teologico-politiche fatte a pro degli editti di s. maestà cattolica intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (I-II, Napoli 1708-09), che furono recensite nel IV supplemento degli Acta eruditorum del 1711 (pp. 369 s.). La risposta di Roma non si fece attendere: il 17 febbr. 1710 la Curia emanò una bolla che colpiva, con le opere di Alessandro Riccardi e Gaetano Argento, la prima parte del Trattato delle considerazioni teologico-politiche, mentre la seconda parte veniva raggiunta dalla censura neppure un mese dopo, il 24 marzo. Il G., che nel 1709 era stato nominato consigliere straordinario del tribunale di S. Chiara (diverrà ordinario il 28 febbraio dell'anno successivo), preparò contro il testo della censura (la cui stesura si doveva al benedettino Nicolò Maria Tedeschi) un Avviso critico et apologetico intorno alla bolla, et alla censura fatta a' libri intitulati Considerazioni teologico-politche, che circolò manoscritto negli ambienti anticuriali napoletani.  Morto l'Aletino, la polemica con i gesuiti non cessò: in un processo che li riguardava essi ricusarono il G. come giudice, facendo leva sulla passata polemica con il loro confratello e ottennero poi, con l'appoggio del reggente S. Biscardi, l'esclusione del G. da tutti i processi in cui fosse coinvolta la Compagnia, con una sentenza del Collaterale del 19 dic. 1710. Il G., che cercò inutilmente di ottenere la revoca del decreto (facendo anche intervenire L.A. Muratori presso il viceré Carlo Borromeo Arese, di cui l'abate modenese era amico), ebbe tuttavia dalla sua parte Gaetano Argento e il reggente Gaetano Rubini. Numerosi consulti negli anni successivi testimoniano la sua attività di consigliere. In questi stessi anni il G. riprese in mano le risposte all'Aletino con l'intenzione di pubblicarne una nuova edizione. Le controverse vicende della stampa sono documentate dal G. stesso nelle sue Memorie, ora pubblicate, a cura di V.I. Comparato, con il titolo Memorie di un anticurialista del Settecento, Firenze 1964. Terminata la stesura dell'opera il G., il 29 marzo 1719, chiese la licenza di stampa al Collaterale (non all'arcivescovo, precisa lo stesso G., per l'illegittimità, a suo avviso, della licenza ecclesiastica); si rivolse quindi allo stampatore Nicolò Parrino, che, iniziata la stampa, la sospese di lì a poco su pressione di ambienti curiali. A questo punto il G., secondo una prassi invalsa, ottenuti dallo stesso Parrino i caratteri, continuò la stampa in casa propria. Gli ostacoli e gli equivoci erano, tuttavia, ben lungi dall'essere superati: il cardinale Francesco Pignatelli, arcivescovo di Napoli, cercò, infatti, di far interrompere la stampa, senza però riuscirci; d'altro canto il viceré, cardinale Michail Friedrich d'Althan, che in un primo momento aveva fatto intendere che avrebbe gradito che l'opera gli fosse dedicata - cosa che il G. fece - sollevò mille difficoltà, cui il G. rispose punto per punto, finché "vidde, ed odorò che il signor viceré non facea più da viceré, le cui parti altre certamente sarebbero state, ma da ministro di Roma, e da esecutore delle voglie altrui, non ascoltando altro che gl'impulsi venutigli da colà" (ibid., p. 54). I volumi, già stampati, vennero sequestrati, salvo quelli che il G. aveva fatto circolare tra gli amici. Tre copie vennero inviate a Roma per il tramite del cardinale Àlvaro Cienfuegos, ministro plenipotenziario austriaco. Una di queste venne fatta pervenire direttamente al pontefice. Il 23 sett. 1726 arrivò la condanna della congregazione dell'Indice, che colpiva sia la prima sia la seconda edizione delle Risposte. Il G. affidò la sua difesa a un memoriale in cui rivendicava il fatto che la prima edizione delle Risposte fosse passata immune per ben tre volte all'esame del Sant'Uffizio.  La nuova edizione, intitolata Discussioni istoriche, teologiche, e filosofiche di Costantino Grimaldi fatte per occasione della risposta alle lettere apologetiche di Benedetto Aletino (I-III, Lucca 1725), contiene, in realtà, alcune importanti aggiunte, che danno conto soprattutto delle letture che in quegli anni il G. andava facendo e di nuovi legami maturati anche al di fuori dell'ambiente napoletano: in particolare Mabillon e Muratori, Jean Le Clerc e Noël Alexandre. Gli interventi più significativi sono nella prima risposta, con una più convinta difesa del giansenismo, che è al tempo stesso presa di posizione per un cristianesimo nutrito delle Sacre Scritture. Ciò significava anche, nel momento in cui veniva tolta alla ragione la giurisdizione sulla fede, liberare il campo della filosofia dalle intrusioni teologiche e difendere quella libertas philosophandi che era stata e continuava a essere la bandiera dei novatores. Le risposte alla quarta e alla quinta lettera, rimaste manoscritte e ora conservate presso la Biblioteca nazionale di Napoli, furono redatte in un lasso di tempo che presumibilmente va dagli anni immediatamente successivi alla pubblicazione della terza risposta a dopo il 1724. Nella quarta risposta il G. attinge a pensatori come Pierre Bayle e Richard Simon, a libertini come François de La Mothe Le Vayer e Gabriel Naudé, alla cultura investigante, sempre a Descartes, ma anche a Nicolas Malebranche. E, tuttavia, è soprattutto il Muratori, con le sue Riflessioni sopra il buon gusto, a rappresentare in questa fase, in cui la polemica con l'Aletino è ormai piuttosto un pretesto, un punto di riferimento. La scolastica è attaccata sia nel suo interprete più ortodosso, Tommaso d'Aquino, la cui valorizzazione di Aristotele non può servire ai sostenitori del filosofo greco perché filologicamente non sorretta dalla conoscenza del greco, sia nel suo ispiratore principe e cioè Aristotele stesso, di cui il G. passa in rassegna gli errori nelle varie scienze. A essi, tuttavia, il G. non contrappone un nuovo corpusdottrinale, bensì, con un atteggiamento caro ai moderni, il metodo, aprendosi a una vera e propria apologia della ricerca.  Non mancano altresì affermazioni che nella sostanza suonano anticartesiane, soprattutto nella direzione di un certo vitalismo della tradizione naturalistica meridionale. Nella quinta risposta, Per la scelta d'Aristotele in maestro contro a' libertini ed atomisti, il G. affronta il tema dell'ateo virtuoso e, per spezzare la relazione tra atomismo e ateismo, cavallo di battaglia dell'Aletino, ribalta l'accusa di ateismo su Aristotele, che per di più è giunto in Occidente attraverso la mediazione irreligiosa di Averroè ed è all'origine sia degli errori di P. Pomponazzi sia, ancor più, di B. Spinoza. La fortuna della filosofia aristotelica, d'altro canto, era nata, secondo il G., dalla crisi della cultura nel Medio Evo e ora era in declino proprio per l'avanzamento della verità, grazie, soprattutto, alle scienze sperimentali.  L'opera, che si conclude con un'apologia della ragione e dell'esperienza, contiene anche i germi di quel riformismo cattolico che troverà in Muratori più compiuta maturazione: diminuzione delle feste religiose, superamento della condanna sull'usura, rifiuto del magico e del diabolico. Rinnovamento che passa - ciò è una costante nelle opere del G. - attraverso la comprensione critica della storia ecclesiastica, meglio, attraverso la storia ecclesiastica quale strumento critico della disciplina se non della dottrina.  Tra il 1729 e il 1733, cioè dall'uscita di scena del viceré d'Althan all'avvento degli Austriaci, il G. trascorse uno dei periodi più tranquilli della sua vita e al tempo stesso più intensi per la sua attività politica: insieme con Biagio Garofalo compilò la lista delle "proposizioni ingiuriose alla potestà de' principi" nelle Riflessioni morali e teologiche, scritte dal gesuita G. Sanfelice contro P. Giannone, prese parte al progetto di riforma dell'Università di Napoli, appoggiò la candidatura di Biagio Garofalo a teologo del Collaterale e di Celestino Galiani alla cappellania maggiore del Regno. Il ritorno a Napoli degli Spagnoli con l'avvento di Carlo di Borbone segnò una nuova svolta negativa nella vita del G., nei cui confronti venne aperta un'inchiesta, ancora una volta in base alle accuse della corte di Roma e dei gesuiti, in seguito alla quale, nel 1735, perse la carica di consigliere, non senza, tuttavia, che il re riconoscesse il suo valore: gli venne, infatti, concesso "l'onor della toga e l'intiero soldo".  È in questo momento che il G. pose mano all'Istoria de' libri di Costantino Grimaldi scritta da lui medesimo, con l'intento di difendere il suo operato; fonte preziosa che permette di seguire la genesi delle sue opere e delle polemiche in cui fu impegnato. Per ottenere il passaggio delle sue opere censurate dalla prima alla seconda categoria dell'Indicedovette adoperarsi con tutte le forze, ricorrendo agli amici, facendo appello a tutta la Curia romana e giungendo, infine, a una ritrattazione (1736) che, a sua insaputa e con suo disappunto, venne pubblicata l'anno successivo nelle Novelle letterarie di Venezia.  Negli anni successivi visse appartato, continuando a intrattenere rapporti epistolari con vari rappresentanti della repubblica letteraria, in particolare G.M. Mazzuchelli. A questo invierà l'Elogium che gli aveva dedicato il padre Casto Innocente Ansaldi, insieme con le Discussioni storiche e una versione abbreviata dell'Istoria de' libri, scritta nel 1735, cui aggiunse le notizie relative agli anni successivi al 1734 e cenni sulla sua giovinezza, materiali questi che Mazzuchelli utilizzerà per le Notizie storiche e critiche intorno alla vita e agli scritti di C. G., pubblicate l'anno dopo della morte del G. nella Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici di A. Calogerà.  Il 17 febbr. 1744 il G. fu arrestato, con l'accusa di intrattenere corrispondenza con gli Austriaci, insieme con il figlio Gregorio, che fu poi relegato nell'isola di Pantelleria. Il G. restò in carcere quaranta giorni (Vat. lat., 9281, cc. 130-140). Dello stesso anno è una Lettera apologetica indirizzata al padre Sebastiano Paoli sull'involuzione della liturgia nel Medioevo (tema ripreso il 23 maggio dello stesso anno e il 30 nov. 1745 in due lettere a Mazzuchelli). Polemiche attardate, come quella durante la crisi napoletana del Sant'Uffizio nel 1746-47 allorché il G. compose il trattato Sciagura maggiore…, rimasto manoscritto, in cui riproponeva la lotta anticuriale a favore del sovrano e contro l'intrusione del potere di Roma. L'ultimo scritto del G., pubblicato postumo (Roma 1751; rist. anast. Milano 1974) a cura del figlio Ginesio, è una Dissertazione in cui si investiga quali sieno le operazioni che dependono dalla magia diabolica e quali quelle che derivano dalle magie artificiale e naturale.  Il G. morì a Napoli il 16 ott. 1750.  Dei tredici figli avuti dal matrimonio (1692) con Giovanna de' Marzi, morta durante la sua prigionia, gli sopravvissero Gregorio e Ginesio, Bernardo, chierico e abate di S. Maria della Misericordia a Itri, Aniceto e Teodosio, monaci olivetani, e tre femmine.  Il G. intrattenne un'ampia corrispondenza: in particolare le sue lettere al Magliabechi sono conservate nella Biblioteca nazionale di Firenze, quelle al Muratori nell'Archivio Muratoriano di Modena, quelle al Bottari, infine, presso la Biblioteca Corsiniana di Roma.  Fonti e Bibl.: Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 9281, cc. 130-140: Viri clarissimi Costantini Grimaldi senatoris Neapolitani elogium authore P. C.I. A. O.P. [C.I. Ansaldi]; G. Grimaldi, Lettera di Claristo Licenteo [Licunteo]scritta al signor Rodolfo Grandini, in cui si essaminan due luoghi del signor Francesco Maradei in persona del regio consiglier d. C. G., s.l. 1716; Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi, a cura di A. Quondam - M. Rak, Napoli 1978; G.G. Scarfò, Opuscoli, III, Napoli 1727, pp. 56 s.; G.M. Mazzuchelli, Notizie storiche e critiche intorno a C. G., in A. Calogerà, Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, XLV, Venezia 1751; Index librorum prohibitorum, Roma 1758, p. 17; M. Delfico, Elogio di C. G., Napoli 1784; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, III, Napoli 1787, s.v.; M. Schipa, Il Muratori e la coltura napoletana, in Arch. stor. per la provincie napoletane, XXVI (1901), pp. 553-649; P. Sposato, Le "Lettere provinciali" di Biagio Pascal e la loro diffusione a Napoli durante la "rivoluzione intellettuale" della seconda metà del secolo XVII, Tivoli 1960, pp. 27-47, 72-100; N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961, passim; E. Boscherini Giancotti, Nota sulla diffusione della filosofia di Spinoza in Italia, in Giorn. critico della filosofia italiana, XLII (1963), pp. 339-362; R. Ajello, Il preilluminismo giuridico, Napoli 1965, pp. 146 s.; V.I. Comparato, Ragione e fede nelle discussioni istoriche, teologiche e filosofiche di C. G., in Id., Saggi e ricerche sul Settecento, Napoli 1968, pp. 48-93; B. De Giovanni, "De nostri temporis studiorum ratione" nella cultura napoletana del primo Settecento, in A. Corsano et al., Omaggio a Vico, Napoli 1968, pp. 141-191; B. De Giovanni, Il ceto intellettuale a Napoli fra la metà del '600 e la restaurazione del Regno, Napoli 1968, pp. 35, 37 s., 43, 83 s.; F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 31-33, 83, 87, 322, 375, 388, 532; V.I. Comparato, Giuseppe Valletta e le sue opere. Un intellettuale napoletano alla fine del Seicento, Napoli 1970, ad ind.; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1970, pp. 266-271; A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel Regno di Napoli. Problema e bibliografia, Roma 1974, ad ind.; L. Osbat, L'Inquisizione a Napoli: il processo agli ateisti 1688-1697, Roma 1974, pp. 51, 54; G. Ricuperati, C. G., Nota introduttiva, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del primo Settecento, V, Milano-Napoli 1978, pp. 741-774; E. Garin, Storia della filosofia italiana, Torino 1978, pp. 874-876, 882, 907; V. Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli 1982, pp. 478-481; M. Torrini, La discussione sullo statuto della scienza tra la fine del '600 e l'inizio del '700, in Galileo a Napoli, a cura di F. Lomonaco - M. Torrini, Napoli 1987, pp. 357-383; F. Cacciapuoti, Il processo agli ateisti: dalle discussioni teologiche al giusnaturalismo, in Dalla scienza mirabile alla scienza nuova. Cartesio e Napoli, Napoli 1997, pp. 149-174; G. Belgioioso, La variata immagine di Descartes. Gli itinerari della metafisica tra Parigi e Napoli (1690-1733), Lecce 1999, pp. 29-62; E. Lojacono, Immagini di Descartes a Napoli: da Valletta a C. G., II, in Nouvelles de la république des lettres, 2000, n. 2, pp. 45-65. Grice: “There is something to be said about what Italians, in connection with Grimaldi, call ‘anti-curialismo,’ as opposed to the more general, and more revolutionary, ‘anti-clericalismo.’ My father being a non-conformist, would love Grimaldi on both counts!” -- Costantino Grimaldi. Grimaldi. Keywords: magica naturale, magica artificiale, magica diabolica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grimaldi: implicatura peripatetica”– The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Grimaldi – inter-azione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Seminara). Filosofo. Grice italiano: “Grimaldi for some reason did some deep research on cynicism – a wonderful etymology, too!” -- Esponente dell'illuminismo. Fratello minore di Domenico Grimaldi, filosofo. Nato in una famiglia aristocratica che faceva risalire le proprie origini alla nota famiglia di Genova, dei principi di Monaco, ricevette la prima educazione dal padre, il marchese Pio Grimaldi, un uomo colto che aveva cominciato a introdurre criteri di conduzione innovativi nelle sue proprietà terriere (peraltro non molto estese). Inviato a Napoli, conosce Genovesi. Comincia a interessarsi alle vicende culturali e politiche della Repubblica di Genova: volle anch'egli essere iscritto fra i patrizi di Genova, esprimendo la convinzione che l'aristocrazia genovese avrebbe dovuto riprendere la funzione, svolta nei secoli precedenti, di classe dirigente della Repubblica. Studia il diritto testamentario romano. Fu pertanto fautore del “fedecommesso” istituzione risalente a Roma antica e prediletta dalla classe aristocratica.  Maestro venerabile della loggia massonica di Genova. Partendo dalla filosofia romana, cerca di analizzare l’interazione umana. Al di fuori della società l'uomo, in balia dei "sentimenti fisici", diventerebbe “un vero bruto” – “como Romolo” --. Tali riflessioni saranno approfondite nel "Saggio sull'ineguaglianza umana”. Sostenne che, in natura, gli uomini non sono uguali e che le differenze, sia fisiche che morali, ha origini soprattutto ambientali (per es., il clima, la diffusione delle malattie). La inter-azione  non e uno stato di corruzione, ma lo stato "naturale" dell'uomo. La struttura gerarchica dell'Ancien Régime era giustificata dall'ineguaglianza degli uomini. L’educazione non sarebbe riuscita ad appianare tale disuguaglianza. Scrive gli Annali del Regno di Napoli. Fa una Descrizione de' tremuoti accaduti nella Calabria. Altre saggi: “De successionibus legitimis in urbe Neapolitana systema. Pars prima in qua ius Graecum Neapolitanum vetus, et ius omne Romanum a 12 tabulis ad Iustinianum vsque absolutissime expenditur” (Napoli: Simoniana); “Lettera sopra la musica all'eccellentissimo signore Agostino Lomellini già doge della serenissima repubblica di Genova (Napoli); “La vita di Ansaldo Grimaldi patrizio genovese, illustrata con riflessioni politiche, e morali, e con una brieve narrazione del governo politico della Repubblica di Genova dalla sua origine” (Napoli: Raimondi); “La vita di Diogene Cinico” (Napoli: Vocola); “Riflessioni sopra l'ineguaglianza fra gli uomini” (Napoli: Vocola). (Franco Crispini, Vibo Valentia: Sistema Bibliotecario Vibonese) Annali del Regno di Napoli dedicati a Ferdinando IV. re delle Due Sicilie. Epoca I. Dal primo anno dell'edificazione di Roma sino alla fine del quarto secolo dell'era Cristiana” (Napoli: Porcelli); “Annali del Regno di Napoli” -- Epoca II. Dall'anno 409. dell'era volgare, sino all'anno 1211” (Napoli: Porcelli); “Descrizione de' tremuoti accaduti nelle Calabrie” (Napoli: Porcelli. (Saverio Napolitano, Bordighera: Manago). La vita di Ansaldo Grimaldi patrizio Genovese” (Napoli: Raimondiana); “De successionibus legitimis in urbe Neapolitana” (Napoli: Simoniana); “Nico Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio); Fulvio Tessitore, «Grimaldi e l'ineguaglianza». In: F. Tessitore, Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Roma: Edizioni di storia e letteratura, M. Tallarico, «CESTARI (Cestaro), Giuseppe». In Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. Crispini, Appartenenze illuministiche: i calabresi Francesco Saverio Salfi e Grimaldi, Cosenza: Klipper, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G. Boccanera, «Grimaldi In: E.Tipaldo, Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti, e de' contemporanei, compilata da letterati italiani di ogni provincia e pubblicata per cura del professore E. Tipaldo” (Venezia, Alvisopoli)’ Melchiorre Delfico, Elogio del marchese don Francescantonio Grimaldi dei signori di Messimeri, patrizio di Genova e assessore di Guerra e Marina, In Napoli: presso Vincenzo Orsino (ristampato in Opere complete di Delfico, a cura dei G. Pannella e L. Savorini,  ITeramo: Giovanni Fabbri). R. Ubbidiente, Il pensiero e l'opera di Domenico e Francescantonio Grimaldi. Tesi di Laurea in Filosofia italiana. Salerno. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dell’ineguaglianza degl’esseri organici. Dell ineguagliang? del [effe , 9 deir età degli ejferf organici . Della di/fimilitudine fifica , che vi è traglt nominile gli altri efferi organici, Dell' ineguaglianga fijica tra gli uomini . Dell' ineguaglianza della [enfìbìlità 3S» degli efferi organici . Deìr ineguaglianza della [enfibili- > tà tra gli uomini . Dell ineguaglianza delle facoltà intellettuali  Dell' ineguaglianza delle pajjio- Deir ineguaglianza della volontà . Principio generale intrinseco dell' ine- * , gli uomini Ji fono ritrovati dopo della generale inondavo- Uh cietà familiari. Delle Tribù de'Selvaggi. Delle Nazioni barbare.Delle Nazioni civili.  Dello Sviluppo delle facoltà intellettuali nelle Nazioni civili relativamente alle arti, ed al. /e fetente .  Dello Jviluppo delle pajjioni de- uomini ctvilt . . Della maniera come dicare dell’ homo morale nella civile focietà .  U"T^XEl? ineguaglianza naturale Della libertà , e della ferviti civile ;. De Governi . Della legge di Natura. Del diritto delle Genti. Del Diritto Civile. Della maniera come fi giudica da noi Vineguaglianza politica de*diritti e delle obbligazioni degli uomi-m ni .  Questa breve ricordatila dell’ illustre Cittadino, questo semplice monumento alla Memoria d’un Uomo ce- lebre nella Repubblica delle Lettere, questo esempio «i« • l*» ttttmalv m »!tX4 «m ITlUvl/1C ifflHllU tato dalla sincera e disinteressata amidkia. Possa egli contribui- re ad alleviare il dolore d’ una perdita nazionale , «ervire per ricordo di gratitudine a' concittadini , per motivo d’ imitazione agli Uomini di Lettere , e somministrare un modello a coloro che bramano di conservar nel loro cuore i più rispettabili sen- timenti , che istillar possono concordi la Natura e l’ Educazione!  Nascita , Grimaldi t 4*4 vi 44 ed 'TT'L nome Grimaldi contemporanco alla Storia Moderna d’ Eu- ^ * ** r0Pa ^ stat0 scmPrc fecondo d’ Eroi . Un ramo di que- sta illustre Famiglia si trovava da più secoli trapiantato in estraneo suolo , cioè, nella Città di Scminara in Calabria (<z) . Ivi da Pio Grimaldi , e Porzia Grimaldi nacque Francescan- tonìo (a) Le emigrazioni delle famiglie da uno Stato all'altro in Italia furono frequentissime nel XIII. e XIV. secolo, quando per la debolezza delle Costituzioni de’ Governi non regnavano le leg- gi , ma i partiti. Genova soffrì forse più lungamente che qualun- que altra Città d’ Italia queste politiche concussioni . I Grimaldi Guelfi di partito , ebbero de' tempi di disdetta ; ma non fu ni per disgrazia , ni per delitto , che Bartolomeo Grimaldi si spa trio . Figlio sccotiAoeenìio di Ranieri L Principe di Monaco , venne colle sue galee nelL 1309. in ajuto del Re Roberto a ri- acquistar la Sicilia , e formò il ramo de' Grimaldi Signori di Mes- sirneri. Per più d' un secolo , ciol , fino ai tempi di Giovanna II. essi st conservarono in grande stalo ; ma le non insolitejiccnde di famiglia, più frequenti ancora sotto quel Regno, ridussero i Grs maldi in più umile grado di fortune . Perdute le grandi ricchezze,' e ridottisi -in urta - Città- di Provincia , conobbero chi vi può « - sere una grandezza nella virtù , che forse frequenta più le pri- vate abitazioni , che quelle de' grandi • Piccola consolazione nel Cinsuperabile ineguaglianzal » -~-4» ionio (a) , che nel secolo XVI1L ha accresciuto nuovo lustro agli allori -de' suoi maggiori. L’ onestà , la virtù , e le lette- re , che avevano fatto sempre la principal caratteristica di questa Famiglia , fecero l'educazione di Colui che abbiamo per* duco. 11 di lui savio genitore , memore -di partecipare all* au- torità suprema d’ una Republica illustre , non conservava solo nel suo cuore le comuni doti d’ ordine degne d’ un membro di Senato Aristocratico t ma nato in una libera monarchia rico- nobbe altre più vere idee della virtù , che seppe imprimere nel- l’ animo di quelli a’ quali aveva dato 4' esistenza « Conobbe egli » » «he la severità della virtù passa agevolmente in difetto , quan- do non è accompagnata da quei sentimenti d’ umanità che devono costituire il benefico carattere dell’uonjo sociale ; e che questo perfezionamento della virtù non si acquista che colti- vando Jo spirito, e perfezionando la ragione. Per tal modo quel tavil>«tUirJatJ»***-!r»i.—i—— «<* *mi ri no que’ semi virtuosi , che vennero poi vigorosamente a germo- gliare. L’esempio stesso della di lui vita fu per esso una cont»* mua lezione di que’ doveri , che accompagnano l’ uomo ne’ suoi varj rapporti e. situazioni . Qual raro e piacevole spettacolo è in latti , il vedere un amico genitore occuparsi gradatamente a perfezionare l’ instabile e balbettante lingua de’ suoi fanciulli « condurli quindi alla conoscenza e varietà de’ linguaggi ; mo- (a) A' io. Maggio 1741. strar  «M vili H» Strar. loro ora l’ indole degl’ idiomi , ora le bellezze dello stile t ora la verità de’ fatti , ed ora quelle della ragione ! Questa fu la vera e rara educazione , che F. A. G. ebbe la sorte di go- dere. 11 solo padre fu il suo istitutore - Nato con una costituzione vigorosa , sana , e di sanguigno temperamento, ajutato da una educazione corrispondente svi- luppò prematuramente un carattere capace del grande . E sic- come sono le circostanze che determinano 1’ attività nostra a tale o tal’ altra direzione ; così le sue forze incapaci d’ un’ iner- zia vergognosa , presto si determinarono al laborioso migliora- mento delle facoltà intellettuali , che duplicano quasi la nostra esistenza , facendo sviluppare lo spirito e sublimando la ra- gione . Ciò che si chiama Corso di Stud) no» fu per esso , come co* illunemente esser suole , una serie di lezioni consuetudinarie , che invoco di mijlioi—• I— ,p!n»A non famin rVm dete* riorarlo . Egli studiò le scienze con quella vera attenzione , che meditando su le idee e verità conosciute vede sbucciarne delle nuova , e richiamando per i varj e necessarj rapporti mol te idee a quella che principalmente si medita , fa quasi sorgere * crea nuove verità , che altrimenti resterebbero in dubbio retaggio ai secoli futuri-. Un* anima cosi elevata da moltiplicità di cognizioni erra qual- che tempo nell’ immenso campo delle idee , ora seguitandone arditamente una serie , ora poggiando su le adire per sentirle quasi più da vicino j ma noa SÌ stabilisce finalmente e riposa Digitized by Google   che sopra quelle , che sono d’ un vantaggio dichiarato per t* nomo. • • La Morale scientifica e prattica no , non è per nostra sverrà tura un affar comune e volgare. £' il risultato di meditazioni profonde, di cognizioni moltiplici , di quantità di paragoni , chedopod’avernequasiformatouncorsod'esperienze, ritor- na alle cagioni e ne stabilisce i principj . E' la scienza dell» Felicità publica e privata : fi chiunque non è nuovo nelle scien- ze converrà facilmente che questa parte della Filosofia è egual- mente grande per l’ importar»»» •»» • p»r hi sue sublimità. Que- sta fu , non dirò la prescelta^* dal nostro Grimaldi , ma quella verso della quale egli fu trasportato dalla forza del suo inten- dimento combinata con quella del suo cuore. I primi saggi in- fatti del di lui spiritOi anche indirettamente, fecero subito rico-; noscerc quésta naturale inclinazione» Un* -11°— " ra o nell’ immenso caos delle sensazioni i principj di quell’ ar- monia generale , che donò il gusto del Bello ma fra le Belle Arti la Musica é forse la più vicina e la più dipendente da co» desti principj non ancora interamente rivelati dalla Natura : Perciò allor quando il cuore è più sensibile e l’anima più ar- monica è facile il trasporto al gusto musicale . 11 di lui savio educatore fin dalla prima infanzia profittò di questo stato pre- coce della sensibilità del suo allievo. Quindi seppe insinuargli fc fargli nascere il più sicuro senso dell’ordine, della proporzio- ne, e dell'armouia , coll’isiruirlo nei principj del Disegno , della a Pit- Digitized by Google   • fattura e della Musica . Non vedeva egli ancora qua! parta avessero queste istruzioni nell’ istituzione della virtù : onde seguitò lo studio della Musica per trasporto piuttosto che per ragione. Ma allorché le altre cognizioni cominciarono ad accu» snidarsi nel di lui spirito -* quando cominciò a travedere ( che la Musica non è solamente un’ arte , ma parte ancora delle scienze sublimi quando riconobbe gli effetti sicuri e necessar} , della Musica, e che i principi dell' armonia sono immediata- mente dettati della Natura , non si ritenne più su la semplice esecuzione , nè Sì contentò della sola parte imitatrice , ma vol- le esprimere le proprie idee , ie mflhagini, i sentimenti ; e ’l suo istromento rispose perfettamente alle domande . I suoi progress* furono in breve meravigliosi , giacché il gusto , 1* esattezza e i’ espressione vi si ravvisavano tanto nell inventare che neU’esegui- re . Per la perfezione meccanica dell’ arte si richiede un esercì* zio abituale C Continuo di , ma un taT-nt/. «OH fattO pCt rimanersi alle porte del tempio della gloria prende delle Belle Arti quella parte che serve al miglioramento della sensibilità , c trapassa ad altri più utili oggetti . Egli nondimeno , trasportato k veder tutto per un lato morale, avendo osservato colla scor- ta degli Antichi -che la Musica ha tante influenza sul cuore e sul costume , cioè sulla creazione di quei sentimenti fondamen- ti' , che caratterizzano gl’ individui e le nazioni , volle com- «nunicare al Pubblico le sue osservazioni, *i-»•«-*«...j j>*•t ** Sono secssoesaeeMieMfleM —* . > Ono esse contenute nella Lettera sopra la Musica alt Lo- Lettera sopt4 ^ HSK*> cruentissimo Signore Agostino Lomellini (a) . A quest' uo* no degno d’ eterna ricordanza volle il Grimaldi indrizzare I» sue idee , non solo perchè n’ era un giudice competentissimo ì ma per attestargli parzialmente quella stima, della quale L’ Euro» pa tutta r onorava . ' E‘ meraviglioso il vedere come il Grimaldi in questa operici ciuola abbia potuto combinare tanta abbondanza d’erudizione è di ricerche , « tante fona di wgtwaiMBta. — , . __ Egli vede la Musica come una parte- sublime dalla Filosofia } che ha contribuito all’ espansione della virtù , alla regolarità de' Governi , alla conservazione del costume > alla sublimazione de’ sentimenti più convenienti per 1’ uomo - Vede- che in altri tempi questa ch’era stata la miglioratrice degli animi, concorsi poi jJIk-Wo t» «rwwf! r i- eroe»a- j zioni dèlia sua sensibilità , attenuò quasi «1 indebolì finanche la fisica di lui costituzione. Tutti questi varj fenomeni sono dimostrativamente provati dalla Storia amica , e dalle memorie cd osservazioni de’ Filosofi contemporanei. La diversità degli e£* fotti pruova quelle delle cagioni , che il Filosofò ricerca » Eglg incomincia dal distinguere la Musica’ sotto tre forme : la prima " (à) In Napoli 1766. ""l! vx B2 * che» Digitized by Google   4-4 xii cte chiama Naturale , la «*rr>nda Armoniea voluttuosa, e la terza Armonica Filosofica . Per quanto siamo lontani dalla prima esistenza della specie ì pure siamo in istato di giudicare della sua Musica primitiva t perchè tuttavia esistente . Le impressioni delle passioni su 1’ or* ^ gauo vocale, la nascita degli accenti , la diversa prolusione di essi , la successione ora più stretta ora più larga degli stessi tuoni , o di pochi di essi ; ecco la prima Musica naturale e vocale . L' imitazione dei rumori fece nascere l’ istromentale ; e una e 1* altra semplice e monotona , 1’ una e V altra conservata, nel civ Aizzamento della Società e nel perfezionamento della Mu- sica , con questa differenza che quella restò sola presso le Na- zioni barbare , ma nelle Nazioni culte restò quasi per la parte barbara della Nazione. Quindi è che le cantilene volgari por- tano quasi dappertutto questo cara**ttere primitivo - La Musica Armonica voluttuosa pare «V»* non H.-hha essct distinta dall’ altra detta Filosofica , che per la qualità degli ef- fetti , poiché l’una e l'altra ànno bisogno di Filosofia nella com- posizione. Ma la prima sembra diretta a soddisfare più 1’ orga- no ecfj&itare le emozioni voluttuose , quanto 1’ altra lo è a far nascere de’ sentimenti cooperatori della virtù , affinan- do la sensibilità non per una più estesa facilitazione di sem- plici piaceri corporali^, ma per rendere la macchina e l’anima stessa armonica , onde sentire agevolmente 1’ Ordine , che deve essere la base delle virtù politiche ed il sostegno degli Stati. La Filosofia dunque della Musica dovrebbe consistere non solo nel- - lo Digitized by Google \  ,  lo stabilire una qualità di Musica assoluta , i cui effetti fossero» necessar e costanti , ma anche una relativa secondo il caratte- j re de’ popoli , che o si vogliono richiamare dalla corruzione , o avviare alla perfettibilità, e secondo l'indole o lo stato deità sensibilità lora Esaminando però U Storia, «cmlura-ch# qnesta Musica Filoso- fica abbia albergato poco sul Globo te più culte ne inno fatto più un oggetto di voluttà , che di —. costume. Questo però non toglie , che vi sia una verità di prit> cip), che si palesa negli .Atti. Lm virtù e "i- sentimenti che le producono, possono avere un’espressione degna di esse : ecco la Musica Filosofica. Questa forse era quella, «olla quale si can- tavano le antiche leggi, e le gesta degli Eroi ; questa, che det- tava i principi Morale, questa, che eccitava, i cuori all» gloria , e che nudriva 1’ amor sociale . Ecco perchè i più illu-. stri fondaifijà.delllumanitfc.|pci.Tl^., Al^nrio . oaio . Cadmo , Chirone furono tutti stimati inventori della Musica , non solo .perchè la Musica è l’emblema dell'armonia sociale, ma perchè ne è la conservatrice . Ecco perchè ancora, i Filosofi di primi ordine o fecero della Musica una parte della Filosofia, o la ca- ratterizzarono come uno dc^ più veri principi dell’ordine socia- le, che solo può conservare il costume e la costituzione degli Stati ; ed ecco infine perchè il nostro Autore si duole che in tanto gTado di miglioramento morale non si richiamila Musica ai suoi principi , e non si feccia del piacere una strada alla virtù. Che se lasciasi ancora d’ adoperarla con vista immediata al pubblico ... b«»e» j giacchi tutte le Nazioni   Vita £Ansal- do Grimaldi. <H xiv H» mesacenomessat>cs>08e»OB<-B>ogs>ocr>opge>saeg>«o«"»aag*»a tene , può frattanto essere di grandissimo utile agli individui * giacché non manca in parte di quegli effetti , che decisamente migliorano la nostra sensibilità. Cosi egli, ad esempio de’ Filosofi antichi , moralizzò quest' Oggetto , seguendo con ciò la più utile determinazione del suo spirito <e la migliore applicazione delle proprie cognizioni. L gradimento dell’ illustre Tìxdoge Lomellini fu grandissimo: Ie maggiore anche il piacer di vedere , che il nome Gri- maldi fuori del patrio suolo prometteva nuovo splendore alla Patria ed alla famiglia . La Republica di Genova già ammirava i talenti del nostro Grimaldi, quando dovett’essere più contenta nel vedere impegnata la di luì penna a dimostrar anche da lon- tano il più vero spirito patriotico , solo retaggio rimastogli dai tuoi antenati . Fu certamente 1’ effetto di questo sentimento » che 1’ impegnò a pubblicaro 1» Vita -4n**IJ* CrtrrutUi ^4) I Eroe della Patria e della famiglia. Chi legge questo libro par che non lo trovi corrispondente alla prima idea che dal titolo ne viene eccitata ; perchè poco vi si parla della vita d’Ansaldo. Sembrami però . che due fossero le mire principali dell'Autore , che ben rettificano la sua inten- zione . La prima di rilevare quelle qualità d' Ansaldo , che gli fanno meritare il titolo di Grande ; la seconda, di rischiarare di- . versi (a) in Napoli 1769. Digitized by Google   «H xv W versi punti importantissimi delia Storia politica di Genova e di segnare il carattere della sua vera Costituzione ed i principj veri e regolari della sua sussistenza. Quest' oggetto rientra tutto nella Storia d’ Ansaldo , non solo perchè esso fu il Restitutore della libertà e del decoro ma perchè in quel tempo si scosse- , ro più possentemente i cardini della Republkana libertà e si sta* •bill la insino allora di Stato è indivisa da quella dello Stato istesso . Non mancò dunque 1’ Autore se non tenne dietro a quelle particolarità che occupano ordinaria J. rwna <Wi Biografi, ma pensò di cs* •ere più utile col sostituire riflessioni s ed alle personalità, donde poi provenivano quelle vicende, che tenevano lo Stato in continua rivoluzione ; e per quale sue* cessione di disordini si giunse finalmente all’ordine, che tut- tora vi regna. E codesta, che interpolatamente contiene le gesta dell’ Eroe , fa la parte principale dell^Opera . Ma siccome la Sto* ria delle Republiche è stata sempre la vera miniera delle poli- tiche e morali osservazioni , cosi il nostro Autore non potè evi- tare quelle riflessioni che il corso della Storia naturalmente gli presentava . Esse sono opportunamente collocate , e formano quasi una «rie di tanti saggi Politici e Morali , ne’ quali ben- ché vacillante Aristocrazia . La storia dell' uomo interessanti a fatti di poco momento . Egli cosi ha divisa quest’ Opera quasi in due parti . Nel Testo si fa come' un quadro animato della Storia Po* litica di Genova' scritta da vero Filosofo cagioni agli effetti. Fa veder come la mancanza di Costituzio- ni e **88* 1.10 . metraggio , cioè, ravvicinando le  thè r uomo non sia risparmiato , poiché viene mostrato qual' è •chiavo delle passioni c delle circostanze, il Grimaldi non lascia d’ indicare nel tempo stesso quei doveri, che in. ogni circostanza •ono le leggi vere della condotta e della vita • Bisogna assolu- tamente leggere -quest’ Opera , che sotto semplice titolo contiene tante nobili idee , e che è impossibile di dettagliare in un cir- coscritto discorso . Torno per tanto all’oggetto principale, cioè, al Grande Ansaldo. Il titolo di Grande, che dall’ adulazione è stato consacrato ai distruttori deli’ Umanità, non si deve che ai^uoi Benefattori- La prima qualità per esser Grande è la Beneficenza. Ansaldo gene- roso , benefico, illuminato, coraggioso , sensibile meritò dunque questo titolo d'onore . Non ignoro che la grandezza consista nella quantità dell’azione, e nell’effètto: ed ecco ciocché si rea- lizzò in Ansaldo. Come uomo di Stato egli sostenne la Patria col vigore de’ suoi consigli, rolla sublimità de’ suoi talenti , colle ric- chezze ammassate dalla sua temperanza. Come semplice Cittadino, fu il benefattore di quanti potevano essere oggetti d’una illuminata beneficenza, cui non si contentò di esercitare nel ristretto tempo della sua durata , ma volle estendere all'avvenire e che anco- ra persiste . Non solo vivendo fece codest’ uomo il miglior uso delle sue ricchezze, ma fece che la sua volontà restasse perpe- tuamente benefica nella serie de’ secoli. Incominciò egli dal con- tribuirc i mezzi che perfezionando la Ragione perfezionano si- milmente la Morale , cioè , dal fare assegnamenti per **l*a publi- '-* ca istruzione , e stabili non solo delle Cattedre di Scienze , ma som- Digitized by Google   4-i xvii somministrò anche soccorsi a coloro che v’attendevano'. Egli non trascurò moderatamente i luoghi religiosi , gli ospedali ed altre fondazioni di pubblica pietà . Egli pensò da uomo libero e non da Aristocratico : volle che tutti partecipassero della sua beneficenza ; quindi non solo ebbe in mira le opere dan- neggiate dalle passate guerre , come la darsina , il porto , le mura , i ponti e i mulini , ma lasciò altre somme considerabili per le ordinarie spese della Republica ; liberò dai debiti Je ga- belle che già troppo aggravavano il popolo Genovese » nè gli Stessi agricoltori furono obbUacì nelle sue liberalità e benefi- cenze • • La pubblica beneficenza non gli chiuse però il cuore ad una più propria e particolare del suo nome e della sua famiglia . Le risoluzioni domestiche, si osservano più facilmente nel tem- po che quelle degli Stati . Ansaldo lo vide ; e considerò che della sorte . Quindi da gran politico pensando che , nelle Ari- stocrazie specialmente, dalla povertà de’ Nobili incomincia la corruzione , volle , per quanto potè , prevenire questi tristi ro- vesci della fortuna , formando nella sua Casa una quantità di beni , che potesse decorosamente mantenerla , e stabilendo per tutta la famiglia un Albergo che fosse atto a sostenere senza avvilimento Io splendor del cognome Fece de’ legati partico- larmente per i Grimaldi che attendessero alle lettere , con pen- sione che durava per anni otto : volle che le donzelle Grimaldi avessero nella loro collocazione un conveniente soccorso ; e nel- C le aeoaeeseueaaysa Digitized by Google   4 xviu >4* le annue liberalità che per i poveri stabili , volle che non fos- sero obbliati quelli del suo nome , che una rivoluzione sventu- rata poteva in questa classe collocare • Una cosi estesa e perpetua generosità , un uso cosi giusto delle ricchezze , una liberalità , che si propagava fino all'ultimo Cittadino » riunite a tutte le altre qualità che gareggiavano ad ornarlo fece dunque bea meritare ad Ansaldo il’ titolo di Gran- de : e più lo merita a’ giorni nostri quando un lusso distruggi- tore à estinto negli animi ogni sentimento di beneficenza. Ma se dall’ antica veneranda tomba alzasse il capo il Grande Ansaldo* forse esclamerebbe: O Patria, ingrata Patria, o Posteri più in- grati alla mia memoria ed ai miei sentimenti ! Io non feci delle mie ricchezze un Banco di Commercio, ma di Beneficenza Come V amministraste voi verso quella famiglia , che per virtù e per le circostanze diveniva la prediletta nella mia intenzione ? Voi nega- ste al vostro sangue , al vostro nome stesso quei soccorsi che lo Spirito di Patria , d' Umanità , di famiglia mi dettò contro i di- spettosi rovesci della Fortuna . Ah ! un nome illustre non ì che un tormento se è accompagnato dal bisogno L Ma sento da un cu- • po oscuro Chiostra ì teneri ed acuti accenti di cinque mie figlie , che rivolte all’ antica Patria ridamano i diritti di quel sangue che loro scorre nelle vene . Possano queste voci giugnere ai vostri cuori , ed onorarvi di meritata riconoscenza ! Genova , Grimaldi , calmate V ombra del vostro Benefattore -1 Il nostro Grimaldi fu veramente desiderato molto dalla Re- publica per onorarlo personalmente e promuoverlo alle su-- iy pren>£ Digitized by Google   «H x*x preme Magistrature ben meritate da’ suoi talenti e dalla sua virtù ; ma lé circostanze Napoletano non gli permisero d’ accettare il meritato invito si contentò di farsi più denza colla Filosofìa , e l’esercizio di essa con quello della virtù. ta la Filosofìa par che debba zione, cioè in tutti i rapporti degli individui fra loro e verso , di famiglia e I» applicazione al Foro e desiderare, dando a conoscere con diversi Responsi ch’egli aveva saputo combinare la sublime Giurispru- yjjpRapasserò intanto leggiermente su questa professione, eh* per qualche tempo ei volle esercitare. Chi considera in1 Avvoca^a - Trattato Le- * astratto la qualità di Cù,reconsulto una migliore applicazione de’talenti , per che non possa vedere nella Società dove vive. Tut- servire a questo primo oggetto so-« ciale . La conoscenza del Giusto in tutta ì immensa sua esten- tutti gli oggetti coi quali sono in relazione , è I’ apice delle umano ragiuuom_ 1-oaàc—o» .do!-«wo-Adwry, applicarvi le verità di dritto è la più nobile operazione come ritrovar più i principj d’ una tranquilla della Ragione. Ma multuose bolge del nostro Foro, ed in no? Quasi ognuno conviene della deficienza delle nostre leggi della Giustizia , e della perniciosa mancanza d una vera Approvazione nei Giusdicenti e dei difetti esistenti nell* amministrazione nei Giureconsulti; e, per un effetto di vera dono di questi mali c gli altri ne profittano. Quindi si moltipli- cano all’infinito gli attori di questa scena tragica per la società e per la Morale ; e questo malore contribuisce sempre più alla C a dete*. ragione fra le tu- quel vertiginoso frastuo- corruzione, i più ri- .  «H xx deteriorazione del costume ed all’ affogamento de’ talenti , che nella loro freschezza rivolgono facilmente , come le piante , le radici a quella parte ove più abbondantemente possono succiare gli umori nutritivi 11 Grimaldi cautamente portò il piede su le sponde di code- ito baratro pericoloso . Senza immergevi nel bujo , vedeva dal- la circonferenza a quali limiti bisognava rimancrfe . Non cupido d’una gloria efimera e fugace, non avido di que’ lucri, che di rado sono il premio della virtù e del valore , egli si contentò dell’ approvazione della Ragione piuttosto che di quella del vol- go ammiratore Se alcuno volesse dubitare , che si ritenesse in tali limiti per mancanza di convenevoli talenti , l'Opera legale che egli ancor giovine molto dettò , potrebbe facilmente sincerarlo . Nell’ e- là di soli ventiquattro anni egli publicò il libro Dt Succ(s- sionihus legitimis in urhr Nfapolir.ina (a) - Qual differenza fra questa e tante altre Opere legali uscite dal nostro Foro , che I opprimono il buon senso ed oscurano la Ragione ! Tutte le co- gnizioni antecedenti , necessarie a formare non dirò un Giure- consultomaunLegislatore, nonmancavanogiàalGrimaldiin età cosi giovanile. La Storia e la Filosofia erano cosi amalga- mate nel di lui spirito , che la conoscenza prattica e teorica dell’ Uomo e delle società gli era sempre presente per conoscere ( ) lo Napoli 1766. le Digitized by Google   le cause delle sue idee e de* suoi movimenti , e per ravvisare quali fossero i piti convenevoli alla sua destinazione. Egli dun- que vide la materia delle successioni legittime come provenien- te dai primi dritti della Natura realizzati nelle società collo sta- bilimeuto della proprietà e dei dominj . Dimostrò come lo staro della legislazione civile d' una nazione siegua la sua politica Costituzione ; e quindi in uno stesso popolo la differente ma- niera di considerare gli stessi oggetti, secondocchè i rapporti si alteravano. Venendo al suo oggetto, cercò rapidamente 1’ origi- ne deile Consuetudini N«potetene' te rapporto alle successioni nell’ antico stato Uepublicano di questa Città , nell’ analogia di governo colle altre Greche Republiche , e con una felice e nuo- va applicazione ne trovò la filiazione nelle leggi dì Solone . L’ erudizione sparsa in queste ricerche è ampia , ma non lussu- reggiante ; e cosi procede nel resto dell'esame, cioè nel mostrare quale fu quecta pwrt* «talli cibilo JcgreUxione net 'SUCCOSsivi cambiamenti della Romana Repubiica . L’Aristocrazia espressa tutta nella legislazione decemvirale fissò le agnazioni, e l’esclu- sione delle donne , avendo in mira la conservazione e perpetui- tà delle famiglie Aristocratiche . I progressi alla Democrazia , ne- - cessario frutto dell interno vigore dello Stato , che liberò i beni dalla schiavitù , che sciolse gli individui dalla dipendenza dell’ opinione e della servitù personale; che strappò il codice arbitra- rio dalle mani sacerdotali , cangiò anche questa parte di legis- lazione : e le donne furono riguardate come parte della specie e della Società . Tutto cangiò coi cangiamento del Governo ; e si   serbarono i nomi mentre le cose non erano più . Le forinole e le solennità de’ Giudiy , che costituiscono fino ad un certo ter- mine la libertà civile , cederono a quelli detti impropriamente di Buonafede, chesembranopiùconvenientiadunGovernome- no complicato , facendo strada a quell’ arbitraggio che è la . , morte della Civile libertà . Le alterazioni in questa parte della legislazione .si fecero insensibilmente sotto gl' Imperadori fino a quelli , che con nuova Religione portarono nuove leggi sul Tro n no. Ma qui non è luogo di seguire 1’ Autore in tutta la serifc. istruttiva delle tante idee utili e nuove , che s’ incontrano ad ogni passo della sua Opera . Tocca ai profondi Giureconsulti il giudicarne con dettaglio » e far vedere qual precisione e chia- rezza egli seppe portare nel pii oscuro legale labirinto, quan- te cognizioni seppe nobilmente combinare alla dilucidazione del suo oggetto , e quale vera utilità debba produrre la di lui Opera non solo nel giudicare , ma nel riformare questa importante par-» .te delle nostra legislazione* Asciò noudimcno 11 G,!malcl‘ <*’ immergersi nelle cure del gene. JSL*Foro, nonriguardandolocomeoggetto, chedovessein- tieramente assorbire il prezioso tempo delle sue applicazioni , ed assoggettare il fervore de’ suoi tajpnti e la forza del suo spirito attirato da oggetti più sublimi e più generali . Restò egli per alcuni anni nel silenzio, ma non nel riposo , poiché l’ attitudine formatasi allo studio ed alla meditazione tira il stato di piacere iella sua anima vigorosa, che quindi sentiva il più vero bisogno di Vita di Dio- ‘TìT   •H XXXIII K- di pascersi e nudassi d’ idee e sentimenti analoghi al stio ca- rattere deciso. Questo vigore di sensibilità , che sempre accom- pagna i talenti superiori perchè li crea , non permette che lo spirito resti confinato dalla stretta circonferenza delle idee e delle virtù comuni • Sorse quindi quel sentimento di perfezione unico scopo del Genio e della Virtù , che fermentando nelle a- nime sublimi tenta tutte le vie per aprirsi la strada all’ utile Gloria ed alla verità . V" Nella vecchia Storia della Filosofia cioè de’ progressi della , Ragione e degli errori , vide I! Grimaldi i grandi sforzi degli amichi Filosofi, che non più contenti d'una Morale di prover- bj , parabole e sentenze , si studiarono di ridurla a princlpj ge- nerali che potessero condurre 1* uomo In tutto 1’ uso della vi- ta . Ma esaminando particolarmente la dottrina e condotta loro, vide quanto è difficile una lunga Epoca della Ragione . Trovò nondimeno fra quegl» antichi Istitutori e maèstri dBTMorale un Filosofo che fissò tutta la sua attenzione ; e questi fu Diogene del quale volle scrivere la vita . (<r) k Credè alcuno , eh’ egli imprendesse quasi per giuoco , si, fatto assunto t ma chi ha letto questo nobile opuscolo , può giudicare della verità della sua intenzione. Egli fece vede- re in Diogene non quel Cinico descrittoci da Laerzio , non quell' impudente che ci dipinsero gli altri , nè quello stravagan- te • '^''•'' _,i (a) in Napoli 1777. ,   le che*corrimunemente è creduto.' ;.ma provò ad evidenza che quel Filosofo fu il più conscguente r giacché le azioni .corrispo- sero sempre alla sua dottrina : e codesta era la più vera , la più utile , la più giusta che fosse ' •* dettata insind allora . Sinope , Corinto ed altre Città ono la memoria di quell’ illustre uomo coi bronzi e con 1 marmi , ma non poterono salvar la di lui fama presso l’invida posterità . Grimaldi nel Se- colo XVIII. rinnalza Diogene su i monumenti erettigli da' suoi compatrioti e diviene il Restitutore della di lui fama , e della di lui virtù . La Morale di Socrate era divenuta puramente nominale , quando a Diogene sorse il talento di reintegrarla ad uso dell’ umanità . 1! principio della Morale prattica par che consista nella facilitazione della Virtù . Non basta il dipingerne le bellez- Iezze , l’ indicar^ le attrattive , ravvivarne il quadro col più vago colorito , se pei ci sì mostra divisa ed isolata dall' insor- montabile vallo del dolore . Diogene volle dimostrare , che que- sto divisorio è d'invenzione umana, è creato nella Società , e che bisogna perciò ravvicinarsi alla Natura. Questa vera osservazione gl’ indicò la Temperanza per un principio fondamentale della Virtù . La Temperanza non è un’ dea assoluta : essa ha una gradazione dì beni da un estremo ali’ altro della 'sua lùtea . L’ uomo , questo animale privilegiato , che può vivere in tutti i climi e nudarsi di tutti gli alimenti , ha più facilità alla sussistenza . E dunque un effetto dell’Educa- zione quello che gli dà quantità di bispgjù , che non vengono dalla Digitized by Google   . ^xxv^4» - «aaBeMecSeaooeoeeseaaoosMsaeeseeeiMjeBft dalla Natura . L’ uomo diviene cosi un aggregato di bisogni 6 di desìdeij,che accrescono m ragion diretta la sua sensibilità al dolore, senta proporzione relativa al piacere ed alla felicità . Se questo spiacevole accrescimento di sensibilità è effetto dell’ edu- cazione , esso è opera dell’uomo , è di creazione sociale; vi è dun. » que tutta la possibilità d’ abolirlo . Si può essere decentemente coperto d’un Pallio senza infelicitarsi per non avere in dosso le gemme ed i preziosi metalli ; si può vivere bene e sano senza esser velato dalle leggerissime spoglie dell' Oriente o soffogato sotto i rarissimi velli del Settentrione : e , se dell’aria comune la più respirabile è la più libera , si può vivere, e meglio, sen- ta le stanze ermeticamente chiuse , senza che sieno ricca- mente foderate , e senza richiamar tutte le arti e tutti i climi ad estenuarci ed estinguerci nella mollezza • Tutte le eccedenti ricchezze s'acquistarono forse alle spese della virtù; aveva dun- que egli regione di veder I» Temperanza come la base princi- pale di essa- Ma se per la Vmù è necessaria quella tal disposizione abi- tuale dell’ animo che si chiama Tranquillità , questa è simil- mente figlia della Temperanza: L’animo distratto dalle passioni disanaloghe alla natura dell’ uomo , cioè non tranquillo , non può essere virtuoso . Diogene non diceva: „ fatti del dolore la strada alla virtù tristo comando alla Natura umana - Non diceva : „ divieni apa- to ed insensibile „ altro precetto peggiore e non conducente alla perfezione morale- Diceva solo: „sii temperante che sarai tran- D quii-   . 4^ xxvi >4* jquillo , ed essendo l’ uno , -e 1* altro puoi essere virtuoso . „ Finché 1’ uomo è distratto da sensazioni vaghe « immerso ne’ desiderj , lacerato dalle passioni non sentirà che se stesso ; ma quando nè i bisogni , nè le idee, nè le immaginazioni tumultua» rie Io tormentano , egli deve essere necessariamente benefico , cioè , virtuoso . Se le ricchezze fossero sempre necessarie all’ esercizio della beneficenza , la virtù sarebbe solo riposta nell’ uso de’ metalli , ed il non ricco non potrebb’ 'essere giammai Virtuoso . La virtù , nel sistema di Diogene, non doveva essere Un fantasma dell’ immaginazione , un’ astrazione per alimenta- re le dispute de’ Moralisti; ma bensì il partaggio dell’ Umanità» il vero sistema della beneficenza universale • Se la virtù è nell’ azione , e quest* azione dev’ essere facile , equabile , pronta * Diogene voleva render l’uomo libero dagli inutili ceppi fabbri- cati a se stesso, per renderlo attivo , benefico , virtuoso . Uno aguardo anche passaggiero su la Morale esistente prova la ve- rità e la profondità delle Ciniche osservazioni Qual era diuresi Ja serie ragionata e conseguente delle idee morali di Diogene ? Temperanza , indipendenza , libertà , tran- quillità , beneficenza ; virtù tutte nascenti 1’ una dall’ altra • tutte conducenti per la più agevole strada alla meta della Morale • La Vita di Diogene non ismentì i di lui principj . Egli visse libero , tranquillo e contento , cioè virtuoso e felice . Apostolo della vtréi e della virtù , egli non fece che predicarle . Un Re «d un llot^ erano eguali agli occhi di lui : la verità e la virtù fa-  xxvii $4* ess<se-e»eoes>eoe^oe<==yat=sor=>oot=r»-sot=xì eeyecaìtjesa faceva egualmente il loro bisogno . Diogene rispettava le leg- gi e la pubblica Autorità da vero Filosofo , cioè , approvan- do quelle che erano dirette al pubblico bene , ed indiziando quelle che mancavano di questo fine . Venerava la Religione ; ma ne abominava l’ intolleranza e l’ abuso , che conduce sem- pre alia superstizione. Rideva di quei tanti Impostori, che anche ia q-v «empi sotto vario manto e varie regole dividevansi il culto e le sostanze de’ divoti . Si vuole che dissuadesse e disap- provasse il vincolo conjugale ; ma come fargliene un delitto ? Che altro vedeva egli nelle Società de’ suoi tempi che la trista alternativa di nobili , e plebei , di ricchi e miserabili , di ti- ranni e di schiavi ? Un Filosofo non può amare la moltip li- catione e la riproduzione di queste razze degenerate dallo sta- to pteseritto loro dalla Natura. Diogene non morì, come Socrate, martire della Verità e della Virtù : egli ritornò nel seno della Natura così spontaneamente come n’ era uscito . La distruzione e la riproduzione dei corpi organizzati è nelle sue immutabili e costami leggi , che non «paventano il Filosofo , il contemplatore della Natura , l’ amico della Ragione. La vita di Diogene rettificata da una etilica imparziale c» mostra un modello di vera vita virtuosa in tutte le circostanze e situazioni . Non fu dunque nè per giuoco , nè per gloria per vanità che il Grimaldi imprese a dettagliarne le azioni e la dottrina , ma per rendere un giusto tributo a quel Filosofo cui ayeva cercato d’ imitare > o per partecipare al pubblico un vero D a fiJCh , nè Digitized by Google   xxvm ^ tJtis»oe«cM»eé<Jsae«^Qee=»oeH=>ee^eg=aem^->gceg»oogrg>r'e)gac modello di filosofica virtù. Egli si dichiara in più luoghi della sua Opera , che Io stato attuale delle Società non comportereb- be una vita esteriore come quella di Diogene propone come un modello, al quale quanto più l’uomo s’accosta., più s’avvicina alla perfezione . Non altrimenti fece Grimaldi . Le virtù di Diogene furono le sue. Ne chiamo in testimonio gli amici, che lo anno veduto in tutti i punti della sua vita . La tempe- ranza de’ suoi desideri , la tranquillità dell’ animo suo , la veri- tà e la sincerità de’ suoi sentimenti , la libertà del suo spirito , il coraggio e l’ amore per la verità , la tolleranza de’mali , 1’ ar- mor della Pubblica Beneficenza , il sentimento costante de' do- veri, e tutto condito ed addolcito da una sensibilità purificata, lo resero rispettabile come Diogene , ma più amabile , perchè seppe combinare i principj e 1’ uso della Virtù, con tutta la de- cenza della vita sociale, e coll'esercizio di quelle funzioni e do- veri, che formavano la sua civile esistenza Riflessioni so- FOn sono certamente le idee astratte e le sublimi nozioni, pra rInegua- glianza. che possono far meritare il. titolo rispettabile di Filoso- fa . Se la virtù non è posta in azione , se le grandi idee non diventano di qualche uso , se la fiaccola s’ asconde sotto il moggio , non solo si è in colpa , ma si è reo di lesa umanità. colpa che meriterebbe maggior castigo chel disprezzo e i’obblio. Sentiva Grimaldi nel più vivo dell’animo questa verità, e per- ciò veggiamo come la sua vita fu ima continua serie di me- ditazioni e d’azioni tutte coordinate allo stesso fine di migliorar se . ; ma che egli lo  se stesso , e di essere utile agli altri Quindi i suoi non inter- . rotti srudj e le continue meditazioni lo condussero alle più estese cognizioni e alle più utili che si possano acquistare Or quando lo spirito è abbondantemente nudrito d’ idee e di cognizioni varie, quando è gu lungamente abituato al difficile esercizio di molti e conseguenti raziocinj , quando codesti sono specialmente diretti verso qualche oggetto particolare , che per- ciò divicu dominante : l’animo prova una certa inquietezza e quasi un’ oppressione da questa folla di pensieri , e par che sia costretto a liberarsene . Chiunque ha scritto sopra qualche og- getto particolare e lungamente meditato , ha dovuto provare in se questo sentimento penoso . Quindi la volgare espressione dà chiamare le opere parti dello tpirin , non manca di una ve- rità nella sua origine;- ma non tutti i parti sono regolari . Ho indicato antecedentemente la predilezione che il Grimaldi ebbe sempre per le idee morali , e la facilità che aveva di ri- chiamarle ai principi pid sublimi, e di renderle più attive e fe- conde : ma dopo d’avere per più lungo tempo estese le sue ap- plicazioni su tali oggetti li vide in tutta 1’ ampiezza della qua- le sono capaci , e fra tanti fenomeni Morali che presenta la So- cìtà , fu specialmente colpito da quello , che stende il suo do- minio su tutti i punti dall’ esistenza , dico della Morale Ine guagliania A tutti sono note le riflessioni che l’ eloquente Gian-^iacomo portò su questo punto; ma la ragione trasportata dall’entusias- mo lasciò de’ gran ruoti fra le idee principali , balzò agl! estro-  .,  44 xxx >4» estremi obbliando le idee intermedie e necessarie, guardò 1' og- getto lateralmente > e quindi fra molte vere e nobili osservazio- ni ci presentò de’ paradossi in luogo di tranquilli ragionamenti ed utili risultati . Vide intanto il Grimaldi di quale utile fosse il ritornare solidamente a quest’ oggetto > che è quasi la base del- la Morale e della Politica . Prescélse quindi un campestre ed isolato soggiorno ; e lungi da ogni distrazione , irapenetrabile anche agli amici ed alla famiglia , concentrato lo spirito in que- sta idea principale , impetrava dalla Natura la rivelazione delle verità più utili all’ uomo . In codesto stato egli delineò il piano delle sue Riflessioni sopra VIneguaglianza tra gli uomi- ni (<*) Le sue prime considerazioni gli scoprirono , che la base dell* Ineguaglianza è nella Natura . L* Ineguaglianza Fisica la generatrice delle altre: è dunque legata ad un ordine: è per conseguenza una legge immutabile ed eterna . Le stesse ricerche preliminari, che fa su questo punto, portano f espresso carattere della novità . Colla più seria attenzione poi assottiglia il suo Sguardo per penetrare nei più complicati recessi di quest’ Esse- re sublimemente organizzato , che si chiama Uomo - I più te- nui rapporti non sono negletti; e combina una maravigliosa mol- tiplichi di cognizioni per farsi strada all’ oggetto . La Fisica la Fisiologia , la Storia Naturale , quella particolare dell’ uomo 00 In Napoli 1779-80. è perciò e delle Società , tutto è da esso ordinatamente richiamato a dare il risultato , che si era proposto , cioè , a far conoscere 1* essenza reale di questo composto meraviglioso. Incominciando dal punto principale , cioè, dall’ Ineguaglian- za generale degli esseri organizzati , passa all’ esame particolare della Ineguaglianza che nasce dalla diversa destinazione degl'ìnr dividui della stessa specie . Osserva , che la differenza sessuale si va distinguendo a poco a poco dagli esseri più semplici 9 meno complicati fino ai più composti e perfetti . Che questa differenza porta per necessiti di natura una Ineguaglianza di- stintissima nel temperamento, nella forza , nel carattere , nelle passioni , ed in tutto ciò che si chiama meccanismo e sensi-* biliti. ......, _tv-:• ' Si trattiene poi ad osservare la dissomiglianza in ge^qfgjp» degli esseri organizzati; e riducendo questo paragonerai ferenza che vf ha fra IV m+eeanlSrtto delTwnno <fJ»!f$..rR|ljl'* altri corpi organici ', rileva qual sia l’essenza fisica pbitós’' aefc. la spezie umana • Si apre quindi la strada ad esaminéft * geograficamente le differenze, e quindi 1’ Ineguag(^|5- de’ P|po- li e delle Nazioni. Egli scorre con abbondante." -ed adatyy^fcrvp. . dizione la superficie tutta del Globo , indicando le cagioni pria- cipali e le concause , che rendono gli esseri delIiL stessa specie tanto dissimili gli uni dagli altri , e come questa dissomigliati? za fìsica porti nel tempo la morale . Ha riflettuto e dimostra^', che la sola differenza di climi non poteva-produrre questo tv* levantissimo effetto, ma che la situazione locale, la quali$ -delP^- ’-;' ’,aria , , . * • Digitized by Google   xxxii >4 •ria > le maniere diverse di vivere , di nudrirsi , d' abiure vi concorrono necessariamente , e sono forse cause ed effetti nel tempo stesso . La Natura ha prescritto dappertutto la legge dell* Ineguaglianza . Gli uomini sono ineguali, come le piante della •tessa spezie in diverso dima ed in diverso suolo, e come diffe- renti sqno ancora gli alberi della stessa selva . Le cagioni sono qualche volta impercettibili, ma gli effetti ne manifestano resi- stenza . Da questa Ineguaglianza più apparente , par che divenga una Conseguenza necessaria quella della Sensibilità . Nel tempo ster- eo che 1’ Autore sbandisce la Metafisica delle Scuole , tratta i più malagevoli e spinosi punti della Psicologia , e combattendo ora i sistemi ora le ipotesi e le sottigliezze , si fa strada alla Realità , . Per una lunga serie di osservazioni egli gradatamente giunge a stabilire ; Chi la sensibilità negli esseri organici siegue i gradi dfl loro meccanismo ; e che la differenza che vi è fra il tertiro dell' uomo e quello degli altri animali cossituisce la ca- -tatteristica essenziale della nostra seusibiihd paragonata colla ion • • / Che che ne sia della sensibilità assolutaci sonode’corpi più « meno conduttori , ma il più d’ ogni altro è 1* uomo . L’ esame particolare degli organi de’ nostri sensi , paragonati con quelli degli altri esseri sensibili, ne compruova maggiormente 1' assun- to , che anche più resta dilucidato colla dichiarazione di ciò -che si chiama Senso interno , punto centrale della sensibilità e *. *he par che segua la gradazione dd meccanismo e della sen- sibi- * Digitized by Google  .  xxxili >4* eoofesamjwegWBesaoexeBui-^BeSeeeaeeeaaetja sibiliti istessa . Ciocché 1’ Autore ha ridotto nel cap. V. della prima Parte basterebbe per fare un’Opera illustre. L’esame che egli fa della sensibilità , riducendola quasi agli elementi primitivi che la formano e la generano , dimostra che essa non può essere eguale fra gli uomini ; e rileva la dispia-» cevole verità , che il tuono fondamentale della sensibilità è il dolore : tristo partaggio di quest’ essere , di cui divien prin- cipio di moto , e di sviluppo d’ attività in tutu 1’ esten- sione . 1 Alla sensibilità sicgue ì* intelligenza come l’effetto alla causa e che per conseguenza deve portar 1* istesso carattere della sua genitrice. Questa è forse l' Ineguaglianza la piò espressa fra gli uomini ; ma a dir vero la meno fastidiosa . I piaceri dell’ intel- ligenza sublime non s’ acquistano forse che alle spese dell' esi- stenza e della vita. Ne fu un esempio funesto il nostro Gri- maldi medesimo Dalla sensibilità e dall’ intelligenza risultano le passioni e no portano il carattere . Chi non ne vede continuamente l' Inegua- glianza? Due illustri Moralisti Francesi , due nomi immortali per i progressi dalla Filosofia , Montesquieu ed Helvetius , so- stennero le cause uniche delle differenze generali fra gli uomi- ni , 1’ uno rapportando tutto alle cause fisiche , 1’ altro alle morali ; ma 1' amor del Sistema nascose alla loro vista la chia- ra verità che rivela la Natura. Se la sensibilità e 1’ intelligenza fanno nascere le passioni sono queste che determinano la volontà. Tutto dunque è Ine- E gua- Digitized by.Google  .  xxxiv eoaeejeBeaseesaeesoeeBeeaaeaoiyaeo >aiicjaL<ju< quagliatila ; dai primi composti fisici fino ai più sublimi risul- tati morali, tutto siegue questa legge eterna ed inevitabile della llatura . Lo stato d Ineguaglianza morale, cioè dell' uomo come essere pensante, è estesamente sviluppato nel secondo Tomo di codest’ Opera, dimostrandovisi che questa Ineguaglianza è in ragion composta delle facoltà intellettuali dipendenti dai meccanismo particolare degl' individui, e dalle cause esteriori , che più o meno si combinano o si coordinano a svilupparla. L’ Uomo è in relazione con tutti gli esseri che lo circonda- no . Ogni sensazione o piacevole o dolorosa fa una parte della sua vita o della sua esistenza ; e questo è nell’ ordine eterno della Natura , perchè i rapporti degli oggetti fra di essi e con f Uomo sono figli di quella Essenza delle cose , che forse la Natura ci ha velata per sempre ; ma sono quindi necessari co- me la loro stessa esistenza. , La sensibilità è il mezzo che lega V uomo agli altri esseri : Questa facoltà che si estende, si nobilita, si sublima , à dun- que varj gradi relativi a se stessa ed agli effetti che la percuo- tono . Quindi la diversità de’ bisogni e quindi delle percezioni » delle idee c dei sentimenti, che colle necessarie attenzioni svi- luppano le intellettuali facoltà . Ora essendo riconosciuta 1 ine- guaglianza della sensibilità dipendente dalla differenza del parti- colar meccanismo , zie siegue necessariamente , che le impressio- ni degli oggetti esteriori non sieno neppur simili ed eguali ne- gli individui . Ed ecco come la diversità di bisogni e di desi- deri , ' Digitized by Google  .  xxxv derj, che forma l' ineguaglianza morale fra gli uomini contemporaneamente questo principio d’ineguaglianza nella Na- tura stessa , cioè , nei bisogni relativi alla sensibilità di ciascun individuo . Chiunque non vede altro nell’ Uomo in ultima analisi che il Sentimento e V Espressione ravviserà in un colpo la ve- , rità di fatto delle idee dell' Autpre . Stabiliti tali principi , egli rileva primamente colle più giuste osservazioni che 1 indicazione dell’ Uomo Naturale è un’ inven- zione gratuita ed erronea è sempre lo stesso, e allorché diversifica per le circostanze, sono anche codeste naturali , cioè, nell’ordine della Natura che l’Uo- ; raononàuncaratterease, maquellocheè loèperlasi- tuazione relativa alle circostanze giacché in esso vi è altro ,, che la sensibilità modificabile dalle cahse esterne , e circoscrit- ta dalla forza del meccanismo di ciascun individuo. Che quia- di Io stato morale di ciascun individuo i relativo alle circo- stanze sociali combinate con quelle , che sorgono dalla propria sensibilità Con questi principj si apre la strada all’ esame morale deU’ uomo . Egli lo sottopone all’ esperienza , non come un semplice Fisico farebbe, ma come il Chimico più esperto e sensato, sottopo- nendolo all’ operazione di diversi agenti , analizzandolo , ricom- ponendolo , e combinandolo , per vedere in quale stato possa dare più felici risultati , risultati che caratterizzino la differenza e 1’ Ineguaglianza morale degli uomini e delle Società . L’ Uomo solitario è 1’ oggetto di queste sperienze esposto alla E a sciti— dei Filosofi ; perchè l’uomo per Natura , stabilisce  ocsfleesaoejeeoooeaooesocsocBooeaooeaoee'Mtoo semplice vista ; ma nella Società egli è messo ad un vero ci- mento, giacché ivi siscuoprono i varj gradi di rapporti, di affi- nità, di coesione Scc. su i quali si può misurare la sua moralità. Dopo d’ aver considerato che i rapporti dell’ Uomo solitario sono quasi negativi giacché sente appena i bisogni d’una sus- , sistenza che non conosce , per passare a considerarlo nello sta- to <Ii Società, riflette primamente , che la sociabilità è un» qua- lità essenziale dell' uomo ; cosa dimostrabile per ragionamenti se non fosse una verità comune , continua e coesistente colla stessa Umanità. Le Società anno intanto diversi gradi alla per- fezione . Il minimo par che lo conosciamo : ma il massimo , se vi può essere per 1’ uomo , sarà riserbato ad epoche più felici . Ma come tutti questi immaginabili gradi di perfettibilità sociale mettono i componenti in 'rapporti e circostanze diverse , cosi la sensibilità e la morale saranno del pari differenti . Gli uomini posti vicino alle catastrofi del Globo dovettero avere de’ senti- menti proprj ad essi , che nelle prime società di famiglia dovet- tero provare cangiamento ed alterazione . Lo stesso dovè acca- dere quando le famiglie cominciarono a moltiplicarsi , e la gran selva della Terra a popolarsi di selvaggi , e poi per successivi e varj gradi prevenire allo stato di barbarie ancor molto esteso e vergognoso per la specie . Tutti questi lenti passi dell’ umana perfettibilità sono partico- larmente osservati dall'Autore , sempre riportando tutto ai suoi principi , e facendo vedere come naturalmente ne discendano . La gradazione de* bisogni porta quella delle idee e de’ rapporti, dal- Digitized by Google   xxxvir .1 KiueBeteaaoeaeoeeaaoc ^>3frC-»o ccS3g>uce:!>o ysra& dell affinamento della sensibilità , dello sviluppo delle facoltà in- tellettuali. dell attività dello spirito, e finalmente della riflessio- ne . figlia necessaria di quell'olio , che susseguendo ai bisogni soddisfatti > ne vede o immagina gradatamente de' nuovi . In qnesy varj stati, per i quali passa 1' uomo, egli (à vedere come nascano l' indipendenza e la libertà , come si alterino e si per- dano, e come i sentimenti morali cangino d’aspetto al cambiarsi dei rapporti e delle circostanze. In somma egli fa la Storia mo- rale della specie , se non comprovata da documenti che devono mancare , almeno qual doveva essere per necessità di Natura- Scorsa cosi la Storia oscura dell Umanità, dove sempre l' Ine- guaglianza domina e campeggia , perviene finalmente allo stato di luce , all’ epoca della Società civilizzata ed ingentilita . E’ permesso al Poeta ed all' Uomo fortemente appassionato di riso- spirare le selve al centro del vortice sodale , come è loro per- messo di evocar le Ombre e le Furie , che io guidino nel per- petuo albergo dell’obblio . Ma il tranquillo Filosofo , compassio- nando gli eccessi della sensibilità e della immaginazione, richia- ma 1’ uomo ai suoi doveri rimostrandogli le beneficenze della vita sociale • Quando si considerano le Società civilizzate , e la perfettibilità della quale sono capaci , bisogna aver lo spirito falso per abborrirle , o per preferire ad esse uno stato naturale, che non esistè giammai in Natura. Nelle Società solamente si svi* luppano le facoltà morali ed intellettuali deli* Uomo : è dunque in esse che si purifica o si perfeziona la specie. Diogene vole- va ravvicinar 1' Uomo alla Natura , non col degradarlo mino- rando   XXXVIII H* »ando la sua esistenza , ma colla virtù accrescendola e miglio- randola ; e questa non è anch’ essa il più nobile ramo dell al- bero sociale ? E’ vero che nella Società si sviluppa e manifesta maggiormen- te 1’ inegu3gliania morale ; ma in che altro consiste essa che nei gradi di miglioramento del carattere e dei sentimenti degl individui ! E se anche le circostanze sociali portano delle catti- ve abitudini, che altrimenti non esisterebbero, codeste sono mo- derate e ritenute dalle leggi conservatrici . Ma questo rientra nell’esame dell’ ineguaglianza politica, che 6 1‘ oggetto della Ter- za Parte. Qual infinita differenza fra 1 selvaggio e 1 uomo civile ! E' la crisalide trasformata in farfalla . Questa metamorfosi , eh’ è un miracolo agli occhi volgari , non è che un naturale svilup- po a quelli dell' attento Naturalista . Tale è 1’ uomo sodale per chi medita la Natura umana . Ma qual differenza ancora nel seno stesso della Società ! Nel massimo della civilitazione si trova spesso lo stolto selvaggio ed il barbaro feroce , 1’ uomo di genio e lo stupido , il virtuoso Filosofo , 1 imbecille supersti- zioso , 1‘ opulenza ed i cenci ; il Frate ed il Militare esistono nella stessa società e sotto lo stesso Governo. Ma fra i Governi ancora quai triste differenze ? "Lo stupido Despota da un trono invisibile sacrifica milioni di schiavi ; mentre un Rè vive da amico col popolo che lo adora . Un Senato Aristocratico a pas- si lenti e regolari calpesta un popolo che crede degradato per Natura , e che lo è spesso per sentimento ; mentre una Demo- cra- Digitized by Google  crazia , sragionando quasi sempre nelle sue risoluzioni opprime , ,  «M-xxxix h* sooooeaaecaje e tiranneggia gli altri popoli che le appartengono La tumultua- . ria libertà è al centro- la schiavitù , e l’ oppressione alle circon- ferenze . Che strani misti ancora possono sostenersi , senza un contrasto di forze resistenti l E quali specie di sentimenti nascono ancora sotto queste varia- te forme! L opinione sostenuta tà il vessillo dei ineguaglianza; e le leggi, sempre deboli contro • quella dominatrice dell’ Universo, la vedono spesso lor malgrado de' varj Governi , che non dal potere innalbera in mezzo alla Socie- trionfare. Ognuno si sforza per avvicinarsi revole; e se tutti gli sforzi non sono egualmente felici, cosi non- dimeno si scuote l’inerzia fondamentale dell'Uomo , così esso di’ viene un essere attivo, così si sublima a un grado superiore a tutti gli altri esseri senzienti . Le circostanze che s' incontrano , ael corso della vita, determinano gli uomini diversamente in ra- gione della loro sensibilità ; e quindi nella riunione delle azioni . formano un tutto, non di parti similari, ma differenti e dissimi- li , che fermentando necessariamente rigenerano il moto e danno origine a nuove trasformazioni Senza l’ineguaglianza le Società non sussisterebbero. Non posso» no codeste distruggerla, ma non per questo essa porta un caratte- re intrinseco di male: e quando siam persuasi che le idee mo- rali sono tutte relative , e che esse traggono la loro sorgente dai rapporti immediati dell'uomo, ci bisogna esser conseguenti iti riconoscere il bene che fa la Società col moderare e rintuzza- , a quell' insegna favo-  .,.  4*4 XL te i disgustosi eccessi dell’ ineguaglianza che viene dalla Natu- ra . Nelle Società sono nate le leggi protettrici della de- bolezza e direttrici della forza e della Ragione ; e se le Società non danno sempre quegli effetti che dovrebbero per loro natu- ra, non parmi che sia per intimo difetto della cosa, ma della Na- tura umana finora incapace d’ un sublime grado di perfezione Se nondimeno la ragione , la sperienza e la Storia ci mostrano, che 1' uomo in società è sempre determinato dalle cagioni e dalle circostanze ; e che queste sono in gran parte in mano del Legislatore e del Governo , basta far nascere queste circostanze, per far prendere agl’individui quella determinazione , eh è più atta fare la loro felicità relativa • Alfonso 1. amò le lettere , fu !’ amico de' valentuomini , li premiò , li onorò, e durarono iìno al tempo de’ suoi brevi successori La legislazione moderna d'Europa manca ancora dima parte, cioè, del premio alla virtù. Quindi ritieguaglianza divien più do- lorosa , e le leggi non communicano un moto sufficiente verso la Beneficenza . Chi a caso s' avvia per questa strada , vi si vede quasi isolato; e non potendo giugnere all’insegna dell’opi- nione per la gran folla pervenutavi per istrade più brevi, si con- tenta d’ un piccolo tugurio su la via percorsa , e colà vive da Eremita Bisogna assolutamente leggere i tre uhimi Capitoli della Parte Terza, per avere le più giuste e vere idee della Legge di Natu- ra , del Dritto delle Genti e del Civile . J principj fattizj d’ al- cuniFilosofivisonomodestamenteesaminati, colmostrareche essi non s’ adattano all’ uso dell’ umanità , e per conseguenza non sono tratti da quei rapporti coesistenti colla specie , e che non si cangiano , che nei diversi punti della naturale progres- sione . Le prime leggi di Natura sono comprese nella teoria della sensibilità tanto bene sviluppata dall'Autore. Tutti i drit* ti dell'uomo, in qualunque stato, sono una emanazione di quella qualità inerente alla sua esistenza , e su di essa si devono misurare . Quindi dimostra infine che non bisogna giudicare delle azioni morali col rapportarle all’ idea di utile , perchè sa- remo sempre ingiusti ; c clic I" archetipo al quale si devono ri- ferire è la Giustizia , che vale a dire, T espressione perpetua ed eterna della morale verità Ecco il secco scheletro d'un’ Opera pienissima , fatto solo col ravvicinare il più che per me si è potuto le idee principali dell’ Autore relative al suo titolo , titolo che forse per sola mo- destia volte Imporle ; poiché *i -parer mìo , è il più completo corso di naturale Filosofia, essendo tratta dalla vera natura dell’ uomo , ed il più utile, perchè applicabile a tutta la pratica del- la morale ed alla teoria della Legislazione . Qual giustezza • qual vastità di spirito , qual’estensione di cognizioni e quale su- blimità di genio abbiano avuto parte à quest’Opera non può rile- varsi in un estratto. I Giornali d'Europa fecero eco in celebrar- la : e questa e quella del Cavalier Filangieri, facendo molto ono- re alla Nazione , eccitarono le più lusinghiere speranze di ve- der presto in un nuoyo Codice gir'effetti di questi lumi e di quella libertà che non si scompagna giammai dalla Ragione e dalla Virtù . Una tale Opera che sarebbe stata sufficiente per fare la cele- brità d'un uomo, che poteva farne nascere delle altre utilissime, che non pecca d’ altro che d’ abbondanza d’ idee e profondità di pensieri , avrebbe dovuto fare riposare lo spirito dell’ Autore , se avesse travagliato pel solo desiderio della Gloria . Ma que- sto sentimento lo tormentava cosi poco , che non potè calma- re 1’ attività dello spirito sempre sollecito d; pensieri utili ed interessanti , e lo diresse ad altr* oggetto , che doveva eterna- re la sua memoria colla gratitudine della Nazione. Annali del TTL sentimento di Patria, soggetto ad estinguersi sotto ‘1 di- Regno JlL, spotismo , ricomparisce nello spirito e nel cuore sotto di- versi aspetti ne' Governi moderati. li desiderio della Gloria e del Pubblico bene accompagna costantemente questo sentimento nel- ie anime ben nate ; e ciascuno brama nel suo interno , che, la sua Nazione sia la più rinomata e la più felice . La nostra Nazione è come una illustre antica famiglia della quale si contano tanti -Eroi nella Storia e le cui glorie sono coeve del tempo htcsso s ma ridotta in più povera fortuna ed umile stato , riclama solo per suo vanto le imprese c le gesta de’ suoi maggiori . Vide il Grimaldi che nella folla de' nostri Storici Scrittori si era mancato sempre a quella vista che l' ottimo Storico deve ave- re, 1' utile cioè dell'umanità e della Nazione in particolare per la qua- Digitized by Google   XLIII ì* t<.gaeoaoe3ao(^i)oce9ae5uiryj<xs)3iitsatii3aae»ioi=>» quale si scrive . Vide che uu nudo racconto di fatti non sareb- be stato che una inutile rapsodia atta ad occupare il tempo degli oziosi e degli annojati. Vide che la Storia non è altro , che la vita morale delle nazioni . Vide che i fatti che formano il ma- • teriale d' ogni Storia, non sono che fenomeni, che devono ave-* re delle cagioni . Vide finalmente che la Storia doveva essere d’ un utile presente . Ecco ciocché gli fece nascere l’ idea di compilare gli Annali del Regno . L’apparato delle difficolti da scoraggiare qualunque spirito non fecero arretrare il suo. Quel vigore di sentimento e quella co- stanza ch'ei portava in tutte le sue intraprese, lo accompagnaro- no similmente in questa pur troppo malagevole e difficoltosa. Egl’ incominciò dalla Geografia, non col far una secca no- menclatura o una nojosa discussione critica su i veri nomi a situazioni delle antiche Città e popoli : ma col dare nettamente in risultato quello che vi era di piò verificato e che più im- portava di sapere . Un Filosofo vede con occhio differente da! Filologo gli antichi fatti ed i superstiti monumenti. Così egli non si fermava sn i fatti isolati , ma combinandoli e riducendoli li richiamava quasi a nuova vita , e per tal modo con .molta fatica ci ha dato la Storia de’ tempi quasi del tutto ignoti alla Storia, stessa. Egli ha descritto Io stato barbaro del Regno prima che le Colonie d' oltremare venissero a civilizzarlo : à fatto vedere 1* azione reciproca d qua.’ popoli fra loco. , e per effetto delle j varie leggi , 1' avanzamento degli uni e la decadenza e di$tru-> ' zione degli altri; i progressi della perfettibilità Fi non sociale j Inforza  teMPOeeOaaoaBoeeesoeieeaeBOiuo^eeaooo» non sempre accompagnata dalle ricchezze : la popolazione o le coltura crescer col commercio e colle arti e poi divenir preda d’altri popoli più guerrieri. Egli discese fino alla particolarità di quelle costumanze che allora si chiamavano Religione , feroce o lieta secondo lo stato e carattere della Nazione. Lo stesso Go- verno economico e politico non è stato trascurato , mostrando come questi popoli liberi e divisi sapessero poi formare un uni- tà ed una forza concorde , che formasse di tanti voleri un so- lo, cioè , quella volontà generale , che è la legge eterna delle Nazioni . Le arti , 1; agricoltura , le Scienze anno anche meritato la sua particolare attenzione : e sebbene sembri eh' abbia rab- bassati troppo i popoli Autottoni d Italia , pure chi considera: attentamente, troverà, che si è egli voluto attenere più alla ve- rità Storica , che alla vanità Nazionale In tutto fi corso di questa Storia la di lui penna è sempre animata dal cuore. La tirannia , il vizio t la superstizione , che entrano pur troppo spesso nella Storia dell’ uomo , sono mostri che non si stanca mai di combattere , smascherandoli anche dove li uova coperti e velati , per far via più campeg- giare la vera gloria e la virtù, sempre rara nel corso de’ secoli. La libertà , parola volgare , poco ancora intesa , dritto prezioso dell’ uomo e più prezioso per la Società , è sempre rilevata dall’ animo del vero Filosofo , che non può far a meno d’ amarla . ' Su questo gusto egli tratta la Storia de’nostri progenitori . fin- ché essi e l’ Italia tutta non perderotto la propria esistenza , per diventare nou sudditi ma schiavi di Roma.  4*^ XLV >4* la forma del Governo cangia il carattere morale de popoli „ Niente di grande , niente di generoso sema 1’ amor della Patria e sema il sentimento di libertà . Un lusso distruggitore, il lan- guore dell’ inerzia , la schiavitù e la spopolazione corteggiano sempre il dispotismo. E questo è il quadro degli antichi popoli sotto l' Impero de’ Romani I Barbari distruggendo l’Italia la rigenerarono. Essa non po- teva rinascere che dalle sue ceneri : ma con qual progresso lento , con quali nuovi errori , con qual nuova strage deli* u- manità riprendesse questo corso , tutto è attentamente rimarca- to dall' Autore , a cui nulla sfugge di quanto deve far vergo- gnar 1' uomo delle sue pretensioni o consolarlo ed istruirlo . Ma è inutile di parlare più oltre di quest’ Opera, che è nelle mani & ogni onesto cd illuminato cittadino . E' stata vera disgrazia della patria, che l’Autore sia rimasto a mezzo ’l corso della sua vita e del più utile prodotto , che potesse dare alla Nazione. Ecco con quali Opere Fr. A. G. rese immortale il suo nome. Ecco con quali mezzi cercò di essere un utile e benefico cittadina Ecco quali titoli abbiamo di celebrare e piangere la sua memoria. La di lui vita si può dire compresa tutta nelle Opere sue , non solo perchè le idee nuove e sublimi fanno quasi 1’ apice dell’ esistenza d’ un uomo di lettere e d’ un vero Filosofo ; ma per- chè nelle di lui Opere morali souo espresse e manifestate quelle idee, e que’ sentimenti ch'egli esercitò in tutto il corso del suo vi- vere. Tuttavolta il mio cuore sente ancora il bisogno di parlare, di qualche altra particolare circostanza. Si Digitized by Google   4*4 xlvi >4» Si inno ordinariamente delle strane idee s» la sensibilità del cuore umano . Si dispensa e prodiga spesso il titolo di sensibi- le alle anime deboli o alterate , credendosi volgarmente che la sensibilità non possa esser compagna della virtù e della ragione. Bisognerebbe essere o stupido o affatto depravato per rimaner insensibile ai più lusinghieri e naturali sentimenti; ma questi per essere conformi alla loro destinazione) devono nascere da quella analogia d' idee , da quella uniformità di sentimenti e da quel- ( la consensibilità di cuore) che formano la base armonica dell' amore.-Se un uomo sensibile resta indeterminato a questo sen- timento , non è certamente per mancanza di sensibilità fonda- mentale, ma dal non essersi ancora incontrato con un cuore v che possa combaciarsi e quasi amalgamarsi col suo . Rari in- contri , ma possibili, per consolazione della spezie tonio Grimaldi fa abbastanza ragionevole e fortunato, per collo- care gli onesti sentimenti del suo cuore in quello della Contessa tratteggiata dall' espressione della virtù c dei doveri , era poi quasi alluminata Aurora Barnal a. Una fisonomia felice, fortemente da più soavi e teneri sentimenti del cuore. La dolcezza delle -sue maniere , la facilità della sua ragione il gusto per , laverità, la superiorità ai pregiudizj desiderj ( virtù rara nel sesso ) faceva parere che fussero tras- fase nella di lei anima le virtù del suo compagno come spesso , il disinteresse , e la temperanza dei , una maschile fisonomia ei conosce in più delicato volto e pren- , de la morbidezza e ’l carattere del sesso che investe- Con que- ste qualità fondamentali si potrebbe mai dubitare , se D. Auro- ra ! Francescan- 4*4 XLVII H ra facesse la feliciti della sua famiglia , se fosse la più teneri amica del marito , la più saggia madre delle sue figliuole , la più atta all’incarico delle domestiche cure ? Non si conosceva intera- mente F. A. G. sema conoscere ancora qual donna egli s’ avesse assortita . Gli amici e confidenti di lui erano egualmente j suoi Lo spirito di ragione e ’l gusto ch’essa portava su varj oggetti, ne rendevano la compagnia egualmente piacevole ed interes- - sante . la sua casa era quindi il punto di riunione di coloro che ai talenti accoppiavano le Non è questo il luogo di fare il catalogo dei molti amici del Grimaldi * tutti conosciuti per merito e per probità ; mi non posso trattenermi dal ricordar colui la cui memoria dovrà esser mai sempre cara alla nostra Nazione , dico d’Antonio Genovesi, padre e creatore de’ nostri ingegni Quell’ Uomo egualmente di . cuore benefico e di spirito sublime aveva assai punti di rappor- to per esser stretto amico del giovine Grimaldi , che già in fre. sca età dava non dubbj segni d’ esser destinato a divenirgli successore nella pubblica stima , e nella celebrità » Grimaldi era un uomo che abbisognava d'amare per istinto; sin- cero e semplice nelle sue maniere come ne’ suoi sentimenti , il suo cuore non era chiuso nè dalla diffidenza nè dal disingan- no . La libertà della- sua ragione non era mossa nè dallo spiri- tò di dispuu nè dal gusto di primeggiare : ma aveva il giusto principio di richiamare tutte le idee allo scopo dì qualche uti- lità morale . Con questa maniera di pensare , oh quanto d’ inu- tile si trova negli usi ordinar) della vita ! Eppure essa dà il meto- do p iù lodevoli qualità, del cuore- .   xlviii >4* do più vantaggioso per giudicare del bene reale delle cose e del- le azioni . I suoi più prediletti discorsi si raggiravano su que- sto punto che tanto facilmente ricorre nelle Capitali . dove la grandetta della scena è proporzionata alla moltitudine degli at- tori . Così quest’ uomo nel tempo che si sottraeva alle necessa- rie applicazioni' non si distraeya in inutili trattenimenti , ma in compagnia d’eletti amici rilevava Io spirito con altre idee era-, gionamenti d’un utilità più ordinaria e generale. Non solo i nazionali ma gli esteri ancora vollero avere il piacere -di vedere dawicino quest’uomo illustre, e restavano sor- presi nel riconoscere in una somma semplicità di maniere quel Filosofo , che in lontananza avevano altrimenti immaginato. Egli però poco desideroso di essere conosciuto , niente avida» di gloria letteraria , anzi pieno d’ una vera modestia che ac- cresceva il di lui merito reale, evitava. le nuove conoscenze, e cercava di tenersi chiuso eristretto fra’l numero di pochi amici, eh’ egli più che fraternamente amava . Pareva che non esistes- se veramente fuori della sua famiglia . Cosa rara nel seco- lo ! Le persone eccentriche ai sentimenti primitivi , che anno bisogno d’uria esistenza adjettizia, che unicamente vivono in so- cietà estranee ad essi, o dnno la disgrazia d’aver sonito circo- stanze infelici , o non esistono che per 1’ ambizione e per la vanità . La prima morale comincia, dai primi vincoli e rapporti che ci dà la Natura ; e chi non sente questi non sentirà che in apparenza quelli della società che sono più lenti. Chi non trova i germi delia sua felicità nella prima società naturale, potrà difficil- jncu-  euere39ee»au(^>jeejeBg3eomjaoiie35e»^><- c»iwieeao «ente rinvenirli altrove. Quindi egli menava il più che poteva la vita domestica , e poco si estrinsecava , anche per non inde- bolire i vincoli del cuore , che si spossano nelle troppo suddi- vise diramazioni . Non potè però celarsi allo sguardo di chi lo cercava senza conoscerlo. 11 Generale Afton, desideroso d’avere al suo fianco un uomo , che all’ estesa cognizione delle Leggi riunisse non ordinarj talenti e le più preziose qualità del cuo- re, non altrove seppe porre il suo giusto sguardo e fermar la sua scelta che sopra Grimaldi, già molto conosciuto per nome e per i suoi libri in Europa. Egli lo rese noto alla Maestà del Sovrano che sempre amante dc'talenti dc’suoi sudditie voglioso di ricono- scerne il merito , fece che restasse impiegato nelia delicata cari- ca d’-Assessore de’ suoi Reali Eserciti, avendolo poi in mira per altre situazioni , dove più utilmente e più estesamente avrebbe impiegato la forza de’ suoi talenti, e l’attività del suo cuore. Io non devo estendermi sii! dìsiiBpegno particolare della sii* Carica . Pieno di talenti , della più vera rettitudine di cuore , ed esercitato alla virtù chi potrebbe dubitare se ben l’esercitasse è li Publico ne ha fatto l' Elogio, e lo ha fatto colle lagrime . Nel rimanente della sua vita privata era lo stesso cogli estranei e co- gli amicj . Ignorò sempre ciocché si chiama lingua e tuono del mondo , non essendo stato giammai Cortigiano , nè potendo es- serlo pel suo carattere . La verità usciva nuda c sincera dalla di lui bocca, e la espressione di essa gli era cosi naturale come il sentimento» Mai ricercato o ingegnoso, non isforzava lo .spiri- to per mostrare d’ averne , e le sue maniere non erano model- G late ,  Digitized" by Google   L eCJlMStysooe^fle^oe^e^nr^anp^sagsg^at x —v^' * s^ey— late sul gusto o sulla moda , ma spontanee , cordiali e vere . , In tal guisa egli faceva la delizia di chi aveva la fortuna d' essergli vicino. In questi ultimi anni però era poco il tempo che poteva con- sacrare all’amicizia. Pieno di sentimenti di dovere pel suo im- piego , ei s’ occupava in gran parte di quello e compromesso ; col pubblico e con se stesso per l’Opera degli Annali, travaglia- va e meditava assiduamente su quest’ oggetto a lui caro . Ru- bava le ore- necessarie al rinfranca delle perdite giornaliere della macchina per soddisfare alle intense brame del suo spirito . Ma questa combinazione eccessiva di fatiche alterò non poco la sua robusta e valida costituzione* Gli accessi del male che soffrì più volte , furono tanto ferali, che minacciarono la sua esistenza : ma fatto più per abbandonare se stesso, che disposto a trascurare in menoma parte i suoi doveri, non si diede mai un serio pansiere della propria conservazione. La sofferenza che si aveva acquistata per i mali fisici passava qualche volta in neghittosa noncuranza, nè voleva ricordarsi della pur troppo stretu dipendenza del no- stro essere dallo stato delf organizazioue . Le rimostranze che gli si facevano per questo , erano sufficienti per disturbarlo ; e se qualche volta si ridusse per le amicali violenze a temperare alquanto le sue applicazioni, e a prendere qualche cura della sua esistenza , ad ogni piccolo miglioramento ritornava inconta- nente ai modi usasi . senza badare , quanto la machina, indebo- lita prende con faciliti le cattive abitudini , che ne portano 1* distruzione .Ma V intemperanza nelle applicazioni dello spirito,'. è stata in ogni tempo il difetto comune ai grandi e sublimi ta- lenti. In questo stato d’ assidue fatiche e di spossatezza , un colpo terribile gli fece risentire la catastrofe , che nel disastro della Calabria involse anche il luogo della sua nascita . Quel giorno di lutto comune della Nazione fu terribile per lui, che colla ma- dre perde cinque altri individui della sua virtuosa famìglia . La ragione non à fòrza di consolare il cuore destinato a sentire e non ad essere comandato.; e In inaura»*»»*»»» dell» sensibilità so- no le più distruttive di questa nostra tenue e troppo complica- ta organizzazione • In mezzo al più vivo dolore il Grimaldi non diede soltanto sterili lagrime alla Patria . Egli per Sovrano com- mando fu il primo descrittore di quella fatale sventura , il pri- mo a suggerire le necessarie viste d’una ben intesa beneficen- za , ed a sollecitare la sensibilità, del Trono per conservare gli avanzi di quel popolo infelice. Dalle di lui carte ne nacquero altre molte , che forse quanto inno di esattezza Io devono s quelle , eh’ egli per sua modestia non volle publicare Ma forse nè per quel violento attacco di sensibilità, nè in con- seguenza delle nuove fatiche l’ arressimo immaturamente pianto, S® il più terribile e fatai colpo non l’avesse sopraffatto in questo sta'to di salute indebolita . Egli vedeva da più tempo la diletta compagna del suo cuore, in età giovane ancora, perdere quell* espressione.ti «alm*. r: -1—lietaunafisonomia. Tutte le attenzioni che trascurava per se medesimo, volle che fos- sero moltiplicate per lo sospirato ristabilimento della sua consorte 1   4*i LII >4. td amica- L’insinuante qualità del male , che già della di lei tersotia si era impadronita, dava luogo a frequenti alternative di speranze e di timori: ferite mortali nell'animo di chi ama . Chi è stato anche solo spettatore in si fatti casi conosce in qua- le stato d’ orgasmo sia un cuore sensibile, ed a quali lacerazioni sia in necessità di soggiacere . Il male che nel corso di circa due anni distrusse la vita d’ Aurora Darnaba , fece anche crol- lare quella cfel suo illustre consorte . Le anime sensibili e non infelici nel sacro nodo ronjugale possono forse sole immaginare qual profonda acerbissima ferita dovè farsi nel cuore superstite . Gli amici , che gli erano d’ in- torno, vedevano espressa su la di lui costretta fisonomia l’ im- mensità del dolore e P indifferenza alla vita . Il solo amor pa- terno poteva ancora rendergli non odiosa 1' esistenza ; ma la macchina non resiste alla gravezza de’ mali dell'animo . ed O T una o 1’ altro deve soccombere. Gl’incomodi, che prima Pavé- vano travagliato ad intervalli, divennero continui; le medele a- vevano perduto la loro attività; la macchina ora indebolita a se- gno , che un colpo solo tolse la più preziosa esistenza per 1‘ a- micizia e per la virtù • La perdita del Pubblico e degli amici è irreparabile ; ma le cinque nobili ed afflitte pupille ànno trovato nei cuori di Fer- dinando E Carolina la sensibilità e P affetto dei loro Geni- tori - Possa «ampie hi BemeficenT» far I’ Elogio de’ nostri adora- bili Sovrani ! Questa è la vera riconoscenza eh’ essi possono testimoniare alle ceneri dell’ Illustre Cittadino , come queste pO- Digitized by Google   un >4* poche pagine e questi sentimenti sono dopo le lagrime l' uniccr omaggio , che 1’ amicizia poteva consacrare ALLA MEMORIA ETERNA DI FRANCESCO ANTONIO GRIMALDI; v. A. XLU. M. IXFrancesco Antonio Grimaldi. Francesc’Antonio Grimaldi. Francescantonio Grimaldi. Marchese Grimaldi dei signori di Messimeri. Keywords: compassione, la compassione, Romolo bruto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grimaldi: implicatura ed inter-azione” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Gruppi – la via italiana al socialismo – filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Torino). Filosofo italiano. Grice: “Gruppi is an Italian philosopher; at Oxford, someone who writes only on politics is not considered usually one!” -- Il concetto di egemonia in Gramsci Incipit Antonio Gramsci è senza alcun dubbio quello che, tra i teorici del marxismo, ha maggiormente insistito sul concetto di egemonia; e lo ha fatto in modo particolare richiamandosi a Lenin. Anzi, direi che, se vogliamo vedere il punto di contatto più costante, più scavato, di Gramsci con Lenin, questo mi pare essere il concetto di egemonia. L'egemonia è il punto di approccio di Gramsci con Lenin.  Citazioni La scienza si ha quando si supera il dato immediato, l'apparenza; si ha con un salto dialettico. In tutte le analisi che Gramsci conduce, io trovo la presenza di un filo rosso che le guida, presente in tutti i Quaderni. Luciano Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Riuniti, Roma.  Gramsci è senza dubbio quello che allaccia, se così si può dire, congiunge il movimento operaio italiano agli insegnamenti di Lenin, è giustamente il primo bolscevico italiano, come disse Togliatti, il primo leniniano del nostro Paese. Attraverso un processo che fu complicato e che parte dalla sua comprensione non completa, ma sostanzialmente giusta del valore della rivoluzione d'Ottobre, arriva ad affermare che la rivoluzione d'Ottobre è una rivoluzione contro Il Capitale di Carlo Marx, cioè contro un'interpretazione meccanica, schematica del Capitale, secondo cui bisognava aspettare lo sviluppo delle forze produttive del capitalismo, ecc. ecc. Già coglie l'importanza dell'elemento soggettivo, della funzione del partito come guida dei processi rivoluzionari.  Gramsci sempre più si avvicina ad una comprensione del pensiero di Lenin con un processo che va dal '19 sino al '25-26 e che anche nei Quaderni del carcere è un approfondimento del pensiero di Lenin.  Gramsci si aggancia direttamente al concetto di dittatura del proletariato come si trova in Lenin, individuando nella dittatura del proletariato, non solo un profondo mutamento della struttura economica e politica del paese, ma una profonda rivoluzione culturale, una profonda trasformazione del modo di pensare degli uomini non solo in Russia, ma in tutto il mondo. Il pensiero degli uomini non può più essere la stessa cosa dopo l'instaurazione della dittatura del proletariato in Russia.  La dittatura non è soltanto un fatto politico, ma di cultura e di pensiero, secondo quello stretto nesso che Gramsci stabilisce tra politica e filosofia affermando che la filosofia vera di ciascuno sta nel suo modo di agire, sta nella sua politica più che nelle dichiarazioni teoriche. Da questo egli ricava che il principio teorico-pratico dell' egemonia (e qui egemonia significa dittatura del proletariato) ha anch'esso una portata gnoseologica, cioè di conoscenza, e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico massimo di Lenin alla filosofia della prassi, cioè al marxismo.  Lenin avrebbe fatto progredire la filosofia come filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. C'è stretto nesso, quindi, tra i due elementi.  In un altro punto dei Quaderni dice: «Tutto è politico, anche la filosofia o le filosofie. La sola filosofia è la storia in atto, cioè è la vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica tedesca, come aveva detto Engels, e si può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell'egemonia fatta da Ilic [Lenin], è stato anche un grande avvenimento metafisico, cioè nel senso di pensiero generale, non nel senso negativo di filosofia astratta».  Il processo attraverso cui Gramsci nei Quaderni arriva a queste conclusioni è complesso. Gramsci al tempo dell'Ordine nuovo, già nel '19, parte da una riflessione sullo Stato che non è una riflessione sullo Stato in generale, ma sullo Stato borghese italiano, una individuazione della sua specificità.  In un articolo dell'Ordine nuovo, del febbraio del '20, scrive: «Lo Stato italiano che - secondo un parlamentare - starebbe alla repubblica dei Soviet come la città all'orda barbarica, non ha mai neppure tentato di mascherare la natura spietata della classe proprietaria.  Si può dire che lo «Statuto albertino» sia servito ad un solo fine preciso: a legare fortemente le sorti della corona alle sorti della proprietà privata. I soli freni che funzionano nella macchina statale per limitare gli arbitri del governo dei ministri del re sono quelli che interessano la proprietà privata del capitale. Soltanto qui si pongono limiti all'esercizio del potere per garantire la proprietà, la libera iniziativa.  Lo «Statuto albertino » non ha creato nessun istituto che presidi almeno formalmente le grandi libertà dei cittadini: la libertà individuale, la libertà di parola e di stampa, la libertà di associazione e di riunione, mentre negli altri Stati democratico-borghesi almeno una garanzia, almeno formale, esiste, in Italia non c'è neanche la garanzia formale.  Negli Stati capitalistici che si chiamano liberal-democratici l'istituto massimo di presidio delle libertà popolari è il potere giudiziario. Nello Stato italiano la giustizia non è un potere, è uno strumento del potere esecutivo, è uno strumento della corona e della classe proprietaria, cioè è agli ordini del ministro della Giustizia. Si pensi che ancor oggi la nomina del Pubblico ministero avviene ad opera del ministro della giustizia. La direzione generale delle carceri, le direzioni particolari, gli agenti della pubblica sicurezza, tutto l'apparato repressivo dello Stato dipendono dal ministero degli Interni, si capisce perché in Italia il presidente del consiglio si riservi sempre il ministero degli Interni, come era tipico nello Stato prefascista, in modo che tutto l'apparato di forza armata del paese sia completamente nelle sue mani.  Il presidente del consiglio è l'uomo di fiducia della classe proprietaria - alla sua scelta collaborano le grandi banche, i grandi industriali, i grandi proprietari terrieri e lo Stato maggiore. Egli si prepara a conquistare la maggioranza parlamentare con la frode e con la corruzione; il suo potere è illimitato non solo di fatto - come è indubbiamente in tutti i paesi capitalistici - ma anche di diritto, il presidente del consiglio è l'unico potere dello Stato italiano.  La classe dominante italiana non ha avuto neppure l'ipocrisia di mascherare la sua dittatura, il popolo lavoratore è stato da essa considerato un popolo di razza inferiore che si può governare senza complimenti, come una colonia africana. Il Paese è sottoposto ad un permanente regime di stato d'assedio: in ogni ora del giorno e della notte un ordine del ministro dell'interno ai prefetti può fare entrare in movimento l'amministrazione poliziesca, gli agenti vengono sguinzagliati nelle case, nei locali di riunione, senza mandato dei giudici, che sono passivi. In pura via amministrativa la libertà individuale e di domicilio è violata, i cittadini sono ammanettati, confusi coi delinquenti comuni in carceri luride e nauseabonde, la loro integrità fisiologica è in difesa contro la brutalità ed i contatti, i loro affari sono interrotti o rovinati. Per il semplice ordine di un commissario di polizia un locale di riunione viene invaso e perquisito, una riunione viene sciolta, per il semplice ordine del prefetto un censore cancella uno scritto il cui contenuto non rientra affatto nelle proibizioni contemplate dai decreti generali [c'era la censura sulla stampa] per il semplice ordine di un prefetto i dirigenti di un sindacato vengono arrestati, cioè si tenta di sciogliere un'associazione, ecc.».  È un'analisi spietata dei limiti liberali e democratici dello Stato liberale italiano, della sovrapposizione del potere esecutivo sul potere legislativo, sul potere giudiziario, è una descrizione di questo ordinamento che discende dall'esecutivo ai prefetti, ai questori e sospende in qualsiasi momento ogni libertà.  Ora a questa visione, a questa definizione, a questa analisi dello Stato italiano, Gramsci ne contrappone un'altra che nasce dal movimento reale. Anche per lui, come per Lenin, la conquista dello Stato non è puramente un momento negativo, di distruzione, ma è il processo di crescita di un nuovo tipo di Stato, che si organizza sin da prima della conquista dello Stato. E la rivoluzione, come per Lenin, viene concepita come un processo, non come un atto subitaneo che si compie in un determinato momento.  La domanda infatti, che egli si pone nel ' 19, la domanda da cui parte con tutto il lavoro del giornale, dell'Ordine nuovo, è precisamente questa: se ci sia in Italia, a Torino, un embrione di Soviet, un inizio di Soviet, e la risposta è: sì, sono le commissioni interne. E aggiunge: bisogna trasformare le commissioni interne in qualche cosa di piu, bisogna far nascere dalle commissioni interne, cioè dall'esistenza dei Consigli di fabbrica eletti da tutti i lavoratori indipendentemente o meno dalla loro iscrizione al sindacato. Con rappresentanti quindi per reparti, per officina, per mestieri, e cosi via, in modo che il Consiglio di fabbrica sia il momento non solo della difesa dei diritti sindacali o delle conquiste sindacali, ma un organismo attraverso cui gli operai si impadroniscono del processo della produzione, della organizzazione del lavoro, intervengono sul processo della produzione, stabiliscono un potere nella fabbrica, un potere democratico della fabbrica e un potere che poi dalla fabbrica si irradi alle campagne e salga a diventare potere nella società e nello Stato.  indice  I consigli di fabbrica  Gramsci dice che questo trasforma l'operaio da semplice salariato - schiavo del capitale, non cosciente della funzione storica della propria classe - in produttore (egli prende da Sorel questo termine), ma esso è presente anche in Marx quando parla della Comune come l'autogoverno dei produttori e non più degli operai salariati, cioè dell'operaio che ha superato ogni limite corporativo, che non ragiona più come mentalità di categoria, di classe sociale chiusa in sé, intesa solo alla difesa dei propri interessi immediati di classe, ma che si sente come produttore, protagonista e interprete degli interessi generali della società e quindi come componente essenziale, forza dirigente del nuovo Stato che si vuole costruire.  Egli scrive nell'Ordine nuovo: l'officina con le sue commissioni interne, i circoli socialisti e le comunità contadine sono i centri di vita proletaria nei quali occorre direttamente lavorare, le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitraggio e di disciplina, sviluppate ed arricchite dovranno essere domani come organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione. Cioè bisogna imparare prima a dirigere le fabbriche se vogliamo abolire il capitalismo.  Fin d'ora gli operai dovrebbero procedere già all'elezione di vaste assemblee di delegati scelti tra i migliori e più consapevoli compagni sulla parola d'ordine: «tutto il potere all'officina, ai comitati d'officina », coordinata all'altra: «tutto il potere dello Stato ai consigli operai e contadini».  Vi è, quindi, un tentativo di risposta alla domanda: come facciamo in Italia a fare come in Russia, dove ci sono i Soviet? E i Soviet li inventa Gramsci: li va a cercare nel movimento reale, li va a cercare in quello che già esiste, cioè le commissioni operaie da sviluppare in organismi con molto più potere e molta più capacità rappresentativa.  A questa concezione di elevamento della funzione dirigente della classe operaia prima della conquista del potere, come condizione della conquista del potere, qui Gramsci ragiona già alla leniniana, a questa sua concezione si contrappone un'obiezione di Bordiga e del suo giornale, Il Soviet, sul quale egli dice: è illusorio, utopico pensare che la classe operaia possa avere una funzione dirigente nella fabbrica prima della conquista del potere, fino ad allora resta subalterna ai capitalisti, solo quando la classe operaia prenderà il potere essa potrà esercitare il potere nella fabbrica. Ma Bordiga non risponde alla domanda: il potere come lo prendi?  Questo perché Bordiga vede il processo sociale come il processo di crescenti contraddizioni dell'economia capitalistica, finché si arriva alla grande crisi che è il momento fatale della rivoluzione proletaria, a cui il proletariato e il Partito comunista devono prepararsi mantenendosi puri, intatti, non contaminando si in alleanze, in compromessi e in cose del genere. Vi è cioè in Bordiga una visione meccanicistica, di materialismo volgare, meccanicistico del processo rivoluzionario che ignora la funzione del soggetto, del partito.  Non a caso Bordiga dice che non bisogna partecipare alle elezioni parlamentari. Il Parlamento è borghese e quindi non interessa il proletariato. Riprende cioè una tesi di Bakunin e degli anarchici contro cui già Marx ed Engels avevano polemizzato, come Lenin polemizza inEstremismo malattia infantile del comunismo contro queste posizioni di Bordiga.  Per Gramsci, invece, ripeto, la rivoluzione è intesa come processo. Non sto ad illustrare tutte le vicende dell'Ordine nuovo, le grandi lotte del ' 19, lo sciopero dell'aprile del '20, detto lo «sciopero delle lancette », che poneva proprio la questione dell'autorità e del potere dei consigli di fabbrica perché il padronato decise di passare dall'ora legale, usata in guerra, all'ora solare senza avvertire i consigli di fabbrica.  Gli operai arrivarono in fabbrica e trovarono le lancette dell'orologio spostate e fu lo sciopero. Era in gioco una questione di principio: il potere democratico del consiglio di fabbrica. L'ingenuità fu il non aver unito alla questione altre rivendicazioni piu sostanziose che potessero legare a questa lotta le masse operaie. Fu solo una lotta di principio che poi fini con una sconfitta grave, dopo di che la classe padronale passò all'attacco e l'occupazione delle fabbriche fu, è vero, il momento più avanzato della lotta, ma un momento di difesa.  Funzionarono, però, i consigli di fabbrica, diressero la produzione, tennero la disciplina, ma nell'occupazione delle fabbriche appare chiaramente un elemento cioè il movimento dei consigli fallisce per essere rimasto troppo torinese, non essersi esteso alle altre regioni italiane, per essere rimasto chiuso all'interno della fabbrica, e anche per una debolezza nel vedere un'alleanza con i contadini e soprattutto una grave debolezza nel vedere l'alleanza con i ceti medi, tipico limite dell'Ordine nuovo.  Dalla sconfitta, quindi, del movimento dei consigli con l'occupazione delle fabbriche si pone l'esigenza del partito, come momento unificante di tutto il movimento a livello nazionale, cosa che Gramsci aveva visto, ma in modo incompleto, e aveva privilegiato un movimento, aveva privilegiato i consigli rispetto alla questione del partito stesso.  indice   Necessità della ricognizione nazionale  La riflessione di Gramsci, però, va oltre e nel '23, in un articolo: Che fare? scritto per una rivista di studenti comunisti, si pone l'interrogativo: perché siamo stati sconfitti?  Siamo stati sconfitti perché il movimento operaio non conosce il proprio Paese, non conosce l'Italia, non è uscito fino ad oggi un libro sulle stratificazioni sociali, sulle classi in Italia, sulla storia delle classi, non è uscito un libro sulla storia dei partiti italiani, c'è un'infinità di domande a cui non sappiamo rispondere: perché in Sicilia i contadini sono autonomisti e in Sardegna no, mentre in Sardegna sono autonomisti i latifondisti e in Sicilia non altrettanto, perché dove son forti gli anarchici sono forti i repubblicani? e così via. Non sappiamo rispondere perché non conosciamo il nostro Paese. Eppure abbiamo un metodo, il marxismo, che Marx ed Engels hanno impiegato per conoscere la realtà concreta. Ecco l'esigenza di usare il marxismo non come strumento di propaganda, ma come strumento di analisi, di comprensione della realtà.  Certo, spiegare la sconfitta del '20-21 col fatto che non si conoscesse bene l'Italia è insufficiente, è unilaterale, è polemico, però è senza dubbio uno degli elementi della verità.  Il gruppo dell'Ordine nuovo, alla testa del partito col '24, cercherà di arrivare ad un'analisi dell'Italia, ad una conoscenza del processo storico italiano. Le tesi del terzo Congresso di Lione sono un'analisi del processo attraverso cui si è formato lo Stato unitario italiano per individuare da questa analisi concreta, storica, le forze motrici della rivoluzione nella classe operaia del Nord e nei contadini del Mezzogiorno e delle Isole. Si veda il saggio sulla Questione meridionale, contemporaneo alle Tesi di Lione.  Gramsci riprende un concetto di egemonia che nel '25 aveva già usato in polemica contro Bordiga dicendo: Bordiga non ha capito il concetto leniniano dell'egemonia, dell'alleanza della classe operaia con gli altri ceti e soprattutto con i contadini e si è attenuto ad una posizione astratta per cui la classe operaia deve restare chiusa in se stessa, ha temuto che ogni alleanza fosse una contaminazione piccoloborghese della classe operaia, per questo non ha capito l'essenziale di quello che è il leninismo, alleanza operai contadini, costruzione dell'egemonia.  Nella Questione meridionale inoltre Gramsci pone non solo la questione meridionale come elemento nazionale decisivo e quindi chiave della egemonia della classe operaia, ma entra in una definizione pili precisa della egemonia. Che la questione meridionale sia elemento decisivo della egemonia è un momento molto importante, perché non aver capito questo aveva reso il movimento socialista subalterno alla politica della borghesia e di Giolitti, cioè aveva accettato la politica di Giolitti assai limitata, da un lato, e, dall'altro, riformistica senza riforme in un certo senso, che però faceva concessioni alle cooperative del Nord, al diritto di associazione, alla funzione dei sindacati, non interveniva come Stato nei conflitti del lavoro, ecc., facendo pagare tutto questo al Mezzogiorno. Nel Mezzogiorno faceva la politica della camorra, degli «ascari», cioè dei deputati che andavano in Parlamento per votare sempre « Sì », reclutati attraverso le clientele, ecc. Il modo in cui si spezza l'egemonia della borghesia è il modo in cui si rompe questo blocco industriale e agrario tra la borghesia capitalistica del Nord e i grandi proprietari terrieri, latifondisti del Sud, e si salva l'alleanza classe operaia del Nord e contadini del Sud.  A questo proposito Gramsci dice: il proletariato può diventare classe dirigente e dominante, nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, il che significa in Italia (nei reali rapporti di classe esistenti in Italia): nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe masse contadine.  La questione delle alleanze, quindi, è vista come questione decisiva per conquistare il dominio e la direzione, e la questione contadina viene vista come essenziale. Ma non la questione contadina in generale (tra l'altro non esiste). La questione contadina in Italia è storicamente determinata, non è la questione contadina ed agraria in generale, in Italia la questione contadina ha, dice Gramsci, per la tradizione italiana, per il determinato sviluppo della storia italiana, assunto due forme tipiche e peculiari: la questione meridionale e la questione vaticana, cioè il rapporto con i contadini del Sud e con i contadini legati alla Chiesa cattolica, di ispirazione cattolica.  Ora che cosa si può dire in proposito? Si può dire che c'è un altro passo in cui egli si richiama alla dittatura del proletariato, che l'egemonia viene vista come una direzione che si conquista nella società civile e la dittatura del proletariato è concepita come la forma statale, politica dell'egemonia, anzi essenzialmente come la forma. statale.  Inserisce qui una distinzione tra società civile e Stato. Nella società civile l'egemonia, nello Stato la dittatura del proletariato, che però in Gramsci non è così schematica. I due momenti sono fusi e Gramsci, nei Quaderni, avverte che la distinzione tra Stato e società civile, società politica e società civile è una distinzione puramente di metodo, metodologica, non organica, perché in realtà questi due elementi sono fusi. Società civile e Stato non SI separano nella realtà.  Come è noto la parola egemonia deriva da un verbo greco che significa dirigere, guidare, condurre. Gramsci usa il termine egemonia non nel significato tradizionale che sottolinea soprattutto il « dominio », ma nel senso originario, etimologico, greco: «direzione », «guida ». Trae questo termine da Lenin, perché Lenin l'aveva impiegato nel 1905 proprio per indicare la funzione dirigente della classe operaia nella rivoluzione democratico-borghese; Lenin non lo usa più nel 1917, quando usa ormai il concetto di dittatura del proletariato. Ma non c'è dubbio che la capacità dirigente della classe operaia nel processo rivoluzionario congiunge nel '17 strettamente la rivoluzione democratica alla rivoluzione proletaria, in modo che la dittatura del proletariato si assume gli obiettivi della rivoluzione democratica, quegli obiettivi che la borghesia non sa realizzare, e nella dittatura del proletariato vengono infatti indicati, come obiettivi primi, obiettivi democratici e non obiettivi socialisti: la terra ai contadini, la nazionalizzazione delle banche e cose di questo tipo. indice Egemonia e blocco storico Gramsci riprende nei Quaderni il concetto di dittatura del proletariato, ma riferendosi alla dittatura del proletariato teorizzata e realizzata da Lenin. Poiché l'egemonia della classe operaia nella rivoluzione del 1905 fu sconfitta, significa che Gramsci usa il termine di egemonia nel senso di dittatura del proletariato, quella teorizzata e realizzata.  Ora Gramsci sa bene che nella dittatura del proletariato c'è il dominio e il consenso, la coercizione e la persuasione, ma perché la chiama egemonia?  La chiama egemonia perché vuole sottolineare nella dittatura del proletariato la funzione dirigente, la conquista del consenso, l'azione di tipo culturale e ideale che l'egemonia deve compiere, non c'è altra spiegazione a questo diverso uso dei termini. Sottolinea questo elemento, nella dittatura del proletariato, sia perché era quello rimasto più in ombra, quello che si era capito di meno (si era sempre intesa la dittatura soprattutto come violenza, limitazione delle libertà, e non come l'essenziale capacità dirigente, come Lenin aveva sempre più sottolineato, man mano che veniva avanti la costruzione del regime sovietico negli ultimi anni della sua vita). Gramsci usa questo termine, la egemonia, perché egli conduce una riflessione sulle esperienze del '19-20-21 e si pone ancora la famosa domanda: perché non abbiamo vinto?  Non abbiamo vinto, dice Gramsci, perché bisogna capire le differenze che esistono tra una società e un potere politico come quello russo, zarista, e un potere politico in una società come esiste in Italia e nei paesi capitalisticamente sviluppati. La domanda - si poteva fare la rivoluzione nel '19 o nel '20? c'erano le condizioni oggettive? non c'erano? cosa è mancato? - trova in realtà una risposta in questa analisi di Gramsci.  Gramsci dice: in Oriente, cioè in Russia, lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatina sa (ecco il punto); nell'occidente tra Stato e società civile c'è un giusto rapporto e nel tremoli o dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile, lo Stato era solo una trincea avanzata dietro a cui stava una robusta catena di fortezze, di casematte (più o meno diversa da Stato a Stato) ma questo richiedeva un'accurata ricognizione di carattere nazionale. Ecco la grande differenza: in Russia lo Stato era tutto, ed era indubbiamente casi, in una società molto fluida, gelatinosa, non articolata, non robusta, una enorme burocrazia zarista gestiva ogni momento della vita statale per cui quando lo Stato andava in crisi o in sfacelo a causa ovviamente della disfatta militare e durante la guerra del '14-18, dietro allo Stato non c'era più niente che resisteva.  In Occidente è diverso, dietro al tremolio dello Stato, e lo Stato italiano tremò fortemente nel '19 e '20, c'era però la robusta struttura della società civile, c'era l'apporto del capitalismo, le sue organizzazioni, la sua tenuta culturale e cosi via.  Questo, secondo me, è un tentativo di risposta di Gramsci al perché nel '19-20 siamo stati sconfitti, ma è al tempo stesso una riflessione molto più generale sul modo in cui si pone il problema della rivoluzione in Paesi capitalisticamente sviluppati.  Di qui egli trae la necessità di una diversa strategia rivoluzionaria, dice in altre pagine . Mentre in Russia la società civile era fluida ed embrionale, gelatinosa, era possibile la guerra manovrata, cioè lo scontro di classe rapidamente risolutivo, in Occidente è necessaria la guerra di posizione, che qui non significa stare fermi. 'è un altro passo in cui con guerra di posizione Gramsci indica una relativa staticità dei processi sociali e politici, qui non significa questo, qui guerra di posizione è la guerra di trincea, per cui vai all'assalto delle trincee, delle fortezze, delle casematte, cioè individui i gangli essenziali della vita sociale e statale e conduci quindi una politica (attualizzando un po') che investe la totalità della società e che tiene conto di tutte le complesse articolazioni della società. Cioè Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia rivoluzionaria, di un modo nuovo di concepire la rivoluzione.  Questo è l'enorme passo che egli ha fatto partendo dall'Ordine Nuovodel '19-20, attraverso La questione meridionale per arrivare ai Quaderni, perché il problema dell'Ordine Nuovo era: come facciamo a fare anche in Italia come in Russia? Ma il problema era fare come in Russia partendo dal movimento reale, non astrattamente.  Nel '26 già individuiamo che cosa distingue la questione contadina in Italia dalla questione contadina in Russia. Come noi risolviamo questo problema decisivo della egemonia proletaria che Lenin risolse in Russia con l'alleanza con i contadini? Qui che cosa è l'alleanza con i contadini? Qui è questione meridionale, qui è questione vaticana che l'origina.  Nei Quaderni del carcere Gramsci pone l'esigenza di una strategia, cioè dice: non possiamo fare come in Russia, abbiamo bisogno di una ricognizione del terreno nazionale, cioè di una analisi concreta della situazione concreta italiana, di calarci nel processo storico, nella originalità dei processi sociali, politici e culturali del nostro Paese.  L'interessante è, però, che egli si riferisca a Lenin quando dice: «mi pare che Ilic [Lenin] avesse compreso che occorreva un mutamento della guerra manovrata) applicata vittoriosamente in Oriente nel )17) alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente», cioè Gramsci attribuisce alla tattica del fronte unico della classe operaia, proposta dai bolscevichi, da Lenin alla Terza Internazionale, al suo Quarto congresso del 1922, la individuazione di un tipo diverso di lotta rivoluzionaria, di lotta di posizione. Fa dire a Lenin, a mio parere, molto di più di quanto Lenin non volesse dire, forza il suo pensiero, lo porta oltre.  Lo porta oltre però partendo da intuizioni che in Lenin ci sono, perché vi sono scritti di Lenin che forse Gramsci nemmeno conosceva in cui Lenin dice: in Occidente tutti i lavoratori sono organizzati, non è come in Russia dove non c'erano sindacati, dove i partiti avevano scarse radici, non avevano avuto una vita legale, ci sono cooperative, sindacati, partiti, municipi, ecc. Cioè Lenin dice: « in Occidente tutti i cittadini partecipano in qualche modo alla democrazia, non è come in Russia », quindi Lenin intuisce delle diversità in Occidente e propone una tattica, non una strategia, diversa, cioè il fronte unico.  Gramsci parte da questa intuizione di Lenin e la porta, secondo me, molto oltre e sottolinea fortemente la necessità di una ricognizione del terreno nazionale: una classe di carattere internazionale, cioè il proletariato, in quanto guida strati sociali strettamente nazionali e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristici e municipalistici, come i contadini, deve nazionalizzarsi in un certo senso, cioè deve calarsi profondamente nella realtà nazionale se è internazionalista, in quanto è internazionalista, se vuole dirigere i contadini, gli intellettuali, ecc., deve individuare la specificità del processo rivoluzionario. Dove si vede che l'egemonia è impensabile al di fuori della ricognizione nazionale, la egemonia è proprio la capacità di individuare la specificità nazionale, i caratteri specifici di una determinata società, l'egemonia è conoscenza, oltre che azione, e quindi è conquista di un nuovo livello di cultura, scoperta di cose che non si conoscevano.  Questo nazionalizzarsi, questo calarsi nella realtà nazionale e la conquista dell'egemonia sono in Gramsci strettamente congiunti. L'egemonia è individuazione della tattica e della strategia nuove che si devono usare in determinate situazioni.  Come nasce in Gramsci l'idea dell'egemonia? Marx aveva detto nella Ideologia tedesca, del 1845, che le idee dominanti in una società sono le idee della classe dominante, cioè la classe dominante diffonde le sue idee, la sua cultura, la sua ideologia in tutta la società. più esattamente Marx dirà nella prefazione a Per la critica dell'economia politica del '59, che sono i rapporti di produzione, quindi il modo di proprietà prevalente, che determinano non solo le istituzioni politiche e statali, ma il modo di pensare, la coscienza. Il modo di produzione però - i rapporti di produzione e il loro nesso con le forze produttive - è contraddittorio e quindi questa contraddizione, la contraddizione che esiste nel modo di produzione capitalistico, tra classe operaia e capitalisti per esempio, pone in discussione non solo la politica economica, le questioni sindacali immediate, ma anche la politica e la cultura delle idee della classe dominante.  Non appena la classe antagonistica nel sistema capitalistico, il proletariato, assume coscienza del suo antagonismo al sistema capitalistico, elabora non soltanto delle lotte sindacali immediate, ma anche una linea politica e una concezione del mondo, il marxismo, l'ideale socialista, una nuova morale che contrappone ai valori ed alla morale della società dominante. Attraverso un processo enormemente faticoso, attraverso una piccola avanguardia, poco alla volta, cerca di strappare all'egemonia ideale e politica della classe dominante una parte sempre più grande della classe operaia e dei suoi alleati, contadini, ceti medi, cerca di conquistare gli intellettuali.  Ora Gramsci si chiede come si tiene insieme una determinata società, cioè un determinato «blocco storico», un nesso di forze politiche e sociali, come si tiene insieme questo rapporto tra la struttura economica, i rapporti di produzione e di scambio, e lo Stato, come si può spiegare insomma che un determinato Stato, una determinata classe dominante tenga insieme e abbia il consenso di forze i cui interessi sono opposti.  Questo «blocco storico» trova il consenso tra gli operai, tra i contadini, i cui interessi sono opposti a quelli della società capitalistica, non solo con l'influenza politica, dice Gramsci, ma con l'ideologia. È l'ideologia che tiene insieme il blocco storico, che lo salda, che consente di tenere insieme classi sociali non solo di tipo differente, ma con interessi addirittura opposti, antagonistici. L'ideologia è il grande cemento del blocco storico, ed è momento della sua edificazione, che non è solo ideologica, è culturale, è politica in primo luogo, ma non può essere dissociata dal momento dell'ideologia e delle idee.  Noi allora abbiamo un processo per cui le classi, antagoniste per interessi, sono subalterne all'origine, Cloe non hanno una propria concezione del mondo, una propria cultura, ma hanno assorbito la cultura delle classi dominanti, in un modo eterogeneo, disorganico, passivo. Cosicché, il modo di pensare delle classi subalterne è privo di organicità, di capacità critica. Le classi subalterne sono però spinte alla ribellione, ma tale ribellione è un sussulto che non riesce ad organizzarsi in una politica perché c'è subalternità ideale, culturale.  È necessario tutto un processo perché le classi subalterne diventino autonome, si diano un partito, una linea politica, una concezione culturale, e allora da autonome lottano per diventare egemoni, dirigenti. Già prima della conquista del potere possono diventare egemoni, cioè. diffondere la propria concezione non solo politica, ma culturale, in tutta la società.  L'egemonia si conquista prima della conquista del potere ed è una condizione essenziale per la conquista del potere.  Il processo di egemonia è quindi un processo di unificazione del pensiero e dell' azione perché - quando le classi sono subalterne - può esserci per esempio una insurrezione contadina unita all'affermazione che i proprietari della terra ci sono sempre stati, e magari sempre ci saranno, un'insurrezione che spera nel re per sistemare le cose. Può accadere che gli operai di Pietroburgo, nel 1905, vadano in corteo al palazzo dello zar perché lo zar intervenga e faccia finire le ingiustizie. E lo zar pensa bene di farli mitragliare e allora gli operai cambiano idea. Prima erano subalterni, pensavano che lo zar fosse un «piccolo padre », il padre della chiesa ortodossa, che la soluzione delle ingiustizie dipendesse da lui.  Gramsci allora dice: c'è nelle classi subalterne una filosofia reale che è quella della loro azione, del loro comportamento. C'è una filosofia dichiarata che vive nella coscienza, che è in contraddizione con la filosofia reale. Bisogna sogna congiungere questi due elementi attraverso un processo di educazione critica per cui la filosofia reale di ciascuno, la sua politica, diventi anche la filosofia cosciente, la filosofia dichiarata. Per giungere a quel processo di unificazione di teoria e pratica, di costruzione di una cultura nuova, rivoluzionaria, di riforma intellettuale e morale. Le due cose sono strettamente congiunte per Gramsci.  Gramsci riprende questo concetto di riforma intellettuale e morale ancora una volta da Sorel, ma cambiandone completamente i contenuti. Riprende anche un tema tipico della cultura italiana del suo tempo che si ritrova nella destra, in Alfredo Oriani, per esempio, come nella sinistra, in Gobetti: l'idea cioè che all'Italia sia mancato qualcosa di simile alla riforma protestante, cioè una riforma della concezione del mondo e morale che arrivasse in profondità, nel popolo. In Italia c'è stata invece la controriforma, il distacco della Chiesa dal popolo, la sovrapposizione del dogma, l'irrigidimento gerarchico della Chiesa, la limitazione della libertà scientifica, di espressione artistica, c'è stata l'Inquisizione, l'ipocrisia, che ha viziato profondamente il carattere degli italiani, ne ha fatto dei cortigiani, ne ha fatto dei servi.  È mancata una riforma protestante. Gramsci dice che non solo è mancata una riforma protestante, ma è mancato qualche cosa ben di più della riforma protestante; qualche cosa di analogo all'illuminismo francese del settecento che preparò la rivoluzione francese, qualche cosa di simile alla rivoluzione democratico-borghese. indice La nozione di intellettuale Gramsci aggiunge: in Italia i laici hanno fallito il loro compito che era di diffondere una nuova concezione culturale, un nuovo umanesimo :fino agli strati più profondi e più incolti del popolo. Come era necessario fare. Gli intellettuali democratici laici non l'hanno fatto perché si sono mantenuti come una casta separata, con un suo linguaggio separato, con una sua vita culturale separata. È mancato l'elemento essenziale della costruzione democratica e di una riforma intellettuale e morale nel nostro Paese, cosa che solo la classe operaia può fare, non la Chiesa cattolica, perché la Chiesa cattolica tiene separati gli intellettuali e i semplici, parla due linguaggi, uno per gli intellettuali ed un altro per i semplici, ma sta bene attenta che gli intellettuali non rompano il rapporto con i semplici al tempo stesso.  Gli idealisti, Benedetto Croce, Gentile, hanno fatto una riforma intellettuale per i grandi intellettuali, non per il popolo. Al popolo lasciano la religione che è la filosofia di quelli che non hanno filosofia cosciente.  Questo processo di unificazione tra intellettuali e semplici lo può fare la classe operaia guidata dal marxismo, grazie al marxismo, e creando nuovi quadri intellettuali, organici alla classe operaia, che sono i suoi quadri, i suoi dirigenti.  Qui muta completamente la nozione di intellettuale, l'intellettuale non è chi sa il latino o il greco, lo scrittore o cose del genere, l'intellettuale è il dirigente della società, il quadro sociale. Un caporale dell'esercito anche se analfabeta è un intellettuale, secondo Gramsci, perché dirige i soldati, un intellettuale è il capo-lega bracciante, anche se analfabeta, come tanti lo erano al tempo di Gramsci, perché organizza i braccianti, perché li guida, perché li educa. Questi sono gli intellettuali secondo Gramsci, il tessuto connettivo del blocco storico, gli elaboratori della egemonia della classe dominante la quale senza gli intellettuali non potrebbe essere egemone, dirigente: sarebbe solo dominante e oppressiva e le mancherebbe la base di massa, il consenso necessario per esercitare il suo dominio.  La cosa interessante è che Gramsci elabora queste idee attraverso un'analisi del processo storico italiano. C'è sempre concretezza nel suo pensiero. Ad esempio analizza come si sia formata in Italia l'egemonia dei liberali, come i liberali con un'azione molecolare ed empirica abbiano assimilato, isterilito le forze repubblicane, mazziniane, ecc., e disgregato il blocco opposto con un'opera, egli dice, di direzione intellettuale e morale. Gramsci sottolinea l'importanza di questo momento ideale e morale nella direzione dei liberali moderati.  Ed è qui che egli introduce il concetto di supremazia. Un gruppo sociale, una classe ha una supremazia in quanto ha la direzione e il dominio, la classe che è all'opposizione non ha ancora il dominio, ma deve conquistare la direzione, cioè l'egemonia, se vuole conquistare anche il dominio e una volta conquistato il dominio deve mantenere la direzione.  Come si presenta, quindi, per Gramsci la rivoluzione? La rivoluzione si presenta in realtà come una c risi di egemonia, cioè come una crisi di capacità dirigente da parte di coloro che hanno il dominio perché non riescono più a risolvere i problemi del Paese, non riescono più a tenerlo insieme con l'ideologia. Pensate ai processi che oggi si sono compiuti. Lo spostamento a sinistra degli studenti, pur caotico ed anche pericoloso che sia, contiene molti elementi di individualismo borghese esasperato - e quindi resta nel quadro dell' egemonia culturale borghese molto più di quanto non si pensi -, ma è anche il segno della disgregazione di questa egemonia culturale, una disgregazione che non riesce ad uscire da se stessa, che si rigira e si tormenta intorno a se stessa. Ma che è il segno di questa crisi. Basta vedere come le idee del marxismo si sono diffuse e si diffondono.  Qui c'è un allargamento della nozione di rivoluzione.  Marx aveva detto: la rivoluzione si ha quando le forze produttive entrano in una contraddizione incontenibile con i rapporti di produzione. (Gramsci parte di qui, ma vede la totalità sociale). Lenin aveva detto: la rivoluzione si ha quando la classe dominante non riesce più a dominare, quando le classi oppresse non accettano più di essere dirette e oppresse alla vecchia maniera e abbiamo una grande ribellione di massa. Gramsci, in modo più preciso, la definisce la crisi di egemonia, come uno scollarsi tra dominio e direzione, come il venir meno della direzione, quindi come una crisi che investe tutta la totalità sociale, in cui il momento culturale, morale, ideale ha un'enorme importanza.  Noi stiamo vivendo un momento di questo genere. Si è rotto il vecchio blocco di potere che aveva come asse la Democrazia cristiana, è venuta meno la capacità dirigente del vecchio blocco di potere (che è sempre stata molto limitata del resto), non si è ancora costruito un nuovo blocco di potere che possa portare ad un nuovo blocco storico. Blocco di potere è un'espressione che Gramsci non usa, la usa Togliatti, intendendo la fase di preparazione di un nuovo blocco storico e di una nuova società, di una nuova base sociale, di un nuovo tipo di Stato, di un nuovo rapporto tra base sociale e Stato.  Il momento di questa crisi di egemonia è dunque un momento anche di crisi ideale, di crisi culturale, di crisi morale. Gramsci dà grande valore al momento del soggetto, della coscienza, delle idee nel processo rivoluzionario. L'egemonia è iniziativa, è intervento sul processo e guida del proletariato, come già Lenin aveva detto nel 1905, quando rimproverava ai menscevichi di alterare il materialismo storico, di deformarlo perché non capivano la funzione dei partiti i quali, avendo individuato e compreso la realtà oggettiva, intervengono nel processo per condur1o in una determinata direzione. Lenin diceva: i menscevichi non hanno capito la prima tesi su Feuerbach, la funzione del rapporto soggetto-oggetto. Non è a caso che Gramsci chiama il marxismo «filosofia della prassi», usando una terminologia che fu usata da Gentile. Però Gramsci l'usa in tutt'altro senso; non la prassi dell'intelletto, come intendeva Gentile, ma la prassi trasformatrice, rivoluzionaria, unità di soggetto-oggetto, intervento del soggetto sulla realtà.  Attenzione però. Gramsci parla sempre di egemonia della classe operaia, non del partito, perché Gramsci non ha mai rinnegato l'esperienza dei consigli di fabbrica e ritiene che la classe operaia debba darsi una molteplicità di organizzazioni per conquistare il potere. Mai Gramsci ha pensato che la classe operaia conquisti il potere solo col partito, essa deve avere altri collegamenti, altre organizzazioni, deve essere presente nelle istituzioni statali oltre che di massa.  Inoltre Gramsci non mortifica mai il movimento, dice che l'elemento cosciente deve saper depurare il movimento spontaneo da quanto c'è in esso di contraddittorio, di arretrato, di reazionario anche, deve depurarlo e portarlo al livello della scienza moderna, cioè del marxismo. Ma non si deve né disprezzare, né trascurare la spontaneità, che bisogna però aiutare. Bisogna partire da quello che egli chiama il senso comune e vedere quanto c'è di sano in questo senso comune, nelle sue contraddizioni, nelle sue superstizioni, nelle sue posizioni arretrate. indice  Il partito, moderno «Principe»  È compito del partito cogliere questo elemento sano, tirarlo fuori dal guscio (il nocciolo razionale, direbbe Marx) e portarlo al livello di una coscienza scientifica della realtà. Il partito è il momento decisivo della formazione dell'egemonia della classe operaia; non è possibile egemonia della classe operaia senza il partito, perché esso è l'unificatore dell'azione e del pensiero, della filosofia istintiva, non consapevole, presente nell'azione, e della filosofia consapevole che bisogna fare acquisire, dando la prospettiva, dando la visione dell'insieme.  In questo senso egli chiama il partito il moderno principe, riferendosi al Machiavelli e valorizzando enormemente Machiavelli. Un principe moderno non più come individuo, perché nella società moderna questo non è più possibile, ma come intelligenza e volontà collettiva, personificazione di una grande volontà collettiva: il partito è il moderno principe.  Del partito Gramsci mette molto in rilievo l'elemento della coscienza e della direzione. In ogni partito, secondo Gramsci, ci sono tre strati: uno di dirigenti, molto ristretto, a livello nazionale, uno di base che aderisce soprattutto per entusiasmo o per fede, e uno intermedio che collega questi due elementi. Senza questi tre elementi il partito non c'è, però Gramsci dice: attenzione, con l'elemento di base voi non formerete nulla, non formerete mai il partito; occorre l'elemento dirigente. Ovvero, un esercito non forma il capitano, ma alcuni capitani formano l'esercito. Per Gramsci la formazione del partito va dall'alto in basso, come per Lenin, cioè parte dal congresso, parte dal punto più alto della consapevolezza, il che non è una visione burocratica, ma è una visione di intervento della coscienza, della direzione sul movimento spontaneo. Educazione del movimento spontaneo, perché tutta la concezione pedagogica di Gramsci, dell'educazione come sforzo, come disciplina, dello studio anche come fatica, ci dice chiaramente come egli intenda la direzione.  Il partito è il grande riformatore intellettuale e morale, quello che supera la vecchia concezione e ne costruisce una nuova. C'è in Gramsci il superamento del meccanicismo materialistico tipico di Bordiga, di tutto il movimento socialista da cui lui veniva. Il suo ragionamento sul blocco storico è un ragionamento sulla totalità sociale, su gli elementi sociali, politici e culturali: l'egemonia costruisce un determinato blocco storico e il blocco storico si tiene insieme grazie all'egemonia, grazie alla direzione. L'egemonia è il momento di saldatura.  Ecco quindi un'egemonia che rompe il precedente blocco storico. Rompe il vecchio tipo di totalità sociale ormai in crisi e costruisce un nuovo tipo di totalità sociale, anzi, direi, sociale, politica e culturale.  Dicevo che Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia, non di più. A mio parere di più non poteva fare negli anni trenta: ha smesso di scrivere i Quaderni nel '35, quando la sua malattia si era tanto aggravata da togliergli la forza fisica di scrivere.  In questa elaborazione noi siamo andati avanti, cercando di dare una risposta a che cosa è la strategia rivoluzionaria in paesi capitalisticamente sviluppati. L'abbiamo cominciato a fare durante la guerra di Liberazione, parlando di democrazia progressiva, di democrazia di tipo nuovo, come diceva Togliatti.  Secondo Togliatti non ci si poteva più rifare al modello russo della rivoluzione perché la rivoluzione ha modi e scadenze diverse a seconda dei paesi, non c'è un unico modello. La ricerca del nuovo modello avrebbe potuto avvenire attraverso l'azione dei CLN (Comitati di Liberazione Nazionale) che Togliatti valorizza quando dice: avremmo preso una strada più rapida e più sicura se avessimo potuto mantenere in piedi i CLN. Lo afferma al quinto congresso del PCI.  Lavorando su questa indicazione di Gramsci, e non solo, lavorando sulla realtà oggettiva, riprendendo l'esperienza della guerra di liberazione, siamo venuti costruendo quella strategia che è, che chiamiamo la via italiana al socialismo. Questa strategia non può grettamente rinchiudersi in una sola nazione, deve per forza avere delle convergenze con la strategia di altri partiti, del movimento operaio in altri paesi capitalistici. Quello che gli altri chiamano euro-comunismo è fatto di accordi tra noi e il partito comunista francese, il partito spagnolo ed altri partiti.  Abbiamo naturalmente esteso il concetto di egemonia.Per noi l'egemonia, la capacità dirigente della classe operaia è capacità di realizzare tutte quelle alleanze che sono indispensabili affinché la classe operaia abbia accesso al potere in una società di capitalismo monopolistico e di capitalismo monopolistico statale. Perciò la classe operaia deve andare al di là dell'alleanza operai-contadini poveri (tra l'altro i contadini oggi sono solo il 15% della popolazione, comprendendo anche quelli ricchi), ma deve arrivare ai ceti medi delle città e delle campagne, deve arrivare al settore della piccola e media industria. Si tratta di un sistema di alleanze assai articolate e, badate bene, contraddittorio. perché, tra gli operai della piccola e media industria e il proprietario della piccola e media industria c'è indubbiamente una contraddizione, una contraddizione che noi dobbiamo indirizzare verso la contraddizione principale, come direbbe Mao-Tse-Tung, ovvero contro il capitalismo monopolistico.  Ora alleanze sociali cosi ampie non possono che esprimersi a livello politico, cioè in partiti politici. Questa è una cosa che Gramsci non aveva presente, per lui un partito solo faceva la rivoluzione: il Partito comunista. Al Partito socialista bisognava tagliare le radici. Gramsci non arrivava a questa visione cosi ampia delle alleanze, non ci poteva arrivare.  indice  Quale pluralismo  Per noi invece questa visione si esprime in una pluralità di partiti, e d'altra parte le democrazie popolari ci danno un esempio di pluralità di partiti. In Polonia, nella RDT, vi sono partiti che hanno una scarsa autonomia forse, ma esistono realmente.  Come mandare oltre questa esperienza? Sviluppando un sistema di alleanze, anche a livello politico, che è fatto di contrasto, che è fatto di confronto, che è fatto di lotta. Ad 'esempio, la nostra alleanza col partito socialista è anche lotta, è anche discussione non priva di asprezze, naturalmente. Questo sistema lo possiamo chiamare pluralismo, pluralismo sociale e politico, assumendo un termine che non è nostro, che è estraneo al marxismo, ma che viene dalla sociologia cattolica e dalla sociologia americana.  La sociologia cattolica intende per pluralismo una pluralità di istituzioni che si equilibrano l'uno con l'altra: la famiglia, la Chiesa, lo Stato, la scuola e cosi via. Il suo pluralismo è fondato sull'interclassismo, cioè sulla collaborazione tra classe operaia e capitalisti e sul superamento della contraddizione tra l'una e gli altri.  La sociologia americana dice: il pluralismo è una pluralità di istituti che impedisce a una sola forza di avere l'egemonia, il dominio, la prevalenza.  Per noi il pluralismo è invece un'ampiezza di alleanze sociali e politiche tale da isolare il grande capitale monopolistico, la sua logica e la logica da cui oggi è dominato il capitalismo di Stato in questa società, 1ìno a sconfiggerlo. Cosi si realizza il vero pluralismo, perché noi diciamo che fino a quando esiste il grande capitale il pluralismo reale nella società non ci sarà mai, sarà sempre apparente.  La nostra Costituzione è pluralistica, ma il pluralismo reale della nostra vita è apparente. Invece vi è il monopolio dei mezzi di informazione, dell'economia e cosi via.  Ad esempio il pluralismo della società americana nasconde la realtà di una società in cui il potere economico e politico è al massimo grado concentrato, e la partecipazione democratica dei cittadini è puramente formale. In realtà, devono votare per due partiti che si confondo l'un con l'altro, che si mescolano, non si sa bene che differenza ci sia tra democratici e repubblicani. A volte i democratici su certe cose sono d'accordo con i repubblicani, su altre sono d'accordo solo con certi repubblicani. Si può dire che negli Usa ci sia un pieno trasformismo. Un reale pluralismo si ha quanto più si batte il capitalismo, quanto più si avviano forme di autogoverno della società, di partecipazione. Il nostro pluralismo è anche statale, di istituzioni statali e sociali. L'autonomia del sindacato, poi, è un momento decisivo. Quando diciamo pluralismo delle istituzioni statali intendiamo parlamento, regioni, comuni autonomi, comprensori, consigli di quartiere o di circoscrizione, sino ad arrivare ai consigli di fabbrica che non sono un istituto statale, ma sono sanciti dai contratti e riconosciuti dallo Statuto dei lavoratori. Perciò pluralità di istituzioni sociali e politiche. Inoltrel'autonomia dei sindacati significa che il pluralismo è già dentro la classe operaia, che esso non caratterizza semplicemente il rapporto della classe operaia con forze sociali non proletarie e il rapporto del Partito comunista con partiti non proletari, ma che vive nella classe operaia. Infatti nella classe operaia ci sono i comunisti, ci sono i socialisti, ci sono anche i democristiani, c'è anche il sindacato autonomo, c'è il consiglio di fabbrica, che ha anche esso una sua dialettica nei rapporti col sindacato e coi partiti.  Il pluralismo vive nella classe operaia e per questo può attuarsi nella società. Egemonia nel pluralismo, dunque, e non: egemonia e pluralismo, come diceva bene Ingrao, e fra i due termini c'è un rapporto dialettico. Più egemonia c'è, e più c'è pluralismo, non come confusione di forze, ma come forma di lotta, la più ampia, la più acuta, la più caratterizzata dal punto di vista di classe oggi. D'altra parte, senza pluralismo non si ha egemonia, ma isolamento della classe operaia e suo ritorno a posizioni subalterne. Di tale nesso dialettica tra i due termini i nostri avversari ovviamente non capiscono nulla, e dicono: se parlate di egemonia non potete parlare di pluralismo, e viceversa.  Dal punto di vista della sociologia cattolica e americana hanno ragione, ma noi usiamo questo termine con tutt'altro significato. Legato a questo si pone anche il tema della dittatura del proletariato. Come ci collochiamo?  Quando i socialdemocratici escludevano la dittatura del proletariato, e anche Kautsky la escluse dopo la rivoluzione d'Ottobre, in realtà dilatavano una concezione della democrazia tale per cui nell'esercizio della democrazia si arriva al socialismo, ma smarrivano la questione dell'autonomia e dell'egemonia della classe operaia, concepivano il processo come puramente elettorale e non come un'egemonia che rompe il blocco avversario, che aggrega e costruisce un nuovo fronte, quindi un'egemonia fondata sull'iniziativa e sulla lotta.  Noi abbiamo parlato di dittatura del proletariato nella Dichiarazione programmatica del nostro VIII congresso, nel '56, per sottolineare come cambino le forme della dittatura del proletariato a seconda dei paesi. Abbiamo mantenuto il concetto, ma abbiamo sottolineato questo elemento: cambiano le forme.  Abbiamo ripreso questo concetto al decimo congresso, nel '62, per sottolineare che della dittatura del proletariato emerge sempre di più l'elemento della direzione e del consenso. In seguito non abbiamo più ripreso questa nozione, l'abbiamo lasciata cadere.  Mi chiedo se sia compito dei documenti del partito affrontare questa questione tipicamente teorica o se invece non si debba sviluppare la discussione e il dibattito a livello teorico su questo problema.  Ad ogni modo la mia opinione, che altri possono naturalmente confutare, è che la nozione della dittatura del proletariato è nella situazione italiana dialetticamente superata, il che può voler dire assunta ad un livello superiore.  Cosa significa? Significa che la classe operaia deve, at· traverso tutto un processo (oggi un accordo programmatico, poi un governo unitario), costruire un nuovo blocco di potere in cui essa sappia avere una funzione dirigente.  D'altra parte, un nuovo blocco di potere o si costituisce sotto la direzione della classe operaia o non si costituisce.  Blocco di potere certamente contraddittorio dal punto di vista sociale e politico che dovrà saper risolvere le sue stesse contraddizioni in modo progressivo se ne sarà capace. L'egemonia si conquista, la direzione si conquista ogni giorno.  Ecco allora che è il blocco di potere ad esercitare la coercizione sulla società attraverso la legalità dello Stato. L'elemento della coercizione non può essere eliminato, non si costruisce il socialismo senza coercizione, anche dura, ma essa viene esercitata dal blocco del potere, non direttamente dalla classe operaia.  Del resto anche nella concezione di Lenin e nella realtà, la classe operaia ha esercitato la coercizione contro i nemici di classe e non verso i contadini poveri, non verso gli intellettuali. Lenin diceva: gli specialisti li dobbiamo conquistare, qui la coercizione non serve, li dobbiamo convincere a lavorare per noi, bisogna pagarli molto, ecc. ecc. Anche allora nel blocco di potere c'è un elemento di consenso e un elemento di costrizione.  Se si allarga il blocco di potere, come da noi deve allargarsi, si allarga anche la sfera del consenso, ma di un consenso molto travagliato, ottenuto con le lotte, tra contrasti, anche, tutt'altro che scontato. L'altro elemento è che non solo la classe operaia non esercita direttamente la coercizione, ma non impone nemmeno il suo modello di Stato a tutta la società. Nella rivoluzione russa è avvenuto questo: i Soviet, che sono un istituto tipicamente operaio, nato dal movimento operaio russo, si sono estesi ai contadini e ai soldati, e poi son diventati l'istituto statale. La classe operaia ha creato cioè la società a sua immagine e somiglianza, per riprendere una frase biblica, cioè ha impresso la sua visione statale su tutta la società.  Noi questo non lo facciamo e non lo proponiamo, noi assumiamo il parlamento dalla storia della democrazia ateniese, noi assumiamo i comuni, le stesse regioni derivano da una tradizione non nostra, e introduciamo, come elementi nostri invece, i consigli di fabbrica, il decentramento nei quartieri e cosi via, i quali sono gli elementi di una democrazia diretta che supera il parlamentarismo.  In questo senso allora mi pare che non si possa parlare di dittatura del proletariato, perché della dittatura del proletariato cade un elemento: la coercizione esercitata direttamente dalla classe operaia nelle sue forme e nei suoi modi. La coercizione resta ma è di tutto il blocco di potere che esercita anche la direzione sulla società, non sola la coercizione.  Inoltre all'interno del blocco di potere la classe operaia deve sapere esercitare la sua funzione dirigente per costruire lo stesso blocco di potere, per tenerlo insieme, per trasformarlo in senso progressivo. Mano a mano che si va avanti nel senso del socialismo, anche il blocco di potere si trasforma e diventa più avanzato, più omogeneo dal punto di vista di classe e cosi via.  Allora si mantiene della dittatura del proletariato questo elemento essenziale: l'autonomia e l'egemonia o direzione della classe operaia, superando l'altro elemento, lo elemento della coercizione inquadrandolo in un ambito più ampio.  Questa è soltanto la mia opinione in proposito.  “C’è in molti giovani comunisti uno stile di serietà riflessiva, di maturità e di chiarezza responsabile, che stupisce, se confrontato al tono un pò vacuo, avventato o ciondolone, che è tradizionale di molta gioventù italiana. Sono giovani che, usciti dalla dura scuola che i tempi impartiscono – sia pur con diverso profitto – a ciascuno, son passati alla scuola del Partito, e diventano in breve dirigenti : acquistano quel piglio, quel polso, quella quadratura, quasi non avessero fatto altro da molti anni, o come se tutto in loro da tempo tendesse a farne dei quadri comunisti, o non altro. Un dirigente di questo tipo è Gruppi, segretario della Federazione di Torino. Laureato in filosofia, e questa è una delle chiavi della sua personalità, ma proprio in un senso che smentisce nel modo più assoluto il concetto che dei filosofi s’ha volgarmente. Tutto in Gruppi è esattezza logica, ragionamento filato, rigore razionale: un matematico, potrebbe anche essere, se i numeri non fossero entità troppo astratte per il suo bisogno di concretezza.”  Così Italo Calvino, dalle pagine de l’Unità piemontese, descriveva Gruppi.  Mi sembra giusto rendere onore ad un grande compagno, anche se non ho avuto la fortuna di conoscere se non attraverso i suoi scritti.  Gruppi è stato per lungo tempo il responsabile della Sezione culturale del PCI e successivamente direttore dell’Istituto di studi comunisti “Palmiro Togliatti”, la famosa scuola di Frattocchie. Pubblicato numerosissimi articoli su Rinascita, su l’Unità, su Critica marxista (di cui è stato vicedirettore), assieme ad altre pubblicazioni.  Il suo lavoro, nel Partito ed all’Istituto, è stato fondamentale nel costruire quadri e militanti e nello sviluppare quella teoria rivoluzionaria che a noi, comunisti del XXI secolo, così manca.  Una testimonianza diretta da mio padre Marco. “Conobbi Gruppi alla scuola di Partito di Frattocchie/ In quel periodo il partito si era impegnato molto nella formazione dei gruppi dirigenti. Io insieme ad altri giovani compagni della gloriosa Federbraccianti delle varie regioni d’Italia, fra i venti e i trent’anni avevamo partecipato, orgogliosamente, a quella settimana di studi e approfondimenti sulla questione agraria e economica del Mezzogiorno. Ci colpi’ molto la preparazione e la competenza di Gruppi, ma soprattutto il suo linguaggio e la sua dialettica, coerentemente alineata a sani principi etico-morali. E uno che volava alto, ogni tanto si lasciava andare in ragionamenti filosofici che a noi, ancora politicamente acerbi, sembravano un pò difficili. Una settimana intensa e ricca che ci forni strumenti di analisi, di critica e di proposta.”  Qualche cenno biografico per i compagni che non lo conoscono, dal sito biografico gestito dalla moglie Tilde Bonavoglia e da suo nipote Andrea Bonavoglia http://digilander.libero.it/lucianogruppi/ : Iscritto al Partito comunista italiano. Partecipa alla Resistenza. Dopo la Liberazione è membro della Segreteria e responsabile della Commissione giovanile della Federazione di Torino. Responsabile della Commissione giovanile, poi della Sezione di stampa e propaganda, membro della Segreteria della Federazione di Milano.  Responsabile della Sezione d’organizzazione e vicesegretario della Federazione di Torino. Segretario della Federazione di Torino. Fa parte della Segreteria regionale del Piemonte. Membro della segreteria del Consiglio mondiale del Movimento dei partigiani della pace a Praga e a Vienna. Vice responsabile della Sezione di stampa e propaganda del Comitato centrale del PCI. Fa parte della segreteria della Federazione di Torino ed è capogruppo consiliare al Comune di Torino. Rappresentante del PCI nel Comitato di redazione della rivista internazionale Problemi della pace e del socialismo, a Praga. Vice responsabile della Sezione culturale del Comitato centrale del PCI.  Dal ’64 al ’66 responsabile della Sezione per le scuole di partito.  Dal ’66 al ’73 vice responsabile della Sezione culturale del Comitato centrale del PCI.  Vicedirettore della rivista Critica marxista.  Direttore dell’Istituto di studi comunisti Palmiro Togliatti (Frattocchie).  Presidente dello stesso istituto.  Membro del Comitato centrale, Membro della Commissione centrale di controllo. Al congresso ha chiesto di non essere riproposto per organismi dirigenti del PCI;  Ha restituito la tessera dei Democratici di Sinistra; Iscritto al Partito della Rifondazione Comunista;  Nello stesso sito è possibile trovare l’importantissimo “La concezione marxista dello Stato”, che riunisce le lezioni tenute presso Frattocchie. http://digilander.libero.it/lucianogruppi/concezionedellostato/la_concezione_dello_stato.html  Per finire, la commemorazione su “L’Ernesto” https://www.marx21.it/rivista/5142-marx-dalla-democrazia-radicale-al-comunismo-rivoluzionario.html  Un breve estratto da quest’ultimo articolo, ancora oggi attualissimo, di Bianca Bracci Torsi e Fosco Giannini, che mi sento di condividere in pieno :  “Due propensioni, quella dello studio teorico e della formazione, quanto mai necessarie ed attuali oggi, in questa fase caratterizzata sia dalla povertà teorica che segna di sé una parte significativa del movimento comunista che dalla grave sottovalutazione del valore della formazione politico-teorica ( la “scuola quadri”) che si manifesta anche in Rifondazione comunista.  Luciano Gruppi, dunque, non solo nel ricordo: ma per il lavoro futuro, come è destino dei grandi. “Luciano Gruppi. Gruppi. Keyword: la via italiana al socialismo, egemonia della filosofia del linguaggio ordinario -- Refs.: Luigi Speranza: Grice e Gruppi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Guastella – la conoscenza – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Misilmeri). Filosofo. Grice: “Guastella is an interesting philosopher. A system-builder! He wrote on epistemology and metaphyusics in a clear style.” Cosmo Guastella (Misilmeri), filosofo. Figlio di Vincenzo farmacista e da Marianna Piazza, uno dei quattro figli della coppia, ancorché di famiglia borghese non ebbe un'infanzia agiata. Sudia con l'ausilio di borse di studio fino a laurearsi a Palermo. È ritenuto il capostipite del fenomenismo. Insegna a Palermo. Opere: “La conoscenza”; “Metafisica”; e  “Il fenomenismo”. Fonda la Biblioteca filosofica. Dizionario Biografico degli Italiani, Dizionario di filosofia. Cause empiriche: e cause metaempiriche. La causa nel senso scientifico. Distinzione tra la causa nel senso metafisico (causa efficiente) e la causa nel senso scientifico. I filosofi hanno ammesso generalmente questa distinzione. Impossibilità di provare la dottrina di Comte sulle cause efficienti. L’ANTROPOMORFISMO. La  Filosofia  teologica.  La filosofia teologica nel periodo prescientifico. Funzioni della divinità come principio esplicativo dei fenomeni. La divinità come principio motore. La divinità come principio di una spiegazione teleologica dei fenomeni. Le prove dell'esistenza  della  divinità. I concetti della teologia trascendentale. Immutabilità ed extra-temporalità di Dio. Dio come l'Infinito o l'Assoluto. Il dualismo e il panteismo nella filosofìa antica e nella moderna. Il valore delle prove dell'esistenza della divinità  dipende da quello del concetto   di causa efficiente. L'animismo come spiegazione dei fenomeni  biologici. Osservazioni  generali  suU'animismo  come   ipotesi  biologica. La  spiegazione animista dei fenomeni biologici. Estensione del dominio della coscienza in conseguenza  dei  principii  dell'animismo. Spiegazione intellettualista  dell'istinto. L'ilozoismo. Osservazioni  generali  sull'ilozoismo. L' ilozoismo nella filosofia antica e moderna. L'ilozoismo  nella filosofia contemporanea. Il panpsichismo. Osservazioni generali sul panpsichismo. La monadologia di Leibnitz. I panpsichìsti moderni. L'idealismo. Osservazioni generali sull'idealismo. L'idealiijino  di  Kant L'idealismo assoluto, dei successori di Kant. Il concetto di causalità dell’antropomorfismo. Le oda volizionale della causazione e teorie affini. Osservazioni su queste teorie. La filosofia meccanica o impulsionista.   Della filosofia meccanica o impulsionista in generale. Il  principio,  su  cui  è  fondata  la  filosofia  meccanica,  in  Cartesio  e  i  cartesiani,  in  Hobbes,  in  Spinoza,  in  Newton, nei  primi  newtoniani,  in  Locke,  in  Leibnitz,  in  Clarke, in Huygens, Bernouilli, Eulero, d'Alembert, Hume, Reid, Dugald-Stewart, Hamilton, Galluppi, Rosmini,  Cuvier, nei  fisici  e  filosofi  contemporanei. La proposizione che l’azione a distanza è inconcepibile, assurda e  contraddittoria. Origine e sviluppo  dell'idea  di  causa efficiente.  Le causazioni più familiari ci sembrano spiegarsi da se stesse e potere  spiegare tutte le altre. Proposizioni di filosofi che hanno riconoscinto questo fenomeno psicoloco (di Bacone, Stuart-Mill, Bain,  GiiffopA,  Pag.Stallo). L' idea  di  causa  efficiente  deriva,  dall' «et  sperienza  delle  causazioni  più  famlliani. Le causazioni  più  familiari  non  sembrano,  misteriose  che  nella  riflessione  scientifica. Perchè l’azione volontaria    diventa   misteriosa Perchè diventa misteriosa,  in generale, l'azionem utua tra  lo  spirito e  il  corpo. Perchè  diventa  misteriosa  1'  attività  interiore dello  spirito 3Perchè diventano misteriose IMnipulsione e le altre azioni fisiche  più  familiari. Conclusione  sulle  ragioni  per  cui  le  causazioni più  familiari perdono la loro  intelligibilità. La tendenza naturale a spiegare le sequenze non familiari riconducendole alle familiari, e quindi il principio di causalità efficiente nella sua forma primitiva e spontanea, non possono avere alcun valore obbiettivo Forma secondaria del principio  di causalità efficiente. Il principio di causalità efficiente è un'induzione incosciente dalle causazioni più familiari. Origine comune e differenziazione prògressiva dei concetti fisico e metafisico i' deWsL causalità. La dottrina dbll'inconoscibilb b l'idea di CAUSA EFFICIENTE. La dottrina dell'inconoscibile come appliéàzìone del principio di causalità efficiente 'tiella sua forma secondaria. La proposizione che non conosciamo l'essenzal disile cose il fondamento principale della teoria  dell'ÌDCon<6scibìl'e è il principio di causalità efficiènte. Questo fóndamente non può pretendere ad alcun calore obbiettivo. Ciò è provato più chiaramente dalTesame dell'inferenza incosciente di cui è la conclusion. Noi conosciamo o possiamo conoscere l'essenza delle cose e il modo essenziale della produzione dei fenomeniLa Forza nel senso metafisico. La  filosofia  apriorista.  Lo sforzo di ricostruire la realtà a priori è una delle tendenze più generali della speculazione metafisica. La filo&ofìa apriorista è sovratutto un'applicazione del principio di causalità  efficiente  La  filosofìa  apriorista  in  Cartesio, in Malebranche 4(ìy-in  Spinoza in Leibnitz, in  Locke, in Condillac, in  d'Alembert, in Hume, in Kant, in Fichte, Schelling, Hegel, in Reid, Ehigald-Stewart, Galluppi, Rosmini, Gioberti, Mamiani, in Taine e Spencer e in  Hartmann. Le pretese dimostrazioni  dei  principii  della  meccanica. La filosofia apriorista  al  di  fuori  della  ricerca della causa efficiente. Dottrine della filosofia apriorista sulla essenza e la definizione. Dottrine di Aristotile e di  Platone  in  particolare. Dottrine  analoghe e particolarmente  quella di Cuvier della correlazione  organica. Spiegazioni della filosofia apriorista della costituzione del cosmos (e particolarmente quelle  di  Platone e  di  Aristotile). L'argomento ontologico come applicazione della spiegazione apriorista. IL REALISMO DIALETTICO. Perchè si realizzano le astrazioni. Spiegazioni correnti e precisasione della  qaistione. Il  realismo,  in quanto  è una  spiegazione del  mondo  (realismo dialettico),  ha Io scopo di  identificare  il  rapporto  logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza  al'  rapporto  ontologic tra la causa efficiente  e l’effetto. Origine del realismo degti scolantici. Il sistema di Hegel. Il sisttema di Taine. Realismo (realizzazione dei concetti) del Taine. Il suo metodo dialettico (cioè di dedurre i concetti realizzati). L'idea fondamentale di questo sistema è l’dentificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e l’effetto. Il sistema di Platone. Cenni generali sulla filosofia di Platone. Apriorismo di Platone. Suo metodo puramente  deduttivo. Importanza  capitale  attribuita  al  metodo;  universalità della filosofia e sua sìstemftticìtà. Affinità del metodo dialettico col metodo matematico.C aratteri prepri del metodo dialettico, per cui differisce dal matematico. Tutte le altre Idee si deducono da quella del Bene. L'Idea del Bene non è solo il principio logico ma anche il principio ontologico (la  causa  produttrice)  delle  altreldee, enonne è il principio ontologico che in quanto ne è  il principio logico. La deduzione progressiva delle Idee le une dalle altre é una derivazione reale delle Idee che si deducono da quelle da cui si deducono.  L'Idea del Bene è la più generale di tutte. Contenuto di quest'Idea. Metodo di divisione e gerarchia delle Idee. Teoria della definizione.La dieresi è una deduzione in cui l’Idea divisa funge da principio, e le Idee in cui si divide da conseguenza. Come  la  dieresi  è  una  deduzione,  e  come si trovino in essa 1 caratteri distintivi del metodo dialettico. Il metodo indiretto del Parmenide. É con questo metodo che deve dimostrarsi il primo principio (cioè l'Idea del Bene). Un'Idea generale non è solo il principio logico ma anche ontologico (la causa), clelle Idee più particolari in cui si divide. L'obbiettivazione dei concetti e il metodo dialettico hanno per Iacopo l’identiflcazione del rapporto tra il princìpio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e l’effetto. n  iftiema. Idea generale della filosofia di Spinoza.Il  concetto del parallelismo psico-fisico e suoi sviluppi. Metodo puramente deduttivo. Identità dello sviluppo logico e dello sviluppo ontologico. Le cose considerale sua specie aetemitatis. L’essere, secondo Spinoza, è una serie di astrazioni realizzate che  derivano logicamente e ontologicamente le une dalle altre, in modo che il rapporto tra il principio e la conseguenza é identico con quello tra la causa (efficiente) e l’efi'etto. Difi'erenze e omologia fra tutti questi sistemi. Come il realismo dialettico deriva dalla tendenza naturale del nostro spìrito da cui derivano tutti gli altri concetti metafisici. NIHIL ORITUR, NIHIL INTERIT. Tendenza naturale a supporre che il reale nella sua essenza é immutabile. I fisici greci in generale. Dottrine di Empedocle e di Anassagora. Il sistema degli atomisti. Dottrine dei fisici che ammettevano una sostanza unica. Dottrina d’Eraclito dell’identità dei contrari  Dottrina degl’Eleati. Spiegazioni meccaniche dei fisici in generale. Dottrine dei filosofi indiani. Dottrine di Bruno e di Telesio.  La teoria meccanica  (cioè  laridnrione di tutti i fenomeni a quelli meccanici) nella scienza moderna. Applicazione della teoria alla costituzione della materia. Ancora della teoria meccanica. Applicazione ai fenomeni psichici. Spiegazione meccanica dei fenomeni  della vita. Il principio della persistenza delle cose nelle stesse proprietà nell'atomismo metafisico, nei sistemi monisti,  nel realismo, nel criticismo. Dottrine di Herbart e di Corleo Dottrina  dell’identità della causa e dell'efletto. IL CONCETTO DELL'ANIMA. L'animismo  (sostantificazione dell’anima)  è  il  prodotto d'una tendenza naturale dello spirito umano.  Le prove della sostanzialità dell’anima. Materialiià deir anima Della forma primitiva  deirÀnìmismo. L'animismo è anch'esso un'applicazione del principio deirimmutabilità dell'essenza delle cose. Le concezioni moniste si fondano su questo principio egualmente che le dualiste. È per esso che deve spiegarsi anche Tanimismo del'uomo primitive. Il concetto dell'immortalità dell'anima e quello della sua immaterialità sono degli sviluppi naturali della teoria animista. Il substratum, supposto indisponsabile j dei fenomeni psichici non è che il fantasma del corpo» La terza forma dell'animismo, cioè la dottrina che la sostanza dello spirito è un fatto psichico permanente che è il substratum di tutti gli altri. DOTTRINA DI ROSMINI SULLA SOSTANZA  DELL'ANIMA  carte. IMMANENZA DELLE IDEE PLATONICHE.Prove di qoeatimmanetiixa. I termini designanti le Idee in generale. I  termini  designanti  ciascen'Idea.  carte Il  concetto e la conoscenza generale si  riferiscono  airidea» La definizione e la dieresi, che hanno per oggetto le Idee, si riferiscono alle cose considerate d'una maniera  generale ed astratta L'Idea  è l’universale,  ciò che è lo steiso in tutti gl'individui del genere.VLa  napouoCa, la  (léBe^i^ e le altre espressioni dell'inerenza nelle Idee nelle  cose. Contenenza reciproca tra le Idee generiche e le Idee specifiche. Gli elementi delle Idee sono anche gli elementi delle cose. Tutto il reale si risolve nelle Idee. L'essere non 6 fuori del divenire, ma nel divenire stesso. BlMeuMione degli argomenti contro l’immanenza  La sostanzialità delle Idee. La distinzione fra le Idee e le cose interpretata come una separazione. ni.  Le Idee considerate come esemplari a cui le cose non si conformano che approssimativamente. Le allegorie del Fedro e del Timeo. La  testimonianza d'Aristotile. IL PITAGORISMO PLATONICO. Cenni snlle dottrine del Pitagorici  e  sul pitagorismo di Platone In generale. I namert ideali  carte  I due elementi. La forma e la materia delle Idee. La forma e la materia delle cose. Le entlUi  matematiche  (come intermediarie fra le Idee e le cose. Il pitagorismo nel Timeo e nel Filebo. Motivi deireTolnzione di Platone verso il pitagorismo. II pitagorismo nel Timeo (Carattere simbolico della cosmogonia del Timeo e suo significato). Il pitagorismo nel Timeo (il limite e l’illimitato di questo dialogo). Il pitagorismo nel discepoli di Platone. Le tre dottrine dei platonici sui numeri carta. La dottrina di Xenocrate carte   La dottrina di Speusippo. DOTTRINE DI PLATONE SULL'ANIMA E LA DIVINITÀ NEL LORO RAPPORTO COL SISTEMA DELLE IDEE. L'anima e suo rapporto eon le Idee e eoi fenomeni (l’anima individuale carte l’anima cosmica carte L'interpretaslone teistica del sistema delle Idee (che le Idee sono i pensieri della divinità creatrice) liO idee e il pensiero (Interpretazione di Hegel e del Teichmùller dell'immortalità dell'anima e altre dottrine connesse. Platone non ammette l’identità dell'essere e del pensiero, e la sua idea è un’entità puramente obbiettiva. Cosmo Guastella. Guastella. Keywords: conoscenza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guastella: tra fenomenismo e noumenismo” – The Swimming-Pool Library. 

 

Grice e Guicciardini – le cose dello stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Guicciardini. Grice: “Guicciardini is what I call an Italian classic; some like Machiavelli, as Austin used to say, “but Guicciardini is MY Renaissance man!” – Grice: “There are various topics of interest: the italian of Machiavelli and Guicciardini in the development of a philosophical political lexicon; there’s the trope of the centaur –‘all’ombra del centauro.’ – Pure political philosophy of the type enjoyed by members of the Debating Union at Oxford!”  Terzogenito dei Guicciardini, famiglia tra le più fedeli al governo mediceo. Dopo una prima formazione umanistica in ambito familiare dedicata alla lettura dei grandi storici dell'antichità (Senofonte, Tucidide, Livio, Tacito), studia a Firenze seguendo le lezioni di Pepi. Soggiornò a Ferrara per poi trasferirsi a Padova per seguire le lezioni di docenti di maggior importanza. Rientrato a Firenze, esercita l'incarico di istituzioni di diritto civile. Nominato capitane dello Spedale del Ceppo. Inizia la stesura delle Storie fiorentine e dei Ricordi. Esattamente dieci anni prima, ossia con l'anno 1498, si chiudono quelle Cronache forlivesi di Leone Cobelli che espongono le premesse degli avvenimenti riguardanti Caterina Sforza e Cesare Borgia di cui Guicciardini si occupa, nelle sue Storie, per i notevoli riflessi che hanno sulla politica fiorentina. In occasione della guerra contro Pisa, venne chiamato a pratica dalla signoria, ottenendo l'avvocatura del capitolo di Santa Liberata. Questi progressi portarono il Guicciardini anche ad una rapida ascesa nella politica, ricevendo dalla Repubblica Fiorentina l'incarico di ambasciatore presso Ferdinando il Cattolico. Da questa sua esperienza nell'attività diplomatica nacque la Relazione, e anche il "Discorso di Logrogno", un'opera di teoria politica in cui Guicciardini sostiene una riforma in senso aristocratico della Repubblica fiorentina. Fece parte degli Otto di Guardia e Balia ed entra a far parte della signoria, divenendo, grazie ai suoi servigi resi ai Medici, avvocato concistoriale e governatore di Modena, con la salita al soglio pontificio di Giovanni de' Medici, col nome di Leone X. Il suo ruolo di primo piano nella politica emiliano-romagnola si rinforza con la nomina a governatore di Reggio Emilia e di Parma. Nominato  commissario generale dell'esercito pontificio, alleato di Carlo V contro i francesi, matura quell'esperienza che sarebbe stata cruciale nella redazione dei suoi Ricordi e della Storia d'Italia.  Alla morte di Leone X, si trova a contrastare l'assedio di Parma, argomento trattato nella Relazione della difesa di Parma. Dopo l'assunzione al papato di Giulio de' Medici, col nome di Clemente VII, venne inviato a governare la Romagna, una terra agitata dalle lotte tra le famiglie più potenti. Diede ampio sfoggio delle sue notevoli abilità diplomatiche.  Per contrastare lo strapotere di Carlo V, propaganda un'alleanza fra gli stati regionali allora presenti in Italia e la Francia, in modo da salvaguardare in un certo qual modo l'indipendenza della penisola. L'accordo fu sottoscritto a Cognac, ma si rivelò ben presto fallimentare; di questo periodo è il Dialogo del reggimento di Firenze, in cui si ripropone il modello della repubblica aristocratica. La Lega subì una cocente disfatta e Roma fu messa al sacco dai Lanzichenecchi, mentre a Firenze veniva instaurata la repubblica. Coinvolto in queste vicissitudini, e visto con diffidenza dai repubblicani per i suoi trascorsi medicei, si ritira nella villa Guicciardini di Finocchieto, nei pressi di Firenze. Qui compose due orazioni, l'Oratio accusatoria e la defensoria, ed una Lettera Consolatoria, che segue il modello dell'oratio ficta, nella quale espose le accuse imputabili alla sua condotta con le adeguate confutazioni, e finse di ricevere consolazioni da un amico. Scrisse le Considerazioni intorno ai "Discorsi" del Machiavelli "sopra la prima deca di Livio", in cui accese una polemica nei confronti della mentalità pessimistica dell'illustre concittadino. Completa anche la redazione definitiva dei Ricordi. Lasce Firenze e ritorna a Roma, per rimettersi di nuovo al servizio di Clemente VII, che gli offrì l'incarico di diplomatico a Bologna. Dopo il rientro dei Medici a Firenze, fu accolto alla corte medicea come consigliere del duca Alessandro e scrisse i Discorsi del modo di riformare lo stato dopo la caduta della Repubblica e di assicurarlo al duca Alessandro. Non fu tenuto tuttavia in altrettanta considerazione dal successore di Alessandro, Cosimo I, che lo lascia in disparte. Si ritira nella sua villa Guicciardini di Santa Margherita in Montici ad Arcetri. Rriordina i Ricordi politici e civili, raccolse i suoi Discorsi politici e scrisse la “Storia d'Italia. Morì ad Arcetri, quando da circa due anni si era ormai ritirato a vita privata.  Guicciardini è noto soprattutto per la Storia d'Italia, vasto e dettagliato affresco delle vicende italiane tra l’anno della discesa in italia del Re francese Carlo VIII e il anno della morte di Papa Clemente VII. -- è un monumento al ceto italiano e più specificamente alla scuola fiorentina di filosofi di cui fecero parte anche Machiavelli, Segni, Pitti, Nardi, Varchi, Vettori e Giannotti.  L'opera districa la rete attorcigliata della politica degli stati italiani del Rinascimento con pazienza ed intuito. L'autore volutamente si pone come spettatore imparziale, come critico freddo e curioso, raggiungendo risultati eccellenti come analista e filosofo (anche se più debole è la comprensione delle forze in gioco nel più vasto quadro europeo).  Guicciardini è l'uomo dei programmi che mutano "per la varietà delle circunstanze" per cui al saggio è richiesta la discrezione (Ricordi), ovvero la capacità di percepire "con buono e perspicace occhio" tutti gli elementi da cui si determina la varietà delle circostanze. La realtà non è quindi costituita da leggi universali immutabili come per Machiavelli. Altro concetto saliente del pensiero guicciardiniano è il particulare (Ricordi) a cui si deve attenere il saggio, cioè il proprio interesse inteso nel suo significato più nobile come realizzazione piena della propria intelligenza e della propria capacità di agire a favore di se stesso e dello stato. In altre parole, il particulare non va inteso ego-isticamente, come un invito a prendere in considerazione solamente l'interesse personale, ma come un invito a considerare pragmaticamente quanto ognuno può effettivamente realizzare nella specifica situazione in cui si trova (dottrina che collima con quello di Machiavelli).  In netta polemica, Pitti scrisse l'opuscolo Apologia dei Cappucci, a difesa della fazione dei democratici. E considerato il progenitore della storiografia moderna, per il suo pionieristico impiego di documenti ufficiali a fini di verifica della sua Storia d'Italia.  La reputazione di Guicciardini poggia sulla Storia d'Italia e su alcuni estratti dai suoi aforismi. I suoi discendenti aprirono gli archivi di famiglia e diedero incarico a Canestrini di pubblicare le sue memorie.  Furono pubblicati i suoi Carteggi, che contribuirono ad un'accurata conoscenza della sua personalità.  «L’angolo di prospettiva dal quale si prese a considerare, nella prima metà del secolo XVII, l’opera guicciardiniana, la posizione di questa nel giudizio dei lettori secenteschi, sono bene indicati da uno spirito acuto dell’epoca, A. G. Brignole Sale. “Quindi non per altro, a mio giudizio, porta pregio il Guicciardini sopra il Giovio, sol che questi, qual pittor gentile, de’ soggetti ch’egli ha per le mani colorisce agli occhi altrui con vivacissimi ritratti, senza inviscerarsi, la superficie, quegli per contrario, qual esperto notomista, trascurando anzi dilacerando la vaghezza della pelle, vien con l’acutezza della sua sagacità fino a mostrarci il cuore e il cervello de’ famosi personaggi ben penetrato.” All’affiatamento con lo spirito dell’opera guicciardiniana si accompagnò, sul piano letterario, una migliore intelligenza del suo stile, di cui si cominciò ad ammirare, superando le pedanti riserve linguistiche, la scorrevolezza, l’intima misura e precisione pur nel tono sostenuto. Tuttavia, proprio dal più accreditato esponente letterario del tacitismo, Boccalini, fu formulato un giudizio tra i meno benevoli alla Storia.»  Il giudizio di Francesco De Sanctis  Copertina di un'antica edizione della Storia d'Italia Francesco De Sanctis non ebbe simpatia per Guicciardini ed infatti non nascose di apprezzare maggiormente il Machiavelli. Nella sua Storia della letteratura italiana il critico irpino mise in evidenza come Guicciardini fosse, sì, in linea con le aspirazioni di Machiavelli, ma se il secondo agì in linea con i suoi ideali, il primo invece "non metterebbe un dito a realizzarli". De Sanctis affirma:“Il dio del Guicciardini è il suo particolare.” “Ed è un dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici, o lo stato del Machiavelli.” “Tutti gli ideali scompaiono.” “Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato.” “Non rimane sulla scena del mondo che l'INDIVIDUO.” “Ciascuno per sé, verso e contro tutti.” “Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita”. E poco più in basso aggiunse. “Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo «speculare» o l'osservare. Né altro è il sistema. Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa, e ammette quello che è più logico e più conseguente. Poiché la base è il mondo com'è, crede un'illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento".  Nel Romanticismo, la mancanza di evidenti passioni per l'oggetto dell'opera era infatti vista come un grave difetto, nei confronti sia del lettore che dell'arte letteraria. A ciò si aggiunga che Guicciardini vale più come analista e filosofo che come scrittore. Lo stile è infatti prolisso, preciso a prezzo di circonlocuzioni e di perdita del senso generale della narrazione. "Qualsiasi oggetto egli tocchi, giace già cadavere sul tavolo delle autopsie".  Altre opera: Scritti autobiografici e rari (Laterza), Storie fiorentine; Discorso di Logrogno, Considerazioni sui Discorsi del Machiavelli, Ricordi politici e civili Dialogo del Reggimento di Firenze, Storia d'Italia, Scritti sopra la politica di Clemente VII dopo la battaglia di Pavia (Firenze, Olschki); Le cose fiorentine, R. Ridolfi, Firenze, Olschki, Carteggi,  presso Zanichelli, Bologna;  presso Istituto per gli studi di politica, Firenze; presso Istituto storico italiano, Roma; presso G. Ricci, Roma. "Donna di grandissimo animo e molto virile", secondo il Guicciardini (Storie fiorentine). N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, A. G. BRIGNOLE-SALE, Tacito abburatato, Genova, «Or chi non vedescriveva il Tassoniche questo è uno stil maestoso e nobile, quale appunto conviensi alla grandezza delle cose proposte e alla prudenza politica dell’Istorico che le tratta? e che non ostante i periodi sien tutti numerosi e sostenuti, per esser ben collocate le parole fra loro, e però l’ordine, e ’l senso facile e piano in maniera che ’l lettore non trova scabrosità né intoppi, come nello stil di Villani, che va saltellando e intoppando a ogni passo etc. A. TASSONI, Pensieri diversi, Venezia,  Il legame del pensiero politico tassoniano con quello di Guicciardini (incluso, a differenza del Machiavelli, tra gli storici della «prima schiera» con Comines e Giovio, ossia considerato pari agli antichi; v. Pensieri) e del Machiavelli è noto: i due fiorentini, come dice il Fassò, furono «i due poli» a cui si volse la sua riflessione politica. (Introduz. a TASSONI, Opere, Milano-Roma,  T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e Pietra del paragone politico, I, Bari,  Walter Binni, I classici italiani nella storia della critica: Da Dante al Marino, Nuova Italia, Testi Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze” (Bari, Laterza); “Historia di Italia, Pisa, Capurro; Historia di Italia. Libri (Venezia, Angelieri): Scritti autobiografici e rari” (Bari, Laterza); “Scritti politici” (Bari, Laterza); “Storia d'Italia” (Bari, Laterza); “Storie fiorentine” (Bari, Laterza); Studi R. Ridolfi, 'Vita', Milano, Rusconi Treves, Il realismo politico, Firenze, R. Ramat, “La tragedia d'Italia” Firenze, V. De Caprariis, Guicciardini. Dalla politica alla storia, Napoli, (ristampa Bologna, G. Sasso, Per Francesco Guicciardini. Quattro studi, Roma, E. Cutinelli-Rèndina, Guicciardini, Roma, Famiglia Guicciardini. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Propositioni, overo Considerationi in materia di cose di Stato, sotto titolo di Avvertimenti, Avvedimenti Civili, & Concetti Politici di Guicciardinii, Lottini, Sansovini, Venezia, Presso Altobello Salicato, Opere illustrate da Giuseppe Canestrini, Firenze, Barbera, Bianchi e Comp., (Bari, Gius. Laterza); biblioteca italiana. Il principe, che colmezo del suo Ambasciatore vuole ingannar Paltro, deueprimaingannar l'Ambasciatore,percheopera,en parlaconmaggior efficaccia,credendo che cosisiala mentedel fuo Principei,lchenon farebbesecredesseesseresimulatione,eg ilmedesimoricordousiogn'uno,che permezod'altrivuoleper Juadereaun'altro il falso. DAL fareònonfareunacosachepaiaminima,dependebenspejlomomentodi coseimportantiffime, o però nellecosepiccoledeuefieffereauuertito,ceonsiderato. FÁCIL cosaèguastarsiunbel'eseredificilealracquistarlo,peròchisitruong inbuon gradodeuefareognisforzodinonlasciarselovscirdimano. E'Pazziasdegnarsiconquellepersoneconlequaliperlagrandezzaloro,tunon puoisperaredi poteruendicarti,peròsebena pareessereingiuriatodaquesti, bisogna patire, efimulare NELLE cose di guerranasconodaun'horaàvn'altrainfinitevarietà,perònon fideuepigliaretroppoanimodelenuoueprofpere, nèuiltàdelleauuerse,perchespeso nascequalchemutatione,ma questodeueinsegnare,chea chifelipresental'occasione non laperda,perchedurapoco. COME ilfinedemercantièilpiudellevolteilfallire; quellodenauigantiilfom mergere, cofispessodichilungamentegouernailfineècapitarmale QYESTI ricordison regole, cheinqualchecasoparticolarechehadiuerfa   LE cosechesonouniuerfalmentedesiderate, rareuolteriescono,laragioneècheli pochisonoquellichecommunementedannoilmottoallecose,e alifini, dichesono contrarijaljaigliappetitidimolti TVTT.E lesicurtàchesipossonohaueredel'inimicofonbuone,difede,diamici, dipromesse,ed'altreassicurationi,maperlamalaconditionedeglihuomini,evariatio nedetempinissunaaltraè migliore,& piuferma,cheaccommodarsiinmodo,chel'ini mico non habbiapoteftàd'offenderti IX NESSUNA cofa deue desiderarepiul'huomoinquestomodo,nèattribuirlopiu a fuafelicità,cheuederel'inimicofuoprostratointerrae ridottoaterminitali, chetu l ' h a b b i a a d i s c r e t i o n e :M a quanto è f e l i c e a c h i a c c a d e q u e s t o , t a n t o d e v e f a r s i g l o r i o s o conl'ofarlalaudabilmente,cioèesserclementeaperdonare,cofapropriadeglianimi generofi, & 'eccellenti: ragione,   ragione,hannaeccettione,maqualifianoqueicasiparticolari,sipofonomaleinsegnare altrimenti,chceon ladifcrettione. diuèdicarsi dite,nonlofacciaprecipitosamente,anziaspettiiltempoel'occasione,laqualesenza dubbioliuerrà diforte,chesenzascoprirsimaligno,oappasionato,potràsodisfareal fuodesiderio. Chi hadagouernare Città,opopolielivogliatenercoreti,Sappiacheordina riamentebastapunireidelinquentiaföldiquindiciperlira,maènecessariopunirlitut t i , c h e i n e f f e t t o s i a c u s t i g a t o o g n i d e l i t t o, m a s i p u ò b e n f a r q u a l c h e m i s e r i c o r d i a , e c c e t todellicasiatroci,chebisognadaressempio. XVI. IL ricordodisopra, bisognavsarloin modochel'acquistarnomedinoneserbene. fattore,nonfaccia,chegl'huominifugghino,& aquestosiprouedefacilmente,conbe n e f i c i a r n fe u o r d e l l a r e g o l a q u a l c h ' o n o , p e r c h e n a t u r a l m ě t e h a t a n t a s i g n o r i a n e g l h u o minilasperanzachepiutivaleràpressoaglialtri,& piuessempiofavno chetuhaba biabeneficiato, checentochenonhabbinodatehauutoremuneratione.  S. Auuertimenti di XII. INGEGNATEV Idinonvenireinmalconcettoappressodichièsuperio renellapatriavostra,neuifidatedelbuongouernodeluiuernostro,chesiatale,che nonpensiated'hauergliacapitarnellemani;perchenasconoinfiniti,enonpenfaticasi dihauerbisognodilui, èconuersoil Superioresehavogliadipunire,& XIII. TVTTI glihuominisonobuoni,cioedouenoncauanopiacereoutilitàdel m a l e , p i a c e p i u l o r o i l b e n c h e i l m a l e :m a s o n o v a r i e l e c o r r u t t e l e d e l m o n d o e f r a g i l i t à loro;& spessoperl'interesseproprioinclinanoalmale.PeròdafauiLegislatorifieper fondamento dele Republiche trouatoilpremioelapena,nonperviolentareglihuomi ni,m a perche seguiting l’inclinationenaturale. XVII. PIV tengonoamemoriagl'huomini l'ingiuria,cheibeneficijriceuuti,anziquan dopuresiricordanodeibenefici,lofannonell’imaginesuaminore,chenon furiputun dosimeritar piuchenonmeritano.Ilcontrariosifadell'ingiuria,cheduoleadogniuno E 'laudato appressogl'antichi,& è verissimoprouerbio: Magistratusvirumoftédit, perche conquestoparagonenonsolosiconosceperilpesochesiba,sel'huomoèd'assai odapoco,maperlapoteftà,elicenzasiscuopronoleaffettionidell'animo,cioèdiche natural'huomofia, perchequantoaltruièpiu grande,tantomancofreno,erispettoha alasciarsiguidaredaquelchegl'ènaturale. SE liScrittorifuferodiscreti,ogratisarebbehonesto,edebito,chelipadronilibe neficiasseroquantopotesero,ma perchesonoilpiudellevolted'altranatura,equando fonopieni,olilasciano,òlistraccano,peròèpiu vtileandareconloroconlamanostret ta, e trattenendoliconsperanza, darlorodieffettitantochebastiafarechenonsidi Sperino. piu, cheragionenolmentenon doveriadolere,peròdouegl'altritermini.forpara guardateuidifarquellipiaceri,chedinecessitàfannoadun altrodispiacerevguale, percheperlaragionedettadisopra, siperdeingrosso,piuchenonsiguadagna. ,percheper esperienzasivedecheglihuomininonsongrati,perònelfareicalcolituoi, òneldi segnardisponerdeglihuominifamaggiorfondamentoinchineconseguevtilità,chein chis’hadamuouerfoloper rimunerarti,percheineffettoibeneficijsidimenticano. cheprocededa bron’animo, fivede, chepurtalvolta èremunerato qualchebene ficio,e anchespessodiforte,chenepagamolti,& ècredibilecheaquellapotestà ch'èsopraglibuominipiaccinol'ationinobili,eperònonconsentachesianosenza frutto: INGEGNATEV Id'haueredegliamici,perchesonbuoniintempi,luo ghiecasi, chevoinonpensarete,equestoricordobenchevulgato,nonlopuòconsidera reprofondamentequantovaglia, achinonèaccadutoinqualchefuaimportanzafen tirnel'esperienza: P I A C E vniuersalmente, chièdinataraverae liberă,& ècosagenerosa,ma talvoltanuoce.Madall'altrocanto,lasimulationeèvtile,ma'èodiata,G hadelbrut the ènecessariaperlemalenaturede glialtri,però non sòqualesidebba eleggere, Credoperò, chesipossavfarel'onaordinariamente,senzaabbandonarl'altra,cioènel corsotuoordinariocomume vjarlaprimainmodo,cheacquistinomedi personalibe ra, nondimenoincerticasiimportantipotrai sarelasimulatione,laqualeàchivi uecosìètantopiuvtile,e sicredemeglio,quantoperbauernomedelcontrario,tiè facilmentecreduto E INCREDIBILE quantogiouiachihaamministratione, chelecosesue fienosegrete,perchenonsoloidisegnisuoqiuandosifanno,possonoeserprenenuti,e interrotti,maancoral'ignorareisuoipensieri,fachegl'huominifannosempreattoniti 3   PIV fondamentopotetefareinvnoc'habbiabisognodivoi,oc'habbiainqua! checasol'interese communecheinvnoc'habbiariceuutodaboibeneficio XIX. H O.postoiricordidisopra,perchesappiateviuere,ericonosciatequelchelecose possono,nonacciocheviritiriatedalbeneficiare,percheoltrecheècosagenerosa,en PER Lecagionidisopra,nonlaudochiviuesempreconsimulatione,& conarte, mascufobenechiqualchevoltal'vja.  $1A certochesetudesideri,chenonsisappiachehaifatto,òtentatoqualcheco Ja,cheèsempreapropositoilnegarla.Percheancoracheilcontrariosiaquasiscoperto & publico,tuttauianegandolaefficacemente,sebenenonlopersuadiachihaindi tij, ocredeilcontrario,nondimeno perlanegationegagliardaseglimetteilceruello àpartito. A 3 esospetti,   efofpetti,aoßeruarelesueattioni.Ed'ognifuominimomoto,sifannomillecommente ti,& interpretationi,ilcheglidàgranriputatione,peròchièintalgradodouerebbe auezzareisuoiministrinonsoloàtacerelecosechemaisifappino,ma ancortuttequel lechenonèptilechesipublichino. ANCORA quellicheattribuendotuttoallaprudenza, ovirtů, s'ingegnano e s c l u d e r e l a f o r t u n na ,o n p o s s o n o n e g a r e , c h e n o n f i a g r a n d i s s i m a f o r t e n a s c e r e d q u e l tempo, oabbattersia quelleoccasioni,chesienoinprezzoquelleparti,opirtùinchę tu vali . NON vogliogiàritirarquellicheinfiammatidall'amoredeltaPatriasimetto H o a p e r i c o l o p e r r i m e t t e r l a i n l i b e r t à ., e l i b e r a r l a d a T i r a n n i ; m a d i c o b e n e , c h e c h i cercamutationedistatopersuointereffenonèsauio,percheècofapericolosa, elivede cõeffettiche pochissimitrattatisonoquicheriescano,epoiquãdobeneèsuccesso, fide e quasisempre che nellamutatione tu no conseguiscidi gră lunga quel chetu haidife gnato,& inoltretioblighiàvnoperpetuotrauaglio, perchesempretuhaidadubita re, nontorninoquelli, chetuhaifcacciatijetivecidino. XXIX. CHI purpuoleattendere'atratati,siricordi,chenefunacosalirouinapiucheit desideriodivolerlicondurretroppofieuri, perchéchi vuolfarperinterponere manco tē po, implicapiuhuomini,emescolapiucose,dallaqualcausasiscopronosemprefimili p r a t i c h e . E t a n c o è d a c r e d e r e c h e l a f o r t u n a , f o t t o l ' a n i m o d i c h i s o n q o u e s t e c o s e . f i j d e gniconchivuolliberarsidallapotestàfua& aficurarsi,peròèpiufécurovolerliesem quireconqualchepericolo,checontroppasicurta. NON disegnatesùquello,chenonhauete,nèspendetefuliguadagnifuturi; perchemoltevoltenonfuccedono,etitrouiinuiluppato, & sivedeilpiudelevol te, chelimercantigroffifallisconoperquefto,quando persperanzad'vinmaggior guadagnofuturo,entranosuocambi;lamoltiplicationedequaliècerta, & hatempo determinato, maliguadagnimoltevolte,ononnengono, ofiallunganopiucheildia  OSSERVA I quandoere AmbasciatoreinIspagnaappressoil Re Ferdinan dod'AragonaPrincipefauio,& glorioso,cheegliquandovoleuafareunaguerra, impresanuoua,òaltracosad'importanza,nonprimalapublicaua,epoilagiustifica ua, maperilcontrariovsauaartecheinnāzis'intendessequellocʻbaueuainanimo,er fidiuulgana ilRe douerebbeperletalicagionifar questo inmodo,chedoppopublican dosiquelchegiàpareuagiuftoadogniunoonecesario,èincredibileconquantalände eranoriceuutelefuedeliberationi. XXVIII.", RCON viaffaticateaquellemutationichenonparterisconoaltro,shemutarei visidegl’huomini: perchechebeneficiotirecafequelmedesimomale,odispetocheti facciaPietro tifacciaGiovanni? 12 . Jegne,   Tegno,dimodo,chequellaimpresachetuhauenicominciatacomevtile,tiriescedania nofiffima SE hauetefalitopenfatelabene, emisuratelabene, tananzicheentriateinprigio nepercheancorach'ilcafofussemoltodificileascoprire,tamenèincredibile,aquante cosepensailgiudicediligente edesiderosoditrovarelaverità,& ogniminimospiras glioèbastanteafaruenire tuttoaluce. ,ofa tiche.Ma quelchelafa forsedesiderabileancoraall'animepurgate,èl'appetitoche s'had'esserefuperioreagl'altrihuomini,ilcheècerto.cafabella & beata,attesomaffia me ch’innessunaaltracosacipesamoassomigliareaDio dentisubitiderepentini,cosacheagiudiciomioèrarissima pericoli,& mai LÀ medesimaragionefa,chequantopiul'huomoinuecchia,tantopingliperfa ticailmorire, e semprepiuconleattioni,econlipenfieriviue,comesejapesenonha weremaiamorire. SI CREDE,& ancospessofeuedeperesperienza,chelericchezzemale acquistate,nonpassanolaterzageneratione. Sant'Agoftinodice,cheDiopermet te, chechil'haacquistategodainrimunerationediqualchebene,chehafattoinvi ta,ma poinonpassanotroppoinnanzi, percheègiudiciodiDioordinariamente,che cosinadadimalelarobamaleacquistata. IodiligiàadunPadre,cheameoccor reuaun'altraragione,perchechiha acquistata la roba,ècommunemente allenato dapouero,l'amasc sal'arte diconferuarla,maifigliuolichesononati& allcuatida hodefideratocomeglialtrihuominil'honore& l'otile,& infinquipergram tia'diDioèfuccedutosopraildisegno,enondimenoquãdohocõseguitoquelchedeside rauo,nonuihoritronatodētroalcunadiquellecosechemihaueuoimaginato,ragione, àchibenla considerasse , chedoueriabastareadeftinguereaffailafetedeglihuomini. LA grandezzadiftatovniuersalmenteèdesiderata,perchetutoilbenech'èin Jei-appariscedifuori,ilmaleftàdentroocculto,ilqualechinedessenonebarebbeforse tantanoglia,percheèpienasenzadubbiodipericoli,disospettodimilletrauagli LE cosenonprenedute, nuoconosenzacóparationepisa,cheleprouifte; peròchiama moioanimograndeeperito,quelocheregge, enonsisbigotisceporili  NON èdubbio,chequantopiul'huomoinuecchia,piucrescel'auaritia.Sidice communementeessernecausà,perchel'animodiminuisce,ragione,cheamenonècapa ce,percheè beneignorantequeluecchio,chenonconoscehauerneminorbisogno,quan ldpiuinuecchia, &inoltreueggo, chene'uecchis'augmētaperilcotrariolalufuria, (dicol'apetitoenonlaforza lacrudeltà, egl'altriuitijperòcredo,chelaragionue-: safia,chequantopiusiuiue,tantopiul'huomos'habituaallecosedelmondo o per consequentepiul'ama > ricchi, A 4   r i c c h i, n o n s a n n o c h e c o s a s i j l ' a c q u i s t a r r o b a , & n o n h a u e n d o a r t e , ò m o d o d i c o n f e r . varlafacilmenteladisipano. NON fipuòbiasimarel'apetitodihauer figliuoli,percheènaturale:madico bene, cheèfpeciedifelicitànonhauorne,percheetiandiochiglihabuoni,e saur,' perdita ditēpošle quali cosesonotenutemalenelinostrigiudicij,che X L I I. E ' IMPOSSIBILE, chel'huomo (sebene èd'ottimoingegno, e giudicion a turale)posaaggiugnères& beneintenderecertiparticolari,però ènecessariale fperienza,laqualnonaltrogliinsegna,e questoricordolointenderàmeglio,chiha maneggiatofacendeassai,percheconlesperienzamedesimahaimparatoquantovan glia,esiabuonal'esperienza. strettonontoglieànessuno,pinsonoquellichepatisconodel legrauezzedel prodigo, chequellichehannobeneficiodellaficalarghezza:Laragio nedunquealmiogiudicioè,cheneglihuominipuopiulasperanza cheiltimore,etpiu Sonoquellicheferonocoseguirequalchecosadalui,chequi,chetemonoessereoppreffi.  1. Auuertimenti di senzadubbiomoltopiudispiacerediloro,checosolatione.L'esempiol'hovedutoinmio Padre,cheasuoidìeraessempioaFirenzedipadrebendotatodifigliuoti,peròpensa secomestia,chiglihadimalaforte. PIACE senzadubbiopiuvnPrincipec'habbiadelprodigo,chevnoo’habbia dellostretto,ő tamendouerebbeessereilcontrario.percheilprodigoèneceßitatofa reestorsioni,Grapine,lo sha messiasuavolontà,& afuobeneplacito, perchelaleggenonglihavolutodarpoteftà difarnegratia,manonpotendoneicasiparticolari,perlavarietàdellecircostanze darneprecisadeterminarione,sirimetteall'arbitriodelgiudice,cioèallasuaconscien za, checonsideratoiltutto, facciaquelcheglipare piugiusto,& bonefo,& chialtija mentil'intendesse,s'inganna,perche laforzadellaleggeloaffoluedihauerneadar conto,perchenonhauendoilcasodeterminato,sipuòsemprescusare,manonglidàfa caltàdifardonodellarobad'altri. Χ Ι Ι. SI VEDE percfperienza,cheipadronitengonopococontodeseruitori,e per ognsiuacommodità,& appetitoglimettonodaparte. Tolaudoqueseruitori,chepi gliandoessempioda padroni, tengono piùcontodeleinteresisuoi,chediloro,ilcheperò consigliochesifaccia,faluandosemprel'honore,e lafede. X L. E R R A chicredechelicasi, chelaleggerímetteadarbitriodelgiudice, fienorin  , -NON BIASIMO interamentelagiustitiaciuiledelTurco,cheèpiutosto precipitosa,chefommaria:perchechigiudicaaocchichiusiragionevolmente,spedisce lametadellecausegiustamente, e liberalepartidaspese,& spessofarebbepiuperchiharagioneha uerehauutodaprimalasentenzacontra,checonseguirladoppotantodifpendio,do titrauagli,senzacheàpermalignità,operignoranzadelligiudici;ó ancoraper ofleruanza delle leggisifa delbianconero : 1 L’IN   deuiofferuarequestaopinione,etiamconqualchetuain- commodità,& inquestos'ingannanospessoglihuomini,perchesimuovondoa qualche pocodidanno, cheapparisce,& nonconfideranoquantosianograndiibeni,chenonsi veggono, percheisudditinonveggono,enonmisuranoappuntoquelchetupuoifare,anzi imaginandosimoltevoltelapotestàtuamaggiore,chenonè,credonoaquellecoseche tunonlipotresticostringerė. XLIX. SONO alcunihuominisauiasperarequellochedesiderano,altrichemailocrea dono,infin,chenonnesonobensicuri,& senzadubbiopiuvtileèsperareinfimilicasi poco,chemolto,perchelasperanzatifamancaredidiligenza,e tidàpiudispiacere, quandolacosanonsuccede. QUANTO bendissecolui.Ducuntvolentesfatanolentestrahunt,seneveg gonoognidìtanteesperienze,cheamenonpare,chemaicosaalcunasiaiceljimeglio.  Saui,chesidevgeodereilbeneficiodeltempo. M. Francesco Guicciardini. S L’INTENDERSI beneconlifrateli, econliparenti, fainfinitibeni, che tunonconosci,perchenonapparisconoadviper vno,mainfinitecosetiprofitta, fattihauereinrispetto,però altrimentièimpossibile,chelungamentesiatenutobuono.  CHI nonsicurad'esserebuono,madesiderabuonafama,bisognachesiabuono, 10 fuigidd'opinionedinonvedereetiamcolpensareassai,quelchenonvedeuo prefto: maconl'esperienzahoconosciutoeserefalfifsimo,peròfáteuibefedichidi cealtrimenti. Quanto piusipensanolecose,tantomeglios'intendono,á sifanno: QVANDO tiverràoccasionedicosa chetudesideripiglialasenzaperdereten po, perchelecosedelmondosivarianotantospello,chenonsipuòdiredihauercofaal cuña, finchenonsiainmano.Etquandotièpropostaqualchecosa,chetidispiace,cer caildiferirlapiuchetupuoi,percheogniborasivede,cheiltempoportaaccidenti, cheticauanodiquestedifficoltà,& cosìs’hadaintenderequelprouerbio,chediconoi ILTIRANNO faestremadiligenzadiscoprirel'anitzetio,ciodseticon tentideltuostato,consideragliandamentiÜnnodituoi,concetičaredritesdiertocat chi CHIHA autorità, &signoriapuofpingersi,&flenderlaancorasopralefor zesue, LI . L. SE tuvuoiconoscerequalifienoipensierideTiranni,legiCornelioTacito,quan dofamentionedegloltimiragionamentic'hebbeAugusto conTiberio. IL medesimo Cornelio Tacito achibenloconsidera,insegnapereccellenzacome s'ha da gouernarechi vinesottoa un tiranno.   thìconuersateco,e conragionartecodivariecofe,&ponerti domandarti partiti,& parere,peròsenonvuoichet'intenda,bisogna,chetiguardicongrandissimadiligen za, damezzicheeglivsa,nonvsartermir: A chi haconditionenella Patria,efiafotoonTirannofanguinofo& beftia le,siposjondarepocheregole,chseienobuone,eccettoiltorsol'esilioM.a quandoilTi fanno,oper prudenza,òpernecessitàdel suostatosigouernaconsospetto, on’huomo benqualificatodeuecercarediesseretenutodaaffai, & animoso,madinaturaquieto, nècupidod'alteraresenonèsforzato,percheintalcasoilTirannotiaccarezza,e cercadinondarticaufadifarnouità,ilchenonfariaseticonoscesseinquieto, perche all’horapensainognimodochetunonsiaperftarefermo,ondeèneceffitatopensare sempreťoccasionedispegnesti. SECONDO ilterminedisopra,èmegliononeseredelipiuintimieconfiden tidelTiranno, perchenonsolotiaccarezza,mainmoltecose,famancoasicurtàte co, checonlisuoi,cosìtugodilasuagrandezza,& nellarouinasuadiuentigrande, ma diquestoricordononsenepuòvalerechinonhaconditionegrādenellasuapatria.  E'DIFFERENZA dhauerelifudditidisperati,adhanerlimalcontenti, perchequelinonpensanomaiadaltro,cheamutationedistato,elacercanoetiamcon suopericolo, questisébenenonsicontentano,edesideranocosenuouteamennoninui tanoleoccasioni,ma aspettanochedaseuenghino.  NON. posonogouernareisuditibenesenzaleuerità,perchelamalignitàde glibuominicercacosim,asiuvolemescolardestrezza,& fardimostratione, accioche glihuominicredano,chelacrudeltànon piace,ma che l'usiper necessità, esalute publica. SIDOVERIJ atenderealiefet,inonaledimostrationi,esuperficie,e nondimancodincredibilequantagratia,cöfauoveticöcilinoappresoglihuominileca rezze, etlahumanitàdiparole.lragionecredochesia,percheogniunosistima, parmeritarepiuchenonuale,eperòsisdegna',quandonede,chetunontieniquel contodilui,chegliparechesegliconuenga.  Auuertimenti di chebabbinoadarsospetto,guardandoco meparli,etiamconlintimituoi,e secoragionando,& rispondendodiforte,chenonti poljacauare, i!chetiriuscirà,setipresupponisemprequel'obbietto,cheegliquanto puoticirconuieneperscoprirti.  E'COSA honoreuoleàun'huomononprometteresenonquellocheuuoleoffer nare,ma communementetuttiquelligachituneghi,á giustamente,reftanomalfodif fatti,percheglihuomininon Jilalanogouernaredallaragione:Ilcontrariointra uiéneachipromette,percheintrauengonomolticasi,chefannochenonaccadefare l'esperienzadiquello,chetuhaipromello,& cosihaisodisfattoconlamēteyetsepure s'hadauenireal'atononmancanoSpedoscuse,emoltisonofigrofli,chesilasciano aggirare   M . Francesco Guicciardini. aggirareconparole,nondimeno è fibruttomancareallaparolafua, chequestopre ponderaogniutilitàchesitraggadalcontrario,& peròl'huomosideueingegnaredi trattenersiquantopuoconrispostegenerali,&pienedibuonasperanza,manondifor techetioblighinoprecisamente. percheèpaz giafarsinimicosenzaproposito,& ueloricordo,perchequafiogniunoerrainque ftaleggerezza. Chi entrane' pericolisenzaconfiderarequelchepossono,oimportino, fichiama bestiale, maanimosoèquellocheconoscendoipericoliuientrafrancamente,operne cefftà,operhonoreuolcagione. ranno . mad ti ipopoli, CREDONO molti,cheunfauio,percheuedetutiipericoli,nonpossaesserea nimoso: 10sonodicontrariaopinione,chenonpossaesseresauiochinonèanimoso, per che manca di giudicio, chi stima a d auuenire il pericolo, piuc h e non si d e u e ,m a p e r auuenturaquestopaso,cheèconfuso,deuesiconsiderare,chenontuttiipericolihan no effetto,perchealcunineschifal'humo coladiligêza,etindustria,etfrächezzasua, altriilcasoiftesoetmilleaccidētichenasconoportanouia, peròchiconoscospericoli,no lideue metteretuttiad entrata,& presupponerechetuttisuccedano,m a discorrerecon prudenza quelchealtruipuò sperared'aiutarsi,edoueilcasoverisimilmenteglipuò farfauore,farsianimo,nèritirarsidall’impresedirili,& honoreuoliperpauradituttii pericolicheconosceessernelcaso. ERRA chidice,chelelettereeglistudijguaftanoilcervellodeglihuomini, percheforseè veroachil'hadebole, ma doueleletteretrouanoilnaturalebuono,lo fannoperfetto,percheilbuonnaturalecongiuntocoʻlbuonoaccidentalefannobuonif Jima compositione. Livi E'SEN?A comparationepiudetestabileinvn Principel'avaritia,cheinun priuato,nonsoloperchehauendopiúfacultàdadiftribuire,priuaglihuominitantopiù: maetiamperchequellochehavnpriuatoètuttofuo,&perusofuo,& nepuòsenze giuftaquerelad'alcunodisponere,matuttoquellochehailPrincipe,glièdatopervalós & beneficiod'altri, &peròritenendoloinfe,fraudaglihuominidiquelchedeueloro. GV ARDATEV Idatuttoquellocheuipuonuocereenongiouare,però inpresenzad'altri, nonditemaisenzanecessitàcose,chedispiaccino, NON furonotrouatiiPrincipiperfarbeneficioaloro,perchenessunofefareb bemessoinseruitùgrauiffima,ma perinteresedepopoli,perchefuserobenegouernati, peròcomeonPrincipehapiurispettoafe,cheaipopoli,nonèpiu Principe DICO che il Principe chefamercantia,questononsolofacosavergognosa,maè Tiranno,facendoquellocheèoficiodepriuati,enondePrincipi,& peccatantoverfa   Auuertimenti di ipopoli, quantopeccherienoipopoliversolui,volendointromettersiinquelcheèoficio solodelPrincipe. LXVII. LE cosedelmondosonovarie,edipendonodatanticasi,& accidenti,chedifficilmē tesipuofargiudiciodelfuturo,& sivedeperesperienza,chequasisempreleconiet t u r e d e s a n i j s o n o f a l l a c i,p e r ò n o n l a u d o il c o n s i g l i o d i q u e l l i c h e l a s c i a n o la c o m m o d i tàd'onbenpresente,bencheminore,perpaurad'onmalfuturo,benchemaggiore,se non èmoltopropinquo,etmoltocerto,peichenon succedendo poispessoquello dichete meui,titrouipervnapauravanahauerlasciatoquellochetipiaceua,& peròèfauio quelprouerbio.Dicosanascecosa. NELLE cosedellostatoho vedutospessoerrarechifagiudicio, percheesamina quellocheragioneuolmentedouerebbfearquestoequelPrincipe,etnoconsideraquel lochefarà,verbigratiailRediFrancia,perchedeuehauerpiurispeto,qualsialana tura& costumidonFrancese,cheàquellodouerebbefarciascunPrincipe,prudente, faggio,& giusto.  10 HO dettomoltevolte, etlodicodinuouo, ch’oningegnocapace, & chesappia farecapitaledeltempo,nonhacausadilamentarsi,chelauitasiabreue,perchepuò attendereadinfinitecose,& spendereytilmenteiltempo,gliauanzatempo. LXXI. NON èfaciletrouarequestiricordi,maèpiudificileesequirli,perchespesso l'huomoconosce, manonmetteinatto, peròvolendovsarlisforzatelanatura,e fate niunbuonhabito,colmezodelquale,nonfolofaretequesti,maancoraviverràfatto senzafatica, tuttoquellochevicomandalaragione. sottol'Imperio,cheTiberiohuomotiranno,& superbohaueuaesofa tantadappocagine. SE hauetemalasatisfattioned'ono,ingegnateuiquantopotete,chenonsen'accor ga, perchesubitofialienaràdavoi,& vengonomoltitempi, & occafionichevipollo noferuire, viseruirebbe,secoldimostrared'haverloinmalconcetto,nonvelbauesti giocato,e ioconmiavtilitàn'hofattol'esperienza,cheinqualchetempohohauuto malanimoversod'ono,chenonaccorgendosenem'hapožinqualcheoccasionegiouato, com'è statoamico. L'AM  LXXII. NON simarauigliarddell'animobasoeseruiledemoltipopolichileggerainCor nelio Tacito,cheliRomanisolitiàdominareilmondo& viuereintantagloria,ferui uanosivilmente > . LXX CHI vuoletrauagliare, nonsilascicanaredipossessionedellefacende, perchedal l'onanascel'altra,siperl'aditochedàlaprimacaufaalaseconda,comeperlariputa tionechetiportailtrouartiinnegotio,& peròsipuo.ancoaquestoadattareilprouer bio:Di cosa nasce cosa. 1 1   & nefas,como ècausad'infinitimali.PeròveggiamocheliSignori fimilichehannoquestoobiet to,nonhannofrenoalcuna,o fannounpianodellaroba,& vitadeglialtri, purche, cosigliconfortiilrispettodelasuagrandezza. similimodi,hapiulungotrattocheprimanons'haveb becreduto, comeancoraintrauieneadvnochemuored'eticooditisico,chelasuavi tasempresiprolungaoltral'opinionechehannohauutoimedici,colivnmercăteinan zichefalisca, pereserecõsumatodagliinteresifireggepiutēpo,cbenöeracreduto. M'E parfasempredificileacredere, cheDiobabbiaapermettere,chelifigliuoli delDuca Lodouico, habbinoagoderquellostato,quandoioconsidero,cheilpadresuo l'havfurpatofceleratamente,é pervfurparloèstatocausadellarouina, seruity d'Italiaeditantitrauagliseguitiintutta Christianità, a questichelibiasimama nosonopazzi, perchestarebbefrescalaCittà,cóloro,seiltirannononhauesseattor noaltrichetristi.  M. F 7 L'AMBITIONE dell'honore,edellagloriaèlaudabile,& vtilealmondo, perchedacaujaagl’huominidipēsareefarecosegenerose,&ecelse.Nonècosiquel la delagrandezza,perchechilapigliaperidolo,vuolhauerlaperfas, L'IMPRESE e cose,chehannodaaccaderenon perimpeto,maperchepri masiconsumano,vannoassaipiuinlungo,chenonsicredeuadaprincipio,perchegli huominisiostinanoapatire,apatiscono, lopportanomoltopiu,chenonsisarebbe creduto. Perùveggiamo, ch'unaguerraches'babbiaafinireperfame,perl'incomodi tà,per mancamēto didanari,&  FATEV 1beffediquestichepredicanolalibertà,nondicoditutiman’ec cettuobenpochi,percheogniunodiquestitali,chesperasjehauerepiubeneinvnosta tostreto,cheinunlibero,vicorrerebbeperleposte,perchequasituttipostponeran noilrispetodel'intereseloro,esonpochifimiquelicheconoscono quanto vagliala gloria& l'honore. gottirti, e coltenereilcapofranconontilassareleuarefacilmente.  . CHI conuerfacongrandinonfilafcileuaracauallodacarezzeedimostrationi fuperficiali,conlequaliefefannocommunementebalzarglihuominicomevogliono, @affogarlinelfauore. Etquantoquestoè piudificileadifendersitantopiudeuesbir N O N potetehauermigliorparte,chetenerecontodell'honore,perchechifaque ftonontemei pericoli, nefamaicosachesiabrutta,perotenetefermoquestocapo, ú faraquasiimpossibile,chetuttononvisucceda.bene,expertusloquor LXXX. Dico cheunbuoncittadino,& amatoredella patria, nonfolodeuetrattenersi coltirrannopersuasicurtà, percheèinpericoloquandoèhauutoinsospeto,maanco taperbeneficiodelapatria, perchegouernandosicosi,glivieneoccasioneconconsigli, & conoperedifauoriremoltibuoni,edisfauoriremoltimali LAV   städodimezzotusemprerilieuietuincachisiuoglia. LXXXII. LA naturadepopoliècomequelladepriuati,diuoleresempreaugumentaredel gradoinchesitrouano,peròèprudenzanegareloroleprimecose,chedomandono,per checoncedendononlifermi,anzigliinuitiadomandarpiu,& conmaggiorinstanza, chenonfaceuonoda principio,perchecol.darlispessodaberesegliaccresce lasete.OSSERVATE condiligenza lecosedetempipassati,perchefannolumealle future, cumsitcheilmondofiasempred'unamedesimaforte,& chetuttoquellocheè, sarà,èstatoinaltrotempo,perchelemedesimecoseritornano,mafotodiuerfinomiz & colori,peròogniunononleconosce,masolochièsauio,eleconsideradiligentemente. LXXXV. SE Oferuatebene, trouateched'etàinetàsimutanononsolamenteiuocaboli, modideluejlire,eticostumi,maancoraquelcheèpiuigustiel'inclinationidell'arme, & questadiuersitàsivedeetiaminuntempomedesimodipaeseinpaese,douenonso loèdiuersità delleinftrutioni,maancoradegustidecibiedegliappetitiuarijdegli huo mini.  Lamětepericolodellauittoria,ma Auuertimenti di i LXXXI. LAVDO chinelleguerred'altristaneutrale,chièpotentediforte,hatalconsi derationedistato,chenonhadatemereiluincitore,perchefuggeilpericolo,elaspesa, elaStracchezza,didisordinid'altripossonoparartiqualchebuonaoccasione:fuordi questiterminilaneutralitàèunapazzia,percheattacãdoticonunadelleparticorriso 9 4 1 SENZA dubbiohamigliortempoinquestomondo,piulungavita,esipuochia mareinuncertomodofelice, chièd'ingegnopiubasso,chequestiintellettieleuati,pero chel'ingegnonobile,seruepiutostoatrauaglio,& cruciatodiehil'ha,nondimenol’uno participapiudell'animalbruttoched'huomo,l'altrotrascendeilgradodell'huomo, s'accostapiuallenaturecelesti.  INANZI alM.CCCCXC111.nelqualtempol'ambitione,&cecita del Duca Ludouicoaperselauiaallarouinad'Italia,eranocome ogn'unosaimodidels la guerramoltodiuersidaquestiloppugnationedellecittà,leuccisioni,iconflitid'ale traforte,& quasisenzafangueinmodochechihaueuaunostatodifficilmenteglipote wa effertolto, dipoifiridusse,chechierapadronedellacampagna,haueuauinta laguer ra, comeinunmomento,s e eranodueesercitiincampagna siueniuainuntrattoale lagiornata,& eradatalasentêzadelaguerra,cosiuedemosenzaromperelanciaper dersiilRegnodiNapoli,ilDucatodiMilano,econlafortunad'unsologiocarsitutto lostato deVenetiani.Hoggi il Signor Profpero primo ha dimostratodiuerfo modo di guerra, checolmettersinelleterrehafoggiogatol'impetodichierapadronedellacamo p a g n a ,m a n o n r i u s c i r e b b e b e n e q u e s t o , a c h i n o n h a u e s s e d i s p o s i t i o n e d e p o p o l i f a u o r e wole,cornehahauutoegliquelladiMilanocontraFrancesi. LE medesimeimpresechefattefuorditempo,Sonoštatedificiliseme,òimpoffibile, 1 quando   quandosonoaccompagnatedaltempoedall'occasionesonofacilißime,perònonsiuuo letentarleattrimenti,perchesetuletentifuordeltemposuo,nonsolonontifuccedono, maportipericolo,checonl'hauerletentatenonleguastiperqueltempo,chefacilmen tefarebbonoriuscite,peròsonotenutisauijipatienti. NON ègrancosa,ch'ungouernatorevsandospesoaffrezza,òefetidifeuerità, sifacciatemere,percheisudditihannofacilmentepauradichilipuosforzare,eroui n a r e , & v i e n e f a c i l m e n t e a l l' e s e c u t i o n e ,m a l a n d o i o q u e l l i g o u e r n a t o r i, c h e c o n f a r p o cheaffrezge, et esecutioni, fannoacquistarsi, & conferuarnomediterribili. xcІ. RICORDATEV I diquellochealtrevoltehodettodiquestiricordischeno s'hannoad osseruaresempreindistintamente,mainqualchecasoparticolare,cheara gionediuerfanonsonobuoni,& qualisienoquesticasi,nonsipuocomprendereconrego laalcuna,nesitroualibrochel'insegni,maènecessariochequestolumetelodiaprima lanatura, & poil'esperienza. ...  . cu i diseonpopolo,diseveramenteunpazzo,percheeglièunmoftropienodi tonfusione;ó d'errore,perchelesueopinionisonotantolontandeallauerità,quanto secondoTolomeo,laSpagnadall'India. COME  M. 8 * 011. A miogiudicioinnesjungrado, òantoritàsiricercapiuprudenza,& qualitàec cellente,cheinvnCapitanod'onoesercito,perchesonoinfinitequellecose,a cheproue deré,& comandaresinfinitiaccidenti,etcasivarijsched'horainhoraseglipresentano, inmodocheperamentebisognachehabbiapiuocchid'Argo,e nonsoloperl'importa zafua, maperlaprudenza, chelibisognareputoinognialtropesoniente. XCIIII. Edifferenzaadesereanimoso,&nonfuggireipericoliperrispetodel'bonore,Psta noel'altroconosceipericoli,ma quelloseconfidapoterfenedifendere,efenonfusseque staconfidēzanõgliaspetarebe,questopuoeferschetemapiudeldebitoznèsiafaldo, perchenonhabbiapaura, maperchesirisolueavolerpintostoildãnocbelauergogna. LXXXVIII. HO osseruatowe'mieigouerni,chequandomièvenutainanzivnacausa,cheho hauutoper qualchegiustorispettodesiderio d'accordarla,nonhoparlatod'accordo,ma folmetterevariedilationi,& ftrachezzehofattochelemedesimepartilhannoricer cato, cosiquello,chesenelprincipioiol'haueßiproposto,sariastatoributtato,s'eridotto intermine,chequandoèvenutoiltemposuo,ionesonostatopregato. XC: N O N ,chechitieneglistatinonsianecessitato,metterlemaninelsangue,madi cobenechenonsidevefarsenzagranneceßità,& cheilpiydellevolteseneperde, piuchenonseneacquista,perchenon solos'offendequellichesonotocchi, ma ancorasa dispiaceall'vniuerfaledeglialtri,efebenetuleuiquelloinimico,oquelloostacola,non perosenespegneilseme,cumsitscheinluogodiquellosott'entranodeglialtri,& fpeffo intrauiene,comesidicedell'hidra;cheperognunojnenafcesette. $    NON possoio, nesofarmibello,nedarmiriputationediquellecose,cheinperin tànonsonocosi,& tamenfariapiuvtilefareilcontrario,percheèincredibilequanto giouilariputatione,e opinionechehannoglihuomini,chetusiagrande.Conquestoru moresoloticorronodietro,senzachetun'habbiavenireacimento. che ilpadrone,eproportionatamenteil superiorelisudditi, perchenonsipresentaianzialuitaliqualisipresentanoagl'altri, anzicercanocoprirsialui, & parered'altrafortecheinverononsono. ,e pericoli, qualfortehabbiapiuadesiderareuna Città,òdicaderenelgouernod'vno,òdimolti,odipochi. p e r c h e d'hora in hora nascono o c c a s i o n i, c h e e g l i c o m m e t t e a c h i v e d e , ò a c h i g l i è p i u e p r o p i n q u o, c h e s e t i h a u e s s e a c e r careòaspettarenontisicommetterebbe, e chiperdevnprincipiobenchepiccolo,per despessol'introduttione,e aditaarosegrandi. fawpusēruitorichefannoilmedesimoversoipa droni,non facendoperacosachesiacontralafede,l'honore.  Auvertimenti di XCE . COM Ecoluic'haagiutato, òeftatacaufa, cheunosalgainungrado,louuolgouer nareinquelgrado,giàcominciaa căcellareilbeneficio,chegliha fato,volēdousarper se,quelcheprimahaoperato,chesiadiquell'altro,eglihagiustacausadinon.com portarlo,neperquestomerita eserechiamatoingrato. XCVI. R O N s'atribuiscaalaudedifa, òchinonfaquellecose, lequalifepotefse,ofa cesjemeriteriabiasimo".DICE ilprouerbioCastigliano,ilfilsirompedallatopiudebole,semprechepensi v e n i r e i n c o n c o r r e n z a è c o m p a r a t i o n e d i c h i è p i u p o t e n t e o r i s p e t t a t o, p i u s u c c u m b e i l piudebole,nonostante,chelaragioneèl'honestà,òlagratitudinevolesseilcontrario, perchecommunemente;s'hapiurispetoal'interese,chealdebito:+31 xCІ. NIVNO conoscepeggioliferuitorisuoi GII. 10 velodicodinuouo, lipadronifannopococontodeseruitori,& perogniinteresse listrascinanosenzarispeto,perosono 2 CI. TP chéstaiincortë,& seguitiongrande, edesideriessereadoperatodaluiinfa cende, ingegnatidiStarlituttaniadinanzia gl'occhi, pome ...) C O N C O R D A N O -tutieferemeglioreloftatod'vnoquandoèbuono, ibedi pochiedimolti,o buoni,eleragionisonomanifeste,cosiconcludono,chequellod'ono piufacilmentedibuonodiuentacattiuo,chegl'altri,& quando ècattivoèpeggioredi tutti,tantopiuquandovaperfiuèceffione,percheradevolteadunpadrebuono fa uio, succedeunfigliuolosimile.Perovorreichequestipoliticim'haueJerodichiarato, consideratetutequesteconditioni CTII CHI siconoscehauerebuonaforte,puotentarl'impreseconmaggioranimo,maè d a a u u e r t i r e c h e l a f o r t e n o n s o l o p k o e s s e r e v a r i a d i t e m p o i n t e m p o ,m a a n c o i n u n t e m   pomedesimopuoelervarianellecose,perchechiosseruauedràperesperienza,mol tiesserefortunatiinunaspeciedicoje,& inun'altraesseresfortunati,etioinmiopar ricolarehohauutoinfinoaquestodàtrediFebraroM D XX111.inmoltecose bonißimaforte, tamennonPhosimilenellemercantie, one glihonori,cheiocerco d'havere, perchenoncercandolimicorrononaturalmentedietro,ma come cominciò a cercarli,pare chesidiscostino . LE cosedelmondononstānoferme,anzihannosempreprogressoalcamino,àche ragioneuolmenteperfuanaturahannodaandare,e finire,matardanospesopiache ilcrederenostroperchenonlemisuriamosecondolavitanostra,cheèbreue,e non secondoiltemposuo,cheèlungo, & peròipaffifuoifonopiutardi,chenonsonoino fri,& fitærdipersuanatura,cheancorachefimouinononciaccorgiamospesode fuoimoti,e perquestosonofpefjofalsiigiudicij,chenoifacciamo, CVII RON sosesideuonochiamare: fortunatiquelli, achivnavoltasipresentavna grandeoccasione,perchechinonè prudente,nonlafabenevsare,masenzadubbiofo no fortunatiffimiquelli,aqualivnamedesimagrandeoccasionesipresentadueuol te,perchenonèbuomocosidappoco,chelasecondavoltanonlasappiavsare, cosi inquestocasosecondos' hadahauere tuttal'obligationeconlafortuna, donenelpri mohaluogo-ancoralaprudenza . , cheuiuonoinlibertà, ma queli, neiqualiera meglioprouiftoallaconferuationedelleleggiedellagiuftitia. fannoinuentionediquel löches'aspeta,òsicrede,epiuorecchivipreftosefononuouestrauaganti,o'inaspet tate, perchemancooccorreaglibuominifareinuentioni,òpersuadersiquellochenon èinalcunaconsideratione,ediquestohovedutoiomolteuoltel'esperienza. GRUAN forteèquelladegliastrologi,cheancora,chelaloroprofeffionefiava  M. FrancescoGuicciardini. NON hamaggioreinimicol'huomo,chefefteso,perchequasitutiimali,perico li,& trauaglisuperflui, chehanonprocedonodaaltro,chedallasuatroppacupiditate. L’APPETITO dellarobanascedaanimo'balo,omalcomposto,fenonside. fiderasseperaltro,cheperpoterlagodere,ma essendocorrottoilviueredelmondo,co me èchidefiderariputatione,èneceßitatoàdesiderareroba,perche.coneffarilucono Levirti,cfono inprezzolequaliinunpouerosonopocoftimate,& mãcoconosciute. B CVIII. La libertàdelleRepublicheèministradellagiustitia,perchenonèfondataadal trofine, senonperdifensione, chel'onononsiaopressodal'altro,peròchipotesseef soresicuro,cheinunostatod'unoòdipochis'ofjeruajelagiustitia,nonharebbetau fadidesiderarelalibertà.Questaèlaragione,chegliantichisauij, & Filosofinon laudornopiudeglialtrique'gouerni QVANDO lenuoues'hannod'Autoreincerto,&fienonuoueverisimili,d aspettate,ioliprestopocafede,percheglihuominifacilmente СХ; nito,   Auuertimenti di mità, òperdiffettodell'arte,ofuo,tamenpiufedeglidàvnaverità,chepronostica no,checentofalsità,é tamenneglihuominiintrauieneilcontrario,cheunabugia, c h se i a r e p r o b a t a d a v n o , f a , c h e s i s t à s o s p e s o a c r e d e r l i t u t t e l ' a l t r e v e r i t à , & procede daldesideriograndec'hannoglibuominidisapereilfuturo,dichenonhauendoaltro modo dihauerecertezza;credonofacilmente ,a chifaprofessionedisaperlolordire, comeall'infermoilmedico,chelipromettelasalute. ,òdallauoluntàdiquelli,chedominano,perchenonhan uendesiacūbattereconragioniimmutabili,ocon giudicijstabili, nasconoogni dimille cafi,chefacilmentetisolleuanodachipuopretenderedileuartidiposeso. scarso, perchenessunacosaof fendepiùl'animod’unfuperiorecheilparerglichenonlisiahauutoquelrispetoeri uerenza,chegiudicaconuenirseli.  CXI. F T Ë ognicosapernontrouaruidonesiperde,percheancora,chenonuisia colpaisoftra, nehauetesõprecarico, nèsipuoandareatuttelepiazzegetbanchiagiu Stificarsi,comechisitrouadouefi vince, siportasemprelaudeetia Jenzasuomerito. fa nellecosepriuate,trouarsiinpoffeffioneantica,chele ragioninonfimutano,6 imodidegiudityediconsignareilsuofonoordinarü,&fer mi,masenza cumparationeèmoltomaggiorevantaggioinquellecose chedependo nodagliaccidentidellistati CXIIII. FV crudeleildecretode Siracusani,dichefamentioneLiuio, cheinsinoalledon n e n a t e d e t i r a n n i f u s s e r o a m m a z a t e , ma non però a l t u t t o s e n z a r a g i o n e , p e r c h e m ă Catoiltiranno,quellicheuiueuanouolentierisottodilui,sepotefjeronefarebbono un'altrodicera, enonessendocosifacileuoltarela riputationeaun'huomonuouo,si ritiranosottoognireliquia,chereftidiquello.Peròuna Città, cheescanuouamente dallatirannide,nonhamaibensicuralalibertàSenonspegnetuttalarazza,& pro geniedetiranni,dicoperò glimaschi,enonlefemine. CXV. N O N èinpoteftàd'ogniunoeleggersiilgrado,elefacende,chel'huomouno le, manonbisognaspessofarquelle,chet'appresentalatuaforte,& chesonoconfor mialostatoincheseinato, peròtuttalalodeconsisteinfarlasuabene,comeinuna comedia,nonèmancolodato,chibenrappresentalaperfonad'unferuo,chequelli,a chisonomeffiindossoipannidelRe,od'altrapersonadegna,ogniunoinefetonel gradofuopufoarsihonore. E vantaggiocomeognun CHI desideraeseramatodasuperiori,bisognamostrared'hauerelororispetto,e riuerenza,e conquestoeferpiutoftoabbondante,che OGNIV NO inquestomondofadeglierrori,daqualinascemaggioreomi nordanno,secondogliaccidenti,& casicheseguitano,mabuonafortehannoquelli, ches'abbattonoadevrareincofediminoreimportanza, òdallequalineseguitaman codisordine. 2 E gran    E 'granfelicitàpotereviuereinmodo chenonsiriceua,nèfifacciaingiuriaad altri,ma chis'adduceingrado,chesianecessitato,oaggrauare,òapatire,deueper mioconsigliopigliareiltrattoauantaggio,percheè cosigiustadifesa,quella chesifa pernonesseroffeso,comequella,chesifaquandol'offesatièfatta,ènerochebisogna bendiftinguericasi,nèpersuperflupaauradarsisenzacausaadintendered'eserene ceshtatoapreuenire,nèpercupidità,nèpermalignità,doueinverononhainèdeui hauerefolpettovolereconallargarequestotimoregiustificarelaviolenza,chetufai. NE glihuominie lapatienza, el'impetosonobastantiapartorirecosegranuis perchel'onooperaconl'urtareglibuomini,esforzarelecose,l'altraconlostraccara li,evineerlicoltempo,el'occasioni,peròinquellochenuocel'ono,gioual'altro,Grå conuerfo,& chipotessecongiugnerli,& vsareciascunoaltemposuosarebbediuino, maperchequestoèimpoßibile,credocheožbuscõputatis,lapatienzaemoderationfi: landabileinun Principepercõdurremaggiorcoseafine,chel'impetoelapcipit.iticne. CXX. NLELLE cosedellEconomicailuerboprincipaleèrisecaretutelespesesuper flue,ma quelloinchemipare, checonsistal'industria,èchifalemedesimespesecon piuvantaggio,ecomesidicevolgarmente,spendereilfoldoperquattroquattrini. CXXII. DICEVA unpadre,chepiubonoretifaunducatoinborsa,chediecichene baispesi,parolemoltodanotare,nonperdiventarfordido,nèpermancarenellecose honoreuoli,e ragionevoli,maperchetifafrenoafuggirelecosesuperflue. la malitia,ochenelmaneggiarelecoses'accor gono diquelloharebbono dibisogno,sicercafardirealiStrumétiquello chel'huomo vorrebbechedicese,peròquandosonogliinftrumentidicosevostred'importanza, habbiatepervfarizafaruelilenaresubito,& hauerliincasainformaautentica.  10 M. FrancescoGuicciardini. RARISSIMI sonogliinstrumenti, chedaprincipiosifalsificano,madopo fatisecondocheglihuomiuipensano CXIX . SE benglihuominideliberanoconbuonoconsiglio,gliefetisonoperòlpelocat tiui,tantosonoincertelecosefuture,nondimenononsiuuole comebestiadarsiinpicito daallafortuna,macomehuomoandarcontaragione,& chièSauio,hadacontentar fi, diessersimoltoconconsiglio,ancorchel'efetosiastatocattiuo,chefeconvácon figliocattivo, hauessehauutol'effettobuono. TENETE amente,chechiguadagna,sebenpuospenderequalchecosadipiu chenonguadagna,tamenè pazziaspenderelargamentesulfondamentodeguada gni,seprimanonhaifatobuonocapitale,perchel'occasionedelguadagnarenondu rasempre,& fementreessaduranontiseiacconcio, passatacheellaèytitrouipouero comeprima, edipiuhaiperdutoiltempo,el'honore,percheallafineètenutodipo coceruello,chihahauutal'occasionebella,& nonl'hasaputausarebene, & questo ricordotenetelobeneamente, perchehovistoamjeidiinfinitierrori. E Cer B2   puoalcunauoltamettendoinsiemela gratitudinechesisentedatuttiefere notabile. DEL fareun'operabuona, & laudabilenonsivedesempreilfrutto,peròchi nonsisatisfafolumdelbenfaredi sesteso,lascidifarlo,nonparendoglitrarneuti lità, maquestoè ingannodeglihuomininonpiccolo, percheilfarelaudabilmente,se bennontiportasjealtrofruttoeuidente,spargebuonome,& buonaopinionedite, laqualinmoltitempi & cafitirecautilitàincredibile. progressoditemposi p o c h e c o f e u e r i f i c a t e, c o m e s i t r o v a a c a p o d e l l ' a n n o d e g l i a s t r o lp o ge i , r c h e l e c o s e del mondosonotroppouarie. NELLE coseimportantinonpuofarebuonogiudicio,chinonfabenetuttii particolari, perche speso unacirconftantias& minima, nariatuttoilcaso, mauidice bene, chenonhanotitiaadaltro,chedigenerali,& questomedefimogiudicapeggio intesii particolari,perchechinonhailceruellomoltoperfettoemoltonettodallepaf fioni, facilmenteintendendomoltiparticolarisiconfondeeuaria. SE d'unos'intendedlegge,chesenzaalcunofuocommodo,èinterefe,ampor. E'Certo, chenonsitiencontodeliseruitijfattialipopoliinuniuersale, comedi quellichesifannoinparticolare, perchetoccandocolcommune, nessunositienseruito inproprio, peròchis'affaticcaperlipopoli, &vniuersità,nosperiches'affatichinoper luiinunsuopericolo,òbisogno,òchepermemoriadebeneficij,lafcinounalorocomo modità, nondimenononsprezzatetantoilfareseruitioapopolichequandouisipre sentil'occasionelaperdiate,percheseneuieneinbuonnome,ebuonconcetto, cheè fruttoasaidelafatica, senzapure,cheinqualchecasogiouaquellamemoria,& rin mzoneachièbeneficiatosenonsicaldamente,comelibeneficipropri,almancosarà partediquantosiconuiene, &fonotantiquestiachitocca questalorleggieraimpres fione,che  CH I facessefuun'accidentegiudicaredaun'buomosauioglieffetti,chenasce ranno,& scriueseilgiudicio, trouerebbetornandoa uederloin SPESSO s'inganna, chisirifoluesuiprimiauuifi,cheuengonodellecoseper ebeuengonosemprepiucaldi,& piuspauentofi, chenonriefconopoiconglieffettin però chino nèneceffitatoaspettisempreisecondi, edimanoinmanoglialtri. CHI halacurad'unaterra, chebabbiaaesserecombattuta,òassediata,deuefa repochiffimofondamentointuttiqueirimedij,cheallunganogestimareassaiognico fachetolgatempo,etiampiccoloaliiniinici,perchespessoundìpiu,o un'borapor taqualcheaccidente,chelalibera. . NON combatteremaiconlareligione,neconlecosecheparechedependonoim mediateda Dio, perchequestoobiettohatroppaforzanellementideglihuomini. ilmale    E'buonmezo aguadagnarsifauoriilmostrareaquelli,dachituduoiguada gnareilfauoredifarlicapis G QUANDO sifauna cosa, sesipotessesaperequelchefarebbeseguito, senon sifufefatta, sòifussefattoilcotrario,senzadubbiomoltecosesonoda glihuominilau dati,chenon fariano,anzimeriterebbono contrariasentenza: ACCADE :molteuolteinunadeliberationecheharagionedaognibanda, che ancorachel'huomohabbiadiligentementepenfato,chepoichehafattoladeliberatio ne, gliparebauerelettolapartepeggiore,laragioneè, chepoichetuhaideliberato tisirappresentanosolamenteallafantasialeragioni,cheeranonell'opinionecontra rialequaliconfideratesenzailcontrapesodell'altretipaionopiugraui,e pireim B 3 portanti  M.Francesco Guicciardini. Ir i male,cheilbene;fideuechiamarbeftiae, t nonhuomo, poichemancadell'appetia naturale , n o a fauorire quello, che p e r a l t r o h a r e b b o n o d i s fauorito  NON credeteaquestichepredicanocheamanolaquiete,etd'essereStracchi dell'ambitione,& hauerelasjatele.facende,perchequasisemprehannonelcuoreil contrario, esisonoridottiavitaappartata, & quieta,òpersdegno,òpernecessità, òperpazzia,l'essempioseneuedetuttoildì, percheaquestitalisubitoches'appres Sentaqualchespiragliodigrandezza,abbandonerannolatantalodataquiete, & nifi mettonoconquelpericolo, chefailfuoco,adunacosafecca. L'INCLINATIONI, e deliberationide.popolisonotantofallaci, & Menatepiuspessodalcaso,chedallaragione,chechiregolailtrainodeluiuerfuo,non inaltrocheinfüilasperanzad'hauereadeseregrandecolpopolozhapocogiuditiosper cheopporsièpiutostoventuracbefenno. autoridiquellacosa,nellaqualen'haidibisogno,perche la piupartede glihuomini,presidaquellauanità,òambitione,uisiaffettionanoinmo do,chedimèticatiirispetticontrari,ancoradepiuragioneuoliepiuurgenticomincia INFINITE Sonolevarietàdellenature,dadepensierideglihuomini, però non sipuoimaginarecosa, nèsìstrauagante,nèsicontraragione,chenonsiasecondo ilceruellod'ałcuno,perquestoquando sentiretedire,ch'altrihabbiadetto,ofattoco. facchenonuiparrauerifimile,nèchepossacadereinconcettod'huomo,nonuënefat teleggiermentebeffe,perchequellochenonquadraate,puofacilmentetrouareachi piaccia, òpaiaragionevole. PA RE chei Principi sienepiuliberi,e piupadronidellelorouolontà,chegli altrihuominóznonèuero nePrincipi chesigouernano prudentemente,perchesonone cefsitatiprocedereconinfiniteconsiderationi,rispetti,inmodochemoltevoltecat tiuanoilordisegni, iloroappetiti,el'altrevolontàloro, iochel'hoosseruato,n'ho pedutemolteesperienze.   ,diriandaretutteleragioni,chesonohinc,& inde,perchequeen stoconcorso& contrarietà, chetiapprefentiinanzi,fa,cheleragionichesiconcede ilano,nontipaianepiudimaggiorpesosoimportanzadiquello,cheveramente QVANDO nelleconsulsteonoparericontrarij, sealcunoescefuoraconqual. Che partitodimezo,quasichesempreèapprouato,non percheipartitidimezo,il piudellevoltenonsier:opeggiori,ma percheicontradittoricalanopiuvolentierid quello,cheall'openionecontraria,& ancoglialtri,òpernondispiacere,opernonef jerecapaci,sigettanoaquellocheparloro,chehabbiamancodisputa.  POSSONO maleglihuominipriuati,biafimareolodaremoltoleationide Principi,nonsolopernonsaperelecosecomestanno& peressergliintereffi,& ilo to finiincognitismi ancoraperchela differenzaèdall'hauereauuerzo ilceruello advsodePrincipi,adhauerloaurezzoadvsodepriuati,facheancorchelostato, ifinidellecose, & gliintereshfulero all'unonoticomeal'altro,leconsiderationi  Auvertimentidi portanti,chenonpareuanoinanzi,chetudeliberafi:Ilrimediodiliberarsidaquesto molestia,èsforzarsi  NO huomo, chenonsiaprudente,nonsipuoreggeresenzaconsiglio,nondime noeglièmoltopericolosopigliarconsiglio,perchechidàconsiglio,haspesopiuconside rationeall'interessesuo,cheaquellochelodomanda,anziproponeognisuopicciolo rispetto,& fodisfattioneall'interesse,benchegrauissimo,a importantijimodiquela l'altro,peròdico,cheintalgradobifogna, ches'abbattaconamici fedeli,altrimenti porta pericolodinonfarmaleapigliarconsiglio,etmaleetpeggiofa,ànolopigliare. mol tevolteinterzooquartocaso, chenonfumaiinconsideratione, e chedifficilmente fisarebbeimaginato,chepoteseesseremolteutoltesitroua ingannato. NON sipuochiamareinfelicevnacittà, chefioritalungamente,uieneabal Sezza, perchequestoèilfinedellecosehumane,nësipuoimputareinfelicitàlelle resotopostoa quellalegge, cheècommuneatutiglialtri, mainfelicesonoqueicit tadini,a iqualihadatolafortenascerepiuprestonelladeclinationedellasuapatria, cheneltempodellasuabuona fortuna. fono. Però Si CHI sul far giudiciodelfuturovuolpigliare-qualchedeliberatione, comespesso calcula, latalcosaanderà,òneltalmodo, òneltale.,& suquestodiscorsopigliail suopartito,percheperlavarietàdellecose,edegliaccidentidelmondo,viene  VR Principe, chevolessetorreilcreditoagliAstrologi, chestampanoigiudicij vniuersalmente, nonharebbeilpiufacilmodo, checomandare,chequandosistampa ilgiudicioloro,perl'annofuturo,fusseristampato, & appiccato conessoloroilgiudi ciodell'annopaljato, percheglihuominirileggendoinquelloquantopoco fifienoa p postidelpassato, farelbonosforzatinonprestarfedealfuturo,& hauendosidimenti catolebugiedell'annopaljato, la curiosità naturale, che hannogli huominidisapere, quelchehadaessere,gliinclinafacilmenteaprestarlifede. 1   peròsonomolto'diuerse,äsidiscorronolecosecondiuersoocchio, sigiudicano condiversogiudicio,& infine, l'unolemisuracondiuerfamisura dall'altro. fareognioperapossibile, fachecoluiilpiudelleuoltècominciaacre dere, chenonlovoglia seruire; ilcontrariointrauienea chi fa larghezza disperan 2a,&di facilità, perches'acquistapiucolui, ancorche l'efetononriesca, cosi si Dede, che chi si gouerna con arte, o perdir meglio con qualche auuertenza , è piu grato, & piufailfattosuo,nèprocededaaltro,senondaesserelapiupartedeglihuo miniignorantial mondo, ches'ingannano facilmente in quello che desiderano.onesto ma utilitario, ambi ziosoepositivo, consideratoildramma dellaruina italica, in mezzo al quale si svolse l'agitata sua esi stenza, voi avrete nelle mani il segreto per giudicare la sua energia morale anche nelle opere scritte, in cui manifesta l'anima sua,che vibra d'ambizione, di collera,discoraggiamento,dibeffardoscetticismo e anche di nobili entusiasmi. e 2 Niccolò Machiavelli posemano aisuoi Discorsisulle Deche diTitoLivionel1513,elifinìmoltopiùtardi: liandò leggendo negli Orti Oricellari,circondato dalla gioventù fiorentina,che pendeva ammirata dallesue labbra. Egli dice, sin dal principio, di essere stato spinto a svolgere sì alto argomento dal bisogno di o p e rare quelle cose che credeva adatte a recare comune beneficio a ciascuno. E se l'ingegno povero,la poca esperienza delle cose presenti, la debole notizia delle antiche, faranno questo suo conato difettivo e di non molta utilità, daranno almeno la via ad alcuno, il quale,con più virtù,discorso e giudizio,possa a questa sua intenzione soddisfare.Più apertamente manifesta questo suo desiderio,concludendo:«Benchè questa impresa sia difficile, nondimeno aiutato da coloro, che mi hanno ad entrare sotto questo peso confortato, credo portarlo in modo che ad un altro resterà breve cammino a condurlo al luogo destinato.'» Il Guicciar dini ne accettò l'invito e scrisse le sue osservazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli,fermandosi a con 1Machiavelli,nel proemio al primo libro dei Discorsi. . Il Machiavelli tratta delle origini delle città e os serva che se trovansi in luoghi sterili, i cittadini d i ventano energici ed operosi : m a se si stabiliscono in luoghi fertili, cadono nell'ignavia,se non si cerca con le leggi di correggere il male morale portato dalla fecondità della terra. Se non che la sterilità dei luo ghi non offre facile via alle conquiste,e per questo i Romani fondarono la loro città in luogo fertile e adatto a spianare ad essi la via dell'imperio : al ri manente rimediarono con leggi severissime,le quali resero armigero il popolo. Su quest'ultima parte il Guicciardini,che assaiammira l'arte militare deiR o mani e non troppo il governo e la politica loro, os serva che Roma era bensìposta in paese fertile,ma per non avere contado e essere cinta di popoli po tenti, fu forzata allargarsi con la virtù delle armi e con la concordia ;e questo si discorre non in una città chevogliavivereallafilosofica,ma inquellechevo  siderare i primi due libri e appena qualche capitolo del terzo,perchè gli mancò iltempo a continuare il lavoro intrapreso.In esse spicca la differenza di mente fra il Guicciardini e il Machiavelli : questi guarda le questioni da sublime altezza e sotto un aspetto più g e nerale,abbandonandosi alla sua geniale idealità,nello studiare l'organizzazione dello Stato ; il Guicciardini invece,ricco di tanta esperienza,vero genio del senso pratico, nonsegue ilsuoamiconeivolipoetici,ma si ferma soltanto a rettificare quelle idee del Machia velli a lui sembrate erronee : in ciò mostra forza e sicurezza di indagine, conoscenza profonda dei go verni. Egli discute i mezzi di reggere le repubbliche e i principati, ne studia l'indole per cercare il go verno migliore : parla dei modi di comportarsi coi soggetti e di aumentare fuori l'imperio degli Stati,di condurre le guerre, dell'efficacia delle religioni sulla civiltà delle nazioni:ragiona sullanatura umana,do minata dai due istinti del bene e del male. gliono governarsi secondo il comune uso del mondo, come è necessario fare;altrimenti sarebbono,essendo deboli, oppresse e conculcate da'vicini.'» Moltissime sono le osservazioni del Guicciardini circa le varie specie di governo,le guarentigie da prendersi per custodire la libertà, le qualità e condizioni necessarie ad un regime per essere forte.” Degne di studio sono pure quelle riguardanti il principato,ilgoverno popolare e quello degli ottimati. « Il frutto del governo regio,così il Guicciardini,è che molto meglio, con più ordine, con più celerità, con più segreto, con più risoluzione si governano le cose pubbliche quando dipendono dalla volontà di un solo, che quando sono nell'arbitrio di più.» Ma se il so vrano è cattivo, gli effetti ne sono pessimi. E però, secondo lui,è necessario farlo perpetuo,ma limitargli l'autorità, con fare che da sè solo non possa disporre di alcuna cosa e solamente abbia libertà d'azione in quelle che sono di minore importanza. Dichiara che nel governo degli ottimati è il bene, perchè essendo in più non possono cadere tanto facilmente nella ti rannide, come avviene nel principato :essendo uomini qualificati governano con più prudenza e intelletto del popolo.Il male è che favoriscono troppo le cose proprie e opprimono il popolo : l ' ambizione fa nascere in essi le sedizioni e per via della tirannide si produce la ruina della città. Se poi, invece del governo degli ottimati, per elezione o per qualità, che si potrebbe rendere buono con acconci provvedimenti, si avesse quello degli ottimati per nascita o per eredità,questo sarebbe il peggiore di tutti. « Nel governo di popolo è di buono che mentre dura non vi è tirannide ; pos sono più le leggi che gli uomini ; e il fine di tutte le deliberazioni è badare al bene universale. Di male 1 FEgli,nei suoi giudizî così temperato, lascia ogni prudenza allorchè parla del popolo che disprezza,m e n tre il segretario fiorentino lo esalta e l'ama.Intorno alla ignoranza e malvagità,fondate in sulla invidia, opina « che senza comparazione il popolo sia più in grato ; perchè, e per essere gli uomini distratti in varie faccende, e per altre cagioni, manco intende, manco distingue e manco conosce che non fa il prin cipe ; e quanto alla invidia,cade più facilmente negli uomini popolari,a’quali ogni grandezza punto emi nente o di nobiltà o di ricchezze o di virtù o di ri putazione è ordinariamente molesta ; nè cosa alcuna dispiace loro che vedere altri cittadini che abbino più qualità di loro e questi sempre desiderano abbas  vi è che il popolo,per la ignoranza sua,non è capace di deliberare le cose importanti. è instabile e desi deroso sempre di cose nuove e però facile a essere -mosso e ingannato dagli uomini ambiziosi e sediziosi ; batte volentieri i cittadini qualificati, che gli neces sita a cercare novità e perturbazioni.» Il Guicciar dini,inchinevole più al governo di uno, quando sia temperato da savie leggi,anzichè al popolare, si di scosta in ciò da Machiavelli,che nel popolo ripone grandi speranze : questo è uno dei punti,in cui la dif ferenza deigiudizî si fa più spiccata fra di essi.Del resto il Guicciardini reputava ottima la forma del governo misto di principe,popolo,ottimati,togliendo da ciascuna specie il buono e lasciando indietro il cattivo, cercando di conciliare tutti gl'interessi; la qual forma presenta delle somiglianze coi governi co stituzionali dei nostri tempi,ed è quellalodatapure dal Machiavelli. I due grandi statisti fiorentini discor rono dei governi secondo le idee di Polibio, ma il Guicciardini, profondo conoscitore delle condizioni dei suoi tempi,con acume più pratico parla dei varî re gimi e delle passioni e appetiti che muovono iprin cipi, i nobili e il popolo ad impadronirsi dello Stato.    sare.'> Crede il Guicciardini di non saper bene ciò che voglia dire la questione presentata da Machiavelli, se si d e v e p o r r e l a guardia  della libertà nel popolo o ne'grandi. Se intendesi discorrere di chi deve partecipare al governo,ciò spetta,nei governi misti c o m e quello di R o m a , tanto ai patrizî c o m e ai plebei , che salvarono spesso la libertà della patria. «Ma quando fosse necessario mettere in una città o un governo meramente di nobili o un governo di plebe, è manco errore farlo di nobili, perchè essendovi più prudenza ed avendo più qualità,sipotràpiùsperare si mettino in qualche forma ragionevole,che in una plebe,la quale essendo piena d'ignoranza,di confu sione e di molte male qualità, non si può sperare se non che precipiti e commetta ogni colpa. > Lo stesso disprezzo per il popolo lo rivela nelle pagine, in cui d i mostra essere stati i Romani meno ingrati degli Ate niesi verso iloro cittadini più illustri.Ciò accadeva per chènellanaturadeiRomani nonfulaleggerezzadegli Ateniesi e anche per la diversità del governo.In Atene poterono i cittadini con le arti popolari salire presto in potenza e farsi grandi : m a i capi, in questo g o verno popolare, caddero più facilmente in sospetto e con più leggerezza e meno considerazione furono oppressi. La plebe romana trova il contrappeso della nobiltà, poichè nel Senato si trattavano le cose più gravi. La qualità quindi del governo dei Romani,più tempe rato e prudente, fu causa che icittadini ebbero meno degli Ateniesi aperta la via alla tirannide e vi furon m e n o b a t t u t i . Ma quando il Guicciardini vuol dimostrare che la costanza e la prudenza sono qualità meno del popolo regolato da leggi e più del principe e degli ottimati regolati dalle leggi,egli diviene aspro e quasi violento contro il popolo : « Perchè dove è    minor numero, èlavirtùpiùunita,epiùabileapro durre gli effetti suoi ; vi è più ordine nelle cose, più pensieroedesame,ne'negozîpiùrisoluzione; ma dove è moltitudine,quivi è confusione; e in tanta dissonanza di cervelli, dove sono varî giudizî,varî pensieri, varî fini, non può essere nè discorso ragionevole,nè riso luzione fondata, nè azione ferma. Però non senza cagione è assomigliata la moltitudine alle onde del mare,lequalisecondoiventichetiranovannoora in qua ora in là, senza alcuna regola, senza alcuna fermezza.'  I principi e con essi i più eminenti statisti della Rinascenza avevano la convinzione essere le istitu zioni un trovato dell'ingegno,e da questo unicamente dipendere senza badare alla responsabilità delle azioni, nè alla violenza che isovrani avrebbero esercitata so pra i soggetti. Essi non sospettavano che il governo di un popolo dovesse sgorgare direttamente dal suo spirito e trovare un sostegno nelle tradizioni del paese. Il Guicciardini soltanto in parte era di ciò persuaso ; vagheggiava un governo misto, ma inten deva accordare al popolo la minore ingerenza possibile in esso:pure ilregime desiderato da Firenze,eche era stato la gloria della repubblica,era il democra tico, malgrado gli errori in cui era caduto.Tuttavia a lui, osservatore profondo, non sfugge mại la realtà delle cose e dice che un popolo,uso a vivere sotto un principe, se diventa libero,con difficoltà mantiene gli ordini liberi:ciò non accade invece ad un altro che sia stato libero e per qualche accidente abbia perduto la libertà,perchè in questo caso si possono ripigliare gli ordini liberi, vivendo con chi già li pos sedette, ed essendo nei cuori la memoria dell'antica repubblica. Afferma anche la difficoltà di educare un popolo alla libertà se mai non la conobbe :in tal caso 1Op.cit.,pag.54,55.   necessita fondare un governo temperato,opprimere i nemici, lasciando sicuri quelli che vogliono vivere bene.E più avanti:un principe che ha inimico il popolo,per la oppressione male esercitata, vi rime dierà levando via le ingiurie e governando giusta mente,ma non vi rimedierà se si trova davanti un popolo che vuole essere libero per aver mano al go verno,perchè in questo caso sono vane le dolcezze.? Al Guicciardini, nel meditare sulle vicende storiche del passato, appariva vana la speranza di ritrovare il buono assoluto nelle forme di governo,perciò ne cer cava il buono relativo che potesse reggersi in mezzo al trambusto degli avvenimenti tempestosi che scon volgevano l'Italia,invasa dagli stranieri.La società trasformatasi manifestava nuove aspirazioni e nuovi bisogni che occorreva seguire e accontentare : si d o vevano evitare i mezzi estremi col cercare l'armonia dei varî interessi. M a , ripetiamo, egli accordava al popolo una piccola partecipazione al governo,mentre l'aveva avuta grandissima, e quindi urtava contro le tradizionipatrie:scordava che la natura delude con le sue leggi il nostro volere e si vendica di chi,col l'intenzione di dominarla, non cerca innanzi tutto di assecondarla. Nella Considerazione sul capitolo X V I , già da noi ricordata,ilGuicciardini mostra la differenza fra l'in dole sua e quella del Machiavelli, il quale assicurava che in Roma antica non si poteva trovare mezzo più efficace per cementare la libertà che ammazzare ifigli diBruto.IlGuicciardini,rispondendogli,riconosce la necessitàdituffareasuotempolemaninelsangue, tuttavia fa voti perchè « non desideri la nuova libertà che vi siano figliuoli di Bruto,cioè chi macchini contro allo Stato, per avere causa di acquistare riputazione e tenere con la severità ;perchè se bene è necessario in 1Op.cit.,Considerazione sul cap.XVI.  simili casi mettere mano nel sangue, sarebbe stato meglio non avere avuto necessità, e che Bruto non avesse figliuoli, che averne per avergli ammazzare.'> Nell'agitare la quistione sulla bontà dei governi, si discute,dal Guicciardini e dal Machiavelli,non solo intorno ai mezzi di ringagliardire la repubblica,ma a n c h e il principato . Se un principe, secondo il Guicciardini, si trova di fronte a un popolo che ami la li bertà,ilsolo rimedio sarà quello « o di farsi dei par tigiani di qualità, che siano potenti a opprimere il popolo, ovvero, co l battere e annichilire il popolo di sorte che non possa muoversi,introdurre nuovi abi tatori e di qualità che non abbino a avere causa di desiderare la libertà? » Così , senza parere, egli sembra accostarsimoltoalleidee di Machiavelli, ma tosto cerca di rendere meno cruda e assoluta la sentenza emessa. « Però bisogna che il principe abbia animo a usare questi estraordinarî,quando sia necessario; e nondimeno sia sì prudente che non pretermetta q u a lunque occasione se gli presenti di stabilire le cose sue con la umanità e co'benefizî, non pigliando così per regola assoluta quello che dice lo scrittore, al quale sempre piacquono sopra modo e rimedi estraor dinarî e violenti.?» Il Machiavelli è d'opinione che a fondare una re pubblica bisogni essere solo e che per questo fece bene Romolo ad ammazzare ilfratello.A luirisponde ilGuicciardini: «Non è dubbio che uno solo può porre migliore ordine alle cose che non fanno molti, e che uno in una città disordinata merita laude,se, non potendo riordinarla altrimenti,lo fa con la vio lenza e con la fraude e modi estraordinarî. M a è da pregare Dio che le repubbliche non abbino necessità diessereracconcepersimilevia,perchè gli animi degli uomini sono fallaci e può uno sotto questo onesto colore occupare la tirannide.> Inoltre « bi sogna prima bene leggere e considerare la vita di Romolo,ilquale,sebbene mi ricordo,sidubitò non fosse ammazzato dal senato,per arrogarsi troppa au torità.'> E mentre il Machiavelli entusiasmato parla della generosità d'animo del suo principe legislatore, che, compiuta l'opera, senza lasciare lo Stato ai figliuoli, lo affida alle cure vigili del popolo, ecco il Guicciardini interromperlo e osservare che « questi pensieri che i tiranni deponghino le tirannidi,e che i re ordinino bene i regni, privando la loro posterità della successione,si dipingono più facilmente in su'li bri e nelle immaginazioni degli uomini,che non se ne eseguiscono in fatto.”» Ammette,col Machiavelli, la frode, la violenza, l'inganno,per cementare salda mente uno Stato, ma vuole attenuare il fatto, e ne discorre con parole moderate e suggerite dal buon senso. Così pure non condivide gli entusiasmi del M a chiavelli sull'uomo destinato a dare nuova vita a un popolo, sebbene egli creda gli uomini meno cattivi di quelloche sono reputati dal segretario fiorentino. Dimostra il Machiavelli che si viene di bassa a gran fortuna, più con fraude che con la forza ;m a il Guicciardini osserva : « Se lo scrittore chiama fraude ogni astuzia o dissimulazione che si usa anche senza dolo, può essere vera la conclusione sua,che la forza sola,non dico mai,che è vocabolo troppo assoluto, ma rarissime volte conduca gli uomini da bassa a grande fortuna.Ma se chiama fraude quella che è proprio fraude, cioè il mancamento di fede, o altro procedere doloso,credo si trovino molti che hanno senza fraude acquistato regni e imperî grandissimi. Di questi fu Alessandro Magno,di questi Cesare,che di cittadino privato con altre arti che di fraude si 1Presuppone il Machiavelli che tutti gli uomini sono cattivi ed essere necessario all'ordinatore di una re pubblica infrenarli con le leggi,perchè non operano mai ilbene se non per necessità.IlGuicciardini è con trario a questa sentenza eccessiva, e crede la maggior parte degli uomini inchinevoli più al bene che al male : e se alcuno ha altra inclinazione, è così diffe rente dagli altri e spoglio dell'istinto che ci porge lanatura,da doversipiùprestochiamaremostroche uomo.È adunqueogniuomoinclinatoalbene,ma, essendo la natura sua fragile, può essere deviata dal retto cammino,dalla volontà,dall'ambizione e dal l'avarizia:leleggisidevonofareinmanierada impe dirgli di fare il male di cui sente l'impulso, e nel tempo stesso allettarlo al bene coi premî. Sostiene il Machiavelli essere sempre la frode un mezzo di in grandimento : il Guicciardini talora la crede inutile e la vorrebbe lasciata da parte,non in nome della morale, m a di un ben inteso interesse. Il Machiavelli sostiene che nel mondo fu tanto di buono in un'età quanto in un'altra,benchè varino i  condusse a tanta grandezza,scoprendo sempre l'am bizione sua e lo appetito di dominare . . . . M a ,quanto alla fraude, può essere disputabile se sia sempre buono istrumento di pervenire alla grandezza ;perchè spesso coll'inganno si fanno di molti belli tratti,spesso anche l'avere nome di fraudolento toglie l'occasione di con seguire gl'intenti suoi.'> Tutti e due eran d'accordo che l'inganno è necessario per riuscire ad un buon fine, però il Guicciardini non accetta in modo asso luto le massime del Machiavelli e dimostra la diffe renza della sua indole, molto più pratica,se si para gona a quella del Machiavelli ; più sistematica nel venire a considerare i casi in cui la frode conduce o non conduce alla meta agognata. 1 O p . C o n s i d e r a z i o n i a l p r o e m i o d e l l i b . I I , p a g . 6 0 , 6 1 .   luoghi, la qual cosa equivale a dire che sempre nella umana famiglia il bene e il male si equilibrano. All’incontro il Guicciardini, con mirabile penetrazione, e v o cando dinanzi a sè le età passate,risponde di no :e a n che riconoscendo che l'antica non è superiore ai tempi che la seguirono e che verranno,afferma che la somma del bene e del male è differente nelle diverse età e ne porge gli esempî : « Chi non sa in quanta eccellenza fussino a tempo de'Greci e poi de'Romani la pittura e la scultura , e quanto di p o i r e s t a s s i n o oscure in tutto il mondo ; e come dopo essere state sepolte per molti secoli siano da centocinquanta o dugento anni in qua ritornate in luce ? Chi non sa quanto a'tempi antichi fiorì non solo appresso a'Romani,ma in molte pro vincie la disciplina militare, della quale i tempi n o stri e quelli de'nostri padri e avoli non hanno veduto in qualunque parte del mondo se non piccoli e oscuri vestigî ? Il medesimo si può dire delle lettere, della religione, che senza dubbio in alcune età sono state sepolte per tutto, in altre sono state in molti luoghi eccellenti e in sommo prezzo. Ha visto qualche età ilmondo pieno di guerre,un'altra ha sentito e go duto la pace ; dalle quali variazioni delle arti, della religione,dei movimeti delle cose umane,non èm a raviglia siano anche variati i costumi degli uomini, i quali spesso pigliano il moto suo dalla istituzione, dalle occasioni,dalla necessità.?» Pel Guicciardini è indispensabile ai popoli la reli gione, in ispecie quando viene usata come elemento di forza nello Stato, e ad esso sottomessa : tuttavia non condivide col Machiavelli l'opinione che iRomani abbiano dovuto alla religione una sì gran parte della loro potenza, e dimostra avere le armi maggiormente contribuito ai trionfi delle aquile latine sulla terra. Alla questione sulla religione dei Romani si collega   Op.cit.,Considerazioni al proemio del lib.II,pag.60,61. Op.cit.,pag.26,30. e e 2    particolare circa l'influenza del papato suide- '. stinid'Italia,in cuiidue eminentipensatorihanno punti di contatto e altri che li dividono. Afferma il Machiavelli avere la Chiesa cattolica di Roma tenuta l'Italia divisa, ed essere stata causa che non potesse venire sotto un capo e rimanesse sotto a più principi e signori, dai quali le venne tanta disunione e debo lezza da cadere preda dei barbari potenti e di chiun quel'assaltasse.IlGuicciardinirisponde:«Non si può dire tanto male della corte romana,che non m e riti se ne dica più,perchè è un'infamia,un esemplo di tutti i vituperî e obbrobrî del mondo.» È con vinto essere stata causa la grandezza della Chiesa che l'Italia non sia caduta in una monarchia. Pure è dubbioso se il non essersi organata nella monarchia sia stata felicitào infelicità di questa nostra terra, poichè la divisione sua in tanti dominî, malgrado le sofferte calamità, produsse le sue glorie comunali. Osservazione profonda e vera,poichè se l'Italia fosse caduta sotto il dominio di uno solo, le varie regioni, in cui si divise,non avrebbero prodotto l'energia in dividuale dei comuni, che creò tanti tesori in molte parti dello scibile e della attività umana, nei com merci e nelle industrie,preparando gli splendori della Rinascenza,che furono fiaccola alla civiltà del mondo . Il Guicciardini rimaneva ad osservare la realtà delle cose che aveva d'attorno e non voleva seguire ilM a chiavelli,che lanciava il suo guardo di aquila oltre i confini d'Italia, a osservare il formarsi delle nazioni unitarie , giovani e forti, aventi un vivo sentimento patrio. Secondo il segretario fiorentino,l'Italia,divisa e debole,non poteva difendersidalle loro cupidigie d'in grandimento, e già cadeva sotto i loro colpi brutali, mentre nei secoli passati, senza la piaga del papato, essa pure avrebbe potuto divenire di mano in mano una nazione unita e forte sotto i suoi legislatori, ed ora non si sarebbe trovata immersa in tante infelicità. Nella quistione sulla lotta fra la plebe e la nobiltà, che agitò Roma e Firenze,non vanno d'accordo. Il Machiavelli osserva che le divisioni di Firenze furono esiziali alla città, perchè la vittoria del popolo porto larovinadeigrandi:quellediRoma inveceriesci rono di grandezza allo Stato,perchè ilpopolo,rima sto a combattere sulla via della legalità,si accontentò di rivendicare isuoi giustidiritti;e,conseguitili,di vise coll'aristocrazia il governo. A queste giuste e originali osservazioni risponde ilGuicciardini,e com batte la maniera assoluta con cui sono dette : « Se da principio o non fosse stata questa distinzione tra patrizî e plebei, o se almanco si fosse data la metà degli onori alla plebe come si fece poi, non nasce vano quelle divisioni,le quali non possono essere lau dabili,nè si può negare non fossero dannose,sebbene in qualche altra repubblica manco virtuosa avrebbero fatto più nocumento. Laudare le disunioni è come laudare in uno infermo la infermità,per la bontà del rimedio che gli è stato applicato.?» E ponendo mente all'ambizione di uominicospicui, che approfittarono delle lotte fra popolo e nobiltà per impadronirsi del governo,ilGuicciardini dice come Appio Claudio fu rovesciato dal potere non per essersi unito ai grandi a combattere ilpopolo,mentre doveva fare altrimenti, m a perchè tentò di rovesciare la repubblica, la quale era allora governata da ottime leggi,piena di santis simi costumi e ardentissima nel desiderio della li bertà.Manlio Capitolino,sebbene procedesse contro il Senatoconartemeramentepopolare,purefuop presso dal popolo medesimo, appena capì che cercava di spegnere la libertà. Silla occupò la tirannide a Roma elastabili conl'aiutodellanobiltà;ilDuca d’Atene si fece tiranno a Firenze col favore dei grandi, che non seppe mantenersi fedeli per la sua imprudenza e leggerezza. Cesare si fece signore di Roma col favore della plebe.Così nell'una parte e nell'al tra si trovano molti esempi e ciascuna parte ha le sue buone ragioni. « I partiti non si possono pigliare con una regola generale, ma la conclusione s'ha a cavare dagli umori della città, dall'essere delle cose che varia secondo le condizioni dei tempi e altre oc correnze che girano.'> Secondo il Guicciardini chi ha seco la nobiltà ha un fondamento più gagliardo di riuscita : chi ha il popolo dalla sua parte ha più seguaci, ma la potenza sua è meno sicura, per il mutarsi degli umori della moltitudine. Il principio annunziato dal Machiavelli che sono lodevoli i fondatori di una repubblica o di un regno quanto vituperevoli quelli di una tirannide, è dal Guicciardini trovato giusto. Però,egli dice con rettitu dine,non bisognaconfonderegliesempî,perchè qual che volta può darsi che le forme della libertà sieno così disordinate e le città ripiene tanto di discordie civili,da condurre qualche cittadino,non potendo sal varsi altrimenti,a cercare la tirannide o ad aderire a chi la cerca.Mentre è detestabile in Cesare,pieno dialtavirtù,ma oppressodall'ambizionedeldomi nare : accade pure al governo della plebe di diventare tirannico e allora,dai perseguitati,si desidera la m u tazione dello Stato. Il Guicciardini,quando siferma a meditare sulla storia di Roma antica, vi guarda dentro con l'occhio del politico,non con quello dello storico.Non si cura di ricercare se i re sono esistiti veramente ovvero se simboleggiano le varie età che si succedettero presso la gente romana così famosa : questi dubbî,già balenati alla mente degli umanisti delsecoloXV,nonlatoccanonemmeno. Egliguarda soltanto ai caratteri della politica romana,e,contro il parere del Machiavelli, afferma che, eccettuata disciplina militare, Roma ebbe un governo in molte partidifettoso,come,peresempio,lafacoltà accor data ad un uomo di fermare le azionipubbliche e le deliberazioni della città,come feceroiconsoli, anche togliendo ilfreno deltribuno.In potestà dei consoli fu il diritto di privare dell'autorità senatoria uomini onorandicome Mamerco Emilio. Eglièpuredelpa rere del Machiavelli che la prolungazione degl'imperî fu occasione grande a chi volle occupare la repub blica, perchè era istrumento a farsi amici i soldati eseguitocoire. Mailfondamentodeimalifulacor ruzione della città,la quale,datasi all'avarizia,alle delizie, era in modo degenerata dagli antichi costumi che ne nacquero le divisioni sanguinose della città, dalle quali sempre ne'popoli si viene alle tirannidi. Però quando Roma non fu corrotta,la prolungazione degl'imperî e la continuazione del consolato, che nei tempi difficili usò molte volte, furono cosa utile e santa. Conchiude che « se non fussino state le pro lungazioni,non sarebbe mancato nè a Cesare nè agli altri che occuparono la repubblica, nè pensiero ne facoltà di travagliarla per altra via,essendo la città corrotta? »  Non ostante la loro somiglianza,idue grandi po litici fiorentini avevano tendenze intellettuali diffe renti, e spesso si trovavano in disaccordo.Nelle m a s sime che risguardano laguerra,ilMachiavelli sostiene che si deve fare col ferro e non coll'oro :ibuoni sol dati soltanto sono il nervo della guerra e non l'oro: occorrono certo I danari,ma insecondoluogo,essendo impossibile che abbino a mancare ai buoni soldati. Il Guicciardini, che si attiene alla vita reale del se coloXVI,incuinonc'eranoarmiproprie,se si eccettua il tentativo fatto in Firenze sotto il gonfaloniere Pier Soderini, per impulso generoso del Machiavelli ;CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. 33 ilGuicciardini, ilquale era stato governatore di pro vincie, commissario generale negli eserciti e cono sceva la venalità dei capitani e delle milizie, che per il danaro calpestavano la fede giurata e rinne gavano sin anche la patria,non poteva essere dello stesso avviso,sapendo per esperienza che occorreva danaro per avere illustri capitani, milizie e buone fortezze. Del resto, se egli sostiene che il danaro è il nervo della guerra, non intende che i danari soli bastino a fare la guerra, nè siano più necessarî dei soldati, perchè sarebbe stata opinione falsa e ridi cola. All'incontro intese « che chi faceva la guerra, aveva bisogno grandissimo di danari e che senza quelli era impossibile a sostenerla, perchè non solo sononecessarîperpagareisoldati,ma per provve derelearmi,levettovaglie,lespie,lemunizioni e tanti istrumenti che si adoperano nella guerra ;iquali ne ricercano tanto profluvio,che a chi non l'ha pro vato è impossibile a immaginarlo. E sebbene qualche volta un esercito scarso a danari con la virtù sua e col favore delle vittorie li provvede,nondimeno ai tempi nostri massime sono esempli rarissimi :e in ogni casoeinognitempononcorronoidanaridietroagli eserciti, se non da poi che hanno vinto.'» A questo disaccordo si aggiunse l'altro intorno alle fortezze e alle armi da fuoco,che ilMachiavelli, per stare troppo attaccato all'esempio dei Romani, non tiene in nessun conto,dicendo le fortezze più dan nose che utili. Il Guicciardini lo riprende con ragione e dice : « Non si deve lodare tanto l'antichità che l'uomobiasimituttigliordinimodernichenon erano in uso appresso a'Romani, perchè la esperienza ha scoperte molte cose che non furon considerate dagli antichi,e,peressereinoltreifondamenti diversi,con vengono o sono necessarie a una delle cose che non Op.cit.,pag.61,62.  1 3 ZANONI.   convenivano,o non erano necessarie all'altre.Però se iRomaninellecittàsudditenonusaronoedificarefor tezze,non è per questo che erri chi oggidi ve le edifica : perchè accadono molti casi,per i quali è molto utile avere fortezze. E quella ragione che si adduce nel Discorso, che le fortezze danno animo a'principi a essere insolenti e fare mali portamenti, è molto fri vola,perchè se s’avesse a considerare questo,avrebbe un principe a stare senza guardia, senza esercito, senza armi. Dipoi le cose che in sè sono utili,non si debbon fuggire, sebbene la sicurtà che tu trai da loro tipossa dare animo a essere cattivo:verbigra zia,sideve biasimarelamedicina,perchègliuomini, sotto fidanza di quella, si posson guardare manco da 'disordini e dalle cagioni che fanno infermare ? ' Certo si deve deplorare che queste fortezze il Guic ciardinilestimasseutilisoltantoaiprincipiper guar darsi dai popoli,desiderosi di cose nuove,e tenerli obbedienti col terrore. Però, come è maraviglioso questo duello tra due ingegni grandissimi che s'incontrano sul campo del l'antica sapienza governativa:sono due gigantiuguali di forze, muniti delle stesse armi,che si contendono una gloriosa vittoria nel più difficile conflitto.IlGuic ciardini, come uomo di Stato, supera d'assai il M a chiavelli,e bastano a dimostrarlole osservazioni che di mano in mano contrappone ai Discorsi del celebre segretario sulla prima Deca di Tito Livio,nelle quali, colla fredda acutezza della sua mente calma,colpisce sempre il lato debole dell'avversario e ne distrugge, colla sua logica implacabile,i ragionamenti poetici ed entusiastici,mettendone a nudo ora la fallacia, ora la indeterminata incertezza. Nella storia dei pen satori italiani non si trova una figura che possa reggergli a paro. È da lamentare che il tempo sia Op.cit.,pag.70,71.  mancato al Guicciardini per continuare il suo esame intorno ai discorsi del Machiavelli sulla prima Deca di Tito Livio,perchè ci avrebbe rivelato maggior mente la potenza della vigorosa argomentazione del suo genio pratico di fronte a quello idealista del se gretario fiorentino.Francesco Guicciardini. Guicciardini. Keywords: implicatura, il concetto di stato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guicciardini: l’implicatura particolarizzata” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Guzzi – la lingua inaudita, la lingua inaudibile, la lingua audita -- (Roma). Filosofo italiano. Grice: “My favourite is his dictionary of the unheard tongue – with a foreword like sounds like Blair on newspeak!” - Filosofo. Studia al Liceo classico statale Giulio Cesare. Direttore dei seminari del Centro studi Eugenio Montale. La poetica di Guzzi, fin dall'inizio, si è concepita come un'esperienza spirituale, una ricerca di stati più dilatati della coscienza, sulla scia della linea che da Hölderlin, e attraverso Rimbaud, arriva fino al nostro migliore ermetismo. La ricerca teoretica di Guzzi ha affrontato, in particolare nel saggio filosofico La svolta, significativamente sottotitolato "La fine della storia e la via del ritorno", il tema del cambiamento epocale che a suo avviso l'uomo è chiamato a conoscere e riconoscere, dentro e fuori di sé. Opere: Raccolte di poesia Anima in vetrina,  Il Giorno, Scheiwiller, Teatro Cattolico, Jaca, Figure dell'ira e dell'indulgenza, Jaca,  Preparativi alla vita terrena, Passigli, Nella mia storia Dio, Passigli, Parole per nascere,Paoline,  Saggi di filosofia e di religione La Svolta, Jaca, Rivolgimenti, Marietti, L'Uomo Nascente, Red, Passaggi di millennio, Paoline, L'Ordine del Giorno, Paoline, Cristo e la nuova era, Paoline, La profezia dei poeti, Moretti e Vitali, Darsi pace, Paoline, La nuova umanità, Paoline, Per donarsi, Paoline, Yoga e preghiera cristiana, Paoline, Dalla fine all'inizio, Paoline,  Dodici parole per ricominciare, Ancora  Il cuore a nudo, Paoline,  Buone Notizie, Ed. Messaggero  Imparare ad amare, Paoline  L'Insurrezione dell'umanità nascente, Edizioni Paoline,  Fede e Rivoluzione, Paoline  Il profilo dell'Uomo di Dio, Paoline  Alla ricerca del continente della gioia, Paoline  “Dizionario della lingua inaudita” Lingua e Rivoluzione, Paoline. Grice: “Guzzi plays with ‘lingua inaudita’ – literally ‘unheard of’ – but ultra-literally turns his dictionary into a magical oxymoron! Marco Guzzi. Guzzi. Keywords: lingua inaudita, lingua audita, lingua e rivoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guzzi” --- The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Guzzo – pagine di filosofi per i giovani italiani – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Napoli). Filosofo.  Grice: “I admire Guzzo; he founded ‘Filosofia,’ a philosophy magazine and led a school at Torino, but he selected ‘pagine di filosofi per i giovani italiani.’ He wrote interesting essays on “Gli hegeliani d’Italia” and Croce versus Gentile – a very systematic philosopher. The logo of his revista shows Oedipus and thes sphynx – that says it all!” Si laurea a Napoli, dove fu allievo di Maturi. Insegna a Torino e Pisa. Fonda "Erma”. Esponente dell'idealismo, si avvicinò all'attualismo di Gentile. È considerato quindi uno dei più grandi esponenti dello spiritualismo. Saggi: “Spinoza”; “Kant”; “Verità e realtà”; “Apologia dell'idealismo”; “Idealisti ed empiristi”; “Aquino”, “Bruno”; “Storia della filosofia”, “L'uomo” (Brescia, Morcelliana); “L'io e la ragione”; “Moralità”; “Scienza”; “Arte”; “Religione; “Filosofia” – P. Quarta, “Guzzo e la sua scuola, Urbino, Argalìa; Dizionario Biografico degli Italiani, Treccan.  AUQUSTO GUZZO   L’ISAGOGE DI PORFIRIO  E I COMMENTI DI BOEZIO EDIZION, TORINO   I DE “L’ERMA  L’ISAGOGE DI PORFIRIO  E I COMMENTI DI BOEZIO     TORINO   EDIZIONI DE “L’ERMA,ESTRATTO DAGLI Annali delV Istituto Superiore di Magistero del Piemonte. Voi. VII  XII TORINO -  L’Isagoge di Porfirio  e i Commenti di Boezio    SOMMARIO   1. Il Commento di Porfirio alle Categorie di Aristotele. — 2-5. Questioni su le Categorie. — 6. L’Isagoge. Il prologo. — 7-9. Il  primo commento di Boezio al prologo dell’Isagoge. Il secondo commento di Boezio. Le cinque voci. Il  genere. La specie. 16. La differenza. La qualità.  L’accidente. Quel che hanno di comune le cinque  voci.Comparazione del genere con le alti e quattro voci. Comparazione della differenza con le altre quattro voci.  Comparazione della specie con le altre quattro voci. —  23. Comparazione della proprietà con le altre quattro voci. Comparazione dell’accidente con le altre quattro voci. Il primo commento di Boezio alla dottrina delle cinque voci. Il dialogo premesso al primo commento di Boezio. Divisione della filosofia. Il secondo commento di Boezio. Conclusione.Queste esposizioni di antichi testi molto famosi ma poco letti co-  stituirono l’argomento del corso di Pedagogia da me professato nell’Istituto  Superiore di Magistero del Piemonte nell’anno accademico 1927-28. Volevo  dare una conoscenza possibilmente precisa di quel che era l’istruzione c  la cultura nell’alto medioevo : ed esposi i testi che in quei secoli erano più  meditati lumeggiando, di scorcio, anche lo sfondo d’idee su cui sorse più  tardi, sui primi periodi déìVIsagoge, la disputa degli universali.  Porfirio, che è autore della celebre « Isagoge, o In-  troduzione alle Categorie di Aristotele » , è anche autore di un  meno noto Commentario alle medesime Categorie. Sarà utile  studiare almeno la prima parte, cioè la parte introduttiva di  tale Commentario: forse si troverà in essa la spiegazione del  punto di vista dal quale si pone Porfirio nella « Isagoge » .   Questo Commentario ci è pervenuto mancante delPultima  parte - quella riguardante le ultime quattro categorie e i  post-predicamenti - e assai scorretto e guasto anche nella parte  precedente. Lo si trova in un codice modenese miniato del  secolo XIII, in un codice della Marciana del secolo XV, in uno  delPEscuriale del secolo XVI, in uno parigino dello stesso  secolo XVI, in uno della Laurenziana del secolo XV. E' però  dimostrato che di tutti questi codici il primo, da cui tutti gli  altri dipendono direttamente, è quello modenese.   Di sul codice parigino il commento fu stampato a Parigi nel  1543 « apud Jacobum Bogardum ». Su questa edizione, che è  Pedizione principe, del Commentario, fu condotta la versione  latina di Feliciano, stampata in Venezia « apud Hieronymum  Scotum ». L’ « edizione critica » è del 1887, e si deve alle cure    logica che, ad esporli, si può tutt’al più riescire chiari; ma avviciuarli  alla comune cultura può forse essere utile. Anche questo corso, che era  rimasto inedito, va messo tra i lavori da me preparati per l’Istituto Supe-  riore di Magistero del Piemonte. Mi sia permesso enumerarli : Apologia  dell’idealismo (Discorso inaugurale dell’anno accademico 1924 25), Torino,  Paravia, 1925; Introduzione e Commento al i^edone di Platone, Commento  alla Repubblica di Platone, Agostino: dai Contra Academicos al De Vera  Religione^ Firenze, Vallecchi, 1925; Agostino, Il maestro^ Traduzione, Intro-  duzione, Commento e Appendici, Firenze, Vallecchi, 1926; Tommaso  d’Aquino, Il maestro, Traduzione, Introduzione e Commento, Firenze,  Vallecchi, 1927; Giudizio e azione, Venezia, «La Nuova Italia», 1928;  Agostino e il sistema della grazia, Torino, «L’Erma», 1930 (1934®); Il  concetto di individuazione e il problema morale (Discorso inaugurale del-  l’anno 1930-31), Torino, « L’Erma », 1931; La « Summa contra Gentiles »,  Torino, « L’Erma », 1931 ; I Dialoghi del Bruno, Torino, « L’Erma », 1932.   di Adolfo Busse, nell’edizione dei commenti greci ad Aristotele,  promossa dall’Accademia Prussiana (Voi. I, pars. I « Porphyrii  Isagoge et in Aristotelis Categorias commenta rium edidit Adolfus  Busse. — Berolini, Typis et impensis Georgii Reimer).   Il Commento procede per yììx di domanda e risposta. E’, in  londo, un dialogo, ma in cui le persone degli interlocutori non  hanno alcun rilievo ; la « domanda » parte da uno che non sa  e chiede spiegazioni : la c Risposta » enuncia, evidentemente, la  soluzione che Porfirio crede si possa e si debba dare alle varie  questioni. Le quali se, da un certo momento in poi, riguardano  il più giusto significato da attribuire alla lettera del testo aristo-  telico, prima vertono su problemi che investono rimpianto stesso  del piccolo scritto aristotelico.   2. -- Prima questione. — « Categoria » in greco vuol dire   € accusa », « denunzia ». Come mai Aristotele chiamò Categorie  l'essenza, la quantità, la qualità, ecc.? La risposa è che il filo-  sofo, costretto talvolta a coniar parole nuove, tal’altra a dare  un significato nuovo a parole consuete, adoprò la parola « Cate-  goria » per indicare le « espressioni enunciative delle cose »  (tàc twv Xé^soov twv a'ijjxavttxwv y.arà twv TUpaYixatcov xat-   YjYopta? TrpoosìTcsv). Sicché, ogni semplice espi*essione enunciativa,  quando sia pronunciata e detta della cosa enunciata, si dice  categoria. Per esempio: se la cosa che vien mostrata è questa  pietra che tocchiamo e che vediamo, quando di essa diciamo:  «questa è pietra», l'espressione «pietra» è il categorèma,  giacché indica la cosa e vien detta di essa.   3. — Seconda questione. — Aristotele chiamò il suo scritto  « Categoi'ie » o, come altri, « Le dieci Categorie » ?   Porfirio risponde respingendo tanto questo titolo dello scritto  quanto gli altri : « Prima della Topica », « dei generi dell'essere »   « dei dieci generi > . Non « Prima della Topica » perché in tal  caso sarebbe stato più esatto dire «Prima degli Analitici»,  anzi « Prima deU’interpretazione » : chè il libro delle Categorie  è il più elementare e introduttivo a tutte le parti della filosofìa,  E piuttosto sarebbe < Prima della parte fisica della filosofia » .  anziché « Prima della Topica » : chè è opera della natura « l’es-  senza, il quale e simili » .   Nè lo scritto potrebbe in nessun caso intitolarsi « Dei generi  dell’essere » o « dei dieci generi » « perchè gli esseri e i loro  generi e le specie e le differenze sono cose e non voci » : e  invece Aristotele, enumerando le dieci categorie, l’essenza, il  quale, il quanto e le rimanenti, dice: «ciascuna delle dette si  dice per sé stessa, non per attribuzione, mentre l’attribuzione,  0 affermazione, avviene mediante connessione di esse tra loro ».  Or se è la connessione delle categorie quella che dà luogo alle  asserzioni, e se le asserzioni consistono in voci indicative e  discorsi dimostrativi (èv oyjaavrix-^ xai àTio^avTixij)), lo   scritto aristotelico non può riguardare i generi dell’essere, nè  in generale le cose: chè non la connessione delle cose costi-  tuisce asserzione, bensì la connessione delle voci significative  che indicano le cose.   E Aristotele stesso dice: « ciascuna delle categorie dette  senza alcuna connessione significa o l’essenza o il quanto », con  quel che segue. Ora, se Aristotele parlasse di cose, non direbbe  « significa l’essenza », chè le cose non significano, bensì sono  significate. _   Ciò che significa è la voce, la parola: di voci, di parole  dunque, tratta Aristotele nelle Categorie.   Perchè, poi, debba essere questo il titolo dello scritto, sarà  chiaro - dice Porfirio - quando si sia dimostrato il contenuto  proprio del libro.  Quale è dunque il contenuto  proprio delle Categorie?   Porfirio risponde rifacendosi di lontano.     • L’uomo - egli scrive - giunto a indicare e significare le cose  circostanti, pervenne a nominarle con la voce e a indicare con  questo mezzo ciascuna di esse. Il primo uso che egli fece delle  parole fu rivolto a mostrare ciascuna cosa per mezzo di voci  e di parole; col quale riferimento delle voci alle cose questo  chiamò sedile, quello uomo, quell’altro cane e quell’altro sole:  e ancora questo colore chiamò bianco, quello nero; e questo  chiamò numero, quello grandezza ; questo due cubiti, quello tre  cubiti; e cosi per ciascuna cosa stabili parole e nomi signifi-  cativi di esse e indicativi mediante determinati suoni della voce.   Stabilite dunque per le cose, come contrassegno, talune  parole, Tuomo, passando ad una seconda impresa e riflettendo  sulle parole stabilite, quelle che si uniscono agli articoli chiamò  nomi, e quelle come « io passeggio, tu passeggi » chiamò verbi.  Di modo che, se nella prima imposizione » di nomi questo chiamò  oro e quello sole, nella seconda la voce < oro » chiamò nome  e la voce < passeggio » verbo.   Ora il contenuto delle Categorìe d’Aristotele è precisamente  il primo stabilimento delle parole, quello che mostra le cose:  giacché studia le voci significative semplici, in quanto signifi-  cative delle cose, distinguendole non l’una dall’altra individual-  mente, chè, di numero, le voci sono infinite come le cose che  significano, ma distinguendole secondo il genere a cui appar-  tengono. Ora l’infinità degli enti e delle parole che li significano  si lasciano ridurre a dieci generi: giacché dieci sono le diffe-  renze di genere degli enti, e dieci anche le voci che le indicano.  Ma questo fatto che le voci, simili a messaggere, prendano le  differenze dalle cose che annunziano, non toglie che la ricerca  principale sia, nelle Categorie^ intorno alle voci significative,  e non intorno alle differenze di genere degli enti.   Dieci sono i generi delle parole in quanto significative di  cose: ché significano o l’essere (la sostanza), ó la quantità, la  qualità, la relazione, ecc. (i nove accidenti della sostanza). Due,  invece, sono le parole che significano il tipo a cui appartengono ;   giacché tutte le voci sono di due tipi: o nomi o verbi. Alla  quale seconda ricerca - grammaticale, non logica, diremmo  noi > appartiene anche distinguere la espressione propria dalla  metaforica e dagli altri tropi.   Presentata cosi la ricerca delle Categorie come una ricerca  nè metafìsica, nè grammaticale, nè retorica - non metafìsica  perchè secondo Porfirio, è incidentale il riferimento ai generi  delPessere, essendo Pattenzione rivolta ai generi delle parole  significative, in quanto appunto significano questo o quello; non  grammaticale, perchè nelle « Categorie » non si distinguono  tra loro le varie parti del discorso, che è distinzione tardiva  rispetto a quella che distingue le voci secondo ciò che signifi-  cano, non secondo che siano proprie, metaforiche, ecc. - Porfirio  osserva che, contro la sua interpretazione che intende la ricerca  delle Categorie come una ricerca, noi diremmo, di filosofia del  linguaggio, e gli antichi dicevano di logica, comunemente iden-  tificando col pensiero la sua significazione verbale, si schieravano  tanto quelli che ritenevano oggetto principale delle Categorie  la ricerca metafisica intorno ai generi dell’essere, quanto quelli  che. credendo oggetto delle Categorie la ricerca retorica delle  espressioni proprie e delle figurate, ritenevano la distinzione  aristotelica delle Categorie o insufficiente o incomprensiva o,  al contrario, sovrabbondante. Fra questi ultimi, per esempio, i  seguaci di Atenodoro e di Cornuto, studiando le espressioni  proprie ed improprie, e volendo sapere a quali categorie esse  appartenessero, non trovando nello scritto aristotelico risposta  a tale domanda, ritennero manchevole e difettosa Penumerazione  aristotelica, come non comprensiva di tutte le voci significative.  Invece, secondo Porfirio, rettamente intesero lo scritto d’Ari-  stotele Poeto nel suo commento alle Categorie, e più brevemente  Erminio. Il quale dice che la ricerca non verte nè su quelli che  in natura sono i primi e generalissimi generi (che non sarebbe  insegnamento adatto ai giovani), nè studia quali siano le prime  ed elementari differenze delle parole, come se la trattazione riguardasse le parti del discorso; ma piuttosto verte sulla spe-  cie di parole che risulti appropriata a ciascun genere di enti:  onde fu necessario toccare in qualche modo dei generi, a cui  le parole si riferiscono : chè non si intenderebbe la significazione  propria di ciascun genere se qualcosa intorno ad esso non s’an-  ticipasse.   Poiché dieci sono i generi, dieci sono le categorie. E si  potrebbe magari anche intitolare lo scritto aristotelico Dei  dieci generi » se con ciò si significasse solo un riferimento ai  dieci generi, giacché non di essi si occupa principalmente il libro.   5. — Quarta Questione. — Perchè il libro verte su le « Cate-  gorie > e s’inizia con una trattazione su gli omonimi e i  sinonimi?   Perchè queste sono distinzioni delle quali Aristotele deve  fare uso in tutto l’Organo: perciò le premette ad ogni altra  considerazione.   Tralasciamo, ora, il seguito del Commento Porfiriano; ma  ci gioverà aver visto come Porfirio intendesse quelle Categorie  alle quali s’assunse lo storico compito di « introdurre » .   6. — La celebre « Isagoge » di Porfirio tratta del genere,  della differenza (che, entro ciascun genere, distingue l’una  dall’altra le specie), della specie, della proprietà (che caratte-  rizza ciascun genere e ciascuna specie) e dell’accidente (che,  senza essere intrinsecamente « proprio » d’una sostanza, le si  attaglia in talune circostanze).   La trattazione del genere è, però, preceduta da una famosa  introduzione, nella quale Porfirio si rivolge a Crisaorio, patrizio  romano suo discepolo, dicendo:   « Poiché, 0 Crisaorio, è necessario anche per la dottrina  « aristotelica delle Categorie, sapere che sia genere e che diffe-  « renza, e che sia specie e che proprietà e che accidente;  « siccome e per assegnar le definizioni e in generale per quel  « che riguarda la divisione e la- dimostrazione è utile l’indagine  « di tali cose: io, facendo per te una compendiosa trattazione,   < tenterò brevemente, come a mo’ di introduzione, di spiegare  « il pensiero degli antichi, astenendomi dalle ricerche, più  € profonde e investigando, invece, opportunamente le più  « semplici » .   Le ricerche più profonde, da cui Porfirio professa di astenersi,  riguardano la realtà dei generi e delle specie, in una parola  degli universali. Difatti Porfirio continua:   « Ora, riguardo ai generi e alle specie, se esistano o invece  c stiano solo nel pensiero e, dato che esistano, se siano corpi  « 0 incorporei, e se separati o esistenti nei sensibili e non  « fuori di essi, io eviterò di dire, profondissima essendo questa  « questione e richiedendo essa altra maggiore ricerca » .   Onde Porfirio conclude dicendo che si limiterà a cercare  d’esporre a Crisaorio ciò che gli antichi meditarono intorno a  questi argomenti, e tra essi specialmente i Peripatetici.   Porfirio, dunque, tratterà dei generi e delle specie senza  determinare se siano idee, cioè enti metafisici, o semplici  concetti, esistenti solo nella mente che li pensa. Ma, per conto  suo, per quale di queste dottrine propende?   Grià si è visto che egli considera generi, specie e differenze  « cose, non voci » e che, in generale, ritiene che le distinzioni  logiche trovino la loro ragion d’esseie in altrettante distinzioni  metafisiche di cui si fanno espressione. Per Porfirio dunque,  generi e specie riguardano l’essere, e se egli prelude alla Logica  aristotelica trattando di essi, in fondo egli ridà alla Logica  d’Aristotele il fondamento della dialettica platonica, tutta diretta  a distinguere generi e specie e valida, nel pensiero di Platone,  tanto oggettivamente, come metafisica, quanto soggettivamente,  come logica.   Questo punto di vista realistico da cui è scritta l’intera   < Isagoge » non sfugge, nonostante tutto, al commentatore  Boezio, il quale torna sulla importante questione cosi nel primo  come nel secondo dei suoi commenti all’Isagoge.  È noto che i due commenti son diversi tra loro in quanto  il primo si dirige ai principianti e quindi evita le discussioni  troppo complicate e sottili, il secondo, invece, vuol indurre i  discepoli già provetti a una ginnastica mentale adatta alle loro  ‘forze e alla loro preparazione. Non è meraviglia, quindi, che  la « questione degli universali » — giacché ormai di essa si tratta  — sia impostata diversamente nei due commenti, sebbene la  trattazione giunga a risultati assai affini.   7. — Il primo commento di Boezio giunge a interpretare  il prologo deirisagoge solo al decimo capitolo, e mostra chiaro  lo sforzo di ricorrere alle argomentazioni e dimostrazioni più  semplici, affinchè i principianti possano intenderle ed afferrarle.   In verità Porfirio pone e rinvia tre questioni:   1) - se generi e specie esìstano davvero o stiano solo  neirintelletto e nella mente;   2) - se siano corporei o incorporei;   3) - se siano separati o uniti con i sensibili.   Rispetto alla prima questione « se generi e specie esistano  davvero, o stiano solo nell’intelletto e nella mente », Boezio  sembra interpretarla in un modo che forse non coincide inte-  ramente con ciò che intendeva Porfirio. Questi, forse, intendeva  domandarsi: generi e specie sono idee platoniche, cioè enti, o  invece concetti aristotelici, cioè universali puramente mentali  nati nel pensiero e dal pensiero? Se sono idee platoniche, si  intende che sono, non solo incorporee, ma separate. Se invece  sono concetti aristotelici, essi corrispondono, nella mente, a  forme che nella realtà vivono intrinsecate nelle cose sensibili.  La questione, dunque, è : gli universali vanno concepiti plato-  nicamente, ante rem, o aristotelicamente, post rem, giacché in  re essi esistono, ma intimi alle stesse cose particolari ?   Se questo è ciò che intende domandarsi Porfirio, si capisce  come egli preferisca rimandare questa controversia prò Platone  0 prò Aristotele a un momento in cui il suo discepolo Crisaorio  sia già innanzi negli studi filosofici. Ma Boezio intende la que-  stione in maniera assai diversa. Egli non intende i generi e  le specie se non come universali mentali post rem, come con-  cetti aristotelici. La conoscenza si inizia con la sensazione:   per sensuum qualitatem res sensibus subiectas (animus) intel-  legit Dalla sensazione lo spirito parte per concepire le specie  ed i generi: et ex bis (le cose sensibili) quadam speculatione  concepta, viam sibi ad incorporalia intellegendapraemunit,,. Così,  quando vede i singoli individui umani, sa d’aver visto uomini,  sa che sono uomini quelli che ha visti. Di qui lo spirito sale  a discernere la stessa specie « uomo », incorporea perchè non si  concepisce che con la mente e rintelligenza. Ma, come movendo  dalla sensazione lo spirito giunge a comprendere le cose incor-  poree, così, movendo dalle stesse sensazioni, lo spirito arriva  a immaginarsi, per esempio, i Centauri, la cui fallace imma-  gine si compone di elementi della forma umana ed elementi  della forma equina. Or si domanda: generi e specie sono con-  cepiti con verità, sicché comprendiamo la specie uomo giusta-  mente ricavandola dai singoli uomini coi'porei, o invece sono  immaginati con finzione mentale pari a quella di cui parla  Orazio nell’Arte Poetica, quando dice: « fiumano capiti cer-  vicem pictor equinam iungere si velit » ?   Come si vede, Boezio non crede che la domanda di Porfirio  sia rivolta a sapere se gli universali siano reali o puramente  mentali, ma se siano concetti veri o pure finzioni delPimma-  ginazione. Il che significa porsi già su terreno prettamente  aristotelico, giacché tutto si riduce a domandare se gli uni-  versali post rem siano rettamente pensati o fallacemente imma-  ginati, o, con altre espressioni, se siano concetti o puri sogni  e chimere.   La risposta che Boezio dà a questa domanda è, se non er-  riamo, singolarmente infelice. Per lui non è dubbio che i generi  e le specie « sono veramente»: «difatti, come tutte le cose che  veramente sono senza queste cinque: non possono essere, così non si può dubitare che anche queste cinque son concepite  con verità (vere intellectas) » . Che è una strana maniera di  presupporre gli universali reali nelle cose sensibili, quando  proprio la domanda è se gli universali siano reali o fallaci-  Per Boezio generi, specie, differenze, proprietà, accidenti, queste  cinque distinzioni nelle cose sono « conglutinatae et quodam-  modo coniunctae atque compactae ». Difatti, perchè Aristotele  parlerebbe delle prime dieci espressioni (sermonibus) signifi-  canti i generi delle cose, o perchè raccoglierebbe le loro diffe-  renze e proprietà e toccherebbe degli accidenti, se non li avesse  visti nelle cose intrinsecati e in qualche modo riuniti ( <' in  rebus intima et quodammodo adunata » ) ? In base a questa  argomentazione Boezio conclude che « se è cosi, non c’è dubbio  che siano veramente e sian tenute (le cinque distinzioni) con  giusta riflessione («certa animi consideratione >).   Ma si vede chiarissimo che Boezio dà per certa e dimo-  strata la concezione aristotelica degli univeisali come forme  immanenti nelle cose particolari, onde conclude che lo spirito,  pensandoli, è nel vero e non neirerrore delle pure finzioni  immaginarie. Ma se la questione era per Porfirio se gli uni-  versali fossero reali o puramente mentali, e per Boezio se fos-  sero concetti veri o mere finzioni immaginarie, nè la questione  porfiriana, nè quella boeziana possono essere risolte con Tappel-  larsi alla concezione aristotelica di universali reali nei parti-  colari, e quindi veri, post rem, nello spirito umano. Questo è  un affermare il temperato realismo aristotelico, non un l isol-  vere la questione con un procedimento dimostrativo. Boezio  presuppone dimostrato Taristotelismo per decidere in senso  aristotelico e su V autorità di Aristotele la questione da lui  posta.   Senonchè Boezio trova un’altra conferma realistica- della  sua opinione nell’assenso, per quanto tacito, dello stesso Porfirio.  Giacché, egli dice, Porfirio, come se già fosse risaputa e pro-  vata la realtà degli universali, domanda se siano corporei o incorporei. La quale domanda sarebbe troppo frivola e assurda  se non si fosse prima assodata, per gli universali, quella realtà  che ora si domanda se sia corporea o incorporea. Ma anche  qui forse Boezio, neirinterpretare Porfirio, va lontano da quello  che egli intendeva dire. Porfirio forse domandava: — generi e  specie sono reali o puramente mentali? Se reali, nel senso  platonico, sono enti incorporei; se meramente mentali, non si può  ad essi attribuire altra realtà che nei corpi stessi. Vale a dire,  se reali, nel senso platonico, sono separati: se meramente men-  tali, non possono concepirsi che immanenti nei corpi, congiunti  con essi e da essi inseparabili, tranne che per astrazione nel  pensiero umano.   Se questa che qui proponiamo fosse una interpretazione  plausibile del celebre prologo porfiriano, le domande ivi contenute  in realtà non sarebbero tre, ma una sola: gli universali sono  reali, o mentali? vale a dire, sono incorporei, o esistono nei  corpi? cioè, sono separati, o intrinsecati nei corpi e da essi  inseparabili ?   Ma Boezio le intende come tre domande, ciascuna delle quali  presupponga già risolta in un determinalo senso le precedenti.  Difatti, egli dice: solo se alla prima domanda « se gli universali  siano reali » si risponde affermativamente, si può poi domandare  se esistano come corpi o come incorporei ; e parimenti, solo se  a questa domanda si risponda affermando Tincorporeità degli  universali, si può domandare se, essendo incorporei, esistano  separati dai corpi o siano da essi inseparabili.   8. — Rispetto alla seconda questione « se gli universali siano  corpi 0 incorporei » Boezio tratta separatamente il genere dalla  specie.   Quanto al genere egli dice, « quia incorporeorum prima  natura est», può una cosa incorporea essere madre di una  corporea, ma non viceversa, giacché, la sostanza essendo il  genere, e corporale e incorporale le specie, il genere non può  essere corporale, chè, se fosse tale, la specie incorporea non  potrebbe subordinarglisi. Dal che discende che il genere non  deve essere nè corporeo nè incorporeo, si da poter avere per  specie così il corporeo come Tincorporeo.   (E qui Boezio solleva una questione di grandissima importanza.  Se il genere non può avere nessuna delle determinazioni che  costituiscono le proprietà delle specie e le loro reciproche  differenze, donde nascono nelle specie queste differenze che nel  genere, da cui pure le specie derivano, non ci sono? - Non si può  pensare che il genere animale possegga tanto la proprietà della  ragionevolezza quanto quella della irragionevolezza: chè posse-  dere in sè due contrari sarebbe impossibile. Bisogna dunque che,  per poter dare luogo cosi alBuna come alEaltra delle due specie,  il genere non abbia nè Buna nè Taltra delle due differenze  specifiche: non sia nè Tuna nè l’altra specie, pur contenendole  entrambe « vi sua et potestate » .   Ed anche questa è, come si deve, una soluzione prettamente  aristotelica della questione: il genere è «in potenza» le sue  specie, senza essere « in atto » nessuna di esse. Ma non è qui  il caso di saggiare la consistenza o la inconsistenza di un simile  tentativo di spiegazione che, non riuscendo a dar ragione del  nascere delle differenze, le presuppone già esistenti, e tuttavia  non ancora reali, giacché sono potenziali, virtuali).   Si è visto dunque che per Boezio il genere non è nè corporeo,  nè incorporeo : il che significa, su questo punto, non rispondere  alla domanda di Porfirio, ma sottrarsi ad essa. E la ragione di  tutto ciò è chiara. Porfirio è tutt’ altro che convinto che gli  universali siano puri concetti: ecco perchè egli tende ad affer-  marli reali e incorporei. Ma per Boezio gli universali sono  semplici concetti: e però, per quanto sia anch’egli convinto con  Platone ed anche con Aristotele, che Tincorporeo è, per natura,  prima del corporeo, pure è costretto, dalla sua concezione mera-  mente logica e non metafisica degli universali come concetti e non  come idee, a pensare il genere come privo delle determinazioni  che saranno proprie delle specie: a costo di non sapere più d  donde derivino alle specie queste differenze, che sono estrai  alla sola fonte delle specie che è il genere.   Ma Boezio si illude che ammettere la potenziale presei  delle differenze specifiche nel genere sciolga la difficoltà: (  inoltra nella considerazione meramente logica del genere co  semplice concetto, adatto esclusivamente alle classificazi  scolastiche dei concetti secondo la loro estensione, mentre, ]  Platone, il genere era pregnanza di realtà o idea.   Quanto alle specie Boezio ne ammette di corporee e di ine  poree: specie corporea Puomo; incorporea: Dio.   Parimenti le differenze: «quadrupede» è differenza cor  rea ; < ragionevole * differenza incorporea.   Cosi anche le proprietà: corporee di cose corporee; ine  poree di cose incorporee.   E lo stesso è degli accidenti: accidente incorporeo è nello s  ritolascienza: accidente corporeo èsul capo la capigliatura cres   Insomma per Boezio, solo il genere è neutro, nè corpor  nè incorporeo: ma le specie, le differenze, le proprietà e  accidenti sono corporei se appartengono ai corpi, incorporei  appartengono allo spirito.   Senonchè, in questa teoria, lo stesso Boezio, che non  potuto riconoscere incorporeo il genere per la sua conside  zione meramente logica di esso, ammettendo corporee le spe(  le differenze, le proprietà e gli accidenti delle cose corpor  rinunzia a considerare specie, differenze ecc. come distinzi  meramente logiche, e non solo le pensa metafisicamente intr  secate nelle cose singole, ma fatte una cosa sola con esse,  da ricevere la loro stessa natura.   Torna, bensì, a una considerazione meramente logica de  distinzioni porfiriane, stabilendo, dopo la prima, ora espos  una seconda teoria, che peraltro egli presenta come una teo  altrui. Secondo questa teoria il genere va considerato coi  genere, come pura determinazione logica o concetto. E se sostanza è genere, non dev’essere considerata come una sostanza,  ma come un genere, cioè come qualcosa che ha delle specie  sotto di sè. Cosi pure la specie. Corporeo e incorporeo saranno  specie della sostanza. Ma essi vanno considerati come pure  specie, cioè come concetti che stanno sotto un genere. Pari •  menti le differenze: bipede e quadrupede sono differenze in  quanto Puno contrapposto all’altro : vanno, dunque, considerati  non come un bipede e un quadrupede, ma come pure differenze  logiche. Similmente le proprietà non vanno considerate nel loro  contenuto, ma come pure caratteristiche logiche della specie.   Così intesi, generi, specie, differenze e proprietà, come pure  distinzioni logiche, non possono essere, secondo la teoria che  Boezio espone senza aderii-vi, se non incorporei. Mentre gli  accidenti avrebbero la natura delle cose a cui accadono: sareb-  bero quindi corporei o incorporei a seconda delle sostanze.   Sia qui notato subito che questa affermazione metafìsica  della incorporeità di quattro fra le cinque distinzioni porfiriane  proprio perchè distinzioni meramente logiche, è una afferma-  zione cosi male impostata da non poter resistere alla più sem-  plice critica. Come semplici distinzioni logiche esse non hanno  nessuna natura: il loro contenuto ha una determinata natura,  non esse: nella specie < uomo », l’uomo è corporeo e ragionevole,  ma € la specie » nè corporea nè ragionevole. Affermare quindi  la incorporeità della specie come distinzione logica, come con-  cetto, è impossibile; per dirla incorporea bisogna considerarla  come idea, come ente metafìsico, non come determinazione lo-  gica. Ma dirla incorporea perchè logica è un abuso inammis-  sibile di pensiero, e, in ogni caso, attesta quel continuo oscillar e  tra logica e metafìsica che è cosi caratteristico nella ti'adizione  aristotelica. Pensati gli universali come concetti, essi non sareb-  bero più suscettibili di nessuna considerazione metafìsica: in-  vece continuano a essere dichiarati, metafìsicamente, incorporei,  primi per natura, ecc., mentre, come puri concetti, essi non sono  che vuoti termini classifìcatorii.  Ma Boezio continua a esporre la teoria della incorporeità  delle distinzioni logiche, dicendo che coloro i quali sostengono  tale teoria s’appoggiano all’autorità di Porfirio stesso, il quale,  come se fosse già dimostrata la incorporeità dei generi, delle  differenze, ecc., domanda se siano separati o uniti alle cose  sensibili: chè, se fossero corporei, sarebbe assurdo domandare  se siano disgiunti dalle cose sensibili o congiunti. Boezio, in-  vece, dà tutt’altra interpretazione a questa domanda porfiriana,  in quanto la intende come se suonasse: «gli universali sono sempre  separabili dai particolari sensibili, o a volte inseparabili?», e  però non gli sembra che la domanda porfiriana presupponga,  come se già fosse risaputa e dimostrata, l’incorporeità di tutte  le specie, differenze, proprietà, ecc. in quanto pure determina-  zioni logiche.   9. — Egli passa perciò a interpretare direttamente la terza  domanda, lasciando da parte la teoria della incorporeità dei  concetti, ed ha l’aria di averla riferita a puro titolo di infor-  mazione, ma ritenendola infondata e insostenibile. Per lui,  dunque, le specie sono talune corporee, talune incorporee. Si  domanda se siano sempre congiunte alle cose particolari, o pos-  sano a volte disgiungersene.   Boezio, per chiarire la domanda porfiriana, distingue tre  specie di cose incorporee:   1) — Cose incorporee affatto insuscettive di corpo, come  lo spirito e Dio;   2) — Cose incorporee inconcepibili senza i corpi, come  lo spazio vuoto che è immediatamente oltre i termini di una  figura geometrica ;   3) — Cose incorporee che sono corpi e possono essere  senza corpo, come l’anima.   Si domanda se generi, specie, differenze, ecc. siano di quegli  incorporei sempre separati da corpo, o di quegli altri che mai  non possono separarsene, o infine di quelli che a volte si uni-  scono, a volte si separano.   La risposta di Boezio è che possono congiungersi e possono  separarsi: che nelle cose corpoi'ee son congiunti a corpo, nelle  incorporee disgiunti da corpo.   Ma non bisogna credere che tutte le specie, le differenze,  le proprietà, ecc. siano congiungibili o disgiungibili dai corpi;  al contrario quelle delle cose corporee sono inseparabili da tali  cose corporee, come lo spazio è inseparabile dai corpi che  limita; e quelle delle cose incorporee, come le proprietà dello  spirito non si trovano che nello spirito, che è perfettamente  separato dal corpo. Boezio ribadisce la sua concezione : ci sono  due ordini di realtà: corporee ed incorporee; le incorporee sono  per natura e dignità anteriori alle corporee, e andrebbero  considerate come loro fonte: senonchè Boezio concepisce le  corporee e le incorporee come tra loro coordinate, e le subordina  entrambe ad un genere nè corporeo nè incorporeo, che avrà  magari in sè la potenza delle une e delle altre, ma che intanto,  così astratto e sopraordinato ad esse, è il vertice di una clas-  sificazione logica da scuola, non la genesi del reale.   10. — Nel secondo commento di Boezio le domande di Porfirio  sono presentate ed interpretate come nel primo: ma ne è diversa  la trattazione.   Le questioni « et perutiles et secretae, et temptatae quidem  a doctis viris nec a pluribus dissolutae», non trattate ancora  da Porfirio per non ingenerare oscurità nel lettore impreparato,  ma tuttavia accennate affinchè il lettore, una volta rafforzato  dal sapere, sappia che domandare, sono da Boezio formulate  così :   1^. Lo spirito 0 , con Pintelletto, concepisce, afferra quello  che realmente esiste in natura e, con la ragione, lo copia in  sé stesso; oppure, con vuota immaginazione, dipinge a sé mede-  simo ciò che non esiste. Si domanda dunque come sia Pintendimento che noi abbiamo del genere^ della specie, ecc. : se  intendiamo generi e specie come cose esistenti delle quali  prendiamo vera comprensione, o se invece noi stessi ci ingan-  niamo immaginandoci con vano pensiero cose che non sono.   2». Che se si ammette che dei generi, delle specie, ecc.  abbiamo un vero concetto, rimane da determinare se siano  corporei o incorporei: giacché tutto ciò che esiste deve essere  corporeo o incorporeo, e non si intenderà bene cosa siano i  generi e le specie finché non si sappia se porli tra le cose  corporee o le incorporee.   3». Che, se si ammette che generi, specie, ecc. siano  incorporei, rimane ancora da stabilire se, pur essendo incorporei,  esistano nei corpi, o se invece sembrino essere sussistenze  indipendenti anche senza corpi. Giacché ci cono due specie di  cose incorporee (qui Boezio sopprime la terza specie da lui  distinta nel primo commento: quella delle cose incorporee che  a volte si uniscono ai corpi, a volte se ne separano, e la fonde  senz’altro con la prima specie): ci son cose incorporee che  possono esistere senza corpo e, separate dai corpi, perdurano  nella loro incorporeità, come Dio, la mente, Tanima ; altre cose  incorporee, invece, non possono esistere senza i corpi, come  la linea, la superficie, il numero e le varie qualità, che noi  diciamo incorporee perchè non si estendono nelle tre dimensioni,  ma che esistono nei corpi siffattamente da non poterne essere  strappate o separate, o da svanire se separate dai corpi.   Come si vede, le questioni sono impostate come nel primo  commento. Ma qui Boezio si propone di trattarle altrimenti:  < primum quidem panca sub quaestionis ambiguitate proponam,  post vero eundem dubitationis nodum absolvere atque explicare  temptabo. »   Insomma, prima egli moverà un attacco, che vorrebbe essere  a fondo, contro ogni concezione platonica o aristotelica degli  universali, sia come reali, sia come concetti: poi giustifi-  cherà la concezione aristotelica tentando di dimostrare che son veri, nel pensiero, gli universali, pur non essendo reali, in  natura, se non nei particolari. Boezio scrive: i generi e le specie o sono e sussistono,  o si formano con Tintelletto ed esistono solo nel pensiero, ma  non possono essere generi e specie.   Anzitutto, generi e specie possono essere considerati reali?   Una cosa che nello stesso tempo sia comune a più altre, non  può essere una: specialmente se sia tutta in molte contempora-  neamente. Ora il genere dovrebbe essere uno in tutte le sue  specie : e non nel senso che ogni singola specie prenda per sè  una parte del genere, ma nel senso che ogni singola specie ha  in sè tutto il genere. Or questo genere che è tutto in ciascuna  delle sue specie contemporaneamente, come può essere uno?  giacché, se è tutto in più specie, in sè non può essere uno di  numero. E se non può essere uno, non è nulla assolutamente,  perchè tutto ciò che è, è perchè è uno. E lo stesso va detto della  specie. Che se si dice che la specie o il genere esiste, ma  molteplice di numero, non uno, non sarà il genere ultimo, bensì  avrà sopra di sè un altro genere, che includa quella moltepli-  cità nella propria unità.   E, daccapo, se questo nuovo genere sarà a sua volta molte-  plice, non uno, rinvierà ancor esso a un altro genere: e cosi di  seguito, airinfinito, senza che sia dato trovare un genere che  sia uno di numero pur essendo comune a tutte le sue specie.   Che se si dice che il genere è uno di numero, non potrà  essere comune a molti. Giacché una cosa può essere comune  a molte, ma solo in uno di questi tre casi:   1) — che ciascuna sua parte si applichi ad un particolare  diverso: sicché il genere non stia tutto in ciascuna specie, ma  in ogni specie una sola parte del genere;   2) — che più persone abbiano in comune l’uso di alcunché,  ma l’usino, beninteso, ciascuna in tempi diversi. (Esempio : più   persone hanno un solo servo o un solo cavallo: si capisce che  non possono servirsene tutte con temporaneamente, ma l’una  prima, Taltra dopo);   3) — che qualcosa sia comune a molte persone, ma senza  costituire la loro essenza. (Esempio : il teatro è luogo comune  a tutti gli spettatori ; ed anche lo spettacolo è uno e comune  ad essi tutti).   Ma il genere non è comune alle specie in nessuna delle tre  forme ora dette : giacché deve essere tutto in ciascuna specie,  deve essere contemporaneamente in tutte le specie, e deve costi-  tuire Tessenza delle specie a cui è comune.   Ora, se il genere non è nè uno (giacché è comune), nè molte-  plice (giacché, se fosse tale, richiederebbe un genere ulteriore),  il genere non è per nulla. E lo stesso va detto delle specie,  delle diiferenze, delle proprietà e degli accidenti.   Se genere, specie, ecc. non sono, resta che siano còlti solo  con rintelligenza. Ma di nuovo, ogni concetto si torma da una  realtà o conformemente al suo vero essere o difformemente da  esso. Se conformemente, genere, specie, ecc. esistono non solo  nel pensiero, ma anche nella realtà, e risorge la domanda come  possano essere uni e molteplici ad un tempo, con la conclusione  di pocanzi, che cioè, genere, specie, ecc. non sono. Se difforme-  mente, non possono essere che vani e falsi dei concetti difformi  dalla realtà nel suo vero essere.   Conclusione: se genere, specie, ecc. nè sono, nè, quando son  pensati, sono pensati con verità, non rimane più alcun dubbio  che si debba abbandonare ogni discussione circa le cinque distin-  zioni porfìriane, non vertendo esse nè su qualcosa di reale nè  su qualcosa di cui sia possibile farsi un vero concetto.    12. - A questa obiezione che mirerebbe, come si vede, a  scalzare tutta intera la dottrina porfiriana delle cinque primis-  sime distinzioni logiche, Boezio risponde, appellandosi all’autoritàdi Alessandro di Afrodisia, di cui accetta e riproduce Targo -  montare.   Non è vero — scrive Boezio — che sia falso e vano ogni  concetto che si scosti dalTessere reale delle cose. Se la mente  mette insieme elementi di cose disparate fino a formarsi una  immagine non rispondente a realtà, certamente erra e si inganna,  come quando si immagina i Centauri, componendone mental-  mente la figura con elementi del corpo umano e delTequino.  Ma quando la mente procede non per composizione, ma per  divisione ed astrazione, il concetto non corrisponde a nulla di  obbiettivo, e tuttavia non è falso.   Esempio: — la linea non è concepibile che in un corpo:  staccata da qualsiasi corpo, la linea non è nulla; e difatti chi  potè mai cogliere con un qualsiasi senso una linea separata da  ogni corpo? Ma ciò non esclude che possa separarla lo spirito  e pensarla per sè sola, fuori di qualsiasi corpo. Onde risulta,  nel pensiero, incorporea e separata quella linea che nella realtà  è inseparabilmente unita al corpo e confusa con esso.   Ora, i generi, le specie, ecc. sono proprio cosi fatti: esistono  nei corpi singoli, ma possono essere separati dai corpi, come  puri universali. E come nessuno può dir falso il concetto della  linea perchè si pensa separata da ogni corpo mentre essa fuori  dei corpi non sussiste, cosi non si deve ritenere falso il concetto di  genere, specie, ecc. perchè si isolano come puri universali mentre  essi non esistono che nei particolari. Gtli è che è prerogativa  delTintelletto cogliere la somiglianza dei vari particolari sensi-  bili, fissarla per sè sola e farne una specie; e poi ancora, cogliere  la somiglianza delle varie specie, fissarla e farne un genere.  Sicché la specie è un concetto ricavato dalla somiglianza d’es-  senza di individui diversi numericamente Tuno dalTaltio: e il  genere è un concetto ricavato dalla somiglianza delle specie.   Ma questa somiglianza, quando è nelle cose singole, è sensi-  bile; quando nelle universali, è intelligibile. 0, che è lo stesso,  sentita, è nelle cose singole; pensata, è universale. Sicché generi.  specie, ecc. esistono nei sensibili, son còlti e pensati fuori dei  corpi; universali quando son pensati, singolari quando son  sentiti nei corpi in cui hanno esistenza.   Rimane cosi risolta Tintera questione: giacché generi e  specie esistono in un modo - nei particolari - e son pensati in  un altro - fuori dei particolari - come se esistessero per sé stessi  e non avessero nei particolari Tesser loro.   Ma questa soluzione è aristotelica, e Boezio Tavverte espli-  citamente: giacché per Aristotele generi e specie son pensati  incorporei ed universali, mentre esistono nei particolari sensi-  bili. Platone invece - Boezio ama rammentarlo - ritiene che  generi e specie non solo siano pensati come universali, ma  anche siano tali ed esistano separati dai corpi. E Boezio dichiara  espressamente d^aver presentato la soluzione aristotelica della  questione non perché egli la approvi di più, ma perché un  lavoro, come il suo commento, destinato a servir di introdu-  zione alle Categorie aristoteliche, aveva il dovere di adottare,  in questa questione, preliminare importantissimo, il punto di  vista aristotelico.   13. — Dopo il prologo del quale si é ampiamente discorso,  T « Isagoge » - alla quale ci conviene ormai ritornare - può  intendersi divisa in due parti: la prima studia separatamente  il genere, la specie, la differenza, la proprietà e Taccidente;  la seconda paragona prima il genere alla differenza, alla specie,  alla proprietà e alTaccidente ; poi la differenza alla specie, alla  proprietà e alTaccidente; infine tra loro la proprietà e Taccidente.   Cominciamo ora lo studio delle cinque distinzioni logiche prese  separatamente ad una ad una.   14. — Porfirio osserva che la parola genere si usa con  significati diversi.   Primo significato é quello per il quale genere (o piuttosto  gente) vuol dire stirpe.  Esempi: « Oreste è delle gente di Tantalo », cioè discende  da Tantalo; < Pindaro è della gente tebana », cioè è tebano  di nascita. Nel primo caso è indicato il progenitore, nel secondo  la patria; in entrambi il termine da cui la stirpe, o gente, o  genere proviene.   Secondo significato è quello per il quale il genere (o gente,  vuol dire quella collettività che è stretta da un’origine comune   Esempio: « Gli Eraclidi costituiscono una gente (o genere)  perchè discendono tutti da un comune capostipite: Eracle».   Terzo significato è quello per il quale si dice genere quello  a cui si subordinano le specie, la cui moltitudine esso contiene  sotto di sè. Questo terzo significato, che è quello che la parola  «genere » ha per i filosofi, è probabilmente imitato dai primi due  in quanto, in logica si chiama genere quello che in altri casi  si dice piuttosto stirpe, cioè Torigine da cui le specie derivano,  da essa prendendo il nome e con tal nome distinguendosi da  tutte la altre specie che rientrano sotto altri generi.   In questo terzo significato « genere » è quel che si predica di  più cose, differenti tra loro per la specie, e indica cosa esse sono.   La quale definizione ha bisogno di essere chiarita punto per  punto. « Quel che si predica di più cose » : difatti, i predicati  0 si riferiscono ad una cosa singola o a più cose. Ad una cosa  sola si riferiscono gli individui, come quando si dice: «questi  è Socrate », e anche a una cosa sola si riferiscono: « questi »  e « questo ». Invece a più cose si riferiscono i generi, le specie,  le differenze e le proprietà e quegli accidenti che risultano  comuni, non propri di una cosa sola.   Esempio di genere : « animale » . Esempio di specie : « uomo » .  Esempio di differenza (che contraddistingue Tuomo dagli altri  animali): « ragionevole ». Esempio di proprietà (dell’uomo): « la  capacità di ridere » . Esempi di accidenti (dell’uomo) : « bianco,  nero, muoversi » .   Ora il genere differisce dall’individuo perchè si predica di  più cose, non di una.  Ma la definizione precisa è: « Genere è ciò che si predica  di più cose differenti tra loro per la specie », in quanto anche  la specie si predica di più cose, ma di cose differenti tra loro  per numero, non per specie.   Esempio: - la specie «uomo» si predica di Socrate e di  Platone, che differiscono numericamente in quanto Socrate e  Platone sono due individui diversi, mentre il genere « animale »  si predica delPuomo, del bue, del cavallo, differenti tra loro  non solo numericamente, ma per specie.   Inoltre: « genere è ciò che si predica di più cose differenti  tra loro per la specie, e indica cosa esse sono. » Giacché anche  le differenze si predicano di cose differenti tra loro per la  specie, ma indicano qitali esse sono, non cosa sono.   Esempio: — < se ci domandano che cosa è Puorao, rispon-  diamo indicando il genere a cui appartiene, e diciamo: « Puoino  è animale > ; ma se ci domandano le qualità delPuomo, rispon-  diamo indicando i suoi caratteri differenziali, la ragionevolezza  e la mortalità.   Com’è chiaro, il genere differisce dalla proprietà, perchè  questa si predica d’una sola specie e degli individui di essa,  mentre il genere si predica di più specie.   E differisce dagli accidenti comuni perchè, sebbene questi si  predichino di più cose differenti tra loro per specie, ne indicano  la qualità, non Pessenza (come, ad esempio, il color nero).   Ricapitolando: il predicarsi di più cose divide il genere  dagli individui; il predicarsi di più cose differenti di specie  lo separa dalle specie e dalle proprietà; Pindicare la quiddità  0 essenza lo divide dalle differenze e dagli accidenti comuni  che indicano la qualità. E questa trattazione del genere non  contiene nulla nè di superfluo, nè di manchevole.   15. — Anche « specie » ha più significati : significa « forma »  e significa, in logica, ciò che rientra in un genere (« uomo » è  specie compresa nel genere « animale » ; « bianco » è specie del  genere «colore*; «triangolo» è specie del genere «figura»).  Beninteso, come il genere è genere solo rispetto alle sue specie,  cosi le specie sono specie solo rispetto al loro genere. Genere  e specie cioè sono concetti correlativi. Cosi la specie vien defi-  nita: «ciò che è posto sotto il genere, e di cui il genere si  predica per indicarne l'essenza o quiddità » . Ma questa defi-  nizione conviene solo alle specie specialissime che sono sempre  specie e non mai generi, mentre le precedenti definizioni con-  vengono anche alle specie che non sono specialissime.   Sono generi generalissimi quelli al di sopra dei quali non  esiste altro genere, come ad esempio « sostanza ». Sono specie  specialissime quelle al di sotto delle quali non esistono altre  specie, come, ad esempio, « uomo », che ha sotto di sè imme-  diatamente i vari individui umani.   Tra i generi generalissimi e le specie specialissime inter-  corrono generi subalterni, come ad esempio « sostanza animata »,  « sostanza animata sensibile » , « sostanza sensibile ragionevole » .  Ciascuno di questi concetti, intermedi tra «sostanza» e «uomo »,  è specie rispetto al concetto più ampio nel quale rientra, è  genere rispetto al concetto più ristretto che in esso rientra.   Ad esempio: «sostanza animata» è specie rispetto a « so-  stanza », è genere rispetto a « sostanza animata sensibile ». Ai  due estremi della scala c'è la « sostanza», genere generalissimo  che non è mai specie, e !'« uomo », specie specialissima che non  è mai genere, mentre in mezzo i generi subalterni sono a volte  generi, a volte specie.   Ora, mentre le genealogie famigliari, risalendo di proge-  nitore in progenitore, raggiungono il comune capostipite di tuttele  famiglie, Giove, non è dato rinvenire un genere generalissimo  unico, a cui tutti i generi subalterni si lascino ridurre. Al con-  trario, secondo Aristotele sono dieci i generi generalissimi, asso-  lutamente primi e irriducibili: uno è la sostanza e nove gli acci-  denti (qualità, quantità, luogo, tempo, ecc.). Nè è valida obie-  zione che se questi dieci predicamenti sono, essi sembrano ridursi ad un genere generalissimo unico, Ve^%ere\ chè, dice  Porfirio, Ve^senza si predica in senso assai diverso della  sostanza e dei vari accidenti, sicché Tunificazione delle dieci cate-  gorie neir^ss^r^ è soltanto nominale, non reale, variando il  significato essere dalPuno all’altro predicamento.   Ora, se i generi generalissimi sono dieci, i generi subal-  terni sono di numero assai grande, ma tuttavia finito : infiniti,  invece, sono gli individui che vengono dopo le specie specia-  lissime, e di essi non si dà scienza.   Platone insegna a dividere, mediante le differenze specifiche,  ciascun genere in due, e poi ancora in due fino a raggiungere  le specie specialissime, che si dirompono negli individui. Chi  discende dai generi generalissimi alle specie specialissime  divide, cioè moltiplica l’unità. Chi, al contrario sale dalle specie  specialissime ai generi generalissimi, raccoglie la moltitudine in  unità. Giacché ciò che è singolare divide, ciò che è comune  aduna.   Adunque, il genere si divide in più specie e si predica di  esse. Giacché i concetti più estesi si predicano dei meno estesi  (il genere si predica delle specie), i concetti equipollenti si pre-  dicano l’uno dell’altro e l’altro dell’uno (la proprietà di nitrire  si predica del cavallo nella proposizione: «Il cavallo è l’ani-  male che nitrisce», e il cavallo si predica del nitrire nella  reciproca: < L’animale che nitrisce è il cavallo »), ma non mai  i concetti meno estesi si predicano dei più estesi (la proposi-  zione : « l’uomo è un animale » non può convertirsi nella reci-  proca: « l’animale è uomo »). Così i generi generalissimi si pre-  dicano di tutti i generi subalterni o specie, delle specie specia-  lissime e degli individui ad esse sottoposti; i generi subalterni  si predicano di tutte le specie ad essi inferiori, delle specie  specialissime e degli individui ; le specie specialissime si pre-  dicano degli individui, e gli individui d’un solo particolare. Gli  individui sono parti della specie, che rispetto ad essi è tota-  lità, mentre rispetto al genere è parte.    16. — Si parla di differenza nel significato comune della  parola, in senso proprio, e in senso rigoroso.   Nel significato comune < differenza » esprime la diversità  d’una cosa da un’altra o da sè stessa. Socrate differisce da  Platone e differisce da sè stesso bambino.   In senso proprio, una cosa si dice differire da un’altra  quando ne differisce per un accidente inseparabile. (Accidente  inseparabile è, per esempio, avere il naso curvo, essere ciechi,  avere una cicatrice causata da una ferita).   In senso rigoroso una cosa si dice differire da un’altra  quando se ne distingue per differenza di specie. Ad esempio,  un uomo differisce da un cavallo perchè appartengono a specie  diverse, l’uno essendo ragionevole, Taltro no.   In generale dunque, ogni differenza altera ciò a cui si in-  nesta: ma le differenze comuni e proprie si limitano a renderlo  alterato, le rigorose lo rendono addirittura altro. E queste dif-  ferenze rigoi-ose che rendono altro ciò a cui si applicano,  si dicono < differenze specifiche » , le altre si dicono semplice-  mente « differenze » . Queste non producono che un’alterazione  o un mutamento di stato (per esempio, il muoversi rispetto  al giacere), quelle, invece, dal genere fanno le specie, le quali  si definiscono appunto col genere e le differenze.   Altra classificazione delle differenze è la seguente: differenze  separabili^ come il muoversi e lo star fermi, l’essere sani o  malati, e differenze inseparabili^ come l’avere un naso aquilino  0 camuso e l’essere ragionevoli o irragionevoli.   Le differenze separabili si dividono ancora in differenze per  se e differenze per accidens. Differenza per se è, nell’uomo, la  ragionevolezza, la mortalità, la capacità di apprendere. Diffe-  renza per accidens è l’avere il naso aquilino o camuso.   Le differenze per se entrano nel concetto della cosa e la  rendono altra (la mortalità entra nel concetto di uomo e lo  differenzia dall’altro essere animato sensibile e ragionevole, ma  immortale che è Dio); invece, le differenze accidens, anche se insensibili, non entrano nel concetto della cosa e non la ren-  dono altra, ma solo alterata (il naso camuso non entra nel  concetto di uomo, e altera un individuo, ma non lo rende altro  dai rimanenti uomini).   Parimenti le differenze per se non ammettono aumenti o dimi-  nuzioni (tutti gli individui umani sono uomini egualmente),  invece, le differenze per accidens ammettono aumento o dimi-  nuzione (si ha la pelle più o meno bianca, il naso più o meno  curvo, ecc.).   Fra le differenze inseparabili per se talune servono a divi-  dere i generi in specie, tali altre, invece, a specificare i generi  già divisi. Differenze inseparabili per se sono « animato » e  < inanimato » , « sensibile » e « insensibile » , « ragionevole » e  «irragionevole», «mortale» e «immortale». Di queste dif-  ferenze, « animato » e « sensibile » sono differenze costitutive  della sostanza « animale » ; « mortale » e « ragionevole » sono,  invece, divisive della sostanza < animale » in quanto per esse  si giunge dal concetto del genere « animale » al concetto della  specie « uomo » .   Senonchè quelle differenze che son divisive pei generi, sono  costitutive per le specie: difatti, nelPesempio ora addotto, le  differenze « ragionevole » e « mortale » , introducendo una di-  visione nel genere «animale», costituiscono proprio cosi la  specie «uomo». Divisive e costitutive poi sono tutte le dif-  ferenze specifiche, utilissime per le divisioni dei generi e le  definizioni delle specie, mentre a ciò non giovano nè le dif-  ferenze inseparabili per accidens, nè, molto meno, le separa-  bili (sarebbe ridicolo dividere gli uomini secondo che abbiano il  naso aquilino o camuso — differenze inseparabili per accidens  — 0, peggio ancora, secondo che stiano in piedi o a sedere).   La differenza viene anche determinata come quella che la  specie ha in più del genere. L’uomo, ad esempio, ha in più  delhanimale Tessere ragionevole e mortale, qualità che il con-  cetto di «animale» non include. (Or si domanda: se il genere  non ha in sè le differenze che caratterizzano le varie specie,  queste donde le traggono? — Giacché le specie non derivano  che dai generi, e questi non posseggono le differenze, nè pos-  sono possederle, chè, se le possedessero, potrebbero riunire in  sè differenze opposte tra loro, come sono quelle che contrad-  distinguono runa dalbaltra le varie specie. La soluzione di  questa difficoltà è che non è necessario ammettere nè che le  differenze specifiche nascano dal nulla, nè che il genere aduni  in sè differenze contraddittorie, perchè il genere ha in potenza  le differenze che da esso nascono, senza averle in atto.)   Altra definizione della differenza è: «ciò che si predica di  più cose differenti tra loro per specie, per indicarne la qua-  lità ». - Infatti, se uno ci domanda: « che cosa è Tuomo? », noi  rispondiamo indicando il genere a cui la specie umana appar-  tiene, e diciamo: « l’uomo è un animale » ; ma se uno ci domanda  la qualità delbuomo, rispondiamo indicando i suoi caratteri  differenziali, e diciamo: «L’uomo è ragionevole e mortale».   Porfirio paragona così il genere alla materia e la differenza  alla forma, e dice che come la figura rende statua il bronzo,  cosi la differenza rende specie il genere.   Altra determinazione della differenza è : « ciò che è atto a  dividere le cose che sono sotto il medesimo genere » . Difatti,  « ragionevole » e « irragionevole » sono differenze atte a dividere  l’uomo dal cavallo, entrambi compresi nel genere animale.   Altra definizione: « differenza è quella per la quale differiscono  fra loro le varie cose», giacché per il genere non differiscono.  Per esempio: siamo animali mortali noi e gli irragionevoli: la  differenza « ragionevoli » vale a separarci da essi. E ancora:  siamo ragionevoli noi e gli Dei : la differenza « mortali » ci  separa da essi.   Definizione più profonda è la seguente: « Differenza non è  una qualsiasi di quelle determinazioni che valgono a dividere  le cose che sono sotto il medesimo genere ; ma quella determi-  nazione che riguarda l’essere ed è parte dell’essere d’una cosa. »   Per esempio: poter navigare, è particolarità esclusivamente  umana, e tuttavia non è differenza che costituisca la sostanza  delPuomo. Differenze specifiche sono quelle che fanno altra la  specie e sono accolte nel concetto di essa indicandone la qualità.   Ci sono quattro sorte di qualità:   1) - Proprietà che convengono ad una sola specie, sebbene  non intera, come per Tuomo essere medico o geometra. (Solo  gli uomini sono medici e geometri; ma non tutti gli uomini  sono tali).   2) Proprietà che convengono a tutta una specie, sebbene  non solo ad essa, come per Tuomo essere bipede (sono bipedi  anche gli uccelli).   3) Proprietà che convengono ad una sola specie in tutta  la sua estensione, ma solo in un determinato tempo, come per  Puomo imbiancare nella sua vecchiezza.   4) Proprietà che convengono ad una sola specie in tutta  la sua estensione e sempre, come per Tuomo poter ridere. (Non  importa che non rida sempre: importa che abbia natura di poter  ridere).   Sono queste ultime le vere proprietà giacché possono con-  vertirsi con ciò di cui sono proprietà. (Chi è cavallo, può nitrire ;  chi può nitrire è cavallo).   Accidente è quello che può essere presente o assente  senza che il soggetto si corrompa.   Ci sono intanto accidenti separabili e accidenti insepara-  bili. Separabile è dormire; inseparabile il color nero. E tuttavia,  per quanto inseparabile, rimane accidente perchè, sebbene corvi  e Etiopi siano neri, si può sempre pensare un corvo e un Etiope  bianchi.   L'accidente è definito anche « ciò che può contingentemente  esserci e non esserci * ; oppure « ciò che senza essere nè genere  nè specie nè differenza nè proprietà, tuttavia sussiste in un  oggetto » .  Determinate ormai tutte e cinque le distinzioni logiche,  bisogna paragonarle tra loro per vedere cosa hanno di comune  e cosa hanno di diverso.   Di comune hanno il potersi predicare di più cose ; ma il  genere si predica delle specie e degli individui ( « animale » si  predica dei cavalli e dei buoi, e di questo cavallo e di questo  bue); la differenza similmente delle specie e degli individui  ( « irragionevole > si predica dei cavalli e dei buoi, e di questo  cavallo e di questo bue); la specie degli individui che sono sotto  di essa ( « uomini » si predica solo degli individui umani) ; la  proprietà tanto della specie di cui è propria, quanto degli indi-  vidui di tale specie ( « poter ridere » si predica tanto deiruomo  quanto dei singoli uomini); l’accidente cosi della specie come  degli individui (« nero » si predica cosi della specie dei corvi  come dei corvi particolari, ed è accidente inseparabile; « muo-  versi » si predica deH’uomo e del cavallo, ed è accidente sepa-  rabile), ma anzitutto si predica degli individui, e in secondo  luogo delle specie che contengono gli individui.   Ma conviene ora paragonare a due a due le cinque distin-  zioni logiche.    20. — Comparazione del genere con le altre quattro roci.  a) Genere e differenza   Cosa hanno di comune:   1) — Il genere e la differenza entrambi contengono specie.  Bensì la differenza non contiene tante specie quante ne contiene  il genere.   Esempio: la differenza «ragionevole» contiene due specie:  uomo e Dio ; mentre il genere « animale * contiene e le due  anzidetto e tutte le altre specie animali.      2) — Quel che si predica del genere come genere, si  predica anche delle specie comprese in tale genere : e quel che  si predica della differenza come differenza, si predica anche  delle specie comprese in tale differenza.   Esempi: del genere « animale » si predica Tesser sostanza  e Tessere animato: che si predicano anche delle specie del genere  « animale » e perfino degli individui di tali specie. Della diffe-  renza « ragionevole » si predica Tesser provvisto di ragione :  che si predica anche delle specie comprese sotto tal differenza  [uomo e Dio) e degli individui di tali specie (i singoli uomini  e gli Dei).   3) — Tolto il genere o la differenza, son tolte contempo-  raneamente le specie che sono sotto di essi.   Esempio : tolto il genere « animale > , è tolta anche la specie  « uomo » ; tolta la differenza « ragionevole », non ci sarà più  nessun animale provvisto di ragione.   Cosa hanno di diverso:   1) — E’ proprio del genere predicarsi di più cose che non  la differenza, la specie, la proprietà e l’accidente.   Esempio: il genere «animale» si predica egualmente del-  l’uomo, del cavallo, dell’uccello e del serpente, mentre la diffe-  renza « quadrupede » si predica solo degli animali di quattro  piedi, la « specie > uomo solo degli individui umani, mentre la  proprietà del « nitrire » solo della specie cavallo e dei cavalli  particolari, e l’accidente « star in piedi » ancora di più poche cose.   2) — Il genere contiene la differenza in potenza.   Esempio : il genere « animale » si divide in specie animali   « ragionevoli » e specie « irragionevoli » , « ragionevole » e « ir-  ragionevole » essendo le differenze che dividono il genere « ani-  male » in specie diverse.   3) — I generi sono anteriori alle differenze poste sotto di  essi: tolti i generi, son tolte contemporaneamente anche le diffe-  renze, ma non viceversa.    Esempio: tolto il genere « animale », son tolte tutte le diffe-  renze (« ragionevole » e « irragionevole »); mentre, tolte tutte le  differenze, si può ancora pensare la sostnza animata sensibile,  cioè Tanimale.   4) — Il genere riguarda Tessenza (o quiddità) d’unacosa:  la differenza la sua qualità.   Esempio: Cos’è l’uomo? - un animale. Com’è l’uomo? - ragio-  nevole.   5) Ogni specie ha un sol genere, ma moltissime diffe-  renze.   Esempio : il genere dell’uomo è « animale » ; le differenze  sono: ragionevole, mortale, suscettibile di intendere e d’impa-  rare.   6) — Il genere è come la materia, la differenza è come  la forma.   Giacché è la differenza che determina il genere, come la  forma determina la materia.   b) Genere e specie   Cosa hanno di comune:  Tanto il genere quanto la specie si predicano di più   cose.   2) — Entrambi sono anteriori a quelle cose delle quali si  predicano.   3) — Cosi il genere come la specie costituiscono ciascuno  un tutto.   Cosa hanno di diverso:   Il genere contiene la specie sotto di sè, le specie sono  contenute, non contengono i generi.   Giacché sono i generi che, determinati da differenze spe-  cifiche, producono le specie: onde sono naturalmente ad esse  anteriori, e, tolti, tolgono anche le specie, ma non viceversa,  chè, posta la specie, è posto anche il genere, ma posto il ge-  nere, non è posta con ciò stesso la specie.  1 generi si predicano univocamente delle specie: non  cosi le specie dei generi.   3) — I generi sono superiori per le specie che comprendono  sotto di sè, le specie per le differenze che le determinano.   I generi possono anche essere contemporaneamente specie,  ma non specie specialissime ; e le specie possono essere contem-  poraneamente generi, ma non generi generalissimi.   c) Genere e proprietà   Cosa hanno di comune:   1) — Tanto il genere quanto le proprietà seguono le specie.   Esempio: Se uno è uomo quanto alla sua specie, è ani-  male quanto al genere; e se di specie è uomo, ha la pro-  prietà di poter ridere.   2) — Egualmente si predicano il genere della specie e la  proprietà di quelli che ne partecipano. L’uomo e il bue sono animali allo stesso titolo;  e cosi Catone e Cicerone hanno egualmente la proprietà di  poter ridere.   3) — Si predicano univocamente il genere delle sue specie  e la proprietà di quelle cose di cui è propria.   Cosa hanno di diverso:   1) — Il genere è anteriore; la proprietà posteriore.   Esempio: — Bisogna che ci sia il genere ahimale, poi sia  diviso dalle differenze e dalle proprietà.   1) — Il genere si predica di più specie, la proprietà di  una sola specie, di cui è propria.   3) — La proprietà si predica di ciò di cui è propria, cosi  come ciò di cui è propria si predica di essa : mentre il genere  non si converte con nessun suo predicato.   Esempio: La proposizione « L’uomo è l’animale che ride »  si converte: esanimale che ride è l’uomo*. Ma la proposi-  zione « l’uomo è animale * non si potrà mai convertire: c l’ani-  male è l’uomo. La proprietà è in tutta la specie di cui è propria,  in essa sola, e sempre: mentre il genere è in tutta la specie  di cui è genere, e sempre, ma non in essa sola.   Esempio: la proprietà di ridere è di tutti gli uomini, solo  degli uomini, e sempre rimane in essi : il genere animale è in  tutta la specie umana, è costante in essa, ma si trova anche  in molte altre specie oltreché neirumana.   5) — Poiché la proprietà e ciò di cui é proprietà si con-  vertono, tolta la proprietà é tolto ciò di cui é proprietà, tolto  ciò di cui é proprietà é tolta la proprietà.   Esempio: tolta la proprietà del ridere é tolto l’uomo: tolto  Tuomo é tolta la proprietà del ridere.   Al contrario, tolte le specie non sono tolti i generi.   Esempio : tolta la specie umana non é tolto il genere ani-  male.    d) Genere e accidente   Cosa hanno di comune:   Si é già detto che ci sono accidenti separabili^ come il muo-  versi, e accidenti inseparabili come, ad esempio, il color nero:  ora, cosi gli accidenti separabili come gli inseparabili hanno  di comune col genere il potersi predicare di più cose.   (Neri sono i corvi, ma anche gli Etiopi e talune cose ina-  nimate).   Cosa hanno di diverso :   1) — Il genere é avanti le specie, mentre gli accidenti  sono posteriori ad esse, anche se si tratti di accidenti inse-  parabili, giacché prima è ciò a cui accade, poi é Taccidente.   2) — Del genere tutte le specie che partecipano, parte-  cipano egualmente; mentre degli accidenti si partecipa più  o meno.   3) — Dii accidenti sussistono principalmente negli individui,  mentre generi e specie sono, di natura, anteriori alle sostanze  individuali.     4) — Il genere dice quel che è una cosa. L’accidente quale  è e come è.   Esempio: - Come è l’Etiope? Nero.   21. — Comparazione della differenza con le altre quattro   voci.   a) - Differenza e genere   Furono già comparati quando si esaminarono insieme genere  e differenza.   b) - Differenza e specie   Cosa hanno di comune:   1) — Della differenza e della specie si partecipa egual-  mente.   Esempio: Gli uomini singoli partecipano egualmente della  specie « uomo » e della differenza < ragionevole » .   2) — La differenza e la specie sono sempre presenti in  ciò che di esse partecipa.   Esempio: Socrate è sempre ragionevole e sempre uomo.   Cosa hanno di diverso:   1) — La differenza dice sempre la qualità delle cose, la  specie la loro essenza o quiddità.   Esempio: - « Uomo » non è qualità, se non per le differenze  che, determinando il genere ♦ animale », costituiscono la specie  « uomo » .   2) — La differenza è in più specie.   Esempio : - la differenza « quadrupede » è in vari animali  di specie differente.   La specie è solo negli individui che sono sotto di essa.   3) — La differenza è altra cosa dalla specie a cui dà  luogo.   Difatti, se si toglie la differenza « ragionevole » , si toglie la  specie « uomo » : ma se si toglie la specie « uomo », non si toglie  la differenza « ragionevole » , perchè vi è Dio.    4) — Una differenza si combina con un’altra (« ragionevole »  e «mortale» compongono la sostanza deiruomo); mentre una  specie non si combina con un’altra per produrne una terza.  (Un cavallo e un’asina generano un mulo; ma non la specie  < cavallo » con la specie « asino * generano la specie « mulo *).   c) - Differenza e proprietà.   Cosa hanno di comune:   1) — Della differenza e della proprietà le cose partecipano  egualmente.   Esempio: gli esseri ragionevoli partecipano della diffe-*  renza « ragionevolezza » , quanto gli esseri che possono ridere  partecipano della proprietà di poter ridere.   2) — Differenze e proprietà sono sempre presenti nelle  cose che le hanno.   Si potrebbe obiettare: se un bipede perde una gamba, non  ha più la sua differenza di essere bipede. Ma l’obiezione non é  giusta: l’amputazione non toglie la natura di bipede al monco.  Del resto, anche la proprietà di poter ridere riguarda la natura'  umana, senza che gli uomini ridano sempre.   Cosa hanno di diverso:   1) — La differenza si predica di più specie (ragionevole si  dice dell’uomo e di Dio), la proprietà si predica di quella sola  specie di cui è propria.   2) — La proprietà e ciò di cui è proprietà si convertono.   (La proposizione « l’uomo è l’animale che ride » ammette la   reciproca: «l’animale che ride è l’uomo).   Mentre la differenza segue quella cosa di cui è differenza,  e non si converte con essa.   (Posto l’uomo, è posta la ragionevolezza; ma, posta la ragio-  nevolezza, non è posto l'uomo, perchè ragionevole è anche Dio).      d) - Differenza e accidente   Cosa hanno di comune:   1) — Differenza ed accidente entrambi si predicano di  più cose.   Esempio: Tanto la differenza della «ragionevolezza» quanto  l’accidente del « muoversi > si applicano a molte cose diverse.   2) — Tanto la differenza quanto gli accidenti insepa-  rabili sono presenti sempre e in tutte le cose di cui si predicano.   Esempio: Tanto la differenza < bipede » quanto l’accidente  inseparabile « nero > riguardano tutti i corvi e li riguardano  sem'pre.   Cosa hanno di diverso :   1) — La differenza contiene, non è contenuta.   (La ragionevolezza contiene l’uomo perchè non è solo di lui).  Gli accidenti, invece, per un verso, contengono perchè sono in  più cose) il muoversi è più esteso dell’uomo) ; per un altro sono  contenuti, perchè il soggetto aduna in sè parecchi accidenti  (l’uomo, oltre al « muoversi », è anche « bianco », < alto », ecc.)   2) — La differenza non ha aumento e diminuzione, gli  accidenti sì.   (0 si è ragionevoli, o no; ma si è più o meno alti).   3) — Le differenze contrarie non possono mescolarsi,  bensì si mescolano gli accidenti contrari.   ( < Bipede » e « quadrupede » si escludono ; ma « bianco >  e . « nero » si mescolano a produrre il < grigio » ).   22. — Comparazione della specie con le altre quattro voci.   a) Specie e genere   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Genere  e specie.   b) Specie e differenza   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Diffe-^  renza e specie.     c) Specie e proprietà   Cosa hanno di comune:   Specie e proprietà si predicano Tuna deiraltra (se è uomo,  ha la proprietà di ridere ; se ha la proprietà di ridere, è uomo) ;  giacché le cose partecipano egualmente delle specie a cui  appartengono e delle proprietà che le caratterizzano.   Cosa hanno di diverso:   1) — La specie può essere genere ad altre specie ; la  proprietà non può essere di altre specie oltre quella di cui è  propria.   2) — La specie sussiste prima della proprietà, poi la  proprietà ha luogo nella specie.   Esempio: bisogna essere uomo per avere la proprietà di  ridere.   3) — La specie è sempre presente in atto, nel soggetto;  la proprietà, a volte, vi è presente solo in potenza.   Esempio: Socrate è sempre uomo in atto, ma non sempre  ride sebbene abbia natura di poter ridere.   4) — La specie sempre è sotto il genere e si predica di  più cose, differenti tra loro numericamente, indicandone l’es-  senza 0 quiddità; mentre la proprietà è solo in ciò di cui è  propria, e in esso è sempre, e inerisce a tutta la sua estensione.   Esempio: la proprietà del ridere è di tutti gli uomini, solo  negli uomini e sempre negli uomini.   d) Specie e accidente   Cosa hanno di comune:   Si predicano di più cose.   Cosa hanno di diverso:   1) — La specie dice il « che > di una cosa, l’accidente  il « quale > e il « come » .   2) — Ogni sostanza può partecipare di una sola specie,  ma di più accidenti separabili ed inseparabili.   3) — La specie si concepisce prima degli accidenti, anche   se inseparabili (chè bisogna ci sia il soggetto, perchè qualcosa  gli accada); gli accidenti invece sono posteriori e avventizi.   4) — Della specie si partecipa sempre in egual misura,  ma deiraccidente, anche inseparabile, in misure diverse.   Esempio: un Etiope è più nero di un altro.   23. — Com/parazione della proprietà con le altre quattro   voci.   a) — Proprietà e genere   Furono già comparate quando si esaminarono insieme Genere  e proprietà.   b) — Proprietà e differenza   Furono già comparate quando si esaminarono insieme Diffe-  renza e proprietà.   c) — Proprietà e specie   Furono già comparate quando si esaminarono insieme Specie  e proprietà.   d) — Proprietà e accidente   Cosa hanno di comune:   1) — Tanto la proprietà quanto Taccidente inseparabile  sono indispensabili a ciò in cui si osservano.   Esempio: Come senza la proprietà del ridere non esiste  uomo, cosi senza color nero non esiste Etiope.   2) — Tanto la proprietà quanto Taccidente inseparabile  sono sempre presenti a ciò che li possiede, e in tutta la loro  estensione.   Esempio: Tutti gli Etiopi sono neri, e sempre.   Cosa hanno di diverso :   1) — La proprietà è presente in una sola specie. Tacci-  dente inseparabile in molte.   Esempio: La proprietà del ridere è solo delTuomo; Tacci-    l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO    43    dente inseparabile del color nero è deirEtiope, ma anche del  corvo, del carbone, deirebano, ecc.   2) — Sicché la proprietà si converte con ciò di cui è  proprietà, non cosi Taccidente con ciò di cui è accidente.   Esempio : c L'uomo ha la proprietà di ridere > si converte  in « Chi ride è l'uomo » ; ma « l'Etiope è nero » non si converte  in: «Chi è nero è l'Etiope», perchè anche il corvo, il carbone,  ecc. sono neri.   3) — Della proprietà si partecipa sempre egualmente, degli  accidenti in diversa misura.   Si è più 0 meno neri.    24. — Comparazione delV accidente con le altre quattro   voci.   a) — Accidente e genere   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Genere  e accidente.   b) — Accidente e differenza   Furono già comparati quando si esaminarono Diffe-   renza e accidente.   c) — Accidente e specie   Furono già comparati quando si esaminarono insieme Specie  e accidente.   d) — Accidente e proprietà   Or ora esaminati come Proprietà ed accidente.   L'Isagoge si chiude con Tosservazione che altri elementi  comuni o diversi tra le cinque voci oltre i già notati ci sono,  ma quelli notati bastano a distinguerli e ad intendere quel che  hanno di comune.   Tanto del primo quanto del secondo commento boe-  ziano abbiamo già esposto ciò che riguarda il celebre prologo  sulla realtà o meno degli universali.   Ci tocca ora dire qualche cosa sul complesso dei due com-  menti, che tanta autorità ebbero in tutto il Medio Evo, e tanto  contribuirono a dare alla mentalità delle nazioni di cultura  latina quella struttura rigorosamente logica che è rimasta loro  caratteristica.   Lo scopo da Boezio assegnato al primo commento è assai  semplice, giacché non va oltre la illustrazione del testo. Boezio  evita di accendere questioni, anche se il testo vi si presti. Solo  quando le obiezioni vengono cosi spontanee che non risolverle  vorrebbe dire non comprendere quel che dice Porfirio, solo  allora Boezio interviene per chiarire il pensiero delPautore, giu-  stificare le sue espressioni, e quindi, sgombrate le difficoltà,  tornare alla illustrazione del testo.   Dove Porfirio propone più classificazioni, Boezio cerca di  connetterle tra loro, in maniera da renderle più facilmente assi-  milabili al lettore. E dove Porfirio accenna appena a teorie  assai note fra gli studiosi, ma forse poco possedute dai princi-  pianti, Boezio interviene a rammentare tali teorie, e a trattarle,  sebbene compendiosamente, in modo da fornire al lettore princi-  cipiante, al quale il primo commento è diretto, le nozioni neces-  sarie per intendere il testo di Porfirio.   Così Boezio torna due volte sulla teoria della definizione, la  quale, facendosi per genus et differentianij è possibile solo per  gli individui (definiti entro la loro specie), per le specie (definite entro il loro genere!, e per i genej-i subalterni (definiti  entro il genere immediatamente superiore, fino ai generi gene-  ralissimi), ma non per i generi generalissimi, i quali, non avendo  nessun concetto più elevato sopra di sé, non possono essere  definiti, cioè determinati entro Pambito di un concetto più vasto.  Onde, non potendosi definire, possono solo descriversi, con Pin-  dicarne le proprietà. Un accenno, abbastanza ampio, è fatto da Boezio, come già  da Porfirio, alla teoria platonica della divisione, che da ciascun  genere generalissimo, mediante dicotomia, cioè divisione in due,  giunge fino alle specie specialissime.   Abbiamo già detto che Boezio cerca di rendere più evidente  il nesso che stringe talune classificazioni che Porfirio presenta  runa dopo l’altra, senza unificarle in un solo quadro comprensivo.  Questo avviene specialmente per le classificazioni che riguar-  dano le differenze.   Si rammenterà che Porfirio anzitutto classifica le differenze  in differenze comuni, proprie e più proprie o rigorose; comuni,  tutte le differenze per le quali siamo diversi da altri o da noi  stessi (tu cammini, io seggo, oppure: ora io seggo, dopo cammino);  'proprie le differenze individuali (capelli crespi, occhio cieco,  ecc.); rigorose^ le differenze che riguardano tutta la specie (ra-  gionevole, irragionevole, ecc.). Le quali ultime differenze sono  le differenze specifiche, con le quali si procede a dividere i  generi in specie. Ma questa prima classificazione può semplifi-  carsi quando si avverta che tanto le differenze comuni quanto  le proprie si limitano a rendere alterato il soggetto, mentre  solo le differenze specifiche lo rendono altro.   Si può dire dunque che le differenze si dividono in differenze  che rendono alterato il soggetto e differenze che lo rendono altro.   A questa prima classificazione Porfirio fa seguire la seconda;  le differenze sono o separabili o inseparabili. Questa seconda  classificazione si può collegare con la prima osservando che  solo le differenze comuni sono separabili (il sedere, il correre,  ecc. sono diff'erenze che non persistono, e sono quindi separabili  dal loro soggetto), mentre le differenze proprie e più proprie,  cioè quelle che riguardano l’individuo persistendo in lui e quelle  che riguardano l’intera specie, sono inseparabili (tanto un occhio  cieco quanto la ragionevolezza sono caratteri differenziali perma-  nenti, e quindi inseparabili dal soggetto che li possiede). Senon-  chè, di queste differenze inseparabili, le individuali o proprie alterano il soggetto, ma non lo rendono altro (la cecità altera  un uomo, ma lo lascia uomo), mentre le specifiche o più proprie  rendono altro il soggetto (la ragionevolezza rende Tuomo altro  dai bruti).   E inoltre, delle differenze inseparabili, le individuali sono  partecipate in misura diseguale, le specifiche sempre egualmente.  Ad esempio, i capelli biondi son carattere differenziale di indi-  vidui che sono Tuno più biondo, Taltro meno biondo; mentre  la ragionevolezza è carattere differenziale della intera specie  umana, i cui individui, in quanto sono uomini, sono tutti egual-  mente partecipi della ragione.   Terza classificazione è quella per la quale le differenze si  dividono in differenze divisive del genere e differenze costitutive  delle specie. Son le medesime differenze che, prese in modo  diverso, risultano una volta divisive del genere, un'altra costi-  tutive delle specie. Se prendiamo le differenze contrarie « ragio-  nevole e irragionevole > , esse dividono il genere «animale»;  e se, dopo, prendiamo le differenze contrarie « mortale e immor-  tale », esse dividono l'inferiore genere « animale ragionevole ».  Ma se prendiamo le differenze subalterne < ragionevole » (con-  cetto più ampio) e « mortale » (concetto restrittivo), queste  differenze subalterne costituiscono la specie dell'animale ragio-  nevole mortale, cioè dell'uomo.   Cosi la teoria delle differenze si avvia nel primo commento  boeziano a quella matura unità che raggiungerà pienamente  nel secondo commento.   26. — Ma forse più di queste particolari delucidazioni, che  tuttavia contribuiscono alla elaborazione della salda logica  medievale, riesce interessante il breve schizzo che del sapere  del tempo Boezio premette al suo commento.   Nel dialogo filosofico che egli immagina si fa chiedere dal  giovane Fabio una illustrazione e prima una introduzione al-  l'Isagoge di Porfirio. L'introduzione indicherà delPIsagoge VintentOy Vutiliià\ se ci sia altro libro ad essa germano; la ragione  del titolo, ed a qual parte della filosofia si riconduca. Sei punti,  dunque, tratterà Boezio, sulle orme di quel che già aveva fatto  il greco Ammonio nel suo commento alllsagoge.   \Jintenio è trattare del genere, della specie, delle differenze,  delle proprietà e degli accidenti.   futilità deirisagoge è anzitutto quella d’introdurre alle  Categorie di Aristotele, ma è anche più vasta.   Occorre, però, per intenderla, avere un chiaro concetto di  che sia la filosofia. Essa è amor di sapienza, che, non bisognosa  di nulla, « vivax mens et sola rerum primaeva ratio est >. E  questo amore di sapienza è illuminazione dello spirito che conosce  da parte di quella pura Sapienza, e in qualche modo è un richiamo  che questa fa deU’animo umano perchè torni ad essa, di maniera  che il desiderio di sapienza è desiderio e amore della divinità  e amore della pura mente divina.   È questa sapienza che riconduce alla forza e purezza natu-  rale le anime umane. Da essa nasce la verità delle specula-  zioni e dei pensieri e la santa e pura castità delle azioni. Il  che mena direttamente alla divisione della filosofia, che è il ge-  nere, in teoretica o speculativa, e pratica^ o attiva. (0 e II sono le  due lettere che spiccano su la veste della Filosofia nel Be Conso-  latione Philosophice). La teoretica, poi, ha tante parti quanti sono  gli oggetti che considera: si divide quindi in:   1) — Teologia o dottrina di ciò che è sempre uno e me-  desimo, fermo sempre nella sua divinità, non accessibile ai  sensi, ma solo alla mente ed all’intelletto: la quale specula-  zione studia Dio e la incorporeità dello spirito;   2) — Dottrina che si occupa di tutte le opere celesti del-  la suprema divinità, di ciò che nel mondo sublunare ha animo  più beato e sostanza più pura, ed infine delle anime umane:  tutte cose che, fatte di sostanza intelligibile, al contatto dei  corpi, da intelligibili divennero soltanto intelligenti, in maniera  che possono ora divenire più beate per purezza ed intelligenza  quando si volgano ed applichino alle cose intelligibili ;   3) — Dottrina dei corpi, o Fisica, che illustra la natura  e le passioni dei corpi.   Di queste tre parti della filosofia teoretica la seconda è meri-  tamente collocata nel mezzo perchè ha da una parte Tani-  mazione e vivificazione dei corpi, dalFaltra la considerazione  e conoscenza delle cose intelligibili.   27. — Anche la filosofia pratica si divide in tre parti:   1) — VEtica^ che s’orna ed accresce di virtù, nulla am-  mettendo nella vita di cui non possa essere soddisfatta, e niente  facendo di cui debba pentirsi;   2) — la Politica, che assumendosi la cura dello Stato prov-  vede alla salvezza di tutti con la saldezza della sua 'preveg-  genza e prudenza, con Tequilibrio della giustizia, con la sal-  dezza della fortezza e la pazienza della temperanza;   3) — V Economia, che si occupa del buon andamento della  vita famigliare.   Alle quali parti già descritte della filosofia si aggiunge da  vicino queirarte che i Greci chiamano Logica: parte della filo-  sofia 0 suo strumento?   Boezio rimette la trattazione di questa questione ad una  altra opera, che è poi il secondo commento. Intanto osserva  che questa disputa sul genere, la specie, la differenza, la pro-  prietà e l’accidente prepara la via a tutto lo studio della filo-  sofia. Col dire cosa sia genere e cosa sia specie ci fa inten-  dere che la filosofia è genere, e teoretica e pratica sono specie.  Col dire cosa sia differenza, ci rende possibile di intendere se  la logica sia una specie della filosofia, differente, quindi,  dalle altre specie. Col dire cosa sia proprietà, ci spiega la na-  tura propria di ciascuna differenza della filosofia. Col dire cosa  sia accidente ci guarda dal mettere tra le cose principali ciò  che è secondario. Cosi la conoscenza di queste cinque voci  spande i suoi rami in tutte le parti della filosofia.   Utile alla grammatica a cui insegna che il discorso è il ge-  nere e otto sono le sue parti o specie; utile alla retorica, a  cui permette di distinguere tre generi di causa, ciascuno diviso  in specie a seconda dei soggetti: utilissima alla logica, che  nulla potrebbe definire (per genere e differenza) se non sapesse  cos'è genere, cos’è specie, cos’è differenza, ecc. ; nulla potrebbe  dividere se non fosse guidata dalla conoscenza delle cose che  divide (i generi e le specie); e nulla potrebbe dimostrare giacché  la verità delle dimostrazioni sta nei provare ciò che si divide  o qualcos’altro mediante le cose che si son divise.   E l’Isagoge di Porfirio precede tutta la logica aristotelica,  perchè senza di essa non si intenderebbero la sostanza e i nove  accidenti di cui è parola nelle Categorie. Le quali voci signi-  ficative sono quelle di cui si compongono le proposizioni, di  cui si tratta nel « De interpretatione » . Le quali proposizioni  sono quelle di cui si compone il sillogismo, il cui ordine, la  cui struttura e le cui figure sono studiati negli « Analitici  Primi », perchè sia poi possibile studiare il sillogismo dialet-  tico nella « Topica * e il sillogismo dimostrativo negli « Ana-  litici Secondi » .   Cosi l’Isagoge di Porfirio è la base prima di tutta la logica  aristotelica.   28. — Come nel corso del primo commento non sono rare  le occasioni in cui Boezio è costretto a notare le imperfezioni  e le oscurità della versione di Mario Vittorino, cosi nel seconc^o  commento Boezio presenta una traduzione propria, che indubbia-  mente è assai più scorrevole e chiara dell’altra. La versione  è intercalata nella esposizione, che procede meno pedestr e che  nel primo commento, e che, specialmente nei primi fr a i cinque  libri, mostra un vigoroso proposito di rendere più robusta, più  rigorosa ed organica la trattazione porfiriana. Il secondo commento si inizia con alcuni paragrafi dedicati  alla filosofia in generale, alle sue parti, alle sue utilità, ecc.   Se la filosofia - dice Boezio - è il più alto bene degli animi,  converrà precisamente muovere dalle facoltà delFanima. Una  forza deH’anima è quella vegetativa, comune anche alle piante,  che non hanno sensi; un’altra è la sensitiva, che dove sorge  assume la prima come sua parte; una terza è la intellettiva,  che non si limita a sentire e a rammentare, ma anche esplica  e conferma, con pieno atto di intelligenza, quel che Timmagi-  nazione sopperisce. La qual potenza della ragione si esercita  a indagare, anzitutto, se una cosa sia, poi che sia, poi quale sia,  infine perchè sia.   Ma, perchè il pensiero sia preservato dal pericolo di cadere  nel falso, occorre anzitutto una disciplina che, studiando le  maniere di disputare e gli stessi ragionamenti, possa additare  qual ragionamento risulti ora falso, ora vero, quale sempre falso  quale non mai falso. Della quale scienza - la logica - è duplice  l’uso nell’inventare e nel giudicare: topica e dialettica, trattate  entrambe da Aristotele, ma la prima trascurata dagli Stoici.   Ora, questa logica è una parte della filosofia o è solo il  suo strumento? - Quelli che la considerano parte della filosofia  ragionano così: delle proposizioni, dei sillogismi, ecc. solo la  filosofia si occupa. Dunqne sono oggetto di filosofia. Ma, delle  due grandi parti della filosofia, la speculativa che si occupa  delle cose naturali, e l’attiva che si occupa della morale, nessuna  tratta del discorso, dei giudizi, dei ragionamenti: dunque quella  disciplina filosofica che d’essi si occupa non può non essere  considerata una nuova parte della filosofia; donde la triparti-  zione di questa in: logica, fisica, etica. Coloro i quali invece so-  stengono che la logica sia strumento della filosofia, non sua parte,  osservano che questa scienza della ragione è diretta o a conoscere  le cose (fisica) o a trovare quei principi di morale che producono  la beatitudine. Dunque, essi, dicono la logica serve sempre o  alla fisica o all’etica. Boezio è del parere che le due teorie non si escludano a vicenda: niente vieta che la logica sia ad un  tempo parte e strumento della filosofia; parte in quanto ha  innegabilmente un fine proprio, distinto dalla fisica e daH’etica;  strumento in quanto, altrettanto innegabilmente, essa serve così  all’una come aH’altra. Del resto, nel nostro corpo, ciascun  organo è al tempo stesso parte e strumento : la mano rispetto  all’organismo intero è strumento; per sè, intanto, è parte.   29. — Ma veniamo allo scopo di questa introduzione porfi-  riana alle Categorie di Aristotele. Queste sono i dieci generi di  predicamenti: può intenderli dunque chi sappia che sia il genere.  Di ciascuno di essi si dànno varie specie (varie specie di so-  stanza, di qualità, ecc.): ed anche ciò presuppone si sappia che  sia specie, e che sia la differenza per la quale ciascuna specie  si allontana dall’altra e l’un genere dall’altro. Inoltre, ogni  genere ha le sue proprietà, mediante le quali può essere descritto.  E dei dieci predicamenti, nove sono accidenti. Donde la neces-  sità di saper bene che sia proprietà e che sia accidente per  intendere le Categorie aristoteliche.   Ma Porfirio spesso indica l’utilità della sua introduzione per  le definizioni, le divisioni e le dimostrazioni, oltreché, come già  si è visto, per l’intendimento delle Categorie aristoteliche. Per  le definizioni, perchè bisogna ben distinguere il genere prossimo  e la differenza specifica per fare una giusta definizione; per  la divisione in tutte le varie sue specie, giacché vanno distinte  divisioni dei concetti presi in sè stessi e divisioni accidentali.  Le divisioni dei concetti presi per sè stessi sono di tre ordini :   1 ) — divisione del genere nelle sue specie ;   2) — distinzione dei vari significati di una parola;   3) — partizione d’un tutto nelle sue varie parti. '   Le divisioni accidentali sono anche di tre ordini:   1) — divisione di un accidente secondo i soggetti che lo  ricettano ( c dei beni, alcuni sono nell’anima, altri nel corpo » )     2) — divisione di un soggetto secondo gli accidenti (« dei  corpi, taluni sono (bianchi, altri sono neri » ) ;   3) — divisione di un accidente secondo altri accidenti  ( « delle cose bianche, alcune sono dure, altre liquide, altre  molli >).   Per tutte queste divisioni occorre sapere che sia genere e  che sia differenza, quando luna parola abbia un significato solo  (univoca) e quando più significati (equivoca), e che sia una  parte e che una specie; occorre inoltre ben distinguere sostanze  ed accidenti.   Infine, Tintroduzione porfiriana è utile per le dimostrazioni,  giacché queste si fanno o da cose già note, o da cose conve-  nienti, 0 dalle prime cose, o dalla causa, o dalle cose connesse,   0 dalle cose inerenti. In ciascuno di questi casi bisogna sapere  che sia genere e che sia differenza, e che sia specie, giacché sono   1 generi quelli che sono anteriori per natura alle specie, e  quindi di esse più noti, e sono i generi e le differenze le cause  delle specie.   30. — Il secondo libro .tratta del genere con un manifesto  desiderio di porre più rigore nella trattazione .porfiriana, magari  rifacendosi da teorie più vaste, che sembrano essere presup-  poste da ciò che dice Porfirio. (Cosi, per esempio, per illustrare  i significati, che Porfirio espone, della parola genere, che si  riferisce a volte al progenitore da cui una gente deriva, a volte  al luogo da cui una gente proviene, Boezio richiama la celebre  dottrina aristotelica delle quattro cause, efficiente, materiale,  formale e finale, alle quali aggiunge due principi accidentali,  il luogo e il tempo. Quando si parla del genere dei Romani,  cioè dei discendenti da Romolo, si indica in costui la causa  efficiente della stirpe; quando invece si dice: «Pindaro Tebano»,  si indica in Tebe il luogo da cui Pindaro i proviene).   Boezio insiste ancora sulla differenza tra descrizione e defini-  zione: 'il genere non può essere definito, chè, per essere defi-    l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO    53    nito, dovrebbe avere un altro genere sopra di sè, e, quando  avesse un genere sopra di sè, sarebbe specie, non genere; sicché,  non potendo essere definito, il genere è descritto, cioè ne ven-  gono indicate le proprietà, che sono come i colori con i quali  si dipinge un quadro. L’intera teoria del genere, della differenza,  della specie, della proprietà e dell’accidente, è chiusa come in  un prospetto nelle seguenti classificazioni boeziane.    Ciò che si Ciò che si predica   predica di di più cose   una cosa sola |       S   ’o   'in   O ®   og O   ce 05  S  ce p!   ce    <e   •1-^   ' Ph   o   u   Ph    o   <v   Ph   m   'P —    ce ^    03   S   O -M   ■Tj ■  p P  ce P ■  cr  ^ cS   a ^      p   p   p   iJ}    OJ   co   a?   a;   pO   o   a   O)   G   *S   (p   o   S   *02   OO   ce    03   .3^ P  •'P P -  p cr    .2   P *o   p   ■| £• '   — xs ce   G 'P    ce P  np P  P P    U sé   ce N   .2 G   ’B ®   p 02  P m  — I a;    'p    03   rQ   O .P O   ■TP O  O (D   VP ce  ^ P. P  P    ce p    sostanzialmente accidentalmente    l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO    55    Boezio prosegue, poi, illustrando via via i passi poifìriani  che traduce e riporta: e le sue sono delucidazioni speciali, del  resto assai utili. (Per esempio : in che senso si dice che gli  uomini differiscono tra loro numericamente? - Nel senso che  si dice: « Socrate è un uomo, Platone è un altro uomo »).   31 — Il terzo libro tratta delle specie (e non prima della  differenza nonostante che la differenza, contenendo in sè più  specie, sia ad essa anteriore, perchè la specie è specie del  genere, come il genere è genere della specie, epperò vanno  studiati in connessione Puno con l’altra).   Le illustrazioni, per solito, non aggiungono nulla di nuovo.  Interessante può essere Patteggiamento di osseqio ad Aristotele  su le questioni delle dieci Categorie ; atteggiamento che è di  Porfirio e non viene mutato da Boezio. Nè i dieci predicamenti  possono ridursi tutti dXVente, perchè ente ha significati diversi  secondo che s’applichi alla sostanza, alla qualità, alla quantità,  ecc. Vale a dire è un nome di più significati, e non un genere  d’un significato solo.   Del resto, come ogni predicamento cosi ogni predicamento  è un predicamento ; sicché se ente fosse gen^ e, i dieci predi-  camenti avrebbero due generi: ente e uno\ e ciò è assurdo,  perchè non si può appartenere a più di un genere.   32. — Il quarto libro tratta della differenza, ripetendo lo  sforzo, visibile già nel primo commento, di dare organicità ed  unità alla trattazione porfiriana dell’argomento col connettere  insieme le varie classificazioni, tutte svolte da una distinzione  fondamentale, tra differenze sostanziali e differenze accidentali,  e col condannare più risolutamente di Porfirio quelle defini-  zioni che « idem per idem definiunt » quando dicono che < dif-  ferenza è ciò per cui una cosa differisce da un’altra», e che  non precisano davvero cosa sia differenza quando la definiscono  «ciò per cui una cosa dista da un’altra», potendosi una cosa    allontanare da un'altra per qualità del tutto accidentali che  non costituiscono diiferenze in senso proprio.   Il medesimo quarto libro tratta anche della proprietà, ri-  spetto alla quale osserva che, se Tessere di una cosa è espressa  dal suo genere, dalla sua differenza e dalla sua specie, le sue  proprietà non costituiscono la sua sostanza, ma qualcosa di ac-  cidentale, sebbene si chiamino proprietà, e che quando Porfirio  distingue proprietà di quattro sorte, non intende enumerare  quattro specie del genere proprietà, ma indicare i quattro si-  gnificati diversi nei quali si parla di proprietà.   Il quarto libro tratta infine delTaccidente, condannando, più  di Porfirio, la distinzione puramente negativa, per la quale « ac-  cidente è ciò che non è nè genere, nè differenza, nè speqie, nè  proprietà » .   33. — Il quinto libro illustra la comparazione che Porfirio  istituisce tra le cinque voci senza alcuna particolare osserva-  zione.   Notevole è tuttavia che Boezio non lascia passare la divi-  sione porfiriana delTanimale razionale in animale razionale  mortale (Tuomo) e animale razionale immortale (Dio) senza  notare che ciò si poteva dire quando si ritenevano il Sole e gli  altri corpi celesti animati e divini.   34. — Su questi testi si chinarono, per generazioni e generazioni, gli uomini del medioevo, come su libri di profondis-  sima sapienza. Se TEuropa uscì dal medioevo cosi fortemente  razionalistica, essa s'era fatta la sua potente quadratura logica  meditando su questi ultimi fra gli antichi, lungamente vene-  rati e studiati.  Grice: “I like Guzzo. For one, he spent a tutorial or two on the very same ‘tratarello’ I did: Boezio’s latinizing Porphyry!” Augusto Guzzo. Guzzo. Keywords: pagine di filosfi per i giovani italiani; il Vico di Guzzo, il Galluppi di Guzzo, il Bruno di Guzzo, Gentile, Gli hegeliani d’Italia, Vera, Spaventa, Jaja, Maturi, Gentile, dirito, stato, Biblioteca Italiana di Filosofia, spunti e contrattacchi, Della causa, del principio e del uno, dell’analisi e la sintesi, autobiografia e scienza nuova per giovani italiani dei licei classici, il manual di filosofia di Fiorentino. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guzzo: tra idealismo ed empirismo” – The Swimming-Pool Library.

 

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