Grice e Carbonara – l’esperienza e
la prassi – Cicerone e il pratico -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Potenza).
Filosofo Italiano. Grice: “I like Carbonara; my favourite of his tracts are one
on ‘del bello,’ – another one on ‘dissegno per una filosofia critica
dell’esperienza pura: immediatezza e reflessione’ – but mostly his ‘esperienza
e prassi,’ which fits nicely with my functionalist method in philosophical
psychology: there is input (esperienza), but there is ‘prassi,’ the behavioural
output --; I would prefer this to the tract on the ‘filossofia critica’ since
I’m not sure we need ‘reflexion’ to explain, say, communication – not at least
in the way Carbonara does use ‘reflessione,’ alla Husserl. Conseguito il diploma liceale, si trasferì a
Napoli, frequentando la facoltà di filosofia. Ottenuta la laurea sotto Aliotta,
collabora per “Logos”. Insegna a Campobasso, Nocera Inferiore, Cagliari, Catania,
e Napoli. Con “Disegno d'una filosofia
critica dell'esperienza pura”, rifacendosi alla filosofia kantiana e
riprendendo il discorso idealistico ne mette in rilievo il tentativo fallito di
Gentile di dare concretezza all’astratto. Nell'attualismo, il ritorno all’atto,
al fatto, si risolve infatti nell'atto sempre uguale e sempre diverso del
pensare, unica realtà e verità del pensiero e della storia: «vera storia non è
quella che si dispiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell'eterno atto
del pensare».. Il problema secondo Carbonara anda esaminato riportandolo
alla sua origine, cioè al problema del rapporto tra esperienza e concetto, tra
realtà e concetto così come era stato affrontato dalla filosofia kantiana e che
Gentile crede di risolvere stabilendo un rapporto dialettico tra il concetto e
il suo negativo all'interno del concetto stesso. La soluzione invece era in
nuce secondo Carbonara nella sintesi a priori kantiana dove convivono forma
(segnante) e contenuto (segnato) per cui la coscienza è per un verso forma,
contenitore (segnante) di un contenuto (segnato) storico e per un altro *coincide*
col suo contenuto (segnato) in quanto il contenuto (segnato) non avrebbe realtà
al di fuori della forma della coscienza segnante. La successiva questione
si pone considerando oltre il rapporto del pensiero – il segnante -- con la
materia quella collegata all'origine del pensiero stesso. Ancora una volta Kant
intravede la soluzione nella teoria dell' “io penso” che però va ora intesa non
come la struttura logico-metafisica della realtà storica, ma come la sua
struttura psicologica ma *trascendentale* o "esistenziale", secondo
una concezione della "filosofia dell'esperienza pura" nel senso che
l'esperienza coincide col divenire della vita dello spirito e deve restare
indifferente al problema, ch'è propriamente di natura ontologica, circa la sua
dipendenza o indipendenza da una realtà diversa dal mio spirito. Il rapporto
tra pensiero e materia porta Carbonara ad indagare quello tra filosofia e
scienza con “Scienza e filosofia” in Galilei, in cui sostiene che mentre da un
punto di vista filosofico non si può andare oltre l'ambito dell'autocoscienza
(il mio spirito – Il “I am hearing a noise” di Grice) del cogito cartesiano, al
contrario la scienza si basa sulla necessità di fondarsi sul mondo esterno (nel
spirito dell’altro – intersoggetivita). Forse la soluzione di questa antinomia,
sostiene Carbonara, va ricercata nell'insoddisfazione dello stesso idealismo
verso se stesso non potendo rinunciare a
se stesso ma neppure al suo opposto -- nec tecum nec sine te -- solus
ipse. Si interessa anche della filosofia rinascimentale a Firenze. Nota come in
quel periodo si fosse realizzata una fusione tra il cristianesimo e il neo-platonismo
così come ad esempio in Ficino prete cattolico che visse la sua fede come
teologia razionale dando una base filosofica, trascurando la stessa
rivelazione, alla sua spiritualità religiosa: In Ficino, il platonismo si
congiunge al cristianesimo non soltanto sul fondamento di una religiosità
profonda da cui il primo appare permeato, ma anche per una tradizione storica
ininterrotta, per cui l'antichissima saggezza, ripensata da Platone e dai
neoplatonici, si ritrova trasfigurata ma tuttavia persistente nei Padri della
Chiesa e nei dottori della Scolastica. Come apprendiamo dall'Epistolario di
Ficino, la sapienza e intesa come un dono divino e come mezzo per cui l'uomo
può elevarsi fino a Dio. Tale principio fu poi appreso da Pitagora, Eraclito,
Platone, Aristotele, i neoplatonici. Riemerse nella speculazione filosofica
ispirata dalla Rivelazione cristiana e si ritrovò quindi in Agostino. Lo stesso
Cicerone figura nella catena dei platonici romani. Riallacciandosi a
quella tradizione e meditando sui testi platonici, Ficino concepí il disegno, portato
a termine di ricostruire su fondamento platonico la teologia il platonismo vi è
considerato come il nucleo essenziale di una teologia razionale i cui princípi
coincidono con quelli della rivelazione. Tale coincidenza è il principale
argomento con cui si riesce a dimostrare l'eccellenza del cristianesimo
rispetto alle altre religioni positive. Del resto Ficino è disposto ad
ammettere che qualsiasi culto, purché esercitato con animo puro, reca onore e
gradimento a Dio. Altre opere: “L'individuo, i dividui, e la storia; Scienza e
filosofia in Galilei; Esperienza; Umanesimo e Rinascimento (Catania) Del Bello;
Introduzione alla Filosofia (Napoli; Materialismo storico e idealismo critico; Sviluppo
e problemi dell'estetica crociana; I presocratici; Esperienza ed umanesimo
(Napoli) La filosofia di Plotino; “Persona e libertà”; Ricerche di un'estetica
del contenuto”; Esperienza e prassi; Discorso empirico delle arti, Il
platonismo nel Rinascimento. Iu un momento diverso dalla storica ora
presente of¬ frire in veste italiana alla coltura filosofica del nostro
paese il Sistema di Dottrina morale secondo i principi della Dot¬
trina della scienza di Giovanni Amedeo Fichte (‘) sarebbe stata opera già
esaurientemente giustificata e dalla gran¬ dezza di quel genio
speculativo, e dal vivo crescente inte¬ resse del nostro tempo per il suo
originale sistema ideali- stico-romantico, e dalla capitale importanza che
nella strut¬ tura del sistema stesso ha la Dottrina morale, e
dall’op¬ portunità, quindi, di agevolare la diretta conoscenza di
questa a quanti tra noi non fossero in grado di leggerla e gustarla nè
nella classica (nonostante i suoi difetti) edizione tedesca dovuta alla pietà
filiale di Fichte — divenuta oggi assai rara, ma di recente lori. Gotto.
Fichte, Das System der Sittenlehre nach <leu Prin- zipletl (lev
Wìsseuschaftslehre, Jena und Leipzig, Gabler, 1798. (*) V. il voi.
IV delle Opere complete (Sitmmtliche 1 Verke) di Giov. Am. Fichte, edite
in otto volumi e con assai utili prefazioni da Eli. Ehm. Fichte (Berlin,
Veit e C., 1845-46), dopo altri tre volumi di Opere postume
(Nachgelasseiie Werlce) apparsi per cura dello stesso editore a Bonn fin
dal 1884-35, ma aggiunti come ultimi agli otto prece¬ denti, i quali
diventano perciò undici. I difetti, che sono stati rim- fedelmente
riprodotta (con tatti i suoi difetti) da Fritz Me- proverati all’
edizione del Fichte figlio, consistono, tra gli altri — a parte le
critiche riguardanti 1’ordinamento generale degli scritti pa¬ terni
(sulle quali v. A. Ravà, Le opere di Fichte, in Rivista di Filo¬ sofia,
sett.-die. 1914) — in errori di stampa, lacune casuali o soppressioni
arbitrarie di una o più parole, aggiunte o trasposizioni di vocaboli,
deposizione dei capoversi e punteggiatura non sempre quali si avrebbe
ragione di aspettarsi, ecc. ; donde non poche nè lievi difficolta per intendere
bene e rendere esattamente in altra lingua il pen¬ siero dell’autore. La
qual cosa ci preme far rilevare, anche perchè non sembri esagerazione, se
diciamo che fu lavoro di non poca lena, sostenuta soltanto dall’interesse
per l’opera fiehtiana, quello da noi compiuto attorno a una traduzione
che ci proponemmo eseguire con la più 'scrupolosa fedeltà al testo
originale, ma, in pari tempo, curando il più possibile la chiarezza del
contenuto e l’italianità della forma. Al quale duplice fine ci parve
opportuno di riportare tra pa¬ rentesi curve ( ) le espressioni genuine e
più caratteristiche dell’au¬ tore, quando il nostro idioma non si
prestava a riprodurle se non inadeguatamente ovvero assumendo un certo
aspetto di stranezza, e di chiudere tra parentesi quadre [ J le
espressioni aggiunte dal tra¬ duttore con intento interpretativo o
dilucidativo. Il lettore, in tal modo, è sempre messo sull’avviso circa i
punti in cui il linguaggio dell’autore è meno trasparente e può giudicare
se talvolta al traduttore — secondo il noto bisticcio - non sia accaduto di
essere involon¬ tariamente il traditore del pensiero tichtiano. TI quale
pensiero riesce tanto più difficile a restituire nella sua forma genuina,
in quanto che esso non solo fu iu continua evoluzione e trasformazione,
ma ebbe dal Fichte, più oratore elio scrittore , le mutevoli formulazioni
occasionali adatte alla predicazione, all’insegnamento e alla polemica, anziché
la stabile struttura definitiva di un’opera d’arte destinata a tra¬
mandare ai posteri il documento autentico di un sistema compiuto; e la
Dottrina inorale, di cui ci occupiamo qui, risente anch’essa, nello
stile, del carattere proprio a quella gran parte delle opere del Fichte,
che sono o riproduzioni o preparazioni, ampiamente elaborate in iscritto,
di lezioni e corsi accademici. Si aggiunga a ciò che la Sit- tenlehre
(1798), e nel contenuto e uella forma, è la continuazione c
l’applicazione di quella Wissetischaflslehre che il Medicus, in una sua
monografia dedicata al Fichte, uou esita a chiamare “ il libro, torse,
più difficile che esista in tutta la letteratura filosofica (sie ist
vielleicht das schiiieriijste Rudi in der yesmnten philósophischen Luc¬
ratile) „ (cfr. Grosse Denker, editi nel 1911 a Lipsia, Verlag
Quelle dicus ( 1 ) — , uè nella libera e, proprio nei punti ove H
testo è meno chiaro, monca versione inglese fattane dal Kroeger; (in
francese o in altra lingua non ci risulta sia stata mai tradotta, il che
non ha certo contribuito ad accrescerle et Meyer, senza «lata,
<la E. vou Aster) — della Dottrina della Scienza abbiamo iu italiano
la traduzione fattane da A. Tilouer (Bari, Laterza, 1910) — j si noti,
inline, che il Fichte figlio sconsi¬ gliava il Bouillier dal tradurre in
altra lingua quelle, tra le opere del padre, che non avessero un
contenuto popolare e fossero scritte in una rigorosa forma
scientifico-filosofica — ecco le sue parole: “ .Te conseille de ne pas
traduire les oeuvres scientifiques proprement dites, «:t d’ uno forme
philosophique rigoureuse. 11 est à peu près impossi- ble de les traduire
«lana votre luugne; il faudrait les transformer et eu changer
l’exposition. Uue traduction littérale mirait le doublé iu- convénient de
taire violence à votre 1 angue, et de ne pas reproduire le veritable
esprit du système. „ (cfr. MéUiode pour arrivar à la tir bica heureuse
par Udite, traditit par M. Bouillier, aver, uno Introdaction par Fichte
le File, Paris, Ladrango) — : e si sarà, speriamo, meglio disposti a giudicare
con qualche indulgenza le manchevolezze anche da noi sentite, ma che non
riuscimmo ad evitare, so pur erano evitabili, iu questa nostra
traduzione, in cui la lettera do¬ veva più che mai venir suggerita e
giustificata dallo spirito della dot- liiua tradotta, onde ci s imponeva
di continuo la necessità di ripen- norr e, per quanto ci fu possibile, di
rivivere il pensiero del Fichte. '' 11 Jmc Gotti*. Fichte, IVerke,
Auswahl in sechs Btinden (mit nielli ci en Bildnisxen Fichtes ), edizione
e introduzione di FimtzMediCUS, Leipzig, 1908-1912. Non intendiamo
detrarre nulla alle lodi giustamente! tributate d’ ogni parte a questa
nuova edizione delle principali opere del Fichte, condotta di recente a
termine e salutata nel mondo fìloso- tico come un importante e lieto
avvenimento, soprattutto per il con¬ tributo che porterà alla diffusione
e alla conoscenza della dottrina lichtiana; dobbiamo soltanto osservare
che, almeno per quanto concerne .1 System der Sittenlehre, di cui diamo
qui la traduzione, la collazione del testo nelfediz. del Medicus non
presenta assolutamenta nulla di diverso e nulla di migliorato, rispetto a
quella del 1845-46 curata da Lm. Era. Fichte ; se mai, anzi, qualche
errore di stampa in più ; onde essa non ci è stata di nessun aiuto. Tanto
per la verità. () The Science of Etìlica as based on thè Science of
knowledge by Ioh. Gotti. Fichte, tradnz. di A. E. Kroeoeh. edita da W. T.
Har¬ ris (London, Kegau Paul, Treucli, Trubner et Co., Ltd.,
1907). il numero dei lettovi). Dorante, poi, l’attuale immane cata¬
clisma bellico che sì inaspettatamente ha tutta Europa scon¬ volto e le
nostre coscienze profondamente turbato, in questa tragica ora chè tigne
il mondo di sanguigno, perchè proprio nella terra classica dell’idealismo
filosofico, sfrenatasi l'eb¬ brezza mistica di una supposta superiorità
di razza e di col¬ tura, prevalso un malinteso spirito di egemonia
mondiale, straripata la prepotenza del militarismo, scatenatisi gli
istinti e le cupidigie più basse, la civiltà sembra inabis¬ sata nel buio
e la scienza si è trasformata, con scempio di ogni leggo umana e divina,
in strumento di barbarie, rin¬ negando quel carattere umano che della
scienza è e deve essere la vera, sovrana, immortale bellezza, in questa
im¬ mensa mina di tutta la scala dei valori, due forti ragioni di
più — contrariamente a quanto potrebbe parere a prima vista — c’inducono
all’opera stessa: da un lato mostrare con quale serenità, imparzialità e
altezza di vedute noi ita¬ liani, che più volte nella storia fummo
maestri di civiltà, sappiamo riconoscere, pur quando gli animi nostri
siano agitati da moti sentimentali avversi, il possente contributo
di pensiero e di moralità che gli spiriti geniali, a qualun¬ que nazione
appartengano, hanno recato alla coltura ; dal- 1’ altro fornire, con la
divulgazione delle dottrine morali di un filosofo tedesco come il Fichte
— da cui più spe¬ cialmente con grave errore si vorrebbe derivare il
panger¬ manismo — una prova di più della radicale deviazione che le
fiualità della Germania odierna, rappresentata dai Nietz¬ sche, dai
Treitschke, dai Bernhardi, dai Chamberlain, dai Woltmaun, segnano
rispetto alle idealità profondamente umane e universali rifulgenti in
tutta la letteratura e in tutta la filosofia della Germania classica,
rappresentata da un Leibniz, da un Lessing, da un Herder, da un
Gboethé, da uno Schiller, da un Kant e dallo stesso Fichte (*).
Perchè anche il Fichte, al pari del suo grande predecessoro Kant — il
filosofo della pace a cui Con esat- * tozza soltanto
relativa egli fu contrapposito come il filosofo della guerra —, aspirava,
pur con tutte le esagerazioni es¬ senzialmente teutoniche del suo
pensiero, al regno della ra¬ gione, al Vemunftstaat, basato sul
riconoscimento del va¬ lore dello spirito quale unico, vero e assoluto
valore, e co¬ stituito da personalità autonome e responsabili che
devono svolgersi soltanto entro le linee di un ordinamento razio¬
nale del tutto. Che se la magnificazione e la glorificazione della lingua
e del popolo tedesco a cui il Fichte assurge, a cominciare dai Caratteri
fondamentali dell’età presente (*) (*) V. in proposito nella Revue
de Métaphysique et de Morale (nov, 1914, pubbl. nel nov. 1915)
l’importante articolo di V. Basch, L’Al- le magne classique et le
pangermanisme. V. inoltre Sante Ferra ni, Fra la guerra e V Università
(Seatri Ponente, 1915); in questo di¬ scorso inaugurale dell'anno
accademico 1915-16 all’università di Ge¬ nova, l'A., dopo avere
stigmatizzato con indignata parola “ la nuova sofìstica, più audace e più
operativa dell'antica, die in Germania per decenni lavorò a eccitare gli
spiriti e a iriebbriarsi nel sogno del dominio mondiale a qualunque
patto,,, “ le iniquità senza pari, cor¬ ruttrici, vigliacche, brutali, e
le violazioni dei patti più solenni che quel popolo sostituisce .... al
valore degli eroi pagani, alla cavalleria del guerriero medievale „ e u
la volontà sinistra che informò i me¬ todi alla subdola preparazione
dell'immane delitto „ (p. 7), invita a distinguere in'quella nazione lo
opere dei grandi avi e quelle dei ue- poti : “ Quali e quante pagine
troveremmo nei primi, atto a rintuz- i zare, a riprovare, a distruggere
le smodate ambizioni dell’ oggi ! e quanti successori vedremmo
rinnegati!,, (p. 13) e, per antitesi, si ferma a illuminare nella loro
sublime purezza le figure del Kant e a» del Fichte. ( 2 )
Grundziige dea gegenviirtigen Zeilullers (Sanimi!. Werke, VI). Queste
conferenze, tenute nel 1804-05, si direbbero quasi altrettanti aifreschi
di filosofia della storia, di cui lo Herder aveva dato il mo. sino ai
Discorsi alla, nazione tedesca (*), attraverso la serie di opuscoli
politici intermedi ( 2 ), hanno potuto giustamente apparire come la
radice del pangermanismo, non ne segue perciò che il Pielite stesso fosse
un pangermanista. u Come ! esclama il Basoh ( 3 ), pangermanista quel
Fichte che parla nel 1807-08 a Berlino, ancora occupata dai francesi,
dinanzi a spie francesi, dopo Auerstftdt e Iena, dopo Eylau e Fried
iand, dopo quel trattato di Tilsit di cui sappiamo le stipu¬ lazioni
draconiane ! Chi non vede che appunto perchè il suo popolo era asservito,
umiliato, esposto a essere can¬ cellato dalla carta d Europa con un
tratto di penna del- l’onnipossente imperatore francese, e appunto perchè
la Germania era stata spezzettata, la Prussia smembrata, egli ha,
per legittima reazione e con sflflrzo ammirevole, esaltato, idealizzato,
divinizzato quel popolo, opponendo alla realtà la visione magnifica di un
avvenire che a lui stesso appa¬ riva problematico ? Le Reden sono un’ utopia
; un’ utopia cento volte quel Germano autoctono, quel Mut ter land
, quella lingua madre ; e il Fichte lo sapeva bene e 1’ ha
dello, e in cui il Ciclite, con una miscela di nazionalismo mistico o di
cosmopolitismo umanitario, tratteggia a grandi periodi l’evoluzione dei
genere umano dalle sue più lontane origini sino ai suoi più remoti
destini futuri, passaudo attraverso le cinque età: ni dell’ innocenze o
ragiono istintiva, b) dell’ autorità o ragione coercitiva, c) del peccato
o ribellione contro la ragione sia istintiva sia coercitiva, d) della
giustizia o arte della ragione, e) della santità o scienza della ragione.
(') Reden an die deutsche Nailon ( Summit. Werke, VII). (-)
Segnaliamo, tra gli altri, i Discorsi ai combattenti tedeschi al- 1
inizio della campagna del 1806 (Reden an die deutschen Kricgev zu All
funge des Feldzuges) (Stillanti. 11 erke t VII) e i dialoghi patriottici
dell’anno 1807, Il patriottismo e il suo contrario (Dei- Patriotismus und
sein Gegentheil), (Sananti. Werke, XI, Nacliyel. Werke, III). ( 3 1
V. art. cit., pp. 783-784. det-.fo egli st.esso. Questa
lingua, questo popolo egli li póneva non come già esistenti, ma come
qualcosa che bisognava creare, se si voleva salvare la nazione tedesca
dalla rovina totale e impedire che fosse radiata dal numero dei
popoli \ilidipendenti. Questa lingua e questo popolo non erano una
Veallà, ma un ideale, o meglio un imperativo „ ('). Del lèsto non abbiamo
avuto anche noi, nella nostra letteratura, un (fenomeno analogo ai
Discorsi alia nazione tedesca, in <\\i<\Primato morale e virile
degli italiani , in cui, inver¬ tendo, il puuto di vista fichtiano, il
Gioberti costruiva una filosofa della storia non meno utopistica, ma che
pur tanti petti sdpsse, taute anime accese negli anni più belli del
nostro riscatto (*) ? Che se poi il libro eloquente ed essen¬ zialmente.
opera di fede del Fichte sia inteso non alla let¬ tera ma nel suo
profondo significalo filosofico, spogliato dei suoi particolari
riferimenti spaziali e temporali e con¬ siderato sub specie aeternitatis
, allora non solo oltrepassa il valore di ubo scritto d’occasione, ma si
eleva all’altezza di un’ opera sublime, perennemente suggestiva di
nobili pensieri e di eroiche azioni. L’ autore, sempre ispirandosi
a quel suo idealismo immanente, che egli contrappone a (') Li il
leit-motiv proprio di tutta la filosofia fichtiana porre il “ dover
essere ossia 1' “ idealo „, come condizione creatrice e ragione
sufficiente e spiegazione finale dell’ u essere ossia del “ reale „. Se
il Kant potè dirsi il Coporuico dolla filosofia, in quanto trasferì il
punto di vista del problema filosofico dall' oggetto al soggetto, dal¬
l'essere al conoscere, il Fichte può dirsi anch’egli il Copernico della
filosofia, in quanto spostò di nuovo quel punto di vista dal conoscere al
fare, dall’essere al dover-esserc : la vera realtà, il vero assoluto sta
per lui nell’ideale, nel dovere. ( ! ) V., in Rivista di Filosofa
(ott.-dec. 1915 ), A. Faggi, Il “ Pri¬ mato „ del Gioberti e i “ Discorsi
alla nazione tedesca „ del Fichte. qualsivoglia dogmatismo,
specialmente se materialistico, sostiene in sostanza che non c’è
possibilità di filosofia e di poesia, di religione e di educazione, di
libertà e di progresso, se non là dove lo spirito crei o trovi in sè, e
in nessun modo attinga dal di fuori, il principio propulsore e
direttivo di tutta l’esistenza (*). Questo idealismo immanent/ egli
chiama filosofia tedesca, ossia viva, di fronte a qualsiasi filosofia
straniera, ossia morta. E che intende egli , per tedesco ? Non occorre ricordare che secondo il Fichte
vi sono dué sistemi filosofici rigorosamente conseguenti, ciascuno dal
suo punto/di vista: a) il dogmatismo, b) l’ idealismo. Ul^cio della filosofia
è spiegare l’espe¬ rienza, la quale è costituita dalle rappresentazioni
delle Còse. Ora si può a) o far derivare la rappresentazione dalle cose,
come fa il dogma¬ tismo, b) o far derivare la cosa dalla
rappresentazione, cóme fa l’idea¬ lismo. Lo scegliere l’una piuttosto che
l’altra delle dué vie possibili dipende dal carattere individuale. Un
sistema filosofico — bastereb¬ bero queste parole a mostrare quanta fede
pratica, quanta iniziativa per¬ sonale ed energia spirituale il Fichte
mettesse nella sua filosofia e quanta ne esigesse da chi questa filosofia
voglia comprendere — non è uno strumento inanimato che si possa a
piacimento possedere o alie¬ nare : esso scaturisce dal più profondo
dell’anima umana: “ Iras far eine Philosophie man wàihle, hangt... davon
ab, was man far ein Mensch ist: demi ein philosophisclies System ist
nicht ein todter Hausrath , dea man ablegen oder abnehmen honnte, irte es
mis beliebte, sonderà es ist beseelt durch die Seele des Menschen, der es
ìiat. „ (Erste Ein lei- tung in die Wissensehaftsle'ire , Scimmtl.
IVerke, I, p. 434). La scelta sarà diversa secondo che prevarrà in noi il
sentimento dell’indipen¬ denza e dell’attività o il sentimento della
dipendenza e della passi¬ vità; un carattere flaccido per natura, ovvero
rilassato e incurvato dalla schiavitù dello spirito, dal lusso raffinato
o dalla vanità, non s’innalzerà mai all’idealismo: 11 ein von Notar
schiaffar oder durch Geistesknechtschaft gelehrten Luxus and Eitelkeit
erschla/fler und gekrùmmler Chardhter toird sich nie zum Idealismus
erheben. „ (ibid.). E ciò, indipendentemente dalle ragioni teoretiche che
anch’esse dànno un’incontestabile superiorità di filosofia
esaurientemente persuasiva all’idealismo di fronte all’in9ufficiente e
assurdo dogmatismo. Nel settimo discorso, in cui si approfondisce il .con-
' cotto àe]Y originarie là, e germanicità di un popolo (‘) l’autore
stesso ha cura di far rilevar^ u con chiarezza per¬ fetta „ ciò che in
tutto il suo libro ha intesò per tedesco (was uoir in unsrer bishcrigen
Schilderung unter Deut- schen verstanden haben). “ Il vero e proprio
punto di di¬ visione — egli scrive — sta in questo: o si crede che
nel¬ l’uomo ci sia qualcosa di assolutamente primo e originario, si
crede nella libertà, nell’infinito miglioramento e nell’e¬ terno progresso
della nostra specie, oppure si nega tutto ciò e si crede di vedere e
comprendere chiaramente che è vero tutto il contrario. Coloro che vivono
creando e pro¬ ducendo il nuovo, coloro che, se non hanno questa
sorte, almeno abbandonano decisamente quel che non ha valore (,das
Nichtige) e vivono aspettando che da qualche parte la corrente della vita
originaria venga a rapirli con sè, coloro che, non essendo neppure tanto
avanti, almeno pre¬ sentono la verità, e non l’odiano o non la paventano,
ma l’amano: tutti costoro sono uomini originari e, considerati come
popolo, sono un popolo vergine ( Urvolk), sono il popolo per eccellenza,
sono tedeschi. Coloro, invece, che si rassegnano a essere un che di
secondo e derivato e chia¬ ramente concepiscono e riconoscono sè stessi
come tali, tali sono in realtà, e sempre più tali divengono in
forza di questa loro credenza; essi sono un’appendice della vita
che una volta prima di loro o accanto a loro viveva per impulso proprio,
essi sono l’eco che la roccia rimanda di () S’intitola: Noch
tiefere Erfassung der Ursprunglichkeit utid Deutscheit eines Volkes
(Sammtl. Werke, VII, pp. 359-377), (nella trad. ita!. Burich, Palermo,
Sandron). una voce già spenta, e, considerati come popolo, non sono
un popolo vergine, anzi di fronte a questo sono stranieri ed estranei
(Fremete und Andando-) „ (»). Ecco, dunque, che cosa significa: tedesco!
non già il tedesco considerato Ine et nune, ma il simbolo di un tipo
ideale, onde il Fichte, continuando, aggiunge: u Chiunque crede nella
spiritualità, nella libertà e nel progresso di questa spiritualità
mediante la libertà, egli, dovunque sia nalo, qualunque lingua
parli (wo es auch geboren seg und in welcher Sprache cs reile) e
dei nostri, appartiene a noi, ci seguirà; chiunque, invece, crede nella
stasi generale, nella decadenza, nel ricorso circo¬ lare e pone a governo
del mondo una natura morta, egli, dovunque sia nato, qualunque^lingua
parli, è non-tedesco (undeutscll), è per noi uno straniero, ed è desiderabile
che quanto prima si stacchi completamente da noi „ ( 2 ). I Di¬
scorsi alla nazione tedesca, dunque, soltanto occasional¬ mente si
rivolgono al popolo germanico, mentre nella loro profonda verità si
rivolgono a tutti i popoli moderni, a tutti gli uomini che hanno fede
nella libera spiritualità, di qualunque paese essi siano, additando a
ciascuno la via sulla quale si può servire alla propria patria
particolare e insieme alla gran patria comune, si può essere a un
tempo nazionalista e cosmopolita, perchè gl’ interessi su¬ premi ed
essenziali dell’umanità sono sempre e dovunque gli stessi. Ma
a dimostrare in modo* 1 definitivo quanto l’autore dei Discorsi sia
alieno dal cosidetto pangermanismo sta il () Reden an die deutsche
Nalioti (Stimmll. Werke, VII, p, 874), (nella trad. ital.).
(’) Ibid. p. 375, (nella trad. ital., pp. 144-145); il nerette
delle parole " dovunque sia nato ecc. „ è nostro discorso
decimoterzo, donde trae maggior luce il significato di tutti gli altri.
Si direbbe che i pangermanisti, ai quali piace farsi forti dell’auLorità
del uostro filosofo, si siano di proposito arrestati dinanzi a questa sua
arringa, che pure è il punto culminante verso cui tendono le rimanenti e
che può dirsi un vero catechismo antimperialistico. Tutto ciò che
all’imperialismo della Germania odierna sembra l’ideale che essa sarebbe
chiamata ad attuare: il possesso di colonie, l’esclusiva libertà dei
mari, il commercio e l’industria mon¬ diali, le guerre di aggressione e
ili conquista, la barbarie scientificamente organizzata, le vessazioni
sui paesi invasi, la visione di una monarchia universale, l’egemonia
assoluta, vi ò rappresentato come odioso e insensato (‘).
Ammettiamo pure che il Fichte abbia combattuto questa criminosa
megalomania perchè essa nel 180G s’incarnava sotto i suoi occhi nella
Francia napoleonica; non è men vero, però, che l’ideale opposto, a lui
caro, rispondeva in modo re¬ ciso a tutta una concezione politica che fa
di lui il figlio e il rappresentante più genuino della rivoluzione
francese. La sua vita, i suoi scritti di filosofia pratica e di filosofia
della storia nte sono prova ampia, piena, sicura, e se anche su¬
birono modificazioni, queste riguardano non il suo pen¬ siero e i suoi
sentimenti, i quali in fondo rimasero sempre gli stessi, ma le mutate
circostanze esteriori, il mutato aspetto della Francia, divenuta, da
repubblicana e libera¬ trice, imperialistica e liberticida. Nato popolo —
figlio di un povero tessitore, infatti, comincia la vita avviandosi
al mestiere paterno e guardando le oche — , egli sempre po-
(*) Kedeii ecc. (Sàmmll. I Verke, VII, pp. 459-480), nella irad. ital.,I
polo è rimasto nel più profondo dell’anima, per quanto ricca e
forte sia divenuta poi la sua coltura, a qualunque sommità della scienza,
dell’eloquenza e della gloria siasi inalzato il sùo genio. Già sin dagl’
inizi della sua fama si rivela un democratico ardente, giacobino quasi,
irrecouci- 1 iabile avversario di ogni pregiudizio religioso, politico
e nazionalistico. Subito dopo la sua Rivendicazione delia li- berlà
di pensiero dai principi d'Europa die /ino allora l'acecano oppressa
(1793) (‘), egli, nei suoi Contributi alla rettifica dei giudizi del
pubblico sulla rivoluzione fran¬ cese (1793) (*), plaude ai principi
dell’89 col fervido entu¬ siasmo d’un uomo la cui classe usciva redenta
da quel grande atto di liberazione sociale, e aterina la sua fede nella
rivo¬ luzione stessa, proclama i diritti del popolo, frusta a
sangue il militarismo, maledice alle guerre mosse da interessi o da
capricci dinastici, e lancia contro principi e monarchie as¬ solute i
primi strali di quell’eloquenza appassionata che fa di lui forse il più
grande oratore della Germania. Zuruckfarderung der Denkfreihe.it von den
Filrsten Europas, die eie bisher unterdriikten (Sdmmtl. If erke,
VI). (*) Beitriige zar Berichtigung der Urtheile des PubVcuins
iiber die franzòsische Revolution (Sananti. Werke, VI). C) In
queste sue prime opere politiche, elio per lungo tempo furono messe
all’indice in tutta la Germania, il Fichte mostra che la ri¬ voluzione
francese fu il prodotto necessario della libertà del pensiero, che la
persona morale ha il diritto di elevarsi contro lo Stato, e che l’uomo uscito
dalle mani della natura è autonomo, e che è inaliena¬ bile il diritto dei
cittadini di moditicare la costituzione, di uscire da un’associazione
politica per crearne una nuova, di fare ciò che ap¬ punto si chiama una
rivoluzione. Fine ultimo degli uomini ò la coltura di tutti per la
libertà, ma le monarchie, egli afferma, invece di lavorare al
perfezionamento dei sudditi, sono state centro di de¬ pravazione morale.
Come hanno inteso, infatti, i sovrani la coltura dei sudditi a loro
affidati? Sotto forma di educazione alla guerra; perchè, dicono essi, la
guerra coltiva. « Qra, è vero che la guerra Il Fondamento del
Diritto naturale secondo i principi inalza le nostre anime a
sentimenti e azioni eroiche, al disprezzo del pericolo e della morte,
alla noncuranza dei beni continuamente esposti ni saccheggio, a una
simpatia per tutto ciò che ha aspetto umano, perchè i pericoli e i dolori
sopportati in comune stringono di più gli altri a noi. Ma non crediate di
vedere in queste mie parole un pa¬ negirico della vostra follia
bellicosa, o fors’anco l’umile preghiera che l’umanità dolente
v’indirizzerebbe perchè non cessiate dal decimarla con guerre sanguinose.
La guerra non inalza all’eroismo se non le anime già per natura eroiche;
incita, invece, le anime poco nobili alla ruberia e all'oppressione della
debolezza priva di difesa. La guerra crea a un tempo eroi e vili
rapinatori, ma aitimi ’ delle due specie quale in numero maggiore ? „
(cfr. Sàmmtl. Werke, VII, pp. 90-91). Nel fondare e governare i loro
Stati i monarchi mirano a rafforzare la loro onnipotenza all’interno, ad
allargare le loro frontiere all’esterno: due fini, questi, tutt’altro che
favorevoli alla coltura dei loro sudditi. 1 monarchi pretendono di essere
i custodi del necessario equilibrio delle forze europee; ma questo fine,
se è il loro, è perciò anche quello dei loro popoli? “ Credete proprio —
egli domanda ai principi tede¬ schi — che l'artista o il contadino
lorenese o alsaziano abbia molto a cuore di veder menzionata la propria
città o il proprio villaggio, nei manuali di geografia, sotto la rubrica
dell’impero germanico, e che por ottenere ciò butti via lo scalpello o
l’aratro ? Il pericolo della guerra, ossia di ciò che lede e ferisce a
morte la coltura, ultimo fine dell’evoluzione umana, deriva unicamente
dalla monarchia assoluta, la (piale tende per necessità alla monarchia
universale. Sopprimete questa causa, e tutti i mali che ne derivano
scompariranno anch’essi, e le guerre terribili e i preparativi della
guerra, ancor più terribili, non saranno più necessari (ibid. p. 95). —
Più oltre, poi, troviamo il Fichte antisemita e antimilitarista:
antisemita contro quegli ebrei “ che sono refrattari ad assimilarsi alle
nazioni in mezzo a cui plu¬ vi vono „; antimilitarista contro l’esercito
del suo tempo “ che met¬ teva il proprio onore nella propria umiliazione
e trovava nell’impu¬ nità per le sue angherie contro i borghesi e i
contadini un compenso ai pesi del proprio stato „. E continua: “ Il più
brutale semibarbaro crede acquistare con la divisa militare una
superiorità sul contadino timido e spaventato, che sopporta le sue
prepotenze e i suoi insulti per non essere, per soprammercato, anche
bastonato. Il giovincello che può vantare più antenati, ma non certo più
coltura, considera la propria spada come un titolo sufficiente per
guardare dall’alto e con disprezzo il commerciante, l’uomo di scienza e
l’uomo di Stato. \Vilt — della Dottrina della scienza (1796) (') e
Lo Stato commer¬ ciale chiuso (1800) contengono auch’essi una filosofia
poli¬ tica che, scaturita interamente, oltreché dal pensiero kan¬
tiano, dai principi della rivoluzione francese, supera quel pensiero e
questi principi per le conseguenze economiche che egli fu il primo a
trarne, e approda aH’atfermazione di un diritto dei popoli e di un
diritto dei cittadini del mondo (Volker- und Weltbnrgerrechl) e alla
necessità di un’a¬ nione di popoli ( Vdlkerbund) — ben diversa da uno
Stato di popoli (Volkerstaat) — che garantisca la giustizia e porti
gradatamele alla Pace perpetua (zUm ewigen Friede) Grundlage des Natnrrechte
nach Prinzipien dee ìVissenscliafls Pin e (Siimmil. Werhe, IH).
(*) Ber geschlossene Handelsstaat (StillimiI. Werhe, III). Vediue-
auclie la traduz. ita!, di tì. B. P., Dell'intimo ordinamento di uno
Stato ec<\, Lugano, 1851, e l’altra (anonima) Lo Stato secondo ragione
e lo Stato commerciale chiuso, Torino, Bocca, 190». ( 3 )
Ecco, sommariamente, la dottrina politico-economica del Fichte: La radice
più profonda dell’Io è l’Io pratico o la libera volontà; e poiché alla
libera volontà di eiasenu individuo si contrappone quella degli altri,
nasce una libera azione reciproca tra lo diverse volontà individuali, per
regolare la quale gli uomini'hanno concluso il con¬ tratto sociale da cui
è uscito lo Stato. Nello Stato il potere legisla¬ tivo appartiene alla
comunità dei cittadini; l’esecutivo può essere af¬ fidato sia
all’elezione (democrazia), sia alla cooptazione (aristocrazia), sia
all’elezioue e alla cooptazione insieme (aristodemocrazia). Tutte queste
forme di governo sono egualmente legittime, purché vi sia accanto a esse
uu altro potere ìndipendente, VSforato, il quale decida dei casi in cui
il potere esecutivo, essendo caduto in errori o colpe, deve risponderne
dinanzi alla comunità. Oltre a questo contratto sociale- politico, il
Fichte, oltrepassando la prudenza borghese del Kant, il quale ammetteva
come legittima l’ineguaglianza economica accanto all’eguaglianza
politica, istituisce uu contratto sociale-ecouomico (Eitjenthumverlrag) /
egli proclama originari in ciascun uomo il diritto alla vita e il diritto
al lavoro, e di fronte alla proprietà privata (pro¬ dotti del suolo
coltivato, bestiame, case, mobili, ecc.) dichiara pro¬ prietà dello Stato
ciò che la natura produce da sola e ciòcia' la col- sino all’alt,imo anno
della sua vita, nelle lezioni sulla Z>n/- ' letti vitti produce
meglio del singolo individuo (miniere, foreste, grandi industrie, seryizì
pubblici, ecc.). Per l’elaborazione dei prodotti na¬ turali richiede
corporazioni di competenza tecnica, e sulla qualità o quantità dei
prodotti industriali il diritto di sorveglianza Ha parte dello Stato.
Donde segue la necessità che da uu lato i cittadini ri- uuuzino alla
libertà industriale, e dall’altro si stabilisca uno scambio armonico tra
i prodotti naturali e i prodotti industriali, essendo reci¬ procamente
gli uni indispensabili alla produzione degli altri. Per questo scambio si
è formata la classe speciale dei commercianti. Per impe¬ dire ai
produttori di elevare ad arbitrio i prezzi dei prodotti, lo Stato
accumula iu magazzini generali, mediaute prestazioni in natura degli
agricoltori e prestazioni d’opera degli artigiani, i frutti della terra e
gli strumenti del lavoro, si che i prezzi veugouo livellati. Per obbli¬
gare i produttori a vendere, lo Stato mette iu circolazione la moneta, la
quale rappresenta la somma di ricchezza che può essere venduta, e rende
possibile a uu produttore di cedere i suoi prodotti anche in un momento
iu cui non gli occorra ancora di prendere in cambio altri prodotti. E
atiinehè sia garantita la proprietà e regolata la circola¬ zione dei
prodotti e mantenuto l’equilibrio tra agricoltori, industriali e commercianti
— equilibrio che sarebbe turbato dall’importazione di prodotti stranieri,
dei quali i cittadini debbono assolutamente poter fare a meno - è
necessario che lo Stato vieti tutti gli accessi ai commercianti di fuori
e ai contrabbandieri di dentro, che sia cioè uno Stato commerciale
rigorosamente chiuso. Il Fichte si ripromette le conseguenze più
vantaggiose per la moralità del “ popolo fortu¬ nato „ elio adotti la
perfetta chiusura commerciale e viva soltanto di ciò che ò prodotto e
fabbricato dal paese, venduto e consumato nel paese (cfr. Der
geschlossene llandelsstaat, Sàmmll. ÌVerke, III, pp. 501-509), e conclude
che di li innanzi sarà la scienza il miglior legame intemazionale tra tutte le
nazioni divenute Stati chiusi : perché “ nessuno Stato della terra,
dopoché il sistema politico-economico dianzi descritto sia diventato
universale, e siasi fonduta pace perpe¬ tua tra i popoli, avrà il menomo
interesse a celare ad altri le proprie scoperte, giacché ogni Stato potrà
servirsene soltanto all’interno per il proprio sviluppo e non già per
opprimere gli altri Stati o acqui¬ stare una qualsivoglia preponderauza
su di essi. Nulla, quindi, impedirà la libera comunicazione tra i dotti e
gli artisti di tutte le nazioni: di 11 innanzi i giornali, invece di
guerre e battaglie, trattati di pace e di alleanza, conterranno soltanto
notizie dei progressi della scienza, delle nuove invenzioni, del
perfezionamento della legislazione e degli trina dello Sialo
('), tenute a Berlino nel 1813, proprio quando la Prussia si preparava a
quella guerra d’indi¬ pendenza che egli tanto si era adoperato a
suscitare, si domanda ancora una volta quale sia la guerra
legittima (der Wahrhafte Krieg) e risponde: Una guerra è giusta
soltanto qualora la libertà e l’indipendenza nazionale di un popolo siano
attaccati; gli uomini, per compiere il loro destino, devono formare
società libere, e uno Stato non ha valore se non in quanto può
contribuire all’avvento del regno universale della libertà e della ragione.
A questa guerra veramente popolare vuole il Fichte nelle sue
le- ordinamenti di governo; e. ogni Stato si affretterà ad arricchirsi
delle scoperte degli altri popoli.
Nè si ha a temere, del resto, dalla chiusura commerciate dei
singoli Stati il loro isolamento, perchè i rispettivi sudditi, iu quanto
cittadini del mondo (Weltbiirger), circolano liberamente da uno Stato
all’altro, portando seco i diritti inerenti alla persona e alla
proprietà; occorre anzi, per questo, una legislazione comune che
garantisca tali diritti e punisca l’ingiu¬ stizia commessa dal cittadino
di uno Stato a danno del cittadino di un altro Stato. I diversi Stati,
inoltre, fanno contratti, concludono trattati e sono rappresentati gli
uni presso gli altri da ambasciatori. Nel caso che uno degli Stati
contraenti violi il contratto, la guerra è 1’ unico mezzo per punirlo di
questa violazione. Ma ogni guerra è aleatoria, e se proprio lo Stato che
violò il contratto rimanesse vit¬ torioso, in quanto più forte?! A
evitare tale ingiustizia bisogna che un’Unione distati, meglio ancora,
un’Unione di popoli (VSlkerbund) s'impegni a punire, viribus uniti», lo
Stato che, appartenente o no all’Unione, si rifiuti di riconoscere
l’indipendenza degli Stati uniti o violi un contratto concluso con uno di
essi (Orundlage des Na¬ ta rrechts nach Prinsipien der
Wissenscliaftslelire, Sa minti- Werke , III, p. 379). Quanto più questa
Unione si allargherà, estendendosi a poco a poco su tutta la terra, tanto
meglio sarà assicurata la Pace perpetua (der ewige Friede), che è il solo
rapporto legale tra gli Stati: la guerra dev’essere soltanto mezzo al
fine supremo, che è la conser¬ vazione della pace; mai fine a sé stessa. Die
Slaalslehre oder uber das Verhaltniss des Urstaates zum Vernunftreiche
(Siimintl. Werke, IV). zioni preparare gli uditori, perchè è questa “ la
guerra legittima, la guerra cioè in cui non si tratta di famiglie
regnanti, ma in cui il popolo si leva a difendere la pro¬ pria vita, la
propria individualità, le proprie prerogative, la guerra a eui soltanto i
vili vorrebbero sottrarsi, e per cui invece i cittadini con esultanza
daranno i loro beni, il loro sangue, rifiutando ogni proposta di pace
sino a che non siano garantiti contro ogni minaccia ulterio- re „
('). L’oratore, è vero, contrappone ancora una volta qui il carattere
germanico al carattere neolatino e spe¬ cialmente al francese, per
concluderne che non bisognava aspettarsi certo da un Napoleone,
strangolatore della na¬ scente libertà della Francia rivoluzionaria,
l’attuazione del regno di giustizia che l’architetto del mondo affidava
invece al popolo tedesco; ma ciò attesta anche come il filosofo pa¬
triota del 1813 fosse sempre sotto la medesima ispirazione che lo animava
veut’anni prima nel suo entusiasmo per la rivoluzione francese; e,
malgrado tutte le apparenze in con¬ trario, è sempre la medesima
ispirazione quella che tra¬ spare nel Disegno ili uno scritto politico
della prima cera Ì813 ( 2 ), destinato a illustrare il proclama del re di
Prussia “ Al mio popolo „ : quivi il Fichte, se, dinanzi al
pericolo mortale che minacciava la nazione tedesca, riconosce la
necessità di porle a capo come despota sovrano (, Zwingherr) il re di
Prussia, uou perciò rimane meno fedele al suo ideale democratico; per lui
— ha dovuto riconoscerlo lo stesso (*) Veber den Begriff des
wahrhaften Krieges (Summit. IVerke,
(*) 4 «a dem Entwurfe zu etnei- politischen Schrift ini
FruhUnge 1813 (Stimma. Werke, VII). Treifcscbke (') — la
"Repubblica, senza re, senza principe, senza signori, è sempre il
vero Stato di ragione. Passato il pericolo, il sovrano stesso dovrà
adoperarsi con tutte le sue forze a disabituare i suoi sudditi dalla
soggezione, a (>) Fichte nini die nationale Idee, in
Historische und politiseli* Aufsalse, 4. ediz. Leipzig, Hirzel, 1*71,
voi. I, p. ISo. « Nodi inumo- sehwebt ihm als hòchtes Zini vor Augeu eine
“ Republik dei- Deutschen oline FUrsten und Erbadel „, dodi er begreift,
dosa diesea Zini in weiter Ferne liege. Fui- jetzt gilt ee da* “ die
Deutscbeu sioh selbst mit Bewus 9 tsein maoheu „ ». Si, è vero, il Fichte
colloca in un tempo ancora assai lontano la vagheggiala attuazione del
suo ideale repubblicano, al punto che uno ilei frammenti di una sua opera
po¬ litica, scritta a Kònigsberg nell’inverno 18011-07 e rimasta
incom¬ piuta s’intitola: La repubblica tedesca al principio del sec.
XXII, sotto il suo V." protettore (Die Republik der Deutschen su
Anfani / des sirei- und zwanzigsten Jahrhunderls, un ter ihrem fiinften Reichsvogtei,
ina intanto quale coraggioso e severo linguaggio rivoluzionario egli
tiene contro i principi alemanni, cosi in questo frammento come al¬
trove! Cou la spietata crudeltà del chirurgo che, per guarire radical¬
mente una piaga purulenta, affonda il bisturi nel pili vivo delle carni,
egli mette a nudo tutti i difetti e le turpitudini del suo tempo e del
suo paese e propone come rimedio una nuova costituzione, la quale
dovrebbe stabilire l’eguaglianza di tutti' i popoli teutonici e non am¬ mettere
altra disuguaglianza tra gl’individui elio non sia quella del- p ingegno;
una costituzione adatta a una nazione come la germanica, la quale,
die’egli, pressoché incurante del giudizio dello altre na¬ zioni, ha la
caratteristica di raccogliersi in se stessa e di min chie¬ dere nulla più
che di vivere pacificamente secondo il proprio genio. “ Una nazione, la
quale, còme la tedesca, non mira che ad affermare e conservare per sé la
propria torma disesistenza (ibr eigentìiiimliches St'jti) e in nessun
modo a imporla ad altri (keinesweges anderen es aufzudringen), non senza
intenzione é stata collocata in mezzo a po¬ poli , i quali, tosto che
abbiano acquistato una mediocre quantità di coltura, sentono il bisogno
di diffonderla al di fuori; nell’eterno di¬ segno della storia umana essa
è destinata a servire di diga a questa intempestiva invadenza e a fornire
non solo a sé stessa , ma a tutti gli altri popoli d’Europa la garanzia
di poter progredire, ciascuno a suo modo, verso il fine comune (.... sie
seg [die deutsche Natimi ], im eteigen Entwurfe eines
Menschengeschlechles jm Qanzen, bestimint, als ein Damm dazustehen gegen
jene unzeitige Zudringlichheit, und uni renderli, in altri termini,
capaci di fare a meno di lui.. u Se cosi non dovesse avvenire nel futuro
della Germania — esclama egli con forza — importerebbe poco che una
parte di essa fosse governata da un maresciallo francese come
Bernadotte, nel cui spirito almeno sono passate le visioni entusiasmanti
della libeità, piuttosto che da un signorotto tedesco, tronfio d’orgoglio,
immorale e di una brutalità e di un’arroganza sfrontate „ ('). Quando si
leggano queste parole contenute in quel medesimo Scritto politico della
pri¬ mavera. ISIS, che non interamente a torto si è potuto con¬
siderare come il luogo letterario in cui l’autore si è più inoltrato
sulla via del nazionalismo, e quando si ricordi il noto particolare della
vita del Fichte, ili avere cioè, nel febbraio 1813, dopo la disastrosa
campagna di Russia, impe¬ dito come un orrendo delitto il macello a tradimento
della guarnigione lfaucese rimasta a Berlino, chi vorrà ancora
vedere nel nostro filosofo un pangermanista a cui si possa far risalire
la responsabilità non solo delle teorie insensate degli odierni
teutomani, ma persino del cinismo satanico con cui e per terra e per aria
e per mare pretendono ap- nichf tuie sich, sonderà nudi alien
anderen europaischen Vblkern die Garantie zu leisten, ilass sie auf dire
eigene Weise laufen konnten zìi detti gemeinsamen Siete) „ (Sdmmtl.
Werke, VII, p. 633). Quale stridente contrasto tra l'ufficio
storico-politico che il Pielite asse¬ gnava alla nazione tedesca o quello
che la Germania odierna pre¬ tende arrogarsi ! (*) Aus dem
Enluourfe eie. {Siimitili. ÌVerke, VII, p. 669). « Weun wir dahor nieht
im Auge behielten, vvas Deutschland zu werden hat, so 18ge an sich nicht
so viel durun, ob ein franzusischer Marscliall, wie Bernadotte, an dem
weuigstens friiher begeisternde Bilder der Freiheit voriibergegangen
sind, oder ein deutscher aufgehaseuer Edel- maun, ohne Sitten uud mit
Rohlieit und frechem Ueberrauthe, iiber eineu Theil von Deutschland
gebiete. » plicarle i novelli barbari odierni, i rossi devastatori
joiù veri e maggiori dello stesso Attila flagellum Dei? Tanto
più tempestivo, e tanto più salutare e conforte¬ vole ci sembra, dunque,
dinanzi alla mostruosa degenera- zioue del senso morale di cui dà
spettacolo l’odierna nazione tedesca, ostentando di non riconoscere altro
diritto all’in¬ fuori del despotismo e della forza bruta, rievocare
dalla letteratura classica di questa stessa nazione la dottrina mo¬
rale di uno dei più grandi assertori e della forza del diritto e del
diritto che individui e pispoli hanno alla giustizia, all’indipendenza,
alla libertà. Chi abbia seguito nella storia della filosofia le
vicende toccate alla dottrina di G. A. Fichte ('), avrà notato come
al grande entusiasmo e ai vivaci dibattiti suscitati dal suo primo
apparire succedesse per vari decenni un immeritato oblio, dovuto al
predominio delle 1 dottrine uscite dal suo seno e specialmente dello
hegelismo, i cui rappresentanti, imponendo alla storia della filosofia un
loro preconcetto di scuola, quello cioè di non tener conto nella
speculazione prehegeliana se non di quanto avesse contribuito a
prepa¬ rare il sistema del loro maestro, avevano abituato a vedere
nel Fichte nulla più che il pensatore da cui era derivato un deciso
indirizzo idealist ico alla speculazione post kan¬ tiana (’). Vani furono
gli sforzi del figlio ilei Ficht.e, Ema- (') Ofr. in proposito A.
Ravà, Introduzione allo studi» tirila filo- sofia (li Fichte, Modena,
Formiggiui, 1909, pp. 13-22. ( s ) V., per es., Karl Ludw.
Michelet, Geschichte der lefzten Sy- steme der Philosophie in Deutschland
voli Kant bis Hegel (Berlin, 1837-38), in cui alla prima filosofia del
Fichte seno dedicate le miele Ermanno, per mostrare il valore che la
filosofia, pa¬ terna aveva per sè stessa ('). Soltanto verso la metà
del sec. XIX, col risvegliarsi dello spirito nazionale germanico,
risorse la fortuna del grande rigeneratore della coscienza tedesca,
del filosofo popolare, dell’oratore eloquente, del fer- *
vido nazionalista, ilei supposto pangermanista; ma, appunto per
questa circostanza, l’attenzione fu rivolta di preferenza alla sua
filosofia politica, arbitrariamente o artificiosamente interpretata (*),
e il centenario della nascita del Fichte, nel 1862, fu solennemente
celebrato da tutta la Germania pp. 481-587 ilei voi. I, e alla
seconda filosofia le pp, 129-204 del voi. II; A. Oli', avendo avuto il
torto di prendere quest’opera come guida principale per una conoscenza
della filosofia tedesca postkantiana, fu trattò a un’eccessiva reazione
contro il Kant e contro lo hegelismo nel suo libro: Hegel ri la
philosophie allemande (Paris, 1844). (') Di Em. Ehm. Fichte, oltre
le Prefazioni (dianzi ricordate) a vari degli undici voli, delle Opere
complete di G. A. Pielite, vedi ancora: i Beitràge sur Charuk'teristik
dar ncueren Philosophie (Sulzbach, 1829) di cui la 2.“ ediz. (18-11) può
considerarsi come un’opera nuova; il voi. .7. G. Fichte ' s Lehen and
litterarlscher Briefwechsel (Sulzbach, ISSO), con cui, prima ancora che
con la pubblicazione delle opere, cercò richiamare l’attenzione sulla
personalità e sull’attività pratica del padre, affinchè nascesse cosi
gradatamente anche l’interesse per il suo pensiero; e infine V Introduci
ion (in frane.) alla Méthodc pour arriver à la vie blenheureuse par
Fichte (traduz. Bouillier) (Paris, 1845). ( s ) V., per es.: t due
voli, del Busse, Fidile und sei ne Bezìehung zar Gegenwart des deutsehen
Volkes (Halle, 1848-49), la conferenza dello Zeli.eh, l'idi lo aìs
Politiker (1859, ristampata in Zelleh, Vor- Irdgr und Abliandlinigen,
voi. 1, Leipzig, 1865) e l’opuscolo del Las¬ sa lle, Melile's poìilisches
Vermdchtnis and die neuesle Gegenwart (Hamburg, 1860, ristampato in
Lassallk, Reden und Schriflen, Berlin, 1891-93, voi. I). Bisogna, invece,
uscire dalla Germania per trovare, negli anni immediatamente anteriori alla
metà del sec. XIX, un’espo¬ sizione prettamente storica e serenamente
obiettiva di tutta la filo¬ sofia del Fichte quale si ha nella solida
opera del Willm, Histoire de la Philosophie allemande drpttis Kant
jusqu’k Hegel (voi. 11, Paris 1847), opera premiata, su relazione del de
iléinusat, dall'istituto di con significato più politico che filosofico; — mia
singolare fatalità, poi, (che sembra un’ironia della storia a chi
in¬ tenda il vero senso delle teorie politiche del Fichte) ha vo¬
luto che il cèntenario della sua morte, nel 1914, coincidesse con
l’irrompere improvviso della premeditata aggressione pangermanistica! —
('). Francia e ancora utile e pregevole, nonostante la sua
vetustà; la si può leggere con profitto anche dopo le ampie ed eccellenti
monografie posteriori del Fischer (Fichles Leben,\Verke und Lehre,
Heidelberg, 18691900 3 ") e del Leon (La philosophie de Fichte et
ses rapportò uvee la conscience coti tempo faine, Paris, 1902), il quale
ultimo ha de¬ dicato al suo soggetto per molti anni un lungo studio e un
grande amore. ( l ) Questo carattere politico-nazionalistico
degli scritti usciti in occasione del centenario del Fichte fu ben
rilevato da von Rkichi.IN- Memusco nel suo articolo l)er hundertòte
Geburistng ./. O. Fichtes (in Zeitschrift fiir Philosophie uud philos.
Kritih, Nuova serie, voi. 42, Halle, 1863). Vedine la lunga lista
nell’UKBERWKO-HEiNZE. Grundriss der Geschiclite dcr Philosophie, IV,
Berlin, 1906, p. 8; qui basti ricor¬ dare per tutti il discorso già
citato del Treitbchke, Fichte i ind die nutionale Idee. L’uso e l’abuso
del Fichte a scopi patriottici e impe¬ rialistici non cessò io Germania
col conseguimento dell'unità tedesca ; più di una volta le conferenze
tenute nelle università tedesche in occa¬ sione del natalizio
dell’Imperatore hanno avuto per argomento pre ferito la personalità o
qualche dottrina particolare del Fichte: per es., nel 1890 all’università
di Strasburgo, terra di conquista, il Windel- band faceva un’alta
affermazione di germaniSmo parlando del Videa dello Stato tedesco secondo
il Fichte (Windelband, Fiehte's Idee des dent- schen Stante, Freiburg i.
Breisgau, 189oT; nel 1909, all’università di Kiel, Golz Martius
inneggiava al cinquantesimo anno di Guglielmo II, ricordando la vita e
l’opera “ di un uomo, il quale ha grandemente cooperato all’elevazione e
all’emancipazione delle forze morali della Germania, e della cui azione
efficacissima, insieme e accanto alla con¬ cezione politica dello Stein,
ricorre oggi il centenario; di un uomo, a cui appunto ora la nazione
tedosca si appresta a dimostrare la pro¬ pria gratitudine inalzandogli un
monumento nella capitale [e il mo¬ numento è poi sorto a Berlino],
insomma, di Giovanni Amedeo Fichte „. (Redc zur Feier des Geburtstages
seiner Majeshit des Deutschen Kai- sers Kdttigs von Preiissen Wilhelm 11
von Golz Martius, Kiel, 1909). Se nella seconda metà del sec. XIX tra
molti scritta' rolli di occasione cominciò ad apparire qualche studio
serio di tutta l’opera fichtiaua ('), il suo aspetto, per lo
sposta¬ mento dell’attenzione dal lato politico ai fondamenti teo¬
retici del sistema, fu non meno unilaterale di quello che continuarono a
presentare, in tempi più recenti, le disser¬ tazioni te le monografie
sulla dottrina giuridioo-sociale del (•) Ricordiamo, per es. : il
Lòwio, Die Philosophie Fichte’s iiach (lini Gesaimntergehnisse ihrer
EntuHchelung und in ihrem Verhiilt- nitise zìi Kant unii Spinosa
(Stuttgart, 1862) [l’Autore, seguace del dualismo de[ Giintlior e perciò
d’indirizzo radicalmente opposto a tinello del Fichte, mira specialmente
a mostrare la logica coerenza in cui le due diverse forme assunte
dal sistema fichtiauo stanno al prin¬ cipio fondamentale del sistema
stesso anche là dove, secondo lui, si con¬ traddicono, pei concluderne
l’insufficienza del principio stesso]; il L.\s- soN, ./. G. Fichte Un
Verhaltniss zu Kirche und Slaat (Berlin, 1863) [l’Autore, dominato,
com’è, dall’ idea religiosa quale può rientrare nella concezione
hegelismi, considera fondamentale la seconda forma della lilosolia
lichtiana, quella in cui prevale il pensiero religioso, pur giu¬
dicandola non riuscita e insoddisfaeeute] ; e sopra tutti il già ricor¬
dato Fibciusr, Fichtes Leben, Werke und Lehre (voi. V della 1."
ediz. Heidelberg, 1869, e voi. VI della 3.“ ediz.. 1900 della Geschichtc
der neueren Fhilosophic) [opera veramente classica per la larghissima
e accuratissima esposizione di quasi tutte le opere del grande idealista;
in essa si sostiene la tesi che le due forme della filosofia lichtiana,
quella anteriore al 1800 e quella posteriore, non sarebbero che duo
opposte direzioni assuute rispetto allo stesso principio fondamentale del
sistema: uel primo periodo il Fichte, partendo dalla lilosolia teore¬
tica, si sarebbe elevato alla filosofia del diritto, alla lilosolia
morale, alla filosofia religiosa, all'Assoluto; quivi, infatti, il
postulato di quell'ordiuamento morale del mondo, che per lui la tutt uno
con 1 In assoluto e con Dio (die lebendige unii loirkende moralische
Ordnung itti selbst Goti), è il punto di arrivo; noi secondo periodo,
invertito il cammino e trasformato quel postulato da punto di arrivo in
putito di partenza, il Fidilo avrebbe preceduto dall’Assoluto alla religione,
alla morale, al diritto e alla scienza. — Più denigratore che profoudo
è stato giustamente giudicato, infine, il libro del NoàCK, J. G.
Fichte nach sei non Leben, Leliren und Wirken (Leipzig,
1862). filosofo tedesco, inopportunamente staccata da tutto il resto
deli’edifizio speculativo. Anche nella maggior parte degli odierni
studi storici sul Lichte divenuti più che mai frequenti dopoché al
moto neo-kantiano iniziatosi al grido: ritorniamo al Kant! (zurìick zu
Kant!) (') si associò, come orientamento filo¬ sofico, un moto
neo-fichtiano: ritorniamo al Fichte!j(zuriick zu Fichte!) che è andato
sempre più accentuandosi dagli ultimi decenni del secolo scorso ai giorni
nostrf (*) è - \ j (') 11 ritorno al Kant si suole
farlo risalire alla celebre lezione dello Zellar: Ueber die Bedeutung und
Aufgabe der Er/iJnntnistheorie (Heidelberg, 1862); ma già nel 1847 il
Weisse pronunziava a Lipsia un discorso: In welchem Sitine sich die
deutsche Philisopkie wieder a " Kanl zu orientieren hai (Leipzig,
1847),. dal quale si rileva la sua avversione alla dialettica hegeliana e
il suo sforzo por contrapporre al panteismo idealistico un teismo
etico. n? V ' m P ro P oa ìto I’Uebeuweg-Hbinzb, Grundtjss der
Geschichle (ter p/iilosop/tie seit Beginn des neunzehnten Jahrhundcrts
(Berlin, 1906, 10» ediz.), § 26, Elnwìrkung Fichtes auf neuere Lahren,
pp. 264-269* e .coltre le pp. 317, 347, 361, 514, .547-548. Se ne ricava
il largo é potente influsso che la filosofia fichtiana, intesa sia come
idealismo soggettivo, sia come idealismo etico, sia come panpsichismo, ha
eser¬ citato e sopra le varie nuove dottrine sorte in Germania e sopra
menti speculative di altri paesi (Inghilterra, Nord-America, ecc.). Per
la re¬ cente e assai ricca letteratura intorno al nostro filosofo vedi lo
stesso voi. dell’Uebervveg-Heinze, pp. 8-9, il Baldwin, Dictionary of
philoso- phy and psychology (New York-London, 1905) voi. IH, parte
I, pp. 204-208, e per quella recentissima, ancor yù abbondante, cfr. i
quat-’ tro voli, editi da Arnold Rude, Die P/iilosop/tie der Gegemoarl
(Hei¬ delberg, 1910-1914) e contenenti pressoché tutta la bibliografia
filosofica internazionale degli anni 1908-1912. Nel 1914 (centenario
della morte del Fichte e scoppio della guerra europea) la Bibliotheh fUr
Philosop/tie, edita da Ludwig Stein, pubblicava l’opuscolo di P. Stàhler,
./. G. Fichte, ein deutscher Den/ter (conferenza tenuta il 23 aprile nel
cir¬ colo tedesco di Charcow in Russia), in cui FA., movendo dal*
bisogno spirituale oggi sempre più intensamente sentito di una nuova
orien¬ tazione circa la concezione del mondo, affermava essere appunto
il Fichte il più atto a fornire una chiara risposta alla questione,
una forse da rilevare una certa esclusività d’interesse, corri¬
spondente all’ interesse prevalentemente critico e gnoseolo¬ gico che ha
animato siuo a ieri il pensiero contemporaneo; di guisa che in questa
rifioritura di studi fichtiani, mentre alla teoria della conoscenza
ò assegnato per lo più il posto * d’onore, le altre
parti del sistema, in ispecie le più pra¬ tiche, vengono relativamente
lasciate nell’ombra. Il che nuoce alla dottrina e anche alla figura del
nostro filosofo, le quali così risultano monche e diminuite, e spesso
oscu¬ rale e falsate; quando invece il Fichte reclamava sempre e
vivamente che i futuri critici non giudicassero la sua con¬ cezione se
non nella sua totalità, se non ponendosi cioè in quel punto di vista
centrale, da cui si dominano e s'illu¬ minano tutti gli aspetti; tanto
più, poi, che nessuu’altra con¬ cezione come la sua aspirava a essere una
rigorosa unità, or¬ ganica, inscindibile, completa, a rispecchiare,
quasi, quei¬ raltra rigorosa unità, altrettanto massiccia quanto
severa e semplice, che era la personalità stessa del Fichte, il
quale appartiene all’eletta schiera di spiriti eminenti che nella
storia deH’uinauità seppero unire in intima connessione la speculazione
filosofica con la vita vissuta, fondendo armo¬ nicamente pensiero e
azione, investendo del medesimo pro¬ risposta che 11 non ha nè
corna nè denti „ (die u tceder Horner nodi Zàhne hai „), ed essere sempre
il Fichte “ la stella polare (der Leit- sternj verso la quale possiamo di
nuovo orientare la nostra vita e il nostro sapere „ (cfr. la prefazione,
p. 3). Peccato che l’opuscolo dello Srahler uscisse accompagnato nello
stesso anno da altri due volu¬ metti della stessa Biblioteca,
riguardanti, sebbene con intento pura¬ mente storico, figure filosofiche
ben diverse dall’ideale figura del Fichte, e di significato più
sintomatico in quel nefasto anno, e cioè: il Pro-
tagoras-Niclzsche-Stirner di B. Iachsiann e il Nietzsches Metaphysik-
limi ihr Verhdltniss zu Erkenntnialheorie u. Ethih di S. Flemming.
fondo interesse le più fredde concezioni astratte della ricerca
teoretica e le più ardenti questioni concrete dell’attività pratica,
intensificando la luce diffusa dalla loro opera in- stauratricè nel campo
del sapere col calore irradiantesi dalla loro missione riformatrice nel
campo del dovere ('). * # * E invero non si
può negare al sistema del nostro filo¬ sofo la sua principale
caratteristica : quella di essere cioè (') È veramente ammirevole
nel Fichte — che lo Zeller giustamente definiva anche per il carattere
morale un idealista nato — il rapporto stretto che uni sempre la sua vita
alla sua dottrina. “ Jamais la manière d’agir et di sentir — cosi scrive
Cristiano Bauthoi.mf.ss nella sua Ili- gioire critique des doefriu^s
religieuses de la philosophie moderne (Pa¬ ris, 1855, voi. I, pp.
384-885) — jamais la conduite et l’àrae ne fu- rent séparées chez lui de
la manière de penser et de voir. Ce qu : il croyait était eu méme temps
le nerf de sa volonté, le soufflé et. l’in- spiration de son existence entière.
Prenant au sérieux tous les mou- vements de son intelligence, il vonlait
vivre de ce qu' il coucevait, et taire vivre ce qu’ il savait, cornine il
ne vonlait savoir que ce qu’ il pouvait aimer, admirer et pratiquer. Ce
n’ótait pas lii l’héroique effet d’uu parti pris, c’était le propre de sa
naturo méme, où lo seu- timent de la valeur morale, de la diguité
personnelle, se confondait avec une telle hauteur de pensée, avec une
hardiesso de speculatimi si intrèpide, qu’ elle pouvait, semidei- la
rósolution d’nn caractère l'u- domptable. La ilestiuée, il est vrai,
avait surtout coutribué à Pac- croissemeut de nette énergie, de cette
trempe primitive. Fiofite avait eu longtemps à combattre, non seulement
des adversaires et des enne- mie, mais les soucis et la misère, le froid
ot la faim. Avant, do lutter pour la libertà de penser et pour P
indépendance de sa patrie, il avaiti pour s'assurer le pain dn jour,
endnré tout.es les rigueurs matórielles ot sociales; et de tant
d’èpreuves diverses, il était sorti plus vigou- reux, plus courageux,
plus convaiucu de ce que peut et vaut la no- b lesse d’àme. Ausai ne
saurait-ou contempler, sans ètre à.la foia tou- chó et fortifié, le
tableau de ses souffrauces et de ses victoires, na'i- vemeut et
inodesteraeut trace dans cette Vie et correspondance, qu’ a publiée lo
lils qui porte si eonvenablemeut son illustre nom. „ con
tutti i suoi difetti, i suoi errori e, diciamolo pure, la sua oscurità —
un vero sistema. In esso trovi subito un’idea che l’ha generato tutto
quanto, che ne è il centro, l’anima e ne fa l’unità : idea ovunque
presente e ovunque feconda, da cui nascono il metodo, le divisioni, gli
svolgi¬ menti, le applicazioni, e da cui germogliano in ogni dire¬
zione soluzioni, buone o cattive, a tutti i problemi teore¬ tici e
pratici. Esso è non solo uno nel suo insieme e omo¬ geneo nelle sue
parti, ma universale: tutte le grandi que¬ stioni intorno a Dio,
all’uomo, alla natura, e ai loro rap¬ porti, rientrano nel suo quadro e
vi si coordinano; vi si potranno notare lacune, rifacimenti, mutevolezza
di atteg¬ giamenti e di espressioni, indefinitezza di disegno e
incom¬ piutezza di linee, ma ciò va attribuito più alle contingenze
esteriori in mezzo a cui il sistema si svolse (‘), che non alla sua idea
ispiratrice, la quale, posta l’universalità della dottrina a cui dà vita,
non poteva non esercitare un in¬ flusso auch’esso universale sulla
coltura del tempo e delle età posteriori sino a noi, assicurando così al
nome dell’au¬ tore una fama imperitura nella storia dello spirito umano. Intorno
itilo svolgimento del pensiero lichtiano et'r. \V. Kaiutz, .S ludi<’u
z. EnUoicklungsgeschichU der Fichteschen Wissemchaftslehre (Berlin, 1902)
e nnolie E. Focus, Vom Werden rlreier Denker : Fichte, Schelling,
Schleiermachcr (Tiibingen, 1904). (*) V. la nota nella pree. p.
XXVIU e cfr. anello IC. VoitLÀNDlSK, Oeschichte der Philosophie (Leipzig,
1902, 8* edili. 1911, voi. II, pp. 28(5- 287). — Federigo Schlegel
considerava la Wissenschaftslehre del Fichte una delle “ tre maggiori
tendenze del secolo (circi griissten Tetidenzen iteti Jahrshunderts) „
accanto al Wilhelm Meister del Goethe e alla Rivoluzione francese. E
innegabile che il filosofo di Jena fu il filo¬ sofo per eccellenza della
scuola romantica, le cui idee, a giudizio concorde degli storici e in
particolare dello I-Iaym, che su ciò insiste ctm forza (cfr. Die
romantische Schuie, p. 214 e segg.), sono derivate in Quale questa idea
ispiratrice? È l’idea più alta e, pei la coscienza comune, la più
paradossale che sia sorta nella storia della filosofìa : la sintesi,
cioè, di due termini in ap¬ parenza così inconciliabili come l’io e il
non-io, il cono¬ scere e l’essere, la libertà e la necessità, lo spirito
e la na¬ tura, nel monismo superiore, nella “ superiore filosofia
(Jiohere Phihsophie) „ . direbbe lo Schelling, della libertà. 11 sistema
del Fichte consiste, intatti, in una * filosofia della libertà „ /e
poiché il suo principio metafisico s’iden¬ tifica con l’ideale morale,
giustamente fu chiamato un Idea¬ lismo elico ('). La vecchia metafisica
s’intitolava scienza dell’essere, ontologia, e nell’essere riponeva
l’assoluto, il reale, e dall’essere derivava ciò che dev’essere l’ideale.
Se¬ condò il Fichte, invece^l’assoluto, il principio ultimo e su¬
premo da cui veniamo e a cui tendiamo non ù 1 essei e, ma
grandissima parte dalla Dottrina tirila scienza. E si spiega la predi-
lezione dei romantici per un sistema come il ttchtiano, il «piale tra¬ sforma
il kantismo ancora esitante in un idealismo assoluto, e a tutto uscire,
sotto il rispetto metafisico, da «piella stessa genialità dell’ lo, da
cui i romantici tutto derivavano sotto il rispetto estetico. (•) Fu
detto anche Idealismo soggettivo, ma tale definizione e ei- ronea, perchè
V Io che il Fichte pone al principio di tutto il suo si¬ stema non è l’io
individuale, sì bene 1 ’/o collettivo, universale, che sta a fondamento
di tutti gl’individui, l’/o,assoluto, l’originaria in¬ cognita X, dalla
cui unità, ancora chiusa in sè stessa e incosciente, dovrà uscire, in
virtù di quel misterioso urto (Ansiosa), che è il t eus er m china di
tutta la metafisica Uchtiana, l’antitesi cosciente del soggettivo e
dell’oggettivo. “ Il mio lo assoluto - dice il Fichte - non è l’individuo;
soltanto cortigiani offesi e filosofi irritati contro di me hanno cosi
male interpretato la mia filosofia, per attribuirmi l’infame dottrina
dell’egoismo pratico (.... mein absolutes Teh tst mcht das Individuili» ;
so haben beleidigte Hóflinge und drgerhchc Phiìo- sophm mich erklàrt, uni
mir die sehandliche Lehre des prahtischen Egoismus anzudichten). „ (Cfr.
G. Ws ioi.lt. Zar GescMchte derneue- reti Philosophie (Hamburg, 1864, 2*
ediz. 1864, p. 74). il dovere, è un ideale che non è, ma dev'essere.
L’essere in quanto essere, in quanto quid stabile e compiuto, in
quanto cosa o materia inerte, a rigore non esiste ; la fis¬ sità,
l’immobilità di ciò che chiamiamo sostanza, soStrato, materia, non
è che apparenza. Agire, tendere, volere, ecco * in che
consiste la realtà vera. L’universo è il fenomeno della Volontà pura, il
simbolo dell’ Idea morale, che è la vera cosa in se, il vero Assoluto.
Filosofare significa com vincersi che l'essere non è nulla, che il dovere
è tutto ; significa riflettere sul proprio io empirico,
individuale, unica ultivilà libera che tende incessantemente ad
attuare ciò che dev' essere, ossia il Dovere, il Bene, /.’ Io asso¬
luto, universale; significa acquistare la coscienza di por- lare con sè
la libertà che crea e soggioga il mondo, ap¬ punto per attuare il Dovere,
il Bene, l'Ideale morale, l' “ Io „ o la Libertà assoluta. Il
Kant aveva bene ammesso che il soggetto, ossia la ragione e la libertà,
impone una forma e una legge agli oggetti della conoscenza: dell’ Io egli
aveva fatto, si, il legislatore del mondo, ma non era giunto a farne
addirit¬ tura il creatore; poiché aveva lasciato sussistere ancora,
ili fronte al soggetto, uu oggetto, una cosa in sè, capace d’imporre un
limite al soggetto. Per il Fichte, invece, il quale dà all’ io empirico
un significato universale, questa pretesa cosa in sè, ultimo residuo del
dogmatismo, è una chimera che bisogna esorcizzare, perchè è
semplicemente la parte dell’ Io ancora incosciente che il progresso della
conoscenza trae a poco a poco alla luce della coscienza ; sarebbe
assurda, infatti, di fronte alla Libertà assoluta, al- V Io assoluto e
universale, una materia non creata da lui e a lui imposta dal di fuori. E
poi, questa misteriosa cosa in sè. supposta al ili là di ogni conoscenza,
questo essere senza intelligenza, a che si riduce, se non a un
contenuto mentale ( Oeilankending ) e quasi a un fantasma, creato
da noi stessi a spiegarci le sensazioni e le rappresentazioni che
in noi sorgono, non per libera creazione nostra, ma prodotte dal di
fuori. Se un limite esiste all'attività del- ]> jo , gli è perchè l
’lo stesso lo pone liberamente alla pro¬ pria attività illimitata, con lo
scopo di avere il modo di sop¬ primerlo e di esentare cosi quella stessa
attività propria e di rivelare a si stesso la propria essenza, che è la
libertà. La moralità e la virtù, del resto, non suppongono lo
sforzo e la lotta? bisogna, dunque, per attuarle, crearsi perenue-
mente ostacoli e superarli; onde V Io nel primo momento della propria
evoluzione “ pone sè stesso „ (tesi), nel se¬ condo momento u contrappone
a sè il non-lo „ (antitesi), e nel terzo momento “ si riconosce nel
non-Io „ (sintesi); tre aiti, questi, a cui corrispondono i tre modi di
esistenza, i tre oggetti del sapere, che sono l’uomo, il mondo,
Dio. Guai se l’7o desistesse un solo istante dali’esercizio della
propria libera attività! cesserebbe immantinente di esistere; di qui il
carattere “ titanico „ che il Fischer ammira nel- p Jo fichtiano,
destinato per natura sua a continuamente agire, produrre, volere (').
f (•) Per approssimarsi in qualche modo al concetto dell lo
iich- tiauo nel quale va ricercato il fondamento di ogni esperienza,
giova fare completamente astrazione da qualsiasi contenuto rappresentalo
della nostra coscienza empirica. Dopo questa immensa sottrazione, si
consideri la rappresentazione più vuota che possa pensarsi, 1 unica
affermazione che non abbisogni di nessuna dimostrazione, il principio
logico d’identità: A è A, col quale uon si afferma nemmeno che zi esiste,
ma soltanto che: se A esiste, A dev’essere A. Orbene, quan¬ tunque con
tale affermazione si formuli soltanto una vuota venta e Un cosi
intenso idealismo non era mai sorto prima.del Pielite. Esso insegna che
il variopinto e multisono mondo sensibile, che si estende nello spazio e
si svolge nel tempo, non ha esistenza propria e indipendente : 1’ unico
ch'e ve¬ ramente esista è l’ lo. E lo stesso Io esiste solo in
quanto agisce. Dal suo operare, dal suo rifrangersi in In e non-lo,
sorge per lui il mondo visibile, percepibile e connesso da
non i ponga nessuna esistenza, si
compie, tuttavia, un atto del pen¬ siero, un giudizio, e un giudizio
d’incrollabile certezza, il quale porta direttamente a porre e a riconoscere
1'esistenza reale dell’/o. Infatti, donde proviene il verbo “ è „, con
cui il primo A è messo in rela¬ zione col secondo A, il soggetto col
predicato? Il nesso tra i due ter¬ mini del giudizio è beu soltanto
nell’/o e per opera dell’/o. Dunque, nellu precedente proposizioue: A è
A, ebe è la più evidente, per quanto la più vuota di contenuto, che si
possa formulare, si nasconde già l’ lo, si trova già l’attività certa di
aè stessa; perché, meutre per A non si ha il diritto di fare, oltre il
giudizio ipotetico: se A esiste, A è A, nnehe il giudizio categorico: A
esiste, in quantiche anatale affermazione richiederebbe un’ulteriore
dimostrazione, per V Io, invece, anello se non sappiamo assolutamente
nulla più di questo: che è A, possiamo dire non solo: se V Io esiste, l’
Io è l’/o, ma altresì: l’ Io esiste (ciò elio ricorda l’agostiniano e il
cartesiano: Cogito ergo sum). Ma V Io è, per natura sua, essenzialmente
attività, e, prima ancora di acquistare coscienza dei propri prodotti,
dei propri atti, e di sè stesso, crea, con la sua immagiuazione
produttrice, perenne e inesau¬ ribile, le innumerevoli rappresentazioni,
che poi lu riHeasioue farà apparire alla sua intelligenza come oggetti,
come non-lo; perchè — va sempre ricordato questo punto originale della
dottrina del Fichte - il non-lo, ossia il mondo esterno, è posto ilall’/o
inconscio, non già dall' Io cosciente; è un prodotto, quindi, anteriore a
quella rela¬ zione di antitesi e sintesi tra soggettivo e oggettivo che è
la co¬ scienza, e quando la coscienza nasce, s’impone a essa come già
dato. Così, grazie a questa produzione inconscia dell’ immaginazione
dell' lo — di quell’immaginazione che già per il Descartes era il trait
d’u- nion tra l’anima e il corpo, e per il Kant l’intermediaria tra le
in¬ tuizioni pure della sensibilità e le categorie dell’intelletto —, il
non-lo apparisce all’ intelligenza come un limite dal di fuori senza
essere perciò estraneo all’/o, essendo sempre un prodotto dell’/o
inconscio. leggi, il quale perciò non è che il sistema delle nostre
rap¬ presentazioni, il rispecchiarsi dell’ lo nell’/o. Ma anche
que¬ sto rispecchiamento non ci rivela in modo puro e immediato ]’
intima essenza del nostro spirito, perchè non uel rappre¬ sentarsi è il
nostro più alto operare, non nel rappresentarsi è tutto il nostro Io. Noi
operiamo veramente soltanto nel libero volere morale; noi attuiamo
completamente il nostro Io soltanto «piando, con attività rinnovata al
lume della coscienza, ci sforziamo di soggiogare il mondo delle
rappre¬ sentazioni scaturite dall’inesauribile fonte dell’ lo
inconscio _ il quale mondo non è che “ il materiale
sensibilizzato del nostro dovere (unsre Welt ist das versinnlichte
Mute- rial unsrer Pjlicht) „ — e ci sforziamo di trasformarlo nel
mondo della libertà, nel mondo soprasensibile ed eterna¬ mente in fieri
del Bene; poiché, esclama il Fichte, “ es¬ sere liberi è nulla, divenir
liberi è il cielo (frei se‘in ist nichts, frei wenlen ist dei' Ilimmel) !
„ La costruzione filosofica del Fichte può dirsi monolitica,
ed è tale da superare in semplicità persino quella eretta, da un punto di
vista e con centro «li gravita affatto opposti, dallo Spinoza: — al
Jacobi il sistema del filosofo tedesco appariva il rovescio del sistema
del filosofo olaudese —. E qui sta il vantaggio della concezione
fichtiana anche sulla kantiana ; il Kant non aveva tanto fornito un
sistema, quanto, piuttosto, i germi e i materiali per più sistemi ;
nella lotta contro il dogmatismo e contro lo scetticismo egli aveva
voluto inalzare alla scienza propriamente detta, più che un tempio, una
fortezza; e, per rendere questa fortezza iuespuguabile da tutti i lati,
ne aveva costruito -i bastioni quasi in tempi diversi, quasi in stile
diverso : onde nella sua filosofia non solo rimane il dualismo
inconciliabile tra l’essere e il conoscere, tra il conoscere'e il lai e,
ma nell ambito stesso del conoscere manca una rigo¬ rosa unità tra i
diversi poteri conoscitivi, tra la sensibilità con lo sue intuizioni
pure, l’intelletto con le sue categorie, la ragione con le sue idee
metafisiche. Il filosofa di Ko- nigsbei'g da una parte pareva chiudere lo
spirito umano tutto nel giro del proprio mondo interno, nel
fenomeno, dall altra gli lasciava intravedere, al di là di questo
mondo interno, un altro mondo, il noumeno, avvolto sempre da densa
nebbia e sempre refrattario alla conoscenza. Donde la domanda : questo
mondo esistente in sè è quello stesso che ci si i ivela nella voce della
coscienza, ed è possibile tiadui lo in atto con la pura e buona volontà?
La risposta del Kant, almeno nell’espressione datale dall’autore, se
non nello spirito dell’autore stesso, era stata cosi cauta, che
ognuno poteva trarne le conseguenze a suo proprio rischio. Iusomma, non
si poteva non riportare l’impressione che nella, dotti ina kantiana la
verità fosse svelata soltanto a mezzo, e che a essa mancasse, dal punto
di vista scienti¬ fico, cosi il fondamento come il coronamento. Il
Fichte, invece, da quel pensatore ben più ardito e deciso ch’egli
eia e che si era formato sullo stampo dello Spinoza, s’im¬ possessò dei
materiali kantiani, e fece della Critico un si¬ stema unitario: Tutto ciò
che è, è per noi; tutto ciò che è per noi, può essere soltanto per opera
nostra; nell’atti¬ vità dell’ lo è racchiuso il conoscere e l’essere, il
sensibile e il soprasensibile, il reale e 1’ ideale ;
nell’autocoscienza (Se/bstbeiousstsein) — lo stesso Kant aveva già
insinuato che la misteriosa incognita nascosta sotto i fenomeni
sensibili poteva benissimo essere quella stessa che portiamo con noi
— è l’unità di tutti i poteri dello spirito, l’unità delle
forme cosi del fenomeno come della cosa in sè che sta a fonda¬ mento
del fenomeno, l’unità del sistema delle nostre rap¬ presentazioni e del
sistema dei nostri doveri, l’unità della nostra essenza teoretica e della
nostra essenza pratica : 1’ unità, e con 1’ unità il fondamento e il
coronamento di tutta la dottrina. Se il Reinhold aveva cercato un
principio superiore, come principio unico indispensabile a dare
forma sistematica di scienza alla dottrina della conoscenza, se il
Beck aveva interpretato lo spirito della filosofia kantiana nel senso
idealistico, se il Jacobi aveva reclamato l’elimi¬ nazione della “ cosa
in sè „, ecco nella filosofia del Fichte soddisfatti tutti insieme questi
desideri, e in pari tempo fornita ai risultati della Critica della
ragione 1’ evidenza richiesta dallo Schulze ('). (!) La
filosofia del Kant, raccoglie, a dir cosi, in un'unità vivente tutti i
germi e principi motori del pensiero moderno, e il sistema del Fichte non
è che una delle direzioni che poteva prendere il kan¬ tismo. La direzione
fichtiana, quindi, scaturisce naturalmente dalle premesso kantiane, ma
non deve considerarsi perciò., come vorrebbe il Leon, quusi l’unico e
necessario completamento del kantismo: altre direzioni, assai divergenti
dalla fichtiana, l'anno capo legittimamente aneli’ esse al Kaut., dei cui
discepoli può ripetersi ciò che Cicerone dicova dei diversi discepoli di
Socrate: alii aliuiì suinpsenuit • il Fichte è un kantiano all’ incirca
nel medesimo senso che Platone fu un socratico, e sta allo Spinoza come
Platone a Parmenide ; col Kaut afferma l’ideale morale, con lo Spinoza
l’unità dei “ due moudi onde la Bua filosofia, dicemmo già, è
un’originale sintesi, forse Unica nel suo genere ai tempi moderni, di ciò
che sembra assolutamente inconciliabile: il monismo e la libertà, il
mondo delle cause o il inondo dei fini. Anziché ritornare sui singoli
problemi della Critica della ragione, egli s’impadronisce del centro
animatore di quella Critica, e trae fuori dal pensiero fondamentale dell’
auto-attività dello spirito, in quanto forza reale e fine a sé stesso, un
uuovo quadro del mondo di grandiosa arditezza, entro il quale
l’idealismo, che nella filosofia kautiana era latente sotto 1’ involucro
di prudenti re- La filosofia del Fichte, abbiamo detto, è una
filosofia della Libertà, poiché ha per principio una realtà
assoluta, intesa come Io pratico, come Attività pura, come
Auto-deter¬ minazione, ed è uno sforzo poderoso per dedurre da
questo principio oltreché le condizioni della vita etica, anche le
funzioni della ragione teorica, celebrando in tal modo quel primato della
ragione pratica che il Kant aveva già pro¬ clamato , e facendo perciò
della ragione pura un organo della moralità. L’attività dell’ Io assoluto
alterna i suoi atti di produzione inconscia con i suoi atti di
riflessione cosciente, la sua direzione centrifuga ed espansiva che
si protende verso l’infinito, con la direzione centripeta e cou-
strizioni, viene chiamato a potente vita, e ciò che di sublime il
grande lilosofo dell’ imperativo categorica aveva insegnato intorno alla
libertà morale di fronte alla necessità naturale, viene tradotto dal
linguaggio di un moderato contegno in quello di un energico en¬ tusiasmo.
li mondo può comprendersi soltanto in base allo spirito e lo spirito
soltanto in base alla volontà. La dottrina del Fichte è tutta nel vivere e
nel fare, tanto vero che comincia non con la definizione di un concetto,
ma con la richiesta di un atto (Thathandlung): “ poni te stesso, fai con
coscienza ciò che bui fatto inconsapevolmente ogni qual volta ti sei
chiamato io, analizza questo atto di autocoscienza e riconosci nei suoi
elementi le energie da cui scaturisce ogni realtà Questa intima vitalità
del principio lichtiaiio, che ricorda l'atto puro aristotelico e il
perpetuo divenire eracliteo, e in conseguenza della quale Dio, anziché
una sostanza assoluta già compiuta, sarebbo un ordino cosmico sempre
attenutesi, mai attuato, si ridette anche uel- l’opera filosòfica
dell’autore, il cui spirito, fiero e irrequieto, si svolse iu continua
lotta non solo nella pratica, ma anche nel pensiero. Nelle sue lezioni,
come nei suoi scritti, spesso egli riprende daccapo la serie delle sue
deduzioni e sempre iu modo diverso e quasi conver¬ sando coi suoi uditori
e coi suoi lettori, mai trascurando le possibili obiezioni da parte di
questi ; sicché il suo filosofare sembra compiersi trattile che arresta
la prima e respinge V Io in sè stesso; pone a sè stessa V urto (Anstoss)
della sensazione, il limite della rappresentazione, l’intoppo del non-Io
; è insomma teoretica : soltanto al fine di diventare pratica.
Tutto 1’ apparato della conoscenza non serve che a darci la pos¬
sibilità di compiere il nostro dovere: quel dovere che è 1’ unica realtà
vera, 1’ unico in-sè (An-sich) del mondo fe¬ nomenico, perchè le cose
sono in sè ciò che noi dobbiamo farne ; 1’ io teoretico pone oggetti,
affinchè 1’ io pratico trovi resistenze (il tedesco Gegenstand = oggetto
è qui preso come sinonimo di Widerstund = resistenza) ; 1’ og¬
gettività esiste soltanto per essere la materia indispensa¬ bile
all’azione, per ricevere da questa la forma che deve elaborarla e
inalzarla sì da rendere sempre più visibile alla presenza
d’interlocutori, è come un filosofare in comune e per più rispetti
richiama alla mente il dialogo platonico. Del resto al Fichte sarebbe
parsa vana una filosofia avulsa dal suo ambiente na¬ turale, l’umanità,
ond'egli si faceva un dovere di agire e influire energicamente sui suoi
contemporanei e su quanti fossero in rela¬ zione con lui , e visse in
continuo coutatto col mondo e con la so¬ cietà; al contrario del Kant,
tra la vita e la speculazione del quale non appare certo Io stretto
connubio che è nel nostro filosofo ; in¬ fatti, i rapporti sociali e
tutto il contegno esteriore del grande soli¬ tario di Konigsberg furono,
rispetto alla sua vita interiore e al suo pensiero, cosi indifferenti
come il guscio al gheriglio ma turo ; mentre il Kant per molti e molti
auui aveva portato entro di so,i suoi gravi pensieri senza che alcuno
sospettasse nemmeno che cosa accadesse nell’ intimo di questo professore
che senza differenza dagli altri teneva i suoi corsi universitari, il
Fichte, invece, impaziente di ogni ritardo nella missione rigeneratrice,
a cui con orgogliosa coscienza di sè si sentiva chiamato, lasciava
prorompere la manifestazione delle sue idee, anche se non definitivamente
elaborate, man mano che scaturi¬ vano dal profondo della sua anima agile
e trasmutabile e disposta agli atteggiamenti più diversi secondo i campi
a cui si applicava, se¬ condo i problemi ché affrontava, secondo i
momenti in cui agiva. 1’ attività dell lo. In conclusione , noi siamo
Intelligenza Per poter essere Volontà. La Dotti-ina della Scienza ,
quindi , nel sistema del Fichte, è tutta in servigio della filosofia
pratica , la quale , attraverso la Dottrina del Di¬ ritto, va a culminare
nella Dottrina morale, e'mira ad attuare quel regno dei fini che il Kant
contrapponeva al regno delle cause, e che jier il nostro filosofo
consiste nel- 1’adempimento completo del Dovere, nel dominio
assoluto dell’ lo, nel trionfo supremo della Libertà. E
invero, mentre da un lato la Dottrina della Scienza ci apprende che il
fondo, l’essenza dello spirito umano non è l’intelligenza ma 1’ attività,
non il pensare ma il volere — nella forma , almeno, in cui attività e
volere sono accessibili all’ uomo — , e che l’intelligenza — pur
essendo inseparabile dall’attività, da cui è condizionata e di cui e
condizione — resta subordinata all’ attività come la forma al proprio
contenuto, come la riflessione al proprio oggetto, d’altra parte la
Dottrina morale ci mostra il pro¬ cedimento con cui lo spirito umano si
sforza — il che è preciso suo dovere — di prendere coscienza, mediante
l’in¬ telligenza, di quell’attività pura, di quella volontà, di
quella libertà infinita, che è appunto il fondo suo , la sua essenza
assoluta. Dal che risulta evidente lo stretto nesso che avvince la
Dottrina morale alla Dottrina della Scienza ; quella si deduce
direttamente dai principi di questa, in quanto la moralità, secondo il
Fichte, non è che uno dei momenti pii\ importanti, anzi il più
essenziale, dell’ attua¬ zione di quell’ Io puro , di quella Libertà
assoluta che la Dottrina della Scienza pone al di là dei limiti di ogni
coscienza , e da cui 1’ io empirico deriva e a cui 1’ io em¬ pirico
aspira. Il passaggio dall’ Io puro, assoluto e infinito, per via di limiti
e determinazioni, all’ io empirico, relativo e finito, ossia dalla
Libertà all’Intelligenza, è il problema a cui pili specialmente si
applica la Dottrina della Scienza ; il passaggio dall’io empirico,
relativo e finito, per via di superamenti e liberazioni, all’Io puro,
assoluto, infinito, è il problema a cui più specialmente si applica la
Dottrina morale. L’ un problema è il reciproco dell’ altro, e la
so¬ luzione di entrambi dipende dalla soluzione dell’antinomia tra
la finitezza dell’Io-intelligenza , attività oggettivante (che pone
oggetti, limitazioni, resistenze), e l’infinitezza dell’ Io-libertà ,
attività pura (= che ha per essenza 1’ as¬ solutezza, l’illimitatezza,
l’autonomia). E come il Fichte risolve tale antinomia con quell’attività
a un tempo finita e infinita che è lo sforzo (Streben) — attività finita,
perchè lo sforzo implica una limitazione, una determinazione, che
impedisce l’immediato compimento dell’atto nella sua infi¬ nità; attività
infinita, perchè questa determinazioue non ha nulla di assoluto, di
fisso, è un limite che l’attività fa indietreggiare incessantemente per
conseguire l’infinità — , ne segue che l’idea dello sforzo è , nella sua
filosofia, il cardine fondamentale dell’ attività teoretica non meno
che dell’ attività pratica, dell’ Intelligenza non meno che della
Volontà, della Dottrina della Scienza non meno che della Dottrina morale.
Nella Dottrina morale , a oui ora è ri¬ volta la nostra attenzione, lo
sforzo esprime la tendenza dell’Io a identificare la sua attività
oggettivante con la sua attività pura, e lo svolgimento dell’ Io è tutto
nel rapporto tra queste due attività : l’infinita Libertà non può
attuarsi se non at traverso la limitazione e l’Intelligenza, ma non
c’è limitazione uè Intelligenza se non rispetto all’infinita Attività
pura elle di continuo le sorpassa. Lo sforzo, quindi, può definirsi
un’attività in cui l’infinito è posto non come stato attuale, ma come
meta da raggiungere, un’attività in cui 1’ adeguazione del finito e dell’
infinito non è , ma dev'essere , un’attività, insomma, che ha per
contenuto il Dovere e che del Dovere è a sua volta il contenuto.
Diamo, in breve, il disegno della Dottrina morale. La Dottrina morale si
apre I) con un’ Introduzione , in cui sono sinteticamente presentati i
presupposti filosofici dell’etica; e si svolge in tre Libri, dei quali
II) il primo trae da quei presupposti il principio della moralità, III)
il secondo deduce da essi la realtà e 1’ applicabilità di questo
principio, IV) il terzo fa l’applicazione sistematica del prin¬ cipio
stesso, ed espone quindi la morale propriamente detta. I presupposti
filosofici dell' etica, contenuti nell’Introduzione e perfettamente conformi
alla Dottrina della Scienza , muovono dal principio che la vera filosofia
sol¬ tanto allora è possibile, quando si abbia un punto in cui il
soggettivo e l’oggettivo, l’essere in sè e la rappresenta¬ zione di esso
non siano divisi, ma facciano tutt’uno, e che un tal punto si trova
nell’Egoità o Io puro, nell’Intel¬ ligenza o Ragione. Senza questa
assoluta identità del sog¬ getto e dell’oggetto nell’Io, la quale
peraltro non si lascia cogliere immediatamente come un dato della
coscienza at¬ tuale, ma soltanto argomentare per via di
ragionamento, la filosofia non approda a nessun risultato. Bisogna,
dunque, ammettere un’Unità fondamentale e primitiva, la quale,
tosto che nasce una coscienza attuale — o anche soltanto l’autocoscienza
—, si scinde necessariamente in soggetto e oggetto, poiché “ solamente in
quanto io, essere cosciente, mi distinguo da me, oggetto della coscienza,
divengo co¬ sciente di me stesso „ ( 1 ). Bisogna ammettere, inoltre,
che l’oggettivo abbia causalità sul soggettivo, e viceversa il
soggettivo sull’oggettivo, per rendere concordi tra loro, e in generale
possibili, il pensiero e il pensato, la ragione e il suo dominio sulla
natura. E appunto perchè il legame causale tra soggetto e oggetto è
duplice — ognuna delle due parti è causa ed effetto dell’altra: il
soggettivo è ef¬ fetto dell’oggettivo uel conoscere , Soggettivo è
effetto del soggettivo nell 'operare — , la filosofia si divide in
teore¬ tica e pratica. Senonchè, come avemmo già occasione di
notare (*), l’Io puro, ossia 1’ U.nità soggettivo-oggettiva ancora
indi¬ visa, non è un fatto ( Thatsache ), ma un atto ( Thathand -
tutiff), la sua natura originaria è attività: è, dunque, pra¬ tica.
Perciò il principio : “ Io mi trovo come operante nel mondo sensibile „ (
3 ) è di capitale importanza per il nostro conoscere. Da esso comincia
ogni coscienza ; senza la co¬ scienza della mia attività non è possibile
nessuna autoco¬ scienza, senza l’autocoscienza nessuna coscienza di
un quid diverso da me. Infatti, la percezione della mia atti¬ vità
suppone una resistenza al di fuori di noi; “ ovunque e in quanto tu
percepisci attività, tu percepisci necessa¬ riamente anche resistenza ;
altrimenti tu non percepisci attività „ (Ora la resistenza è affatto
indipendente dalla (') Sittenlehre (Stimanti. Werke, Voi. IV,
ediz. cit.), pag. 1 (nostra traduz. pag. 1). Cfr. pvec.
Sittenlehre, p. 3 (nostra traduz. p. 3). ( 4 ) Ibid. p. 7 (ibid. p.
6). XI.V mia attività, è anzi il suq opposto; è
qualcosa che esiste soltanto e in nessun modo agisce, qualcosa di quieto
e morto, die tende semplicemente a rimanere quel che è, qualcosa
che nel proprio campo contrasta all’azione*della libertà, ma non può mai
invadere il campo di questa. Un qualcosa di simile, dunque, è “ pura
oggettività „ , e si chiama., col suo proprio nome, materia. Senza la
rap¬ presentazione di una tale materia, niente resistenza alla
nostra attività, quindi niente attività, niente autocoscienza, niente
coscienza, niente essere. La rappresentazione del puro oggettivo resta
così dedotta necessariamente dalle leggi stesse della coscienza ( l
). Con la medesima necessità con cui viene dedotto il puro
oggettivo, viene posto anche il suo contrario, il sogget¬ tivo, ossia 1’
attività propriamente detta, sotto la forma di un’ agilità (Agililàt) o
forza efficiente. Ma poiché nella coscienza, quasi come in un prisma,
ogni unità si rifrange in soggetto e oggetto, così in essa, avvenuto lo
sdoppia¬ mento dell’Io puro in soggettivo e oggettivo, anche il
sog¬ gettivo si sdoppia a sua volta, e si ha da una parte 1’ at¬
tività propriamente detta, veduta come una forza reale, come un oggettivo
esistente in me, dall’altra il soggettivo, fonie inesauribile di questa
forza reale, fonte originaria non derivante da nessun oggettivo, e dalle
cui profondità oscure e inaccessibili sgorga, con libero, spontaneo e
talora impetuoso moto interno, l’infinita varietà delle nostre rap¬
presentazioni, dei nostri concetti ; per conseguenza la mia attività —
ossia il soggettivo ancora indiviso nella sua unità anteriore alla
coscienza — , quando sia veduta attra- (*) Ibid. pp. 7-8 (itici,
p. 7). verso il tramite della coscienza, appare come un oggettivo,
che da un lato scaturisce da un soggettivo perennemente rinascente a ogni
estrinsecarsi dell’oggettivo, dall'altro de¬ termina l’oggetti vita pura
dianzi chiamata materia (‘). Così si rivela alla coscienza la nostra
assoluta auto-attività, la cui essenza sta nel produrre rappresentazioni,
nel creare concetti, e la cui manifestazione sensibile dicesi
libertà. Ciascun concetto, riguardato come determinante l’oggettivo
in virtù della propria causalità, diventa un concetto-line, e allora esso
stesso appare un qualcosa di oggettivo e si chiama uua volizione; e lo
spirituale che in noi si consi¬ dera come principio immediato delle
volizioni dicesi volontà. Spetta, dunque , alla volontà agire sulla
materia ed esercitare causalità nel mondo sensibile ; ma ciò non le
sarebbe possibile se non avesse uno strumento che sia esso stesso materia
, ossia quel corpo articolato che è il nostro (‘) Nel Leon (op.
cit. pp. 255-260) trovasi ben descritta la natura dell’attività
spirituale nel senso fichtiano, attività clic è, a un tempo e
continuamente, produzione di sè e riflessione sopra di sè, oggetti¬
vazione e soggettività, io reale e io ideale, attualità e potenzialità;
chi voglia intendere una tale attività, che ha la caratteristica di esi¬
stere e di essere anteriore alla propria esistenza, devo ricordarsi che
essa non va pensata alla maniera delle cose, perché, contrariamoute alla
natura di queste ultime, la cui realtè si esaurisce tutta quanta
nell'essere oggettivo, l’attività spirituale può ripiegarsi su di sé, può
riflettersi. E a ciò si deve quel fenomeno meraviglioso e cosi lontano
dal meccanismo materiale, per cui 1’ esistenza ideale deter¬ mina
l’esistenza reale, l’idea ha causalità, lo spirito è libertà. Onde si
vede che la libertà è proprio (come il Kant aveva ailermato, senza però
dimostrarlo) il comiuciamento assoluto d’uno stato, la creazione di un’
esistenza seuza rapporto di dipendenza reale con un’ altra esi¬ stenza. E
si vede altresì che solamente 1’ essere ragionevole, dotato d’intelligenza
e riflessione, è capace di libertà, poiché in lui soltanto è possibile
una causalità in forza di un concetto. organismo. E invero u io ,
consideralo come un principio di attività nel mondo dei corpi, sono un
corpo articolato, e la rappresentazione del mio corpo non è altro
che la rappresentazione di me stesso come causa nel inondo
materiale 5 e perciò, mediatamente, non altio che un ceito aspetto della
mia attività assoluta „ ('). Volontà e corpo sono quindi una medesima
cosa , riguardata però da due lati diversi: una medesima cosa, perchè
soltanto fin dove si estende l'immediata causalità della volontà sul
corpo, si estende il corpo articolato , necessario strumento della
causalità sulla materia; riguardata però da due lati di¬ versi , perchè ,
in virtù dell’ azione sdoppiatrice della co¬ scienza, la volontà appare
come il soggettivo che esercita la sua causalità sul corpo, e il corpo
come 1 ’oggettivo i cui mutamenti coincidono con quelli di tutta
l’oggettività o realtà corporea. Similmente una medesima cosa,
riguar¬ data però anch’ essa da due lati diversi, sono la natura
che la mia causalità può cangiare, ossia la costituzione e T ordinamento
della materia , e la natura non cangiabile , ossia la materia pura : la
natura mutevole è 1 ’ oggettivo considerato soggettivamente e in
connessione con 1 ’ io, in¬ telligenza attiva ; la natura immutevolo è
Soggettivo con¬ siderato oggettivamente e soltanto in sè.
Secondo il precedente ragionamento , i molteplici ele¬ menti che l’analisi
ritrova nella percezione della nostra causalità sensibile vengono dedotti
dalle leggi della co¬ scienza e ridotti all' unità, all’ unico assoluto
su cui si tonda ogni coscienza e ogni essere, all 'attività pura. Questa
at¬ tività, in virtù della legge fondamentale della coscienza,
(!) Sittenlehre, p. 11 (nostra traduz. pp. 10-11). per cui 1
essere attivo non si comprende senza una resi¬ stenza su cui agisce, non
si comprende cioè se non come un Io-soggetto operante sopra un
Non-Io-oggetto, appare sotto forma di efficienza su qualcosa fuori
dell'Io. Ma tutti gli elementi contenuti in questa apparenza, a partire
dal con¬ cetto-fine propostomi assolutamente da me stesso, sino
alla materia greggia del mondo esterno su cui esercito la mia causalità,
non sono che anelli intermedi dell’apparenza totale, e perciò semplici
apparenze anch’essi. L’unico reale 1 vero è la mia auto-attività,
la mia indipendenza, la mia libertà. IL - Da tali presupposti
bisogna ora dedurre il principio della moralità. L’ uomo trova in sè un’
obbliga¬ zione assoluta e categorica a fare o non fare certe azioni
indipendentemente da ogni fine esteriore, la quale si ac¬ compagna
immancabilmente con la natura umana e costi¬ tuisce la nostra
caratteristica morale. Donde ha origine questa obbligazione o Dovere, che
vai quanto dire la leggo morale, ossia il' principio della moralità?
Secondo che esige la Dottrina della Scienza , tale origine non va
ricercata altrove che in noi stessi, nell’ Jo. Onde il primo problema da
risolvere a tal fine è:^ u Pensare sè stesso come puramente sè stesso,
ossia come distaccato da tutto ciò che non è io. „ (*). La
soluzione di questo problema si ottiene così : Io non trovo me stesso se
non nella mia volontà, se non come volente ; e trovarsi volente significa
riconoscere in se una sostanza che vuole. L’intelligenza è la
coscienza fl ) Ibid. p. 18 (ibid. p. 20). puramente
soggettiva; la coscienza del proprio io in quanto io non può nascere che
dalla volontà,. Ma la volontà non si concepisce se non supponendo
qualcosa di diverso dal- 1’ io, perchè ogni volontà reale è una
determinata volizione che ha un concetto-fine, che tende cioè ad attuare
un og¬ getto concepito come possibile, un oggetto che stia fuori di
noi. Ne segue che, per trovare me stesso e nuli’altro che me stesso ,
bisogna fare astrazione da questo oggetto esterno della mia volontà: ciò
che rimane allora sarà il mio es¬ sere puro, la volontà assoluta, il principio
della nostra filo¬ sofia. Ne segue altresì che il carattere essenziale e
distin¬ tivo dell’ io è una tendenza ad agire di propria iniziativa
e indipendentemente da ogni impulso estraneo, a determi¬ nare sè stesso
in modo incondizionato e autonomo , è, in una parola, la libertà. Ora,
appunto questa tendenza e questa libertà costituisce l’io preso in sè,
l’io considerato all’ infuori di ogni relazione con checchessia di
diverso da sè. Ma ogni essere non è se non in quanto viene
riferito a un’ intelligenza, la quale sa che esso è ; in altri
termini suppone una coscienza. L’io, quindi , non è se non in
quanto si pone, non è se non in forza della coscienza che ha di sè; onde
esso deve avere la coscienza di quella ten¬ denza alla libera
auto-determinazione che dicemmo costi¬ tuire la sua essenza. E invero
l’io che, mediante l’intelli¬ genza, pone sè stesso come tendenza
all’autonomia assoluta o libertà, è un essere il cui principio si trova
non in un altro essere, ma in un quid di categoria diversa —
l’unico quid che possa concepirsi oltre l’essere — e cioè nel pen¬
siero , inteso non come qualcosa di sostanziale, sì bene come attività
pura, come movimento dell’intelligenza senza restrizioni e
senza fissità. Orbene, da questa intima fusione dell’io in quanto
tendenza all’attività assoluta o libertà e dell’io in quanto
intelligenza, dell’io in quanto essere e dell’ io in quanto riflessione ,
è possibile dedurre il prin¬ cipio della moralità. Come? L’Io
assoluto, non ancora rifratto dal prisma della coscienza, è determinato,
come abbiamo detto, dalla sua tendenza all’attività assoluta, e questa
determinazione di¬ venta oggetto o contenuto dell’ intelligenza. Ma ,
siccome l’Io assoluto nella sua unità integrale, nella sua
semplicità e identità originaria non può essere mai oggetto della
co¬ scienza , bisogna che questa si sforzi di apprenderlo , al¬
meno per approssimazione, attraverso la dualità dell’essere oggettivo e
della riflessione soggettiva, mediante quella specie di espediente che
consiste nel considerare il sog¬ gettivo e 1’oggettivo come
determina»tisi reciprocamente 1’ uno 1’ altro, come complementari, quindi
come insepara¬ bili e impensabili l’uno senza l’altro. E allora, se si
con¬ cepisce il soggettivo come determinato dall’ oggettiv'o (nel
qual caso nasce quella relazione psicologica che si chiama sentimento),
essendo l’oggetto, rispetto al soggetto, qual¬ cosa di per sè stante, di
fisso .e permanente, si troverà che il contenuto del pensiero è immutabile
e necessario e che l’intelligenza impone a sè stessa la legge di
una attività propria e assoluta. Se poi si concepisce l’oggettivo
come determinato dal soggettivo (nel qual caso nasce quel- l’altra
relazione psicologica che si chiama volontà), es¬ sendo il soggetto, rispetto
all’ oggetto, qualcosa di mobile, di attivo e indipendente, si troverà
che l’io si pone come libero. Si arriverà cosi — combinando, i due
risultati , la legge necessaria da una parte e la libertà illimitata
dal- 1’ altra — all’ idea di una legge che l’io
liberamente -im¬ pone a sè stesso : la legge ha per contenuto la libertà
, e la libertà è sottoposta alla legge. Legge e libertà, per tal
modo , si determinano reciprocamente : esse fanno insieme una sola e
medesima unità. Tra la libertà ( = attività in- condizionata e
illimitata) e l’autonomia ( = imposizione spontanea di una legge a sè
stesso) non c’ è incompatibi¬ lità; esse nascono entrambe da quello
sdoppiamento che è dovuto alla natura dell’ attività spirituale e che è a
un tempo posizione di sè e riliessione sopra di sè, oggetto e
soggetto. In altri termini, si ha qui l’intima fusione, nel- 1’ unità
dell’ io, tra 1’ intelligenza, che concepisce la nostra essenza come
libertà, e la volontà, che è 1’ attuazione del- 1’autonomia, tra la
libertà-concetto e la libertà-atto, e il legame che unisce 1’ una all’
altra è di causalità non Inec- canico-coercitiva ma psichico-imperativa,
è di necessità non teorica ma pratica, è il legame morale del dovere.
La libertà-idea non può non tradursi, dece tradursi in libertà-
realtà; il Dovere, obbligazione per eccellenza, sta nell’at¬ tuare
l’essenza nostra, nel divenire, attraverso la coscienza, quel ohe siamo
in fondo al nostro essere assoluto anteriore alla coscienza, nel renderci
cioè liberi ; e in ciò precisa¬ mente consiste il principio supremo di
tutta la moralità, il quale per tal guisa risulta dedotto, come ci
proponevamo, dalla natura dell’ io. Posto l’io, è in pari
tempo posta anche la tendenza all’assoluta auto-attività, alla libertà;
ma la libertà non acquista valore se non per un’ intelligenza che ne
faccia la legge determinante delle nostre azioni ; ne segue che
l’io deve sottoporsi con coscienza e quindi con libertà alla legge della
propria natura, che è la legge della libertà, senz’altro fine che
la libertà, stessa. La moralità, appunto perchè esprime direttamente
l’essenza dell’io, la sua pra¬ ticità assoluta e la sua autonomia, è una
perpetua legisla¬ zione dell’io imposta a sè stesso, sotto un triplice
rispetto : a) rispetto all’adozione stessa della legge morale, ado¬
zione la quale non può essere che una libera sottomissione, una spontanea
adesione alla logge; h) rispetto all’applica¬ zione della legge a ciascun
caso particolare, applicazione nella quale il giudizio morale è sempre un
atto di auto¬ nomia, un consenso di noi con noi stessi ; c) rispetto
al contenuto della legge, uel quale contenuto è evidente che ogni
determinazione della volontà da parte di una causa estranea a sè stessa,
che vai (pianto dire alla ragione, co¬ stituirebbe un’eteronomia affatto
contraria alla legge mo¬ rale. Per tal modo si può concludere che la vita
morale tutta quanta non è altro che una ininterrotta auto-legisla¬
zione dell’io, una perenne autonomia dell’essere razionale; e dove questa
autolegislazione cessa, ivi comincia l’ immo¬ ralità ('). IH-
- Alla deduzione del . principio della moralità segue la deduzione della
realtà e dell’ applicabilità del principio stesso, senza di che quest’
ultimo rimarrebbe un’ astrazione e la morale si ridurrebbe a un
formalismo vuoto e sterile. Invece la morale ha una realtà, la
legge morale ha efficacia nel mondo sensibile in cui viviamo ; onde
il principio della moralità è non solo vero , logica¬ ci Tbid. p.
5C ibid. p. 55). A chiarire ancor meglio la deduzione della legge morale
dall’Io, ricollegandola con i principi e le conse¬ guenze della Dottrina
della Scienza giova il seguente schema fornito — un
— mente possibile e giustificato dalla ragione, ma altresì reale e
applicabile : reale, perchè è un concetto che deve attuarsi nel mondo
sensibile (*) ; applicabile, perchè il mondo sensibile è tale, per
origine e natura, da prestarsi* come strumento all’attuazione di quel
principio. dal Fischer ( Geschichte der neuem Philosophie, voi.
VI, Fichte unti seine Vorgànger, 4 a ediz. 1914, p. 458) e nel quale
viene simboleggiato lo sdoppiarsi dell’ Io nella coscienza teorica e il
suo reintegrarsi nella legge morale : Io
Soggetto = Oggetto Coscienza (Divisione) Soggetto
. Autoattività Causalità del Concetto Libertà
Oggetto Materia Causalità della Materia Necessità
Libertà = Necessità Legge della Libertà Libertà sotto
la Legge della Libertà (Assoluta Autonomia) Legge
Morale (‘) Come si vede, qui la realtà del principio morale non è
la realtà già attuata di ciò che esiste nel mondo meccanico dei fatti
naturali o nel mondo giuridico della convivenza sociale , ma la realtà di
ciò che deve esistere nel mondo morale della volontà; le prime due specie
di realtà sono sotto la categoria della necessità (leggi naturali) o
della coercizione (leggi sociali), l’ultima, invece, di cui ora si
tratta, è sotto la categoria della contingenza, della libertà (legge
morale). Infatti, il principio della moralità dianzi dedotto è
a un tempo un principio teorico, in quanto l’io si determina da sè
dinanzi a sè stesso come essere assolutamente indi- pendente e libero —
il che costituisce la materia della legge morale —, e un principio
pratico, in quanto l’io im¬ pone da sè a sè stesso 1’ attuazione della
propria natura — il che costituisce la forma (imperativa) della legge
mo¬ rale —. Ogni singolo io è libero, ecco il principio teo¬ rico ;
Ovatterai ogni singolo io come un essere libero, ecco il principio
pratico derivante, sotto forma di comando , da quel principio teorico. In
sostanza la legge pratica della libertà potrebbe formularsi così : “
Opera secondo la cono¬ scenza che hai della natura e del fine originario
degli es¬ seri Giusta i principi della Dottrina della Scienza, le
cose che abbiamo posto fuori di noi non sono, in fondo, che le nostre
idee ; di qui l’armonia tra la determina¬ zione teorica degli oggetti e
gl’ imperativi morali che da questa determinazione teorica scaturiscono
rispetto agli og¬ getti stessi. La spiegazione dell’ accordo dei fenomeni
con la nostra volontà sta nell’accordo della volontà con la na¬
tura, a cominciare dalla natura nostra : noi non possiamo volere se non
ciò a cui ci spinge 1’ impulso naturale ; questo impulso non è la legge
morale, ma^ legge morale non può nulla comandare il cui oggetto non sia
nella sfera di questo impulso. L’essere ragionevole, il quale deve
porre sè stesso come assolutamente libero e indipendente, non può
far ciò senza in pari tempo determinare teoricamente il suo mondo
mediante la rappresentazione ; e la sua libertà, che è un principio
pratico, esige che questa determinazione teo¬ rica da parte del pensiero
si mantenga e si completi me¬ diante l’azione da parte della volontà. L’azione
della liberta dell’ io sul mondo determinato come rappresenta¬ zione
consiste nella modificazione di uno stato del mondo stesso mercè il
dominio di un concetto anteriormente posto ; è la produzione di una
realtà conformemente a un’idea data come suo principio ; significa, per
conseguenza, proprio l’in¬ verso della rappresentazione, la quale è la
determinazione di un concetto secondo una realtà anteriormente posta.
E come l’enigma della rappresentazione, ossia il rapporto tra la
cosa e l’idea, trovava la sua soluzione nell’identità ori¬ ginaria dei
due termini, essendo la cosa un prodotto in¬ conscio dell’ io, similmente
qui il l’apporto tra il concetto e la realtà ha il suo fondamento nel
fatto che la produ¬ zione di questa realtà non è la produzione di una
cosa in sè, di una realtà assoluta, che sarebbe in qualche modo
esteriore alla coscienza, ma è sempre uno stato di coscienza, una
determinazione dell’ io. E allora non è più questione di sapere come sia
possibile nel mondo una modificazione da parte della libertà, poiché,
essendo il mondo esso stesso un prodotto della libertà , un limite che
l’io pone a sè stesso, è questione di sapere come sia possibile,
mediante la libertà, un cangiamento nell’io, un’estensione dei suoi
limiti ; e se si osserva che 1’ io, oggetto di questa modifi¬ cazione, è
l’io limitato., ossia l’io empirico, e che la legge della libertà, sotto
la quale si operano nell’ io empirico queste modificazioni, esprime l’io
puro, l’io assoluto, è evidente che il problema circa la realtà del
principio mo¬ rale, circa l’attuazione della libertà , si riduce , in
fondo , alla questione già esposta anteriormente circa i rapporti
tra l’io empirico, naturale, e l’io eterno, assoluto (*). (‘)
Sittenlehre, pp. 63-75 (nostra traduz. pp. 63-74). — Cfr. anche prec. pp.
XLI-XLII. Per dedurre ora la realtà e la conseguente applica¬ bilità
del principio dell’ etica, bisogna dedurne la materia e la sfera d’
azioue, bisogna stabilire, cioè, anzitutto l'og¬ getto della nòstra
attività in generale ('), poi la causalità reale dell’essere ragionevole
(Quanto al primo punto si ha questo teorema: “ L’essere l'agionevole non
può attri¬ buirsi nessun potere, senza pensare in pari tempo
qualcosa fuori di sè a cui quel potere sia diretto „ ; egli, infatti,
non può attribuirsi la libertà, senza pensare più azioni reali e
determinate come possibili per opera della libertà, e non può pensare
nessun’ azione come reale e determinata, senza sup¬ porre all’ esterno
qualcosa su cui quest’ azione sia eser¬ citata ( 3 ). Esiste, dunque,
fuori di noi e posta dal pensiero, una materia a cui la nostra attività
si riferisce e che può essere modificata all’ infinito. Quanto al secondo
punto si ha quest’altro teorema: u L’essere ragionevole non può
trovare in sè nessun’ applicazione della propria libertà, ossia nessun
volere reale, senza in pari tempo attribuire a sè stesso una reale
causalità o efficienza sul mondo esterno r , e non può attribuirsi una
siffatta causalità o.efficienza, senza deter¬ minarla in una certa
maniera. Ora, l’attività pura non può essere determinata in sè,
altrimenti non sarebbe più pura ; essa non può essere 'determinata se non
da ciò che le si oppone, ossia dai suoi limiti. Questi limiti non possono
es¬ sere percepiti se non nell’esperienza sensibile e, inquanto
oggetto d’intuizione sensibile, consistono in una diversità o varietà di
materia. Onde l’io, il quale non sarebbe at- (*) Ibid. pp. 75-88
(ibid. pp. 75-87). (*j Ibid. pp. 89-101 (ibid. pp. 87-98).
( 3 ) Ibid. pp. 75, 79 e 81 (ibid. pp. 75, 78 e 80). tivo se non si
sentisse limitato, viene posto come un’ at¬ tività che preme, per
allargarli, sopra i limiti entro cui lo rinserra la diversa materia che
gli resiste, il nou-io che gli si oppone. L’essere ragionevole, dunque,
esercita una causalità reale nel mondo sensibile, e tale causajit.à
con¬ siste non già nel creare o distruggere la materia su cui si
esercita — tale materia è condizione indispensabile per l’attività
dell’essere ragionevole —, ma nell’introdurvi ul¬ teriori determinazioni
nuove ; u io ho causalità „ significa sempre: u io allargo i miei confini
„, che vai quanto dire: “ io attuo progressivamente il concetto di
libertà — se¬ condo che mi è imposto dalla legge morale —, pur non
giun¬ gendo mai a un’ attuazione completa „. Di guisa che la no¬
stra esistenza, mentre uel mondo intelligibile è legge morale, nel mondo
sensibile è azione reale: il punto in cui le due esistenze si riuniscono
è la libertà intesa come facoltà assoluta di determinare 1’ azione
mediante la legge (*). Risulta da quanto precede che il principio
della mo¬ ralità, ossia la libertà, non può attuarsi se non
opponendo all’attività pura dell’ io una limitazione o un sistema
di limitazioni, e imponendo alla medesima attività un progres¬
si Ibid. pp. 91-92 (ibid. pp. 89-90). — Abbiamo qui una delle idee
fondamentali del sistema ficbtiauo, cioè: l’impossibilità per noi di
separare il sensibile dall’intelligibile, la negazione del dualismo, l’as¬
surdità di concepire nell’ àmbito della coscienza un carattere noume-
nico radicalmente distinto dal carattere fenomenico. Secondo il Fichte —
scrive il Léon (op. cit. p. 269) — il sensibile è la condizione per
l’intelligibile....; Benza il sensibile, il quale determinandolo lo
attua, il puro intelligibile rimarrebbe allo stato di potenza
indeterminata e vuota. Questa concezione segua la rovina del misticismo,
che pretende isolare lo spirito dal corpo e relegarlo in una sfera
chimerica ; l'Io iichtiano non è fatto di singoli pezzi separabili ad
arbitrio ; esso forma in tutti i suoi elementi una gerarchia, un vero
organismo. sivo ampliameuto di
questa limitazione o sistema di limi¬ tazioni. Il che si verifica anche
quando si tratti non di un fine ultimo, come la libertà assoluta, ma di
fini intermedi. Il più spesso’ci accade di non poter attuare
immediata¬ mente un determinato fine scelto dalla nostra volontà, e
siamo costretti, per conseguirlo, a servirci di certi mezzi già
determinati in* antecedenza senza il nostro intervento : non perveniamo
al nostro fine se non attraverso una serie di gradi interposti ; che
equivale a dire : tra il sentimento da cui sono partito con la volontà e
il sentimento a cui mi sforzo di giungere intercedono altri sentimenti,
di cui ognuno è l’esponente dei limiti che mi si oppongono, li¬
miti che con la mia causalità, con la mia azione, io fo in¬ dietreggiare
ogni volta di più, estendendo cosi pi-ogressiva- mente la mia attività
reale. La mia causalità, dunque, ap¬ pare come un’azione continua e
diversa, come una serie ininterrotta di sforzi e di sentimenti svariati ;
poiché essa è assolutamente una e identica in quanto attività, ma
pre¬ senta tuttavia infiniti aspetti multiformi a causa della
multiforme resistenza che incontra da parte degl’ infiniti oggetti
esterni; — esterni, s’intende, e posti indipendente¬ mente da noi, per
chi non adotti o ignori il punto di vista della filosofia trascendentale
e rimanga al punto di vista della coscienza comune —. Intesa
nel modo descritto, la causalità dell’ essere ra¬ gionevole contiene in
sé la sintesi assoluta della cono¬ scenza e dell’ attività,
determinantisi reciprocamente nella concezione e nel perseguimento di un
medesimo fine. L’es¬ sere ragionevole, infatti, non ha una conoscenza se
non in se¬ guito a una limitazione della propria attività (tesi); ma
d’altro canto non ha attività se non in seguito a una
conoscenza (antitesi) ; conoscenza e attività sono poste come
identiche nella volontà (sintesi) ( l ). Come si ottiene questa
sintesi? Basta pensare all’ essenza originaria dell’ io
oggettivamente considerato : sappiamo che tale essenza è assoluta
attività e nuli’altro che attività; e poiché l’attività, oggettivamente
presa, è impulso, e nell’io nulla esiste o accade di cui egli non abbia
coscienza, cosi, posto nell’ io oggettivo un im¬ pulso, vien posto
altresì iu esso un sentimento di questo impulso. Il sentimento o
coscienza primitiva dell’impulso è, dunque, l’anello sintetico in cui con
l’attività è posta la conoscenza e con la conoscenza l’attività.
Soltanto è da aggiungere che, se dal punto di vista pratico la
conoscenza e l’attività sono inseparabili, la co¬ scienza che accompagna
qui l’impulso non è affatto la co¬ scienza riflessa e iu nessun grado una
riflessione libera ; in essa non c’ è neppure quella specie di libertà
che caratte¬ rizza la rappresentazione e che ci permette di non
rappre¬ sentarci l’oggetto, di fare cioè astrazione da esso ; è una
coscienza tutta spontanea, che s’impone a noi con necessità, è un
sentimento di cui non siamo in nessun modo padroni. Il sistema d’impalisi
e di sentimenti di che s’intesse 1’ io empirico oggettivo deve quindi
concepirsi come na¬ tura, come la nostra natura, come cioè qualcosa di
dato, di non prodotto da noi, d’ indipendente dalla libertà , ma su
cui la libertà può esercitarsi, e si esercita, allorché l’io-soggetto ne
fa oggetto di riflessione e consente o no a soddisfarlo ; e invero, tosto
che riflettiamo sui nostri impulsi originari, non siamo più dominati da
essi ; sono essi, invece, dominati da noi, perchè dipende da noi
asse¬ di Ibid. pp.
condarli o no ; comincia allora il vero ufficio della nostra
libertà cosciente. Nasce così la differenza tra la facoltà appetitiva
inferiore del semplice impulso di natura e la facoltà appetitiva
superiore del medesimo impulso sottoposto alla riflessione e alla libertà
(*). Giova chiarire meglio la facoltà appetitiva inferiore,
prima di passare alla superiore. Abbiamo detto che essa costituisce ciò
che in noi si chiama natura; ma bisogna distinguere la natura nostra
dalla natura delle cose in cui regna il puro meccanismo. Nel mondo
meccanico non c’è attività propriamente detta, c’ è soltanto una
trasmissione di urti attraverso tutta la serie di cause ed effetti,
senza che nessun anello produca o modifichi la forza trasmessa.
Nella natura nostra, al contrario, c’è una vera spontaneità, la quale non
è ancora la libera causalità del pensiero, del concetto, perchè è una
necessaria determinazione dell’esi¬ stenza reale per opera di questa
esistenza stessa, ma sta tuttavia al disopra del puro meccanismo, perchè
consiste in una determinazione proveniente da una serie di cause ed
effetti disposta non più secondo un ordine lineare di suc¬ cessione, sì
bene secondo un ordine ricorrente di recipro- canza ; quivi, infatti, le
singole parti sono a un tempo ef¬ fetti e cause del tutto, onde si ha
quel che si dice un or- (Per essere più chiari : l’impulso e
il sentimento che l’accompagna mancano di libertà; la volontà e la
riflessione che ne è condizione hanno per essenza la li¬ bertà; a parte,
però, questa differenza di capitale importanza ma sol¬ tanto formale,
l’impulso e il sentimento, per quanto riguarda il loro contenuto
materiale, sono identici alla volontà e alla riflessione; l’og¬ getto a
cui tendono necessariamente i primi diventa l’oggetto libe¬ ramente
accettato o ripudiato dalle seconde. gallismo, ossia una
costituzione, la quale, lungi dal dipen¬ dere da un’azione esterna, Ira
in sè stessa il principio della propria determinazione, è dotata insomma
di spontaneità,. La reciprocanza di azione tra le parti di un tutto
orga¬ nico in natura si spiega così: a ciascuna di esse le altre
non lasciano che una certa quantità di realtà, onde cia¬ scuna parte per
la rimanente realtà che le manca non ha che una tendenza (o impulso)
risultante dallo stato de¬ terminato delle altre parti : ciascuna tende a
formare il tutto, a integrarsi con la realtà delle altre ; e cosi
in un’ unità organica la realtà è in proporzione inversa della
tendenza (o impulso) derivante dalla mancanza di realtà; realtà e
tendenzfP (o impulso) si completano a vicenda ; ciascuna parte tende a
soddisfare il bisogno di tutte, e tutte a loro volta tendono a soddisfare
il bisogno di ciascuna ; ogni singola parte tende a combinare la
pro¬ pria essenza e la propria azione con l’essenza e l’azione
delle rimanenti, e questa tendenza giustamente si dice im¬ pilino
plastico (Bildungstrieb), cosi nel senso attivo come nel senso passivo
della parola, perchè è la facoltà a un tempo così d’imprimere come di
ricevere forme. Questa facoltà organizzatrice è universale, essenziale,
inerente a tutte le parti e a tutti gli elementi, onde ciò che si chiama
un tutto naturale, ossia un tutto chiuso, può altresì chiamarsi un
prodotto organico della natura, a costituire il quale certi elementi
della natura, in virtù della causalità di cui questa è dotata, hanno
riunito il loro essere e il loro operare in un solo e medesimo essere, in
un solo e medesimo operare. Ciò posto, ecco quanto accade in quel tutto
organico della natura che è 1’ io individuale, empirico, a partire
dai più bassi impulsi sino alle più alte tendenze. Iu ciascun
io individuale, appunto perchè esso è un tutto organico della natura,
l’essenza delle parti consiste in una tendenza a conservare unite a sè
altre determinate parti, e siffatta tendenza, se attribuita al tutto,
dicesi im¬ pulso all' autoconservazione ; alla conservazione,
s’intende, non dell’esistenza in generale, che è un’astrazione, ma
di un’esistenza determinata. L’impulso all’autoconservazione, che è
poi la tendenza a perseverare nel proprio essere, porta 1’ essere
organico a inferire a sè certi oggetti della natura; di qui l’appetito o
la brama verso questi oggetti, appetito o brama dapprima vaghi e
indeterminati, quasi come il primo grido inarticolato dell’orgauismo
ancora in¬ fante, poi sempre più determinati e differenziati, come
il linguaggio articolato dell’orgauismo adulto. E — si noti bene —
non già la diversità degli oggetti determina lo specificarsi dei vari
appetiti e desideri ; al contrario, i di¬ versi modi del desiderio,
mediante le proprie determina¬ zioni, si creano i propri oggetti. La
coscienza o l’intelli¬ genza* che ci rappresenta gli oggetti non è che il
riflesso dei nostri istinti,, inclinazioni, tendenze, della nostra
vita pratica in generale; non, dunque, gli oggetti suscitano, quasi
loro fine, gli appetiti, ma gli appetiti hanno il proprio fine in sè
stessi, nella propria soddisfazione, e noi non per¬ seguiamo, attraverso
gli oggetti, altro che i nostri desideri esteriorizzati nelle cose (‘).
Ma se è così, se ciò che ci sfor¬ ziamo d’ottenere è non l’oggetto — il
quale si riduce a im simbolo —, sì bene la soddisfazione della
nostra _ten- • denza, della nostra brama, in altri termini, il nostro
godi¬ mento, il nostro piacere, si comprende come, tanto dal punto
di vista della pura natura irriflessa, quanto da quell» della riflessione
sulla natura, sia il piacere il fine supremo della nostra condotta ; di
guisa che, nel primo passaggio imme¬ diato dallo stato di pura natura
allo stato di coscienza ri¬ flessa, la nostra azione cangia di forma — da
necessaria e istintiva diventa libera e riflessa, e tale cangiamento
ne modifica radicalmente il carattere — , ma il suo contenuto
rimane ancora il medesimo, è ancora il piacere: al punto da far sembrare
che l’uomo con la riflessione non si elevi al di sopra della natura, se
non per sottoporlesi meglio e perse¬ guire con pili luce e sicurezza il
fine edonistico. Ora, finché è spinto al piacere e dipende dagli oggetti
dei suoi appetiti, ]' uomo rimane confinato nell’ esercizio della
facoltà appeti¬ ti va inferiore. Ma l’attività ragionevole in lui tende
con co- 1 scienza e riflessione a determinarsi assolutamente da sé,
a rendersi indipendente da ogni oggetto che non sia essa stessa,
quindi anche e soprattutto dal piacere; e allora la nostra azione si differenzia
da quella compiuta allo stato di pura natura, oltreché per la forma,
anche per il contenuto, es¬ sendo questo costituito non pili dal piacere
— comunque ricercato, per istinto cieco e necessario, ovvero per volontà
, cosciente e libera — , ma dalla libertà stessa, che è l’es senza
nostra e il nostro vero fine supremo. L’ uomo si eleva cosi all’esercizio
della facoltà appetitiva superiore, di quella che appartiene non a lui
prodotto di natura, ma a lui spirito puro. Ciò non ostante, le due facoltà
appetitive, l’inferiore e la superiore, costituiscono un solo e medesimo
impulso origi¬ nario dell’io, dell’io veduto da due lati diversi : nella
facoltà appetitiva inferiore, ossia nell’ impulso naturale, mi concepisco
come oggetto, uella facoltà appetitiva superiore, ossia nell’impulso
spirituale, mi concepisco come soggetto, mentre tutta la mia essenza si
ritrova nell’ identità del soggetto e dell’oggetto, ò soggetto-oggetto.
Dall’azione reciproca dei due impulsi nascono tutti i fenomeni dell’ io ;
ma en¬ trambi si fondono in un unico e medesimo io , onde debbono essere
conciliati, unificati ; ed ecco in qual modo : l’impulso superiore
rinunzia alla purezza della propria at¬ tività — purezza che consiste nel
non essere determinato da un oggetto —, lasciandosi determinare da un
oggetto, e l’impulso inferiore rinunzia al piacere in quanto fine,
al piacere per il piacere ; si ha così per risultato della loro
unione un’ attività oggettiva, il cui oggetto e fine ultimo è un’
assolute libertà, un’assoluta indipendenza da ogni na¬ tura;'un fine,
questo, proiettato all’infinito e perciò irrag¬ giungibile — raggiungerlo
sarebbe porre termine in pari tempo all’attività e alla natura che
dell’attività è il limite correlativo, la condizione indispensabile —; un
fine , tut¬ tavia , a cui è possibile avvicinarsi sempre più,
facendo uso della libertà e della facoltà appetitiva superiore.Non si
obietti qui — dice il Fichte ( Sittenlehre, p. 150, nostra traduz. pp.
145-146) — che un’approssima¬ zione all’infinito è contraddittoria, in
quantoche un infinito a cui po¬ tessimo avvicinarci cesserebbe d’essere
un infinito e diverrebbe in certo qual modo suscettivo di misura.
L’infinito non è una cosa, un oggetto posto come dato e verso il quale si
avanzerebbe come verso un termine fissato in precedenza, ma è igu ideale,
ossia appunto ciò che si oppone alla realtà del dato, ciò che nessun dato
può esaurire ; Infatti, grazie alla sintesi dianzi descritta, l’io svelle
sè stesso da tutto ciò che sembra trovarsi fuori di lui, entra in
possesso di sè e si pone dinanzi a sè come asso¬ lutamente indipendente,
essendo l’io riflettente indipen¬ dente per sè stesso, l’io riflettuto
tutfc’ uno con l’io riflet¬ tente, ed entrambi uniti in una sola
inseparabile persona, alla quale il riflettuto dà la forza reale e il
riflettente la co¬ scienza. La persona così costituita non può più agire
ormai se non secondo e mediante concetti, e poiché tutto ciò che ha
la propria ragion d’ essere in un concetto è un prodotto della libertà ,
cosi d’ ora innanzi l’io non agirà più se non liberamente, anche quando
non faccia che assecondare l’im¬ pulso di natura , perchè anche in tal
caso egli non opera meccanicamente ma con coscienza, e in lui non più
il cieco impulso naturale , si bene la coscienza da lui acqui¬
stata di questo impulso naturale è il primo fondamento del suo operare,
il quale perciò è libero — come poco fa no¬ tammo — se non nel contenuto,
almeno nella forma (‘). Ma che significa essere libero e agire
liberamente? Prima di giungere alla riflessione l’io è di natura
sua e questo ideale clie portiamo in noi stessi indietreggia
dinanzi a noi man mano che ci eleviamo verso di esso. Noi possiamo bene
allargare i nostri limiti, inalzarci sempre più verso la libertà, ma non
pos¬ siamo mai sopprimere totalmente questi limiti, attuare cioè la
li¬ bertà; a qualunque grado di liberazione noi si giunga, la libertà
as¬ soluta rimane sempre un ideale. Insomma, .con l’idea di un progress
o infinito il Fichte risolve la contraddizione tra la libertà e la natura
: la natura deve tendere alla libertà come a un fine infinito, e se
l’infi¬ nito potesse essere attuato, la natura s’identificherebbe con la
li¬ bertà ; la realtà di questo progresso non è nel conseguimento —
im¬ possibile — di un fine fissato a un dato punto, ma nel valore
sempre più alto della nostra azione. (Cfr. Léon, op. cit. p. 276).
(*) Ibid. pp. 133-136 (ibid. pp. 129-132). libero, ma per un’
intelligenza fuori di lui, non già per sè stesso ; per essere libero
anche agli occhi propri egli deve porsi come tale , e come tale non si
pone se non allorché diventa cosciente del suo passaggio dallo stato
indetermi¬ nato a uno stato determinato. L’ io determinante e l’io
determinato scftio un solo e medesimo io, prodotto dalla sin¬ tesi del
inflettente e del riflettuto , dell’ io-soggetto e del- 1’ io-oggetto.
Per siffatta sintesi la concezione di un fine di¬ venta immediatamente
azione e l’azione diventa conoscenza della libertà. Senonchè
l’indeterminatezza non è soltanto uon-determinatezza (ossia zei'o), sì
bene un deciso librarsi tra più possibili determinazioni (ossia una
grandezza ne¬ gativa) ; altrimenti essa non potrebbe essere posta e
sa¬ rebbe un nulla. Ora, finché non intervenga la facoltà appeti¬
tiva superiore, non si vede in che modo la libertà possa scegliere tra
più determinazioni possibili; perchè: o si trova in presenza del solo
impulso naturale, e allora non ha nessuna ragione per non seguirlo, anzi
ha ogni ragione per seguirlo; ovvero si trova in presenza di più
impulsi — la quale ipotesi non si comprende nel caso di cui ora si
tratta — e allora seguirà naturalmente il più forte ; nel- l’una e
nell’altra ipotesi, dunque, nessuna possibilità d’in¬ determinatezza.
Siccome però l’essere ragionevole non può esistere senza quella tra le
condizioni della sua ragione¬ volezza che si chiama sentimento morale e
consapevolezza della libertà, bisogna bene ammettere, nell’ impulso
origi¬ nario delirio, un impulso ad acquistare la coscienza e della
moralità e della libertà. Ma tale coscienza, si è visto, ha per
condizione uno stato indeterminato, e non si produce se l’io obbedisce
unicamente all'impulso naturale ; occorre, dunque, che vi sia nell’io un
impulso o tendenza a trarre dal proprio Lxvn
seno, e non già dall’impulso naturale, il contenuto o l’oggetto
dell’azione; occorre, in altri termini, che vi sia una ten¬ denza alla
libertà per sè stessa-, e che alla libertà formale — quella per cui lo
stesso risultato, che la natura avrebbe prodotto se avesse potuto ancora
agire, nasce invece da un nuovo principio, da una nuova forza, ossia
dalla coscienza libera — si aggiunga la libertà materiale — quella
per cui si ha non solo un nuovo principio operante, ma altresì una
serie di effetti tutta nuova anche nel contenuto, onde non solo è
l’intelligenza la forza che opera, ma essa in¬ telligenza opera qualcosa
di ben diverso da ciò che avrebbe operato la natura — (‘). In
virtù della libertà materiale io mi sento emancipato dall’ impulso di
natura, gli oppongo resistenza, e tale resi¬ stenza, considerata come
essenziale all’ io, quindi come im¬ manente, è essa stessa un impulso, l
’impulso pwro*dell’ io. L’impulso naturale si manifesta come iuclinazione
e, per il fatto che io posso dominare la sua forza e sottoporla
alla mia libertà, questa forza diventa qualcosa di cui non fo
stima. L’impulso puro, invece, in quanto mi eleva sopra la natura e mi
pone in grado di contrappormele con la più semplice risoluzione, si
manifesta come tale da ispi¬ rarmi stima e da investirmi di una dignità,
la quale, es¬ sendo al disopra di ogni natura, m’ impone rispetto
verso me stesso; l’impulso puro, anziché al piacere, porta al di¬
sprezzo del piacere ed esige l’affermazione e la conserva¬ zione della
mia assoluta indipendenza e libertà (*). (*) Ibid. pp. 136-139
(ibid. pp. 132-185). (*) Ibid. pp. 139-142 (ibid. pp.
135-138). L’adempimento di questa esigenza e il suo contrario
significano rispettivamente l’accordo e il disaccordo tra l’i- deale
tendenza essenziale dell’ io puro all’assoluta libertà e il reale stato
accidentale dell’io empirico ; suscitano, quindi, il mio interesse —
m’interessa, infatti, ossia tocca diretta- mente il mio sentimento, tutto
ciò che lia immediata rela¬ zione col mio impulso fondamentale (‘) —, si
accompagnano, dunque, a piacere o dolore ; ma — e questo è di
capitale importanza — si tratta qui di stati affettivi che non
hanno nulla a fare con l’affettività comune, perchè consistono in
una contentezza e in un disgusto di sè la cui natura non si confonde mai
con quella del piacere o del dolore dei sensi. Il piacere sensibile che
nasce dall’ accordo tra l’im¬ pulso naturale e la realtà non dipende da
me in quanto sono un io, ossia in quanto sono libero ; esso è tale
da strappare me a me, da rendermi estraneo a me stesso e da farmi
dimenticare in esso ; è, in una parola, involontario , e questa qualità
lo caratterizza nel modo più esatto. Al¬ trettanto vale del suo opposto,
ossia del dolore sensibile. Il piacere morale, al contrario, che nasce
dall’accordo tra l’impulso puro e la realtà, è qualcosa non di estraneo
ma di dipendente dalla mia libertà, qualcosa che potrei aspet¬
tarmi in conformità d’una regola, come non potrei aspet¬ tarmi, invece,
il piacere involontario ; esso, quindi, non mi trasporta fuori di me,
anzi mi fa rientrare in me stesso e, meno tumultuario, ma più intimo del
piacere sensibile, m’in- (‘) Intorno al concetto dell’ interesse
il Fichte fa una specie di digressione ( Sittenlehre, pp. 142-147, nostra
traduz. pp. 138-142) per¬ meglio illuminare la sua trattazione sul
sentimento morale e sulla coscienza morale. fonde, in
quanto soddisfazione e auto-stima, nuovo coraggio' e nuova forza.
Similmente il suo opposto, ossia il dolore morale, appunto perchè dipende
dalla libertà, è un rimpro¬ vero interno, si associa a un sentimento di
auto-disistima e sarebbe insopportabile se il sentirci ancora capaci di
pro¬ varlo non ci risollevasse dinanzi a noi stessi, e non ravvi¬
vasse la coscienza della nostra natura superiore e della no¬ stra
assoluta libertà, insomma la coscienza morale fdas Oetoissen), vale a
dire : la consapevolezza immediata dell’a¬ dempimento del dovere,
dell’accordo cioè tra l’azione (nel mondo della natura) e il fine ideale
(la libertà) (‘). ' Ora, la coscienza morale si connette
strettamente con l’impulso morale, il quale è di natura mista, perchè
parte¬ cipa a un tempo dell’impulso puro e dell’impulso naturale.
Come ? Ogni volizione reale tende all’azione e ogni azione si
porta sopra un oggetto : ogni volizione reale, quindi, è em¬ pirica. E
poiché non posso agire sugli oggetti se non me¬ diante una forza fisica,
la quale non proviene che dal- I’ impulso naturale, cosi ogni fine
concepito dall’intelligenza finisce per coincidere con 1^ soddisfazione
di un impulso naturale. Certo, chi vuole è l'io -intelligenza non già la
na- /M/'fl-iucoscieuza ; ma, quanto al contenuto, il mio volere non
può avere materia diversa da quella che la natura vorrebbe anch’essa, se
di volere fosse capace : non c’ è li¬ bertà circa la materia delle
azioni. E allora quale causalità rimane all’impulso puro, che pur non può
esserne destituito? Affinchè rimanga una causalità all’ impulso puro,
bisogna che la materia dell’azione sia conforme a esso non meno
* (') Siltenlekre, p. 146 (nostra trai! uz. p. 142).
che all’ impulso naturale. Tale duplice conformità si com¬ prende
soltanto così : 1’ impulso puro nell'operare tende alla piena
emancipazione dalla natura ; ma i limiti che l’attività dell' io impone a
sè stessa costringono l’operare entro i con¬ fini dell’ impulso naturale
; onde l’azione conforme a questo secondo impulso diventa conforme anche
al primo quando al pari di esso tenda alla piena emancipazione dalla
natura, si trovi cioè in una serie di sforzi, continuando la quale
all’infinito, l’io si approssima sempre più all’indipendenza assoluta.
Deve esservi una serie di tal genere, che muova dal punto in cui la
persona si trova posta per la propria natura e si prolunghi all’ infinito
verso il .fine supremo e ideale — si badi bene a questo appellativo che
esclude ogni possibilità, di attuazione completa — di ogni
attività, altrimenti uon sarebbe possibile una causalità dell’
impulso puro : questa serie si può chiamare la destinazione morale
dell’ essere ragionevole finito, e seguendola possiamo sapere in ogni
momento quale è il nostro dovere. Il principio della morale può, dunque,
formularsi cosi : Adempì in ogni mo¬ mento la tua destinazione. Quel che
in ogni momento è con¬ forme alla nostra destinazione morale, ossia al
fine a cui si dirige l’impulso puro, è in pari tempo conforme
all’impulso naturale, ma uon tutto quel che è conforme all’impulso
natu¬ rale è conforme alla nostra destinazione morale. Appunto
perciò l’impulso morale è misto: esso riceve dall’impulso na¬ turale la
materia dell’operare, dall’impulso pui'O la forma; per esso io debbo
agire con la coscienza di adempiere un do¬ vere ; gl’ impulsi ciechi
della natura, come la simpatia, la compassione, la benevolenza spontanea,
in quanto tali non hanno nulla di morale, perchè contraddice alla
moralità il lasciarsi spingere ciecamente. L’impulso morale differisce
— 1.XX1 profondamente dal cieco impulso naturale, e molto
ai av¬ vicina all’ impulso puro, perchè la sua causalità è ambigua
(può avere effetto e può anche non averne), perchè esso co¬ manda: sii
libero (cioè: sii in grado di fare e di a'stenerti dal fare). E in questo
comando appare per la prima volta un imperativo categorico, un imperativo
che è un prodotto nostro proprio (nostro in quanto siamo intelligenze
capaci di agire per concetti), e il cui oggetto è il fine non
subor¬ dinato a nessun altro fine. L’impulso morale, infatti, non
ha per fine nessun godimento ; esso esige u la libertà per la libertà
„. È poi evidente in questa formula imperativa il duplice
significato della parola “ libertà „, la quale sta a designare nel primo
posto un operare in quanto tale, ossia un pu¬ ramente soggettivo, e nel
secondo posto uno stato oggettivo che dev’essere conseguito, ossia 1’
ultimo fine assoluto , la piena nostra indipendenza da tutto ciò che è
fuori di noi. In altri termini : io debbo agire con libertà per
divenire libero; e soltanto determinandomi da me stesso e non se¬
guendo altro che le ispirazioni del sentimento del dovere agisco con
libertà e divengo veramente indipendente dalla natura, veramente libero.
A questa distinzione tra la li¬ bertà come attività e la libertà come
risultalo , che è di così grande importanza nel nostro sistema, se ne
aggiunge un’ altra entro il concetto stesso di libertà intesa come
at¬ tività : la distinzione, cioè, tra la forma e la materia del-
1’ attività libera ; distinzione da cui nasce la divisione della dottrina
morale e con cui si passa all’ applicazione siste¬ matica del principio
della moralità ; di che si tratta nel terzo libro ('). (*)
Ibid. pp. 142-156 (ibid. pp. 188-152). Quest’ultimo libro si divide in
tre parti: A) la prima discorre delle condizioni formali della
moralità delle nostre azioni : B) la seconda del contenuto
materiate della legge morale; C) la terza, infine, espone la
dottrina dei doveri propriamente delta. A) Condizioni formali
della moralità delle nostre azioni. — Il principio formale di ogni
moralità può enun¬ ciarsi così : “ opera sempre secondo la convinzione
che hai intorno al tuo dovere „. Questo imperativo o legge — che
presuppone naturalmente e logicamente una libera volontà (') — si scinde
in due precetti, di cui 1’ uno con¬ cerne la forma o la condizione : u
procurati la convinzione di ciò che è tuo dovere „ , 1’ altro la materia
o il condi¬ zionato : “ fai ciò che ritieni con convinzione tuo
dovere 9 failo soltanto perchè lo ritieni tale Ora, la convinzione
nasce dall’ accordo di un atto della facoltà giudicatrice con t’ impulso
morale, e il criterio della giustezza della nostra convinzione è un
sentimento intimo al di là del quale non si può risalire, perchè con esso
si raggiunge 1’ espressione diretta della nostra essenza assoluta e della
nostra finalità. Per conseguenza, la coscienza morale, che in quel
senti¬ mento ha radice, va immune per natura sua da dubbio e da
errore, non può ingannarsi, nè è suscettiva di rettifiche da parte di un’
inconcepibile coscienti più interiore, è essa stessa giudice di ogni
convinzione e le sue sentenze non ammettono appello. Voler oltrepassare
la propria coscienza morale per timore che possa essere erronea, sarebbe
come voler uscire fuori di sè, voler separarsi da sè stesso. È
condizione formale della moralità , quindi, non decidersi (*) Della
volontà iu particolare e della sua natura cosi opposta al juro
meccanismo, il Pielite tratta nel § 14 della Sitlenlehre (nostra traduz.
pp. 155-160). all’azione se non per soddisfare alla propria
coscienza mo¬ rale, all’impulso originario dell’io puro, senza
sottostare ad altra autorità che non sia quella della propria
convin- zione, del proprio giudizio. Chi, dunque, agisce senza con¬
sultare la sua coscienza, senza essersi prima assicurato j delle
decisioni di questa, agisce, come suol dirsi, senza co¬ scienza, e
perciò immoralmente, è colpevole e non può im¬ putare la sua colpa ad
altri che a sè stesso (*). Similmente opera senza coscienza, e perciò
senza moralità, chi si lascia guidare dall’autorità altrui, perchè la
convinzione della co¬ scienza morale e la certezza della sua giustezza
non na¬ scono mai da giudizi estranei, ma traggono origine esclu¬ sivamente
dal soggetto : sarebbe una flagrante contraddi¬ zione far-e di qualche
cosa che non sono io stesso un sen- • timento di me stesso. In
conclusione: in tutta la nostra condotta (si tratti della ricerca
scientifica, ovvero della vita pratica) 1’ azione , per essere morale,
deve uscire da un’ intima convinzione, perchè soltanto allora essa
esprime veramente la nostra autonomia spirituale ; ogni azione
fatta per autorità (si tratti dell’ accettazione di una verità che
non risponde in noi a una convinzione, ovvero del compi¬ mento di un’
azione che accettiamo come un ordine) va direttamente contro il verdetto
della coscienza, è male, è I colpa (*). (') Giova ricordare
che per il Fichte non vi sono azioni indiffe¬ renti; tutte debbono essere
riferite alla legge morale, uon foss’altro per assicurarsi che sono
lecite; onde anche le azioni più indifferenti iu apparenza, vanno
sottoposte a matura riflessione, sempre iu vista della legge morale.
,(*) Siltenlehre, pp. 1 B8-175 (nostra tradnz. pp. KìO-172). —
Risulta qui ancora una volta definitivamente stabilito il primato della
ragione pratica sulla ragione teorica; di quella ragione pratica che agli
occhi E facile argomentare da ciò quale sia la causa del male o della
colpa nell’essere ragionevole finito. Quel che in generale costituisce
l’essere ragionevole trovasi neces¬ sariamente ih ciascun individuo
ragionevole, altrimenti questi non sarebbe più tale. Ora, secondo la
legge morale, P io individuale, finito, empirico, che vive nel tempo,
deve tendere a divenire un’esatta copia dell’Io primitivo, ori¬
ginario, infinito, extra-temporale; ma, sottoposto com’è alla condizione
del t^mpo, non può acquistare la chiara co¬ scienza di tutto ciò che
primitivamente e originariamente fa l’essenza dell’Io, se non mediante un
lavoro successivo e una progressione nel tempo. Finché questo lavoro più
o meno faticoso e questa progressione più o meno lenta non abbiano
compiuto nell’ io empirico individuale il passaggio dallo stato d’
irriflessione al massimo sviluppo della co¬ scienza morale, c’ è sempre
luogo nella nostra condotta al- l’immoralità, alla colpa, al male.
Conviene, dunque, seguire questa storia dello sviluppo della coscienza
emjnrica, per vedere attraverso quali fasi germogli e maturi il seme
della moralità, notando a tal proposito ohe tutto sembrerà suc¬
cedere come casualmente, perchè tutto dipende dalla libertà, e in nessun
modo da una meccanica legge di natura ('). Anzitutto, e al suo
grado pivi dàsso, l’io empirico si riduce a un’attività istintiva ;
l’istinto, senza dubbio, si ac¬ compagna con la coscienza, dista però
ancor molto dalla del Fichte è veramente la ragione, e nella quale
si attua l’accordo dell’essere e dell’agire, dell’oggetto e del soggetto,
della produzione e della riflessione, e che ci fornisce l’intuizione, la
coscienza immediata dell’ Io assoluto. E risulta anche come la morale del
Fichte fluisca per essere in sostanza una morale del sentimento.
(<) Jhid. pp. 177-178 (ibid. pp. 171-175).
riflessione; l’uomo allora segue meramente e semplicemente M’ impulso
naturale e, così facendo, è libero per un’ intelli¬ genza fuori di lui,
ma per sè stesso è puro animale. I Tuttavia l’uomo può riflettere
su questo stato; e tale riflessione è per natura sua un atto di libertà :
essa non è nè fisicamente nè logicamente necessaria, ma soltanto
mo¬ ralmente obbligatoria: chi vuole adempiere la propria de¬
stinazione e acquistare in sè la coscienza dell’ Io puro, deve riflettere
su questo suo stato, e mercè tale riflessione si eleva, quasi, sopra sè
stesso, si stacca dalla natura, se ne distingue e le si oppone come
intelligenza libera ; ac¬ quista cosi il potere di differire ‘la propria
autodetermi¬ nazione e di scegliere quindi tra più modi — la
pluralità dei modi nasce appunto dalla riflessione e dal
differimento della risoluzione — di soddisfare l’impulso naturale.
Tale scelta si compie secondo una massima liberamente adottata
dall’ io individuale, e perciò profondamente diversa dal prin¬ cipio
supremo che scaturisce dalla legge morale e che non è, come la massima,
un libero prodotto della coscienza em¬ pirica ; per conseguenza, nel caso
di una massima cattiva, la colpa spetta tutta all’ io individuale. Ora,
in questa se¬ conda fase di sviluppo, dovuta al primo grado della
rifles¬ sione, l’io acquista coscienza del fine a cui tende 1’ im¬
pulso naturale, lo fa suo e adotta come regola di .condotta la massima
della felicità. L’uomo rimane dunque ancora un animale, ma diventa un animale
intelligente, prudente: è già formalmente libero; soltanto mette la sua
libertà al servigio dell’ impulso naturale. La massima della
felicità, per quanto sia un prodotto della sua libertà, non può es¬
sere diversa da quella che è, e, una volta posta, egli le ob¬ bedisce
necessariamente. Senonchè la massima stessa, e con essa il carattere ohe
ne risulta, non ha nulla di neces-, sario e non è detto che l’io
individuale debba arrestarvi»]/ se vi si arresta è soltanto sua colpa;
nulla lo costringe L progredire, è vero, ma egli deve e può progredire,
facenti uso della propria libertà ed elevandosi liberamente a qn
piu alto grado di riflessione. Il male morale non deriva ile non dal
fatto che l’uomo il più delle volte non esercita la propria libertà, onde
a ragione il Kant riteneva il male radicale innato nell’uomo e nondimeno
prodotto dalla sua libertà. Quando però — con nuovo miracolo
della sua sponta¬ neità — 1’ uomo, nella fase ora descritta, esercita la
pro¬ pria libertà, una seoonda riflessione si compie, che, al pari
della precedente, ha carattere non di necessità fisica o lo¬ gica, ma di
obbligatorietà morale, e in virtù di essa nasce una terza fase, nella
quale l’io individuale prende coscienza della sua opposizione rispetto
alla natura e della sponta¬ neità del proprio operare, ed erige questa
spontaneità stessa, ossia la propria volontà, a nuova massima di
con¬ dotta. Non piu la ricerca della felicità guida ora le sue
azioni, ma il godimento di un’ indipendenza dal nou-io la quale non
ammette freno al proprio capriccio e fa di sè stessa il proprio idolo. Si
ha, quindi, un progresso verso la libertà assoluta, ma non ancora la vera
libertà morale, non ancora la volontà riflessa sottoposta alla legge del
do¬ vere. Anzi, mentre la massima della felicità è, si, man¬ canza
di legge, ma non addirittura rovesciamento della l e gg®> n ® ostilità
contro questa, lt^ massima della volontà egoistica e arbitraria, invece,
può portare sino alla trasgres¬ sione intenzionale della legge. Il
carattere della condotta ispirata a tale massima è soltanto la
soddisfazione dell’amor proprio, dell’ orgoglio, del bisogno di dominare,
ottenuta a qualsiasi costo, anche di dolori corporei ; e appunto
questa idolatria della volontà egoistica spiega pressoché tutta la
storia umana : essa riempie grandissima parte del teatro del inondo con
le sue lotte e le sue guerre, con, le sue vittorie e le sue sconfitte. u
II soggiogamento dei corpi e delle anime dei popoli, le guerre di
conquista e di reli¬ gione, e tutti i misfatti cou cui l’umanità si è
disono¬ rata non si spiegano altrimenti. Che cosa indusse l'inva¬
sore, l - oppressore a perseguire il proprio fine con pericolo e fatica ?
Sperava egli forse che per tal modo si ac¬ crescerebbero le fonti dei
suoi godimenti sensitivi? No davvero. 1 Ciò ohe io voglio deve accadere,
a quel che io dico si deve stare ’ : ecco 1’ unico principio che lo
mo¬ veva „ (‘). Un siffatto culto della volontà egoistica certa¬
mente non è senza una certa aureola di grandezza, poiché giunge anche al
disinteresse: non al disinteresse che deriva dall' obbedienza al dovere e
che solo ha significato morale, ma a un disinteresse di carattere
impulsivo, derivante dal desiderio di suscitare ammirazione, di
cattivarsi stima, e che rimane tuttora una forma di amor proprio e di
orgoglio. E un culto che porta sino al sacrifizio della vita — e ci
vuole del coraggio a vincere in noi la natura — , ma questo sacrifizio è
senza valore etico, perché è fatto soltanto al proprio io individuale, è
puro egoismo. «Certo, rispetto alla fase precedente, la quale non mirava
che alla felicità sensibile, la fase ora descritta segna un progresso e
sta come a rappresentare 1’ età eroica dello sviluppo morale ; ma
dal punto di vista della moralità nulla di più perico¬ li Ibid. p.
190 (ibid. p. 186). luso che arrestarvisi, perchè essa ci abitua a
considerare come nobili e meritori, come rari e ammirevoli, come
opera mpererogativa, atti che sono semplicemente dove¬ rosi, e a considerare
d’ altra parto tutto ciò che a vantaggio nostro si fa da Dio, dalla
natura, dagli altri uomini, come nulla più che doveri verso di noi. Con
siffatte pretensioni la massima della volontà egoistica e senza, freno,
adottata in questa fase, è peggiore di ogni altra, perchè finisce
ad¬ dirittura col corrompere le stesse radici della moralità : “
>1 pubblicano peccatore non vale più del fariseo sedicente giusto, in
quanto che nessuno dei due ha il menomo va¬ lore ; ma il secondo è assai
più difficile a convertire del primo „ (*). Per elevarsi al
disopra di questa terza fase basta che l’uomo — con un terzo atto di
riflessione, al pari dei precedenti spontaneo ma inesplicabile, non
necessario ma obbligatorio — acquisti coscienza chiara di quell’
originario impulso all’ indipendenza assoluta che, considerato
(analo¬ gamente a un eminente grado di capacità intellettuale) come
un dono gratuito della natura, può chiamarsi genio della virtù, ma che,
allo ^tato d’impulso cieco, pi'oduce un carattere assai immorale. Mercè
la riflessione, quell’ im¬ pulso si trasforma in una legge assolutamente
imperativa, e poiché ogni riflessione limita e determina ciò che è
ri¬ flettuto, anche quell’impulso sarà limitato dalla riflessione,
e da cieco impulso verso una causalità sconfinata diventerà una legge di
causalità condizionata ; riflettendo, l’uomo sa di dovere assolutamente
qualche cosa ; e affinchè questo sapere si tramuti in azione, bisogna che
egli adotti la mas- (*) Ibid. p. 191 (ibid. p. 187). sima :
adempì il Ino dovere perchè è tuo dovere. Sorge così la coscienza morale,
la quale impone appunto alla volontà arbitraria, alla volontà senza
regola uè freno della fase pre¬ cedente, l’obbedienza al principio
assoluto della ragione. Una volta conseguita questa chiara
coscienza del do¬ vere, la nostra condotta vi si conforma
necessariamente, essendo inconcepibile che noi ci decidiamo di proposito
e con piena chiarezza a ribellarci alla nostra legge, a mancare al
nostro dovere, appunto perchè è la nostra legge, ap¬ punto perchè è il
nostro dovere : vi sarebbe in ciò, oltre che una contraddizione evidente,
una condotta veramente diabolica, se lo stesso concetto u diavolo „ non
fosse contrad¬ dittorio (*). Soltanto può accadere che la
chiara coscienza del do¬ vere si annebbii, si oscuri, che la riflessione
non si mantenga sempre alle altezze della moralità, e la nostra
condotta, perciò, cessi di essere conforme alla legge morale. Il
do¬ vere primo, quindi, e anche il più alto, è mantenere la
coscienza del dovere in tutta l’intensità della sua luce e «Iella sua
forza. Bisogna vegliare continuamente su noi stessi, alimentare senza
tregua il fuoco sacro della rifles¬ sione; possiamo fare di questa
riflessione un’abitudine, •senza perciò renderla una necessità, senza
pregiudizio cioè della libertà, allo stesso modo diesi può fare
un’abitudine dell’irriflessione, con cui la coscienza empirica comincia,
e persistere in essa, senza renderla perciò una necessità e senza
escludere quindi 1’ esercizio della libertà. Nella sua Ascetih «fa Animili/ zur
Murai ( Ascetica conir ap~ pendice alta Morale) i 1708) — contenuta in
Nuahgelarsene Werke , voi. Ili, pp. 119-144 e tradotta in inglese
dal Kroeger nel voi. Se la coscienza morale svanisce del tutto, si da
non lasciar sopravvivere più nessun sentimento del dovere, noi
The sciunce of Elltics bij Fichte (1907) dianzi ricordato — il
Pielite si adopera a fornire il mozzo pratico per mantener viva o
luminosa, una volta nata per opera della libertà, la coscienza del
dovere, 'l'ale mezzo consiste ned’associazione delle idee, intermediaria
tra la ne¬ cessità della natura e la libertà della ragione, e
precisamente nel- l’associare in precedenza la rappresentazione dell'atto
futuro con la rappresentazione dell’atto conforme al dovere. Occorre, in
altri ter¬ mini, che i due propositi : 1) voglio fare quest’ azione, 2)
non voglio agire se non conforme al dovere, siano indissolubilmente uniti
in ima sintesi, e la funzione propria dell’ Ascetica consiste appunto
in questa associazione permanente e anticipata del concetto del do¬
vere non solo col concetto della nostra condotta in generale il che
sarebbe ancora troppo vago e astratto — ma con i concetti di azioni determinate,
soprattutto di quelle abituali, quotidiane, in cui più fa¬ cilmente
possiamo peccare per omissione o violazione del dovere; mentre invece per
le azioni eccezionali e straordinarie difficilmente manca I intervento
della riflessione e la conseguente chiarezza della coscienza. Di qui due
regole: 1) un esame di coscienza generale dei casi in cui siamo più
esposti al pericolo di cadere in colpa; 2) la risoluzione ferma e sempre
attiva di ridettero, in questi casi, sopra noi stessi e di sorvegliarci, opponendo
alla forza cieoa e alla resi¬ stenza passiva di certi stati di coscienza,
divenuti abitudini quasi invincibili, la causalità iutelligAte della
coscienza morale: è noto ohe spesso basta ridettero sulla propria
passione e rendersi consape¬ voli delle associazioni che la costituiscono
per liberarsene, dissociando mentalmente i fattori da cui nasce e
controbilanciando il piacere che ci aspettiamo dal suo soddisfacimento
col disprezzo che accom¬ pagna la trasgressione del dovere. Ma, affinchè
l’esame della propria coscienza abbia valore etico, bisogna che non si
riduca a una pura aulocontemplazione, a un’ analisi fatta quasi per
semplice giuoco estetico; bisogna, invece, che si proponga la nostra
riforma morale, il miglioramento della nostra attività. Tale esortazione,
del resto, si rivolge non già agli uomini privi di coltura, la cui vita é
tutta ri¬ volta all’azione, ond’essi non ridettono se non per agire, ma
agli artisti, ai letterati, e persino ai lilosotì e ai sacerdoti, per i
quali è frequente il grave pericolo di dimenticare il valore pratico
delle coso, di arrestarsi alla contemplazione e di nou tradurre la
speculazione in azione. ricadiamo in uno degli stati che precedono
la moralità e operiamo secondo la massima o della felicità o del
dominio arbitrario della nostra volontà egoistica. Se, invece, ci
ri¬ mane ancora un sentimento vago e intermittente del dóvere.
possono verificarsi le seguenti tre specie d’indeterminatezza
corrispondenti alle tre condizioni che rendono determinato il dovere.
L’indeterminatezza può concernere: a) la materia del dovere, cioè
l’applicazione della legge morale a un dato caso : in ciascun singolo
caso tra più azioni possibili non ce n è che una conforme al dovere ; ma,
per insufficiente attenzione e riflessione, noi cediamo segretamente, e
quasi a nostra insaputa, a qualche altra sollecitazione e perdiamo
il filo conduttore della coscienza ; b) il momento del do¬ vere : in
ciascun singolo caso si deve adempiere subito ciò che è dovere; ma, per
l’affievolirsi della coscienza, ci illudiamo che non occorra affrettarsi
a ciò, procrastiniamo il nostro perfezionamento e ci abituiamo a
procrastinarlo all’ infinito ; c) la forma del dovere : l’imperativo
mo¬ rale è categorico, esige obbedienza assoluta e incondi¬ zionata
; ma, se perdiamo di vista tale sua caratteristica, consideriamo il
dovere, anziché come un comando, come un semplice consiglio che si può
seguire quando piaccia e non costi troppa abnegazione, e con cui si può
anche transigere; di qui quei compromessi, quegli accomodamenti con
la propria coscienza che sono altrettanti modi di elu¬ dere la legge
morale, altrettante cause di torpore per la riflessione, e che pongono
nel massimo pericolo la nostra salvezza spirituale, quando per caso non sopravvenga
dall’esterno una forte scossa, la quale ci sia occasione a rientrare in
noi, a ravvederci. Quest’ultima maniera d’in¬ tendere il dovere, infatti,
accusa la morale di rigorismo impraticabile, sotto lo specioso pretesto che
l’ adempimento del dovere impone troppi sacrifizi, quasi che non fosse
ap¬ punto in ciò 1’ obbligo nostro: nel sacrificar tutto al dovere,
la vita, l’onore e ogni cosa all’uomo più caramente di¬ letta (*).
Quale che sia il modo di oscurarsi della coscienza, si può dire in
generale che la causa di questo suo oscurarsi e del conseguente smarrirsi
della moralità, la causa iu- somma del male, va ricercata in una
sconfitta della libertà. Se la riflessione che ci eleva alla libertà
consiste in una creazione da parte della libertà e quasi in un colpo
di grazia che ci strappa all’oppressione della natura, il man-
tenimento della chiara coscienza del dovere non può es¬ sere che un
perpetuo riprodursi di questo atto creativo, una creazione continuata,
uno sforzo incessante della ri¬ flessione, dell’ attenzione ; e appunto
perciò al menomo affie¬ volirsi della nostra vigilanza consegue la
nosti-a caduta e il trionfo delle forze antagonistiche della natura, le
quali sono sempre e necessariamente in azione : tosto che cessa lo
sforzo morale, l’impulso^ naturale inevitabilmente ha il sopravvento e,
con la luce della coscienza, si spegue anche la virtù. Ogni uomo, dallo
stato di natura, con cui s’inizia la sua vita in una specie d’innocenza —
perchè sono ancora ignorati gli stati superiori in cui l’innocenza
primitiva assume aspetto di colpa —, perviene necessariamente alla
coscienza di sé stesso : a ciò gli basta riflettere sulla li¬ bertà che
ha di scegliere tra più azioni possibili per sod¬ disfare 1’ impulso
naturale; siamo allora in quella fase in cui egli opera secondo la
massima dell’ interesse o della (') Siuenlehre, pp. 192-197
(nostra traduz. pp. 186-193). felicità. In questo grado di sviluppo rimano
volentieri, trat- ' tenutovi dalla forza d 'inerzia che l’uomo, in quanto
essere sensibile, ha in comune con tutta la natura fisica. È vero
che, in virtù della sua natura superiore, egli deve 'strap¬ parsi a
questo stato, e può farlo perchè dotato di libertà ; ma proprio la sua
libertà è impedita in questo stato, essendo essa alleata con quella forza
d'inerzia, da cui dovrebbe in¬ vece svincolarsi ; come farà egli a
elevarsi alla libertà, quando per questa elevazione stessa deve far uso
della libertà ? donde attingerà la forza che faccia da contrap¬ peso
nella bilancia per vincere la forza d’inerzia ? Cer¬ tamente non nella
sua natura empirica, la quale in nessun modo fornisce alcunché di simile
; gli occorre, dunque, un aiuto superiore ; 1’ uomo naturale qui non può
nulla da sé: vedremo presto da qual miracolo sarà salvato.
Intanto sappiamo che F inerzia , la pigrizia — la quale a forza di
riprodursi indefinitamente diviene impotenza morale — è il vizio
radicale, il male innato, il peccato originale: l'uomo è per natura
pigro, dice assai giusta¬ mente il Kant. — Da pigrizia nasce
immediatamente viltà, il secondo vizio fondamentale dell’ uomo ; la viltà
è la pigrizia d’affermare la propria libertà e indipendenza nello
scambio ili azione con gli altri : donde tutte le specie di schiavitù
fisica e morale tra gli uomini. In genere si ha abbastanza coraggio
dinanzi a coloro di cui si conosce la debolezza relativa, ma si è
disposti a cedere, a umiliarsi, dinanzi a una supposta e temuta
superiorità qualsiasi ; si preferisce la sottomissione piuttosto che lo
sforzo neces¬ sario a resistere; precisamente come quel marinaio che
pre¬ feriva le eventuali pene dell’ inferno al lavoro faticoso di
correggersi in questa vita. — Il vile si consola di questa sottomissione
forzata con 1’ astuzia e con la frode ; da viltà nasce inevitabilmente il
terzo vizio fondamentale : falsità. È questa il risultato di uno sforzo
indiretto che si compie per ricuperare l’indipendenza perduta,
quell’indipendenza che nessun nomo può sacrificare ad altri cosi interamente
come il pigro finge di fare per essere dispensato dalla fatica di
difenderla in aperta battaglia. Falsità, menzogna, ma¬ lizia, insidia
derivauo dall’esistenza di un oppressore, e ogni oppressore deve
aspettarsi tali frutti. Soltanto il vile è falso; il coraggioso non mente
e non è falso: per orgo¬ glio, se non per virtù. Ma come pud
aiutarsi l’uomo, quando in lui è radi¬ cata la pigrizia, la quale
paralizza appunto l’unica forza con cui' egli deve aiutarsi ? che cosa
gli mauca propria¬ mente? — Non già t la forza, che egli ben possiede, ma
la coscienza della forza e l’Impulso a farne uso. — E donde gli
verrà questo impulso? — Non da altra foute che dalla riflessione: è
necessario che 1’ io empirico, avendo in sè l’im¬ magine dell’Io
assoluto, e vedendosi in tutta la propria bruttezza, senta orrore di sè ;
soltanto per questa via potrà formarsi la coscienza di quel che deve
essere, soltanto di là verrà l’impulso. In genere gl’ individui che formano
la grande maggioranza degli uomini hanno bisogno di ap¬ prendere la
propria libertà da altri individui liberi, che essi contemplano come
modelli ; ma vi souo nella moltitu¬ dine spiriti eletti a cui fu dato di
essere gl’ iniziatori della moralità e quasi i primi maestri dell'
umanità, per es. i fondatori di religione. Si comprende come costoro,
non avendo attinto dall’ esempio altrui la consapevolezza della
propria indipendenza, e non trovando nella propria natura empirica il
principio dell’ emancipazione da questa natura empirica, si credano
ispirati dall' alto da una grazia so¬ prannaturale, da uno spirito
divino, mentre invece non han fatto che obbedire alla propria natura
superiore, all’Io as¬ soluto, di cui l’io finito e individuale deve
divenire la copia fedele ( J ). B) Contenuto materiale della
legge morale, ovvero veduta sistematica dei nostri doveri. — Una volta
eman¬ cipato dalla schiavitù della natura e divenuto cosciente
della propria libertà formale, 1’ uomo deve far uso di questa per
compiere l’infinita serie di azioni diretta verso 1’ as¬ soluta libertà
materiale. Quale la materia di queste azioni? In qual modo 1’ io
individuale si eleverà gradatamente sino a quell’ indipendenza assoluta,
a quello stato oggettivo di libertà, che è il fine ultimo della sua
libera attività sog¬ gettiva? — L’accennammo già: l’attuazione dello
stato di libertà non si ottiene se non determinando il mondo in
funzione della libertà stessa, operando cioè come chi considera e tratta
le cose dal punto di vista non della loro esistenza data, ma della loro
finalità, non del loro es¬ sere, ma del loro dover-essere, e le modifica
perciò e le adatta progressivamente nella direzione di questa
finalità, di questo dovere. Tale determinazione del mondo secondo
1’ idea della libertà, determinazione posta come obbligatoria e come
praticamente necessaria, costituisce il sistema dei nostri doveri, la
materia della moralità. In altri termini, la morale propriamente detta
non è che l’insieme delle con¬ dizioni a cui il mondo va sottoposto e a
cui deve prestarsi per essere strumento all’ attuazione della
libertà. Queste condizioni possono ridursi a tre, perchè
triplice è il punto di vista da cui può considerarsi il mondo. Il
mondo si può considerare : a) in sè, come pura e semplice materia, come
natura corporea ; b) nel suo rapporto col pensiero, come materia di
conoscenza ; c ) nel suo rapporto col volere, come oggetto indispensabile
all’ esercizio dell’ at¬ tività, come il luogo d’incontro delle
molteplici sfere di li¬ bertà individuale, come il teatro della società.
E per la morale si tratta appunto di mostrare a) nella nostra na¬
tura corporea, b) nella nostra intelligenza, c) nella nostra vita
sociale, gli strumenti per l’attuazione della libertà, la quale non può
divenire reale se non operando sul mondo oggettivo, per mezzo del corpo,
dell’intelligenza e della società. Come, dunque, dobbiamo trattare, in
vista del fine ideale da raggiungere, a) il corpo, b) l’intelligenza, c)
la società ? ' « a) Il nostro corpo, essendo da una parte
prodotto di natura, dall’ altra strumento della causalità del
concetto, funziona da intermediario tra la necessità e la libertà.
La volizione si esercita immediatamente su di esso, e per esso
modifica mediatamente il mondo esterno secondo i nostri concetti. Di qui
risulta chiaro un triplice dovere rispetto al corpo : 1) un dovere
negativo : non far mai del proprio corpo il fine ultimo delle proprie
azioni ; 2) un dovere po¬ sitivo : conservare e coltivare il proprio
corpo nell’interesse della libertà ; 3) un dovere limitativo : evitare
come illecito ogni piacere corporeo che non si riferisca al fine
ultimo della nostra attività. u Mangiate e bevete in onore di Dio:
se questa morale vi sembra troppo austera, tanto peggio per voi ; non ce
n’ è un’ altra „ L’intelligenza è la forma indispensabile attraverso cui
può attuarsi la libertà, poiché soltanto la riflessione dà alla libertà
la sua legge; fuori dell’intelligenza ci sarà 1’ istinto cieco, non già
la coscienza morale ; l’intelligenza è il veicolo stesso della moralità.
Diciamo di più-: per la legge morale , mentre il corpo è condizione
materiale pu¬ ramente esterna e soltanto della sua causalità,
l’intel¬ ligenza è condizione materiale veramente interna e di
tutta quanta la sua essenza. Di qui un triplice dovere anche verso
l’intelligenza : 1) un dovere negativo : non subordinare mai materialiter
— ossia nelle sue ricerche e cognizioni — l’intelligenza a nessuna
autorità, foss’anche quella della legge morale ; la ricerca da parte
della ragione teorica dev’ essere assolutamente libera e disinteressata
, non deve preoccuparsi di altro che non sia l’acquisto della
conoscenza ; 2) un dovere positivo : formare l’intel¬ ligenza il più
possibile ; il più possibile imparare, pensare, indagare ; 8) un dovere
limitativo : subordinare formaliier l’intelligenza alla moralità, la
quale rimane sempre il fine supremo ; riferire al dovere tutte le nostre
investigazioni ; coltivare la scienza non per curiosità ma per dovere,
es¬ sendo essa strumento di moralità ('). c) La società,
infine, può dirsi addirittura l’espres¬ sione vivente della libertà , in
quanto questa non si con¬ cepisce come qualcosa d’individuale, ma
soltanto come una recijjrocanza di rapporti tra più individui
corporei, intelligenti e volenti. L’ideale della libertà, quindi,
si attua non nel singolo uomo , ma nella comunità di tutti gli
uomini, in seno alla quale V individuo diviene persona. e senza la quale
per l’ individuo nessun perfezionamento, anzi nemmeno l’esistenza stessa,
sarebbe possibile, essendo individuo e società termini correlativi,
coudizionantisi a vicenda. Se così è, se 1’ io empirico non può porsi
altri¬ menti che come individuo, e se come tale non può pre¬ scindere
dai suoi rapporti con la società , che vai quanto dire dalla esistenza di
altri individui e dalla loro libertà, è evidente che egli non può voler
sopprimere questa esi¬ stenza e questa libertà, da cui sono determinate
l’esistenza e la libertà sua propina. La mia tendenza
all’indipendenza assoluta, fine supremo della mia attività, è dunque
subor¬ dinata alla libertà .degli altri. Le libere azioni degli
altri sono gli originari punti di confine della mia individualità,
e a esse io reagisco f non meno liberamente, autodetermi- nandomi a
quella serie di azioni che prescelgo e da cui uscirà costituita la mia
personalità, non essendo io se non quel che mi fo • con le mie azioni, e
non consistendo il mio essere in altro che nel mio operare. Soltanto
che mentre il mio operare, rispetto a quegli originari punti di
confine della mia individualità, ossia rispetto ai liberi in¬ flussi
degli altri , mi appare 1’ effetto della mia assoluta autodeterminazioue,
della mia libera causalità, quei punti di confine , quei liberi influssi^
degli altri , invece , mi ap¬ paiono come predeterminati p priori ; alla
stessa guisa che dal punto di vista altrui s’invertono le parti , e
agli altri appare liberamente autodeterminato il loro agire su di
me e predeterminato a priori il mio reagire su di loro. Il che dà luogo ,
è vero , a un’ antinomia tra predetermi¬ nazione e autodeterminazione, ma
a un’ antinomia che si risolve facilmente cosi : tutte le azioni libere
(le mie come le altrui) sono predeterminate ab aeterno (ossia fuori
del tempo) dalla ragione universale ; ma il momento in cui ciascuna
deve accadere e gli attori di essa non sono pre- ^ determinati : ecco,
quindi, predestinazione e libertà perfet¬ tamente conciliate (*). Ciò premesso
- è evidente il-dovere fondamentale verso la società : non impedire , con
1’ eser¬ cizio della propria libertà, la libertà degli altri, hou
trat¬ tare gli altri uomini come cose, come semplici strumenti
della propria libertà. Ma anche nell’ interno di questo do¬ vere sembra
annidarsi un’ antinomia : da una parte devo tendere all’ indipendenza
assoluta , all’ emancipazione da ogni limitazione, dall’altra devo
rispettare la libertà altrui, la quale è una vera limitazione alla mia
libertà ; da una parte devo agire sul moudo sensibile si da farne, come
il mio corpo, il mezzo per giungere al line supremo , all’ as¬
soluta libertà, dall’ altra non mi è lecito modificare i pro¬ dotti della
libertà altrui. Come comporre questa nuova contraddizione ? Non difficile
la soluzione : basta supporre tra le molteplici libertà individuali ,
anziché contrasto, vera comunanza di azione ; se dal punto di vista
giuridico occorre una forza coercitiva (l’autorità dello Stato), la
quale, restringendo l’esercizio delle libertà individuali an¬ tagonistiche
, renda possibile il loro mutuo sviluppo , dal punto di vista morale,
invece, tutti gli individui sottostanno alla medesima legge, tutti
perseguono il medesimo fine , tutti sono in certo qual modo identici
nella loro condotta conforme al dovere. perchè tutti hanno il medesimo
do¬ vere, e l’emancipazione degli uni, lungi dall’opporlesi, è
necessaria all’ emancipazione degli altri, perchè l’indipendenza di ciascuno va
di pari passo con l’indipendenza di tutti, perchè la libertà , intesa nel
senso morale, non si attua se uon uella collettività, degli esseri
liberi. Dunque, non già limitazione o interferenza tra le libertà
indivi¬ duali, sì bene confluenza, collaborazione a un’opera
comune, al trionfo della ragione : il rispetto della libertà altrui
è qui compatibile con 1’ esercizio assoluto della libertà pro¬
pria, perchè questa e quella si accordano e si completano reciprocamente,
la liberazione dell’uno è in pari tempo la liberazione di tutti.
E invero , 1’ originaria tendenza all’ indipendenza as¬ soluta non
si riferisce a un determinato individuo ; ha per oggetto la libertà
assoluta, l’autonomia della ragione in generale. L’ultimo fine della
moralità è il regno della ragione in quanto ragione, il che non si ottiene
se non nella comunanza e con la cooperazioue di tutti gli esseri
che partecipano della ragione, di tutta l’umanità ; la libertà, —
ripetiamo — non hì concepisce sotto la forma dell' in¬ dividualità, essa
è di natura essenzialmeute sociale e uni¬ versale, e non si attua nel
singolo uomo se uon in quanto questi da u individuo „ si eleva a “
persona „ per confon¬ dersi in ispirito con tutti, gli esseri
ragionevoli. Di qui trae luce e spiegazione la nota formula kantiana : u
Opera in modo da poter pensare la massima della tua volontà come
principio d’ una legislazione universale „ , formula più euristica che
costitutiva della moralità, perchè non è un principio — come sembrava al
Kant, a cui il metodo da lui adottato interdiceva di penetrare sino al
fondo delle cose — ma soltanto una conseguenza di quel vero prin¬
cipio che consiste nel comando dell’ assoluta indipendenza della ragione
('). Di qui deriva la necessità che tutti-siano veramente liberi , che
nessuno sia impedito nell* esercizio dulia ragione e nell’adempimento del
dovere, che ciascuno si adoperi ad avvicinare sempre più quell’
ideale" — per quanto destinato a rimanere sempre un ideale — che
è la moralizzazione dell’umanità. Soltanto l’uso della libertà
contrario alla legge morale ho il dovere di annullare ; ma siccome
ciascuno deve operare secondo le proprie convin¬ zioni , cosi mi è lecito
cercar di determinare o modificare soltanto la convinzione degli altri,
mai la loro azione. E poiché non si può agire sulle convinzioni degli
altri uomini se non vivendo in mezzo a essi, anche per questa via
si ribadisce la necessità morale della società e il dovere per
ognuno di vivere in essa. Segregarsi dalla società significa rinunziare
ad attuare il fine della ragione ed essere indif¬ ferente al propagarsi
della moralità, al trionfo della libertà, al bene dell’ umanità ; “ chi
si propone di aver cura sola- (*) Ilari, p. 234 ibici. pp.
229-230). Secondo il Fichte la suddetta formula kantiana va intesa non
già nel senso : — perchè un quid può essere principio di una legislazione
universale, perciò dev’essere massima della mia volontà — ma nel senso
opposto : — perchè un quid dev’ essere massima della mia volontà, perciò
può essere anche principio di uua legislazione universale — ; in altri
termini, non la forma determina il contenuto della moralità, ma il
contenuto deter¬ mina la forma: se la moralità ha per contenuto 1’
attuazione universale della ragione, ne segue che ciascun individuo il quale
operi di- siuteressatameute, secondo ragione, può pensare la propria
condotta come un dovere per chiunque altro operi nelle medesime
circostanze ; la proposizione kantiana, appunto con questa
universalizzazione della condotta individuale , non fornisce altro che un
eccellente mezzo di controprova per accertarci se, agli effetti della
morale , la condotta di un individuo sopporti o no universalità, possa o
no erigersi a legge per tutti: è perciò una proposizione euristica, non
già costitu¬ tiva della moralità. mente di sè , dal lato morale, in
verità non ha cura nep¬ pure di si, perchè suo fine ultimo dev’essero il
prendersi cura di tutto il genere umano, la sua virtù non è virtù,
ma soltanto im servile, venale egoismo....; non già con una vita eremitica,
dedita a pensieri sublimi e speculazioni pure, non già col fantasticare ,
ma soltanto con 1’ operare nella e per la società si soddisfa al dovere
(*). La necessità etica della società e il dovere che ne
deriva all’ individuo di vivere in essa e di lavorarvi alla
moi'alizzazione degli uomini, operando sul loro spirito e formando le
loro convinzioni, implica l’istituzione di quella repubblica morale che
i?i chiama la Chiesa e che è condi¬ zione indispensabile per la reciproca
azione sociale diretta a produrre credenze pratiche concordi e con esse
il pro¬ gresso della moralità. La Chiesa , infatti, rappresenta nel
suo simbolo, accettato da tutti i suoi membri, quell’accordo primitivo e,
a dir così, minimo, che solo rende possibile una comunità spirituale. Ma
il simbolo non è, nè può es¬ sere, che un punto di partenza o un mezzo,
nou già un punto di arrivo o uu fine ; esso è indefinitamente
perfet¬ tibile mercè la continua reciproca azione degli spiriti gli
uni sugli altri e il conseguente sviluppo della moralità , e non può,
quindi, rimanere fisso e invariabile. Così, ap¬ punto, l’intende il
protestantismo. Iuvece, come fa il pa¬ pismo, lavorare pur contro la
propria convinzione a man¬ tenere il simbolo in una fissità assoluta, a
rendere la ra¬ gione stazionaria, a costringere gli altri in una fede
già superata , significa, oltre che ignoranza , trasgressione del
dovere, perchè allora si fa del simbolo non più 1’ espres- (')
Ibid. p. 235 (ibid. p. 230). xeni sione
puramente prdVvisoria di un accordo destinato a permettere la discussione
delle diverse opinioni in vista dell’ ulteriore sviluppo morale della
comunità, ma la for¬ mula definitiva di una verità assoluta e immutevole,
il che sta in recisa opposizione con lo spirito della moralità, la
cui essenza consiste nello sforzo e nel progresso all’ in¬ finito
(*). Come la Cliiesa è istituzione necessaria al perfeziona¬
mento morale per quanto riguarda le convinzioni interne, così lo Stato è
istituzione necessaria per quanto riguarda le azioni esterne, 1’ operare
sul mondo sensibile. Ciò che sta fuori del mio corpo, ossia tutto il
mondo sensibile , è patrimonio comune e il coltivarlo secondo le leggi
della ragione non spetta a me soltanto, ma a tutti gli individui
ragionevoli ; di guisa che il mio operare su di esso inter¬ ferisce con
l’ operare degli altri, e può accadermi , perciò, di arrecar danno alla
libertà altrui, quando il mio operare non sia all’ unisono con 1’ altrui
volontà : il che assoluta- mente non mi è lecito. Quel che interessa
tutti io non posso fare senza il consenso di tutti, e senza
seguire, quindi, principi universalmente accettati, previo accordo,
tacito o esplicito, circa una parziale restrizione volontaria e generale
delle diverse libertà individuali. Il consenso a questa restrizione e 1’
accordo che determina i comuni di¬ ritti e la reciproca azione sul mondo
sensibile è oggetto del cosidetto contratto sociale e costituisce lo
Stato. Lo Stato , grazie alle leggi conosciute e accettate da tutti
i cittadini , rende possibile a ciascuno di essi di conciliare
l’esercizio della propria libertà col rispetto dovuto alla (')
Ibid. p. 230 e pp. ‘241-245 (ibid. p. 231 e pp. 233-240). libertà degli
altri; rende passibile, iu altri termini, preve¬ nendo eventuali
conflitti nell’incontro delle libertà indivi¬ duali, quella convivenza
sociale die è condizione strie iy ua non della moralità'; di qui il suo
alto significato e il suo valore etico ('). La necessità del
simbolo nella Chiesa, il rispetto delle leggi nello Stato, impongono, non
tanto alle convinzioni dell’ individuo — le quali sono incoercibili —
quanto alla loro manifestazione e comunicazione, certi limiti che
non si possono oltrepassare senza mettersi fuori del simbolo o
fuori della legge, fuori, iusomma, della comunità morale e civile
ottenuta iu un dato momento del progresso umano. E pur tuttavia si è
tenuti non solo a formarsi una con¬ vinzione indipendente da ogni
autorità, ma anche ad affer¬ marla e parteciparla agli altri. Come
conciliare questa con¬ traddizione tra 1’ assoluta libertà delle singole
coscienze e il rispetto alla fede comune ? come risolvere questo
con¬ flitto di doveri ? Non altrimenti che mediante una limita¬
zione reciproca dei due doveri , che vai quanto dire : am¬ mettere la
libertà assoluta delle convinzioni e della loro comunicazione, ma
circoscrivere questa libertà e questa comunicazione a quel particolare
gruppo sociale che è il pubblico dotto. E invero, l’assoluta libertà delle
convinzioni e della loro comunicazione, se è impraticabile nel vasto
ambito della Chiesa e dello Stato , perchè per essere morale do¬
vrebbe raccogliere — cosa impossibile — 1’ adesione una¬ nime di tutti i
membri della comunità chiesastica e politica, è, invece, praticabile nel ristretto
pubblico dei dotti, il quale sta come anello di congiunzione tra la
convinzione comune e la privata. Il carattere distintivo del
pubblico dotto è uifa asso¬ luti libertà e indipendenza di pensiero ; il
principio della sua costituzione è la massima di non sottoporsi a
nes¬ suna autorità , di basarsi in tutto sulla propria riflessione
e di rigettare assolutamente da sè tutto ciò che non sia da questa
confermato. Nella repubblica dei dotti non è possibile nessun simbolo,
nessuna direttiva prestabilita, nessun riserbo ; tra dotti si deve poter
dichiaral e tutto ciò di cui si è persuasi, appunto come si oserebbe
dichia¬ rarlo alla propria coscienza ; giudice della verità sarà il
tempo, ossia il progresso della coltura. E come assoluta¬ mente libera è
l’investigazione scientifica, così pure libero a tutti deve essere 1’
adito a essa. Per chi nel suo intimo non può più credere all’ autorità ,
è contro coscienza con¬ tinuare a credervi, è dovere di coscienza
associarsi al pub¬ blico dotto. Lo Stato e la Chiesa debbono tollerare i
dotti, altrimenti violerebbero» te coscienze, perchè nessuna po¬
tenza terrena ha il diritto d’imporsi in materia di co¬ scienza. Lo Stato
e la Chiesa debbono anzi riconoscere la repubblica dei dotti, perchè
questa è condizione del loro progresso morale , in quanto che soltanto in
essa possono elaborarsi i concetti che modificheranno ,
perfezionandoli, e il simbolo e la costituzione dello Stato: sin anche
come pubblici ufficiali — per es. nelle università — i dotti pos¬
sono lavorare all’educazione degli uomini e alla formazione scientifica
degli insegnanti e dei funzionari tutti della Chiesa e dello Stato. È da
aggiungere, però, che il dotto, insieme con l’incontestabile diritto che
ha all’ esistenza, all' indipendenza e alla massima libertà di ricerca e
cri¬ tica nel campo del pensiero, lia anche il preciso dovere di
sottomettersi all’autorità della Chiesa e dello Stato nel campo
deU’azioue ; onde non è lecito a chi ne faccia parte nè diffondere le
propine convinzioni, ancora discutibili e non universalmente accettate,
tra i fedeli e i cittadini che vivono fuori della repubblica dotta, nè ,
tanto meno , attuarle senz’ altro nel mondo sensibile , minando cosi,
o addirittura sovvertendo, senza il consenso di tutti, gli ordi¬
namenti e i poteri costituiti ; Stato e Chiesa hanno il di¬ ritto di
impedire ciò. Sarebbe un’oppressione della coscienza proibire al
predicatore di esporre in scritti scientifici le sue convinzioni
dissenzienti, ma rientra perfettamente nel- 1’ordine vietargli di
portarle sul pulpito, ed egli stesso, se'è illuminato, sentirebbe la
propria immoralità quando facesse così. In conclusione:
l’ultimo fine di ogni attività sociale è l’accordo universale tra gli
uomini, accordo non possibile se non sul puro ragionevole, perchè qui
soltanto ritrovasi ciò che agli uomini è comune. Col presupposto d’ un
tale accordo cade la differenza tra un pubblico dotto e un pub¬
blico non dotto ; scompaiono anche Chiesa e Stato. Condi¬ videndo tutti
le medesime convinzioni, a che servirebbe più il potere legislativo e
coercitivo dello Stato? Riunite tutte le coscienze individuali nella
visione diretta della verità assoluta, a ohe servirebbero più i simboli
provvisori e mutevoli della Chiesa ? Il pensiero e l’azione di
ciascuno confluirebbe col pensiero e 1’ azione di tutti, la legge
mo¬ rale troverebbe la sua espressione nella sublime armonia di
tutti gli esseri ragionevoli e buoni, nella suprema comu¬ nione dei
santi, l’io empirico e individuale, completamente liberato da ogni
limitazione, svanirebbe completamente in seno all’Io puro e assoluto, si
attuerebbe, insomma, nella realtà l’Ideale, l’Infinito, Dio. Il contenuto
materiale della moralità è tutto in Questo perenne e progressivo
attuarsi del regno della ragione nel regno della natura, è tutto in
questa ascensione, in quest’approssimarsi del mondo verso lo Spirito,
vei’so la Libertà ('). C) Dottrina dei doveri propriamente detta.
Da quanto precede risulta evidente che l’io empirico q la persona è
soltanto mezzo all’ attuazione del fine supremo morale. La proposizione
del Kant : L’uomo è /ine in se, è giusta purché completata così : l'uomo
è fine in .sr. ma per gli altri. Siccome la legge si dirige a ciascuno e
il suo fine è la ragione in generale , ossia 1’ umanità tutta
quanta , ne segue che tutti sono fine a ciascuno , ma nes¬ suno è fine a
se stesso ; 1’ attività di ciascuno è semplice strumento per attuare la
ragione. Con che la dignità del- 1’ uomo non è abbassata, è anzi
inalzata, poiché a ciascun individuo vien affidato il raggiungimento del
fine univer¬ sale della ragione e dalla cura e dall’ attività di lui
di¬ pende l’intera comunità degli esseri ragionevoli, mentre egli ,
invece, non dipende da nulla. Ciascuno diventa Dio nella misura che gli è
possibile , ossia con riguardo alla libertà degli altri, e appunto perchè
tutta la sua iudivi- dualità scompare, egli diventa pura rappresentazione
della legge morale nel mondo sensibile, vero Io puro. Errano di
molto coloro che pongono la perfezione in pie medita¬ zioni, in un devoto
covare sopra sé stessi, e di qui aspet¬ tano l’annientarsi della propria
individualità e il loro con- (‘) Ibid. pp. 248-253 (ibid. pp. 243-248).
fluire culi la divinità; la loro virtù è, o rimane, e geliamo ; essi
vogliono fare perfetti soltanto se stessi. La vera virtù, invece,
consiste nell’operare, e nell’operare per la comu¬ nità : è quindi oblio,
abnegazione intera di sè nell’interesse della totalità degli esseri
ragionevoli. Se cosi è, se l’io empirico o individuale serve
sola¬ mente di mezzo all’attuazione del fine supremo, ossia all’av¬
vento del regno della ragione, ne segue che i doveri verso l’io empirico
sono mediati e condizionati di fronte a quelli che, riferendosi direttamente
al fine supremo , diconsi im¬ mediati e incondizionati, ossia assoluti.
Senonchè la pro¬ mozione del fine supremo è possibile soltanto in virtù
di una ben disegnata divisione di lavoro, altrimenti potrebbe molto
accadere in più modi, e molto non accadere affatto. È necessario, dunque,
attuare una tale divisione di lavoro, mediante 1’ istituzione di divei'se
professioni , da cui na¬ scono doveri diversi, che diremo particolari o
trasferibili (perchè s’impongono soltanto a chi abbia scelto quella
data professione) di fronte ai doveri che sono generali o intrasferibili
(perchè s’impongono indistintamente a tutti gli esseri umani). Combinando
questa seconda classifica¬ zione dei doveri, fatta dal punto di vista del
soggetto della moralità, con la precedente, fatta dal punto di
vista dell’oggetto della moralità, si hanuo quattro specie di
doveri : 1) generali condizionati 2) particolari
condizionati 3) generali incondizionati 4) particolari
incondizionati. I doveri generali condizionati — abbiamo dette — '
si riferiscono all’io empirico in quanto mezzo e strumento
indispensabile per 1 adempimento della legge morale: primo
tra essi, dunque , V autoconservazione , la conservazione , cioè
, di questo mezzo o strumento. *L’ autoconservazione *
già richiesta dal diritto naturale come condizione ne¬ cessaria al
I attuarsi di quel futuro da cui attendiamo la soddisfazione implicita
nell’oggetto del nostro volere pre¬ sente , e perciò come qualcosa di
relativo — diventa per la moralità materia di un comando assoluto ; per
1’ uomo morale si tratta non più di attendere un risultato più o
meno egoistico e interamente conseguibile nel tempo, ma di lavorare
disinteressatamente all’attuazione di quel fine supremo di cui egli non
potrà mai godere , perchè posto all’ infinito. Dal dovere
dell’ autoconservazione nasce : — a) un divieto : evita tutto ciò che,
secondo la tua coscienza, può mettere in pericolo la tua conservazione in
quanto stru¬ mento della moralità (il digiuno e 1’ intemperanza in
ri¬ guai do al corpo, l’inerzia intellettuale, il soverchio sforzo,
l’occupazione irregolare, il disordine della fantasia, la col¬ tura
unilaterale, ecc. in riguardo all’ intelligenza) ; non espone al pericolo
la tua salute, il tuo corpo, la tua vita, quando non vi sia necessità
morale. Segue da ciò la più recisa condanna del suicidio : la moralità
può comandare di esporre la vita, non già di distruggerla ; la vita è
la condizione stessa dell’ adempimento del dovere, e il sui¬ cidio,
distruggendo la vita, la sottrae appunto al dominio della legge ;
suicidarsi significa dichiarare di non voler più adempiere il dovere. —
b) un comando : opera tutto quello che ritieni necessario alla tua
conservazione (il buon mauteuimeuto del corpo, il nuo
adattamento perfetto ai fini che deve conseguire, la coltura
dell’intelligenza, la ricreazione estetica, eco.). Non va mai
dimenticato, però, che il dovere dell’auto- conservazioue è condizionato
, essendo l’io empirico sem¬ plice strumento della moralità : quindi ,
dove il fine della moralità non fosse compatibile col dovere «Iella
conserva¬ zione , sarebbe moralmente necessario che la vita dell’
in¬ dividuo venisse sacrificata a quel fine, che il dovere coudi-
zionato fosse subordinato al dovere incondizionato : quando la moralità
lo esige, ho il dovere di arrischiare la mia vita, e tutti i pretesti con
cui cercassi di nascondere la mia viltà — per es., quello di risparmiarmi
la vita per operare ancora dell’ altro bene che altrimenti
rimarrebbe incompiuto — andrebbero contro il dovere, il quale co¬
manda in modo assoluto e non ammette indugi al suo adempimento (').
2. Tra i doveri particolari condizionati — attinenti , cioè, ai
diversi uffici e alle diverse professioni individua¬ li — sta anzitutto
quello d’avere un ufficio, d’esercitare una professione nell’interesse
della società, di contribuire in qualche misura all’ esistenza e all’
organizzazione sociale ; poi 1’ altro di scegliersi a ogni modo un
ufficio , una pro¬ fessione, e non già secondo l’inclinazione, ma con la
co¬ scienza d’ avere la migliore attitudine all’ uno o all’ altra ,
considerate le proprie forze , la propria coltura , le condi¬ zioni
esterne dipendenti da noi , poiché non il sodisfaci- mento dei nostri
gusti dev’ essere lo scopo della nostra vita, ma 1’ avanzamento del fine
della ragione : onde gli uomini uou dovrebbero scegliersi uno stato prima
d’essere giunti alla necessaria maturità della ragione, e sino a
questa maturità si dovrebbe educarli tutti allo stesso modo; infine il
dovere di attendere con tutta coscienza all’ufficio o alla professione
prescelta, formando sempre meglio all’uno o all’ altra il corpo e lo
spirito , secondo che più occorre (all’agricoltore, per es., occorre più
la forza e la resistenza fisica , all’ artista la destrezza e 1’ agilità
dei movimenti, allo scienziato la coltura spirituale in tutte le
direzioni, ecc.). Di una gerarchia delle professioni e degli uffici secondo
il loro grado di dignità , si può parlare dal punto di vista
sociale soltanto nel senso che le molteplici occupazioni umane sono
subordinate le une alle altre come il condi¬ zionato e la condizione,
come il mezzo e il fine ; ma dal punto di vista morale esse hanno tutte
lo stesso valore , tutte la stessa dignità : quel che importa è
adempieide bene (*). 3. I doveri generali incondizionati si
riferiscono non più allo strumento, ma al fine stesso della moralità ,
che è il dominio della ragione nel mondo sensibile e nella tota¬ lità
degli individui per opera di ciascun individuo. Primo tra essi il
dovere verso quella libertà formale di tutti gli esseri ragionevoli,
nella quale sta 1’ origine , la radice stessa della moralità. La libertà
formale di eia- scun individuo poggia sopra due condizioni : A) la
perma¬ nenza del rapporto tra la volontà individuale e il corpo che
ue è 1’ organo esecutivo ; B) la permanenza del rap¬ porto tra il corpo
individuale e il mondo sensibile che ne è la sfera d’ azione. Di qui due
specie di doveri concerneuti l’inviolabilità: A) del corpo altrui; B) della
altrui libertà d’azione. A) L'inviolabilità del corpo altrui im¬
plica : a) il divieto di esercitare qualsiasi violenza o coer¬ cizione
fisica su altri (la condanna, quindi, della schiavitù, della tortura,
dell’ omicidio eoe.), b) il comando d’aver cura della vita e della salute
degli altri come della propria, essendo gli altri, al pari di noi,
strumenti della moralità (ama il tuo prossimo come te stesso). B) L’
altrui libertà d’azione esige : — in primo luogo l’esatta conoscenza
dei rapporti tra le cose, senza la quale manca ogni garanzia che il
risultato dell’ azione sarà conforme al disegno della volontà ; di qui il
dovere della veracità, il quale implica : a) il divieto d’ingannare
il prossimo (con l’inganno si dan- neggia la libertà degli altri,
trattandoli non come persone ma come cose) e la conseguente condauna del
venir meno alle promesse e del mentire (nessuna menzogna è lecita,
neppure la menzogna pietosa, o la pretesa menzogna ne¬ cessaria, neppure
col pretesto dell’interesse altrui, o, peggio ancora, con quello dell’
interesse della moralità, perchè la menzogna stessa, per essenza sua,
nasce da viltà ed è sempre radicalmente immorale; b.) il comando
d’illuminare e istruire il prossimo e di comunicargli la verità ; —
in secondo luogo la proprietà, ossia quella sfera d’azione nel
mondo sensibile senza la quale manca, oltreché la materia prima per
attuare i disegni della propria volontà, altresì la sicura coscienza di
non disturbare, con l’esercizio della propria libertà, la libertà degli
altri, come esige la legge morale ; di qui il dovere dell’ istituzione e
della conserva¬ zione della proprietà, il quale implica : a) il divieto
di distruggerla, usurparla o menomarla in qualsiasi maniera;
b) il comando d’acquistarsi una proprietà e di procurarne
una a ciascun individuo (come ogni oggetto dev’ èssere proprietà di
ciascuno affinchè tutto il mondo sensibile rientri nel dominio della
ragione, così ognuno deve avere una proprietà ; in uno Stato in cui un
sol cittadino non abbia una proprietà, ossia una sfera esclusiva se non
di oggetti, almeno di diritti a certe azioni, non esiste in ge¬
nerale nessuna legittima proprietà ; la beneficenza consiste non nel fare
l’elemosina, ma nel fornire a ciascuno il modo di vivere del proprio
lavoro) (*). Un’ osservazione importante : in fatto di libertà
non può mai nascere conflitto tra esseri che operino secondo
ragione ; ma quando della libertà si faccia un uso con¬ trario al
diritto, nasce collisione tra determinati atti di più individui e viene
posta in pericolo , quindi, la vita o la proprietà , insomma la libertà
del singolo. E poiché è proprio dello Stato attuare l’idea della legalità,
così spetta allo Stato appianare gli eventuali conflitti tra individui
, contenendo , mediante la forza della legge giuridica, cia¬ scuno
entro i propri confini. Non sempre , però , lo Stato può immediatamente
intervenire a comporre contese : sot¬ tentra allora il dovere della
persona privata. È dovere universale, in tal caso, salvare dal pericolo
la libertà del- 1’ essere ragionevole, senza far distinzione se si tratti
di noi o di altri, perchè tutti, indistintamente , siamo stru¬
menti della logge morale. Se sono io l’aggredito, il dovere dell’
autoconservazione m’impone di difendermi con tutte le forze ; se è in
pericolo il mio simile a me vicino, l’amore del prossimo m’impone di
salvarlo anche a rischio della mia vita ; se più di uno è assalito nello
stesso tempo, (*) Ibid. pp. 275-299 (ibid. pp. 269-292). si
devo portare aiuto anzitutto a quello ohe si può salvare più presto e del
quale oi accorgiamo prima. In questo adempimento del dovere non può
essere mai mio fine uc¬ cidere 1’ aggressore , il nemico , ma soltanto
disarmarlo ; posso cercare d’indebolirlo , di ridurlo all’ impotenza .
di ferirlo , ma sempre in modo che la sua morte non sia il mio
fine. u Se, peraltro, rimanesse ucciso, ciò dipende dal caso, contro la
mia intenzione, e io non sono perciò re¬ sponsabile „. Si deve, insomma,
trattare il nemico con 1’ amore dovuto a ogni altro prossimo, perchè è
aneli’ egli strumento della moralità e se dalle sue azioni per il
mo¬ mento non si può concludere che 1’ opposto, non si deve,
tuttavia , mai disperare che egli sia capace di migliora¬ mento. L’ uomo
animato da sentimento morale non ha. nè riconosce, nessun nemico
personale; chi sente piu viva¬ mente un’ ingiustizia soltanto perchè
fatta a lui, è ancora un egoista, è ancora lontano dalla vera moralità
(‘). La libertà formale altrui, verso la quale s’impongono i
doveri ora descritti, è condizione necessaria ma non suf¬ ficiente per la
moralità negli altri ; questa è resa possibile da quella , ma, alfiuchè sia
anche reale, bisogna che gli altri prendano di fatto coscienza del loro
dovere. Di qui il comando, per chi si sia già elevato alla coscienza
del dovere, di allargare e promuovere la vita morale intorno a sè,
di elevare gli altri alla moralità. In qual modo ? poiché sarebbe assurdo
voler produrre la virtù con mezzi coercitivi, con premi o gastighi : la
moralità non si lascia imporre dal di fuori, nè per forza , ma nasce
soltanto da una determinazione interiore ; come può, dunque, tale
de- (») Ibid. pp. 300-313 (ibid. pp. 293-304). terminazione
nascere per opera di un altro in colui che. ne è il soggetto e che deve
possedere già dentro di sé le condizioni atte a produrla? 14li è che, per
chi guardi bene, realmente esiste la possibilità, di un influsso
^morale da coscienza a coscienza, ed esiste grazie a un sentimento
che serve di leva alla virtù, ma il cui sviluppo esige ap¬ punto un’
azione dal di fuori, l’azione dell’esempio altrui : è questo il
sentimento del rispetto o della stima, il quale, sempre latente nel cuore
dell’uomo, da cui è inestirpa¬ bile, si desta, dinanzi alla condotta
virtuosa degli altri, suscita, a sua volta, il bisogno di provare il
medesimo sentimento dinanzi alla condotta propria, il bisogno, cioè,
dell’autostima, e sprona, per tal via, alla moralità. Sorge, così, per
ognuno il dovere del buon esempio, essendo l’esempio il vero strumento
dell’educazione morale. E poi¬ ché l’esempio, per avere efficacia, per
agire sulla coscienza altrui, dev’ essere pubblico, ne segue che anche la
pubbli¬ cità della condotta morale è per noi un dovere : essa nasce
dalla franchezza dell’ operare virtuoso e non ha nulla di comune con 1’
ostentazione, la quale deriva dal desiderio d’ essere ammirato (').
4. I doveri particolari condizionati si dicono così perchè hanno
sempre per oggetto il fine supremo della moralità, il dominio della
ragione, ina, anziché all’umanità o alla società in genere, si
riferiscono a ben determinate relazioni umane, a ben definiti organismi
sociali, quale che sia la loro origine , vuoi da una stabile legge di
na¬ tura — nel qual caso diconsi naturali — vuoi dalla mo¬ bile
scelta delle singole volontà — nel qual caso diconsi artificiali. Dalle
relazioni naturali nascono i doveri di stato, dalle artificiali i doveri
di vocazione ('). A) Due relazioni naturali sono possibili per
l’uomo, e insieme costituiscono l’organismo sociale della famiglia
: a) la relazione tra coniugi, b) la relazione tra genitori e
figli. Di qui due specie di doveri di stato : a) doveri tra coniugi, b)
doveri tra genitori e figli, a) La relazione co¬ niugale è già 1’ inizio
della moralità nella natura, segna già il passaggio da questa a quella ,
perchè è uno stato che da una parte si fonda sopra un impulso naturale
— l’istinto sessuale — dall’ altra implica, in entrambi x sessi,
sentimenti — reciproca dedizione completa e perpetuo re¬ ciproco amore,
reciproca fedeltà — che trasformano la sen¬ sualità brutale in una
spiritualità umana. Il coniugio , as¬ sociazione naturale e morale a un
tempo, è condizione precipua per l’esistenza di quella società che
vedemmo essere a sua volta condizione cosi indispensabile per 1’
at¬ tuarsi della moralità, e, in quanto t,ale, costituisce un do¬
vere che implica : a) il comando di contrarre matrimonio, quando si
verifichi la sua base naturale , 1’ amore, (l’indi¬ viduo umano fisico
non è un uomo o una donna, è, a un tempo, 1’ uno e 1’ altra ; lo stesso
dicasi dell’ individuo umano morale : vi sono in lui aspetti dell’
umanità — e proprio i più nobili e disinteressati — i quali
solamente nel matrimonio possono formarsi ; perciò u rimaner celibi
senza propria colpa è una grande infelicità, ma rimaner celibi per propria
colpa è una gran colpa „) ; fi) il divieto di relazioni sessuali fuori
del matrimonio (queste relazioni, infatti, sono fondate o sull’ amore
della donna , e allora (*) Ibid. pp. 326-327 (ibid. pp.
316-318). CVII s’ impone moralmente il
matrimonio , ovvero soltanto sul' piacere o sull’interesse, ohe vai
quanto dire sull’indegnità della donna, e allora sono immorali non solo
per la donna ohe si avvilisce, ma anche per l’uomo che l’avvilisce,
che vede in lei non più un essere umano e ragionevole , ma un
semplice strumento di voluttà ('). b) La relazione tra genitori e figli
dà luogo a due serie inverse di doveri : u) da parte dei genitori il
dovere di vigilare la vita e la salute dei loro nati e in pari tempo di
suscitare e favo¬ rire in essi lo sviluppo della libertà secondo la
direzione del fine umano : insomma il dovere dell’allevamento e
del- P educazione alla moralità. L’adempimento di questo do¬ vere —
che del resto è una specificazione del dovere uni¬ versale che a tutti incombe
di plasmare sè e gli altri in conformità della legge morale — risponde
nella famiglia a un bisogno del cuore, perchè la prole, per i coniugi,
non è semplicemente prossimo , ma il prodotto del loro reci¬ proco
amore ; (1) da parte dei figli, se minorenni il dovere di obbedienza, se
maggiorenni il dovere di rispetto, vene¬ razione, assistenza ai genitori
( ! ). B) Due relazioni artificiali ,ma non meno indispen¬
sabili delle naturali alla vita comune, possono essere sta¬ bilite dalla
libera scelta dei singoli individui e insieme costituiscono l’organismo
sociale dello Stato: a) agire di¬ rettamente sugli uomini , in quanto
esseri ragionevoli ; b ) agire sulla natura, in quanto mezzo o strumento
per le nostre azioni verso gli uomini. Su questa base e in forza
della suaccennata necessità di una armonica divisione del (•)
Ibid. pp. 327-398 (ibid. pp. 318-324). (*) Ibid. pp. 333-343 (ibid. pp.
324-333) lavoro movale e di una organizzazione gerarchica dell’ at- 1’
attività degl’ individui per la promozione del fine su¬ premo, si
distinguono due specie di classi sociali, con due corrispondenti specie
di doveri di vocazione : a) classi su¬ periori (scienziati, educatori,
artisti, impiegati), che lavo- t vano al progresso
spirituale della società, e sono, perciò, quasi 1’ anima dello Stato ; b)
classi inferiori (minatori, agricoltori , artigiani, commercianti) che
assicurano 1’ esi¬ stenza economica della società e sono, perciò, quasi
il corpo dello &tato. a) Quali i doveri di vocazione
delle classi superiori ? — L’ uomo allora soltanto adempirà la sua vera
destina¬ zione quando abbia una visione chiara del dovere ; è ne¬
cessario, dunque, formare anzitutto la sua conoscenza teo¬ rica. Tale
ufficio è la missione del dotto (*). Chi consideri tutti gli uomini come
una sola famiglia , è tratto a fare delle loro cognizioni un unico
sistema, il quale si accresce e si elabora attraverso i secoli, come si
accresce e si ela¬ bora attraverso gli anni l’esperienza del singolo
individuo. Ciascuna generazione, quindi, eredita dal passato un
tesoro di formazione scientifica, che la classe dotta è chiamata a
conservare e aumentare. I dotti sono i depositari e quasi 1’ archivio
della coltura della loro età ; non però alla ma¬ niera dei non dotti, che
si arrestano ai risultati, si bene come chi possiede anche i principi ohe
condussero lo spi- (*) L’essenza e la missione del dotto furono
più volte per il Fichte argomento di conferenze e di lezioni. Vedi in
proposito nel voi. VI dei Sàmmtl. Werke Ueber die Bestimmung des
Gelchrten (le¬ zioni tenute a Erlangen nel 1805) ; e nel voi. Ili dei
Nachgel. Werhe, Ueber die Bestimmung des Gelchrten (cinque lezioni tenute
a Berlino nel 1811). A rito umano a questi risultati.
E primo dovere del dotto, quindi, acquistare una veduta stori
co-filosofica del cam¬ mino della scienza sino al suo tempo: altrimenti
egli non potrebbe nè intendere il significato della verità , uè
epu¬ rarla dagli errori che 1* offuscano. È inoltre dovere del dotto
amare rigorosamente la verità e lavorare al suo pro¬ gresso mediante una
ricerca sincera e disinteressata. la quale non si proponga altro che
servire al fine ultimo dell’umanità, all’avvento del regno della ragione
nel mondo. Il dotto, come ogni virtuoso, deve obliare se stesso in
questo fine : fare sfoggio di abilità nel difendere errori sfuggiti o
brillanti paradossi è soltanto egoismo e vanità che la morale disapprova
e un’ elementare prudenza scon¬ siglia ; perchè soltanto il vero e il
buono permane : il falso, per quanto sfolgori a tutta prima , è destinato
a perire ('). La formazione della conoscenza teorica è
solfante mezzo al fine supremo di promuovere la moralità, ed è un
mezzo inefficace quando non vi si aggiunga l’operare pra¬ tico, quando,
cioè, alla visione da parte dell’intelligenza non si aggiunga 1’ azione
da parte della volontà. Ora, è ufficio d’ur.a speciale classe di dotti,
dedicarsi in modo particolare all’ educazione della volontà del pubblico
non dotto, alla moralizzazione del popolo : sono essi i ministri
della Chiesa, i quali, appunto perchè si sono messi al ser¬ vizio della
comunità etico-religiosa, hanno il dovere di adempiere il loro ufficio in
nome della comunità stessa, attenendosi scrupolosamente a ciò ohe è
oggetto di fede generale, al simbolo. Debbono, si, essere uomini di
scienza e, ilei loro campo speciale, vedere al di là e meglio di
quanto vedano le anime affidate alla loro cura, ma nel- 1 educare queste
anime, nell’ inalzarle a vedute superiori , devono procedere in modo che
tutte a un tempo possano seguirli, altrimenti si romperebbe quell’accordo
spirituale che fa 1 essenza della Chiesa. Gli educatori del popolo
, in quanto tali , non devono svolgere o dimostrare cono¬ scenze
teoretiche e principi, e tanto meno polemizzarvi sopra, come si fa nella
repubblica dotta; non è loro mis¬ sione porre articoli di fede o creare
la fede — perchè ar¬ ticoli e fède esistono già come legame vivente della
co¬ munità etico-religiosa — ma ravvivare e rafforzare la fede che
il credente ha già nel progresso morale , ed elevare con essa lo spirito
di lui all’eterno, al divino. Soprattutto l’esempio che danno è
importante a tal fine ; la fede della comunità riposa in grandissima parte
sulla fede loro, e il più spesso non è che una fede nella loro fede. Ora,
se in essi la vita non risponde alla fede , la fiducia in questa
rimane profondamente scossa (‘). Spetta al dotto formare
1’intelligenza, spetta all’edu¬ catore morale formare la volontà dell’
uomo : sta tra i due l’artista, il quale ha il privilegio di educare il
senso este¬ tico , interposto come tratto d’unione tra la
conoscenza teoretica e 1 attività pratica. L’ artista non agisce
soltanto sull’ intelletto, come fa 1’ uomo di scienza, nè soltanto
sul cuore, come fa il moralista popolare, ma sullo spirito umano
tutto quanto : 1’ arte bella investo e pervade tutta l’anima in quanto
siuLesi di tutte le facoltà. La formula pili espres¬ siva di ciò che 1’
arte fa è la seguente : l' arie rende coninne il punto di vista trascendentale.
Il filosofo si eleva ed eleva con sé gli altri a questo punto di vista
col la¬ voro del pensiero e seguendo una regola ; l’artista vi si
trova già senza rendersene conto : nou ne conosce altri. Bai punto
di vista trascendentale il mondo è fatto : dal » *
punto di vista comune il mondo è dato ; dal punto di vista estetico
il mondo è dato, sì, ma non altrimenti che come tatto. Il mondo reale,
voglio dire la natura, presenta due aspetti : da un lato è il prodotto
delle determinazioni o limitazioni a noi poste, dall’altro è il prodotto
della nostra attività libera, ideale, trascendentale. Sotto il
primo rispetto la natura è essa stessa limitata da ogni parte,
sotto il secondo è da per tutto libera. La prima maniera di vedere è
volgare , la seconda è estetica. Per es., ogni forma nello spazio può
considerarsi come circoscritta dai corpi vicini, ma anche come la
manifestazione della forza espansiva, della pienezza interna del corpo
che ha questa forma. Chi vede i corpi nelle prima maniera uon vede
che forme contorte, compresse , mostruose : vede la brut¬ tezza ; chi li
vede nella seconda maniera, vede in essi la vigoria, la vita , lo sforzo
della uatura : vede la bellezza. Vale altrettanto della legge morale : in
quanto comanda assolutamente essa comprime ogni tendenza della natura,
e veder la nostra uatura a questo modo è come vederla schiava ; ma
la legge morale fa tutt’ uno con l’Io , ne è anzi l’espressione più
intima, onde, obbedendo ad essa, obbediamo a noi stessi : veder la nostra
natura a que¬ st’altra mauiei’a è vederla esteticamente ^ ossia come
bel¬ lezza. 1. artista vede tutto dal lato bello, vede in tutto
energia , vita , libertà ; il suo mondo è interiore, è nel- 1 umanità , e
perciò 1’ arte riconduce 1’ uomo al fondo di ne stesso, strappandolo al
dominio della natura, liberandolo dai vincoli della sensibilità e
rendendogli l’indipendenza, che e il supremo fine morale. Idi guisa che il
senso este¬ tico non e.la virtù, ma prepara alla virtù, e la
coltura estetica ha, un rapporto positivo con l’avanzamento del
fine morale. La moralità dell’ artista può raccogliersi in questi due
precetti : u ) un itimelo per tutti gli uomini : non ti fare artista a
dispetto della natura, non pretendere di essere artista quando la natura
uon t’ispira ; b) un co¬ mando per il vero artista: guardati dal
favorire, o per egoismo, o per desiderio di fama, il gusto corrotto del
tuo tempo; sforzati soltanto a riprodurre l’ideale che è in te;
ispiiati alla santità della tua missione, e sarai, a un tempo, uomo
migliore e migliore artista (*). L opera del dotto dell’educatore e
dell’artista, in ser¬ vigio del fine supremo morale, presuppone sempre
quella libera reciprocità d’azione tra gli uomini, che è condizione
prima di ogni comunità e a garantir la quale — finché il regno della
ragione non sia una realtà — è necessario lo Stato. Quali sono ora i
doveri degli impiegati, ossia degli ufficiali dello Stato ? L’ impiegato
subalterno è rigorosa¬ mente legato alla lettera della legge, la quale,
perciò , dev’ essere chiara e uon dar luogo a dubbi d’interpreta¬
zione. Quanto all impiegato superiore, al legislatore, al giudice
inappellabile, i quali non sono che i gerenti della volontà comune
affermatasi, espressamente o tacitamente, nel contratto sociale, debbono
aneli’ essi conformarsi alla costituzione politica attuale , nata dalla
volontà comune , con la riserva, però, di perfezionarla secondo le idee
della ragione, tenendo gli occhi tìnsi alla costituzione ideale. Chi
regge lo Stato deve avere una chiara veduta circa il fine della
costituzione — il quale non può essere che il progresso umano — deve ,
perciò , elevarsi mediante con¬ cetti sopra 1’ esperienza comune,
dev’essere un do'tto nella sua materia, deve, come dice Platone,
partecipare alle Idee, e lavorare all’attuazione dell’ideale, favorendo
la coltura delle classi superiori. Da queste classi il progresso si
dif¬ fonderà poi nella comunità tutta quanta e trarrà seco, col suffragio
universale, la riforma della costituzione. Il reg¬ gitore di uno Stato,
quindi, è sempre responsabile dinanzi al suo popolo del modo ond’egli lo
governa, e se può con¬ siderarsi come legittima ogni costituzione che non
renda impossibile il progresso in generale e quello dei singoli
individui, sarebbe assolutamente illegittimo e immorale un governo che si
proponesse di conservare tutto com’ è at¬ tualmente ( l ). b)
Quali i doveri di vocazione delle classi inferiori ? — La nostra vita e
il nostro operare sono condizionati dalla materia, la quale va trattata
conformemente al fine supremo che è il dominio della ragione sulla
natura. Quanto piu questo dominio si estende, tanto più l’umanità
progre¬ disce ; è necessario, dunque, elaborare la rozza natura e
renderla adatta ai fini spirituali ; è qui, appunto, 1’ ufficio delle
classi sociali inferiori, il cui lavoro, riferendosi come ogni altro alla
moralità di tutti, ha il medesimo valore etico del lavoro delle classi
superiori, alla pve/sibilità del quale è condizione indispensabile. E
poiché dal perfeziona¬ mento meccanico e tecnico del lavoro materiale è
facilitata (*) (*) Ibid. pp. 35G-3G1 (ibid. pp.
344-349). la conquista della natura, ed è quindi promosso il
progresso dell’ umanità, è nu dovere per le classi inferiori
migliorare e inalzare il loro mestiere. TI che riohiede 1’
adempimento d un altro dovere concernente i rapporti tra la classe
in¬ feriore e la superiore. J1 perfezionamento industriale di¬
pende da conoscenze , scoperte , invenzioni, che rientrano nell ufficio
professionale dei dotti ; è dovere, dunque, della classe inferiore,
onorare la classe piò colta appunto perchè, tale e attenersi ai consigli
e alle proposte che da essa le provengono per quanto riguarda il
miglioramento di questo o quel ramo d’industria, di questo o quel genere
di vite, domestica, di questo o quel sistema di educazione, ecc.
Dal canto suo, poi, la classe superiore, ben lungi dal disprez¬ zai
e, deve tenere nella piu alta stima la classe inferiore, rispettarne la
libertà, riconoscere il valore dell’ opera sua in riguardo agli interessi
superiori dell’ umanità. Soltanto in una giusta reciprocanza di rapporti
tra le varie classi sociali sta la base del perfezionamento umano, inteso
come fine supremo di ogni dottrina morale (*). Riassumendo :
la Dottrina Morule, nelle tre parti in cui si divide, si propone un
triplice oggetto e ottiene un triplice risultato. u) Anzitutto
nella deduzione del principio della mo¬ ralità il Fichte mostra come la
Ragione e la Libertà, le quali a tutta prima per la coscienza empirica
non sono che ideali, divengano poi in essa principi di azione,
esercitino una causalità. L’io empirico individuale non può porsi
nè d) Tbid. pp. 861-365 (Tbid. pp. 849-852). pensarsi se non
in base all’ Io puro universale , se non in quanto ha per principio e per
fine l’Ideale ; e l’Io puro universale non può attuarsi se non ha per
strumento l’io empirico individuale. L’ unità dell’ ideale non acquista
cau¬ salità, non diviene efficace nel mondo se non pluralizzan¬
dosi, quasi in centri luminosi, in spiriti individuali, i quali soltauto
possono dirsi realmente esistenti e attivi. Ora, ap¬ punto questo
reciproco rapporto tra i molteplici io empi¬ rici e 1’ unico Io puro
fornisce il contenuto del dovere e rende il dovere intelligibile. Il
dovere, infatti, è la neces¬ sita imposta all’ Io puro, ossia alla
Libertà, di attraversare 1’ intelligenza , ossia l’io empirico , di
divenire quindi in¬ telligibile, per passare dallo stato ideale di
potenza a quello leale di atto, necessità che non significa eteronomia
perchè non impone alla Libertà se non la propria attuazione. L’in¬
telligibilità del dovere : ecco il primo risultato che il Fichte ottiene,
colmando l’abisso che il Kant aveva lasciato aperto tra la conoscenza e
la volontà, e facendo dell’ intelligenza la condizione interna, il
veicolo della libertà; poiché l’in¬ telligenza esprime quasi lo sforzo
della libertà infinita per assumere, con la coscienza di sè, la forma del
reale. b) In secondo luogo, a proposito dell’applicabilità
del principio morale, il Fichte mostra come il mondo si presti all
attuazione della ragione e della libertà ; il che significa che la natura
non è radicalmeute cattiva, non è assoluta- mente refrattaria allo
spirito ; c’ è anzi una stretta paren¬ tela tra lo spirito e la natura,
non essendo questa che un prodotto inconscio di quello. Soltanto che
l’attuazione del- 1 ideale morale non si compie a un tratto nel mondo con
un semplice decreto della volontà, ma è la meta di un progresso. L’idea
di sviluppo, di progresso è una categoria della moralità ; ecco il secondo
risultato che il Fichte ot¬ tiene eliminando l’assoluta irriducibilità
riaffermata dal Kant tra libertà e natura . spirito e materia, idealità
e realtà, e facendo la natura, la materia, la realtà suscettive di
un progressivo liberarsi, spiritualizzarsi, idealizzarsi al-
l’infinito. c) Infine, nel fare 1’ applicazione del principio
mo¬ rale, il Fichte mostra come il progresso richieda, per com¬
piersi, una duplice condizione ; l’uua formale : occorre che 1’ individuo
acquisti in sè la coscienza della libertà e della legge morale ; 1’ altra
materiale : occorre che 1’ individuo apprenda come il contenuto del
dovere sia nell’ attuare la moralità non solo in lui, ma anche fuori di
lui, negli altri individui, nel genere umauo tutto quanto , la cui
totalità appunto rappresenta la ragione universale ; occorre, insom¬
ma , che 1’ individuo sappia di essere strumento indispen¬ sabile per 1’
attuarsi dell’ ideale nel mondo , per 1’ emanci¬ pazione cioè dell’
umanità intera dai vincoli della natura e per la sua elevazione al regno
dello spirito. La sosti¬ tuzione d’ un ideale sociale a un ideale
individuale : ecco il terzo risultato che il Fichte ottiene trasformando
la for¬ mula kantiana : “ Ogni uomo è esso stesso fine „ in que¬
st’ altra : “ ogni uomo è esso stesso fine in quanto mezzo ad attuale la
ragione universale „ e subordinando così il singolo al tutto, 1’
individuo all’ umanità. È facile argomentare, in base a questo
triplice risul¬ tato, le radicali innovazioni di cui, rispetto alla
morale tra¬ dizionale, è feconda la dottrina fichtiana.
L’intelligibilità del dovere porta seco la razionalità dell’azione
e sostituisce alla fede, opera della grazia divina o di uu impulso
incosciente, la convinzione della propria coscienza, l’unione
indissolubile dell’energia della volontà con la luce del pensiero. Per
ben operare, all’ intellettua¬ lismo socratico basta il retto giudizio,
al volontarismo cri¬ stiano basta il cuore puro : il Fichte fonde i due
'punti di vista ed esige per la moralità degli atti così la
dirittura del giudizio come la purezza del cuore, così l’intima
per¬ suasione come la buona volontà. Un dovere irrazionale, im¬
penetrabile a ogni sforzo della riflessione è, secondo lui, altrettanto
immorale quanto un dovere adempiuto per se¬ condi fini. Inintelligibilità
e insincerità sono per il Fichte ugualmente incompatibili col concetto
del dovere. L’ idea di sviluppo e di progresso, intesa come
cate¬ goria della moralità, porta seco la riabilitazione della na¬
tura rispetto allo spirito, alla cui attuazione, anziché osta¬ colo, è
condizione e mezzo. Senza la natura — vedemmo — mancherebbe allo spirito
l’oggetto su cui esercitare la pi-o- pria attività, la quale ha bisogno
d’agire sulla natura per liberarsi dalla natura; senza i corpi
individuali, che della natura fanno parte, mancherebbe alla libertà dello
spirito il modo di pluralizzarsi in tante sfere d’ azione, le
quali, sebbene distinte, sono in recipi'oco rapporto fra loro, sì
da applicarsi tutte al medesimo universo e da rappresentare, unite
insieme, e attuare la vivente unità del cosmo e della ragione universale.
Ogni organismo corporeo, infatti, è stru¬ mento indispensabile affinchè
la libera attività spirituale abbia causalità nel mondo ; e da ciò deriva
a esso e , per estensione, a tutta quanta la natura, una consacrazione
mo¬ rale, che non si accorda con la condanna della natura e del
corpo pronunziata dall’ ascetismo cristiano , ma nem¬ meno con l’apoteosi
della natura e del corpo celebrata dal¬ l’edonismo pagauo ; una
consacrazione morale che vieta a un tempo così la macerazione, come il
blandimento della carne, e che mentre, restituisce alla vita dei sensi il
suo ufficio subordinato e la sua vera finalità nella vita morale
— si ricordi la prescrizione fichtiana già citata : u Man¬ giate e bevete
a gloria di Dio ; se questa morale vi sembra troppo austera, tanto peggio
per voi ; non ce n’ è un’ al¬ tra „ — non ritiene necessario nè una
risurrezione dei corpi, nè un’ immortalità personale. Perché il Fichte
non si contenta più di una moralità che miri a una vita futura, o
che si appaghi di un sogno di perfezione interiore, ma vuole attuare
sulla terra stessa il regno dei cieli, ripo¬ nendo la beatitudine, come
già il Lessing aveva detto della verità, non nel possesso, ma nella
conquista della libertà : “ essere liberi è nulla, divenire liberi è il
cielo ! La sostituzione dell’ ideale sociale all’ ideale indivi¬ duale
porta seco l’inversione del rapporto di dipendenza tra morale e diritto ,
1’ accentuazione massima del valore del regime di giustizia e la radicale
trasformazione del concetto tradizionale di carità. È, infatti, un’
originale ca¬ ratteristica della dottrina fichtiana l’aver posto non
più — come si soleva in passato — la morale a condizione del
diritto, ma il diritto a condizione della morale. Per il Fichte la libertà,
materia del dovere, non si concepisce senza la società, ma la società non
si concepisce senza rapporti di giustizia, dunque la giustizia, ossia il
diritto (juslitiu da jus = diritto) è il fondamento della morale ;
affinchè la moralità possa attuarsi, occorre prima assicurare a
tutti 1’ eguaglianza nel possesso della libertà esteriore, e procu¬
rare a tutti indistintamente, con una legislazione regola¬ trice
dell’attività economica, quella parte di agiatezza ma¬ teriale che è
necessaria all’opera di emancipazione morale o di elevazione verso la
vita dello spirito. Questa emanci¬ pazione ed elevazione spirituale, poi,
non deve uè può fi¬ nire nel singolo individuo, che nella dottrina
fiohtiana nou ha per sè nessun valore assoluto, ma dev’ essere
promossa da ciascun uomo in tutti gli altri uomini, perchè l’ideale
etico, ben lungi dal ridurci a una salvezza individuale, a una perfezione
interiore, a una santità eremitica incurante della sorte delle altre
anime, o una santità operosa sol¬ tanto per conquistarsi un posto nel
cielo , consiste invece nella moralizzazione e nella salvezza di tutto il
genere umano, nell’avvento del regno della ragione su questa terra
e in tutta 1’ umanità. Di qui deriva , secondo il Fichte, il vero
concetto della carità : sforzarsi d’inalzare i nostri si¬ mili alla
moralità. Ciascuno deve proporsi non la propria felicità, e nemmeno
soltanto la propria libertà e indipen¬ denza particolare, ma la libertà
universale, la salute spiri¬ tuale di tutti; il culmine della virtù per
l’individuo è darsi in olocausto per la salvezza del mondo,
accettando coraggiosamente l’imperativo ingrato, se si vuole, ma
ca¬ tegorico, di lavorare senza riposo e senza ricompensa, a un
fine di cui non vedrà mai l’adempimento completo, al trionfo
infinitamente lontano della ragione , e di lavorarvi in un ambiente
spesso indifferente ed ostile, con penosi sa¬ crifizi , senz’ altro
stimolo che il puro amore del dovere , senz’ altra gioia che quella di
avere colla propria abnega¬ zione contribuito all’ordine universale !
Concezione sublime questa, che ricorda l’altra affine dello Zend Avesta,
la quale fa dipendere aneli’ essa la salvezza di ciascuno dalla
salvezza di tutti e comanda a ognuno di combattere, se¬ condo i propri
mezzi e secondo il posto assegnatogli, il regno delle tenebre e del male
e di lavorare al trionfo della luce e del bene. E nonostante questa
abnegazione di sè nell’ interesse della ragione universale, l’io individuale
conserva tutta la propria realtà e personalità, nè potrebbe avere una
dignità ma'ggiore , poiché quale dignità può ri¬ tenersi più grande di
quella di un essere dalla cui azione dipende la salvezza di tutti e alla
salvezza del quale con¬ corre 1’ universalità degli esseri ragionevoli
(’) ? (*) (*) Tale concezione trovasi eloquentemente illustrata
dal Ficlite anche nella terza delle conferenze da lui tenute a Jena nel
1794 sulla Missione ilei dotto ; ne riportiamo qui, liberamente tradotta,
la bella chiusa che è quasi una lirica: “ Se l’idea liuora svolta si
con¬ sidera auche prescindendo da ogni rapporto con noi stessi, siamo
por¬ tati a vedere fuori di uoi una collettività in cui nessuno può
lavo¬ rare per sè senza lavorare per gli altri, nè lavorare per gli altri
senza lavorare in pari tempo per sè , essendo il progresso dell’ uno
progresso di tutti, la perdita dell’ uno perdita di tutti : spettacolo
questo che ci sodisfa intimamente e solleva alto il nostro spirito con la
visione dell’armonia nella varietà. L’interesse aumenta se, ripor¬ tando
lo sguardo sopra noi stessi, ci riconosciamo membri di questa grande e
stretta comunione. Sentiamo rafforzarsi la coscienza della nostra dignità
e della nostra forza, quando diciamo a noi stessi ciò che ognuno può dire
: la mia esistenza non è inutile e senza scopo ; io sono un anello
necessario dell’ infinita catena che, dal momento in cui 1’ uomo assurse
per la prima volta alla piena consapevolezza del proprio essere, si
svolge verso l’eternità; quanti, tra gli uomini, furono grandi, buoni e
saggi, i benefattori dell' umanità i cui nomi leggo registrati nella
storia del inondo, e i tanti i cui meriti riman¬ gono, mentre i nomi sono
dimenticati, tutti hanno lavorato per me; io raccolgo i frutti delle loro
fatiche; ricalco sulla via che essi per¬ corsero le loro orme benefiche.
Io posso, tosto che lo voglia, ripren¬ dere 1’ ufficio altissimo che essi
si erano proposto ; rendere , cioè, sempre più saggi e più felici i
nostri fratelli ; posso continuare a costruire là dove essi dovettero
smettere; posso portare più vicino al compimento il tempio magnifico che
essi dovettero lasciare incom¬ piuto. — u Ma anch’ io dovrò smettere il
[mio lavoro come essi „ , dirà qualcuno — Oh ! questo è il pensiero più
elevato di tutti. Se assumo quell’ ufficio altissimo, non lo potrò mai
portare a termine ; quanto è certo che è mio dovere l’accettarlo,
altrettanto è certo che Amiamo sperare che la precedente esposizione
della Dol/t'ina morale del Fichte non riesca inutile per chi si
accinga a leggere il volume, se non nella lingua, nello stile del suo
autore. Certo non tutti accetteranno integral¬ mente l’ardita metafisica
ivi presupposta — che volentieri chiameremmo Etilica come quella dello
Spinoza e che è forse, per adoperare una felice espressione del
Barzel¬ letti (') , la più eroica presa di possesso che mai mente
umana abbia potuto fare, a un tempo, e del mondo delle idee e del mondo
della realtà — ma tutti*, senza dubbio, saranno colpiti dalla
originalità, profondità e finezza delle vedute psicologiche ivi
proiettate e analizzate con arte insuperabile, e in particolar modo dalla
nobiltà dei senti- non potrò mai cessare d’operare; quindi non
potrò mai cessare d’es¬ sere. Ciò che si suoi chiamare morte non può
interrompere 1’ opera mia; perchè l’opera mia dev’essere compiuta, e non
può essere com¬ piuta nel tempo ; perciò la mia esistenza non è limitata
nel tempo ed io sono eterno. Assumendo parte di quell’ufficio sommo, ho
fatto mia l’eternità. Sollevo fieramente il capo verso le rocce
minaccioso, verso le cascate spumeggianti, verso le nuvole velegginoti in
un oceano di fuoco , e dico : io sono eterno e sfido il vostro potere.
Ir¬ rompete tutti su di me, e tu, cielo, e tu, terra, precipitate in un
sel¬ vaggio tumulto, e voi tutti, o elementi, spumeggiate e
rumoreggiato e stritolate nella lotta selvaggia pur 1’ ultimo atomo del
corpo che io dico mio ; la mia volontà sola, col suo fermo proposito,
aleggerà ardita e fredda sopra le rovine dell’ universo , perchè io ho
assunto la mia missione, e questa è più duratura di voi : è eterna, e, al
pari di essa, sono eterno io „. (Einige Vorlesungen ilber din
Bcstimmung dea Gelehrten, 1794, Summit. Werke) — V. la traduz. frane, di
M. Ni¬ colas , De la destinatimi da savant et de l'liomine de lettres par
J. G. Fichte, Paris, De Ladrauge 1838; e la trad. ital. di E. Roncali,
con prefaz. di G. Vitali, G. A. Fichte, La missione del dotto,
Lanciano, Carabba, 1912. (') La Storia della Eiloso/ia
(estratto dalla Nuova Antologia, 1° gen¬ naio 1908) p. 2. menti ivi
espressi con forza sempre, e spesso con vivezza di colorito. Del resto
non c’è una sola opera del nostro filosofo che non elevi e non fortifichi
l’anima del lettore perchè i suoi seritti, .emanazione diretta delle più
intime e salde convinzioni, e la sua vii* di pensiero, rientrano
nel ciclo di quella vita d’azione che fa del Fichte una personalità
tipica, un represen latice man, direbbe 1* Emer¬ son. E invero egli
appartiene — come già affermammo (’) — all’eletta schiera di quegli eroi,
la cui apparizione nella storia diventa un possesso eterno per l’umanità,
e la memoria dei quali durerà quanto il mondo lontana. Il carattere
adamantino della sua figura morale, la quale è un’ unità altrettanto
solida quanto ben fusa, grazie alla più perfetta armonia tra idee pai-ole
e opere, risulta scul¬ toreamente espresso in questa solenne
dichiarazione, da lui fatta all’ inizio della sua carriera universitaria
: u Io sono un sacerdote della verità ; la mia esistenza è votela
al suo servizio; sono impegnato a tutto fare, tutto osare, tutto soffrire
per essa. Se per causa sua fossi perseguitato e odiato, se dovessi anche
morire, che farei di straordi¬ nario? nulla più che il mio assoluto dovere
„ ( ! ). Parole, queste, che spiegano bene il poderoso influsso,
spiritual- mente rigeneratore, esercitato dal Fichte sui suoi
conna- ziouali e contemporanei, influsso che , propagandosi nello
spazio e nel tempo, ha suscitato e susciterà sempre su¬ blimi emozioni e
risoluzioni virili in mille e mille anime, (') Cfr. prec. Einiye
Vorlesungen iiber die Bestini muny (Ics Gelehrten 1794 (Sdmmtl. Werke,
VI, pp. 333-334). che pur non udirono mai la voce di lui (’). Costante
mia- * sione di questo eminente spirito fu : destare negli uomini
il senso della divinità della propria natura, fissare i loro pensieri
sopra una vita spirituale come l’unica e*vera, insegnar loro a guardare a
qualcos’ altro che la pura ap¬ parenza e irrealtà e guidarli così allo
sforzo tenace verso i più alti ideali di purezza, abnegazione, giustizia,
solida¬ rietà e libertà. (') Questa infinita risonanza di
idee, sentimenti e propositi, at¬ traverso le generazioni, nel tempo e
nello spazio, questa immensa simpatia e solidarietà umana — che eccelle
tra i principi fondamen¬ tali della dottrina liclitiana — era
profondamente sentita dal Fichte stesso, come può rilevarsi anche dalla
seguente bella pagina con cui si chiude la seconda conferenza sulla
Missione del Dotto (1794) : “ Ognuno può dire : chiunque tu sia, tu che
hai sembianze umane , sei un membro di questa grande comunità; sia pure
infinito il nu¬ mero di quelli che stauuo tra me e te, io so, nondimeno,
che il mio influsso giungerà sino a te , e il tuo sino a me ; chiunque
porti sul viso, per quanto rozzamente espressa, l’impronta della ragione,
non esiste invano per me. Ma io non ti conosco, nè tu conosci me.
Oh! quanto è corto che ambedue siamo chiamati a esser buoni e a
dive¬ nire sempre migliori, tanto è certo che verrà il giorno, e sia
pure tra milioni e bilioni d’ anni (che è mai il tempo ?), verrà il
giorno, dico, in cui trascinerò anche te nella mia sfera d’azione, in cui
potrò beneficarti e ricevere benefizi da te, in cui anche il tuo cuore
sarà avvinto al mio coi viucoli, i più belli, di un libero scambio di
reci¬ proche azioni! „ (Siimmtl. Werke, (VI, p. 311). Cleto Carbonara.
Keywords: l’esperienza e la prattica, esperienza, dull title: “l’empirismo come
filosofia dell’esperienza”! – i periti conversazionale – esperienza dell’altro,
persona e persone – solipsism, anti-solipsismo – esperienza, sperimento,
esperire, perito, perizia, per, fare, fahren, --. altri, altro, l’altro,
l’altri, la filosofia pratica, etica e diritto, la filosofia pratica di
Giovanni Amedeo Fichte, il pratico e l’aletico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Carbonara” – The Swimming-Pool Library.
No comments:
Post a Comment