Sembra, quindi, cosa ardua dire qualcosa di nuovo su Michelstaedter. Un’ulteriore problema, poi, che presenta lo studio della sua opera, sorge allorché si tien conto che con il giovane pensatore goriziano ci troviamo di fronte ad un intellettuale anomalo, del tutto sconosciuto in vita e scomparso in un’età in cui di solito gli altri muovono i primi passi nella vita pubblica. La stessa sua opera principale, La persuasione e la rettorica, era destinata ad essere la sua tesi di laurea ed è stata data alle stampe postuma; sicché il riconoscimento tardivo e la fortuna, non solo nell’ambito del panorama culturale italiano, ma anche di carattere internazionale, che essa ha avuto, sono in gran parte dovuti alla devota sollecitudine di un pugno di amici, cui si deve la sua pubblicazione e quella degli altri scritti di Michelstaedter. A loro si deve, infatti, dopo la sua scomparsa prematura, il merito di aver sottratto alla morte la sua memoria3 Tra di essi, e sono soprattutto i nomi che contano nella ristrettissima cerchia degli amici fiorentini, spiccano Arangio–Ruiz e C.. Il lavoro paziente e meticoloso del secondo, in particolare, per rendere accessibile la conoscenza degli scritti di Michelstaedter, con la sua edizione delle Opere (Firenze, Sansoni), “costituisce una pietra miliare nella vicenda storico-culturale e storico-critica del filosofo goriziano. L’edizione Sansoni di C. è all’origine del lavorio critico e interpretativo che è seguito negli ultimi trent’anni e che non accenna ormai a declinare” In uno studio su Michelstedater, non si può allora perdere di vista questa verità; e, soprattutto non si può non tenerne conto. Occorre, allora, affrontare il compito di chiarire il senso e i termini della ricostruzione del suo pensiero proposti da C.e da Arangio – Ruiz. E parlare dei due fraterni amici di Michelstaedter significa non poter passare sotto silenzio un autore, Gentile, le cui suggestioni sono penetrate per canali vari e hanno raggiunto un’egemonia ancora non del tutto esaurita nella cultura italiana. Non a caso, con aderenza più o meno piena, da lui hanno preso le mosse molti autori che poi hanno svolto idee originali e autonome, accentuando, ripensando o rivedendo l’uno o l’altro aspetto della sua filosofia. Nella sterminata letteratura critica che gravita sull’attualismo, i due pensatori ‘fiorentini’ compaiono, sia pure con caratteristiche proprie che li distinguono dall’uno e dall’altro indirizzo d’interpretazione, come “notevoli esponenti” della sinistra (Vl.Arangio – Ruiz) o della destra gentiliana (C.) Tuttavia, il loro lungo e travagliato svolgimento dell’eredità neo-idealistica, sia pure ripensata “in novitate spiritus”7, perloppiù non è stato mai messo a fuoco con efficacia e nei suoi risvolti più significativi ed è stato oggetto solo di qualche timida e stentata paginaNon deve perciò apparire strano che su questi problemi e su questi autori, e in particolare sulla loro collocazione speculativa nell’ambito del panorama attualistico, si torni ad insistere: essi esordirono come attualisti; poi, seguirono e “amarono” Gentile9; non persero mai di vista l’approfondimento del suo pensiero e si riconobbero in esso nell’arco di alcuni decenni, giungendo ad un suo “sincero ripensamento”10. Una lettera di dedica a Gentile, datata 8 agosto 1943 (che apre il volume La ragione poetica, Firenze, Sansoni, 1947), mette ampiamente in evidenza l’effetto che provocò sul giovane C., nel marzo del 1919, la lettura della Teoria generale dello spirito come atto puro :”ebbi un lampo di luce, pel quale intravidi la possibilità di comprendere la vita, di potervi trovare quel valore, senza del quale ogni altra cosa non ha pregio” A questi dati se ne potrebbero aggiungere molti altri. Qui, tuttavia, per ragioni di tempo e di spazio, occorre prescindere da una approfondita analisi delle rispettive biografie teoretiche e del contesto. E, poi, per lo stesso motivo, si rende necessaria una ulteriore limitazione del discorso al solo rapporto Chiavacci – Michelstaedter - Gentile, anche perché “Arangio – Ruiz non ha lasciato un grosso volume sistematico, ma solo volumi di saggi; e quanto a Conoscenza e moralità, che già subito non lo appagava più...egli stesso lo considerava un saggio, non un trattato”12; e, poi, egli fu non tanto un pensatore sistematico, quanto un fine e colto letterato, un autore “di prosa morale o di polemica antintellettualistica o di discussione su problemi di estetica e di critica d’arte”. Infine, tutta la sua opera è pervasa sin dai suoi momenti iniziali da “una polemica coi suoi più vicini maestri: Croce e Gentile” 13; invece, le posizioni speculative di Chiavacci presentano tratti più sistematici, rientrano nel grande alveo dei motivi tipicamente attualistici e culminano con maggior consapevolezza ed esiti più cospicui in un tentativo di rielaborazione, di compiuta espressione dell’idealismo14. Qui, come termine di riferimento e di confronto, occorre prendere in considerazione l’insegnamento di Gentile negli anni in cui la sua attività didattica e scientifica trovò il suo più maturo affermarsi, a partire dal 1918 a Roma.15 Sono, infatti, gli anni in cui si pongono le basi di un fitto tessuto di relazioni che interviene a connettere Chiavacci a Gentile, in un rapporto che diventerà sempre di più assiduo, “amichevole e confidente”. La prima domanda da porsi, per sgomberare il terreno da equivoci, è di sapere, attraverso l’analisi puntuale dei principali documenti letterari, quali furono il consenso e i punti di dissenso. Ma vediamo i termini del discorso, senza perdere il contatto con i testi. Gentile si occupa ripetutamente di Carlo Michelstaedter. Su sollecitazione di Chiavacci (lettera 14 novembre 1920), che si era iscritto in Filosofia, a Roma dopo averne letto i testi e ascoltato le lezioni, interviene presso Vallecchi, una delle sue cittadelle editoriali, per caldeggiare l’edizione de La persuasione e la rettorica data effettivamente alle stampe nel 1922; nel 1933 (lettera a Chiavacci del 21 novembre) chiede allo stesso Chiavacci di redigere per l’Enciclopedia Italiana la voce Michelstaedter di 10 linee, e qualche giorno dopo decide di elevare lo spazio per la stessa voce a 30 righe18. Nel 1922, poi, recensisce l’opera di Michelstaedter data alle stampe per i tipi della Vallecchi. Nel farlo, tributa innanzitutto elogi all’iniziativa ad opera di un “fido gruppo di amici” di Michelstaedter; rileva subito dopo che si tratta di uno scritto giovanile in cui non c’è un“approfondimento metodico” degli argomenti trattati, e né un loro “sviluppo sistematico 19. Infine, prende in considerazione “il problema dell’opposizione tra la persuasione vera, che corrisponde al possesso della vita, e la falsa persuasione, scopo della rettorica”20. Per Gentile, in Michelstaedter la persuasione serve ad indicare il fatto che il “possesso della realtà e della verità...non cerca vanamente fuori di sé il suo mondo”, ma è caratteristica “della sufficienza, dell’autarchia, come dissero i greci. La persuasione del vero sapere, come lo intuì e lo volle Socrate, tranquillo, sereno, saldo sul punto che è il centro del suo mondo: nel suo animo”21. Di contro, la rettorica è espressione dell’individualità illusoria, inganna e s’inganna, è superficiale, prende il posto del vero sapere, si prende “gioco dell’uomo, gli fa credere di vivere in mezzo ai piaceri”; la rettorica uccide la vita, irretisce l’uomo “nella vana teoria dei concetti”, “sdoppia il sapere e la vita”, oppone “alle cose direttamente affermate il pensiero che afferma le cose” e così mostra “l’insufficienza delle cose che hanno nella persona il loro correlato e l’insufficienza della persona, che ha nelle cose il suo termine integrante”Tuttavia, per Gentile, anche se il Michelstaedter sceglie giustamente a suo bersaglio la rettorica, alla quale dedica gran parte delle proprie forze speculative e del proprio lavoro di tesi, “non ha né tempo né animo per considerare direttamente e con pari studio la persuasione. Sono accenni qua e là, e qualche spunto del suo pensiero positivo si può scorgere” nelle Appendici e, più precisamente, ne Il prediletto punto di appoggio della dialettica socratica24. La persuasione, è vero, dice Gentile, viene definita come caratteristica “di chi permane. L’unica via di chi permane è la sua forza; la forza di non asservirsi al futuro, e tenere raccolta nel presente la propria vita”25. Ma qui si ha a che fare con una immagine poetica, non con un concetto filosoficamente dimostrato; permangono perciò interrogativi sul cos’è la vita, questo permanere, ecc. Il merito indiscusso del Michelstaedter, il suo guadagno speculativo più cospicuo, secondo Gentile, consiste nel mettere in rilievo un universale aspetto di verità, che consiste nel fatto che l’uomo “rientra in se stesso, liberandosi della rettorica e gettando la salda ancora della vita nel porto della persuasione”26. Quali furono le reazioni di Chiavacci a questo giudizio di GentileUno sguardo da vicino all’elenco dei suoi scritti e una loro attenta analisi consente di accertare che la sua personalità speculativa, ma anche quella di Arangio – Ruiz, nasce dall’incontro con Carlo Michelsteadter, cioè “da un humus fortemente sentimentale”, e il suo “culto” per l’amico comune “restò fino all’ultimo sempre vivo”27. Entrambi gli autori, poi, pur se procedono con diversa, e non certo marginale, fisionomia sistematica e speculativa, fanno proprie le istanze teoretiche gentiliane centrali e le affrontano sotto le suggestioni di Michelstaedter, nel tentativo di riguadagnare, come nel caso del Chiavacci, l’essenza dell’attualismo e così di offrire un contributo, “perfettamente consentaneo”, alla sua più compiuta espressione28. L’intero percorso speculativo di Chiavacci, ad esempio, manifesta fino in fondo la fedeltà a conservare queste istanze, comunque egli si muova, quali che siano gli andarivieni del suo pensiero. In particolare, egli dà alle stampe nella “Rivista di cultura”, di cui Gentile era membro del comitato di redazione, un testo intitolato Le due nature29. In esso, egli affronta il problema del rapporto tra finito e infinito, sostenendo che “l’infinito ideale non può realizzarsi come immanente al finito, ma come immanente alla negazione del finito”30. Il testo viene pubblicato con una postilla dello stesso Gentile, in cui il filosofo siciliano lo invita a non insistere tanto sulle differenze tra le sue posizioni e quelle dell’attualismo e, soprattutto, ad approfondire meglio gli aspetti relativi al ruolo della “negatività nella dialettica propria dell’idealismo”, con particolare riferimento al tema dell’attuosità dell’atto, della negazione in cui si deve cogliere una attività che passa e supera il limite che si è posto e si afferma nella “sua libertà da ogni limite”, come valore o realtà infinita, laddove il finito non rinvia ad una trascendenza, ma è il “campo nel quale si celebra e trionfa la potenza dello spirito nella sua concretezza”. Dopo questo intervento, due anni dopo, ossia nel 1924, e sulla scia evidente delle sollecitazioni di Gentile, nel Giornale critico della filosofia italiana, la rivista fondata e diretta dallo stesso Gentile, Chiavacci dà alle stampe un corposo articolo su Michelstaedter in cui cerca di mostrare, rispondendo ai rilievi critici del suo maestro siciliano, che il pensiero di Michelstaedter non è riconducibile ad “una realtà negativa”, ma è “la positività dell’atto negante, in quanto vero atto, cioè vita”; esso non è “pura negatività”, e tutta la sua novità consiste nel fatto che “il positivo di Michelstaedter è l’attività che crea se stessa dal nulla” e perciò è senza condizioni o, in termini gentiliani, “libertà senza limiti”32. Tutto il testo di Chiavacci è una serrata, e pacata, replica e a Gentile, in cui si pone il problema di precisare e difendere le giuste esigenze, quasi come una esplicitazione in positivo del pensiero di Michelstaedter e in particolare come una prosecuzione della sua tesi su La persuasione e la retorica. Già il titolo dell’articolo di Chiavacci è una risposta a Gentile, che negava al Michelstaedter l’esistenza di una vera e propria dottrina filosofica, di un approfondimento metodico e di uno sviluppo sistematico e parlava piuttosto di “personalità filosofica”33. Per Chiavacci, invece, Michelstaedter “non parla direttamente della persuasione”, ma non per questo è “giusto dire che ne dia pochi cenni...della persuasione si parla in tutto il libro, perché essa è il criterio della lotta contro la rettorica”34. Egli non ne fa la teoria, “come non fa la teoria del positivo della persuasione, così si rifuta di considerarne il risultato, come un fatto staccato dal processo”35. Il criterio che Michelstaedter usa non è una nuova teoria accanto a tante altre teorie che si sono avute nel corso della storia del pensiero, ma “è Michelstaedter stesso vivente. Filosofia non sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e il suo organismo vivo che non può contraddirsi”36; e perciò la definizione della persuasione risulta “da tutto il libro”37. Una tale filosofia, nel nucleo essenziale del suo pensiero, è l’attività vera, la vita, non ha fuori di sé la vita “perché deve essere essa la vita” 38. “La via della persuasione è se stessa e non ha un fine fuori di sé. Essa intanto è la vita dell’infinito nell’individuo finito, è la vera vita del finito: è processo, vita”39. Michelstaedter non è un mistico; il suo ideale non è un qualcosa di trascendente, “ma è la realtà stessa più profonda del soggetto”; quel che egli nega del particolare “è insieme affermazione, come dice l’idealismo”: si nega la particolarità del particolare, “nella sua 32 G. Chiavacci, Il pensiero di Carlo Michelstaedter, in “Giornale critico della filosofia italiana”, pretesa immediata, quel che si afferma è quel che implicitamente era in lui di universale, senza di che non poteva neppure esser particolare: è lo sviluppo della sua parte migliore che dormiva. Quel che di lui perisce era quel che non valeva, che non era mai stato reale: quel che del particolare ci deve premere, la sua aspirazione all’universalità, quella non perisce, ma s’invera. E’ in fondo quel che dice il Gentile stesso quando parla dell’immortalità”41. Questo particolare, questo esserci del mondo come particolare, come finito, non è possibile senza “la richiesta dell’universale”, è “il campo in cui lo spirito si celebra e trionfa...’è il lampo che rompe la nebbia’ “42; è sviluppo spirituale, mondo come fare non come è dato. La convergenza delle due posizioni, e su punti e aspetti decisivi della vulgata attualistica, diventa qui profonda. In concreto, l’idea di individuo, non più un essere naturale e che “non si restringe nei limiti del particolare: perché egli non può né pensare, né sentire, né altrimenti realizzarsi, che in un modo universale”43, caposaldo e tipica espressione dell’attualismo gentiliano chiamata in causa nel testo di Chiavacci del 1924, viene pienamente accolta. E si pongono così le basi di un consenso che non si discosterà molto negli ulteriori svolgimenti del confronto tra i due autori. Per cogliere ulteriormente i tratti principali del consenso tra Gentile e Chiavacci, al di là dei punti di convergenza fin qui messi in risalto, è necessario tener presente i principali scritti di Gentile di quegli anni, in cui la sua attività didattica e scientifica “trovò…il suo primo affermarsi con volontà rivoluzionaria. Si determinava una svolta essenziale del suo pensiero e della sua azione”. Gentile, infatti, al culmine della propria maturità scientifica, iniziava il corso di Storia della filosofia. E, nel concludere la sua prolusione, tracciava le linee direttrici per un programma di rinnovamento della filosofia, con l’intento di “rifare l’uomo intero, che senta come pensa, e operi come parla”45, perché “il vecchio letterato è morto…l’accademia e la filosofia da eruditi devono essere davvero un passato irrevocabile” : la vita deve diventare una milizia continua46. Come documento più significativo di questa svolta può essere preso il proemio (del 19 ottobre 1919) del primo numero del “Giornale critico della filosofia italiana”, la rivista della Scuola romana gentiliana, in cui viene portato avanti lo stesso discorso della prolusione. Non a caso, in esso, Gentile “propone di guardare all’avvenire” per incominciare una nuova vita, uscendo dall’individualismo e dall’egoismo. E, per farlo, egli dice, occorreprecisare il rapporto tra scienza e filosofia, contrapponendo le due forme di sapere. Da una parte c’è la scienza e dall’altra la filosofia. La prima presuppone il proprio oggetto di conoscenza ed è analisi disgregatrice “sintesi impotente a ricreare la vita distrutta...la quale se potesse veramente realizzare il suo stesso ideale, sarebbe affatto morta e quindi inesistente: critica presuntuosa, intenta a rendersi conto della vita restandone fuori”; la seconda, invece, e lo stesso discorso vale per la religione, “non presuppone, ma pone; non guarda, ma crea; non analizza perciò, ma vive; non è astratta teoria, ma teoria che è prassi”48. Il problema di questo rapporto è un principio essenziale dell’attualismo e costituisce l’aspetto fondamentale del programma della nuova rivista 49. Gentile parla qui di sviluppo dialettico che si risolve e si supera in un dramma eterno, che, proprio perché continuo superamento, rinvia necessariamente al continuo superato, all'oggetto nel soggetto. Cosicché la realtà, o atto spirituale, è una unità, ma non una mera unità immediata, bensì unità del suo opposto, ossia della molteplicità. Tale idea di uno svolgimento dialettico dello spirito, ribadita a più riprese, significa che la filosofia non è più "teoria e contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del mondo stesso. Azione che non è, tuttavia, un immediato agire, bensì coscienza di agire''. Tanto che, come afferma Spirito, "l'idealismo trionfa veramente di ogni intellettualismo non in quanto esso rimane una teoria dell'atto, ma solo in quanto si attua, sicché il suo valore teoretico è assolutamente nulla (intellettualismo) se non diventa etico (attualismo)''. Gentile insiste, in altre parole, sul valore dell’attività creatrice dell’uomo e sviluppa il concetto di un mondo che noi facciamo e dobbiamo fare. Anzi, esso è l’unico veramente esistente. Tutto il suo pensiero, perciò, è caratterizzato dall’esigenza pedagogica e dal posto che il problema dell’educazione occupa nella sua speculazione, che è così ”il massimo centro della sua concezione” e mette in luce “la finalità più profonda del suo pensiero, tutta raccolta in quell’umanesimo, che dà significato fin da principio alla teoria e alla storiografia dell’attualismo. La vita spirituale è educazione, anzi autoeducazione...questa affermazione non ha un significato parziale, e relativo ad una determinata questione, ma rappresenta l’essenza del concetto di spirito che qualifica tutto il pensiero del Gentile”.51 E, perciò, per intenderne a fondo il senso e l’importanza, occorre ”guardare al lato più propriamente etico della sua filosofia: a quello cioè per cui la filosofia, essendo giunta alla completa liquidazionedel vecchio significato intellettualistico, si afferma come identica alla vita, come il valore stesso della vita. La filosofia del Gentile è tutta Etica o meglio Pedagogia. Poiché una filosofia che non è concetto della realtà, ma autoconcetto, non può essere più teoria e contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del mondo stesso”52. In forza di queste considerazioni, è chiaro che non si può indulgere a nessuna inerzia. Una tale filosofia, infatti, non può risolversi più in una pura e semplice contemplazione. Prima il filosofo poteva rintanarsi nell’ozio speculativo, far propria una ideologia estetizzante da filosofo - letterato, ed avere come unico compito quello di guardare e giudicare, per intendere una realtà altra ed indipendente da lui. Si trovava così dinanzi a sé un mondo già dato, che per il suo stesso esserci limitava e vanificava la libertà dell’uomo. Col Gentile, invece, cessa ogni dualismo e ogni astratto concetto di filosofia. Quest’ultima, anzi, diventa, azione consapevole di sé, vita umana, sociale, e quindi anche educazione e politica. Vi è identità di conoscere e fare e viene meno la separazione meccanicistica, e con essa ogni residuo dualistico, tra le varie sfere dell’attività umana; perciò filosofo, educatore e politico diventano tutti termini sinonimi di uomo. Noi siamo artefici assolutamente liberi e responsabili del nostro mondo e di conseguenza natura, società, storia, ecc. non costituiscono più un limite. Tutto, infatti, è assolutamente immanente nel nostro io più intimo. La nostra stessa umanità non è più quella degli uomini presi nel loro atomismo particolaristico, ma “quella della nostra personalità, più profonda che non è di fronte ad altre personalità, ma tutte le affratella raccogliendole nel suo seno in una vita unica che deve farsi sempre più una, e cioè sempre meno particolare ed egoista”53. Così viene vanificata la nozione individualistica della persona, nel tentativo di guadagnare una societas in interiore homine, perché, per usare le stesse parole del Gentile della Teoria generale dello spirito come atto puro :“altri, oltre di noi, non ci può essere, parlando a rigore, se noi lo conosciamo, e ne parliamo. Conoscere è identificare, superare l’alterità come tale. L’altro è semplicemente una tappa attraverso di cui noi dobbiamo passare, se dobbiamo obbedire alla natura immanente del nostro spirito : ma passare, non fermarci”54. Questo stesso concetto, poi, verrà ripreso e ulteriormente approfondito in Genesi e struttura della società, dove si afferma che l’individuo non da considerare come un atomo; ad esso, infatti, è :”immanente al concetto di individuo è il concetto di società. Perché non c’è Io, in cui si realizzi individuo, che non abbia, non seco, ma in sé medesimo, un alter, che è il suo essenziale socius”.55 L’uomo, allora, non può più rinchiudersi nella sua angustaempiricità e nella sua particolare competenza, ma deve invece realizzare se stesso e la propria “personalità nella coscienza di una vita universale”.56 Gentile, secondo Ugo Spirito, non solo è pervenuto a questo nuovo concetto della realtà, ma con la propria vita ci ha dato l’esempio per l’attuazione più alta e coerente della nuova idealità. In lui filosofia e politica, vita individuale e vita sociale si sono realizzate nella sintesi più concreta e consapevole. Egli, perciò, nel significato più proprio della espressione hegeliana, è un individuo portatore dello spirito57; anzi, “è il simbolo, e, meglio, che il simbolo, l’iniziatore di una nuova Italia”, perché la sua umanità non si riduce ad una vuota e vaga astrazione, ma egli è un uomo intero, appunto perché è quella “universalità che si concretizza nella storia e nell’individuo...vive concretandosi nell’individuo”58. Il che, nei suoi termini essenziali, non è altro che lo stesso discorso che Chiavacci aveva svolto nel suo articolo del 1924. Per il filosofo fiorentino, infatti, come abbiamo avuto modo di vederlo più sopra, anche Michelstaedter non elabora una teoria della persuasione, e il criterio che egli usa “è Michelstaedter stesso vivente. Filosofia non sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e il suo organismo vivo che non può contraddirsi”59; e il nucleo essenziale del suo pensiero, quindi, è l’attività vera, la vita, che non ha fuori di sé la vita “perché deve essere essa la vita”60. “La via della persuasione è se stessa e non ha un fine fuori di sé. Essa intanto è la vita dell’infinito nell’individuo finito, è la vera vita del finito: è processo, vita”61. Lo stesso tema verrà ulteriormente ripreso dal Chiavacci negli anni successivi. Il suo volume Illusione e realtà, del 1932 e sua prima opera sistematica di filosofia, per usare un’espressione di Eugenio Garin, può essere intesa “come una sorta di esplicitazione in positivo”62 del pensiero di Michelstaedter e in particolare come una prosecuzione della sua tesi su La persuasione e la retorica volta a metterne in risalto gli aspetti per così dire positivi, cioè il tema della persuasione. Dopo pochi anni, ossia nel 1936, dà alle stampe un Saggio sulla natura dell’uomo (Firenze, Sansoni) animato dal proposito di tradurre nella tensione dialettica di natura/uomo la precedente coppia di termini illusione/realtà e, così, di continuare la chiarificazione delle principali istanze michelstadteriane in rapporto alle posizionigentiliane. Tale compito campeggia sin dalle prime battute discorsive del saggio, che perciò viene presentato come una “visione di scorcio”, un discorso che “dovrebbe riuscire ad una riaffermazione di idealismo”.63 Nell’Epilogo, poi, il risultato dell’argomentazione discorsiva, considerato nelle sue rigorose e ultime conseguenze, lo porta ad individuare nell’atto gentiliano, ossia in quella che egli chiama la ragione poetica, il punto focale della riflessione attorno a cui disegnare il tracciato del confronto Michelstaedter – Gentile. E questo atto consiste in una liberazione e in un distacco da tutto ciò che è caduco e relativo; epperò, nello stesso tempo, conduce “a vivere con altra mente la vita che ci troviamo a vivere, un consistere nel qualunque punto la sorte ci abbia gettato, è accettazione, perché tale atto “non cerca nulla fuori di sè e l’unica sua gioia – unica pura gioia, se tale può dirsi – è lo stesso suo puro conoscere, la stessa sua assoluta liberazione interiore”64. In un altro saggio del 1947, apparso ancora una volta nel “Giornale critico della filosofia italiana”, Chiavacci affronta di nuovo, e non a caso, Il centro della speculazione gentiliana: l’attualità dell’atto. Nel farlo ammette che il centro dell’attualismo è l’attualità dell’atto, ossia l’affermare la realtà come un unico processo, un perenne “farsi quel che deve essere e non è”, atto come processo che è “assoluto possesso, realtà attuale immanente al suo farsi”. Per spiegare come sia da intendere questa affermazione di carattere fondamentale, Chiavacci analizza alcuni dei principali testi del Gentile; mette in evidenza, poi, che la realtà di cui il filosofo di Castelvetrano parla non è un fatto, ma libera creatività “che sfugge ad ogni metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di dentro”66. In questo processo, il finito, l’io empirico, il mondo, “che deve essere negato nella sua pretesa sufficienza, nella sua pretesa di sostituirsi all’infinito”, non viene abolito, ma “acquista tutto il suo valore, quando, vedendosene l’insufficienza in sé, è considerato nel suo essenziale rapporto con l’infinito...perché visto con altri occhi nella sua vera realtà” Per Chiavacci, in questo consiste la verità elementare e il valore incontestabile, positivo, di ciò che il gentilianesimo indica quando parla di attualità dell’atto. Non più filosofia in senso logico, ma vita in atto, attività giudicante e nello stesso tempo attività creatrice. Questo è l’aspetto più importante, avvincente e persuasivo, ossia il concetto della processualità dello spirito, in cui “il processo è veduto come perenne farsi, come assoluta perenne novità, e al tempo stesso come assoluta unità, come un nuovo che è sempre identico”68, un conoscere che è nello stesso tempo fare e vivere. In questa concezione, per Chiavacci sembra annidarsi, comunque, una difficoltà di fondo, cioè: anche l’attualità dell’atto sembra essere una forma di mediazione, di logica, e quindi in definitiva di oggetto; e perciò sembra cadere nell’accusa di panlogismo già rivolta a suo tempo contro la filosofia hegeliana. Ma questa difficoltà si supera se si tien conto che per Gentile l’attualità non è da considerare come una cosa, ma come “spirito, non fatto ma atto, farsi. Viene facilmente pensato che questa sia la nuova mediazione; giacché un farsi, un divenire, non può essere in sé un immediato, ma deve essere passaggio in atto dal non essere all’essere...Ma anche questa è mediazione logica”69. La soluzione di questo problema è di capitale importanza per poter intendere effettivamente il pensiero di Gentile e per far si che esso non sia da abbandonare come una realtà del passato definitivamente tramontato, ma sia “più vivo che mai”. Per sciogliere i nodi del problema e dissipare i dubbi, in modo da comprendere l’essenza stessa del nucleo centrale dell’attualismo, occorre tener presente che la mediazione attuale, di cui parla Gentile, nel caratterizzare il suo modo di intendere l’atto in atto, “è una mediazione non di opposizione, ma di distinzione, in cui non si afferma né si nega più, ma si vive direttamente, si possiede la propria vita, in quanto si vive la vita altrui, e si vive l’altrui in quanto si vive la nostra”70. Questo è il vero e incontestabile attualismo, ossia “lo spirito che sempre si fa, sempre non è, e che pure giunge a vivere questo suo non essere (cioè questo suo superare il finito) come l’eterna assoluta realtà (cioè come vita del finito in cui si realizza l’infinito)”71. Nei testi Filosofia dell’arte e Genesi e struttura della società, in particolare, Chiavacci trova conferma a questa sua rilettura del Gentile, soprattutto quando si parla nell’ultima opera del filosofo siciliano dell’individuo all’interno della Società trascendentale o societas in interiore homine: “la realtà, che è spirito, è originariamente, già nel suo principio, non un’unità semplice, un io indivisibile, un individuo atomistico: ma è unità fra un io e un altro che noi portiamo dentro di noi, una società orginaria per la quale soltanto ci possono essere l’io e l’altro” 72. Si tratta di fondare una società, in cui “l’io, essendo conciliato con se stesso, si trova anche conciliato con gli altri, e la vita di ciascuno è la stessa, identica vita di tutti. Solo nella misura in cui l’uomo giunge a realizzare se stesso, si crea per lui una più vera e libera società in cui l’uomo non è homini lupus, ma io nella sua più vera realtà, ora consapevole e perciò soltanto ora veramente reale nella sua concretaindividualità”73. Si tratta in altri termini di una dialettica tra logo e attualità o attualità dell’atto, che consente al Gentile, secondo Chiavacci, di prendere le distanze e di realizzare un fondamentale progresso rispetto allo stesso Hegel. Gli stessi termini fondamentali del lessico gentiliano fin qui illustrati (ma poi anche quelli di “illusione” e “realtà”) traducono in linguaggo attualistico la distinzione michelstaedteriana tra persuasione (vita del finito in cui si realizza l’infinito, campo in cui lo spirito si celebra e trionfa) e rettorica (affernazione illusoria di vita, individuo atomistico, ecc.). A ulteriore dimostrazione di quanto fin qui affermato, c’è un altro testo di Chiavacci, datato 1952, significativamente intitolato L’individuo74, in cui sin dalle prime battute discorsive si dice che non si “comprende Michelstaedter se non si comprende cosa significhi per lui ‘individuo’ “. Per cogliere il vero senso del pensiero di Carlo Michelstaedter, occorre allora tener presente che “egli è un uomo d’azione: il suo parlare è agire...un imperativo dunque, volto a creare una nuova realtà, in cui il mondo e gli altri siano a lui identici, siano una cosa sola con lui, in quanto egli abbia raggiunto una vita che abbia in sé la ragione, e che perciò sia giusta verso tutti, perché abbia raggiunto quel valore individuale che fa vivere ‘le cose lontane’ “. E, nella stessa pagina, nell’intento di mettere a in luce e cogliere il vero significato del pensiero di Michelstaedter, Chiavacci ribadisce ulteriormente che :”il valore individuale...è la concreta consapevolezza che la nostra essenziale esigenza trascende ogni singola determinazione. In tal modo si porta a una decisione la nostra vita,...allora la coscienza acquisterà un’unità reale, che né spazio e né tempo potranno minacciare, e il molteplice del mondo si unificherà anch’esso e si farà a noi interiore”. Giunti fin qui, il quadro che nei suoi tratti più peculiari ci si presenta agli occhi, in particolare dopo la sintetica analisi svolta di alcuni dei passi fondamentali e della vulgata attualistica e dei testi dati alle stampe da Chiavacci nell’arco di alcuni decenni, è quello di un tentativo di riguadagnare il più profondo significato dell’attualismo. Chiavacci, in altri termini, a partire dai primi anni Venti, riprende un motivo tipicamente attualistico, espressione di quell’idealismo che egli considera come la “più ricca eredità tramandataci dalla storia della filosofia moderna”77, e cerca di mostrare i legami di fondo che stringono Gentile a Michelstaedter. Colloca così in primo piano i punti di forza del momento dellapersuasione e, nello stesso tempo, del momento dell’attualità dell’atto per mostrare in che misura entrambi convergono, seguitando a dare frutti. Di Michelstaedter accentua, prolunga e rinnova il problema della persuasione e di Gentile quello dell’atto in atto, che si fa continuamente, che è vita. Il suo intento è quello di collocarsi all'interno dell'attualismo nell'intento di chiarirne alcuni suoi problemi fondamentali, per cogliere il senso più pieno, più recondito, del lascito gentiliano - e de La persuasione e la rettorica - e di non lasciare che esso venga ridotto a teoria, ad una chiusura sinteticistica o una formulistica ripetuta pedissequamente. Lo stesso Gentile, per Chiavacci, non sempre ha avuto piena coscienza degli ulteriori svolgimenti impliciti nel suo discorso sulla affermazione dell’attualità dell’atto, e ancor di più ai suoi seguaci è sfuggito il significato profondo di questa sua conquista, ma questo non autorizza ad arrestarsi alla lettera del suo discorso, ad una ripetizione puramente verbale di ciò che egli disse. Anzi, proprio questo “sarebbe non solo tradire lo spirito del suo pensiero, ma addirittura contravvenire al suo esplicito imperativo, di superare perennemente le forme individuate in cui il pensiero via via si realizza”.78 Così Chiavacci ritiene di poter cogliere negli scritti di Michelsteadter una forme maitresse, la cui chiave d’oro è data dal significato che quest’ultimo attribuisce all’individuo, come una di quelle verità fondamentali che una volta scorte non possono più essere perse di vista, ma che possono essere pienamente accolte e fatte oggetto soltanto di ulteriori svolgimenti e approfondimenti. Questa caratterizzazione dell’individuo, non più inteso come atomo e che perciò non può più rinchiudersi nella sua angusta empiricità, ma deve realizzare se stesso nella coscienza di una vita universale - cioè far si che nasca in noi “una nuova realtà, così che il mondo sia con noi una sola cosa”79 -, e che perciò “sceglie di permanere, sceglie l’ora, il qui, convertendoli in sempre e dovunque : sceglie la qualunque situazione che si trova a vivere, e esaurisce in essa l’infinita sua esigenza: far finito l’infinito, far vicine le cose lontane”80, rientra, sul terreno speculativo, nel grande alveo della teoresi gentiliana, della sua dottrina dell’atto puro, e rivela una profonda e sostanziale convergenza con essa, al di là di un differente uso terminologico e di enunciazioni gentiliane non sempre rigorosamente univoche. Nei testi successivi, fino ad arrivare agli ultimi scritti dati alle stampe tra il , Chiavacci conferma e sviluppa ulteriormente queste posizioni, sempre sullo sfondo del dialogo con Michelstaedter e con Gentile, ancora una volta nel tentativo di conciliarne leesigenze di fondo. Così in un saggio del 1955, significativamente incentrato su L’eredità di Gentile, si propone il compito di individuare e descrivere ciò che deve al filosofo di Castelvetrano. E nel farlo afferma senza mezzi termini:” Se mi domando...che cosa debba al pensiero filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, che egli lascia come preziosa eredità a quelli che son rimasti dopo di lui, e che sentono l’impegno di non disperderlo, così come i figli buoni sentono il dovere di non dilapidare, ma anzi accrescere, il patrimonio che il padre per amor loro onestamente aveva guadagnato e saggiamente risparmiato, non trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta di questa: la dottrina dell’atto puro”81. Su questo terreno speculativo, la chiave di volta è l’io; ed è un io senza residui intellettualistici che, per poter assolvere opportunamente il suo compito e realizzarsi senza impietrarsi, non deve avere alcuna realtà presupposta, ma deve “reintegrare la realtà dell’oggetto, senza farne un presupposto del soggetto, nè in ogni modo qualcosa fuori di questo” Si tratta qui di un io il cui carattere peculiare è di avere una infinita apertura e attualità - che si sottrae alle leggi precostituite di una logica formale, di una natura presupposta, di un mondo di idee già codificato e platonicamente costruito sin dall’eternità -, che si alimenta tutto e sempre “sull’infinita, indefettibile, unica attualità dell’atto” e consiste nell’essere “l’io pensante nelle sue infinite individuazioni storiche” o “la consapevolezza che l’atto ha di sè come forma immanente dello stesso suo concreto e individuato agire”, “assoluta responsabilità di chi si assume attualmente la responsabilità della propria vita nel cui infinito anelito è implicata la vita dell’universo”.83 Sicché non può esservi altro che una “eternità che sia il senso immanente della temporalità...un infinito che si realizzi nel finito redimendone la finitudine”; e questo è il guadagno speculativo più cospicuo dell’attualismo gentiliano, ossia “la più esauriente risposta alla ricerca del pensiero moderno, e tale da aprire la possibilità dei più felici sviluppi” Tuttavia, secondo Chiavacci, il filosofo siciliano non è riuscito a dare alla propria riflessione una formulazione in tutto e per tutto univoca; e anzi ha mantenuto aperte due possibilità interpretative, che hanno dato vita ad altrettante enunciazioni del suo pensiero, col rischio di invalidarne le ragioni più genuine e geniali. In particolare, Gentile non avrebbe assolto pienamente al proprio compito di riformare la dialettica hegeliana : avrebbe sì investito in maniera efficace e acuta Hegel dell’accusa di intellettualismo, per esser eglrimasto legato ad una dialettica del pensato, ma poi non avrebbe tratto tutte le conseguenze di questa sua battaglia e sarebbe ricaduto egli stesso in una dialettica a sua volta intellettualistica, cioè in “una teoria del reale che non è essa stessa il movimento per il quale il reale è; è il concetto dell’autoconcetto, per dirla con Gentile¸ e cioè non l’autoconcetto stesso, che per essere tale non può essere concetto, ma autocoscienza superante il concetto”.85 In altri termini, una volta intesa veramente la dialettica come dialettica del pensare, nella sua attualità, come vita dell’atto che è conceptus sui, questa attuosità non può essere colta da una teoria ad essa staccata e sopranuotante che trascenda e definisca il tutto, ricomponendo in sintesi la tesi e l’antitesi e ponendosi come terzo rispetto ai due momenti. Cosi facendo, per Chiavacci, si ricade soltanto, e ancora una volta, in una forma di platonismo o di dualismo; invece, la vita interiore dell’atto o, meglio, della soggettività dell’io trascendentale “non può esser conosciuta che per la consapevolezza che il soggetto ha di sé senza oggettivarsi, consapevolezza immanente al processo, in cui un momento in tanto è se stesso, in quanto è conscio del suo rapporto all’altro, così che il soggetto come vivente relazione non è terzo oltre i due momenti, ma è tra i due momenti stessi, che in tanto sono due in quanto ciascuno di essi è per se stesso il vivente rapporto di sé all’altro. La dialettica dell’Atto non può essere che una monodiade”.86 Il passo che Gentile avrebbe dovuto compiere per condurre a rigorosa coerenza il suo discorso filosofico consisteva nel far propria l’esigenza di una “dialettica attuale, fra momenti attualmente vissuti nella loro reale soggettività...la dialettica triadica degli opposti era un dannoso impaccio”; occorreva intendere “l’atto come il vivente attuale processo unitario in cui gli oppos ti si trasfigura non in distinti, in quanto l’io, realizzando la proprio apertura infinita, supera le determinazioni intellettive e attua quella coincidenza di individuale e di universale, così profondamente vista e così suggestivamente proclamata tante volte dal Gentile, la quale mal si concilia con la solitudine del logo come sintesi. Essa richiede invece un interiore dialogo fra logo e sentimento, che ben si può scorgere nel più profondo dell’esigenza gentiliana”. Solo così, ossia liberando la dialettica dai residui intellettualistici che ancora ne gravano la comprensione e il pieno sviluppo, è possibile riaprire il discorso e operare un rinnovamento dall’interno dell’attualismo, per farne fruttificare il lascito più genuino e importante. E questo è appunto l’intenzione fondamentale che pervade anche gli altri, successivi, scritti di Chiavacci - tutti volti alla miglior comprensione e all’approfondimento delle stesse istanze speculative – che aspira a connotarsiquesta sua più significativa e innovativa scoperta90; ed egli resta in definitiva ancora impigliato nelle stesse difficoltà di Hegel. Per rendersi conto di queste conclusioni, secondo Chiavacci occorre porsi all’interno della filosofia di Gentile e prendere in esame il problema del processo dialettico dell’autoconcetto, che è, appunto, il problema dell’intuizione, ossia dello spirito che vive nell’intuizione91; e poi è necessario cercare di rispondere all’interrogativo sul modo in cui l’io “distingue se stesso dal suo opposto, e nascano insieme soggetto e oggetto, nasce cioè la coscienzacome restitutrice del loro peculiare pregio ai motivi più propri dell’attualità dell’atto, per così dire mortificati da certe inadeguatezze, difficoltà di interpretazione, incomprensioni. In un altro, denso e complesso, saggio della tarda maturità su L’autocoscienza nella filosofia di Gentile, le posizioni fin qui prese in esame ricompaiono, imperniate sul bisogno di fornire ulteriori precisazioni e sviluppi alle stesse istanze teoretiche. Esse, infatti, ruotano sempre attorno al problema dell’atto e ai vari aspetti ad esso strettamente correlati, e si concentrano soprattutto sulla dottrina dell’autocoscienza e sulle sue articolazioni, perché essa, in quanto “intimità soggettiva dell’atto del pensare, in cui consiste l’essenza e l’esistenza concreta dell’Io, diviene il centro che sostiene la realtà di tutto l’universo”.Per Chiavacci, tuttavia, nonostante che attorno a questo problema graviti tutto il pensiero gentiliano, negli scritti del filosofo siciliano, tranne qualche sporadico cenno, non compare una esposizione adeguata del modo in cui l’Io trascendentale ha coscienza di se stesso. Nella Teoria generale dello spirito come atto puro, nel Sommario di pedagogia e in qualche altra opera, ad esempio, si dice quà e là, e in maniera stringata, che l’Io, l’atto, in quanto realtà presa nella sua infinità, come tutto, non è oggettivabile e che la vita dello spirito si conosce per via di intuizione, ma non vi è mai una esposizione e una trattazione esplicita di questo aspetto. In Gentile, poi, si dice anche che non v’è conoscenza che non sia logica, mediazione; e si riconosce che ogni grado della consapevolezza (sensazione, percezione, rappresentazione, intuizione, sentimento, e così via) è cosciente perché si tratta di distinzioni relative di certi atti psichici con certi altri, e in quanto tali, sul terreno del logo astratto, esse sono sempre espressione di un pensiero logico. Tuttavia, affinché l’atto spirituale sia veramente uno, questa distinzione per gradi tipica della psicologia empirica e di una concezione analitica dell’anima umana, nell’attualismo viene abbandonata. In forza di queste considerazioni, Gentile, secondo Chiavacci, per evitare di ricadere in una visione cristallizata dell’atto e così di considerarlo come mero fatto, oggetto tra oggetti, individua e ammette nell’intuizione una forma di logo che non è quella astratta del logo oggettivo, epperò la traduce in termini diversi da quello di intuizione, ossia con auto-concetto, facendo valere la distinzione tra pensiero pensante e pensiero pensato. Tuttavia, pur se questa via è in profonda dissonanza con i modelli della comune concezione psicologica precedente, sfugge al Gentile la piena portata dPer Chiavacci, la distinzione tra i due termini del discorso emerge in chiaro soltanto nel momento in cui c’è una forma dell’io che conosce se stesso distinta da quella con cui l’io conosce l’oggetto, perché nel lessico gergale idealistico, stricto sensu parlando, l’io non ha alcun contenuto; la realtà si risolve tutta nell’io, in quanto forma e contenuto si identificano. Questo è un aspetto che orienta tutto il quadro di pensiero di Gentile - e su cui egli è costantemente ritornato, sottolineando l’esigenza unitaria e monistica della sua filosofia – la cui chiarificazione comporta la necessità di precisare come concepire l’autocoscienza e “quell’autotrasparenza per la quale mentre vive la sua conoscenza delle cose, sa di essere in atto di conoscerle” .Si tratta qui di una iniziale intuizione di sé, che si svela ancora una volta come un atto logico, perché senza la mediazione propria del pensiero pensato, concettuale e oggettivante, “non ci sarebbe neppure l’intuizione del soggetto”. Questo atto iniziale però ha un carattere intuitivo, la cui peculiarità diventa ben distinguibile se si prende in esame il processo della conoscenza sin dal suo primo momento e se si tien conto, secondo Chiavacci, di come a partire da esso si articola l’unione/distinzione di soggetto e oggetto. Ci si accorge allora che si tratta di “un atto di analisi che dà per risultato due termini intuiti, cioè conosciuti, come reali, concreti, come due sintesi. Ed è questo carattere sintetico la spiegazione del fatto che anche l’oggetto, pur essendo opposto al soggetto, è come lo specchio in cui il soggetto si riflette, il contenuto della sua vita, il mondo che costituisce la sua vita: la stessa cosa è il suo vivere e il mondo che vive. E’ un conoscere logicamente anteriore al giudizio predicativo pel quale si può dire propriamente che nasce il concetto”. Negli ulteriori svolgimenti discorsivi, poi, sul terreno che in termini attualistici viene coperto dall’area semantica del pensiero pensato, in cui si analizza il contenuto sintetico datoci attraverso l’intuizione e si costruisce un fitto tessuto di relazioni concettuali, cioè la kantiana sintesi a priori del giudizio, non si fa altro che accogliere pienamente e non perdere di vista la verità “di quella sintesi a priori che c’è già nell’oggetto sintetico analizzato”, per esplicitarla in maniera analitica. Una cosiffatta mediazione concettuale, infine, da punto di vista del filosofo di Castelvetrano non può non riconoscere la propria astrattezza, cioè la coscienza di essere una “esplicitazione che rimane caput mortuum, se si distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l’intuizione costitutiva dell’attualità dell’io e che forse meglio si potrebbe dire sensus sui”. Quel che così si viene a colpire è la logica del pensiero pensato che per quanto utile e per certi aspetti finanche necessaria, come momento essenziale dello sviluppo dialettico, se abbandonata a se stessa verrebbe ad annullarsi e a ridursi ad un puro e semplice vaniloquio, ma che invece se si alimenta alla fonte di ogni mediazione, che è la consapevolezza di sè dell’io, crea per ciò stesso la propria ricchezza di sviluppi e trova nell’intuizione, cioè nella concreta unità dell’atto che è la sede dell’autocoscienza e certezza della verità, la sua vera e proficua radice. Questa certezza Chiavacci la chiama anche fede, un termine contro cui si sono addensate non poche critiche, ma che a suo dire potrebbe tener conto adeguatamente dell’apertura alla religiosità della vita spirituale mostrata da Gentile in tutto l’arco della sua produzione scientifica e, in particolare, negli ultima anni della sua vita. L’atteggiamento del filosofo siciliano nei confronti della religione, tuttavia, in proposito avrebbe potuto essere più evidente e di maggior respiro, se egli avesse stabilito con chiarezza inequivocabile come individuabile specificazione dell’autoconcetto ciò che esso veramente è: intuizione o sentimento Nel tracciato del grandioso disegno speculativo di Gentile, invece, è proprio questo il punto più debole e bisognoso di una riconsiderazione critica. Per Chiavacci, infatti, la sua costruzione logica, pur se foggiata in maniera geniale e improntata a una visione metafisica di grande rigore filosofico e fortemente innovatrice, presenta “il torto di tutte le metafisiche, di oltrepassare con la costruzione intellettuale, col loro logo pensato, l’unica autentica fonte della verità, il logo pensante, in quanto trasparenza della nostra vita a se stessa nell’attualità dell’atto”. Questo non significa affatto sminuirne l’importanza e le grandi possibilità che essa ci dischiude; anzi, il valore sostanziale delle sue tesi comporta il più ampio riconoscimento e consiste nel fatto che con esse noi “mettiamo a profitto ciò che egli solo ci ha insegnato, riprendendo l’aureo filone dell’analisi dei grandi filosofi sulla vita spirituale, e arricchendolo nella sua maschia originalità...Certo è che la filosofia del Gentile mi attirò fin dal mio primo contatto con essa; e più tardi, nel primo dopoguerra, quando ero quasi giunto al mezzo del cammin di nostra vita, mi fu di grande conforto per riconquistare fiducia, il che mi permise di riprendere il mio cammino attivamente. E di questo non cesserò mai di sentire gratitudine. E’ una gratitudine non minore di quella che debbo a lui in persona, per avermi sempre incoraggiato e aiutato affettuosamente in ogni circostanza della mia vita”. Questa conclusione riassuntiva implica il riconoscimento dell’importanza fondamentale della teoresi gentiliana e, nello stesso tempo, comporta anche l’impegno a farne fruttificare il più genuino e fecondo lascito. Chiavacci, proprio per questo, sottopone la teoria dell’atto ad approfondimento e revisione interna, in un ampio, continuo e serrato dialogo, con una disamina volta a stabilirne una più rigorosa coerenza che valga a guidare e inquadrare la propria riflessione speculativa. In particolare, la prospettiva a cui giunge Chiavacci, nel corso del suo lungo cammino intellettuale, presa nel suo complesso, comporta in definitiva un triplice guadagno: 1) un riuscito tentativo di promozione dell’opera dell’amico goriziano, per accreditarle una sua peculiarità e dignità filosofica, col metterla a confronto con la speculazione gentiliana; Chiavacci nello stesso tempo raggiunge anche una sua personale elaborazione teoretica dell’attualismo; 3) gli spetta così il merito, con questo suo atteggiamento rivalutativo di entrambi gli autori citati, non solo di aver speso con efficacia le sue migliori fatiche in difesa dell’amico, ma anche un posto d’onore, con una sua originalità e competenza, nell’ambito della letteratura che gravita su Gentile e l’attualismo, tanto da poter essere considerato come espressione di un indirizzo del pensiero filosofico contemporaneo in cui egli “appare indubbiamente tra quelli che più sono progrediti”. Senonché, a parte i riconoscimenti fin qui menzionati che gli sono stati variamente tributati, le acute indagini e la argomentazioni del Chiavacci, volte a svolgere una vigorosa opera di individuazione e di messa in chiaro di un comune ambito teoretico tra Gentile e Michelstaedter, non sempre trovarono unanime consenso; in alcuni casi esse suscitarono non poche perplessità. E’ questa, ad esempio, la convinzione di Ugo Spirito che, nel concludere la propria risposta all’amico Chiavacci, non esita ad affermare: “a me sembra Chiavacci, profondamente legato alle esigenze dell’attualismo e a quelle michelstaedteriane, non abbia potuto conciliarle fino in fondo, sia rimasto in una posizione intermedia tra la concezione dell’assoluto dialettico e quella dell’assoluto adialettico”. Su questo punto, comunque, la riflessione critica che gravita sugli autori fin qui presi in considerazione (alquanto lacunosa, a dire il vero, soprattutto negli ultimi anni e per quanto concerne l’esigenza e il compito di saggiare storicamente le posizioni di Chiavacci!!) a tutt’oggi non è concorde e perciò il problema della conciliazione tra la speculazione gentiliana e quella di Michelstaedter ci sembra tuttora aperto a ulteriori sviluppi e approfondimenti che sono ben lontani dal venire realizzati, come un compito non ancora del tutto assolto. Ben consapevoli di queste difficoltà, in queste paginei abbiamo inteso soltanto delimitare e precisare l’ambito di indagine, che è da valutare come un’ulteriore approsimazione al problema, e offrire degli spunti utili a sostegno della prosecuzione del discorso Gaetano Chiavacci. Keyowords: poetico, critica della ragione poetica, illusion, allusion, ludo, la natura dell’uomo, carteggio con Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiavacci” – The Swimming-Pool Library.
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