Grice e Cardano: l'implicatura conversazionale del Pietro della Lombardia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Lumellogno). Filosofo italiano. lombardia -- Grice: “If William was called
Ockham, I should be called Harborne, and Petrus Lombardia!” -- Pietro Lombardo rappresentato in una
miniatura a decorazione di una littera notabilior di un manoscritto Pietro
Lombardo o Pier Lombardo (Lumellogno di Novara, 1100Parigi, 1160 circa) teologo
e vescovo italiano. Nacque a Novara o nei dintorni (a Lumellogno esiste
una lapide su di una casa che risorda il luogo della nascita), all'inizio del
XII secolo. Ricevette la sua prima formazione teologica a Bologna, dove acquisì
una perfetta conoscenza del Decretum Gratiani. Dopo il 1136 si recò a Reims e
poi a Parigi, dove fino alla sua elevazione alla sede vescovile di questa città
(1159) insegnò teologia. Almeno una volta in questo periodo, tra il 1145 e il
1153, si recò alla corte pontificia, dove venne a conoscenza della traduzione
del De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno, compiuta da Burgundio Pisano per
incarico di Eugenio III. Quasi certamente nel 1147 fu uno dei teologi che nel
sinodo parigino presero posizione contro Gilberto Porretano. Dopo un
breve episcopato (1159-1160) morì il 21 o 22 luglio del 1160 (non del 1164). Il
suo epitaffio si conservò nella chiesa di Saint Marcel fino alla Rivoluzione
francese. Dante lo nomina in Paradiso, X, 106-108. Oltre ai commenti
all'opera di Paolo di Tarso e ai Salmi, la sua opera maggiore rimane il Liber
Sententiarum (Libro delle Sentenze), scritta fra il 1150 ed il 1152 e per la
quale ottenne l'appellativo di Magister Sententiarum. Sebbene il testo rientri
in un genere letterario tipico della teologia medievale, ossia l'esposizione
delle sentenze delle autorità di fede (i padri della chiesa ed i riferimenti
biblici) l'opera del Lombardo, per l'ampiezza delle fonti e la sua originalità,
diverrà il testo di riferimento per la didattica nelle facoltà di teologia e
l'elaborazione letteraria nello stesso campo fino alla fine del XVI secolo.
Egli infatti attinge ad una vasta letteratura in merito, adottando anche testi
che normalmente non erano contemplati in queste composizioni, come Il De fide
ortodoxa di Giovanni Damasceno. Con la sua opera il Lombardo tenta di
sistematizzare e armonizzare la disparità e le divergenze che la pluralità
delle auctoritates aveva generato, dando luogo ad un certo scompiglio
ermeneutico e dottrinale. Riprendendo la classica distinzione agostiniana tra
signa e res, Lombardo afferma che il motivo delle divergenze non appartiene
alla natura delle cose trattate, bensì alla metodologia esegetica. Il
testo si divide in quattro parti: la prima tratta di Dio, della sua
natura e dei suoi attributi; la seconda delle creazione degli angeli, del mondo
e dell'uomo sino al peccato originale; la terza dell'incarnazione cristica e
della promessa della Grazia; la quarta dei sacramenti. Anche lo sviluppo del
testo mantiene la distinzione tra res (le prime tre parti) e signa (l'ultima)
Lo stile del Lombardo snoda l'esposizione delle sentenze coll'eleganza dialettica
di tipo anselmiano mantenendosi aderente al rispetto delle varie auctoritates
anche riguardo o stile letterario col quale egli opera una volontaria
mimesi. Il testo venne criticato sin dalla sua prima uscita per via del
cosiddetto nichilismo cristologico. Lombardo descrive infatti l'incarnazione
nei termini di assumptus homo, ossia la persona divina del Cristo avrebbe
assunto una natura umana (accessoriamente). Ciò contrastava con la
determinazione di origine boeziana per la quale la natura cristologica traeva
la sua forma da un sinolo unico di divino ed umano. Note Per approfondimenti vedere: Nicola Abbagnano,
Storia della filosofia, II, pag.30 e
seg. Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale
l'Espresso, Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola
Abbagnano, Storia della filosofia I, II,
III, quarta edizione, Torino, Pomba, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di
Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba
1998) Nicola Abbagnano, Storia della
filosofia, II, pag. 37 e seg. Novara,
Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I
contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia I, II, III, quarta edizione, Torino, Pomba,
1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed
ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba 1998) Marcia L. Colish, Peter Lombard, Leiden,
Brill, 1994 (due volumi). Pietro Lombardo. Atti del XLIII Convegno storico
internazionale: Todi, 8-10 ottobre 2006, Spoleto, Fondazione Centro italiano di
studi sull'alto Medioevo, 2007.
Minuscule 714il manoscritto del Nuovo Testamento e di
"Sententiae". Libri Quattuor Sententiarum Scolastica (filosofia)
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versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione)
/ Pietro Lombardo (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere
di Pietro Lombardo,. su Pietro Lombardo, su Les Archives de littérature du
Moyen Âge. Pietro Lombardo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Sofia Vanni Rovighi, Pietro
Lombardo, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970.
Petrus Lombardus, Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici
analitici.Chisholm, Peter Lombard, in Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge
University Press. Illustrare 'k iSlosofia di Pier Lomb'airdo finora casi
tra- scurata -dagli' storici della filosofia è im lavoro del tutto
nuovo spedialmente per lltalia. Il Protois (1)
affe!rim»a decisamente che Pier Lomb'airdo non fu un filosofo,
THaureau (2) ch'egli fu il principe degli indifferenti in materia
fìTosoflca, ma entrambe le asserzioni sono affrettate. Solo
in Germania il Lombardo venne studiato con mag- gior serietà e con
particolare attenzione!. Nel 1897 Giulio Kógel (3) pubblicò a Lipsia una
monognalia su Pier Lom- bardo : questa però parve confusa ed inesatta al
dr. loh. Nep. Espenberger (4) che nel 1901 intraprese un studio a-
curatissimo della Filosofia di Pier Lombardo e della po- sizione sua nel
secolo decimosecondo, nel terzo volume, parte quinta, dei Beitràge zur
Geschichte der Philosophie des Mittelalter8 diretti da G. BàumJcer e G.
Freih. Von Herttìng. Di tale pubblicazione mi servii in special
modo Ifotre auteur ne fui donc pas un phUosophe. De la
philosophie scolastique — Paris, Cesi lui qua notes reconnaissons corame le
chef des indiffèrents en ma- tière de philosophie. (3) Petrus
Lombardus in s. SteUung z. - Phil. d. Mittelal - Lei- pzig 1897.
(4) Die philosophie des Petrus Lombardus und ihre Stellung im
vwblften Jahrhundert. Aschendorffschen Milnster 190X, per questi miei
«appunti sulla filosofìa del Lombardo seb- bene mi «pervenisse al momento
di stenderli e troppo lardi per farne Fesaane minuto che essa si merita.
Poiché è ve- ramente questo il primo lavoro che si occupa con
severa e profonda indagine oritioa del pensie<ro filosofico del
Mae- stro delle Sentenze. L'autore dimostra una profonda co-
noscenza delle opere patristiche e delle scritture sacre colle quali
esercita opportuni raffronti. Egli non si è poi solo limitato all'esame
del Libro delle Sentenze, ma ha giustamente esteso le sue indagini alle
altre opere meno conosciute del Lombardo e pure ricche di impvortanti
di- gressioni filosofiche, quali il Commentano o Gloessa dei Salmi
detto anche Salterio, ed i Commentarli alle Epistole di S. Paolo. Solo non ha
tenuto conto dei Sermoni che sottio tra le cose più interessanti se non
più belle del Sentenz.iario, «pur nel severo giudizio di Hanreau e
Bour- gain (1), di cui il Protois ha tratto dai mss. degli utili
estratti mentre se ne trova l'intero testo con poche varianti nelle Opere
Omnia del vescovo Ildeberto-. Essi sono utili per completare la figura
intellettuale di Pier Lombardo. Del quale a questo punto ripeleremo
le parole: sed terrei immensitas laboris. In verità quantunque
grande sia la nostra buona volontà non ci dissimuliamo la vastità
del lavoro intrapreso : onde lo restringeremo entro i limiti a noi
concessi, raffigurandoci un poco a quello spigolatore che move fidente
sulle orme dei più abili mietitori pago di fare un piccolo fascio delle
spighe dimenticate. HAUREàU Not. et Extr. t. Ili p. 49. BouBGAiN —
La chaire firancaisc au XII siede Paris,
cfr. FjsBitT (La faculiè de Theol, L 81). I Padri della Chiesa
iniziarono la tìiosofia oristiana, ma in forma espositiva, avendo
ripugnanza a sottopome ^ troppo minute dimostrazioni le verità rivelale.
Era secon- do il pensiero di S. Gregorio una profanazione
Fassogget- tare il Verbo divino alle regole di Donato. Ma quando
nel secolo XII, prima chei si diffondessero per tutta Europa le
traduzioni arabe di Aristotile, si attese a studiare con a- more i libri
delYOrganum tradotti da Boezio, si accese quella tendenza già iniziata nei secoli
aotecedeiiti a fortificare il dogma' col sillogismo e l'autorità della
ragione. Da questo connubio della teologia colla dialettica
ari- stotelica nacque la scolastica la quale se ha i suoi
precursoiri nei primi secoli del cristianesimo non riconosce i suoi veri
fondatori che nel secolo di Abelardo e di Pier Lombardo. Essa nasceva per
una necessità di rendere più conformei la fede al sapere più progredito.
E se da una parte non ces- sava di fiorire la .scuola dei mistici con S.
Bernardo e gli Ai tempi di Abelardo e di Pier Lombardo non si
possedeva altro d'Aristotile che la logica, cioè ciò che si chiama
l'Organum e comprendeva: le Categorie coll'introduzione di Porfirio,
l'Ermeneu- tica, gli Analitici, i Topici, la Sofistica nella traduzione
di Boezio, (Cousm — Fragments philosophiques Paris) abati Ugo e
Riccardo di S. Vittore, da un'altra il mal compresso bisogno di libertà
di pensiero apriva la via ad interminabili dispute quali giungevano
talvolta ad intacca- re il dogma, come accadde per Abelardo. Pier
Lombardo apparve come moderatore tra le due opposte tendenze: la
mistica e la speculativa, e valendosi dello stesso metodo dialettico
usato dagli avversarti eerli si propose di dimo- strare come le apparenti
contraddizioni che si rileivano nelle Scritture sacre e patristiche
rischi'arate dalla ra- gione riconducono a rinvigorire maggiormente te
verità della fede. Egli però nel Prologo delle Sentenze si
scaglia contro coloro qui non rationi voluntatem suhiiciunt, che la
ra- gion sommettono al talento, tradurrebbe Dante, e vogliono fare
credere per verità, i sogni di lor mente inferma : « Qui non irationi
voluntatem subiiciunt, nec dodri- nae studium impendunt, sed his quae
somniarunt sa- pientiae verba coaptare nituntiu", non veri sed
placiti etiam sectantes... ». Pier Lombardo era dunque tenuto
dallo stesso compito che egli si era pronosto, cioè di dimostrare cHte
nelle scritture sacre non v'ha vera sconcordanza e che ogni ra-
gionamento umano si riduce in ultima analisi a dimo- strarne la veracità
assoluta, a non imporra egli stesso nuove e diverse dottrine le auala lo
avrebbero condotto fuori della sua seo-ena imparzialità. Se ciò si possa
chia- mare indifferentismo io non so, poiché il Maestro dèlie
Sentenze non sdegna di entrare e di approfondirsi nelle più minute
distinzioni e controversite fìlosiofìche, cosi care ai suoi tempi,
sforzandosi con nassione di ricavarne le verità da lui srià piresupposte.
Nella sua umiltà che diventò poi lefir-srendaria esrli pr*eferisce
lasciar la parola affli altri, a S. Gerolamo, a S. Ambrogio, e
specialmente a S. Ago- stino che è il stio autore preferito come quello
che suipera tutti srli altri padri per profondità di vedute e co-pia di
ar- gomenti nelle questioni fondamentali del dogma. Ma non è vero
che il Maestro rimanga empire nascosto e non ap- Questi ultimi conobbero
oltre Aristotile anche Platone a cui sembrano dare la preferenza e non
furono del tutto stranieri alle vedute dei neoplatonici. Vedi R. Bòbba La
dottrina dell* intelletto in Aristotile e nei 8140Ì pie illustri
commentatori pag. 235 sgg. paia di tratto in tratto a mostrarci la via da
seguire, per non perderci nel djedalo inestricabile delle
questioni. JJei «resto i più che hanno parlato di Pier
Lombardo si sono aoconlentati di scorrere i libri delle Sentenze:
non hanno letto i suoi lunghi e «lucidi Commentarii alle Epistole
di S. Paolo, e neppure quelli ai Salmi che egli riunì sotto il titolo
sintetico di Pscdterium, nom^ i sjuoì ispirati Sermoni che si trovano
manoscritti alla Biblioteca Nazionale di Parigi, e stampati tra quelli
del vescovo Ildeberlo. In tutte queste opere il Lombairao non è solo un
puro e disadorno espositore di dottrine. Certamente il Maestro va
conside- rato precipuamente mei suo libro delle Sentenze, il quale
lormò testo nelle scuole e fu letto e commentato più della Bibbia per
lunghi secoli, mentre le altre opere vennero più presto dimenticate. Ma
anche qui se egli non espose dot- trine nuove, ebbe però il merito grande
e riconosciuto da tutti gli storici della filosofia di distribuirle con
metodo razionale, cosi che esse ricevevano lume le une dalle altre.
Metodo già sperimentato con altro intento da Abelardo, ma dal Nostro
condotto a singolare perfezione (1). Egli slesso suH'autorità di
Sant'Agostino, espone Tor- dine col quale si deve disputare in materia
teologica e sper cialmente della Trinità che è il punto fondamentale
della dottrina dogmatica (Sent.): Gaeterum, ut in primo libro de
Trinitate Augustinus docet, primo secundum auctoritates Sanctarum
Scriptura- nim utrum fides ita ee habeat demonstrandum est. Deinde
adversus gamilos ratiocinatores elaliores magis quam capaciores,
rationibus catholicis et similitudinibus congniis ad defensdonem et
assertioneim fidei utendum est; ut eorum inquisitionibus
satisf<icientes, mansuetos plenius instrua- mus et illi si nequiverunt
invenire quod quaerunt, de suis menlibus polius quam de ipsa veritate vel
de nostra as- sertione conquerantur ». Il Deniflb in Carivi, Univer.
Paris IntrodttcHo Methodus Abaelardi in IHo etiam opere quod in schoh's
Theologiae per aliquot saecula adhibebatur usurpata est, dicimus
Sententias Magistri P. Lombardi. (2) Per queste come per le
altre numerose citazioni delle opere di Pier Lombardo ci serviamo dei
volumi 191-192 della Patrologia del Migne Petri Lombardi Opera Omnia^
Paris Fu in apecia»! modo ai metodo da mi usato che si deve
J'eaiorme diffusione del libro delle Sentenze nelle scuole (1). Esso nel
mentre veniva a soddisfare la naturiate curiosità del conoscere ed a dare
la spiegazione di molte credenze poneva dei limiti alla libertà del
raziocinio. Ma veniva sempre lasciato un cantuccio alle discussioni
inter- mmabili sulle questioni minori, dalla risoluzione deUe quali
in un senso o in un altro poco aveva a soffrirne l'or- todossia. yui si
esercitavano le intelligenze, inquisitionibus satisfacientes, smaniose di
sottilizzare e di sillogizzare, con tanta maggior sicurezza, quanto
minore era il pericolo di intaccare la fede (2). Lo stesso Pier Lombardo
nel suo Libro non si trattiene dal diffondersi nell'esame di queh
stioni che a noi sembrano del tutto .futili e vane come queUe ad esempio
che riguardano la natura degli angeli (3. E non è raro anche il caso che
le lasci insolute. Cosi nel libro primo, laddove domanda perchè mentre
amare è lo stesso che essere, si dice che il Padre ed il Figliuolo
non sono in essenza costituiti deiramore col quale si amaaio
scambievolmente, confessa miodestamente che la questione gli sembra
troppo difficile e che egli si propone più di ri- portare le dottrine»
dei Padri che di accrescerle: (seait. 1. dist. XXXI1,9) « Diffìcile mihi
fateor hanc quaesti onem, praecipue cum ex praedictis oriatur quaei
siniilem videntur habere rationem'; quod meaei intelligentiae attendens
infir- mitas turbatur, cupiens magis ea dictis sanctorum referre
(1) Il De Vulf — Hist, de la phil. medievale {Louvain 1900)
come il Dknefle (loc. cit.) da un troppo reciso apprezzamento: (pag.
209) Ces sinthèses thèologiquea, dont la premiere idee semble
appartenir à Abelardo ètaient appellées a un succès immense. Il faut en
cher- cher le secret dans le besoins de la classification et d'
orgànisation qu^on eprouvait devant la masse des materiaux
rassemblès,b]en plus que dans T originante de ceux qui ont appose leur
signature a ce travail de mise en oeuvre. (2) Cosicché il
libro fatto per conciliare ogni controversia sembrò sortire l'effetto
contrario. Erasmits in Mattaei I, iP (cit. daFabricius, Bib. m. aevi) e
Siquidem apparet illum hoc egisse ut semel coUectis quae ad rem
pertinpbant, questiones omnes excluderet. Sed ea res in diversum exiit.
Videmus enim ex eo opere nunquam fìnìendarum quaestionum non exanima sed
maria prorupisse. (3) Flettrt — Hist eccl. Paris, 1119 Tom. XII
Liv. LXX Gap. XXXV. ri quam uff erre >k
E limsce col coaicmiDa^e : « Eam tameu quaestionjeon leolorum ddligentiae
plenius dijudicandam at- que absolvendam ireiiinquimus ad hoc minus
sufficientes ». Perciò l'opera del Sentenziario ha un intento
assai modesto, né presume di sciogliere ogni dubbio e di di- rimere
ogni questione. Qui il Maestro risentei della scuola di Abelardo il quale
(nel trattato Sic et non riconosceva ai pastori il diritto di emendare le
opere dei dottori della Chaesa. (Migne 178 p. 1346 D.) « Hoc
et ipsi eccleisiastici dactores attendentes et nonnulla in suis operibus
corri- genda esse credentes posteris suis emendaindi vel non se-
quendi licentiam concesserunt ». E il nostro Lombardo così dice di
sé : (Sent. in prol.) « In hoc aulem tractatu, non solum pium
leolorem, sed etiam correctionem desidero, maxime ubi prolunda versatur
veritatis quaestio, quae utinam tot haberet inventores quot habet
contradictores ! » Il libro delle Sentenze doveva così riuscire
«più accetto giacché il giogo del dogma era imposto alla libera
rifles- sione del pensiero con assai più illuminata larghezza che
non fosse abitudine del passato. Tanto che parve a più d'uno dei suoi
contemporanei la sua dottrina pericolosa e Giovanni di Goimovaglia potè
chiamarlo uno dei quattro labirinti della teologia ponendolo allo stesso
livello di Gi- jDerto Porretano, Pietro di Podtiers, Abelardo.
Scopo di Pier Lombardo era di fare un trattato che risparmiasse al
lettore tempo e fatica, Fu per rispetto ai suoi tempi un volgarizzatore
della scienza teologica di- spersa ne^ libri canonici e negli scritti
malagevoli dei Padri e incompiutamente contenuta nei libri di Abelardo,
PuUeyn, Ugo di S. Vittore. Egli compilò una specie di Enciclopedia
teologica ove il lettore avesse a trovare senza sforzo tutto quanto gli
facesse al ciaso. Però avverte nel Prologo : « JNon igitur debet
hic labor cuiquam pigro vel multum docto videri superfluus, cum multis
impigris multisque indoctìs, inter quos etiam et mihi, sàt necessarius:
brevi volumine complicans Patrum sentias, appositis eonim te-
stimoniis ut non sit necesse quaerenti librorum numero- sitatem evolvere,
cui brevitas quod quaeiritur oBert sine labore». E cosi nel
distribuire la materia egli seguì un nuovo ordine sistematico e compiuto
non seguito né da Ugo di S. Vittore, né da Roberto PuUeyn, né da Abelardo {Am
quali pure trasse assai dalle sue doltrine) e pose a ciascun ca-
pitolo un titolo per facilitare le ricerche. (Sani, in prol.) Ut
autem quod quaeritur facilius oc- currat, titulos quibus singnlarum
capitula dislingumitur praemisimus. Relijiiooe e
scieoza. Giovanni Scoto Erigena afferma che la teologia e
la filosofia sono una sola e una medesima scienza (1). Ma
giustamente si poa&ono fare a questo punto delle riserve perché la
scuola e la chiesa si accodano nel dire che l'ordine della ifede non é
Tordine della jnagione e che sia pei filosofi come per i teologi vi sono
dei limita al proprio dominio. Con lutto ciò la ragione e la fede non
riusdroTio mai a vivere completamente separate. Ed a torto credano
alcuni che si cominciò propriamente dalla scolastica a coffiy ciliare
colla scienza la religione. Anche ai primi Padri della Chiesa piacque di
giovarsi di entrambe e Clemente Dragone, S. Agostino, sono nello stesso
tempo filosofi e teologi. L'opposizione alla filosofìa come indegna di
essere applicata ai veri divini, non fu più propria e peculiare
dell'età patristica che della scolastica, le quali non sono già in
opposizione, ma Funa é naturale svolgimento del- l'altra. Questo sforzo
di comporre il dissidio ira Taulo- rità e la speculazione filosofica si
continuò per tutta i se^ coli fino al nostro Rosmini che parlando dell
età dei Padri e dei Dottotti scriveva : « L'uomo allora
sentiva altamente che la teologia non era divisa da luii, e che, sebbene
ella travalicasse, per l'origine e la sostanza, i limiti della natura,
passava dal ragionevole al rivelato, quasi ascendendo da un palco
in* (1) De praedestinatione (Collection de Mangin 1. 1 p. 103^,
Coni- icitur inde veram esse philosophiam veram religionem,
conversim- que veram religionem esse veram philosophiam, cit. in Coasin
Cours de la phU, I p. 344. feriare ad un altro superiore dello slesso
palagio delia mente, con un solo disegno da Dio fabbricatogli.
La teologia cristiana in quell'età era senza contrasto la
conduttrice e la custode di tutte le altre scienze, la si- gnora delle
opinioni. Chi avrebbe allora pensato che sa- rebbe venuto un altro tempo
in cui alcuni pensassero do- versd la teologia dividere interamente dalla
filosofia? » Vediamo ora in quale rapporto si tirovassero le verità
teosofiche colle verità filosofiche nel pensiero di Pier bombardo.
11 Maestro si attiene in massima alle parole di S. A- gostino (sup.
Joan 27). <( Credimus ut cognoscamus, non cognoscimus ut credamus». E
nella distinzione XXII del libro terzo, là dove esaminia si Christus in
morte fuit homo e risponde che benché Pietro morì come uomo,
tuttavia era in morte Dio ed uomo, non mortale e non immortale, e
tuttavia vero uomo, dice a coloro che vogliooio troppo sotìsticare sulla
ragione di ciò : « Illae enim et Jiujusmodi argutiae in creaturis locum
habent sed fidei sacramentum a philosophicis est liber. linde Ambrosius
(De. fide I. 13, 84): Aufer argiimenta, ubi fides guaeritur. In ipsis
gym- nasìis suis dam dialectica taceat, piscatoribus creditur, non
diaileoticis ». Ma questa fede da pescatori però, il Lombardo
ag- giuge più oltre, non è cosa a noi lutto affatto estranea,
peirchè essa non può essere di ciò che l'animo ignora. E qui egli sente
rinllusso del misticismo del suo- protettore. S. Bernardo e dei Vittorini
che primi lo accolsero a Parigi. (Sent. Ili dist. XXIV, 3) « Cum
fides sit ex auditu non modo exteriori sed etiam interiori, non potest
esse de eo quod animo ignoratur ». Ancora è necessario fare
con S. Agostino una distin- lone: alcune cose non sono intese se prima
non si cre- dono, ma è pure vero che alcune cose non si possono
cre- deiPe se prima non sono intese (come la fede in Dio che
(1) Opere edite ed inedite di A. Rosmini Introd. alla Filosofia Casale
Tip. Casuccio p« 48 sgg. Per maggiori notizie sul tei- smo degli
scolastici vedi : P. D'Ercole — Il teismo filosofico cristiano Torino — Pbantl - Geschicte d. Logik viene
dalla predicazione) e queste pai per la fede si m- tendono di più.
Uoc. cil.) Ex his apparet... quaedam intelligi ali- quando, etiam
antequam credanlur... al nunc eliam per tldem... ampiius
intelligìintur... linde colligdtur... quae- dam non credi nisi prius
intelligantur et ipsa per fidem ampiius inleJlegi. Quanto poi
alle cose che mima sono credute che comprese esse non sd ignorano ael
lutto perchè anche si amano. (Seni. Ili d. XIII, 3) « Nec ea
quae prius creduntur... penitus ignorantur tamen ex parte, quia non
sciumtur. Greditur ergo quod ignoratur non penitus sdcut etiam ama
tur, quod ignoratur ». Pensiero ripetuto in S. Tommaso ed in Dante.
In conclusione Pier Lombardo si libra Ira un misti- cismo ed un
razionalismo temperato non sfuggendo alla contraddizione, ma
affronlaaidola. Il suo concetto è quello che informa in gran parte la
filosofìa cristiana. La fede non distrugge la ragione ma al contrario le
da ali più potenli per sollevarsi. Ed è in questo senso che bisogna
mtendere le parole di S. Agostino: Intellectum ualde cana, e quelle di S.
Anselmo: Fides quaerens intellectum. Principia rerum inquirenda sunt prius
ut earum notitia plenior haberì possi t. (Prol. in Collectanea),
Teoria debili Uoivrrsali Delle arti e delle scienza del trivio e
del quadrivio, secondo la celebre classificazione data da Marciano
Ca,- pella e riprodoUa da Cassiodoro e da Isidoro di Sivi- glia
(1), la dialettica ovverosia la logica che da principio parve una scienza
preparatoria avente per ogge'tio più !e parole che le cose, acquistò
nelle scuole medioevali un tale sviluppo che fini col proporsà i più alti
problemi me- tafisici e diventare la prima delle scienze. Tra questi
pro- blemi, il più importante, anzi il fondamentale che sembra
raggruppare sotto di sé tutti gli altri, ed agitò potente- mente l'età di
cui parliamo, è il problema degir universali, quale la filosofia si è
posto innanzi in tutti i tempi. 11 Protois (2) scrive che la
questione degli universali ebbe a suo autore Roiscelino : ma ciò è per lo
meno detto male. Già Aristotele si era posto innanzi il problema
nelle Categorie ed in molti altri suoi libri; e nella prefazione della
Isagoge di Porfirio tradotta da Boezio, esso è pure (1)
Haurbaux — De la philosophie scoi. Paris e]iuiK:iato, ma non risolto, parendo
esso al commeintatore di Aristotele di troppo grave importanza. Ecco le
parole Ui Porlirio: M Cosi tralascierò di dire se i generi é
le specie sus- sistono o sono soltanto e puramente nei pensieii, se
come bUSbisleaiti sono corporei od incorpoi'ei, se sono fuori oppu-
re entro le cose seìusibili e con esse coeistenti : essendo trop- po
grave una tale impresa e rictiiedendo maggiori ri- cerctxe ».
Porlirio divise cosi il problema nelle sue tre questioni
fondamentali e iu in tal modo che esso fu segnalato ai primi
scolastici. I generi e le specie sussistono per sé o consistono
sem- plicemente in puri pensieri ? Come sussistenti sono essi
corporei od mcorporei ? Ed infine sono essi separati dagli oggetti
sensibili o sono contenuti negli oggetti stessi for- mando con essi
qualche cosa di coesistente? A ragione Porfirio reputava queste
questioni di som- ma difficoltà. Perchè comunque vi si risponda si è
con- dotti nell'alto mare della speculazione, ed ognuna di esse
sembra pod risolversi nelle suprema questione della quaile tutte
dipendono : Che cosa è Tessere ? JNuUa di più naturale che gli
scolastici inoltrandosi a disputare di un tale argomento con molto ardire
ed acu- tezza d mgegno, ma non con pari preparazione filosofica
sollevassero infinite e tempestose discussioni che molto spesso non
approdavano ad alcun risxiltato. Tre furono le scuole principaU che
si avviarono ad una diversa soluzione del problema: quella dei
realisti, dei nominalisti, dei concettualisti. 11 nome di
realisti fu dato nel secolo XII a coloro che affermavano che i geiìeri e
le specie, gli universali insom- ma sono una realtà sostanziale, una vera
entità distinta dalie altre; nominalisti furono detti coloro che
negavano la realtà di questi universali, e li ritenevano come sem-
plici concezioni astratte del soggetto ricondotte ad una idea comime per
mezzo della comparazione; ma poiché questa conclusione, dovendo ammettere
che tutto ciò che v'ha di comune non è ohe im suono, un nome vuoto di
si- gnificato, flatus vocis, portava alla negazione di ogni
scienza, sorsero i concettualisti i quali aggiungevano che un tale suono,
im tal nome rappresenta un pensiero, uq concetto il quale proviene dalla
somiglianza visibile delle cose diverse : il che non è sostanziale ma è
percepito dalla intelligenza umana come inerente alle nature
individual- mente deiterminate. Dopo ehe Giovanni Scoto aveva
portato agli estremi il inealismo, venne Roscelino che parve dirigere la
dottrina del nominalismo contro la stessa teologia dogmatica sol-
levando un grave scalpore nelle scuole. Poiché se nulla esiste che
«non sia individuale il dog- ma della divinità una in tre pers;one veniva
dalla ra^one 5icalzato nelle sue basi. Era bensì un errore l'uso stesso
di armi dialettiche prò e contro i misteri della fede, perchè
l'ordine della fede non è cruello della ragione, ma d'altra ip-arte era
un errore rimìediabile. Ed a difesa della realtà u- nivereale si levò S.
Anselmo prima abate di Bec in Nor- mandia poi arcivescovo di Cantorberv e
nella prima meta deJ secolo deoimosecondo Guglielmo di Chamoeaux, il fiero
avversario di Abelardo. E fu quella del primo propria- meoite un realismo
mistico, quello del secondo un realismo scientifico. Abelardo
poi fu il capo riconosciuto, a volte vincitore, a volle vinto, del
concettualismo, col anale si possono tro- vare molti riscontri nella
filosofìa moderna. Quale doveva essere l'opinione dei Dottori
della Chiesa in tanto contrasto di idee? Evidentemente nessuna
delle suesposte- se e quando lo notevano. I realisti con- fondevano le
cose con la generalità delle idee, i concet- tualisti negavano il reale
fondamento delle idee universali, 'i nominalisti le idee stesse: i
dottori non potevano ap- partenere a nessuna di queste dottrine
pericolose. Essi do- vevano essere tratti a trovare un criterio
conciliativo, né ciò era diffìcile, secondo l'avviso dellHaureau. E
quale era questo criterio? La specie non è solamente un con- cetto,
essa è altresì una cosa, non una cosa in sé, a parte degli oggetti
sensibili, ma nna cosa facente parte con essi, formante con essi qualche
cosa di coesistente. Tale a un dipresso la posizione dei dottori
tra le scuole che dividevano i logici disputanti dell'evo medio,
corrispondenti sotto altro nome alla scuola dell'idealismo critico ed
alla scuola deiridealismo trascendentale. Tra questi dottori
concilianti che l'Haureau non pro- priamente chiama indifferenti si trova
il nostro Maestro delle sentenze : il quale pero non si occupa
espressamente della questione, ma solo ne tratta per incidenza^
ragio- nando della Trinità nel 1. libro delle Sentenze. Per lui l'universale
non è come per Guglielmo di Champeaux un solo essere dappertutto identico
(1) e però difficile a com- prendere, ma al contrario colla
moltiplicazione numerica dell'individuo diventa anche in essenza tante
volle accre- sciuto. Se Tanimale è il genere, dice il Maestro, e il
ca- vallo è la specie si avranno tre cavalli ed anche tre ammali.
{sent. I d. XIX, 8) « ... cum sit animai genus et equus species,
appellantur tres equi iidemque animalia ». Perciò quando la specie
può dirsi triplice devono anche essere tre gli individui. Tutto dunque si
raccoglie nell'individuo. Ma egli poi aggiunge : Abramo,
Isacco, Giacobbe sono tre individui, ma nello stesso tempo anche tre
uomini p tre animali. Specie e genere non sono quindi forme sog-
gettive, ma un oggetto che è nelle cose poste al difuori di noi (2). Ma
non si dirà che l'essenza divina è una specie e le persone individui,
come è specie Tuomo e sono in- dividui Àbramo, Isacco e Giacobbe. Poiché
se Tessenza divina fosse una specie come Tuomo, come non si direbbe
che Abramo, Isacco e Giacobbe sono un sol uomo cosi non si direbbe una
essenza essere tre persone. (sent. I. d. XIX, 9-: « Sicut enim
dicuntur Abraham, Isaac, lacob, tria individ'ua ita tres homdnes et tria
ani- malia... 10: Nec speoies est essentia divina et persona
individua, sicut homo tepecies est, individua autem A- braham, Isaac et
lacob. Si enim essentia specìes est ut homo sicut non dicitur unus homo
esse Abraham, Isaac et lacob. ita non dicitur una essentia esse tres
personas ». Il Maestro quindi, a mio parere, non nega alle
idee universali un* fondamento reale in quanto però vanno unite
agli oggetti sensibili: ma distingue nettamente le cose temporali dalle
cose divine alle quali non convengono i nomi di universale e di
partìcdare e le distinzioni della logica. (1) Abael
hist. cai.: « Erat antem in ea sententia de communi- tate nnlversaliam,
nt eandem essenti ali ter rem totam simtil singulis suis inesse astrueret
individuis. cfr. Espenberg — Die phil. d Pet. Lomb. EsPENBEROER — op.
cit. p. 22 « Art nnd Gattung sind dem- nach nicht subjektive Gebilde,
sondern objektiv in der una mnge- benden Auszenwelt begrìindet »,
Teoria della coi>osc^i>za. i\el Gommenlario delle
Epistole di S. Paolo Pier Lombardo -venendo a parlare delle visioni le
distingue 'n tre generi: corporali, spirituali, intellettuali. E le
ultime sono le. più perfette j)erchè vedono non cogli occhi corpo-
rali ó colla immaginazione, ma per sé stesse. Qui il Mae- stro viene a toccare
sebbene in modo indiretto della co- noscenza che noi abbiamo coi sensi
corporali, ei di quella che acquistiamo colla memoria, la quale ci
ripresenta im- magini vere quali abbiamo già apprese coi sensi o
finte quali rimmagin azione forma secondo il suo potere.
(Collectanea in epist. ad Cor. II, 12) « In bis tribus géneribus
(scil. visionis) illud primum manifestum est om- nibus quo vid'etur
coelum et omnia oculis conspicua. Nec illud alterum quo absentia
oorporalia cogitantur, insi- nuare difficile. Coelum enim et terram et
quae in eis vi- dere possumus, etiam in eis constituti cogitamus^. Et
ali- quaiido nihil videntes oculis corporis* animo tamen cor-
porales imagines intuemur vel veras sicut ipsa corpora vidimus et memoria
retinemus vel fictas sicut cogitatio formare potuerit. Aliter cogitamur
quae novimus, aliter quae non «novimus w. Altrove nel
Commentario dei Salmi paragona la me- moria al ventre che riceve i cibi :
(Comm. m ps. XXX, 13) « Sicut enim venter escasi recipit ita memoria
rerum tenet notitiam ». Nel libro III delle Scinlenze il
Lombardo pariando della fede dice che essa si riferisce soltanto alle
cose che non ci appaiono è sostanza di cose sperate come disse S.
Paolo e ripetè poi Dante (1), che conobbe il Maestro forse più dì
S. l'ommaso. E qui contrappone la fede alla conoscenza che si ha delle
cose evidenti, tra te qiiali pone anche l'anima deiruomo che sebbene non
veduta, è da lui intuita cogi- tando. Concetto raccolto poi e svilupipato
da Cartesio, il quale prenderà la coscienza umana come il punto di
par- (l) S. Paolo (Ep. ad Eb. XI\* « Est fides sperandanim
snbstan- tia rerum, argumentum non apparentinm . » — Dante (Par.):
Fede è siLStanzìa di cose sperate - ed argomento dene non parventi. ieaia
dì ogni indagiiie filosofica ed argomenterà che IV sistenza ci è data dal
pensiero: cogito ergo sum. Sent. Ili, d. XXIll, 7). c( Non sicul corpora
quae videmus oculis corporeis, et per ipsorum imagines quas memoria
tene- mus, etiam absentia cogitamus; nec sicut ea quae non vi-
demas et ex his quae videmus cogitalionem utromque formamus, et memoriae
commendamus, nec sicut homi- nem, cuius animam^ etsi non videmus, ex
nosbna coniici- mus et ex motibus corporis hominem sicut videndo
didi- cimur, intuemur etiam cogitando : non sic vìdetur fides in
corde in quo est, .ab eo cuius est, sed eam tenel oerliseima scientia
». CosH nel capitolo già citato delle CoUectanea, il Mae^
stro tocca della conoscenza che noi abbiamo del nostro intelletto
intellicfendo . E' insomma nella ragione stessa la spiegazione della
nostra ragione. (In epist. ad Cor. II, 12) «... hac visione quae
didtur intellectualis ea cemuntur, quae nec cemuntur corporea, nec
ullas gerunt formas similes corponim, velui ipsa mens et omuis
animae affectio bona. Quo enim alio modo nisi intellisrendo intellectus
consoicitur? Nullo. ». Pier Lombardo paragona rintellieenza ad una
luce interiore che illumina res<=ere intelligente: (im
epist. ad Eph. cap. 4) « Omnis qui inteiligit quadam luce interi ore
illusfrRtiir». Ripete in sostanza il concetto già espresso da S.
Agostino: (in ps. 41 n. 2 Mierne 36 p. 465) « omnis qui
inteiligit luce quadam non corporali, non carnali, non exteriore
sed interiore illustratur ». Chiarito il modo di conoscere,
resta a parlare dell'og- getto della conoscenza. Che cosa è
il vero ? Tutto che è è vero, secondo il concetto della
filosofia patristica, come, e questo Io si vedrà in appresso, tutto
ciò che è è pure buono. Il falso va inteso in un sen®o del tutto
privativo, cioè non è sostanza di qualche cosa, non è ciò che è, ma è ciò
che non è. (In ps. V, 6) « Veritas enim est de eo quod est.
Men- dacium vero non est subslantia vel natura ìd est, non est de eo,
quod est natuiraliter, sed de eo, quod non est ». Ed in altro luogo
dice il Maestro : la verità è ciò che è come vien detto : (in ps. XIV, 7)
« Veritas est cum res ita est cum dicitur ». Quia ip9e diodi
ei faeta suut S. Paolo Sostanza e^
accM^ote. S. Agostino concepiva la sostanza come il concetto
di assenza o di naliu-a preso in senso generale da subsistere^
peirchè ogni cosa sussiste a sé slessa : omn«is enim res ad se ipsam
subsistil. Ma in senso più particolare, s'intende di ciò che è soggetto
d'altre cose come del colore, delle forane corporee, ecc.
J\on attrimenti Pier Lombardo: (sent. II, d. XXXVII, 4 in ps.
LXVIII, 2), « Substanlia intelligitur illud ouod sumus: homo, pecus,
terra, sol; omnia ista substantiae snnt : eo ipso quo sunt naturae, ipsae
substantiae dicun- tur. Nana et quod nulla est substantia, nihil omnino
est. Substantia enim est cdiquid esse ». Ma in quest'ultima
significazione, il detto .^oncetto non appropriasi a Dio perchè Dio è
semplice. (Sent. I, VIII, 8) « Res ei^o anutabiles. . . proprie
di- cuntur substantiae, deus autem, si subsistit, ut substantia
proprie dici possit, inest in eo aliquid in subiecto et non est simplex
». E' quindi a torto che parlando di Dio si dice che è una
sostanza, perchè non vi è nulla in lui che non ©ia Dio, e la parola
sostanza non si dice propriamente che delle creature. Parlando di Dio è
meglio servirsi della parola essenza» 88
Riguardo all'accidente il maestro delle Sentenze è dello stesso
avviso di Boezio che lo definisce : (in Porph. ed. Basii, p. 92) Accidens
est quod adest et abest praeter subiecli corruptionem. (Sent.) a non
sicut ac- cidentia in subiéctis quaé possunt abesse vel adesse ».
S. Agostino e Boezio sono i due filosofi ai quali iì nostro
Lombardo attinge con eguale misura. Nel IV delle Sentenze parla degli
accidenti, cioè delle apparenze che gli sembrano piuttosto esistere senza
soggetto che essere nel soggetto, quali il sapore ed il peso (accidenti)
nel sa- cramento della Eucaristia, che sono senza soggetto, poi-
ché quivi non è altra sostanza che quella del sangue e del corpo del
Signore, che non soggiaciono a quelli accidenti. Perciò son quegli
accidenti per sé sussistenti. (Sent. IV d. XII, 1; in epist. ad
Cor. I) « Si autem quaeritur de acciflentibus quae remanent i. e. de
speciebus et sapore et pondere, in quo subiecto fundentur, potius
mihi videtur fatendnm existere sine subiecto quam esse in subiecto, quia
ibi non est substantia nisi corporis et sangumis dominici, quae non
affìcitur illis accidentibus... remanent ergo illa accidentia per se
subsistentia ad my- slerium riti ». « Natura multiplex nomen est.
Nam et philosophi et e- thici et theologi usu plurimo ponunt hoc nomen».
Cosi Gilberto Porrelano (in Boet. ed. Basii, p. 1223). Ma se molli
sono i nuovi significati presso i filosofi del secolo XII, vediamo in
quale senso più propriamente l'adopera il nostro Pier Lombardo. Per lui
natura è ciò che é con- creata colla sostanza. (Sent. II, d.
XXXVII, 2) « Substantiae nomine atque naturae dicunt signifìcari
substantias ipsas et ea quae naturali ter habent scilioet quae concreata
sunt eis sicut ani- ma naturaliter habet intellectum et imaginem et
volnnta- tem et huiusmodi». Le €086 che awemgano per causa seminale,
si dice che aweaigono secondo natura, quelle invece fuori natura
av- vengano soltanto per volontà divina. Ne viene che ogni creatura
obbedisce a leggi naturali. (Sent. II, d. XVIII, 7) « Et illa quae
secund'um cau- sam seminalem fìunt, dicuntur naturaliter fieri, quia
ita cursus naturae hominibus innotuit. Alia vero praeter natu- ram,
quorum causae tantum suni in deo... omnis creaturae cursus habet
naturales leges » (1). yuale sarà dunque la legge naturale ? Quella
che eb- bero anche i pagani (2), che indica all'uomo ciò che è bene
e ciò che è male e che si riassume nel non fare agli altri ciò che non si
vuole sia fatto a noi. (in epist. ad Rom. cap. 2) « Etsi non habeat
(s'cil. gentilis homo) scriptam legem, habet tamen naturalem, qua
intellexil et sibi conscius est, quid sit bonum quidve malum; lex enim
naturalis iniuriam nemini inferre, nihil alienum praecipere, a fraude et
penuria abstinere, alieno coniugio non insidiari et caelera alia et ut
breviter dicatur nolle aliis facere auod tibi non vis fieri ».
Quanto poi alla persona, il Lombardo, parte dal con- cetto ^ià
enunciato da Boezio che la persona è la sostanza individuale d'una natura
ragionevole: (ed. R. Peiper p. 193, 4) « Persona est naturae rationalis
individua substan- tia ». Ovunque noi troviamo una sostanza individuale
nella specie umana, ivi è una persona. Ma l'anima che è so- stanza
razionale, è dunque una persona? Pier Lombardo risponde negativamente
ricorrendo all'airtificio di parole ^à adoperato da Boezio nel sfuo libro
de duabus naturìs (ed. Peiper p. 193, 10). Cioè Tanima è sostanza
razionale, ma non tuttavia persona, perchè non è per se sormns^
cioè è congiunta ad altra cosa. (1) Dio solo può agire
contro natura: (Sent. loc cit) super hunc naturalem cursum Creator habet
apud se posse de omnibus facere aliud, quam eorum naturalis ratio habet;
ut. scilicet, vir^a arida re- pente fioreat, et fructum ^^at. et in
juventute sterilis femina, in senectute pariat, ut asina loquatur et
huiusinodi. ,2) V. Ciò. - De leg. XV. 45; Atque, si natura
confirmatura ius non erit, virtutes omnes toUentur Nam haec
nascuntur ex eo, quia natura propensi sumus ad diligendos homines,
quod fundamen- tum iuris e3t. (S©nt. Ili, disi. X, 2) « Nam et modo
anima est sub- stantia rationalis, non tamen persona, quia non est per
se sonans, imo alii rei comiuncta ». Tuttavia l'anima è
persona quando per se est: onde quando è sciolta dal corpo è persona come
è Fangelo. (Sent. Ili, dist. V, 5; disi. X, 1) « Anima, non
est persona, quando alii rei unita est personaliter. . . absoluta
enim a corpore persona est siculi angelus ». frateria e
forila* U^ià S. Agostino parla di una materia informe
dalla quale sarebbero derivate tulle lè cose che sono distinte e
formate. (de genes. contra Manich. I, 5, 9 Migne 39 p. 178) «
Primo ergo materia facta est confusa et informis unde omnia fìerenl quae
distincta atqua formata sunt, quod credo a graecis caos appellari). Così
pure Boezio (edit Basii p. 1138) parla di una materia informe e siemplice
come la ale e di una materia formata e non semplice come i corpi. Anche
per Pietro Lombardo le cose create furono formate da una materia
informe. ,(I'n ps. XXXII, 9) « Quoniam ipse dixit, idest
voluit et facta sunt (scil. coelum et terra) id est formata de in-
formi materia ». E cosi pure nel secondo libro delle Sen- tenze : (dist.
XII, 2, 3) « Alii vero hoc magis probaverunt et asseruerunt, ut prima
materia rudis atque informis... creata sii Postmodum vero. . . ex illa
materia rerum corpo- ralium genera sunt formata secundum species
propria®. Da S. Agostino il Lombardo deriva pure il suo con-
cetto della forma. (Sent. II, d. XVIII, 16) « Dicit Au^ustinus
causas primordiales omnium rerum in deo esse mducens simili-
ludinem artifìcis in cuius dispositione est qualis futura sii arca
». Il Maestro ripete a questo punto appoggiandosi intie- ramente a
S. Agostino quanto Abelardo e Gilberto P^r- retano dicono con compiuto
linguaggio scientifico quando chiamaiio le idee forme esemplari della
mente divina. Non così chiara come in questi elementi platonici è l'idea
della forma presso i sentenziarii ai tempi aristotelici. Causalità.
Qui il Maestro dà questa definizione della idea d; causa :
Tutto ciò che in sé permanendo genera od opera qualche cosa, è il
principio, ossia la causa di ciò che ge- nera od opera.
(Sent. I, d. XXIX, 2) « Si autem quicquid in se manet et gignit vel
operatur aliquid, principium est eius rei quam gignit vel edus quam
operatur... ». Dio però si dice eh© fa ed opera qualche cosa,
per- chè è la causa delle cose scientemente esistenti. (Sent.
II, d. I., 2) « Deus ergo aliquid agere vel fa- cere dicitur, quia causa
est rerum noviter existentium ». Con ciò vien presupposto che tutto ciò
che avviene, avviene per una causa necessaria e che nulla nasce che
non sia preceduto da una legittima cagione. Pier Lom- baixlo in seguito
si domanda se nulla possa sfuggire o questa legge di causalità e possa
awemare per caso. Ma egli risponde : se qualche cosa avviene nel mondo
per caso, non tutto il mondo è regolato dalla divina pìnovvi-
denza. Se non tutto il mondo è regolato dalla divina provvidenza, v'è
qualche natura o sostanza che non ap- partiene all'opera della
]>rowidenza. Ma tutto ciò che è, è buono per la partecipazione di quel
bene che noi chiamia- mo divina provvidenza. Nulla dunque può avvenire
per caso. Inutile è il notare che questo argomento si trova già in
S. Agostino, Ugo di S. Vittore, Abelairdo. (Sent.) « Si ergo casu
aliqua fiunt in mundo, non providentia universus mundus
administratur. Si non providentia universus mundus administratur,
ali- (1) Vedi EspuNBKBOBB — Op. dt. p, 58, 59. qua
natura vel substanlia est quod ad opus providentiae non pertinel. Omne
autem quod est... boni illius parteci- patione... bonum est, quod divinum
bonum provideoliam vocamus. JNihil ergo casu flit in mundo ».
$pazio ^ trnypo. Le nozioni di spazio e di
misura, ci vengono date da Pier Lombardo, laddove parla di Dio che è
immensurabile ed iniCBteso. (Sent. I, XXXVII, 9, 10) Neque
dime(nsionem habet (sdì. deus) sicut corpus cui secundimi locum
assigmatur principium, medium et finis et ante et retro, dextera et
smistra, sursum et deorsum quod sui interpositione facit distantiam et
circumstantiam... dicitur in Scriptura ali- quid locale sive
circumscriplibile et e converso, sci!, quia diimensionem (bapierus
longiltudinis et latitudinis distaai- liam lacit in loco ut
corpus... Più avanti definisce il luogo nello spazio ciò che
è occupato in lunghezza, altezza e larghezza da un corpo.
(Sent. I, XXXVII, 4) « Locais in spatio est quod lop- giludine et
altitudine et latitudine corporis oocupatur)). Come Dio neppure gli
spiriti creati possono essere circonscritti nello spazio. Essi però
possono in certo modo essere locali perchè quando si trovano in un luogo
(non si trovano in un altro : però non hanno dimensioni e per
quanto siano numerosi, non possono riempirlo. (Sent.) « Spiritus
vero creatus quo- dammodo est localis, quodammodo non e®t localis.
Localis quidem dicitur, quia definitione loci terminatur, quoniam
cum alicubi praesens sit totus, alibi non invenitur. Non autem ita
localòs est ut dimensionem capiens distantiam in loco faciat ».
Il Lombardo infine conclude che Dio non si muove né nello spazio,
né nel tempo, che Tanima si muove nel tempo, ed il corpo nelo spazio e
nel tempo. Di qui le loro diverse natuire. 93
(ibid.) « Ecce hic aperte oistendilur, quodi nec locis aec
temporibus mutatur vel movetur Deus, spiritualis au- tem natura per
tempus unovetur, corporalis vero etiam per tempus et locmnn.
Che cosa è il tempo ? Ad una tale domanda cosi risponde S.
Agostino nelle Confessioni (1) : Se nessuno me lo chiede lo so; se
voglio spiegarlo a chi me lo chieda non lo so: con piena fede dico
tuttavia di sapere che se nulla passasse, non vi sa- rebbe un tempo
passato e se nulla dovesse avvenire^ non vi sarebbe un tempo futuro, e se
nulla fosse non vi sareb- be un teimpo presente. Pier
Lombairdo definisce il tempo, la variazione delle qualità che sono nella
stessa cosa che si muta. (Seni. I, XXXVII, 10) <( Mutari autem
per tempus est variari secundum qualitates quae sunt in ipsa re
quae mutatur... Haec enim mutatio qua fìt secundum tempus, vanatio
est qualitalum . . . et ideo vocatur tempus». L'eternità fa
antilesi al tempo. Il Lombardo come A- belardo ripete qui le parole di
Boezio: Stabilisque ma- nens das cuncta momri quando dice: (In ps(. LVI)
«Et video, id est sciam, quoniam tu es proprie qui stabiEs ma- nens
das cuncta moveri ». Garattei'a appunto dell'eternità è la
stabilità, del tem- po la mutabilità (in epist. ad Hebr. I) « In
aeternitate enim stabilitas est, in tempoire autem varietas ; m ae-
ternitate omnia stamit, in tamporei alia aocedunt, alia suc- fcedHint
». Cosrpolosia. Il problema cosmologico si
presenta al Maestro nel libro II delle Sentenze alla prima distinzione.
Egli dimostra sulla fede delle Sacre Scritture, che non vi è che un
prin- MiGNB 32 p. 816 ( Espenberger op. cit. p. 73) : Quid est
tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti expli- care velim
nescio: fidenter tamen dico sci re me, quod si nihil prae- teriret, non
esset praeteritum tempus ; etsinihil adveniret, non esset fUtunim tempus,
ei si nihil esset, non esset praesens tempus. , cipio solo
di tulle le cose. Alcuni (ilosoli, come Platone ed Anstolile, avevano
pensalo che il mondo avesse molti principii, che la materia che lo
comipone fosse increata ed eterna, che Dio non ne fosse punto il
Greatore, ma sem.- plicamente l' oa^ganizzatore. Ma la dottrina cattolica
al contrario ci insegna che Dio solo, principio di tutte le cose,
ha tutto crealo dal nulla, le cose visibili e le invisibili, il cielo e
la terra. (Sent. H I, 1) (( Creationem rerum insinuans Scrip-
tura deum esse creatorem initiumque temporis atque om- nium visibilium
ved invisibilium creaturarum in primordio suo ostendìft dicens :
(g:en. I, 1) In principio creavit deus caelum et terram. His enim
verbis Moyses... in uno principio a deo creatore mundum factum refert
elidens errorem quorundam plura sine principio fuisse opinantium. Plato
namque tria inilia existimavit deum scilicet exemplar et matenam et
ipsam mcreatam sine principio et deum quasi artificem non creatorem
». E altrove conferma che il mondo non è coetemo a Dio e
senza alcun principio, ma creato da Dio come in- segna la
scrittura. (in ps. CXLVIII, 5) « Quia ipse dixit et faota sunt
— hoc dicit contra illos qui dicunt mundum deo coateoiimn ».
Dio creò ogni cosa dal nulla : creare è propriamente ricavare
qualche cosa dal nulla : onde a Dio solo compete il nome di
creatore. (Sent. II, I, 2) « Creator enim est, qui de nihilo
ali- quid facit. Et creare proprie est de nihilo aliquid facere....
hoc nomen (scilicet creator) soli deo proprie congruit... Ipse est ergo
creator et opifex et factor ». 11 Lombardo passa poi ad esamina-re
la creazione del mondo e specialmente .l'opera dei sei giorni
commentando il racconto della Genesi. Le spiegazioni ch'egli offre,
sono tolte ai padri antichi tra i quali S. Ambrogio, S. Agostino,
S. Gregorio, il venerabile Beda e S. Giovanni Grisostomo. Insieme con
vedute geniali e profonde, si trovano in quella parte dei suoi libri ove
si paria della creazione, alcune teorie che le scienze naturali hanno poi
definitivamente condannate. Basta ricordare la teoria dei quattro
elementi di cui si compone il cosmo, e quella che considera il fir-
mamento come una immensa volta solida alla quale sono attaccati gli astri,
e Topinione che i piccoli insetti nascano &6 dalla
corruzione dei carpi organici. Ma il Lombardo espone la scienza dal
secolo decimosecondo : d'altronde egli di tali cose sembra parlare in
forma dubitativa e come è suo costume non fa che esprimere le opinioni
che ai suoi tempi correvano. dell'uorpo
o^il'unlv^rso* Là dove parla della creazione, il Maestro
pada anche del fine per il quale l'uomo e l'angelo furono creati.
La somma bontà divina ha voluto far parte della sua felicità etema
a due delle sue creature, all'angelo ed all'uomo : perciò li creè
ragionevoli affinchè conoscessero il sommo bene, l'amassero, ed amandolo
lo jK>ssedesseiro e posse- dendolo fossero felici. L'angelo di natura
incorporea e l'uomo composto di anima e di corpo furono creati per
lodare e per servire Iddio; non già perchè questi abbia bi- sogno dei
servigi umani, ma affinchè l'uomo godesse nel servirlo, poiché in questo
si giova chi serve e non colui al quale si serve. (Seoit. II,
I, 7) « Factus ergo... homo projter deum dicitur esse, non quia creator
deus et summe beatus alte- rutrius indiguerit officio... sed ut servirei
ei ac fruirelur.'.. in hoc ergo proficit serviens... non ille cui servi
tur. Pensiero che vien perfezionato da S. Tommaso (Sum.
contra gentes II, 46) e dall'Afighieri (Farad. XXIX): Non per avere
a sé di bene acquisto Ch'esser non può, ma perchè suo splendore
Potesse risplendendo, dir: Subsisto. In seguito aggiunge che come
l'uomo è stato fatto per Dio, così il mondo per l'uomo, il quale si trova
in un mezzo tra ciò che a lui serve e ciò a cui egli stesso deve
servire. (Sent. II, I, 8) « Et sicut factus est homo propter
deum i. e. ut ei serviret, ita mundus factus est propter é6
hominem, scil. ut ei servirei. Positus est ergo homo 'n medio ut et
ei servirelur et ipse serviret; ut acciperet u- trumque et reflueret
totum ad bonum hominis et quod ac- cepit obsequium et quod impeffidit...
». L uomo infine si distingue da tutti gli altri animali per
la sua aspirazione alle cose superne, ed è perciò che egli ha il corpo
eretto e quasi rivolto al cielo. (Seni. II, XVI, 5) « Ecce osl^isum
est, secundum quid sit homo similis dei... Sed in corpore quaaidam
pro- prieitatem habet quae haec indicat, quia §st erecta statura
secundum quam corpus ajiimae rationali congruit, quia a caelum erectum
est ». E' lo stesso concetto di Cicerone (De legibus I, 9,
26): « Nam quum caeteras animantes abiecisset ad pa- stum,
solum hominem erexit ad caelique quasi cognationis domiciliique pristini
conspectum excitavit ». E non di Cicerone soltanto (1).
(1) Tra i gentili cf. Ovidio Metamorf. I, 84-86 Sallustio
Catil. Tra i filosofi cristiani Agostino (de gen. centra Manich. I,
XVII), Cassiodoro (de anima cap. IX) Beda (in hexaem I) Abelardo
(in hexaem). Tantum enim, ut tradit auctoritas, cognoscit ibi
quiHque quantum diligit. (Sent. II, IX, 4) Foteoze
d^ll'anirpa. 11 problema psicologico veniva proposto da Ugo
di S. Vittore in queisti termini: (de sacram. I ps. 5, e. 3)
yuaerunlur autem quiam plurima de origine animae, quando creata fuit et
tolde creala fuit et qualis creata fuit. (cfr. August. de quant. animae
I, 1). August. de quant. animae I, 1). Era questione tra i filosofi
secondo Giovanni di Sa- lisbury (Mei. IV, 9) se fosse una sola potenza la
quale ora sentisse, ora ricoondasse, ora immaginasse o se pur
rimanendo l'anima semplice, essa fosse dotata di molte potenze (1).
(1) MieNB 199 p. 922 A: < Recolo enim fuisse philosophos,
qui- bus placuit, sicut incorpoream simplicem et individuam esse
substan- tiam animae, ita et unam esse potentiam, quam multipliciter
prò rerum diversitate exercet. Eorum ergo opinio est, quod eadem
po- tentia, nunc sentiat, nunc memoretur, nunc immaginetur; nunc
di- scemat investigando nunc investigata assequendo intelligat. Sed
plures sunt e contrario sentientes animam quidem quantitatem simpli- cem,
sed qualitatibus compositam et sicut multis obnoxiam passio- nibus, sic
multis potentiis utentem ». V. Espenberger op. cit p. 88. Pier Luiinbardo
si attiene in ciò a S. Agostino e defi- nisce quei^le potenze come
naturali proprietà dell'anima, yueste sono una sola sostanza ed esistono
nell'animo so- stanzialmente; e noiii accidentalmente : poiché sebbene
rela- tive tra di loro ciascuna è sostanzialmente nella sostanza
oell animo. (Sent. 1, 111, 12) « Hic attendendum est ex quo
sensu accipiendum sit quod supra dixit, illa tria, scilicet memo-
riam, intelligentiam, voluntatem esse unum, imam mentem, unani essentiam,
quod utique non videtur esse venim juxta »pix>piietatem sermonis...
Illa vero tria, naturales proprietales seu vii-es sunt ipsius mentis...
(14) Sed jam videndum est quoniodo liaec tria dicantur una
substantia. Ideo quia sciJicet in ipsa anima vel mente
substantialiter existunt, non sicut accideiitia in subiectis, quae
possunt adesse vel abesse uiide Aug'ustinus in lib. IX de Trm. cap.
5 alt : Admonemur, si utcumque videre possumus, haec in animo existere
substantialiter, non tanquam in subiecto, ut color in corpore; quia etsi
relative dicuntur ad invincem, singula tamen substantialiter sunt in
substantia sua ». Spiegata cosi coli autorità altrui la natura
delle po- tenze dell anima, il Lombardo distingue nella ragione due
parti : la parte superiore che si volge alle ragioni eteme delle cose, la
inferiore che si piega a osservare le cose temporali! (11,
XXIV, 6) « Ratio vero vis animae est superior, quae, ut ita dicamus, duas
habet partes vel differentias, superio- rem et inferiorem. Secundum
superio«rem, supemis con- spiciendis vel consulendis intendit; secundum
inferiorem, ad temporalium dispositionem conspicit ». Da ciò
deriva la distinzione ch'egli fa della sapienza e della scienza. La
definizione che diedero gli antichi della sapienza, cioè : Sapientia est
rerum divinarum humana- rumque scientia, va divisa cosi che sapienza si
dica pro- priamente della conoscenza delle cose divine, scienza
della conoscenza delle cose umane. (S. Ili d, XXXV, 1) «...
illa definitio dividenda est, ut rerum divinarum oognitio sapientia
proprie nuncupetur, hùmanarum vero rerum cognitio proprie scientiae
nomen obtineat ». L'influsso mistico di S. Bernardo suo
protettore e dei suoi primi maestri di S. Vittore, si fa sentire in Pier
Lom- bairdo là dove afferma che la maggiore o minore quantità di
sapere deriva dalla quantità di amore: (Sent. II, IX, 4) « Sed qui magis
diligit plus coginioscit ». Abelardo definisce Tanima come una certa
essenza spirituale e semplice: (introd. ad theol. Ili, 6) « Anima
quippe spiritualis quaedam et simplex essentia est ». Non diversamente la
definisce il nostro Lombardo là dove dice (sent. I, IH, 12) « Mens enim
i. e., spiritus rationalis es- sentia est spiritualis et incorporea
». Così Abelardo come Pier Lombardo, si riconnettono a
5. Agostino che in più luoghi dei libri tratta deU anima -n quanto
spirituale ed incorporea. L'anima si dice semplice perchè non si
diffonde in e- stensione, ma in qualunque corpo in tutto o in
qualsivoglia paorte di essa è intiera. Cosi quando avviene qualche
cosa nella più piccola parte del corpo, che sia avvertita dall'a-
nima benché non avvenga in tutto il corpo, tutta Tanima sente perchè non
tutta si tien nascosta. (Sent. I, VII, 5) « (Simplex dicitur anima)
quia mole non diffunditur per spatium loci sed in unoquoque corpore
et in toto tota est et in qualibet eius parte tota est. Et ideo cum fit
aliquid in quavis exigua particula corporis quod sentiat anima, quamvis
non fiat in toto corpore, illa tamen tota sentit quia totam non latet
». In ciò segue il Lombardo la dottrina professata da A-
gostino e da Plotino, il primo nel libro di trinitate (VI, 6, 8),
de quantitate animae (cap. 33, 70) de immut, animae (I, 16, 25) il
secondo in enn. (IV, 33 edit Volkmanm). Ma se Tanima è semplice,
dice il Lombardo nel luogo citato, in confronto del corpo, per sé stessa
non è semplice ma molteplice. Poiché altro è essere operoso, altro
Inerte, altro acuto, altro memore, altro è desiderio, altro è ti- more,
altro è letizia, altro è tristizia, e queste cose ed altre dello stesso
genere si possono trovare nella natura delVa- nima ed alcune senza le
altre ed alcune più ed altre meno, onde è manifesto che la natura
dell'anima non é semplice, ma molteplice « unde manifestum est
animae non sim- plicem sed multiplicem esse naturam ».
In conclusione la natura deiranima offre due lati: è semplice da un
lato se si paragona colla natura del corpo molteplice se si paragona
colle sue potenze Ma ranima è altresì immortale. L'uomo è fatto a
somiglianza di Dio e la somiglianza nella essenza perchè essa è immortale
ed indivisibile. (Seni. Il, XVI, 4) «Factus est homo... ad
similitu- dinem dei... similitudo in essentia quia et immortalis eit
in- divisibilis est. linde Augustinus, de quant, anim. I, 2-3: «
Anima facta est similiter deo, quia immortalem et indis- solubilem fecit
eam deus ». Ma la filosofia scolastica fedele al precetto:
distingue prequenier^ come limita e divide il concetto della semplicità
deiranima cosi na limita e divìde quello della immoortalilà, distinguendo
il coooeilto della morte intesa in senso asso- luto di annientamento da
quello della stessa intesa in senso relativo di mutazione : ed in
quest'ultimo senso Tanima non è del tutto immortale. (Seni.
I, Vili, 3 ) « In omni mutabili natura nonnulla mors est ipsa mutatio
quia fecit aliquid in ea non esse quod erat, unde et anima humana quae
ideo dicitur immortalis quia secundum modum suum nunquam desinit vivere^
ha- bet tamen quandam mortem suam ». Orijioe
d^U'aoirpa. Riguardo airorigine delFanima si agitavano ai
tempi del Lombardo due diverse opinioni, Tuna del traduzioni- smo
(1) che pretendeva che Tanima venisse generata come il corpo, l'altra del
creazionismo che pretendeva al con- trario che fosse creala da Dio
direttamente. A quest ultima si attiene naturalmente il
Lombairdo con Abelardo, Roberto PuUus, Ugo di S. Vittore. Dio creò
ranima dal nulla dice il Maestro: (Sent. II, XVII) «Flatus factus est a deo,
non de deo, non dealiqua materia sed de Odo di Cambra!: (de pen. orig.
II) « Sunt autem multi qui volunt animam ex traduce fieri sicut corpus et
cum corporis semine vim etiam animae procedere » Vedi Espen. o. e. p.
96, I 101 nihilo ». Quindi cornhatte; ropinione
di coloro che affer- maaio con Origene che le anime sono state tutte
create al principio del mondo, e quella di coloro che con i Lu^ci-
feriani e Cirillo ed alcuna dei Latini pensano che Tanima si comunichi ai
figli per generazione e nello stesso modo che il corpo. Mentre Tanima non
è infusa nel corpo che quando esso è tonnato ed adatto a riceverla.
(Sent. II, XVII, 3) Sed quicquìd de anima primi ho- minis
aestimeoitur, de alias certissime sentiendum est, quod in corpore
creentur; creando emim infundit eas deus et in- fundendo creat ». E più
avanti : (Sent. II, XVII, 8) e( Unde Augustiiniis in ecclesiast, dogm.
animas hominum di<rit non esse ab initio inter creaturas intellectuales
natuT^as nec simili creatas sicut Origenes fìngit necque in
corporibtis per coitum seminum sìcuT Luciferani et Cyrillns et
quidam LatiinoiTum praesuanptoìres affìrmant, sed dicimus corpus
tantum per coniugii oopulam seminari, creationem vero animae solum
cneiatoirem nosse eiusque iudicio... formato iam corpore animam creavi
atque infimdi ». E nel libro IV spiega ancor meglio quest'ultimo
pen- siero ricorrendo all'esempio della casa e del suo abitatore
che vi entra soltaoito quando è ben costruita : (Sent. IV, XXXI, 5)
« Sed iam formato corpori anima datur, non ini conceptu corporis nascitur
cum semine de- rivata. Nam SI cum semina et anima existit de anima,
tunc et multae animae quotidie pereunt cum semen fluxu non proficit
Ti'ativitati. Primum oportet domum compaginari et sic habitatorem
induci». E qui è opportu/no ricordare che questa teoria
dell'a- nima si trova pure con poche varianti nel canto XXV del
Purgatorio laddove il Poeta discorre della nascita dell'uo- mo e spiega come
(Tanimal divenga fante. Relazione tra Fanirpa ed il
corpo. . Seguendo il concetto aristotelico dell'età di mezzo,
il Lombardo ritiene Tanima come forma del corpo. (Sent. IV,
XXXI, 5) « Formatum vero intelligitur cor- pus propria anima animatum et
informe quod nondum Habet animam. Un tal concetto va intimamente
collegato con un passo della Bibbia: (Exod. 21, 22, 33) « Si quis
percusserit mulierem praegnantem et aborlivum fecerit, sì adhuc in-
formalum fuerit, multabitur pecunia; quod si formatmn fuerit, reddel
animam prò anima », Il Lombardo deride le favole di coloro che
immagi- nano che le anime siano rinchiuse nel coq>o, come in un
carcere, per i peccati commessi in cielo. (Sent. I, XLI, 4) «
Multi... in fabulas, vanitatis abie- runt dicenls, quod animae sursum in
caelo pecoant, et se- cundum peccata sua ad corponia prò meritis
diriguntur, et dignis sibi guasi carceribus includuntur. lerunt hi
tales post cogilationes suas et... versi sunt in profundum, di-
centes animas in caelo ante conversatas et ibi aliquid vel mali egisse et
prò meritis ad corpora terrena detrusas esse. Hoc autem respuit catholica
fides ». Ma invece Dio diede senso alla natura coirpoTea
perchè Tuomo capisse che se potè unire due cose cosi diverse, quali
l'anima è il corpo in una tale unità, non è impossi- bile ch'egli possa
partecipare per quanto umile alla sua gloria. (Sent. II, I,
10) « Lufeamque materiam fecit ad vitae sensum vegetare, ut sciret homo,
quia si potuit deus tam disparem naturam corporis et animae in
federationem u- nam et in amicitiam tantam coniungere, nequaquam ei
impossibile futurum rationalis creaturae humilitatem.... ad sua Rloriae
partecipationem sublimare ». Pier Lombardo non crede che il corpo
sia carcere dell'anima nel senso che sopra si è detto, perchè f)er
es- sere opera di Dio è un bene: ma è pure un carcere nel senso che
il corpo a corrompe e corrompendosi aggrava Fanima. (in ps.
CXLI, 10) «Vel potius corpus est career non utique secundum id, quod deus
fecit ipsum bonum est, sed secundum id, quod comimpitur et aggravat
animam i. e. oorruptio eius quae venit ex peccali, career est».
Altrove chiama il corpo quasi strumento e servo del- Tanima : (in
epist. ad Rom.) « Si corpus, quo inferiore tamquam famulo vel instrumento
utitur anima... ». E cosi pure si legge in un suo sermone : (2P De codem
die : — In passione Domini seu in annuntiatione : — vedi Protois op, cit.
pag. 144) « Domi- nus est spiritus noster, anima tamquam domina,
corpus tanquam servus. Hi tres ini domo una cooperantur et si
oonveniunt in bono, vdr bonus intelligilur ». Che cosa è infatti Tuoino se
non un'aniina fornita di corpo? si domanda Ugo di S. Vittore (1). Però a
que- sto riguardo il Lombardo usa di una certa moderazione; ed il
suo modo di pensare intomo alla persona deiruomo ci fa credere che egli
dà un posto importante anche alla vita (2). Il Maestro delle
Sentenze sul finire del suo libro principe, cioè alla distinzione XLIII
del libro IV, entra poi a discorreire della morte e della risurrezione
del corpo. E fu il padre Michele da Carbonara il primo a far notare
la conformità che vi è tra le dottrine svolte da Pier Lom- bardo e i
luoghi della Divina Commedia che parlano della risurrezione, quantuncfue
la ragione fondamentale di essa data dal Maestro diversifichi in sostanza
da quella data dal Poeta. Nella risurrezione ciascuna anima
separata riprenderà il coqx), ripigtierà sua carne e sua
figura (Inf. VI, 98) quale era nel fiore della età: e sarà mage^iore
allora la sua beatitudine e la sua cognizione : « amplior erit
eorum cognitio ». Ciò è diffìcile a spiegarsi, dice il Maestro. Ma
è certo che nell'anima è un vivo desiderio di ripigliare il corpo;
riunita al corpo Tanima ha perfectum naturae suae modum ed ha ampliorem
cognitionem. Altri che verranno poi, si spingeranno più
addentro nella questione come farà S. Tommaso. Ma, dice il Car-
bonara, il Maestro sta come colui che tira le linee più larghe d'un
quadro, in suU'indeterm inalo; e si legga at- (1) Sent. I,
XV Migm 176: « Quid enim est homo nisi anima habens corpus ? »
(2) Nel sermone 11 (in die Cineris ad poenitentes — .Ms. lat. 18170
in Protois p. 138): «vita praesens messi comparatur et aestati, quia nunc
inter ardores tentationum colligenda sunt futurorum merita praemiorum.
» (3) P. Michele da Carbonara — Dante e Pier Lombardo (Sent
lib. IV dist. 43-49) con prefazione e per cura di Rocco Murari 2 ^ ediz.
Città di Castello Collezione di Opuscoli Danteschi inediti o rari diretti da
M. A. Passerini. 104 tentamente questo tratto «
^f mmor sU healitudo sanctorum post iudicium; sì leig'gta attentamente e
si vedrà che se vi è trailo che specchi il canto XIV del Paradiso, questo
tratto è desso. La slessa queslfone, gli stessi punti determinali;
ma Insieme rindeterminatezza, il vago, che neirinsieme domina il Maestro,
si risente nel Poeta : Come la carne gloriosa e santa Pia
rivestita, la nostra persona Più grata fia, per esser tutta quanta
: (cperfeobum natuirae suae modum habebit anima».Omne qaod est, in
quantum est, bonum est. Tutta TEtica scolastica è
necessariamente compene- trala della dogmatica teologica. Quella di Pier
Lombardo non diversa in sostanza da quella dei suoi maestri^ si
riat- taeca alle discussioni teologiche intorno alla morale che ai
suoi tempi si dibattevano. Ubero arbitrio.
La prima questione che ci conviene esaminare, è quella che riguarda
il libero esercizio della volontà. La libertà, pensa egli con Ugo
di S. Vittore (Sent. Ili, 9), di cui sente più volle l'influsso, chiede
di poier compiere non solo il male, ma anche il bene. (Sent.
II, XXV, 13) « Verum nobis magis placet ut ipsa libertas arbitrii sit et
illa, qua magi® liber est malum, et alia qua quis liber est ad bonum
faciendum. Ex causis enim variis sortitur diversa vocabula».
Il Lombardie si chiede in appresso quali fattori deter- minano la
libertà umana e ne distingue due, cioè la ra- gione e la volontà.
106 La prima disceme tra il bene ed il male, la
seconda si muove con desiderio spontaneo ad effettuarlo. Ecco la
definizione e la spiegazione del libero arbitrio secondo Pier
Lombardo. (Seni. II XXIV, 5) « Liberum verum arbitrium est
facultas rationis et voluntatis, qua bonum eligitur gratia assistente,
vel malum ea desistente. Et dicitur liberum, duantum ad voluntatem quae
ad utrumlibet flecti potest. Arbitrium vero, quantum ad rationem, cuius
est facultas et potentia illa, cuius etiam est discemere inter bonum
et malum et aliquando quidem discrelionem habens boni et mali, quod
malum est eligit, aliquando vero quod bonum est...,.» e più avanti:
(Sent. II, XXV, 1) « Liberum ergo dicitur arbitrium quantum ad
voluntatem, quia voluntaTie moveri et sponta- neo appetitu ferri potest
ad ea quae bona vel mala indicet vel indicare potest ». Il
Lombardo si affretta poi a spiegare un passo di S. Agostino, ove questi
afferma che l'uomo perde il libero arbitrio dopo il peccato, onde si
legge nei Vangeli: (2 Pel. 2) A quo erdm devictus est, huic servus est
(Vedi August. enchirid. 30, 9 Migrie 40). TIon ciò non si
vuol dire che l'uomo perde intiera- mente la libertà, ma solo quella che
ci trattiene dalla mi- seria e dal peccato (Seni. II, XXV, 8) <( Ecce
liberum arbitrium dicit (scil. Augustinus) hominem amisisse; non
quia post peccatum non habuerit liberum arbitrium, sed quia libertatem
arbitrii perdidit non quidem a necessitate, sed libertatem a miseria et
peccati. Est namque lib^rtas triplex, scilicet a necessitate, a peccato,
a miseria. A necessitate et ante peccatum et post aeque liberum est
arbitrium. Sicut enim lune cogi non poterai, ila nec modo. Ideoque
voluntas merito apud deum indicalur, quae semper a necessitate libera est
*i iiiunquam cogi potest. Ubi necessitas, ibi non est libertas; ubi
non est libertas, nec volunlas et ideo nec merilum. Haec libertas in
omnibus est tam in malis quam in bonis..». Il Sentenziario perciò
nel suo Commentario nei Salmi (rimprovera coloro che attribuiscono alle
stelle ed al fato, la colpa dei loro peccati facendone in certo modo
respon- sabile Iddio, che è Tautoire del creato : (in ps. XXXI, 6)
« Ila clamel aeger ad medicum, et dicat : Cum libero ar- bitrio creavi!
me Deus: ideoque si peccavi, ego peccavi non fatum, non fortuna, non
diabolus, me coegit : sed' ego persuadenti consensi ».
io: In conclusione, il maestro delle Sentenze^ come già
si è veduto, definisce il libero arbitrio un& facoltà della ragione'
e della vodontà colla quale si sceglie il bene col soccorso della grazia
od il male se la grazia ci manca. Ma questa definizione, aggiunge
l'autore, non conviene a Dio né ai santi che par essere incapaci di
peccare, hanno un libero arbitrio più perfetto. 11 libero arbitrio di Dio
è la sua volontà ònnisapiente ed onnipotente, che fa senza
necessità e liberamente tutto ciò che le piace. Quella degli angeh e dei
santi non può più portarsi verso il male, perchè essi sono coiiifermati
neha beatitudine e neilla grazia. L'uomo dopo il peccato ha pure
conservato il suo, ma perchè egli voglia il bene gli è necessaria
la grazia del Redentore. La teoria del libero arbitrio, che
il Maestro professa, intesa a conciliaire il dogma coi dettami della
ragione, non sfugge, come è ben naturale, a gravi difficoltà. Cosi
egli è costretto per quaiinto si sforzi di provare il contrario, a
mettere l'uomo in una posizione non del tutto giusta, rispetto alla sua
libertà, poiché se egli fa il male, ne è tutta sua colpa (ideoque si
peccavi ego peccavi — in ps. loc. cit.) quantunqua non possa andare ^nte
dal peccalo, mentre se fa il bene, il merito è tutto di Dio.
(Sent. II, XXVII, 7) « Non tamen sine libero arbitrio proveoiiunt
merita nostra, scilicet boni effectus eo-rumque progressus atque bona
opera quae Deus remunerat in no- Das et haec ipsa sunt Dei dona. Unde
Augustinus (12) ad Sixtum presbyterum: Cum coronat Deus merita
nostra nihil aliud coronai quasn munera sua ». Quamto poi
alla obbiezione che se Dio sa tutte le cose che debbono avvenire, noi non
possiamo fare in altro modo di quello che a lui è noto, dal che ne
verrebbe la nega- zione di ogni libertà umana, egli non oppone nulla in
que- sto punto dove espone la teorica del libero arbitrio. Ma noi
possiamo conoscere il suo parere in proposito, purché noi ci riportiamo a
quel punto del libro P, ove parla della prescienza di Dio, allora assai
dibattuta dalle sette sco- lastiche, come quella che sembrava condurre a
riconoscere il fatalismo. Il Maestro delle Sentenze per rispondere
a questo argomento, fa uso della distinzione così nota agli
scolastici del senso composto e del senso diviso, ovvero del senso
congiuntivo e del disgiuntivo; cioè che non si può dare che Dio abbia
preveduto una cosa e ch'essa non avvenga, ma è possibile che essa non
avvenga, e allora J06 Dio non Tavrebbe
preveduta. Sottigliezze a cui la scuola dogmatica è costretta a ricorrere
ogni qualvolta vien mes- sa ale strette. Ondie il Pomponnazzi nel suo
libro: De Fato, libero (mbitrio et providentia Dei (V lib. Bàie
1525) ove si sforza egli pure si conciliare il destino la provvi-
denza e la libertà deiruomo, finisce col non saper dare altre soluzioni
che quelle poste innanzi dalla scolastica, confessando però che esse sono
piuttosto delle illusioni che delle vere risposte: Videntur potius esse
illusiones islae quam respomiones (lib. III).
Felicità. Fine a cui tendiamo tutti é la felicità :
(sent. V, XLIX, 2) « Beatos autem esse velie, omnium hominum esl ».
Il Lombardo ricorda le parole di Cicerona: Beati certe omnes esse
volufnus, ed è lontano dal contraddirvi, ma anzi ne deduce che poiché
tutti desiderano la felicità, tutti ne hanno dentro di sé la conoscenza:
«... sequitiu' ut omnes beatam vitam sciant » (1). Vediamo
ora come procede il Lombardo neiranalisi della felicità. Sul principio
del primo libro egli comincia dal distinguere la differenza che v*è tra
usare di una cosa e fruirne. Usare d'una cosa è adoperarla a compiere
la nostra volontà, fruirne è usarne con gioia, è aderirvi per amore
e ciò non avviene in questa vita. (Sent. I, I, 3) « Uti est
assumere ali<juid! in f acultateni voluntatìs. Frui autem est, uti cum
gaudio, non adhuc spei sed jam rei... et ita in hac vita non videmur frui
sed tan- tum uti, ubi gaudeamus in spe, cum supra dictum sit, frui
esse amore dnhaerere alieni rei propter se : qualiter etiam hic multi
adhaerant Deo». (1) Dantb — Purgatorio XVII 127-9:
Ciascun confusamente un bene apprende Nel qual si queti T animo, e
desira: Perchè di giugner lui ciascun contende.
l09 E poiché questo sembra far iidsceire eontraddiàoni,
egli la rivolse così chiarendo il suo concetto. Tanto qui come nel futuro
si può in certo modo fruire della beati- tudine eterna, ma mentre in
cielo noi la godremo in modo perfetto perchè, come dice S. Agostino,
l'avremo vicina qui in terra, non la godiamo che per riflesso ed è ciò
che ci fa sopportare i travagli della vita. (Sent. I, I, 4) «
Haec ergo quae sibi contradicere vi- demtur, sic determinamus, dioente»,
nos et hic et in futuro frui : sed ibi proprie et perfecle et piene ubi
per speciem vi- debimus quo fruemur, hic autem, dum in spe
ambulamus fruimur quidem sed non adfeo piene... Idem (scil. Augu-
stinus) in Uh. de Doc. christ. ail (lib. I, cap. 30) : Angeli ilio
fruentas jam beati sunt quo et nos frui desideramus; et quaai'timi in hac
vita iam fruimur, vel per speculum, vel din aenigmate, tanto nostram
peregrinationem et lolera- bilius sustioemus et ardentius fruire cupimus
». In questa teorioa il Lombardo si liem stretto a S. Agostino ed
esprime 41 medesimo comcetto che più tardi sarà svolto da S. Tom-
maso col fine mediato ed iumiediato. guanto alla questione, se si
possa gioire della virtù per sé stessa o solo come mezzo di acquistare la
vera fe- licità, egli si prova come è suo metodo di conciliare la
prima opinio*ne, che sembra confortata da un passo di S. Ambrogio, con la
seconda professata da S. Agostino, affermando che la virtù può essere
amata per sé slessa, ma che non dobbiamo fermarci lì, ma bisogna tendere
ad un fine più elevato e riferire la virtù a Dio come fine ul-
timo. Amoralità d^Ue aztooi urpaoe* Quali
sono le azio^ni umane che si debbono chiamare buone secondo il Lombardo e
quali cattive ? Egli risponde suirautorità di S. Ambrogio e di S. Agostino,
che ciò che fa buona o cattiva una azione è Tintenzione. Ed in ciò
non discorda da Abelardo che afferma appunto nelFEtica (cap. XI) :
« Unde ab eodem homine cum in diversis temporibus Ilo
idem fiat, prò divemsitate tametn inlentionis eius operatio modo
bona modo mala dicitm* ». Infatti il Maestro nel libro secondo d^e
Sentenze (dist. XI, 1) dice quasi allo slesso modo : « Nam simpliciter ac
vere sunt boni illi actus, qui bonam causam et intentionem id est qui
voluntatem bonam comitantur et ad bonum finem tendunt: mali vero
sim- pliciter dici debent qui perversam habent causam et inten-
tionem ». E cita a questo proposito le parole di S. Ago- stino : (enarr.
in ps. XXXI, 4) « Bonum eriim opus intentio facitìK In
conseguenza è un'azióne buona confortare i po- veri se si fa per compassione
e misericordia : ma la stessa azione diventa cattiva se la si fa per
ambizione. Vi sono tuttavia delle azioni le quali sono cattive per sé
stesse e che la intenzione non può rettificare: tali sono la men-
zogna e la bestemmia. Ksse poi sono cattive in quanto sono
privazioni dell'es- sere, perchè ogni cosa, in quanto è, è buona : Omne
quod est in quantum est bonum. L.a le^^e
fT)orale« Stabilito cosi guali sono le azioni buone o
cattive, & seconda dell'intenzione, restava a determinare quale è
il caratieire morale che deve contraddistinguere le nostre a- zioni
e qual norma si deve necessariamente seguire per muovere al bene : dione
insomma dove deve dirigersi- la buo- na intenzione. In coerenza colle
dottrine da lui professate, •il Maestro pone la regola delle azioni umane
nella legge divina : perciò il peccato consiste in una infrazione
alla legge divina (1). (Sent. II, XXXV, 1) « Peocatum est
omne dictum vel factum vel concupitum quae fit contra legem Dei, . . Quid
est ipeccatum nisi legis divanae praevaricatio? ». (1)
n Lombardo ammette altresì una legge naturale, lex natu^ raliSj la quale
ebbero anche i Gentili, ma questa non basta a con- durre a
salvamento. Ili Nofli è qui il luogo di indicare
il difetto originale d una tale dottrina che nel porre fuori di noi la
legge del nostro operare, si condanna alla, contraddizione. Mi basterà
ri- coirdare che essa si presenta assai più sviluppata in S. Tom-
maso, il quale pone innanzi iJ concetto aristotelico della ragione umana,
la quale è la natura dell'uomo in quanto è uomo: ondfe poiché ogni cosa è
buona quando è con- forme alla sua propria natura, ogni cosa sarà buona
ri- spetto airuomo quando sarà conforme alla ragione. Ma questa
stessa ragione e natura umana ripete il suo potere regolativo dalla
natura divina : « quod autem ratio umana sit regula voluntatis humanae,
ex qua eius bonitas mensu- retur, habet ex lege aeterrm quae est divina
». (Sum theol. II. 2.). In conclusione la filosofia
patristica e scolastica, si accorda nel porre il principio normativo
dell'operare u- mano fuori aeiruomo stesso, cioè nella sapienza
divina identica essenzialmente col suo volere. Bei}e ^
n)ale. Abbiaino veduto come Pier Lombardo affermi che
tutto ciò che è, in quanto è, è bene : « Omne quod est, in quantum est,
est bonum » (Sent. II, XXXVI, 37). E poi- ché l3io é d'autor© di tutto
ciò che esiste Dio é rautore di ogni bene. (Seoit. I, XLVI,
12) (Deus) omnium quae sunt auctor est, quae in quantum siuiif bona
sunt. Ma non viieme di conseguenza che Dio sia l'autore an-
che del male, giacché il Lombardo come tutti gli Sco- lastici, concepisce
il male come gualche cosa di propria- mente negativo, cioè come la
privazione o la corruzione del bene. (Sent. II, XXXIV, 4) «
Malum enim est comiptio yel privatio boni... Quid enim aliud quod malum
dicitur nisi privatio boni?». Anche S. Agostino nel libro De
civitate Dei (XII, 7 Migne 41 p. 355) parla di causa deficiente e non
efficiente del cattivo operare « Nemo igilul* quaeral ellkientem
cau- sani malae volunfalis: non enim efficiens est, sed defl-
ciens, quia nec illa effectio est sed defeclio ». E di qui trae
buon argomento il Maestro a confutare l'obbiezione di eoJoro che
insinuano che Dio essendo au- tore di tutto ciò che esiste, deve essere
altresì autore del peccato. (Sent. I, XLVI, 12) « Quocirca
mali auctor non ^t (scil. deus) et ideo ipse summum bonum est, a quo
^n nullo delicere bonum est, et malum est deflcere. Non est ergo
causa deficiendi id' est tendendi ad jion esse, qui, ut ita dicam,
essendi causa est, quia omnTum quae suoit, auctor est, quae in quantum
sunt, bona sunt... Ecce aperte habes quod deficere a deo... malum est
». L.oiT7bardo nel cielo del 5oIe. Entrato €on
Beatrice nella sfera del sole Dante, ap- preoide diairanima di S. Tommaso
chi essa sia e chi siano i fulgor vivi e vincenti Sella sua
ghirlanda. Se si di tutti gli altri esser vuoi certo, Di
retro al mio parlar ten vien col viso * Girando su per lo beato
serto, QuelValtro fiammeggiare esce dal riso Di Graziano, che
Vano e l'altro foro Alutò si che piace in Paradiso. L'altro
ch'appresso adorna il nostro coro Quel Pietro fu che con la
poverella Offerse a Santa Chiesa suo tesoro {Par, X, 100,
108;. Qui Francesco Buti commenta : con la poverella offerse
fece la sua offerta della sua fa- cilità, come la po-verella della quale
dice rEvangelio di Santo loanni, che offerse poco, perchè «poco aveva,
ma con buon cuore e peirò Iddio accettò più la sua offerta che
quella del ricco, che, benché offerisse molto, non offerse con si buono
animo. Commento di Francesco Buti sopra la Divina Commedia per cura di C.
Giannini Pisa I più dei oammentatapi ricordano le prime parole del
prologo del Liber Sententiarum : « Cupientas aJiquid de penuria a-c
temiitate nostra cum paupercula in gazophilacium Domini miUere
ardua scandere et opus supra vires nostras praesumpsimus». Le
parole di Pier Lombardo chiaramente fidludono al noto episodio della
poverella, riportato da San Luca (XXI, 1, 4) e da S. Marco (XII, 41, 44)
e nooi da San Giovanni come erroneamente riferisce il Buli.
Dice San Luca: « Respiciens autem vidit eos, qui mittebant
munera sua in gazophilacium diviles. Vidit autem et quamdam vi-
duam pauperculam mittenlem aera minuta duo. Et dixit: Vero dico vobis,
quia vidua haec pauper, plus quam omnes misit. Nam omnes hi ex abundantia
siti miserunt in munera Dei : haec autem et ex eo, quod deest illi,
omoiem victum suum quem habuit misit ». Così ad un dispreeso
racconta San Marco con leggere vananti : solo è da notarsi che egli
chiama la donna uidua una pauper e vidua hxiec pauper e non mai col
diminu- tivo tanto affettuoso di paupercula che per essera stJ^lo scelto
da Pier Lombardo fa pensare ch'egli si sia riferito in special modo al
passo di San Luca della Volgata. Ma ciò poco importa : importa
invece assai il notare come l'umiltà della vidua paupercula avesse
toccato «pro- fondamente il cuore di Pier Lombardo il quale nel vergare
quelle parole doveva forse ricordarsi con teneirezzìa di un'altra vedova
poverella di un lontano paese di Lombar- dia : e come Dante che nei
veirsi che dedicava ai persooiaggi della sua^ Commedia soleva «per lo più
introduirre Tele- mento soggettivo dei ricordi ed affetti personali non
senza ragione ricordò quel punto e quello solo dell'opera di Pier
Lombardo. L'influenza che il ma^fister Petrus esercitò sul
pen- siero del Divino Poeta non è stata ancora tutta quanta
spiegata e compresa nella sua giusta entità. 11 tkeologus . Dantes
nullius dogmatis expers dà a S<a«n Tommaso il posto d'onore che gli
conviene, ma a San Tommaso com- mentatore di Pier Lombardo. Se Dante e
San Tommaso non si possono ancor dire contemporaiiiei sono vissuti
a poca distanza di tempo e sono entrambi commentatori e
perfezionatori dell'opera ancora rozza si ma feconda di Pier Lombardo :
l'uno raggiunge finalmente colla sua ma- 115
unifica somima quel connubium fidei ac rationis che il Magister
aveva solo tentato, Taltro ina canta il trionfo glo-rioso.
Che Dante avesse letto il Rbro delle Sentenze con mollo amore ci è
provato non solo dai versi succitati, ma da numeirosi passi del Paradiso
ove come diremo tosto rimitaziione risulta evidente : ed io sarei anche
propenso a credere che rAlighieri non si fosse Termato alla lettura
di quel libro solo ed a tutti noto di Pier Lombardo. Qui sono
tratto ad accennare fuggevolmente alla famosa questione del viaggio di
Dante a Parigi : questione ove troppo, eletti ingegni si cimentarono
perchè io presu- ma di recare qualche nuovo raggio di luce.
Dante zill'Uoiversiià di Parigi. Giovanni di Serra
valle comme«ntatore del secolo XV racconta : « Anagogico
dilexit Theojogiam sacram, in qua diu studuit tam in Oxoniis in regno
Angliae quam Parisius in regno Franciae : et fuit Bachalarius in
Universitate Pa- risiensi in qua legit Senlentias prò forma magisterii :
legit Biblia : respondit omnibus doctoribus, ut moris est, et fecit
omines actus qui fieri debent per doctorandum in Sacra Theologia ».
Egli continua poi a dire che Dante non potè ottenere la laurea
perchè gli mancò il denaro per la licenza (deerat pecunia). Onde tornò in
Firenze per acquistarlo, optimus artista, perfectus Theologus e quivi
fatto «priore si diede ai pubblici uffici e più non si curò della
Università diPa- rigi (1). ,^ Il (racconto di Giovainni di
Serravalle fu accolto dairO- zanam e dairArriviabene con maggior serietà
che mm me- (1) G. TiBABOSOBi — storia della leti. Hai.
Modena 1789 Tom. V. p. 490 - Fratria F. de Serravalle Translatio et
comentum totius libri Dantis Aldighieri cum textu italico Fratria Da
Colle, nunc primum edito — Prati 1891 - (Jiachetti in fol. ritasse.
Secondo un tale» racconto Dante sarebbe andato a Parigi nella sua
giovinezza contro raffestazione del Vil- lani, del Boccaccio, di
Benvenuto da Imola che fanno il viaggio degli ultimi anni. Ed il chiaro
professor Cipolla osserva che è appena credibile che Dante fossei in
cpiel tempo cosi spirovviiyto di credito da non potere ottenere la
somma che gli era necessaria : onde giudica il racconto di poca
probabilità. Ma TinverosimigHanza di lutto il rac- conto appare manifesta
quando un poco si pensi al modo come era organizzata la facoltà teologica
di Parigi ai tempi di Dante. Il buon vescovo di Fermo volendo
mostrarsi molto ap- profondito nella conoscenza dei gjradi accademici
com- mette degli errori grossolani : et fuit Bacchalarius in Uni-
versitate Parisiensi in qua legit Senlentias prò forma Ma- gisterii:
legit Biblia ». Ma si è veduto nella parte storica del lavoro
che Tanno in cui il baccelliere éiventsiV aSententiarius cioè
commentava in pubblico il libro delle Sentenze non pre- cedeva, ma seguiva
la spiegazione della Sacra scrittura: dopo quell'anno il baccelliere si
chiamava baccalaureus forrnatus che risponderebbe mutatis mutandis al
nostro laureando. Perciò Giovanni di Serravalle per essere esatto
come vuol parerlo, avrebbe dovuto invertire l'ordine delle parole. Ma non
vogliaino essere molto esigenti su ciò: c'è ben altro. Gli
omnes aclus qui fieri dehent per doctorandum in sacra Theologia (1) erano
e forse Giovanni di Serra- valle lo ignorava, i sermoni (sermones) e le
conferenze (controversia^) che si dovevano tenere nei .tre o
quattro anni che precedevano la licenza ed infine le tre dispute
pubbliche di cui la più solenne veniva chiamata Sorbonica: ma la licenzia
(licentia) che veniva dopo tali prove accor- data e che il Serravallei
chiama con termini vaghi inceptio, conventus^ non esigeva alcuna pecunia
di sorta. (1) Il SerravaUe e tutti i Commentatori si
riferivano aU' accenno Dantesco; si come il baccelUer s'arma
e non paria, fin che il maestro la question propone, per approvaria
e non per terminarla. Par. XXIV 46 - i8, Infatti già il
concilio Lateranense del 1179 aveva proclamato due punti fondamentali :
la necessità e la gra- tuità della licenza ed un tale decreto trovò
po'sto nelle De- finire di Gregorio' IX. Solo per eccezione fu eoncess^o
sul finire del Xll a Pietro Comestore, cancellario di Nótre Dameij
per i suoi pregi personali, da Alessandro III, di pre- levare uoiia
piccola rimunerazione per la concessione della licenza. Ed
ancora il Regolamento di Roberto di Courcon del 1215 insisteva sulla
concessione gratuita ed ìncondiziomita della licenza : ed una tale
disposizione veniva conifermata nelle reigole aggiunte dal papa Gregorio
II di cui cono- sciamo il benefico intervento nei dissensi tra
rUniversità ed di Re di Francia. Nella famosa bolla Parens
scientia- rum (1231) viene prescritto formalmente « che il cancel-
liere non potrà esigere da coloro ai quali conferirà la li- cenza né
giunamento, né obbedienza, né denaro, né cau- zione, né promessa ».
Ora è noto a tutti che lo statuto di Roberto di Courcon confermato
e completato dalla bolla di Gregorio IX, la quale fu pure rinnovata senza
modificazione da Urbano IV nel 1261, continuò ad essere per tutto il
secolo XIII 'a legge fondamentale deirUniversità e pertanto della
facoltà teologica di Parigi. Per il che sembra a me che il
fondo storico del rac- conto di Giovanni di Serravalle venga a mancare
sempre più di consistenza. Carlo Cipolla nel suo dotto ìavaro
Sigieri nella Divi- na Commedia, dopo avere ossei-vato che il Sigieri
ricor- dato tra i beati del canto X deve ritenersi come Sigieri di
Brabante, e non va identificato col Sigieri de Conrtrai {Le Clero)
visisuto in epoca diversa, e neppure con quello di cui si iparla nel
sonetto del Fiore (Castets) avverso a San Tommaso, crede probabile, che
Dante fn a Parigi negli ultimi anni di sua vita ed airincirca negli anni
1316-1318 e non vi ascoltò le lezioni di Sigieri di Brabante perché
questi era morto avanti il 1300 (1). L'abate Feret tornando su
questa questione nel volu- me II deiropera cit. (cap. Les Sorbonnistes)
crede errat-ì così, l'opinione del Le Clerc che del Castets, combatte
^e (1) Giornale storico den« Lett. It. Voi. Vili — Torino
LoescUer 1886 p. 54 - 139, 118 asserzioni
di Gaston Paris, ed airiimesso che il Sigieri di Dante è il Sigieri di
Brabante che quitla cette vie en repu- tation d'une orthodoxie parfaite,
non si discosta mollo dalle oonclusdoni del professor Cipolla che mostra
di mion conoscere (1). Questo sembrerebbe coaidurci assai
fuori del nostro ar- gomento se una buòna osservazione del prof. Cipolla
a questo proposito della partecipazione dell'Alighieri alle lezioni
dd Sigieri non mi facesse tosto ritornarvi. Egli afferma che « per
ciò che riguarda Sigieri, altro è ammettere nel luogo Dantesco vm ricordo
personale, ed altro è credere che questo ricordo personale sia tale
dav- vero da comprenderà poS la partecipazione dell'Alighieri alla
scuola di quel filosofo. Alle scuole di Parigi i libri del Sigieri eratno
rimasti auasi come lesti agli scolari, tanta Sama le sue lezioni vi
avevano lasciato ». Cosi per ciò che riguarda Pier Lombardo, io
ag- giungerò che oer spiegare la profonda conoscenza che Dante ebbe
del Libro delle sentenze, non è necessario di credere col Serravalle che
Damle abbia commentato le sen- tenze nella scuola di Teologia perchè lo
studio che in quei tempi se ne faceva in Parigi, la fama che vi godeva e
che già aveva provocato i lamenti di Ruggero Bacone, certo potevano
non poco contribuire a farglielo conoscer© più in là del frontìsipizio e
del prologo. Per fama egli conobbe a Parigi Sigieri, per fama
vi conobbe Pier Lombardo ed entrambi egli ricordò con par- ticolar
cura nei suoi versi ove palpita un affetto personale.
Influen2nL di Pier Lorpb^rdo nell'Operai di Dante* Ma
se poca o nessuna influenza ebbe la filosofìa di Sigieri neiropera di
Dante, molta invece ne ebbe in quella di Pier Lombardo. Un
esempio: Speme dissHo, è un attender certo Della gloria
futura, il qual produce Grazia divina e precedente merlo.
{Par, VI 67, 69) (1) P. Fkrkt La f acuite de Tkeol, de Paris
- Ricarcl 1898 Tom, II. Parte II. 119
Pietro di Dante, TOttimo, la Chiosa Cassanese, ricor- dano la
definizione di Pier Lombardo: «est spes certa exjeiotatio futurae
beatitudinis veniens ex Dei gralia et mentis praecedentibus ». (Lib.
Seni. IH. dist. 26). Iacopo della Lama, rÀnonimo rioooimno assai
meno opportunamente a San Toit^màso: spes est motus appe- Wiiae
virtutis consequens apprehensione boni fulnri ad- nui possibilis adiptsci
». Ho citato, per ppoporre un esempio, uno dei tanti luoghi
ove il Lombardo viene dal poeta preferito all'Aqui- nale, o meglio dire
ove cosi San Tommaso come Dante attingono -alla medesima fonte: Pier
Lombardo. Qui si ha una traduzione letterale delle parole del Maestro
che appaiono anche in San Tommaso sotto una veste più fi- losofica.
Ma non è questo il solo punto ove un tale raf- fronto è possibile.
Fu uno dei più assidui, il Senatore Carlo Neg'-;ni, a far notare la
^ainde importanza che ebbe il libro del Maestro nel pensiero di
Dante. JNella prefa/jine al volume. .V. della Bibbia volaare
ri884), accennando a Pier Lombardo della cui opera si giova Tespositore
dei salmi di quella Bibbia, promise di occuparsene : « In un altro mio
scritto dove avrò Taiuto di un teologo profondo, e mio buon amico, farò
il confronto tra le «proposizioni teologiche della Divina Commedia
e quelle dei libri delle Sentenze: ed il lettore vedrà che le prime
non sono altro che Tespressione poetica delle secon- de, fedelissima e
latta con invidiabile precisione ». Di- sgraziatamente il Negroni
occupato in altri lavori, non potè adempiere .alla sua promessa, ma dando
esempio dì larghezza d'animo, consigliò ed aiutò Tamico suo C. Car-
bone, (P. Michele da Carbonara), poi prefetto Apostolico deirÉritrea,
nell'opera a cui egH non poteva attendere, e ne promosse la
pubblicazione. Nel 1890 Frate Michele da Carbonara pubblicò infatti
Slcuni Studi Danteschi (1) e (1) Tortona Tip. A. Rossi 1890 —
Stttdi Danteschi Voi I. Dante e S. Francesco ~ Voi II. Dante e San
Bonaventura. Nella Biblioteca Negroni si trovano nel carteggio
privato le lettere che il Carbone indirizzava a Carlo Negroni piene
d'erudizione e di affetto per l'illustre amico. Trov.ansi pure tra i
copiosi ms. due fa- scicoli; n. 26: Pier L. nel Paradiso; n. 27: Appunti
Danteschi. Essi contengono citazioni, note erudite che il Negroni veniva
man mano scrivendo. La malattia e la morte tolsero il modesto studioso e
gene- roso filantropo aUa tranquilla ed utile sua operositét
letterarii^. 120 nel volume I. dedicato al
Neuroni, prese in esame» il I\' Libro delle Sentenze collo studio: Dante
e Pier Lombardo. Questo appunto- che è il migliore ed il più originale,
entrò poco dopo inella collezione di opuscoli inediti e rari
diretta da G. L. Passerini (N. 44-45) per cura di Rocco Murari. In
esso il Carbone che si limita «all'esame delle distinzioni 43-49 del IV.
delle Sentenze, conclude che il seme che è nel libro delle Sentenze di
Pier Lombardo mostra i suoi fiori ed i suoi frutti ini Dante.
Nella tornata del 19 Aprile 1891 airAccademia Ponta- niana, il
socio residente Alberto Agresti le^e una memo- ria dal titolo: Eva in
Dante ed in Pier Lombardo (1) ed anch'egli ricordò a proposito di questi
studi, Tamico Ne- groni e lo studio di frate Michele da Carbonara.
Ponendo a raffronto i passi danteschi ove vien citala Eva (tacendo
di tre che non danno alcun ^udizio della sua colpa : (Purg. e. Vili v. 99
- C. XXIV, v. 116 - C. XXX V. 52) uno comune con Adamo (Purg. 6. XXVIII,
v. 142); gli altri (Purg. e. XII, v. 70; Par. e. XIII, v. 37; Purg.
e. XXIX, V. 23; Purg. ò. XXXII, v. '2), ove si dà un giu- dizio
sfavorevole di Eva ed il passo del De-Viilgari Eloquio ove Dante chiama
Eva praesumptuosissimam), cerca da quali letture Dante ricavò il severo
giudizio. Combatte To- •pinione di V. Imbriani, (Studi danteschi.
Firenze, Sansoni p. 42) che coIFesempio del Boccaccio vuol dimostrare
'i& scarsa erudizione teologica di Dante. Nella testimonianza
di San Tommaso {Summa, P. II, 29-153) Isidoro {Sentent, l^ib. II. e.
XVII), Sant'Anselmo {De pec-orig. e. 9), Ugo da S. Vittore, San Bonaventura
non trova la ragione delli eccessiva severità deirAlighieri, bemsì in
Pier Lombardo (Lib. II. dist. 22) che così si esprime: «
Adamo non istimò vero ciò che il diavolo aveva sug- gerito; stimò di
peccare in maniera da esserne perdonato. Forse come vide che la donna,
gustato il frutto, non era peranco morta, prevaricò e volle ainch^'egli
fare esperimen- to del legno proibito. Più però Ta donna, perchè
volle usurpare l'eguaglianza della divinità e levata in superbia
nimia vraesumptione^ credette così doversi avverare. Adamo non
volle contristare la donna, ma certo non vinto da carnale concupiscenza,
non sentila peranco in (1) Napoli, Tip. della R. Università
1891, lui, ma per una certa amichevole heoievotenza per la quale il
più delle volte avviene che si offende Dio per non of- fender l'amico. In
un certo modo Adamo fu anch'egli de- ceptus ! Nella donn<a /fu majoris
tumoris praesumptio : ella peccò in sé, nel prossimo , in Dio : l'uomo
solo ui sé ed in Dio ». E l'Agresti finisce insomma col
concludere che « stu- diare la D. Commedia al lume dei libri delle
Sentenze è tutto un lavoro nuovo che manca alla letteratura dante-
ca ». A me non resta che augurarmi che un tale 1' si compia e che una
feconda curiosità subentri alla sterile dilRdenza nelFaprire il libro di
P. L. che Dante non certo per cura della rima chiamava il suo
tesoro. AGGIUNTA NECESSARIA: I ìinyiìì
dell'erudizione. Ristrettezza di tempo mi ha impedito di dare,
com'era mio desiderio, maggior svolgimento a questi insufficienti
cenni sull'influenza esercitata dal maestro delle Sentenze sull'opera di
Dante e non sulla Divina Commedia soltan- to. Dell'utilità di una
maggiore e più profonda conoscenza di tali rapporti, è prov:a quanto si è
venuto in questi anni scrivendo dagli studiosii di Dante coll'intento in
verità non sempre raggiunto di recar "maggiore luce
airinterpreta- zione' del poema dantesco. Ancora in un
recente fascicolo del Bollettino della Società Dantesca Italiana
(Settembre 1912) E. G. Par«odi m una dotta recensione consacrata ad un
apprezzato studio del prof. Surra su La conoscenza del futuro e del
pre- sente nei dannati danteschi (Novara, Tip. Guaglio, 1911), si
vale del confronto colla dottrina del Maestro delle Sen- tenze per meglio
chiarire i dubbi che le parole di Farinata non sciolgono sul modo di
conosceniza dei dannati. Contro la tesi del Surra, che fortificandosi del
concetto delFìrra- zionale nell'arte, ampiaonente illustrato da G.
Fracoaroli, vuol chiudere il passo ^ai diritti 3eireru3ìzioaie, il
Pa^rodi dimostra, citando la 50* Distinzione del IV delle Sentenze
: Ve animabus damnatorum si qua habent notitican eorum quae hic
fiunt, come Tesposizione di Farinata cresce d'im- portanza venendo a
combaciare colla dotlrin<a professata dal Maestro. Ed è certo che se
la contraddizione non può essere evitata dal pensiero umano, specie
cpiando s'aderge sulle ali della poesia, tanto in Dante come in Pier
Lom- bardo, scola5?tóci entrambi, v'è Tidentioa «preoccupazioaiei
di sfug^rle colla cura più scrupolosa. Non si può riconoscere
tuttavia all'erudizione il dirit- to di andar troppo oltre, specie nelle
sue conclusioni, perchè Terudizioflie è alla poesia come la ragione è
alla fede, che il sapere medioevale riconosceva potene illumi- nare
senza spiegarla interamente. Se anche col raffronto più minuto dei
passi danteschi ooiropera del Lombardo (non limitato alle Semtenze)
noi potremo trovare nuove e curiose rispondenze che ci dimo-
streranno le fonti di sapere e d'inspirazione del Poeta divino, dovremo
limitarci a riconoscere nulla più che la materia preziosa, ma informe
trasportata e nobilitata dal- Fopera (in che è il fatto nuovo) dello
statuario. E\ per limitarmi ad un solo esempio, notevole il
modo onde mei Sermoni vengono disposti gli argomenti morali che il
Lombardo distilla da un qualunque versetto biblico: sono quasi sempre tre
i sensi che se ne ricadano ed il nu- mero 3 entra con una particolare
predilezione ìiell armo- nica e spesso sin troppo misurata distribuzione
delle parti nei suoi discorsi (1). Queste ed altre minuzie di logica
ar- Tres igitur tortae pani8 tres sunt modi dìvinam paginam
in- telligendi Triplex igitar pani8 eat intellectus: tropologicus,
scilicet moralis vel historicus; mysticus, idest allegoricus et
anagogeticum Moralis mores componit, exhauriens malos et confovens bonos;
al- legorìcufl mentis acuit oculos ut mysterioram abdita penetrare
valeant; anagogeticus mentes super se effundit ut in voce exulta- tionis
et confessionis, constituto die, e condensis usque ad domum Dei rapiatur;
nam sicut allegoria alitar intellectus, ita anagoge su- perior sermo vel
sursum tendens interpretatur. Moralis, idest tropo- logicus, est dulcior,
historicus facilior, mysticus auctior. Historicus insipientibus, moralis
proficientibus, mxsticus perfìcientibus congruit.- Sermone: Convertimini fili
revertentes . . fine inedita riportata da Haureau op.
cit* chitettura oasi caire a Pier Loonbardo, come si avverte nello
slesso Prologo delle Sentenze', do ve vaino esercitare il loro influsso
nel poeta della Vita Nuova e del Paradiso. Ma non dal solo Pier
Lombardo, bensì da tutta 'a scienza teologica, Dante raccolse mei grande
specchio ustorio della sua mente, la luce che brilla nel suo divino
Poema. Né possiamo comprendere come uno studiotso deìlla coltura del
prof. Amaduocd, possa restringere nel- rarido opuscolo XXXII di San Pier
Damiano, quasi l'unica tonte del poema dantesco, lo schema dottrinale a
cui Damte avrebbe informato, con perfetta fusione della lettera
col- l'allegoria^ la Commedia, e annunciare seriamente che di-
stinguendo i 100 canti nelle 42 marcie e fermate {num- sioni}
deirallegorico viaggio degli Ebrei contemplato dalla modesta fantasia di
San Pier Damiano, verrà sostituito nell'esame del poema ai fondamenti
ipotetici, il fondamento scientifico, gli enigmi di sei secoli,
troveranno fàcile spie- gazione e sarà aperta la via ad una nuova
valutazione artistica (1). Ma tale via non Tha aperta Dante
stesso coU'opera sua? (1) Z/' opuscolo XXXII di S,
Pier Damiano fonte diretta della Divina Commedia? in Grùymaìe Dantesco
dir, da G. L. Passerini voi. XXI - Firenze, Dischi. cfr. E. G.
Parodi La fonte diretta della divina Commedia — in Marzocco, Firenze. A
questa trattazione epero far seguire prosslntamefite un canltolo,
su PIER LOMBARDO E LA SCUOLA MEDIEVALE Ohe per l'economia dei presente
iavoro non potè essere inoluoo. Le origini oscure. La nascita a Lumellogno.
L'ambiente nativo. Dipendenza di Lmnel- il^gno dal Capitolo Novarese —
Stato delle scuole novaresi. Pier Lombardo fu allo studio
Bolog^nese? Gap. il — Nell'ombra del cammino . . pag. 25 Alla
scuola di Leutaldo novarese a Reims. « ParisiUiSi » — La « universitas
scholarium. San Vittore. Santa Genoveffa. Nella luce della fam^i. La scuoia di
Nòtre Dame. L'episcopato. La morte. La tomba di S. Marcello. Le onoranze.
L'opera e la fortuna di Pier Lombardo. Le Sentenze. I Sentenziarii. I
detrattori. Il « tesoro ». Opere edite ed inedite. I Seamoni. LA DOTTRINA
FILOSOFICA. Posizione di Pier Lombardo nella filosofia. Metodo. Religione
e sciens&a. Problema metafisico e conoscitivo pag. 8Ì
Teoria degli universali. Teoria ctella oonoscenza. Problema ontologico e
cosmologico. Sostanza ed accidente. Natura e persona. Materia e forma. Causalità.
Spazio e tempo. CosmoJKJgia — Posizione dell'uomo neirunàverso.
Cap. Problema psicologico. Potenzie dell' aiiim.. Natura dell'ajiima. Origine dell'anima.
Relazione tra l'anima e il corpo. Problema morale. Libero arbitrio. Felicità.
Moralità delle azioni umane — La legge morale — Bene e mailie.
Gap. vi. — Lm dottrina scolastica in Pier Lombardo e Dante Pier
Lo!ml>ardo nel cielo del Sole. Dante adl'Università di Parigi. Influenza di
Pier Loonbardo sull'opera di Dante. Aggiunta necesaaria. I limiti
dell'erudizione. Ritratto di Pier Lombardo dall'incisione del Thevet
« Les vrais portraàts ecc. » Paris. Portico della Canonica di Novara da
un'incisione delle « Monografìe Novanesi » MigUo Vene de la VUle de Paris
du coté de Vlsle N. Dame
(antica incisione). A. N ótre Dame de Paris, (antdca
incisione). Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera
esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del
linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica
bisogna aspettare il Corso di lin guistica generale di Saussure, scritto
quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha
in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica,
come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica (387 d.C.): in
esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra
cui il princi pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra
verso segni (Simone 1969: 95). Ma vari elementi differenziano l'impostazione
agostinia na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco
gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so prattutto medica e
mantica, consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali,
come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri
ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei
signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le
fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato
(''Noi diciamo in gene rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra
questi abbiamo anche le parole", De Magistro, 4.9). In secondo
luogo, gli stoici avevano individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione
tra il significante (semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che
comun que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua
nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"),
l'elemento in cui significante e signifi cato si fondono, e considera questa
fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente
assoda to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che
non può essere segno ciò che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai
proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le
singole paro le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano
elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere
formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla
significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che
ha un carattere psicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e
comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov 1977: 35; Markus
1957: 72). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter minologie&
È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che
si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie
interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una
triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con
cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo
luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito
dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il
dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio ne linguistica,
al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in
esso contenuto. In terzo luogo, infine, distingue la res, che viene definita
come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op
pure che sfugge alla percezione (De dialect.). È così possibile ricostruire il
triangolo semiotico nei se guenti termini: dicibile vox articulata (o
sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere
di designazione, oltre che da quello della signifi cazione. Questo lo spinge a
elaborare un'ulteriore suddivi sione terminologica in corrispondenza dei due
aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve nire
che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica
nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora
prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co
me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una
cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio),
nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio
che, come ha osserva to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di
congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di
uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si gnificante
articolato, ma senza essere necessariamente por tatore di significato) ha
subìto nel corso degli studi lingui stici antichi. Dictio è traduzione
di léxis; ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli stoici,
bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio
Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato
costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà strada tra le
lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al tra. Questa sua
particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di
un significato (in contrappo sizione alle lettere e alle sillabe che non lo
posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen so
completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e nunciato
alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima
assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti solo all'enunciato. In
particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la
parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per
ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso
dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò
che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi bile, presenta anche
qualche cosa alla percezione intellet tuale (animus)" (ibidem). 10.2
Relazione di equivalenza e relazione di im plicazione Ponendo l'accento sulla
parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra
parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di
Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag gio; per Platone,
infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente
percepibile, ovvero dell'es senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico
si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe raltro
con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto -
configura subito come una rela zione di significazione: il nomt
"significa" una cosa (nozione equivalente a quella di "essere
segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione
della parola come segno, si producono alcune modificazio ni teoriche,
conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie
linguistiche precedenti a quella di Agosti no il rapporto tra le espressioni
linguistiche e i loro conte nuti era stato concepito come una relazione di
equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri
guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag gio, in
sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin guaggio veniva
concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per quanto mediato
dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin via
era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo
termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico,
i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere
illustra ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c m_E:! c dove E indica "espressione", C
"contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente
a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello
della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso
mai la dic tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u
nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile
(significato), unità che diviene segno di qualcos'al tro (livello ii).
Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La prima conseguenza
dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco, è che la lingua comincia
a tro varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in fatti
costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a
una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come
quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca
e roma na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili tà di
percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre
la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede
un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al
fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che
qualun que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e
l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di
segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il
modello del segno lingui stico finirà per essere senz'altro il modello
semiotico per ec cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure,
che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per dere il
carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri stallizzato nella forma
degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo
contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La
seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il
problema della fondazione della dia lettica e della scienza (Baratin).
Fintanto ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito
nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile
della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere
di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra
implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse
sono segno. Tutta la grande tradizione semiotica, del resto, convergeva nel
considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla
conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è
allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag
gio fornisca o meno , di per se stesso , informazioni sulle co se che
significa. Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni
linguistici nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra
Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del
linguaggio: (i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo
rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente
informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la
presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima
parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente
quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono
le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose,
senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda
parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente
la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in
sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: (i) il primo
caso è quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che
si rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno in
questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza
(De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono scitivo tra
segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co noscere preliminarmente
l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la
conoscenza della co sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa.
La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es sa si collega
anche la presa di posizione, di marca ugual mente platonica, che la conoscenza
delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché
"qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella
per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia)
sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non
altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi li
(intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione
"teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive lazione che viene
fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia tanto deli'informazione
quanto della verità (De Mag.). Ma anche con questa soluzione
"teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno
spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in
parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi mento, le parole ci
ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci spingono a cercare (De
Mag.) . In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da
un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel
De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo
interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. In
effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola
o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima
dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre
parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura
prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle
lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno di
essere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbo
interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una
conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è
determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza.
Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo
è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni
del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.
Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia rezza è il carattere
comunicativo della semiologia agostinia na, che è individuabile anche nello
schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza
potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore
pensato proferito sa pere. È comunque innegabile che se la semiologia
agostiniana presenta un aspet to "teologico", connesso al problema
del verbo divino, tut tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet
to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se
stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni,
alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana
secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni
naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni
conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra slato
secondo la natura del designato: segno/cosa con aggiunte più tarde), ma che
ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e
analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di
se gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel lo che in
realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene ralmente queste opposizioni
sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché
(soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione
combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile
ricostruire tale classifica zione ordinandola secondo uno schema arboriforme
(Bernardelli), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco); cfr. p. 236.
La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu sione, come tende a
essere quella porfiriana; e si può osser vare che se venissero sviluppati i
rami collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta, alcune
categorie elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a
metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a specie
quando definisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa che c'è
tra cavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in quella
più ampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME
------ segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus,
Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)
differenze (significabilis, non significanti nome in
senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.)
altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno
udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili (
virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES" La prima relazione interessante
è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in
cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co me
ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle
res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res che fino a quel momento
era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita
in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio
ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni
di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr.
Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo, cosciente del la pervasività dei
processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè
gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né
quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa, né quella pecora che
Abramo immolò al posto di suo figlio. L'articolazione che esiste tra segni e
cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere
(jrul) (De doctr. Christ.). Le cose di cui si usa sono tran sitive, come i
segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le cose di cui si
gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse. Nel De
Magistro Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come
segni, ma sono signifi cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie
che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun te con
funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose,
Ago stino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana:
"Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui
sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem)
qualcos'altro". Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di
ricostrui re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la
dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei
testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un
passo del De doctrina Christiana in cui, a conclusione di un'analisi dei vari
tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui
ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;
ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei
segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del
linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere
viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3
Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazione
incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di
percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini
si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla
vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De
doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci
sono quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali,
come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi
dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con
l'udito, in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in
effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione
dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare"
(Dedoctr. Christ., II, III, 4). Tra i segni percepibili con la vista Agostino
elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban
diere e le insegne militari, le lettere. Infine vengono presi in
considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi,
come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I, 2). Ne sono
esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che
rivelano, inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti ,
Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i
segni linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in
questa classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno
quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo
crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli
animali tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e
come del resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J.
Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367;
Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na AGOSTINO ben precisa
intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto il
carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data
quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que
sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov, porre
l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale
di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio,
creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in
corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un
significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come
cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici Uno dei punti
fondamentali della semiologia agostiniana è costituito dalla ricerca dei modi
in cui si può stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta
soprat tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione
semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di
Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno,
per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per
esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato;
per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione
del significato si rende possibile sol tanto nel momento in cui viene
abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino,
quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago stiniana si apre
così, come ha messo in evidenza Eco, verso un modello "istruzionale"
della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che
Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex
tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come
composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il
significato. L'indagine comincia da l si l , di cui si riconosce che espri
me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che
non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo
stesso concetto. Si passa, poi, a lni hi/1 , il cui significato viene
individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non
vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad
Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica:
lexl sa rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa
soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del
primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è
che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa
conclusione, pe rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua
decodifica contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a
qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude
nel verso virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa
che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni
negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è
un blocco (una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili
inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di
versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice).” La struttura
implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y,
allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto
al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è
proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che la
semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . 1 In altre opere, al
posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De
Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in
due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico
della pa rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di
"parola", co me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal
parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura
della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è
messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica. Quel
che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due
unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è
prodotto nell'animo per mezzo della parola [di cibile]". La dictio,
inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa
d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito,
in termini propo sizionali, come un antecedente che rimandava a un
conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr.
Lotman-Uspenskij (1975). Refs.: Luigi Speranza, “Philosophical psychology in
the commentaries of Pietro Lombardo and Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Lombardia Grice: “It is
strange that he was called Piero da Lombardia; it would be like ‘a lad from
shropshire.’ ‘Lombardia,’ unlike Ockham, ain’t a townbut a full regionIt’s
different with ‘veneto,’ which is toponymic and metonymic for Venice. But if Milano
was the main ever settlement in Lombardia this would be “Peter, the one from
Milan.” Lombardo Pietro Lombardo Lumellogno Cardano – Grice: “It’s only natural
that he was Pietro Cardano – after the city in Lombardy, Cardano – Plus, the
implicature that he went by “Peter of Lombardy” having been born in Piemonte,
means that the locals never saw him as one of their own!” -- Pietro Cardano – la stirpe Cardano 1600 --.
Familia patrizia di Novara. Pietro
Cardano. Keywords: Cardano, implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cardano” – The Swimming-Pool Library.
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