Grice e Casotti: l'implicatura conversazionale del volere –
filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “I like Casotti; of course, he reminds me of my
master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did Socrates teach
Alcibiade or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti tried to
systematise WHAT you have to teach: his first volume is telling: ‘l’essere’,
which of course reminds me of my explorations on the multiplicity of being in
Aristtotle – a human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew would scorn philosophers who use a verb
with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning
‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto
Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica
della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina
gentiliana dell'attualismo. Dopo aver
aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un
rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale
in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da
lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino.
Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana. Motivazioni personali, unite all'esigenza di
approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera
piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire
all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a
Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia”
dell'aristotelismo aquinista. Egli
avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della
«lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta
all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto
tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa
dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità,
concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita,
incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che
consente il passaggio dalla potenza all'atto.
Fonda la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna,
rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua
filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come
disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno
speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e
adattare alle difficoltà del contesto.
Altre opere: “La concezione idealistica della storia” (Firenze,
Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia
e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla religione,
Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita e
Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali di Rousseau,
Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell'educazione,
Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di pedagogia generale,
Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La Scuola, Scuola attiva,
Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue basi filosofiche, Milano,
Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La
Scuola, Pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia,
La Scuola, La pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà,
Brescia, La Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte
e l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia,
La Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani. Appello per un "Fascio di educazione
Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia
nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi
critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea:
il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia e pedagogia nel
pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia
Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti
e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico
degli italiani. 40 L’Appello per un Fascio di Educazione Nazionale, in « L '
Educazione Nazionale », L ' Idea Nazionale », 18, 20, 21 e 22 aprile 1920 )
vedere M. Casotti, Dopo il Congresso Nazionale, in « La Nostra Scuola », 1920,
nn. 1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli
insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la...
Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti, il quale
riconosceva l'opportunità di abbandonare... Casotti Mario, La nuova
pedagogia e i compiti dell'educazione moderna, Vallecchi, Firenze, 1923.
Mazzoni Elda, L ' idealismo... GENTILE Il Fascismo al governo della Scuola,
Sandron, Palermo, Casotti makes a dramatic break with actualism early in his
career. A tutee of Gentile, he nevertheless underwent a conversion in the
1920's and was called to teach pedagogy at Milan in 1924. There he worked with
Neo-Thomist scholars and produced works on education with a distinct
orientation. He is particularly remembered as the founder and director of the
review Pedagogia e vita, a journal that took on new importance in the postwar
years. A spiritualist who came out of the idealist tradition, he is considered
a pioneer in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a
conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced
critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began
a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or end);
anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his
"anthropological" writings, he defends personalism against idealism
and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal
Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that
later became more widespread among Italian philosophers. AQUINOSaggi di
filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di S. Aquino, L'educazione
naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in
Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo
XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver
saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima
tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al
più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non
ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto
filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza
agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo
stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta,
per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia
cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere,
di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di
trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile
stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo
fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri
occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è
anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità
d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli
altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il
campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo
di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or
non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche
studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa
dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella
Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più
deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso,
oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si
vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di
avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se
acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine
«autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione»,
che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi
migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa
collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello
sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della
mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della
Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o
meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della
educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per
un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile,
che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital
bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle
quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di
rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i
suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato
abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di
pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio
discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più
fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia
fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico AQUINO BRESCIA, Editrice “La Scuola”, La Pedagogia
di S. Tommaso d'Aquino L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125
Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia
cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari Non c'è nulla al
mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare
ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella
maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri
nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un
periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e
soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con
sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che
doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San
Tommaso d'Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo
le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non
fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o
non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non
si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E'
cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso
giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale
osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo
povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia
dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere
rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a
cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una
realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che
discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e
toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e
censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano
prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor
fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di noi.
Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando
lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non
è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche
studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa
dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella
Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più
deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso,
oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si
vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche
di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera di S. Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière.
Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del
termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine
«creazione», che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate, in
concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la
gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando
quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della
mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della
Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o
meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione
religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro
«moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il
Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital
bergsoniano. La pedagogia di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle
immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è
tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma
non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi,
se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto
tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango
che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e
là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la
mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese
e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri
avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un
passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo
pieno di speranze e di promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero
di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà
e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume
Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle
scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia
cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo
illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna
educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche
come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose
opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le
faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri
mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o rinnovate.
Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed intelligenti dei
figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore (Piacenza) Convento di S.
Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. - I saggi
che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo
di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta
pei seguenti: L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana
Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima
della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia
cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso
d'Aquino Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza
temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso
ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a
tutto l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato,
anche nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo
ingegno che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina
al quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi
a testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge
colla fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di
sorta. Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in
quanto dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in
ordine a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma
c'è anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore
scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella
storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso
problema, colle medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso
affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile
che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i
pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la
chiarezza desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di
solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e delimitate
che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più urgenti, come
quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i metodi e via
dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere senza far capo a
un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso permettono, questo
concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di discuterlo, se mai, solo a
proposito di quei particolari problemi pedagogici e didattici che si stanno
trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo direttamente, per se
stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la storia della pedagogia
ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri sull'educazione del
Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive della Necker de
Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in concreto il
processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci nello
stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga ad
appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere
che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia
dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data
dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità,
della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di
filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna,
quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo
occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso
lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo
«De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con
tutto quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno
studioso. Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?»
domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno
sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile l'educazione?».
Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e descrivere sotto i
più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che cosa valga questo atto
e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono intelligibile. Ora,
per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare dal compiere una
certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto malfamata) sui dati del
problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto dall'esperienza, bisogna,
cioè, prescindere per un momento da tutte quelle particolari circostanze che
rendono così interessanti e suggestivi, nella pratica, i problemi didattici, e
avere il coraggio di ridurre l'educazione stessa alla sua più semplice
espressione, a ciò che di veramente essenziale e caratteristico v'ha nel
processo educativo, a ciò da cui non è possibile, davvero, prescindere, senza
annullare o sfigurare gravemente l'educazione medesima. Il che viene poi ad
essere un puro e semplice rapporto fra un soggetto che insegna ed un soggetto
che impara, fra un soggetto che possiede determinate cognizioni od attitudini,
e un soggetto che da lui riceve queste stesse cognizioni o attitudini che prima
non possedeva: fra il maestro, cioè, e lo scolaro. Ebbene, domandare come è
possibile l'educazione non significa altro che domandare come è possibile
questo rapporto fra due soggetti pensanti, in virtù del quale l'uno può
all'altro trasmettere determinate cognizioni ed attitudini. Ed ecco la cerchia
entro la quale si svolge la ricerca del De Magistro di San Tommaso: ricerca
che, appunto per questa sua rigorosa impostazione critica, sembra come
anticipare i risultati delle più moderne e scaltrite filosofie dell'educazione.
* * * Posto così, il problema dell' educazione ha suscitato, si può dire,
in ogni tempo, e ogni volta che qualche pensatore l'ha approfondito, alcune
serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il formulare precisamente le quali è
costato alla filosofia dell' educazione uno sforzo non indifferente. Poiché il
chiedere soltanto come è possibile che un soggetto (il maestro) comunichi ad un
altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni ed attitudini sembra
implicare, se non addirittura una contraddizione, certo una difficoltà quasi
insormontabile, dato che il termine «trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi
altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione del maestro sullo
scolaro, non sembra possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e
grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo educativo. Se si
trattasse, infatti, di un oggetto materiale, allora parrebbe a tutti
chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o cambiar sede, come una
moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò che si trasmette è
essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la scienza e la virtù. E
questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel significato materiale
della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto interno del pensiero e
del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto impossibile trasportarlo
da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è impossibile che un soggetto
trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che
Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade. E allora, al pensatore
che sperimenta questa difficoltà, si affaccia spontanea una ipotesi che sembra
semplificare nel miglior modo l'intricato problema, troncando alla radice ogni
obiezione ed incertezza. Dato che la difficoltà prima nasce dall'aver concepito
educatore ed educando come due soggetti distinti, perché non togliere
addirittura di mezzo la dualità stessa, e concepire l'educazione come lo
svolgimento d'un unico soggetto che, invece di ricevere il sapere dall'esterno,
lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo meno quanto la correlativa
difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la maieutica socratica, e perché,
fra l'altro, con l'intento di stabilirla su salde basi, Platone costruiva la
sua celebre teoria della reminiscenza (mentovata, appunto, nel De Magistro
tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava interrogato da Socrate nel Menone
aveva proprio il compito di servire a dimostrare, indirettamente, la tesi che
l'opera del maestro consiste nello stimolare o nell'aiutare la mente del
discepolo perché cerchi, e, cercando, cavi fuori la scienza che ha già in sé,
non nel pretender di trasmettere al discepolo una scienza bell'e fatta. Che è
poi e in Socrate e in Platone e più tardi in tutta la pedagogia moderna, la
dottrina che va per la maggiore, la dottrina dell'autodidattica, o, come anche
si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad
autoeducazione, qualunque sia poi la concezione filosofica colla quale pensa di
confortare tale riduzione. La teoria dell'autodidattica infatti (e questo è
appunto uno dei motivi che hanno più contribuito alla sua diffusione) permette
una grande varietà e latitudine di giustificazioni filosofiche, dal misticismo,
se così si può chiamarlo, che immagina il sapere infuso da Dio direttamente
allo spirito umano e da questo via via scoperto e reso esplicito mediante
l'opera dell'educazione, al soggettivismo estremo il quale crede che il
pensiero nostro crei liberamente la sua scienza nell'atto stesso del pensarla e
non possa perciò ricevere dall' insegnamento e dalla scuola, altro che uno
stimolo a tale creazione, o per dir meglio, alla chiara consapevolezza di
questa creatività, che costituisce la sua essenza, e della quale non può mai
spogliarsi. II Ora, di dottrine che potevano concludere in qualche modo
un sistema di autodidattica S. Tommaso ne aveva presenti due. Molto diverse, è
vero, per valore e significato, tanto diverse, anzi, quanto può essere diversa
una dottrina vera, e vera di una profonda verità, ma incompleta, un errore
aperto e tutto contesto di acuti ma inconsistenti sofismi. Basta ricordare che
l'uno era la dottrina esposta da Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro
era l'averroismo: quella interpretazione di Aristotele che, movendo dal
pensiero del grande stagirita attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori
arabi, finiva in un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista,
che sembrava anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi
tanto soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per
intendere subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso
l'una e verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente
a ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano
limpidamente scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica.
Il De Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico,
tenuto conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di
mentalità, un modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta
neppure essa, come non si arresterà poi l'indagine di Tommaso, ai particolari
problemi della pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema
massimo su cui s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione
possibile?” S. Agostino, né più né meno di S. Tommaso, incomincia da questa
domanda. “Come è possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un
altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro
agostiniano prende in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra
appunto garantire tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che
tra gli uomini in genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la
parola, parlata o scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni
grafiche, foniche, mimiche ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il
veicolo attraverso il quale, se così può dirsi, la scienza passa dal docente al
discente; talché chi mette la mano su questo problema ha, di necessità, la
strada aperta ad una esauriente critica delle forme nelle quali si costituisce
e si svolge normalmente l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e
geniale ricerca sul linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla
quale non si può rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche
sottigliezza eccessiva (spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera
che, piuttosto che una esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una
magnifica realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo
col dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione
della scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a
volta, tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere
più concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro
possa, per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come
ha sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od
«oggettivo», ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento
molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non
ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi
accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia
il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia
deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere
che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare
l'equivoco devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché,
effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non
sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete
la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un
segno della parete: né più né meno della parola trisillaba «parete» [Cfr. S.
agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6]. Segni sensibili: ecco la natura
del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno
appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo
già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo,
allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se
non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La
parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente,
proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di
copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non
col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i
copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la
prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in
relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri,
per intendere il suo significato [Op. cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i
segni che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere
i segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben
lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può
significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il
che vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva:
la possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal
maestro allo scolaro. Ed ecco la conclusione. Le parole non possono
essere veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni
sensibili, invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto
interno della mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che
le vengono date «Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose
che sentiamo attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo...
per le cose intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore».
E che cos'è questa verità? «...colui che è consultato insegna: quel Cristo che
fu detto abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna
Sapienza di Dio; chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a
ciascuno si apre, quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o
buona volontà» [Op. cit. cap. XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto,
concludere a una vera e propria autoeducazione nella quale non il maestro, ma
solo Dio infonde direttamente il sapere allo spirito umano, ch'è precisamente,
come abbiamo notato altra volta, una delle possibili giustificazioni, in sede
filosofica, dell'autodidattica, e si trova, un pò come tutta la filosofia
agostiniana, sulla stessa linea del platonismo e, in questo caso, della sua
celebre teoria della reminiscenza. Dio, dunque, è l'unico maestro
dell'uomo: l'unico maestro al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà
della comunicazione fra soggetto docente e soggetto discente. Affermazione
giustissima certo, sotto l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve
riconoscere che Dio può insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume
intellettuale e la verità, ma appare evidente che il magistero divino debba
essere la causa prima e il fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione
insufficiente sotto l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare
addirittura la possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il
problema, dal quale ha preso le mosse, dei rapporti fra maestro e
scolaro. Nonostante gli spunti geniali della sua ricerca, Agostino non riesce
che a far sentire più acute e tormentose le difficoltà del problema stesso,
cioè, in ultima analisi, a farci desiderare con maggiore intensità una
soluzione veramente razionale, che è infatti il grandissimo merito del De
Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare, dovrà, talora, rettificare
dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua pedagogia non potrebbe poggiare
così in alto, se l'opera di Agostino non le offrisse già una base sicura:
l'impostazione rigorosamente critica del problema, che il De Magistro tomistico
riprenderà tale e quale. III L'altra corrente filosofica alla quale
guardava San Tommaso nell'impostare il problema del suo De Magistro è, certo,
ben lungi dall'avere la chiarezza o, meglio la molteplicità di documenti e di
manifestazioni che oggi permettono a noi di accostarci con tanto profitto al
pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan nella sua opera su Averroé e
l'averroismo era costretto a considerare l'averroismo piuttosto come una
tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso le confutazioni che ne avevano
fatto gli avversari, che come un insieme di teorie positivamente sostenute
negli scritti di determinati autori. Studi più recenti hanno cambiato questo
stato di cose: dopo il notissimo saggio del Mandonnet su Sigieri di Brabante,
oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di alcuni averroisti, ma possediamo
alcuni testi di notevole interesse, i quali ci permettono, in ogni caso, di
asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo il 1230, qualcosa di ben più
reale e concreto che una semplice tendenza. Il che, del resto, appare
chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che passa già, in questo
ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De unitate intellectus, e
l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni dopo: dove
l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le tesi averroiste fondandosi
sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro una
dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente insegnata. In ogni modo,
però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi dall'essere
soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa sorgere in
noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da augurare e da sperare che
nuovi testi averroistici possano essere dati alla luce in un prossimo avvenire.
Cosa che permetterebbe di studiare con maggior esattezza la stessa filosofia
dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione disputata De Veritate
(della quale fa parte il De Magistro) e nella questione 117 della Summa
Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San Tommaso attacca
l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra maestro e scolaro, e della
possibilità che un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora, l'averroismo
aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale quel problema fosse, di
proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più probabile, si trattava di
conseguenze implicite in tutta la dottrina averroistica? Evidentemente, solo i
progressi futuri della storiografia filosofica intorno all'averroismo potranno
permettere una risposta definitiva a questa domanda. Comunque, se circa
questo problema della possibilità dell’educazione, i precedenti storici del
pensiero tomistico in ordine all’averroismo paiono incerti quanto ai
particolari, nessun dubbio vi può essere invece circa i due punti che ora
c’interessano. È certo, cioè, non solo che nel trattare il problema della
educazione S. Tommaso guarda all'averroismo come all'avversario da sconfiggere,
ma che, di più, egli suole, benché con intenti nei due casi molto
diversi, trattarlo insieme alla dottrina agostiniana, o platonico-agostiniana,
che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo già detto: la tesi agostiniana appare,
in massima, vera ma incompleta, dove la tesi averroistica appare manifestamente
falsa. Ma appunto da quella incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere
facile passare a questa falsità, non solo per la ragione generica del pericolo
che presentano sempre le teorie incomplete, ma anche per alcune ragioni
specifiche e positive che possiamo benissimo rintracciare attraverso le
poderose argomentazioni del De Magistro, e che ci vengono subito in mente
appena ci troviamo a richiamare i principi fondamentali dell'averroismo.
L'averroismo, infatti, qualunque possa essere lo sviluppo che gli abbia dato in
particolare l'uno o l'altro suo fautore, ci si presenta, nelle sue linee
generali, abbastanza ben definito, si potrebbe dire, attorno a due tesi
fondamentali riguardanti, l'una, la natura dell'anima umana, l'altra i rapporti
di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda la notissima questione della unità
dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani dal vero asserendo ch'essa
rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a un ordine di preoccupazioni
non molto dissimile da quello cui rispondono, nella mente dei pensatori
moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e dell'io trascendentale.
«Quod intellectus omnium hominum est unus et idem numero» [V. MANDONNET Siger
de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si cfr. nel vol. II° a pag.
187 fra le proposizioni condannate dallo stesso Arcivescovo nel 1277: «Quod
scientia magistri et discipuli est una numero...» Che è proprio una delle
affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad sextum)]: ecco come la
condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi contro l'averroismo
definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo, ora, addentrarci
nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che questa dottrina
coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema della conoscenza
ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla polemica di San
Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate, qualunque fosse la
maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva fondarsi su
ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del pensiero sembra non
potersi attribuire in proprio a questo o a quel soggetto pensante particolare,
ma doversi attribuire invece a un intelletto unico che si rifrange, sì
variamente attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse informati, ma
che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che illumina in diverso modo i
vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze fra i singoli
soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano, cioè, agli
averroisti differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su un piano
diverso da quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e propria:
differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero [O, al
massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto diciamo
a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in quanto forma dell'uomo,
qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno del corpo.
Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale l'averroismo ben
merita di essere chiamato, pur colle debite differenze d'ambienti e di
problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte, ben si potrebbe
chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più evoluto e raffinato
del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono trarre da questa tesi
dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione? È chiaro: se
l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel maestro e
nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un soggetto solo,
almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta quella tal
difficoltà della «comunicazione» fra maestro e scolaro che tanto aveva
tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare dall'esterno
collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già comunicano nella
maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto, che è unico in
ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non già al trasmettere
scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la fantasia e la
sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in modo
da attuare convenientemente quella scienza che già possiede - allo stesso
titolo del maestro - nell'intelletto unico. Così la teoria averroistica
accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i quali si era
dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la sola teoria
capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema
dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro,
costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli
averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella
quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di
creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non
basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze
circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte
energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi
riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se
stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli abbisogna.
Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro, finiscono
col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle difficoltà
già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e fornirci, anzi,
quel completamento e quella rielaborazione critica che la pedagogia agostiniana
attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio di questo studio:
il difficile problema di intendere come un soggetto pensante (il maestro) possa
trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo scolaro) è risolto
appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo l'educazione all'atto di un
soggetto unico. Non resta che tracciare una linea ideale attraverso il tempo,
la quale congiunga Aristotele e Averroé con Cartesio, Kant ed Hegel, fino
all'idealismo contemporaneo, e avremo rintracciato, nel bel mezzo delle dispute
medioevali, le origini almeno di una fra le più cospicue correnti della
pedagogia moderna. Ma la teoria dell'intelletto unico prendeva un significato
ancor più deciso, quando la si considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi
cosmologico-metafisiche che si riscontrano non solo in Averroè e negli
averroisti, anche in altri commentatori arabi di Aristotele, come Avicenna od
Algazele. Le tesi averroistiche condannate nel 1270 affermano,
aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non conoscere nulla fuori di
se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi gli atti della volontà
umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma alla necessità e
all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i commentatori di
Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa affermazione: che Dio non
ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare di «creazione» da questo
punto di vista - tutti gli esseri, ma solo l'intelligenza prima, o l'intelletto
separato, il quale, a sua volta, ha dato la forma a tutti gli esseri, magari
attraverso una gerarchia d'intelligenze, le superiori delle quali agiscono
sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità, se si può dire, metafisica di
Dio come causa prima, mentre sembra aumentata riesce, invece, stranamente
diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto diretto colla materia e
cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol perché si sono dati
alle cause seconde degli attributi che dovrebbero spettare solo alla causa
prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà d'imprimere immediatamente
le forme nella materia, il dominio sulle intelligenze. La stessa materia e il
mondo materiale diventano qualche cosa che sta e si svolge per sé
indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e indifferenza di Dio per
quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre, anziché aumentare,
l'importanza della causa prima, tanto da ammettere addirittura, implicitamente
o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause prime. C'è insomma, e nei
commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo, questa interessante
posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta insieme a un non meno
ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce in un vero e proprio
naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il De Magistro di S.
Tommaso. IV Il quale S. Tommaso due volte, nelle due diverse trattazioni
che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere la dottrina
averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la teoria
dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle teorie
metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, I, q. 117, art. 1, l'averroismo
è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa i rapporti
fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza. Averroè,
dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e perciò
ammise che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa da
quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi
nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce
dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et
secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero
aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse
habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc
quod sint disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove
bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale
appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a
differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e
molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si
può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro,
non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito solo
all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così dire,
s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o all'altro
individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non
sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la
scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per
natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel
fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo
che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico;
mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il
maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel senso vero e proprio
della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e
ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla
luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come
adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la sua
chiarezza. Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura
impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il
vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui
giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti
particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare
la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già
faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie
moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro
deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare
il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e
separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste
singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del
pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro?
Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa
difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il
termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta
di una soluzione che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come
la chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa
attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme
intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che
siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire
che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione
del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per
avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo,
Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico
intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)]. Difficoltà, si noti
bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i
soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire,
«immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità
o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si
chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei
singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile.
Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa
alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare
dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi
argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama
alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria
averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie,
ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che,
nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e
scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro
sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel
1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da
una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta
soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro:
identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi
mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e
sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice
che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza -
numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma
che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella
che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum «...docens non dicitur
transfundere scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia
quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in
discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in
sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria
dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema
della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti
pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che
se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in
rapporto fra loro. V Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non
è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in
generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa
prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è
Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui
che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato,
considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio,
e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di
idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il
problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che
le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e
da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti
individuali. Accanto a questa dottrina S. Tommaso ne ricorda, per
criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica,
se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri
credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme,
scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e
venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali:
come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. «Quidam
vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita,
nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem
manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu
in materia latentes» [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della
Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella
secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che
la materia acquista per partecipazione delle Idee. «Sic etiam ponebant, quod
agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit
materia corporalis per participationem specierum separatarum» [S. Theol. I, q.
117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è
efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di questa
teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia concreata
la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non consista se non
nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin dall'inizio e poi
obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la
dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come sappiamo, una delle più
antiche giustificazioni della autodidattica. La dottrina platonica,
dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la dottrina
agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto
contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una
idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un medesimo
idealismo. E, infatti, quanto all'insegnamento, che differenza ci può
essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di stimolare lo
scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la luce
dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e la
teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che il
corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che
già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe
aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno
che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi
di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa
scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza
oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più
chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e
autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in
senso averroistico, S. Tommaso ha effettivamente innanzi a sé già i motivi
fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la
pedagogia idealistica moderna. E all'autodidattica e all'idealismo che ne
è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul
magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal
presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le
difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le altre, si capisce,
quella riguardante la possibile «comunicazione» fra maestro e scolaro. Se lo
scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla
dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento fondamentale
contro l'efficacia didattica dei «segni» ond'è intessuto il linguaggio era
proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi significate, o non le
conosce: se le conosce, essi non servono a insegnargliele, se non le conosce,
non capirà nemmeno i segni. A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro
il dilemma, col richiamarci uno dei più importanti caratteri della conoscenza,
che non è un oggetto o una cosa, la quale o c'è o non c'è, ma un processo che
si svolge per gradi e si può considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro
in sé la scienza, dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo
senso, sì, giacché, per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé
non solo l'attività conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni
concetti primi, alcune «forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero
(l'essere, l'uno, la sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale
offertoci dalla sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri
concetti. E se ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi
su questa teoria tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo»
simile a quello, poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio
«apriorismo» capace di richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e
con una consapevolezza critica assai minore del tomismo doveva costruire più
tardi la filosofia moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui,
quello che aveva costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con
Kant, l'«a priori» nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione
fra «a priori» ed «a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso,
che riconosce un «a priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due
teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso
completo della scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione
che per partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si
vuole, nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività
dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam
scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare
immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o
le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni
scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti
primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro concetto
e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe formare. Così
come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note musicali sono
contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia escogitato o
sia mai per escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette note
musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente,
esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto
vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta
tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in
atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata
o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi,
poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro
sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il
maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in
potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in
quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è
contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle
determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del
maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo
scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera
del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa
cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è,
secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana:
essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività
sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti
i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che
percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente
nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle
che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre
che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per
mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De
Mag. Art. I (ad XII. mum) «...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia
consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus
implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per
officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando
»]. L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi,
mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e
immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed
è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella
scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi
mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno
cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse,
non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI. Sia
concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di
S. Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato
origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente
contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della
conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei
primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività
dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto
loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è
risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone,
più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le
«categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli
idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè,
tutte le categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse
così si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l'
«io» solo fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le
altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si
riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione
assai discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i
«principi primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo
aspetto è dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun
filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato
quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della conoscenza
intellettuale. Appunto per questo l'attività intellettuale ha bisogno di
un «motore» (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E
ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale dai principi
si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità
meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi
debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se
stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come
l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e
che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge
immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre cognizioni
solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi principi
stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e deduzione da
esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare, sia perché può
non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per effettuare certe
deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il maestro in quanto
gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: « inquantum proponit
discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum non
haberet tantam virtutem collativam » [S. Theol. loc. cit]. Ma il soggetto
pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume intellettuale e i
primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza
sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo
visto che sono nel nostro animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che
passano all'atto solo al primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e
costituiti che siano essi non producono nuove conoscenze se non in quanto si
applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti
di «uno», di «essere», ecc. (primi principi) io non posso formare i concetti di
«animale», di «vegetale», di «uomo» ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la
percezione dei singoli uomini, vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe
caratteristiche essenziali comuni io formo appunto il concetto di «animale»,
«vegetale», «uomo » ecc. Processo che S. Tommaso descrive così: «Cum
autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua particularia,
quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per inventionem propriam
acquirit scientiam eorum quae nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i
primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni particolari da ridurre
ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima, col quale la mente
umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste
particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che
ha esplorato la propria esperienza sensibile molto meno e molto peggio del
maestro. Ed ecco un altro modo col quale il maestro aiuta il discepolo:
presentandogli, appunto, delle nozioni o proposizioni particolari, la verità
delle quali egli possa saggiare da sé al lume dei primi principi, ovvero
proponendo alla sua osservazione oggetti ed esempi sensibili da cui possa
ricavare direttamente le cognizioni stesse [«...cum proponit ei aliquas
propositiones minus universales, quas tamen ex praecognitis discipulus
dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua sensibilia exempla, vel similia
vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus intellectus addiscentis
manuducitur in cognitionem veritatis ignotae». S. Theol. loc. cit. (in corp.)].
Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del maestro: procurare allo scolaro
«aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e strumenti di lavoro, potremmo dir noi,
giacché il loro uso è proprio simile, sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali,
che facilitano il lavoro pur senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la
solerzia di chi li adopera. Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria
agostiniana, secondo la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità
all'anima umana? Questo: che da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà
di conoscere, il lume intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi
lo sviluppo di questa facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto
avvengono non già per intervento diretto della Causa Prima, sibbene per
intervento di una causa seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che
non diminuisce affatto la potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha
creato appunto le cause seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero
nell'universo solo un effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè
producessero qualche cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus
aliis confert non solum quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I
(in corp.)]. Dio ha conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche
il causare, l'esser cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la
bontà e la potenza di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci
di causare, quasi sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è
appunto l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie,
averroistica e platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione
dell'Intelletto unico, o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col
non vedere più, negli agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa
d'illusorio e irreale. Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che
ammettono la esistenza del maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e
capacità effettiva d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita
proprio al cuore: nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la
giustificazione. Ma, e quel tale, difficile problema della «comunicazione» fra
maestro e scolaro? E quella tale impossibilità che la scienza si trasmettesse,
mediante i puri segni sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto?
Per rispondere a queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che
saranno, in ogni tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti
all'autodidattica. E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal
maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio
di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa
parlare, in genere, di «passaggio» della scienza dal maestro allo scolaro? Un
oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso
oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando
sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa
scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e
contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del
maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra
loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre
anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come
due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto
unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza
passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri
come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo
animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla
scienza del maestro. In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche
oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo
sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno
dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti,
nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo
della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza,
anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una
scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e
basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale
apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del modo
col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire
uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di
numero. VII Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato
non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo,
il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che
qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo
stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che
aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo intellettuale:
l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico per guarir
l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il maestro
per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali. Anche lo
scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero che vi
sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto che
«...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et per
eadem media, quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è
ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica
alla natura. «Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo
sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la
natura. Similmente avviene pure nell'acquisizione della scienza, che,
ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello
stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto» [Ibid. Si
cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la somiglianza
fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento
come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o
si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema
della «comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura,
possa, sia pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma anche
solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua?
Ecco, come S. Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo strumento
principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e
siano i «segni» ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che
S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il
carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della
scienza. Poiché il «segno» del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia
tutta speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla,
«sensibilità» affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità
degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della
sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il
«fantasma» o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed
immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il
fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle
sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già
l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò,
con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della
sensazione coi medesimi concetti. Facciamo un esempio. Si prende la legge
fisica: «il calore dilata i corpi». Che è quella legge? Niente altro che una
«forma». Nella natura é la «forma» di quel processo che è, appunto, la
dilatazione. Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in
generale le forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati
oggetti o di un determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione
dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la
conoscenza che ne abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b,
c, mentre si dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della
dilatazione partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi?
Certo che potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo
b, poi il corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste
percezioni particolari, un concetto e una legge universale riguardante la
dilatazione. E come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando
che osservi a sua volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la
legge della dilatazione. Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di
questo processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei
singoli corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione!
Quanti videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della
gravitazione universale! E si capisce: quella «forma» che è la legge della
dilatazione esiste nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì
come forma d'una materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo
bell'e fatta, ma bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e
incertezze che ne seguono. Ma si prenda, invece, la stessa legge della
dilatazione qual è formulata in un trattato di fisica, o dalla voce del
maestro, con queste precise parole: «il calore dilata i corpi». Anche qui essa
viene espressa con segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole.
Segni tanto sensibili quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b,
c. Ma con questa differenza. Che per poter dire o scrivere le parole «il calore
dilata i corpi» si è già dovuto formare il concetto della dilatazione colla
legge relativa. La legge della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più
come forma di quell'accadere materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma
come forma pura nella mente del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle
parole non ha bisogno di tutto un complicato e difficile lavoro per cavarne
fuori la pura forma della legge scientifica, ma assume direttamente da esse la
legge in quanto pura forma o concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile
vedere mille corpi a dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma
non è possibile udire dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il
calore dilata i corpi» (udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far
finta) e non ricavarne la legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il
processo della visione e della sensazione si compie regolarmente senza essere
turbato in alcun modo, e cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima
attenzione i singoli corpi, non è detto che per questo io arrivi ad astrarre la
legge della gravitazione o della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto
regolarmente le parole colle quali il fisico si spiega, io dovrò
necessariamente intendere la legge della gravitazione o della dilatazione, a
meno che qualche ragione, diciamo così, patologica non impedisca alla mia
lettura o audizione di svolgersi regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma,
svolto normalmente il processo, ne ho come necessaria conseguenza
l'apprendimento; nell'altro caso, no. È questa, forse, una delle più
originali caratteristiche della pedagogia delineata da S. Tommaso. Per la
quale, a differenza di ciò che succede in moltissimi altri sistemi pedagogici,
la parola del maestro non è né eguale né, tanto meno, inferiore in valore agli
oggetti esterni e, in genere, all'esperienza sensibile dello scolaro, come
accadrà poi, tanto spesso, nei vari metodi «intuitivi» od «oggettivi»
escogitati dalla pedagogia moderna, da Comenius in poi. Questo non vuol dire
certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza - abbiamo visto invece che la valuta
moltissimo - né che non le attribuisca tutta l'importanza che deve avere. Ma
fra gli oggetti sensibili che possono variamente essere offerti allo scolaro e
la parola del maestro c'è, per S. Tommaso, una differenza essenziale che
c'impedisce di considerare quest'ultima puramente come uno fra gli altri
oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché è vero che in un certo
senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto
al causare scienza nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori
dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni
intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole
dell'insegnante causano scienza "più da vicino" che non i sensibili
che esistono fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni
intelligibili [De Mag. Art. I (ad XI.nium) "ipsa verba doctoris audita,
vel visa in scripta, hoc modo se habent ad causandum scientiam in intellectu
sicut res quae sunt extra animam, quia ex utrisque intellectus intentiones intelligibiles
accipit; quamvis verba doctoris propinquius se habeant ad causandum scientiam
quam sensibilia extra animam existentia, inquantum sunt signa intelligibilium
intentionum "]. E sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da
vicino", (propinquius) che non è punto indice di vicinanza o lontananza
materiale, ma solo del fatto che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel
linguaggio le forme pure già astratte dalla materia ed esistenti nella mente:
le "specie" o "intenzioni" intelligibili; le quali invece
non sono presenti negli oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro
le può assumere senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe
assumere dalle cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non
mediatamente, attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui
risultato finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle
particolari forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta,
scoprire. In fondo, è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S.
Tommaso accoglie e sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo
sensibilmente allo scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola
percezione, quali siano gli elementi essenziali e quali gli elementi
accidentali della cosa, quali gli elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua
attenzione e quali quelli che può anche trascurare. E da questa incertezza,
causa feconda di errori, non si esce se non aggiungendo, alla percezione della
cosa, l'insegnamento verbale del maestro, che solo può metterci innanzi le
forme già astratte dalla materia e farci subito distinguere l'essenziale
dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro pensiero, da altri oggetti reali
o possibili. Così il linguaggio del maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza
dello scolaro, è proprio quello che la spiega, l'ordina, l'organizza e,
insomma, le dà un vero significato e valore. È risolto, così, quel tal
problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? Certo, ed è risolto
proprio col rispettare ambedue quei dati del problema che a prima vista
parevano inconciliabili: il carattere sensibile del linguaggio, o, in genere,
dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si serve il maestro per operare ab
estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme, il carattere affatto
intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello scolaro medesimo,
poiché vera «causa» di scienza allo scolaro - San Tommaso non si stanca di
ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro, ma il lume intellettuale e i
«primi principi» dello scolaro stesso, il quale scopre la verità (o la falsità)
di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo soltanto le forme
intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i primi principi,
mercé quella attività collativa nella quale consiste il raziocinio, attività,
senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il maestro può stimolare e
aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo sostituire. L'opera del maestro —
altro errore che San Tommaso combatte continuamente negli argomenti acclusi al
primo articolo del De Magistro — non è già un'opera creativa; come se il
maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale e i primi principi.
Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e inesistente: crederlo, è
l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla creazione, l’operare col
trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo qual è il maestro
un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col negargli ogni e
qualsiasi attività od operazione. L'arte dell'insegnamento non crea la
natura intellettuale; la presuppone. Ma la natura stessa dell'intelletto umano
è così fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe una vuota potenza non
realizzata, o, almeno, realizzata attraverso un processo assai lento e
malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi si trova nel secondo
articolo del De Magistro, che è una delle critiche più brillanti e
spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. Articolo paradossale
in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni abituati
ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un
fatto evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il
centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di
se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno,
siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde
senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci,
intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua
dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha
fondato la dimostrazione precedente. E, anzitutto, si faccia bene
attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente
simili: «acquistar scienza da sé ed «esser maestro di se stesso». Che cosa vuol
dire «acquistar scienza da sé» secondo la dottrina tomistica? Niente altro se
non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i
primi principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla
esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad
accogliere nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme
che, nella natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto,
prima, un esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione. È
questa, così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla
cui estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta,
da parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione della
esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a
che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che
chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato.
Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè,
la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De
Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar
confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio. Ma
se questo processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza», è poi anche
«insegnamento», o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è
un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò,
l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale
noi sappiamo che quelle forme non possono averla nell'esperienza sensibile e
nella natura, dove sono soltanto forme d'una materia: debbono averla nella
mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di
certo, altrimenti egli non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque
nella mente di un altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un
processo che lo stesso soggetto non può esercitare su sé medesimo per la
contraddizione che ne consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non
avere nella sua mente le forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in
potenza e come possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi
positivamente esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per
esempio, la legge della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere
la percezione dei corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe
inventio, o scoperta e non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere
la legge come pura legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già
conoscessi la legge non avrei bisogno di cercarla né di impararla. Sembra
un'oziosa questione di parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due
nomi diversi l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina,
disciplina) per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per
definire bene due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il
diritto di estendere a una vera e propria azione qual è l'insegnamento,
ciò che è caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la
scoperta e l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il
naturale acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in
ciascuno per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come
una vera e propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è
appunto l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si
regge. Per potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é
necessario che l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera
essenziale e non accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II
(in corp.)]. Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre
di una malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché
non contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso
produce la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto)
nell'incendio d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto
ciò ch'è necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento
ha da essere una vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che
nell’agente sia già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il
che accade soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro,
ossia ha già in sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per
sua opera sarà poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o,
meglio, l'inventio è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione,
poiché in essa la causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza
sensibile, contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme
intelligibili come forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e
potenzialmente, quanto al suo essere di scienza e di forma pura. E questa
non è - si badi bene - un'astratta escogitazione teorica senza nessuna
rispondenza alla realtà. Al contrario, S. Tommaso c'invita ad osservare con lui
che le cose stanno proprio in tal modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare
l'autodidatta e, perciò, attribuiamo all'autodidattica un valore superiore, in
certo senso, a quello del semplice insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo
sviare da un'osservazione che dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio
la conclusione contraria a quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché,
infatti, esaltiamo, e giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno
sforzo eccezionale; se no non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità
di questo sforzo consiste precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue
nel costruire la sua cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così
l'equilibrista cammina sopra un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che
il migliore, più sicuro e spedito modo di camminare sia quello d'andar su un
filo? No certo, anzi, diremo tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste,
invece, nell'aver scelto, per camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e
meno spediti. E, dunque, anche dell'autodidatta dobbiamo dire che
l'autodidattica, lungi dall'essere il modo migliore e più sicuro di apprendere
è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e che proprio per aver saputo
acconciarsi a questa maggiore difficoltà l'autodidatta merita lode «...sebbene
il modo di acquistare scienza mediante la ricerca sia più perfetto riguardo a
chi riceve la scienza, in quanto egli si segnala più abile a sapere, pure,
rispetto a chi causa la scienza, è più perfetto il modo d'acquistare scienza
attraverso l'insegnamento» [De Mag. Art. II (ad 4.tum.) «quanivis modus in
acquisitione scientiae per inventionem sit perfectior ex parte recipientis
scientiam, inquantum designatur habilior ad sciendum; tamen ex parte scientiam
causantis est modus perfectior per doctrinam»]. Né si creda che quel
ridurre a scienza «più speditamente», sia solo una sfumatura: anzi, c'è
sotto una questione di principio, così importante che solo chi l'ha afferrata
può dirsi abbia inteso veramente la differenza fondamentale che intercede tra
la filosofia scolastica e certe filosofie moderne, quali il materialismo positivistico
o l'idealismo. C'è la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda,
dirà qualcuno, eppure a questa domanda una corrente, certo rispettabile, e
notevolissima della filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza
non c'è ma si fa, s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento.
Come, poi, si fa o si crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere
un atto, secondo la filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai
completamente realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si
svolge all'infinito sempre facendosi altro da quello che era prima. Ora,
un atto di questo genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto
realizzantesi, un atto che non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma
aspetta di svolgersi e di completarsi sia pure in un processo infinito, un atto
di questo genere, la filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì
potenza. Il pensiero nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza
passata presente e futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di
conoscere, non già come atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene,
una pura potenza può esser causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar
origine a una realtà? Lo può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto
antecedente, così come il seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta,
derivato da un'altra pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera
l’uomo, ma l’opera di un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre,
la madre. E dunque il supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro,
derivi solo dal pensiero in quanto è una pura potenza o possibilità di
conoscere, è così assurdo come supporre che il figlio nasca, non dal padre e
dalla madre, ma dalla «possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in
potenza, ci deve essere già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme,
già ci vuol la pianta completa. Ecco la differenza fra la scolastica e
l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà
procede, in fondo, da una pura potenza, da un germe, un X spirituale o
materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa o diviene: l'essere,
insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la realtà procede da un
Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel quale sussistono
eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab aeterno, tutti quei
valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi rintraccia: Dio, principio
primo e fine ultimo d'ogni cosa. Ed ecco, quindi, la diversità fra la
doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e l'autodidattica, fra lo «scoprire»
e l'imparare. Si capisce che per coloro i quali seguono certe teorie
filosofiche moderne, la doctrina presupponga l'inventio: se prima non abbiamo
«scoperto» o tratto dal nulla la scienza, che cosa potremo mai insegnare? Ma in
realtà, per San Tommaso e la scolastica, è vero il contrario: l’inventio
presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè, scoprire una scienza solo in quanto
essa c'è già, ed è già in atto, se no, che cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme
stesse realizzate nella materia che ci dà la natura, non potrebbero ivi
esistere, se prima non esistessero come pure forme nella mente di Dio, alla
quale ogni scienza deve necessariamente risalire come a sua causa prima:
sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la scolastica le chiama, cioè
archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il valore insostituibile della
doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento, poiché, nella mente del
maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore a quello che ha nella
natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si potesse esprimere, più
lontana dalla materia e più vicina a quella delle rationes aeternae nella
mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico dell'insegnamento,
fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno, non
sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della scienza
che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo atto, dalla
mente del maestro alla mente dello scolaro. Andare più oltre vorrebbe dire
superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in una esposizione
analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e concisione del
pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di dottrina, il cui
adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria della educazione da
esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve saggio [Chi desidera
approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume Maestro e Scolaro. -
Soc. Ed. «Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui ricordare, per concludere,
che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si ricongiunge a quello di S.
Agostino, dando origine a una concezione della scienza e dell'insegnamento che
si può considerare caratteristica dell'età in cui il sapere umano s'impose la
più rigida e, insieme, la più feconda disciplina intellettuale: vogliamo dire
il Medio Evo. La scienza come doctrina piuttosto che come inventio: non perché
l'invenzione non possa e non debba avere la sua funzione legittima, ma perché
la doctrina è un organo superiore, il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio
stesso si è servito per ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo
la sensibilità, il lume intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a
tutte le incertezze d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria
scienza, rivelata dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai
Padri, ai Dottori e a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si
estende attraverso i secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in
questa visione della scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo
preferisce insistere sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla
operazione dello Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi,
l'altro mette in luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero
umano che Iddio medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della
Rivelazione, oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente
naturale. Ma anche per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema
dell'educazione e dell’insegnamento non si vede tutto, se non si
considera, oltre che sotto l'aspetto naturale, sotto l'aspetto soprannaturale.
Per questa parte il De Magistro tomistico non s'intende, senza ricorrere a
quella triplice analisi della scienza qual è nella mente divina,
nell'intelligenza angelica e nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa
Theologica: analisi alla quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano
della necessità e possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande
metodo della Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e
l'esistenza della Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere,
disciplinare, consolidare l'opera della ragione. Taluno, certo, obietterà
che questo metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività
e la libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente
un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come
l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto
impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata
sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel
conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve
dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione,
anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa,
colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria
violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che
riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma
libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e,
perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più
sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina
rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella
sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un
pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento
della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben lungi
dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto liberare
le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia moderna
cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto diversi
come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché per
essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse
vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito
lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina
completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse
lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia
di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così,
affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei
gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto
«medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo
scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa
pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa,
oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro
caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di
una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa
come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato?
Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o
soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel
primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od
atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice
esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato,
soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti,
normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i
quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti
dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che
s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via
nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e,
viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della
lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma
soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la
pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi
generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro
possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente
costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù,
potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza
dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o
l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con
l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi
s'assimila attraverso le specie eucaristiche. Prendiamo, invece, un
maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo
in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale
per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché
nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un
libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la
nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile
alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una
rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito
attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce
nella religione i suoi scolari. Evidentemente, oltre questi due casi in
cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e
viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il
metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo
tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti
considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e
attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia
vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono
agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così
numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o
mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti
che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe,
nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un solo, ma tipico esempio: la
discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e
quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino
allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro
inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e
risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le
lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i
rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo
che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così
profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con
quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto. Io non
parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto
soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto.
Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e
neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi
limiterò, dunque, a parlare dell'educazione naturale. II Sarebbe
abbastanza interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto
trascurate, quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli
studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero
umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in
un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che
tutte le più importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso,
naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo,
in una immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi
colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa
stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come
l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata, appunto,
l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e nelle
forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle, l'educazione
sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità e la
moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come
effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le
piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la
natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto
varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i
maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non
si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche
nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità
del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi,
libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa
legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi
naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la
pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia
del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui attribuita,
nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato come eretica,
la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento del vero e del
bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando «errori» la filosofia
e «peccato» le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe al rogo come futili
sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà. Così, invece di gettar
via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté mantenerne viva la
fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue Università e,
ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare intatta quella
tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi, giustamente
orgogliosi. Ma, oltre questo «naturalismo» ch'è, in fondo, una ragionevole
fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé delle tendenze al
male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto spontanee al bene e
alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non è possibile parlare
neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie moderne, hanno in sé
un altro «naturalismo» niente affatto utile o necessario all'educazione. Tale
naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha nella sua propria natura
le energie necessarie al suo ordinato svolgimento: afferma che ogni educazione
si riduce allo spontaneo svolgimento della natura umana secondo le proprie,
immanenti leggi costitutive. E non si limita a riconoscere che l'uomo ha nella
sua propria natura una tendenza al vero e al bene, cioè che è fatto, in ultima
analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione dell'altro, ma afferma che
l'uomo solo è a sé stesso il vero e il bene, perché appunto nello svolgimento
delle sue umane energie, o per sé prese o nei loro rapporti colla circostante natura,
consiste il solo vero e il solo bene possibile. E non si limita, quindi, ad
affermare la legittimità d'una educazione naturale dell'uomo, ma respinge
come assurda e satireggia come ridicola pur l'idea d'una educazione
soprannaturale, o, comunque, di un elemento soprannaturale nell'educazione.
III Distinguiamo, anzitutto, due cose che si sogliono, per lo più,
confondere: la possibilità d'una educazione naturale, e la sua effettiva
realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi, sia fatto per essere educato
al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli uomini siano,
effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini arrivino, in
realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno nella misura
necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza umana,
nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i viziosi e
gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può, è vero,
sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed ignorante del
mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che nemmeno il
peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo all’animo,
qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere umano, fino a
un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è facile obiettare
che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente, o la verità che
regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità e quella bontà
di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità delle cose, e non
da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé, esse si distruggono
e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la delinquenza nel
delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante come il tipo
dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta da sé. Se
ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo Spirito di
Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in ogni condizione
a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo tempo l'umanità
avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i fanciulli ad
istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e le scuole e i
libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione dominante, si è
perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo inconsapevole sono come
l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto dal fango col quale si
trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva affermazione. Benché
l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa possibilità non è
ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal genere umano per
educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole differenza che
intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione effettiva.
Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce, almeno, a
portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza del vero e
alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei santi, degli
scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini, capaci
lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è troppo
facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili l'istruzione è
obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non dovrebbero esserci
delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero chiudersi, gli
ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace e armonia, non
conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la corruzione non
insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure; dappertutto il lavoro
innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la serenità soltanto
tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito incantevole. Ahimè! Basta
dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere questo sogno svanire come
nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più modesto mestiere, sono in
maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o gl'ignoranti? i laboriosi o i
fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non sarebbero tanto stimata
l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la competenza, l'attitudine
al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le cantonate! Ma poi,
badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di maggioranza o minoranza, che
la scienza non si fa come i congressi o le elezioni. Quand'anche l'educazione
universalmente diffusa avesse reso tutti onesti, tutti bravi, tutti capaci,
tutti intelligenti, e di fronte a questi fortunati mortali un uomo - uno solo -
fosse uscito dalle nostre scuole vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io
dico che quest'uno solo basterebbe colla sua esistenza per dare una solenne
smentita a tutti i maestri e i pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si
vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo -
uno solo - circondato da tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e
affidato ai migliori maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose
abitudini, dal quale poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia -
quand'anche non si potesse citare che un solo esempio di questo genere -
l'educazione umana, l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di
fatto (benché capace di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far
diventare realtà concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al
vero che esiste nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando
si è persa una - una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei
non è stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano,
irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la
natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto
educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e
ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa,
inaccessibile a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un
fato misterioso contro cui ogni nostro potere sembra disarmato. IV Finora
abbiamo parlato in generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche
di cui è piena la storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi.
Vediamolo, anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più
facile, in certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta.
Le idee, mediante quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla
mente dell'uno alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i
ghiribizzi della sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non
lo ha intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la
chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro
imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi
che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare
andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha
già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle
idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni,
le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il
maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando,
sventuratamente, così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche
il rimedio. Il linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di
nuovo, interrogare di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la
parola scritta: libri, quaderni, appunti, riassunti e così via. Ebbene,
la storia della pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una
critica a questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è
sempre servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà
servire. La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che
si possa trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal
maestro e chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno,
atto interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può
ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata,
come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale
spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi
nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione
chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il
paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e
già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è
ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a
questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro»
che vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad
astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo
in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena
di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue
un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più
lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche,
semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende
l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto
le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il
fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al
partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a
chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo
ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la
pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione
al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee
astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso
all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza
la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito:
procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea
sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo»
che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da
augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le
istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo
effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e
applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza
sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un
oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun
significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto
assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel
prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della
sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si
rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole»
ascoltare, nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di
immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima
analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta
l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la
genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome
i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di
conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non
artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile
la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da
solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è,
poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo,
troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto
superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la
teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile
ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche,
nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando
occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi
garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate:
sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i
pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il
deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere
scolastico» è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor
oggi, in mezzo a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione
dell'istruzione scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in
alcuni istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi
privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta
spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni
e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per
ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio
scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare
per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità
pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon
andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano
messe in pratica? Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui
l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori possibili;
supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi; supponiamo
rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o limitano a
taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità
sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo
conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà
che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un
Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i
più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti
dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un
altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno, falliscono
con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita risposta:
dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da circostanze
imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in fondo,
riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i sistemi
e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più ideali e
favorevoli condizioni. V Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà
dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere, formazione
della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà
della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro
l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la
storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di
questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini
dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono
abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi
verso il prossimo? E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla
cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale
sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione,
e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le
ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente
istruzione morale: che, cioè, il «non rubare», «non dire il falso testimonio»,
«non desiderare la donna d'altri» e simili precetti della morale naturale siano
appresi da tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad
altro, ma come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione.
Ma, anche se questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse
dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si
sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei
precetti: occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e
applicarli; e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli
diventare abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò
nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui,
predicar la temperanza ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al
vizio, non significa certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la
pedagogia moderna ha più criticato nella educazione morale corrente, si è
appunto il vecchio pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere
libri o novellette morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la
predica e la buona lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se
la virtù non è praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni.
Il tirocinio effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella
medesima base solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee
morali debbono, per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato
che le idee scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti
particolari. Ma questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione,
abbastanza facile ad organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in
certo modo, esterne, tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio
ginnastico rinvigorisce i muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta
d'azioni più specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad
un giudizio della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La
teoria pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle
conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per
converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia
esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale
teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei
casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che
il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla
rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della
finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il
mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero
del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il
rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo,
cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia
dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere
quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare
l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si
tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare,
pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe
peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle
piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha
riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a
proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo
ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in
questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato
dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole
questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci
garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e
puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare
per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre
verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In
teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale
probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che
raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica.
In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che
variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta
per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si
fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono
sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma
l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di
quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale
ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta
proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla
virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di
addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di
falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce
ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce
l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si tratta,
questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo sistema di
azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a giustificare
qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e fra filosofi
non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E chi ci
garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre, nella
scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri, tanto più
numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a favore delle
loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni, delle
inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina? VI
Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare, emerge una
conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se
gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato,
l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona
scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze
imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi
elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato,
quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un
grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo
senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non
può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e ragionevole,
senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche essenziali della sua
natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo senso, per poter
riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo d'essere più
universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure, nonostante tali
scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto, meravigliarci non
che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di produrre, come
dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi superuomini,
sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie, l'educazione mantiene,
innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e morale non
disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione: e tanto la
compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la civiltà, e
intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la compiono che, a
un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale dalla nascita in
poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur difettosa, né dalla
madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più che come un
selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito loro
se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che un
dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato a
camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e
dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi
progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di
peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai
abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche
nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono,
secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si
ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso
desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un
figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità
ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con
tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere
feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli
altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e
realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in
quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe
giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo
fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi
è che realizza quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose,
l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È la
razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed
onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle
loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue
istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono
ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza
sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo della
realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire
nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro
pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore
alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la
storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde
nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si
possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così
perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari
è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto
ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi
è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la
ragione. «Materia», «spirito», «evoluzione o storia» sono tanti nomi del
mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro
singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta. Ma sono nomi
oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col
fatto stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla.
L'educatore sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla
probabilità che i dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante
possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a
caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non
riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità
sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed
intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio
miglioramento, secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo,
talvolta, intravedere qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le
nostre deficienze, l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe
temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle
scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano
in orde barbariche per abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio.
Dio è l'autore della misteriosa equazione che si compie tutti i giorni,
nell'opera educativa, fra possibilità e realtà. La pedagogia e la
filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine
soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e compia la
Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le
verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le incertezze della
scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso
la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed
imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la
filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante
conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche
nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso
tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente
necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione
naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione
intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione,
necessario di una necessità relativa e morale: utile nello stesso senso
in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione. Ecco una
sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba
indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe
accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto,
arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la
forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La
natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente
educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso.
Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle
passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono
tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare
ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono
macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata
quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti
i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di
un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i
maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo,
possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che
tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i
suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il
pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di
Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la
corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato,
nella notte. L'Anima della pedagogia. (Discorso tenuto per
l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “
Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga
presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio
rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e
democratica, che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia
d'oggi.) Domando scusa se sono costretto a incominciare con
l'affermazione di una verità così poco peregrina com'è quella secondo cui la
scuola non è fatta dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai
banchi, dagli orari, dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle
persone discenti e docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da
quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali
disjecta membra, le stringa davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure
che le verità, quanto più sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di
esser dimenticate o non avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza
accorgercene, o come — se mi perdonate il brusco trapasso — la felicità che si
va a cercare, talora, in paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed
intera quanto alla condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa
propria. In particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da
noi, in Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser
proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone,
ma di esser poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella
pratica da un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in
primissima linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica
scolastica. Ad esempio, per restare nell'ambito di quel che dicevamo poco
prima, qual è il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od
elezione, nelle cose scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la
cultura propria glielo permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della
scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare oltreché istruire», sull'
imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione un saldo indirizzo
ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei discorsi, formarsi
un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana nell'ultimo
trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera
quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor
scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa
all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé
l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei
ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario.
Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o
della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere
nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti
— forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura
decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne.
Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da
rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui
capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria
soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla
punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e
neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo
non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde
traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma
è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la
noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali,
l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni
scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o
interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali
e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti
cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non
dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza
d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non
averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati
deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di
cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma Gentile: i benefici
effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel loro lato
positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che accadesse,
l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto spazzando via gli
ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora paralizzava il nostro
organismo scolastico. Ma ecco che mi sperdo in un mare di considerazioni
poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era,
semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina eppur troppo spesso
dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come la fondazione di
questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome tanto dolce ad
ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le lodevoli
iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae dalla sola
vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di
amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel
volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una
larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie alle Suore che
l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli
edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno
spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il
pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali
idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come
notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli
istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola
universitaria? Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti
si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non
presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da
sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro
futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro
tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la
ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi,
per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto
il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un
differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i primi rudimenti,
ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione
ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con
sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita.
Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi,
un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo
visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in
materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha
infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno
come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le
bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha
trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare
che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra
cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé un Istituto
Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo
sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la
cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già
compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia
perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in
sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole
ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e
gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole
elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare
che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione
del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici
non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano
ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar
giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi «ponga mano ad
esse», ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde
non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi,
a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che
ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una «cultura» nel
senso di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori
dello spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o
della scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione,
senza un pubblico che li seguisse, senza un'anima nazionale che si
riconoscesse in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola
nella stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta
permise la formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si
riprodusse: da un lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi
misere ed ignare, nel mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni
vera consistenza interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica
di ripieghi. Ed eccoci a quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale»,
ben più pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili
europee il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o
l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e
difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il
bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina
spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari,
e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le
sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica,
e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e
di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con
passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli
anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o
iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad
apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca
d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei
propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo
ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra
nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe,
forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti
menzogneri e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni
vera superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina
«romana», le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in
altri tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati,
avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime
lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non
fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e
l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri
accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una
cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione
scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro
pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare
non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E
quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel
miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se
non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il
maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle
agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi
intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con
mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione
intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi
anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione
politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato
che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del raccoglimento
e della meditazione, «va a divertirsi» in un modo più o meno discutibile,
si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle, ossia la
mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè, del
cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo,
l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del
lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio
«moralmente analfabeta» che nei suoi salari che gli hanno permesso il
pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più
sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo
duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica
gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità
simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale
dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono
pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol
lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di
sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami
del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le
chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più
massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al
volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche,
agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere
qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il
principio d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del
manganello e della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon
pubblico liberale e democratico, quello dello «stellone», non fu purtroppo
accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla discussione di problemi
dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se non aveva il
«fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio, a un
altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti che
sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi, non
avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi
dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di famiglia perché
degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran
parte la propria vita? Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il
vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante
volte non avevamo avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la
settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra,
fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in primissima linea
l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri
di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo
alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri
di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto
il «manganello» dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i
signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una
pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze,
degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e
finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non
sia quello di fornire diplomi ai loro figli. La gravità della situazione
che vi ho prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale
siete chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi,
future insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le
migliori riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del
nostro popolo, fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa
incultura, dalle dure necessità del suo lavoro, dalla primitività rurale
delle sue condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo
imperante nelle città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la
guerra e ci permettono ancora di ignorare il terribile problema dello
spopolamento incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a
cambiare lo stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere
davvero una cultura nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre
classi dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in
parte, il libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle
chiacchiere del circolo, avreste già bene meritato della causa che servite.
Avreste ottenuto quello che già ottenete in altri campi: e come nell'assistere
ammalati, nel sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti
regioni del mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome
cristiano fosse sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili
di cui il mondo laico si vanta come di propria conquista perché non è dato
scorgervi, a primo aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime,
dirozzando intelligenze, opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un
nobile lavoro dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce
del sapere, il Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità,
tutte le conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta,
ma sa farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo
che ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a
conoscere nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle
zitelle — sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a
raggiungere un fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi
educativi, un più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro
per questa grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi
dico che ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere
intorno a questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da
un'intima comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente
nostre. Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale
nostro e delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia
scuole simili valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci
con esse nel contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma
anche, secondo la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in
tutto un sistema d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i
criteri pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli
schemi che tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per
approfittare delle favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da
ogni preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come
vedete, è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle
giovani generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio
incontentabile se aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui
importanza ho cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto
che paia, essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto
appello alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi
vi annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura,
l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre
migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si
offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza
italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il
nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo
marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la
parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è
parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un
altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema
pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale,
noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui
si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire
d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia
scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini e
di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto e
conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e
degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune
discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro
funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie,
alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora,
secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio,
miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato.
Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri
e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi tutti,
dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la
cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe
sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e
greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica
formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre
medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le
vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato...
Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella
scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella
scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie,
disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man
mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali
deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che
agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana
elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario
come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica,
l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica.
Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge
sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro
l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere
classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza,
daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e
Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da
riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai
positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di
scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato
l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni civili.
E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone, attraverso
la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle letterature
classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque risolto?
L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la cultura che
andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo scientifico non ha
ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un nuovo avversario è
sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia idealistica moderna riprende,
a sua volta, contro il realismo scientifico, il medesimo atto d'accusa ch'esso
aveva portato contro l'umanesimo letterario. Eccoli, secondo l'idealismo, i
frutti della scuola razionalistica e scientifica che aveva voluto poggiare il
suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e delle «notizie» e bandire tutto
il resto come chiacchiera inutile: pedanteria, superficialità, soffocamento
delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo dei valori spirituali,
meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo contemporaneo non è solo.
Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un Fròbel, già lo stesso
Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi metodi del realismo
scientifico, derivano la miglior parte della loro opera piuttosto che da
quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento “ufficiale” delle
scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare chiaramente, un errore,
una stortura, una violazione di non so quali principi, onde tutto il sistema
educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai tanto eloquenti come
quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare i diritti dell'anima
umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella rivolta è sì accettata
dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con cui il realismo aveva
accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori umanisti sul
“ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i criteri stessi con
cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il segno d'una serie
d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il realismo aveva
consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema pedagogico fosse
sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior cultura da diffondere
fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo avesse male risolto
questo problema imperniando la cultura sulle lingue classiche. A sua volta il
neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al realismo il pregio d'aver
rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione, della cultura, ma,
viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel proporre quel particolar
tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui metodi
naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una
cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di
risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che
è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia
laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi
quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di
ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi
inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola
realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale,
anche la scuola neoumanistica? La ragione? Ma la ragione sta nello
stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per
umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta
una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come
“uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli
ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema
educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività
umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè,
dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia,
esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o
l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività
umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel
senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito,
ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista,
cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi
ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una
cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella
letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso:
Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise
attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure
per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore:
che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della
sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri,
deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno
egoista? No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo
decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo
riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una
cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente
a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri preformati.
E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare a una realtà
superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori; anche quando
guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno all'infinito da lei,
essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di sé. Ben diverso è il
caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non se stessa, ma Dio,
tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi, nel suo seno, il
più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare. L'enciclopedia laica
è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso parte da sé e ritorna
in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura scientifica del
realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche tutt'e tre
insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica
prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est
necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite
per tendere sempre più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia
cristiana è, se ci si consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla
filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via
su cui le anime dovranno avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia
divina. Né la materialità di queste immagini v'inganni, quasiché la differenza
fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché
il tipo e, direi, l'orientamento di una cultura non può non essere visibile
anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve
riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il
circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo,
nonostante tutte le proteste in contrario, per la cultura laica, niente altro
che la ripetizione di un medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal
terrore e dalla noia innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della
storia gli sembrano esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata
categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in
ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da
proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente
prolungato, ma come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui
radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali
e imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata.
Ecco perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha
avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco
perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno
dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che
facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può andar mai
disgiunta dallo spirito cristiano. Ed ecco, infine, la ragione
dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre
reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo,
una scuola veramente liberatrice. Non basta. Il problema della cultura
non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un
problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie
laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella
ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella
“consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo
pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica
via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé
l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: «che faremo dunque,
degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare?
Negheremo loro la qualifica di uomini?» Problema, si noti bene, assai più
facile in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le
innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla
società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che
poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i
bisogni della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad
occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte
ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i
mille servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di
polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un
intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo
le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle
scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li
lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare,
insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo
antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri
beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è
condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni
dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti
agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia
fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i
lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo
che mina le basi delle nazioni moderne. Anche qui la storia ci ammaestra.
Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal
Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla
giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro
intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di
attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che
rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo
è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci
ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e
di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget
semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso,
alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre
rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la
gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava
compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo
aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta
attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per
la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno
per fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che
non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al
mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del
lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile
tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da
realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo
numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale
sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio
della «buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare
colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che
è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben
sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni,
interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior
ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un
cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei
cieli. Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il
Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo
pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col
quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e
fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la
tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio
dei «poveri» e degli «ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo,
pur raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali
consigli evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo
che avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando
l'uomo alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante
pari, nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto
filosofo, Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente
intesa. Se cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato,
direi, naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di
avere in sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate
dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte
d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio.
Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere
aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre
migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere
per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio:
siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo
propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini
naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è
da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale
dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa
distribuzione della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state
già da secoli implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da
meravigliarsi che tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione
della cultura consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il
presupposto indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro
manuale abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione
intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché
cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo,
stoltissima empietà non meno che — ecco la vera parola — barbara distruzione
della libertà umana, la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste
di precetto del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente
osservate, non avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo
di tempo da dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei
giorni che sono «di Dio» appunto perché Dio vuole che allora l'uomo,
dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a
riprender coscienza del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro
di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui
lo spingono la brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della
moderna vita irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone,
lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei
così detti “divertimenti”? Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più
adeguati alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha
sempre messo, con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare
come scoperta della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza
plastica e suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non
potrebbe arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta,
senza i grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è
stata la prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina,
ha affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti
architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti
potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio,
dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e
delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima
dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i
principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli
illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico,
nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più
profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica
che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da
spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni,
considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la
partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura,
la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? — Oggi si
raccomanda il «metodo attivo», si biasima il verbalismo della nostra cultura,
si riscopre il valore educativo del lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal
Cristianesimo quelle corporazioni medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del
lavoro manuale si compenetravano del medesimo senso d'arte e di libertà umana
che a mala pena e non sempre oggi si ritrova nei grandi lavoratori del
pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti moderni prendano, di solito, come
tipo dell'educazione cristiana e cattolica le congregazioni insegnanti della
Controriforma e, anche queste, le considerino in una ristretta parte della loro
opera e precisamente in quella parte ove esse hanno dovuto agire
collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma forzatamente dovuti
accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce, ad esempio, perché
i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della pedagogia
razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana e dei suoi
pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro assegnato il
compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa tutte le
contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché mai, dato
anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai pedagogisti
dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente stati, i
Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in base all'opera dei loro
collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per l'educazione
clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur cita lo
spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni
effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è
mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto
originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella
da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il
domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la
Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno
ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a
qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là
dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena
realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni
insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si consideri
che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una larga azione
sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare sistemi e
metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in quanto era
possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene che si
poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario e
dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si
accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica
era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale
pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno
uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si
guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella
formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione
francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella
formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in
quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri
principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia
condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina
ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le
diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal
moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi, un
amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una
infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della
sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per
cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di
superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira
quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o
del missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni
presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini
anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce
a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia
razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche
nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne
ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio,
l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata
esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà
d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della
storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal
turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi
nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare, quando la
burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta ascoltare,
è altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io concluda questo lungo
discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una conclusione così
bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una conclusione che, non ne
dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie scarsissime forze hanno
dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il nostro futuro lavoro
comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e sempre meglio. E questa
conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i maggiori problemi della
pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi richiama là dove da secoli la
vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e, possiamo dire senza tema di
smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie. Diffondete pure il sapere fra
le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con gl'intenti ch'Essa vi ha
insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle tormentose crisi dell'anima
moderna; di soddisfare, così, pienamente alle esigenze della pedagogia più
raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla quale sarete uscite, potrà
veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le altre scuole universitarie,
una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente, in quanto ciò è dato ai
nostri deboli sforzi umani, non demeritare di raccogliersi sotto l'altissimo
nome che oggi invochiamo a guida e conforto: sotto l'altissimo nome di Colei
che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio, umile ed alta più che creatura,
termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia, religione e "filosofie"
nelle scuole medie L'introduzione dell'insegnamento religioso nelle
scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione del Concordato secondo la quale
la dottrina cattolica deve essere il necessario fondamento e coronamento di
ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a dirsi, nell'animo di molti e
insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si è sentita nell'ultimo
Congresso nazionale di filosofia (1929), e si sente tuttora negli scritti e
nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio, amano
discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe molto lontano dal
vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza dubbio, quando
riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse specialissimo quando
tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire maestri
che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa o quella
singola materia, ma precisamente intorno alla religione cattolica; cosa che non
potrebbero fare certamente, se già non avessero ricevuto dall'Istituto
magistrale una salda istruzione e formazione religiosa. È bene dirlo
subito: intendiamo di deliberato proposito trascurare tutti i problemi pratici
e contingenti che possono nascere e nascono nelle odierne condizioni della scuola
dalla introduzione dell'insegnamento religioso cattolico. E intendiamo
trascurarli, non solo per un legittimo desiderio di circoscrivere il nostro
discorso, ma perché siamo persuasi che il turbamento di cui si parlava ora
deriva, nella maggior parte dei casi, non tanto dal considerare l'uno o l'altro
aspetto pratico della questione, sibbene dal non aver impostato con sufficiente
chiarezza o dall'aver male risolto il problema filosofico che della
questione stessa sta al fondo. Per convincersene basta aver la pazienza di
formulare solamente la difficoltà quale corre, si può dire, sulle bocche di
tutti. — Che significa — si domandano molti — questa dottrina cristiana che
deve essere d'ora innanzi il coronamento degli studi? Significa forse che si
debbano escludere e bandire severamente dalla scuola tutte quelle dottrine e
quegli autori non conciliabili colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo pure.
Ma allora dove andrà a finire la libertà di coscienza dell'insegnante, anzi,
dove andrà a finire quella stessa libertà della ricerca scientifica che si
svolge, è vero, e si esplica pienamente solo negli studi superiori e nelle
Università, ma che non si può neppure escludere del tutto dalle scuole medie,
senza ridurre l'istruzione a una semplice trasmissione meccanica di vuote
formule, onde ogni vero senso di intima ricerca è esulato? Vedete qual
differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e non certo a vantaggio
del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente quella diversità di
pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e la discussione, senza
cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un
unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che accoglie generosamente,
nel suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni dottrina riconosce un
momento e un aspetto necessario della verità. E dunque, mentre, secondo il
filosofo moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere il suo parere e di
portare nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico, il filosofo
moderno, ben lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e tenuto
fuori dalla scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da qual parte
stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della filosofia
moderna apre alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il prevalere del
cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto oscurantismo,
segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e vuole avere, per
sempre superato. E, poste queste premesse, ecco che molta brava gente già
si sente venire i brividi addosso. Che, già le par di vedere l'Inquisizione e
il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar
sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo con mano ferrea ciascun
insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per segno che cosa dice e
che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio
di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari,
tanto per essere in armonia col color locale, o meglio, storico, una buona dose
di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non
le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò,
a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni
sacri, all'edificante spettacolo. Ora, i timori - più o meno
irragionevoli - sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa
tanto difficile a questo mondo quanto il persuadere certe brave persone che i
timori vanno trattati da timori e la filosofia da filosofia; che le questioni
filosofiche non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti. Accuse di
oscurantismo alla religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è mondo, e
sempre se ne faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque puerile
meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di queste
accuse si esamini spassionatamente il fondamento e il valore, prima di
sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non
vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni,
siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli
stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze, la
moltitudine. Sia dunque lecito porre, al presente studio, questo fine:
domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino
quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il
cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei
d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe inonoratamente seppellire.
Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi quali si cerca di carpire il
consenso attraverso la mozione degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non
arrenderci che alla forza dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è
possibile, di ridurre la questione a un tale stato di chiarezza che chiunque ci
segue, amico o avversario, possa senza disperati sforzi d'ingegno o di
dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la nostra tesi, od,
occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci sia avvenuto
d'incappare. I. Cominciamo con l'osservare subito che la questione che
ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono
nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente
tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti
amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca
neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di
filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda,
invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi
diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse
concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità,
diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare
insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della
religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei
diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno
di produrre, nel modo stesso di concepire la religione. Ma quali sono queste
due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e lo
ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al
cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che
la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile
una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di
una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire:
e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si
accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna
delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle
quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta. Ecco dunque
le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte;
verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte,
verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra;
verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e
riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal
pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa
antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in
alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da
una parte e San Tommaso dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro armati,
la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica. Contro, si
capisce, per modo di dire poiché, chi crede tutti i sistemi filosofici
veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso e alla
scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della immortale
verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la verità come
un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi, offrirci a
modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a preferenza
di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant
ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla o
scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della
filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che
intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di
maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la
concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per
necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella
tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione
infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre
filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni
soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si
proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che
quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo
nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto,
colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano
della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa
imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della
filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non
è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa
scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non
ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire
appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più
opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura
può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando
liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se
così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per
le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi
delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e
gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo
sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o
“scolastico”, “tomista” e filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere
oltre, una semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o
di questa piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i
personaggi del filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che
le parole sono parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”,
di “libera ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un
grande effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e
ciò accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere,
in questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di
sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono
essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare
stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli
uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è
un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci
venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non
crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua
asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di
ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser
progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere
ciecamente, ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di progresso
e di spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II. Il
procedimento adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la
filosofia dei cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica,
come retriva e non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed
artificioso che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra
filosofia non scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di
vituperi. E se queste parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa
da quella che vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese,
diremmo che tale procedimento è assai simile a quella “illusione
cinematografica” del pensiero per la quale si pensa d'aver afferrato e
ricostruito un organismo vivente quando se ne sono raccostate alcune immagini
parziali e frammentarie. E, infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo:
quando alcuno dice di ritener vera una filosofia, sia essa scolastica o
antiscolastica, religiosa o irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica
o scettica e così via, è costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci
danno, per forza, di essa soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E
tanto più approssimativa ed inadeguata, quanto meno è possibile condensare in
una breve formula verbale, qual è quella per cui uno si dichiara scolastico,
materialista, idealista o naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale
nella filosofia: gli argomenti coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie
tesi. E questo stesso carattere di approssimazione e di inadeguatezza si
estende, in un certo senso, a tutte le parole, e a tutte le frasi, e a tutti i
libri che sono stati scritti per esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per
importante che sia, non si può mai dire che esaurisca in sé tutta quella
dottrina che pure insegna, o possa considerarsene un equivalente materialmente
completo. Tanto è vero che da che mondo è mondo si continua a scriver libri per
esporre e difendere le varie dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né
si può finire. Poiché una dottrina filosofica è un insieme di concetti e di
ragionamenti: e benché concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole
e con libri, e si possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule,
pure, non i libri e le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti
costituiscono l'essenza della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire,
non deve fermarsi alle parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire
ai concetti e ai ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto
pel quale si costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è,
evidentemente, lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o
s'impara a memoria un libro. Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate
idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi
scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia
quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli coi quali
il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così sciocco
ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente “siamo
scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole, e ad
imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e di San
Tommaso. Ma pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle formule e
da quei libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e, mediante u n
positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se li approprino,
facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale, benché riesca
(nihil sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri pensatori, siano
essi Hegel o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo riuscire a
conclusioni già scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la libertà
della ricerca; giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel non aver
nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato
vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è
garantita, in altro non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto
l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol
quando il vero effettivamente conosce. Ma che cosa fanno, rispetto alla
scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male
intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano,
essi soli, così insensati da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero
ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi
non già compiere quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale
ognuno può riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia
scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola,
l'una e l'altra Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici
d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano,
riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o
libri altrui, con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola
che già abbiamo udito deplorare. Accusa alla quale, evidentemente, non si
può rispondere altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla
quale è partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler
indicare col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e
siano pur di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni,
e non il concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo
scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la
irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca.
Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse
altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano
vere alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale
di colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non
d'un pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così
com'è, ma dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e
ripensando, e non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo,
sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non
c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma
la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e
respingendo da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la
dottrina scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o
positivistiche, materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è
sempre per quel tale equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli
avversari della scolastica si compiacciono d'insistere. Infatti, una
dottrina, come or ora s'è visto, la si formula in parole e in libri che,
naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno, debbono per
forza apparire un puro dato, esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché
colui che esamina la dottrina proposta non sia in condizione di passare
all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina
medesima, persuadendosi così anche della bontà ed esattezza di quelle
espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli erano apparsi
qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla,
imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può afferrar la verità
immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi,
non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le
dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche che siano.
Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un
primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè
colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria
idealistica o positivistica, materialistica o scettica. Il che è ancor
più manifesto quando si tratta della scuola e dello scolaro; che, appunto
perché scolaro non è ancora in tali condizioni da poter riscontrare da sé e
colle sue sole forze la verità della dottrina insegnata e deve, ancora per un
pezzo seguitare a imparar libri e definizioni e formule delle quali non scorge,
o scorge solo imperfettamente la ragione. Che se in questo fatto cosi semplice
si vuol trovare a tutti i costi una oppressione e un vincolo alla libertà del
pensiero umano, allora non soltanto la scolastica, ma anche ogni altra
dottrina, idealistica o positivistica, materialistica o scettica e, magari,
eclettica, si dovrà dire oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero,
e perciò, in quanto tale, oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole
si dichiara svisceratamente amica della libertà e del progresso. Non si vede
infatti perché il proporsi come testo di studio San Tommaso debba esser più
oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché
l'imparare definizioni e formule scolastiche debba esser più avvilente che
imparare definizioni o formule positivistiche o idealistiche, vero essendo che
in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato trovare una
via d'uscita. O il presentare una dottrina restringendola in alcune formule e
in alcuni libri ed autori, che in un primo tempo appaiono, necessariamente,
allo studioso come puri dati esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui
(salvo a ottenerne, in un secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è
ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la
scolastica, così come altri insegna l'idealismo o il positivismo o di prendere
per testo San Tommaso così come altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è
ammissibile, la scolastica diventa, certo, una dottrina oppressiva,
incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero umano, ma anche
l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino l'eclettismo diventano
dottrine altrettanto retrive e incompatibili con l’attività e la libertà del
pensiero umano. Ciò è tanto vero, che, in ogni tempo, ci sono stati
autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per essere imparziali e
non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato oppressiva, antiquata e
insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia tendenza o dottrina
appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la loro vita
intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei sistemi.
Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di non
credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non avere un
sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche altro tipo
simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo medesimo dal
quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina rigorosamente
definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior modo, anzi,
l'unico modo di non opprimere il pensiero sarà addirittura quello di non
formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né
materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale
dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati, legislatori, maestri
e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito, il difetto d'essere
inattuabile. Colla pura e semplice denunzia di un equivoco verbale cadono,
dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la
filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o di formule da
ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da pensare; così
come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una
dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente o
arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che
mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe
nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio
avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di
essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti
filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una
rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione
religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono trattare
dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito e
dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia
molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia
“scolastica” che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi
ultimi termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che
non è ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica,
laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la
filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre
altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver
adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della Rivelazione
cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di questo secondo
metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la ricerca
filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione
religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli
argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che
una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica.
Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare
filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da parte del
discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne
occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che,
perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e
l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica
appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né
più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si
possa decidere su due piedi quali filosofie siano per riuscire,
nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale criterio è
soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o minore verità
delle filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già abbiamo
avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e le altre
riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché
solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della
persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle
quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che
riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò,
nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica,
qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di
libertà colle quali si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci
ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche
col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro
la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a
quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più
notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente
pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di
oppressione e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già
detto: per la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori
del pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre
debbono per forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità
e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano,
si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una
sola dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre
un atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora,
a quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo
scolastico non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua,
il filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia
della filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il
discepolo a “crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame
più attento, questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si
rivela almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo,
esso cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il
gran numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che
coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si
direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una
pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di
guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il
dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge
previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno
malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da mille,
che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte dottrine
filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e colla
libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto diverse
come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto diffuso ai
giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra loro due
ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se, infatti, una
dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un orto, si
avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto lo
spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta dietro
i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina non è
un campo o un orto, bensì un atto immateriale del pensiero, e in quanto
tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità. E se
riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di
cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo:
ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale
si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto
immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un
cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè
pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è
inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è proprio
l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo cambiamento
di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel tranquillo ritmo
progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un simulacro di
progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza dei molti
sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui dal
momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno invertite e
quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre nella scuola
molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una cosa assurda
com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E viceversa, quei
filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo fanno onore alla
loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici fautori d'uno spirito
sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può aversi dalla conoscenza
della verità. Ma qualcuno può ancora obbiettarci: il vostro ragionamento
ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la vostra concezione della
verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la verità è tale che possa esser
colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte le altre, voi avete ragione
nel voler che quella sola dottrina venga insegnata. Ma, e se la verità non
fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma si trovasse in tutte le
dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo, allora, ragione noi di
sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i principali sistemi filosofici,
sia utile e necessaria? La risposta a questa obiezione non può essere che
una sola: non esistono due concetti differenti della verità, benché esistano le
parole colle quali ci si illude di esprimere un concetto della verità diverso
dal nostro. Ma sono vuote parole; e la dimostrazione ce la forniscono gli
avversari stessi. Quando essi dicono, infatti, di non creder vera una teoria
filosofica ad esclusione delle altre, ma di tener vere tutte le teorie che la
storia della filosofia registra, che cosa fanno essi mai se non sostenere e
difendere come vera una loro teoria filosofica particolare? Dire che la verità
è in tutti i sistemi filosofici, non è forse sostenere una teoria filosofica? È
il solito argomento contro lo scetticismo e l'eclettismo: filosofie che
proclamano, sia di non creder vera alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle
tutte, e intanto cominciano, sotto mano, col creder vere se stesse e solo se
stesse. Ora, la contraddizione è evidente. Ritener vere tutte le filosofie
vorrebbe dire ritener vere anche quelle filosofie che affermano esserci una
sola filosofia vera e tutte le altre esser false. Ma ammetter queste filosofie
vorrebbe dire distruggere appunto quella nozione della verità alla quale tanto
si tiene, e che esclude assolutamente potersi sostenere la verità di una sola
filosofia, cioè distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde,
una delle due: o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso
tipo restano fedeli al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna
tutte le filosofie, e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero
anche il concetto della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le
filosofie, ma eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto
al loro, e allora la loro famosa tolleranza e larghezza di vedute è
finita, ed essi sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato
col fatto che la verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in
alcuni, e precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con
l'eclettismo, cioè, in ultima analisi, in un sistema solo. La libertà,
dunque, che la filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è
molto simile alla libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla
a suo modo purché, però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti.
Libero ognuno di scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo
sistema sia l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col criterio
fondamentale dell'idealismo: essere la verità in divenire continuo ed essere,
perciò, vere tutte le filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché fuori
di questo concetto non v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo
ammettono, non sono filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi
in considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente
ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più
importante, cioè il concetto della verità, tutto il resto ne viene di necessaria
conseguenza, e si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in un modo
piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con l'altro,
e di compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità inventiva.
Allo stesso modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che in quelle
tali democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra
costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che ciascuno si
diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della propria
dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli stessi
uomini politici che detengono effettivamente il potere. Così la storia
della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta
larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza
di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai
giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il
concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero
umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia.
Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S.
Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di Spencer, e che ognuno vi può
spaziare entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e
del kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta
di un dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta variamente
travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele e San Tommaso, Kant ed Hegel,
Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a rappresentare
un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista in germe, più
tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista evoluto e
progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma prepara così la
strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso, sempre e soltanto,
la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme, circa le quali, anzi,
si può concedere la massima libertà, purché la sostanza sia sempre
quella. Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un filosofo
idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che
l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del
vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per
risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa
dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in
luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una
dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur
questa realtà la sola storia) e mediante essa vi assumete il diritto di
giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più
intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non
precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che
cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono
davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi
dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono,
parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o
no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la
storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle
aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano,
come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia
scolastica? Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte,
la posizione della scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella
di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la
propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la
scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di
dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto
d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente
accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici
riconosciuti vicini alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per
la scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel
secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né
caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o
colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al
XIII, o perché debba esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da
molti sistemi anziché da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e
codino debba averla vista meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e
cintola. E ciò anche a prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci
mostrerebbero che la scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non
meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente
moderatissime - non meno di qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra
modernissima “novità” filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e
così via. Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che
l'arte di G. D'Annunzio, o di F. T. Marinetti è superiore a quella d'Omero e di
Pindaro. Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte moderna: ora,
dai tempi antichi, dei Greci, ad oggi si sono effettuati innegabilmente dei
progressi; dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in progresso su quella d'una
volta. Un tale ragionamento ci farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe
scolaretto che non ne sapesse scoprire l'errore pel quale, dal fatto che
un'opera d'arte è venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche
migliore dell'altra, e dai progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze
naturali, nella vita civile e nella produzione economica, si vorrebbero
inferire i suoi progressi in un campo del tutto diverso qual è l'artistico.
Ora, lo stesso errore che è derisibile applicato alla storia dell'arte, non è
meno derisibile se applicato alla storia della filosofia ove il professore X od
Y, autore di un novissimo sistema, dovrebbe saperne più di Aristotele o di San
Tommaso, sol perché è nato tanti secoli dopo. Si crede di negare tale analogia
fra la storia della filosofia e quella dell'arte con l'osservare che l'arte è
l'espressione del temperamento individuale dell'artista, che è, appunto come
temperamento individuale, non trasmissibile, e perciò esclude il progresso da
uomo a uomo e da tempo a tempo, mentre la filosofia è la conoscenza d'una
verità universale ed astratta, che può e deve, quindi, essere trasmessa e
progredire. Ma si dimentica che progresso possibile non vuol dire progresso
reale, e che anzi il progresso filosofico, il quale sarebbe necessario e
ineluttabile se l'uomo fosse solo puro intelletto come gli angeli, ha da fare i
conti, nelle attuali condizioni umane, proprio colle attitudini, coi bisogni,
colle tendenze, colle passioni, cioè, in una parola, col “temperamento” del
filosofo, che è tanto personale, intrasmissibile, e perciò non suscettibile di
passare, progredendo, da individuo a individuo, quanto il temperamento
dell'artista e che influisce sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto
il temperamento dell'artista sulla produzione dell'opera d'arte. E con
conseguenze assai più gravi, poiché se all'arte basta riuscire sincera
espressione d'un temperamento per essere arte, e se anche temperamenti mediocri
possono riuscire artisti, senza bisogno d'arrivare all'altezza di Omero o di
Dante; alla filosofia non basta essere espressione anche sincera d'un
temperamento personale per riuscir vera, anzi, il più delle volte la
mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento individuale d'un
filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la verità e il fargli
produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde segue che il
filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter l'ala vicino
alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché, nel suo caso la
mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e la filosofia
vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non ammette
sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai grandi
e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe saputo
scoprire. In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi filosofi,
come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche che la
Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione cronologica né
del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le sue buone
ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di filosofi, come
la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e che l'opposto
criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo capace di
“creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E può essere
anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della filosofia, così
come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo scovare i poeti a
decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la vera arte e la
vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo la grande
maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta, invece,
di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. Possiamo dunque riconfermare, senza tema
di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico, idealistico o
scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni sforzo
contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale
necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il
sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si
rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi
consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio,
dello scetticismo e dell'eclettismo. La verità di questa proposizione
risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano
di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola
moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e
il cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il
pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più
ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data
dal duplice significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o
“giustificare”, che una volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina
e accettarne la verità, e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla”
storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i
bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel
primo senso, allora è certo che la scolastica non può ammettere e insegnare
come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma
è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema
simile possono ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo
l'opposizione della scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto
l'opposizione degli altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di
“giustificare” nel secondo senso, allora anche la scolastica si può prendere il
gusto di fare una elegante rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono
stati da che mondo è mondo, metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e
ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare le cause che li hanno fatti
nascere e ne hanno garantito il successo, corredando il tutto con un grande
apparato di erudizione critica e una sesquipedale bibliografia. Può prendersi
il gusto, diciamo, poiché in realtà la scolastica, possedendo un concetto della
verità molto più severo ed elevato di quello che mostrano d'avere tanti sistemi
moderni, è sollecita più della formazione mentale, che della brillante
informazione ed erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non accada loro
questa disgrazia: «necessaria non norunt, quia superflua didicerunt»: il che la
conduce a limitare, nella scuola, più che sia possibile questa parte
storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono i sistemi moderni, perché
tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed eclettismo. E allora la
discussione sarà, non più sulla necessità di tener per veri o meno questi o
quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare, nella scuola media,
un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e, specialmente, alla sua
parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della quale adesso non
intendiamo occuparci. Ma l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente
pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può
facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri avversari perché la
scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi che hanno avuto
fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha
dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E come allora ha potuto
svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per tanti rispetti
superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa
domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono fra i
sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà,
poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che
solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto dell'umanità è una
trascurabile minoranza, può in ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra
i contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono
effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea del loro
sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante
l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso
coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende,
per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale
che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come
sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è
organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è libero di seguire le
proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i
sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema
d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di
specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita dell'umanità nella
sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità
progredisca e costruisca una civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi
dotti sono errati, potendo la verità farsi strada da sé ugualmente, benché in
forma imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze
stesse. Ben più difficile e ben più intollerante è, invece, la posizione
degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono costretti a condannare non
solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un
sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa
verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è
una dottrina filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui
verità o falsità non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una
religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta,
seguita e praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la
maggioranza del mondo civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una
azione importantissima su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e
sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica, sui costumi non
meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno che sull'economia.
Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione del mondo moderno e
della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine di Kant, di Hegel,
di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le hanno conosciute e
seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata sull'illusoria
affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua vitalità, estensione
e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che in sì gran parte
deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver affatto questa
malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il cristianesimo e
il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema. Ma è proprio qui
il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro sistema
filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il cristianesimo,
bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde precisamente da
ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione divina effettuatasi
in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che si pensi solo come
frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non è più
cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma nell'idealismo. Non
è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con diverse parole, gli
avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il cristianesimo vivo ed
operante come religione del mondo moderno, la quale tanto poco può allontanarsi
dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo attenua e addomestica
un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo, sparisce come
religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre filosofie di
“cenacoli” intellettuali, quasi a darci una riprova della costituzionale
incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed assimilarsi il
principio fondamentale del cristianesimo e del cattolicesimo. E dunque la
difficoltà resta, per gli avversari, in tutta la sua estensione. Se il
cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per opera sua quella civiltà che
pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad esistere, dato che anche
oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione e un'importanza
infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico? Condannare il cattolicesimo
significa davvero ridurre tutta la storia a “storia d'errori”, ben più
che non lo fosse, o potesse parerlo, per la filosofia scolastica; significa
spezzare in due la grande tradizione cristiana della civiltà moderna; significa
ammettere, irragionevolmente, che prima di Kant o di Hegel tutti i filosofi
bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle tenebre dell'errore; significa,
infine, negare o misconoscere i maggiori bisogni dell'umanità stessa, che ha
sempre cercato, prescindendo anche dal cristianesimo, di risolvere i suoi
problemi, piuttosto che colla filosofia, soggetta alle discussioni e agli
errori di pochi dotti, colle religioni, che tutte si presentano come rivelate
da Dio, qualunque poi sia il modo col quale concepiscono tale
rivelazione. Giacché la differenza fra il pensiero della scolastica e il
pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di “moderna” è, si potrebbe
dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, la
possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel non ammettere quella,
l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua rivelazione.
Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia moderna parte, in
realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica quanto mai settaria
e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al pensiero: purché,
però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e la possibilità
della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si accorge che, con
tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in sostanza, alla propria,
tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa entro un circolo ove non è
più possibile alcun reale progresso e sviluppo del pensiero. Lo hanno osservato
anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva simpatia per la scolastica,
che il pensiero umano ha in sé una brama irresistibile di infinito che domanda,
come suo adeguato oggetto, un Oggetto parimente infinito ed assoluto: Dio. La
filosofia moderna gli toglie questo oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la
brama dell'Infinito resta egualmente, ad esso sostituisce una falsa immagine,
il mutamento indefinito del pensiero medesimo, nella sua irrequietezza e
insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo storico e il divenire di questa
insoddisfazione stessa. Senza por mente che l'Assoluto non può consistere in
una negazione o in una privazione, e che il semplice mutamento non è progresso
o sviluppo. In tal modo il pensiero umano, lungi dal progredire, resta
perennemente immobile, nella sua scontentezza, volubilità e insoddisfazione che
è sempre identica; un apparente progredire che è, in effetti, un ritornare
sempre sulle stesse posizioni, come la storia di certa filosofia
malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la scolastica, concludendo
col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione apre all'anima umana i
vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile, ove il pensiero può
innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare, per quanto si
sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine, niente altro
che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e progredire:
«Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus est »: ecco
l'unico programma - il programma della santità cristiana - che consente anche
al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso infinito. Nonostante
ogni dichiarazione in contrario, la filosofia moderna non è affatto disposta ad
aprire la scuola a tutte le più diverse e disparate dottrine. Che, anzi, essa
persegue tenacemente la realizzazione di un suo ideale, e si propone - né
potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola alla sua propria fede. Fede
intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più intollerante ed esclusiva
delle altre, perché non sa di essere una fede e una dottrina anch'essa, e con
tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le altre dottrine quanto più
si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante autorizzata della verità
e della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e soffocante, affatto
inconciliabile colla sana libertà della ricerca scientifica, e addirittura
contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento dell'anima umana, nella sua
educazione e nella scuola. Poiché l'anima del giovane e del fanciullo, ha, se
così si potesse dire, più ancora che non l'anima dell'adulto, bisogno
dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio, non può darle che vani
trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad essere infranti subito dopo
che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il meccanismo. Pedagogia
cattolica Credo che a parlare di un'opera come questa Rinnovamento
dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano 1921) di Filippo Crispolti, possa
valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben intesa libertà che
va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un fatto di più
immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche del Crispolti non
hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene d'una
discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano o
dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il
Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e
nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai
alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver
appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del
bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto
della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita.
Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni
alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti
alla congiura del silenzio! Noi, per conto nostro, diciamo subito di non
credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per
annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore. L'esperienza
in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa;
ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope
professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente
del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si
celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone
poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa,
talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da
una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici
forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza,
all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come il Crispolti,
ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a ricostruire
idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano col portare
nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato quanto meno è
irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa di abbracciare
tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con piena libertà, su
quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se così non fosse,
l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero riusciti
inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart, bensì anche
ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici. Il segreto
di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”, nel loro
irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita, prima di
fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente lievito d'una
personalità vivissima, aperta a tutte le voci dello spirito, sensibile a
tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze che maturavano nei
nuovi tempi. Tanto basta, e ne avanza, a giustificare il Crispolti di
aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine sull'educazione. Il
Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo cattolico e nel campo
degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una presentazione. Ed era quasi,
direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è manzoniano nel miglior senso
della parola, ch'egli dovesse dar questo segno tangibile d'interesse per le
questioni educative, ove si pensi che quel sano lievito di modernità ond'è reso
così giovane il cattolicesimo manzoniano, risulta proprio dall'aver il Manzoni
intensamente vissuto il cattolicesimo stesso, affiatandolo con tutti i problemi
della vita e della storia, quali il secolo XIX li impose alla coscienza
europea, in una forma in cui il problema morale e il problema - in lato senso -
pedagogico tendevano sempre più a penetrare di sé la letteratura. Salutiamo
dunque, anzitutto, la bandiera sotto la quale il Crispolti entra nel nuovo
agone. Del Manzoni pensatore fu detto che egli, pur riuscendo spesso
ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto filosofo per una certa sua
incapacità a mettere in questione i “primi principi” e per una certa sua
continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina religiosa, anche se al
fine di far vedere come partendo da essa diventino volta a volta chiare le
singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se con ciò s'intende
negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto metodo largamente
deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una dottrina che lo spiegare
in base ad essa i singoli concreti problemi della storia e della filosofia?) ma
è esattissimo come caratteristica del procedimento prediletto in siffatte
materie dal Manzoni e - cosa che qui c'importa soprattutto - anche dal
Crispolti. Le sue lettere pedagogiche s'ispirano infatti, come egli stesso ci
dice, al “programma di far toccare con mano in quale amplissima misura il
Cristianesimo debba contribuire alla formazione dell'intero carattere morale e
a certe necessità dello sviluppo intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non
s'ingegnano prima di dimostrarci perché sia un bene morale e una necessità di
ragione che il cristianesimo debba avere un siffatto influsso, o perché non si
possa concepire, poniamo, una educazione che dal cristianesimo prescinda
interamente o al massimo ne tenga conto solo come uno fra altri fattori, uno
fra gli altri prodotti dello spirito umano, alla stessa stregua, p. es.,
dell'arte, della scienza, della filosofia, delle antichità classiche e via
discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui nella sfera dei “primi principi”,
delle grandi affermazioni e negazioni: il Crispolti, benché uomo di vasta
cultura e non solamente letteraria, non ha affrontato in pieno la tormenta del
pensiero filosofico moderno nel suo duplice aspetto immanentistico
dell'idealismo e del positivismo. La religione non è quindi per lui qualcosa
che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro e insieme nella scienza
moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far fruttificare. Onde, il tono
fondamentale di tutta la sua indagine, che è rivolta a quelli di casa prima che
quelli di fuori, ai cattolici prima che ai “laici”, filosofi o pedagogisti,
anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio vigile su tutto il mondo circostante
della cultura e della vita. Si direbbe anzi, più precisamente, che il
Crispolti avesse voluto con queste sue lettere parlare a quelli che trascorrono
nell'altro estremo, soffrendo d'una malattia opposta al filosofismo laico, a
quei cattolici cioè che, per eccessiva sollecitudine di mantener la loro fede,
in tutta la sua purezza, salva dalle concessioni snaturatrici alla mondanità,
non annettono, nel campo educativo, grande importanza a tutto il complesso
delle doti spirituali che, pur non interessando apparentemente la
religione, fanno dell'uomo un uomo colto o rispettabile nel significato mondano
della parola, poniamo al coraggio, al senso della responsabilità sociale, alla
cultura dell'intelletto. Frutto di siffatta timidezza che, per timore di mal
fare si appaga del non fare, è, secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra
l'educazione dell'uomo e la religione, di cui non pur l'uomo ma la religione
stessa finisce, in ultima analisi, con l'essere vittima nella comune
estimazione dei buoni. Ecco degli esempi: quando noi vedremo il probo
commerciante tener fede alla sua firma, il coraggioso nuotatore salvare uno che
annegava, la brava popolazione d'un villaggio distrutto dall'incendio
accingersi con virile rassegnazione a ricostruirlo da sé, noi applaudiremo
tutti costoro in quanto coraggiosi, probi, o virilmente rassegnati in faccia
alla sventura: non ci verrà mai fatto di applaudirli in quanto cristiani, di
attribuire, cioè, lo splendore di queste loro qualità ad una educazione
religiosa e, più specificamente, cristiana o cattolica. Altrettanto avviene
nella coscienza del cattolico stesso, il quale, pur apprezzando certo in cuor
suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una conseguenza
imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è disposto con
facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche senza lavorare
a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta di doti che,
come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto, condurre facilmente
alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad esempio di quelli
contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane troppo curate
dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o quanto meno finir
col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non essere, a lungo andare,
proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché così si crea in tutti la
persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo delle fondamentali
attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel cristianesimo, anziché
un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né l'uno né l'altro; ch’è
quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna, dopo un non lungo giro,
se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al laicismo educativo. Contro i
quali al Crispolti sembra aperta come unica via quella che «l'educazione
cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna abitudine o inclinazione
deplorevole che non debba venir combattuta a titolo religioso; nessuna
abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia cagione e valore»
(p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto programma? Il Crispolti,
sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla morale cattolica rammenta che
il Vangelo contiene qualsiasi ideale di perfezione umana e che i sentimenti
naturali retti non possono mai essere in contraddizione colla legge di Dio, e
tanto gli basta per dimostrare come la religione cattolica abbia l'attitudine a
informare di sé qualsiasi magari raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo.
Che fu, in sostanza, la grande preoccupazione del romanticismo neocattolico
successo all'illuminismo rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui
famosissimo libro vuol essere appunto una descrizione di tutti i vantaggi
arrecati in ogni suo campo d'attività allo spirito umano dalla religione
cattolica. Ma il Crispolti ha anche una preoccupazione nuova che certo,
direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente,
dev'essergli derivata dall'influsso dell'etica moderna in uno dei suoi
fondamentali problemi. “Politica della virtù”, definì or non è molto il Croce
il concetto sostituito dalla più recente speculazione al vecchio rigorismo
kantiano; “politica”, ossia non impossibile sterminio di tutte le umane
passioni e tendenze sulle cui rovine si erga la legge morale, ma loro
sapiente organizzazione a beneficio della moralità stessa. Sarebbe troppo
domandare a un cattolico, per cui la legge morale deve sempre rimanere, in
ultima analisi, trascendente, né può comunque risolversi nella sintesi delle
passioni, il chiedergli di condividere senz'altro questo concetto. Dal punto di
vista cattolico vi ha sempre una soluzione superiore del problema, la santità
che non ha bisogno d'una politica della virtù poiché «non raggiunge le virtù e
la conseguente eliminazione di ciò che loro contrasta, correndo loro dietro una
per una e poi tenendole tra loro serrate con un'agitazione scrupolosa e a
fatica, ma le coglie tutte insieme, per un ardore che tutte le supera e le
fonde» (p. 16). La carità, l'amore di Dio possono, nelle anime educate alla
santità ed elaborate dalla grazia divina stessa, essere motivo sufficiente
dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda il sussidio di speciali
abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti umani. Ma, giustamente
ammonisce il Crispolti, la santità eminente non è da tutti. «Molti educatori
sentono, sia pure talvolta in confuso, questa complicazione dell'economia della
vita cristiana; sanno che l'ardente carità, dalla quale può venirle la maggiore
semplificazione pratica, non è dato ad essi d'infonderla negli alunni, poiché è
un raro e diretto dono di Dio alle creature chiamate a santità e allora, senza
che formulino a sé e agli altri il proprio timore, temono che il voler trarre
dal cristianesimo anche l'addestramento alle qualità naturali, belle per sé ma
che non sono ancora virtù, come il coraggio, l'amabilità nel convivere, la
coltura della mente, e via discorrendo, accresca la difficoltà dell'educazione
cristiana, costringendo gli animi ad accogliere tante più cose, quindi a
tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a rischio di più frequenti
discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro, ingiustificato e pericoloso,
poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a mancare - e impossibile è
all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla puntualmente nell'educando -
verranno d'un subito a mancare anche tutti gli altri motivi (che non si sono
coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di solito gli uomini si garantiscono
pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni metodo di educazione è condannato a
prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché i sommi oltrepassano per lo più le
sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e questi mediocri sono la gran
maggioranza degli uomini non chiamati a santità, ma non per questo da
abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali. Prendiamo, secondo
l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella di Don Abbondio, che
per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don Rodrigo a obliare uno
dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso di un uomo al quale
manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile l'adempimento di
qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli umani con cui il
“laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata educazione del
coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un ragazzo e che i
maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in cui il dovere
parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero voluto insegnare
l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa avrebbero dovuto fare?
Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il calore dell'amor
divino, avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena che poteva in
certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli esercizi
convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più facilmente
a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura». E allora Don
Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più alti motivi
che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato innanzi alle
minacce di Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria coscienza
dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello di
esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli
ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro
l'educazione cristiana stessa la necessità d'una «politica della virtù». Poiché
il Crispolti rammenta certo che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo»
e che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili
vie della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e
la saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla
ben intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di
difese contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico,
l'educatore dovrà dire: “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser
preparati perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale
di questa preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori,
con tanto ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche
improvviso. Ma v'è una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser
battuta anche perché a mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in
questa che in quella: e consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei
rischi e quei disagi, seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p.
49-50). La «strada più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene
concepita in un senso diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica
immanentistica come quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per
cui ciò che là era fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova
gradazione di valori richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel
significato umano della parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che
sorgono sul vero e proprio terreno praticomorale, come il coraggio o
l'abnegazione od altro, ma altresì quelle che sono immanenti in qualsiasi altra
funzione dello spirito, come poniamo la genialità estetica o il vigore
speculativo, debbono necessariamente avere alcunché di imperfetto, frutto
appunto del loro carattere umano: allegarsi, cioè, con una certa dose di
orgoglio, compiacenza di sé, soddisfazione, che le rende tutte «più o meno
passionali» perché presentano all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli
ch'esse offrono, il loro esercizio sempre come un allargamento e una
esaltazione del proprio io. Di contro ad esse sta la vera, perfetta, suprema
virtù: la santità, l'unica che non si fondi per sussistere sopra siffatto
stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio. Talché, appellarsi alle une
per rendere possibile o, comunque, preparare, facilitare, supplire l'altra,
significa da un punto di vista religioso ricorrere già ad una «politica della
virtù»: non perché si sia facilitata la virtù ricorrendo alla dialettica delle
passioni come nell'etica immanentistica, ma perché, esorbitando la virtù «pura»
dai mezzi di educazione umana, si è ricorso per garantire l'uomo dal male ad un
sistema di virtù «umane» e perciò già in sé stesse «passionali».
Conclusione di tutto ciò è dunque per il Crispolti che l'educazione cristiana,
ben lungi dal disinteressarsi delle doti umane, deve e può servirsene come di
mezzi atti a facilitare potentemente quell'economia delle virtù che solo anime
eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè,
in ultima analisi, prendere anch'essa in considerazione il curriculum della
consueta pedagogia, evitando due errori egualmente pericolosi come la
dissociazione delle attività umane dal fine religioso e, insieme, la incauta
persuasione che l'uomo pio sol perché pio riesca eccellente in tutti i campi
del pensiero e della vita. Incominciamo dall'educazione fisica, di cui il
Nostro si occupa nella lettera su l'educazione cristiana del coraggio materiale
per riprendere acutamente, dal proprio punto di vista, quel concetto della
pedagogia moderna secondo cui il rinvigorimento del corpo non è già la
formazione del «robusto ed agile animale», bensì quella del robusto ed agile
uomo, che ha l'obbligo di preparare il proprio organismo fisico a tutti gli
sforzi necessari all'adempimento dei propri doveri di essere spirituale. Al
qual proposito bene osserva il Crispolti, parlando delle società cattoliche di
educazione fisica, il loro carattere religioso dover consistere, non tanto nel
titolo di cattoliche o nel compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel
tener sempre presente alle menti giovanili «lo scopo di far servire le membra
fortificate all'adempimento degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù
sopravanza l'obbligo... cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i
giusti limiti la loro progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili
satireggiatori della «ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione
rispondere che, oltre a una ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina»
cattolica, da quando in alcuni giorni della settimana si preparano nelle case
dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello
religioso su un'operazione umile come il mangiare, perché la pedagogia cristiana
sdegnerà di porre la stessa impronta su qualsiasi attività umana? «Non si andrà
incontro così ad un pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo della stessa
educazione religiosa il pieno valore della persona umana, questa diventi
superba?» (p. 72). No certo, se teniamo presente che la pedagogia cristiana ha
in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella superbia
ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che
e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente pedagogico.
L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il
Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'«ansia costante e
smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di potervi
scoprire dei pregi e provarne compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo
dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella
tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a
Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà è concepita in forma positiva, come un
avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di
precauzioni » (p. 74) e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da
non aver tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio
valore e la propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a
Dio. Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale
assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio,
si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire
la verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la
difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di
qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel
mondo dello spirito è frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in
un'ora di umiltà, ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa
che era fuori di noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata
umiltà verso la scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La
filosofia qui rincalza la religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di
sottoscrivere queste parole. Il concetto pagano della immortalità come gloria è
tramontato irrevocabilmente appunto dopo il sorgere del concetto cristiano
della umiltà. Questa introduzione dell'umiltà come principio fondamentale
nel sistema della pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già
abbiamo accennato, che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista
il dovere di preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle
sue immanenti leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa
a rendere automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della
scienza, dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del
curriculum pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà
cristiana sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto
e a renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza
di fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le
primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa
offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della
propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel
carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in
genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro
dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di
avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del
carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio
e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio»
pretendendo ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che
solo in casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché,
tratte le somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di
addottrinare l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di
rivolgere la sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una
cultura religiosa quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto
acume il Crispolti, la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani
alla fede, fra l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita
intellettuale. «Le quali sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure
non valgono a salvarla da tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in
cui fu di moda la formula stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola
che si apre è un carcere che si chiude "; ci salvano... dai gusti
bassamente viziosi; moltiplicano i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro
senso del vivere; procurano all'uomo una esplicazione dell'attività ed un
interessamento che unico dura oltre la giovinezza e la maturità degli anni »
(p. 137). Ch'è, in fondo, lo stesso principio della cultura come disciplina
dello spirito su cui si fonda la pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto
con una osservazione che meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede
pedagogica. Il sapere è certo un potentissimo esercizio di superamento dei
propri impulsi particolari a beneficio d'una legge superiore, ma può esso
bastare da solo alla formazione del carattere morale? Il cattolicesimo e la
Chiesa hanno da molto tempo risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema
di pratiche dirette precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli
esercizi spirituali di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve
parentesi, il Crispolti ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei
grandi pedagogisti che, cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad
esempio, di Froebel o della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza
d'una elaborazione dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo
a credere «secondo spirito e verità» è certo ch'essa va preceduta dalla
conoscenza immediata della religione stessa in tutto il suo complesso di riti,
culti, precetti e loro applicazioni; così come lo studio della filologia non
può nascere se non dalla diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La
religione deve, per usare un'espressione cara a quei grandi pedagogisti,
crescere con l'uomo stesso: essere sentimento, pratica, culto, prima che
filosofia o teologia. Argomento sempre importante per quanti, come noi,
vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e proprio che cominci col
catechismo e credono un assurdo sogno illuministico quello di assicurare
l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante un pò dappertutto
nella vita spirituale. Qualcosa di simile al già detto per la cultura
intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio dell'umiltà riceve
un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su i pericoli della
letteratura apologetica nuova. Ove il Crispolti ha avuto sott'occhio i gravi
pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una poesia che dal
cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi d'ispirazione, anche una
presunzione della propria superiorità su l'altra letteratura o poesia non
cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il cattolicesimo non ha, oggi,
poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'Annunzio o ad un Pascoli? La
ragione è sempre la stessa: pretendono gli artisti cattolici «di poter ricevere
o tradurre nelle opere le ispirazioni artistiche (della fede), senza nessuno
sforzo da parte loro». Tutta la fatica, secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono
quindi che ogni opera di soggetto religioso, purché lastricata di buone
intenzioni, ottenga il favore della critica a preferenza di opere anche
elaboratissime di autori profani od avversi. Quando poi debbono essi stessi
confessare che i Canti di Leopardi così lontani dal Cristianesimo, valgono più
dei canti loro, non sanno come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede
abbia fatto torto a se stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver
fatto verso la fede tutti gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a
rendersi i degni interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa
della luce ma della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta «i figli
delle tenebre» sono stati più prudenti dei figli della luce (p. 163). Ciò è
quanto dire che, dal punto di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha
bisogno d'un apposito tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può
dispensarci. Ma la seconda applicazione dello stesso principio che nel campo
estetico fa il Crispolti, viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero
moderno in sede filosofica e pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si
pensi che la degenerazione dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente
ridurre la cultura estetica a una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte
a far colpo sul lettore o di esempi di “bello scrivere” contro cui la critica
moderna ha tanto combattuto, è sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto
opposto all'umiltà cristiana: della vanità che ai pensieri veri e alle
convinzioni sincere, preferisce i pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti.
Umili perché casti «parchi e lontani da tutti quegli artifici che, piacendo ad
un gusto passeggero, fanno così facilmente il nido alla vanità» gli scrittori
classici: umili tutti coloro che non pensarono a scriver bene, ma «presi da
alti pensieri, da alti affari o da alti scopi morali, ossia tanto assorbiti
dalla gravità del proprio tema che la parola si facesse umile innanzi a quello»
(p. 158) riuscirono, perciò solo, necessariamente grandi scrittori. E
inversamente, grandi scrittori sono non soltanto quelli che fecero professione
di letterati, bensì «uomini in qualunque campo grandi, cioè tali, che a qualche
cosa di superiore la loro parola abbia dovuto umilmente ubbidire» (ibid.):
talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a far rientrare fra i classici
della loro letteratura anche San Francesco di Sales e Napoleone. Una siffatta
riforma della storia letteraria sulle basi dell'estetica moderna quale si è
affermata dal Croce in poi avrebbe in più per il Crispolti questo di
interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe l'introduzione dei
grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di vita. Ma
sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti viene con tanta
finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli molto spesso arriva
a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal pensiero pedagogico
e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero una conoscenza diretta
ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera su Le precauzioni
intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel parlare delle
ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il positivismo e
lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico postkantiano). Ciò
riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento se anche qua e là
porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone degli esempi,
scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere pedagogiche.
Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la morale, il
Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il fine
della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi per
attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza data
dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle situazioni
spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In linguaggio più
propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre sospesa a una
concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato quello che il
nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto superiorità
gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia. Poiché il
legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica e con
tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e la
filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi,
cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la
educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai
accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista
del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi
pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non
è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo
proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente
dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze
filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera
tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al
fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi
moderni, egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su
senza approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del
fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti,
oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo
fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che
in tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente
di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole
esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli
incomincia a pronunziare» (p. 132). È il principio del “punto di partenza” da
trovare nell'animo dell'alunno. Ma il Crispolti, con queste sue parole, viene a
dubitare che esatta conseguenza di quel principio sia l'identificazione
assoluta del mondo spirituale del fanciullo con quello dell'adulto, come
vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la quale il mezzo più sicuro di
educare il fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia pur con le debite
precauzioni - il mondo spirituale dell'adulto. Il Crispolti giustifica qui, in
certa guisa, l'idea di un mondo fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e
di altre simili cose respinte da alcune correnti della pedagogia moderna.
Valeva la pena che egli approfondisse questo suo dissenso e ne sviscerasse bene
le ragioni. Ma queste piccolezze sono poi un niente, in confronto alla
piacevole urbanità con cui il Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una
quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere,
come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere
ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua
lettera ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il
pensiero moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i
preconcetti naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna,
non per questo ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e
d'abitudini diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari
di natura e di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua
specifica fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver
dimenticato questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice
piaga che il Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e
quella delle donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto,
secondo il Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è
istruita, la donna, cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati
efficaci per l'uomo, «come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse
nessuna via di mezzo». E invece non si è pensato alla differenza di abitudini
mentali per cui l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi
interessi è più spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo
pedantismo del sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre
la donna, più docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla
scuola il sapere con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo
inconveniente c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo
i primi indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale
la cura di fare il resto. «La più elevata e piacevole erudizione delle donne è
quella acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per
un padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle
partecipare in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare
in loro non soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma
l'interesse verso di esse, ciò che è più difficile» (p. 200). Non importa se
per questa via la donna non otterrà delle idee precise e collegate
sistematicamente fra loro: per chi non debba proprio compiere un lavoro
determinato in un certo campo dello scibile come l'uomo, il beneficio della
cultura sta non nelle singole idee che dà, ma nella elevazione spirituale che
procura all'animo; elevazione per cui la donna «non pretenda di scoprire né di
classificare, ma giunga a compiacersi nella visione delle cose alte; non
s'affanni a far camminare il mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad
ocelli aperti e con amore» (p. 202). Giacché la difficoltà della cultura
femminile è tutta qui, non nel far assimilare alla donna un certo contenuto,
cosa di cui essa è tanto capace quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il
senso dell'importanza e del valore di ciò che studia; cosa assai più difficile.
Istruire la donna «è una difficoltà non intellettuale ma morale; è una
coltivazione non dell'ingegno ma dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni
tutte giustissime e sulle quali con qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo
col Crispolti. La riserva, se mai, sarà questa: che vi sono donne nelle quali
una eccezionale formazione interiore ha suscitato il bisogno di studi più alti,
e alle quali perciò non è possibile rifiutare la stessa cultura dell'uomo,
anche se esse siano per far valere in quella interessi tutti propri diversi da
quelli dell'uomo e per occupare, nella repubblica delle lettere, un posto a sé.
La stessa necessità di collaborare con l'uomo per fondare l'unità spirituale
della famiglia, può render talora necessaria alla donna anche una completa
cultura scolastica, giacché pur fra gli uomini ci sono in tal senso differenze,
e ciò che basta magari alla moglie di un colto professionista avvocato,
ingegnere ecc., può non bastare alla moglie d'un grande poeta, d'un celebre
filosofo, d'un illustre scienziato, i quali di necessità richiedono alle loro
donne una più robusta formazione mentale e una ben più vasta cultura per
esserne anche soltanto accompagnati, seguiti, intesi nell'esercizio delle loro
attività. Ed eccoci ora al dissenso. Parlando della cultura e dell' arte
pratica della vita, il Crispolti torna a proporsi indirettamente, per conto
suo, la vexata quaestio dei rapporti fra teoria e pratica, pensiero e vita. E,
naturalmente, vede da par suo la diversa formazione mentale richiesta agli
uomini d'azione e agli uomini di pensiero, nonché la diversità di funzioni a
cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un
dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo intensa cultura intellettuale un grave
ostacolo allo sviluppo del senso pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi
attorno intelligentemente senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto
ciò che ci ferisce la vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa,
che debitamente frenata dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali
e buoni nelle lettere e nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita
pratica, di quel che facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e
degli sfoghi retorici, nei quali la mente non osservava e si può dire non
pensava, ossia non acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma
si contentava di baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine,
funestissima alle scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte
la capacità quasi istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli
regolare, la conservava intatta» (pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia,
nel fatto, stato, anzi, che tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del
problema della cultura pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto
risolto lasciando inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va
bene. Ma che possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico,
no: le soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci
né le migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla
natura stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour,
d'un Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla
scienza e d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più
vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di
loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove
giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti
sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima
questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se,
invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte
degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione.
Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche
maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo
un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di
quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX
infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi
personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o
addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera
pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che
siffatte personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione
storica, non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi
stessi, prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi
barbarica e pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del
dominio, dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che
innanzi alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa
rispondere se non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra
fra due secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in
fine, là, «dove è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del Manzoni
temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi
che cristianesimo e modernità bene intesa sono in ultima analisi concordi
nel richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi
anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà
di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento
interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero,
che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis,
potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma
finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso
dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una
realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano
edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità
e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia
pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è
andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento,
innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un
Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte
all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i
suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica
richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di grandezza
più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo meno
reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che aspetta
meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di ciascuno, dalla
illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità per ciascun
uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio per
sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica
gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di
fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui
bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la
democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno attraversato
le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura e semplice
capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi
recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui
espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più
saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito
contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al
Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è
affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello
di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli
ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche con
un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il suo
normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non
essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi
personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un
subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della
retorica accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero
e lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito
altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio
italiano carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica
come eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle
doti pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia
difficile raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si
sono venuti formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma
ciò dimostra anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir
delle grandi personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un
singolare incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi
personalità sono spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente
individualiste: la loro attività politica si consuma in sé stessa come un
sogno, o come - fu già notato a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte
che non ha risultati fuori della sua bellezza; raramente si inquadrano
nell'armonico insieme d'un sistema che le perpetui e le fecondi. E in quanto
esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano appunto che l'abitudine della
retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico, un difetto dello spirito
europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica della pratica,
consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola, finisce col non
esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una religione e una
filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo, della Realpolitik,
dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo sotto tutte le
possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà in servigio dei
puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo stesso sano
istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa ciò, forse,
che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini pratiche? No
certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto l'uomo, e che
attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e sono, distinte, ma
non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte. Non è ancora spenta l'eco delle discussioni
suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione dell'Istituto
fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi autorevolissimi
(come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato il loro
contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel quale è
meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate libere
di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni altra
minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che «I Diritti
della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia
pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la
scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo,
sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi,
a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta
cortesia - dalla Rivista romana. Notano, dunque, «I Diritti della Scuola»
che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua
definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva trattarsi, come
pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del
gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti», ispirati a una ben
diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo» ma
«poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento religioso; e
non più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure più edificanti
del suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E
il significato di quelle espressioni è, sempre secondo i «Diritti della
Scuola», molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: «La
tendenza era dunque sempre più verso una educazione religiosa che
parlasse al cuore del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua
dei sentimenti più puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé
e per gli altri. Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella
sua veste letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il
proiettare la luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il
fanciullo dovrà percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a
poco l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia,
nei dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo
catechistico, anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal
sacerdote; e poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre
il giudice del maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come
la religione si impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e
forse non deve) dalla lettera dei sacri testi». Noi non vogliamo
rivolgere a «I Diritti della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono
state dette tante altre volte, e con intonazione assai meno cortese, che,
quanto alla forma, noi, e con noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da
eccepire. Ma è impossibile trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro
forma deferente e garbata, quelle parole celano una sostanza ben amara per la
religione Cattolica e per i suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si
basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come
incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe
minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i
«dogmi» e i «misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo
«irrigidimento»: il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della
fede cattolica, ma un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi
assolutamente incompatibili con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i
«sentimenti puri» del fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui
egli è ministro non possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o
«meccanico formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete
rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il
decreto Gentile 1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della
Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si
voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla circolare
del Gennaio 1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e l'anima
ingenua, ma vi converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la teoria, la
prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni così
diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con molto
rispetto ma con molta fermezza, «I Diritti della scuola». Ripetiamolo
ancora: sarebbe ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità d'un cuore
così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un
pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi
cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al
canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma
brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai
sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo,
assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone
davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale
è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre
scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli
apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più
begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come
«canto» ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le persone di più
difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua
opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano
a loro modo «poeti» non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale,
del resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta
cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione
dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre
scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è
evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una
volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo
nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli
assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del
tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che
riescono quanto mai plastici, sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo
anche delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli
elementi sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato
d'animo cui si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia,
quelle della Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste,
colla loro trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro
pensoso raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa
serenità costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la
natura medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le
stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali
sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione.
Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo
«intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei
suoi templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi
illetterate quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali
e poeti erano di là da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa della
liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe
desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile
zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va
facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società
francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele
Caronti per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei
molti, ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto
opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche
ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo
Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa,
mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il
grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie
sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e
giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno
potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa,
che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere
persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le panchettine,
le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario a scala
ridotta del metodo montessoriano. E passo all'altro, apparentemente più
scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che sarebbe, in fondo,
una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un catechismo degli
adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la esterna e
multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo. Evidentemente,
chi ignora l'una non può afferrar bene l'altra, a meno di non essere un
filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti puri, da
potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e anche allora
l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei mezzi che la
Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e praticare la
sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in fine l'uomo,
anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di anima e corpo,
di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di sorreggere il
proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque, facilmente, che
presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o comunque hanno
trascurato di completare la propria cultura religiosa con una buona cultura
liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia, cioè,
quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che tanto
dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze
dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato:
ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza,
si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o
ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del
più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della
transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e
sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne?
Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza
fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum
resurrectio et vita. Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il
catechismo puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un
insegnamento vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo"
condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui
viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta,
costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità
l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi
o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto
dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo,
la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica
odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni
inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state
discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani,
le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa
la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno
confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a
parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di
scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con
imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione
catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero
attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi
una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza
di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del
maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in
abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che
le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo
spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le
definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il
segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di
poesia, e perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile,
sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento
genuino della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione
fra il decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello
stesso ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi
della Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto
dare al fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre
belle cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del
Manzoni, il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più
ortodosso di molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il
Lambruschini o il Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la
circolare, o il decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del
loro autore che nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della
cultura o della filosofia italiana e non a quella della legislazione
scolastica. Il cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un
osso troppo duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a
maciullarlo e a convertirlo in poltiglia per uso delle loro costruzioni
metafisiche. Sotto questo aspetto, la nota de "I Diritti" è, per noi,
molto significativa e confortante: è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da
parte di chi aveva creduto poter introdurre il cattolicesimo nella scuola, come
veste mitologica inferiore d'una verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe
superato e divorato. Dal 1923 sono passati cinque anni e il cattolicesimo, ben
lungi dall'essere “superato” è lì, colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi
dogmi e i suoi misteri, che minaccia gravemente di "superare" gli
altri e di mangiarsi in due bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali
sta contendendo energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che
pure s'erano riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti "
hanno tutte le ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore
davvero, la sorte delle filosofie "evolute": il che, sinceramente,
non auguriamo. La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93
L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie "
nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Il problema della dialettica oxoniense suscita una
difficoltà. Il chiedere soltanto come è possibile che il tutore (Socrate)
comunichi al tutee (Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra
implicare, se non addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile,
dato che il termine "tra-smettere" o "co-municare" o
qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate
su Alcebiade ("conversare") non sembra possa riflettere, se non in
maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del
processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o
corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse
"co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una
moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si
"tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale,
non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto
proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo
complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia
«tras-mettere», nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere
trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come
Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto
di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del
soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile
che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade! XI suo soggiorno in Italia* Terminata la sua
opera, Schopenhauer non si decise a tornare nel Nirvana, come torse si
sarebbe potuto credere; al contrario senza nem¬ meno aspettare le prove
di stampa, egli partì pel paese più bello e più ottimista che vi sia
sotto il sole, per la. véna terra promessa, per il paese dei paesi, per
la bella Italia, Con ragione si è detto che ! abitu¬ dine di vedere la
vita in nero, sparisce e sembra innaturale sotto il cielo splendido d’im
paese meridionale. Dintorni poco graziosi spesso di¬ ventano Ja causa
d’un falso pessimismo; ma de v ? esser genuino il pes¬ simismo che
persiste anche in un ambiente bello ed incantevole. Il fatto che
Schopenhauer non ismani il suo pessimismo è una prova convin¬ cente, se
prova ci vuole, che il suo pessimismo era sincero. Questo pessimismo era
piuttosto comprensibile nel freddo settentrione; ma é un altro conto
ritenerla in mi paese ove tutto sorride, ove la natura stessa c* invita a
prendere con leggerezza resistenza ed a gettare lon¬ tano da noi ogni
cura, ove Paria stessa respira la leggerezza di cuore, ove il dolce far
niente è il programma di vita degPindigeni, T resoconti del suo
viaggio in Italia sono tutt ? altro che blandi. Schopenhauer, più si
faceva vecchio, pili si rinchiudeva in se stesso, e non vi sono nè
giornali nè lettere che possano colmare questa lacuna nella sua biografia.
D’ora innanzi era il suo espresso desiderio di sfug¬ gire alla
pubblicità. Non voglio che la mia vita privata formi mPesea « per la
curiosità fredda e maliziosa del pubblico », così rispose molti anni più
tardi a coloro che lo esortavano a fornire maggiori informa’ zioni su se
stesso ai dizionari biografici. I suoi notiziari presero il posto del
giornale, ma siccome contengono piuttosto riflessioni suggerite dagli
avvenimenti senza raccontare .questi, non spargono sugl 5 incidenti del
suo viaggio che poca luce. Schopenhauer attraversò le Alpi persuaso
d 3 avere scritto una gran¬ d'oliera per Pumanftàp stava ora ad
aspettarne il risultato. Non era tanto indifferente in quanto alla
accoglienza della sua opera quanto voleva far credere. Il
trattato sulla Quadruplice Radice era stato ben accolto dai critiei, -ed. aveva
chiamato all 5 autore l’attenzione generale più di quanto sogliono farlo
le dissertazioni universitarie; era giustificabile che spe¬ rasse che la
sua opera maggiore dovesse suscitare almeno lo stesso in¬ teresse. Egli
corresse le prove di stampa che gii furono mandate ed a petto k
pubblicazione, sfogando intanto i suoi sentimenti in linguag¬ gio
poetico. Unv er schami e Vers e. A us ] anggehegten,
tiefgefuhlten Schmerzen Wand sich’s einpor aus meinetn innern
Herzen, Es festzuhaHen haMch lang gemngen, I>och
weiss ich, dasz zuletzt es mir gelungen. Mogi Euch drtim irnrner,
wie Ilir wollt, gebar cleri, Des Werkes Le ben kòimt ihr nìcht
gefahrden; Àufh&ffieii kònnt Ilir's, mirini ermehr
vernichterq Ein Denkrnrj! wird die Nachwelt mir ernchten. Nel
frattempo visitava le principali città <MP Italia settentrionale;
frequentava i musei ed il teatro, continuando a studiare la lingua ita¬
liana die egli già sapeva assai bene. E* in Italia die egli s 5 invaghì
cosi profondamente della musica di Rossini, di cui andava spesso a
sentire le opere. Degli autori italiani egli predilìgeva, -— ed è questo
un fatto abbastanza curioso, — il Petrarca, il poeta di Laura e dell 5 amore.
« Fra tutti gli scrittori italiani, preferisco il mio caro
Petrarca. « Non vi e in tutto il mondo un poeta che lo abbia mai superato
nella « profondità e nell’ardore del sentimento; le sue parole vi vanno
dritto a al cuore. Per' ciò in preferisco i suoi sonetti, i suoi trionfi
e le sue can- a zoili alle follie fantastiche dell 5 Ariosto ed alle
orrende contorsioni di « Dante. Trovo il fiume naturale delle parole, che
sgorgano dal cuore, « molto più opportuno del linguaggio ricercato ed
affettato di Dante, a Petrarca è sempre stato e rimarrà per sempre il
poeta del mio cuore. « Quello che concorre a confermarmi nella mia
opinione è il tempo a presente, a quanto pare, tanto perfetto che osa
parlare con disprezzo a di Petrarca. T T na prova sufficiente sarebbe il
confronto di Dante e « Petrarca nel loro costume intimo e non ricercato,
cioè in prosa, eon- K frontando per esempio i bei libri di Petrarca,
ricchi di pensieri e di « verità, De \ ita solittì-rui, De Coafemptu
mundi, De rimediu ufrius- z que fortume eoe., colla scolastica sterile ed
asciutta di Dante ». Dante coi suoi modi didattici non
corrispondeva al gusto rii Scho¬ penhauer che considerava tutto Pinfenio
come un’apoteosi della cru¬ deltà. ed il penultimo canto come una
glorificazione della mancanza del sentimento d’onore e di coscienza. Non
aveva neppure alcun affetto per Ariosto e Boccaccio; anzi più volte
espresse la sua meraviglia in quanto alla fama europea di quest’ultimo,
il quale dopo tutto non aveva scritto che Delle ehtonique.s scandaleuse*.
Gli piacevano PAlfieri ed il Tasso, ma li considerava come autori tli
seeoncVordine; egli non riteneva il Tasso degno d'essere posto come
quarto in una linea coi tre grandi poeti italiani. Per quanto
riguardava Parte, egli si sentiva maggiormente attirato dalla scultura e
dall'arekitettura che dalla pittura. Ciò non potrebbe sorprendere e non
sarebbe in contraddizione coll 1 indole generale della sua mente* se la
sua intimità con Goethe non lo avesse fatto entrare nello studio dei
colori. Schopenhauer non volle mai ammettere che i due anni possati
in Italia fossero stati per lui due anni felici, sosteneva, che mentre
gli altri viaggiavano per divertimento, egli lo faceva per raccogliere
nuovi ma¬ teriali in appoggio del suo sistema, e nel suo notiziario
scrisse has- stoma di Aristotile : 6 TQ aAuTCtfO orò TU
fiSìl. Però ricordava con piacere questi due anni, dico con piacere
e s'in¬ tende fin dove Schopenhauer ammetteva il piacere; negli ultimi
giorni della sua vita non poteva mai menzionare Venezia senza che la sua
voce tremasse, il che prova che Pamore che ivi lo tenne stretto, non era
inte¬ ramente dimenticato, sebbene fosse morto. Senza dubbio, la
seguente nota scritta a Bologna in data del 19 novembre 1818 tradisce
qualche contentezza. « Appunto perchè ogni felicità è
negativa, accade che non ce ne « avvertiamo affatto, quando ci troviamo
in uno stato di benessere; la¬ ti sciamo tutto passare dinanzi a noi
liscio, e con dolcezza fino a che tf questo stato è passato. La perdita
soltanto* che ci si fa sentire con « chiarezza, pone in rilievo la
felicità, svanita; è allora soltanto che ci a accorgiamo di ciò che
abbiamo trascurato di assicurarci, ed il rimorso « si aggiunge alla
privazione, b Schopenhauer fece il soggiorno piu lungo a Venezia-
In quel tempo vi era anche Byron, ritenuto esso pure da vezzi femminili.
E J strano che essi non s'incontrarono mai. Schopenhauer nutriva pel
genio di Byron la più grande ammirazione ed intelletti al mente entrambi
sarebbero an¬ dati d f accordo. Egli non incontrò neppure Schelley, nè
Leopardi. Un dialogo secondo il modo di Leopardi in nni egli ed il
giovane conte era¬ no confrontati, fu pubblicato nella rivista
contemporanea del 1858, e Schopenhauer non si diede pace prima che non sì
fosse assicurato di averne una copia. Gli procurò una vivissima soddisf
azione il trovarsi asso¬ ciato col giovane che egli ammirava così
profondamente (ed a cui, dicia¬ molo tra parentesi, Io scrittore De
Sanctis, non ha reso giustizia); gran parte della sua soddisfazione,
proveniva vinche dal fatto die egli vedeva elio la sua filosofia si era
fatto strada fino in Italia. Non avveniva spes¬ so che egli fosse
contento di quanto sì scriveva sulle sue opere, non tro¬ vava mai che lo
avessero letto con sufficiente attenzione; ma quest 1 uo¬ mo, così
diceva, lo aveva assorbito in sucóurn et tangm nem .Quando -Schopenhauer arrivò
a Venezia per la prima Tolta, e pii scrisse : « chiunque si trova repenti
nani ente trasferito in un contrada « totalmente straniera, ove prevale
un modo di vivere e di parlare dif- « ferente da quello a cui e pii è
abituato, ha il sentimento di chi ina- « spettata mente ha messo il piede
nel F acqua fredda. Egli avverte su- « bito la differenza di tempera
tura, sente una forte influenza che agi- « sce dal di fuori e che lo
rende infelice; egli si trova in un elemento « estraneo in cui non sa
muoversi comodamente, A questo si aggiunga « che egli si accorge come
ogni cosa attira la sua attenzione e che teme « di essere a ne Ir e gl i
osservato da tutti. Ma dal momento che si è eal- « maio, che ha
incominciato ad assorbire la. nuova temperatura e ad « abituarsi al nuovo
ambiente, egli si trova bene come difatti si trova « un uomo nell* a equa
fresca. Egli si è assimilato a!1 J elemento, ed averir « do perciò
cessato di occuparsi della propria persona, rivolge la sua a attenzione
esclusivamente a ciò che lo circonda: ed ora, appunto per- « che lo
contempla con oggettività neutrale, egli si sente superiore al « suo
ambiente come prima se ne sentiva schiacciato, « Viaggiando le
impressioni dlogni genere abbondano, ed il nutria s mento intellettuale
ci viene in tale quantità che non ci rimane tempo c per la digestione. Ci
rincresce che le impressioni le quali si succedono a rapidamente non
possano lasciare una impronta permanente. In real- tà però avviene qui
quello che ci accade quando leggiamo. Quante «* volte ci lamentiamo di
non essere capaci di ritenere la millesima par- «te di quanto abbiamo
letto! W confortante però in ognuno dei due « casi il sapere che ciò che
abbiamo visto e letto, ha fatto sulla nostra « mente un'impressione,
prima d'essere dimenticato, impressione che « concorre a formare e
nutrire la mente, mentre ciò che riteniamo a « memoria serve soltanto a
riempire i vuoti della testa con materie che « ci rimangono sempre
estranee, perchè non le abbiamo mai assorbite; « il recipiente dunque
potrebbe anche essere rimasto vuoto come prima. » Schopenhauer era
d’opinione elle, viaggiando, possiamo riconosce- re quanto areno radicate
le opinioni pubbliche e nazionali., e quanto sia difficile di cambiare il
modo di pensare d T un popolo, « Mentre cerchiamo d'evitare uno
scoglio, ne incontriamo un altro; « mentre fuggiamo i pensieri nazionali
di un paese, in un secondo ne « troviamo degli altri, ma non dei
migliori. Il cielo ci liberi da questa « valle di miseria! «
\ i a gg ian do veci i a m o 1 a v ita u ma n a s ot t o ni olle fori n e dive
rs e : « ed è questo appunto che rende i viaggi così interessanti. Ma,
ving- « g i a n d o, non v e d i a m o c he il lato esteriore del la v if
a u ni a n a ; cioè ne « scorgiamo soltanto quello che se ne vede
generalmente. D'altra parte « non vediamo mai la vita interiore del
popolo, il suo cuore ed il suo « centro, cioè il campo in cui Vazione del
popolo si svolge, in cui il «suo carattere si manifesta,,., quindi,,
viaggiando, vediamo il mondo a come un paesaggio dipinto con un orizzonte
vasto che abbraccia molte <i cose, ma che non li a personaggi spiccati.
Di lì, nasce pure la stan¬ tìi ehezza del viaggio. »
Schopenhauer studiò profondamente gl’Italiani, i loro costumi e la
loro religione. Di quest’ultima dice: La religione cattolica è un
ordine per ottenere il cielo mendicando, giacche sarebbe troppo disturbo
doverlo guadagnare. I preti sono i me¬ diatori di questa
transazione. « Ogni religione positiva dopo tutto non fa che
usurpare il trono « che per diritto spetta alla filosofia ; i filosofi
quindi la coniti attera uno a sempre, anche se dovessero considerarla
come un male neccessario ed « inevitabile, un appoggio per la debolezza
morbosa della maggior pur- « te degli uomini. a La nuda
verità non ha la forza di frenare le menti rozze e di co¬ te stringerle
ad astenersi dal male e dalla crudeltà giacche esse non san¬ ti no
afferrare queste verità. Di lì il bisogno di storne, di parabole e di «
dottrine positive. « In dicembre ièlS la sua grande opera vide la
luce per la prima volta. Schopenhauer ne mandò una copia a Goethe. Poi
nella prima¬ vera del 1819, egli si trasferì a Napoli; Goethe accusò
ricevuta del do¬ no per mezzo di Adele Schopenhauer, una delle predilette
del vecchio poeta. « Goethe ha ricevuto il tuo libro con
grande piacere, scrive Adele, a Egli immediata mente divise V opera
voluminosa in due parti e cornili- « ciò a leggerla. Un’ora dopo egli mi
mandò il biglietto qui unito, di- « eendomi che egli ti ringraziava molto
e credeva che tutto il libro .do- « vesso esser buono, giacche aveva
sempre la fortuna di aprire i libri « nei posti più notevoli; così egli
mi disse d'avere letto le pagine indi- « caie (pag. 22 e pag. 340 della
prima edizione,) ed egli spera di po- « ferii scrivere quanto prima la
sua opinione completa. Intanto egli « desiderava che io ti dicessi
questo. Alcuni giorni dopo Ottilia mi dis- « se che il di lei padre
leggeva il tuo libro con un interesse che lessa « fino allora non aveva
mai osservato in lui. Egli le Ka detto che ora ave- « va. un divertimento
per tutto ranno, giacché intendeva leggere il tuo libro da capo in fondo
e credeva che ciò lo avrebbe occupato per un « anno. Disse a me ch’egli
si sentiva proprio felice di saperti sempre « a lui devoto, nonostante il
vostro disaccordo sulla teoria dei colori. « Disse pure che nel tuo libro
gli piaceva sopra tutto la chiarezza della « rappresentazione e del
linguaggio, sebbene la tua lingua differisce da quella degli altri e che
occorresse prima avvezzarsi a chiamare le « cose come tu lo vuoi.
« ila, continuò, quando una volta si é pervenuto a queste, allora «
la lettura procede con facilità e comodo. Anche la disposizione della «
materia gli piaceva ; solfante la forma immaneggiabile del libro non a
gli dava pace, e si convinse che F opera dovesse consìstere di due vo- a
fumi* Spero di rivederlo solo ed allora egli mi dirà iorse qualche cosa «
di più soddisfacente ; ad ogni mudo tu sei il solo autore che Goethe «
legga in questo modo e con tanta serietà* » Nondimeno Schopenhauer
ritenne F opinione che Goethe non lo legasse con sufficiente attenzione ;
che il poeta avesse già speso il po~ co interesse che aveva per le
questioni filosofiche* A Napoli Schopenhauer fu principalmente in
rapporto con giovani inglesi. L’elemento inglese aveva per lui, durante
tutta la sua vita, un fascino speciale; credeva che gl"Inglesi erano
quasi giunti ad esse)e il più gran popolo del mondo, e che soltanto
alcuni loro pregiudizi si opponevano, acciocché infatti lo fossero. La
sua cognizione della loro lingua ed il suo accento erano tanto perfetti
che anche gl T Inglesi stessi per- qualche tempo lo prendevano per un
loro cOmpatriftta, un errore die sempre lo esaltava* Tutto
quanto vide, concorse a confermare ed a sviluppare il suo sistema
filosofico * Rimase specialmente colpito dal quadro di un gio¬ vane
artista veneziano, Hayez, esposto a Capo di Monte ; di questo quadro
illustrava la sua dottrina per quanto riguarda le lagrime che, secondo il
nostro filosofo, si spargono sempre per compassione di sé stesso* Il
quadro rappresentava, il passo dell 1 Odissea, ove Ulisse piange alla
Cor¬ te di re Alcinoo, il feaco, sentendo cantare le proprie sventure, «
Questa « è Fespressione più alta idi e possa avere la compassione di se
stesso. » Schopenhauer aveva oramai raggiunto la piena maturità e
forza dell’uomo. Secondò lui il genio dell’uomo non dura più della
bellezza delle donne, cioè quindici anni, dal ventesimo al trentesimo
quinto* & La ventina e la prima parte della trentina sono per Fintelletto
quello « che è il 'uose di maggio per gii alberi, questi durante la
stagione prh <t maverile emettono soltanto dei bottoni che poi
diventano frutti* » L’esteriore, di Schopenhauer doveva essere
caratteristico, ma la sua bel¬ lezza stava nell 9 animo e non nella faccia;
i suoi occhi vivaci, ed ardenti anche nella vecchiaia, nella gioventù
rischiaravano quella testa poten¬ te col loro sguardo acuto e limpido.
Verso quel tempo un vecchio si¬ gnore* a lui perfettamente estraneo, gli
si accosto in istrada per dirgli che egli, Schopenhauer, sarebbe stato un
giorno un grand’uomo* An¬ che un Italiano, che pure non lo conosceva,
venne da lui e gli disse: € Signore, lei deve aver fatto qualche grande
opera; non so cosa sia, a ma lo vedo nel suo viso* » Un Francese che alla
tal)le cVhote, gli sede¬ va dirimpetto, ad un tratto esclamò: « Je
ooudrais savori- ce qu il penr- « se de nous autres j nous devom par
altre hien ■ petit s à ses yeiux ! ?> Un giovane Inglese rifiutò
assolutamente di cambiare posto con le parole: « Yoglio stare qui, perchè
mi piace vedere la sua faccia intelligente. » Nel riposo egli rassomiglia
va a Beethoven; entrambi avevano la stessa testa quadrata, ma il cranio
di Schopenhauer dev’essere stato piu grande come lo prova la misura elle
ne fu presa dopo la sua morie e che recai un’idea delle prò pozioni
straordinarie eli questa testa, E no¬ tevole la distanza che correva tra
un occhio e V altro; egli non poteva portare occhiali ordinari. Era di
statura media, tarchiata e muscolosa , aveva le spalle larghe ; In sua
bella testa era portata da un collo troppo breve per esser bello* Capelli
biondi e ricci Liti circondavano la sua fron¬ te e cadevano sulle sue
spalle; quando era giovane, mustacchi biondi coprivano la sua bocca ben
formata, che coll'accrescersi degli anni perdette la sua bellezza a
misura che perdeva i denti. Il suo naso era di bellezza speciale e cosi
pure le sue piccole mani* Egli stesso faceva una distinzione fra la
fisionomia, intelletuale e morale à- un uomo; cer¬ cava la prima
nelPocchio e nella fronte, la seconda nelle forme della bocca e del
mento. Era soddisfatto della sua fisionomia intellettuale, ma non della
sua fisionomia morale* Vestiva sempre bene e con elegan¬ za, il.suo
contegno era aristocratico e leggermente altero. Portava Seni¬ li re V
abito, cravatta bianca e scarpe; i suoi abiti erano sempre dello stesso
taglio senza riguardo alla moda, eppure egli non pareva mai stra¬ no,
talmente aveva adattato il vestito alla persona. He il popolo in istra¬
da spesso lo seguiva collo sguardo, ne era causa il suo esteriore animato
dal fuoco dei genio, e non il suo vestito. Più tardi fu fatto il suo ri¬
tratto con la fotografia e colla pittura; la tradizione soltanto ci parla
dèi suo esteriore, quando era nel fiore degli anni virili. Velia
biografia, del laborioso antiquario e storico I. E. Bolline! tro¬ viamo
runica menzione fatta del viaggio di Schopenhauer a Roma. Allora era
un'epoca di misticismo per Parte e per la religione della Germania, epoca
che produsse nella storia un Biniseli, nell’arte un Cornelius ed un
Qverbeck. I giovani artisti tedeschi, chiamati dal loro console ad ornare
la di lui villa sul monte Pine io, avevano l'abitudine di riunirsi
quotidianamente con certi poeti e giornalisti nel caffè Greco, diventato
il punto d'incontro per tutti i Tedeschi di Bontà. Il poeta Ruekert ed il
novelliere L, Schefer, ottimisti per professione, frequentavano allora quella casa.
Molti degli uomini più importanti della Ger¬ mania allora viventi, si
trovavano nella eterna città. Schopenhauer, come gli altri, frequentava
il caffè Greco, ma pare che il suo spirito mefistofelico fosse un
elemento disturbatore per i visitatori ordinari che desideravano che egli
si allontanasse* Un giorno egli annunciò alla società che la nazione
tedesca era la più stupida di tutte, ma che era in un punto a tutte
superiore, cioè che era arrivata al pùnto di poter fare a meno della
religione. Questa osservazione suscitò una tempesta ili disapprovazioni,
ed alcune voci gridarono: fuori! alla porta met¬ tetelo fuori ! Dà quel
giorno in poi il filosofo evitò il caffè Greco, ina le sue opinioni sui
Tedeschi rimasero inalterate. « La patria tedesca * in me non si è
allevato un patriota », disse un giorno ; e spesso anda dicendo ai suoi compatì
lotti a francesi ed a inglesi che egli si vergoigmva di essere tedesco, piaceli
è questo popolo era tanto stupido, a Se « io pensassi così della mia
nazione », rispose un Francese, « almeno « non lo direi. » «
Questo Schopenhauer è un sala miste) (N&rr) insopportabile », scrive
Bòhmer. « Questi filosofi antitedeschi ed irreligiosi, dovrebbero «
essere tutti quanti rinchiusi pei bene comune, » Schopenhauer non
menava una vita santa ed ascetica, uè pretese die gli altri lo
credessero. Egli sprezzava le donne; considerava ibi more sessuale come
una delle manifestazioni più caratteristiche della volon¬ tà; tuttavia
non era dissoluto. Sospirava con Byron : «Più che vedo « gli uomini meno
mi piacciono; tutto sarebbe bene se potessi dire lo « stesso delle donne.
» Egli differiva dagli uomini ordinari, parlando di ciò che gli altri
sopprimono. I suoi discepoli troppo zelanti die cre¬ devano vedere
qualcosa di divino in tutte le sue azioni, trassero alla luce del giorno
anche questi suoi discorsi e quindi attirarono sul maestro un’imputazione che
egli non ha mai meritata. Le idee di Schopenhaner coincidevano con questa
osservazione di Buddha ; « Non v ? è pas- « sione più potente di quella
dei sessi : di fronte a. questa nessun’ultra «merita d’essere menzionata;
se ve ne fosse un'altra di questa forza, « per la carne non vi sarebbe
più salute! » E di lì nacque senza dubbio il timore di Sdì operili auer « di
non poter raggiungere il Nirvana », come egli disse con rincrescimento al
dottor Grwinner. In mezzo a questi trastulli leggeri colla bellezza
femminile gli giunse ad un tratto la notizia che V antica ditta di Danzi
e a, in cui era implicata gran parte della sua sostanza e tutta quella di
sua madre, era minacciata di bancarotta. Senza indugio si trasferì in
Germania; ia perdita del suo avere era il male che Schopenhauer temeva
maggior- mente., il male che egli sapeva di poter sopportare più
difficilmente, tenuto calcolo del suo temperamento. Egli non era adatto a
guada' gnarsi il. pane; la sua intelligenza non era di quelle che si
possono dare in affitto. L’indipendenza materiale che egli aveva
ereditata gli parve sempre uno dei più grandi beni della sua vita, dacché
s ! era tutto dedicato a suoi studi. Nei Par erga, sotto il titolo V on (lem
was Einer hai , egli scrive : Non. istimo indegno della mia penna di
raccomandare hi cura « della fortuna che si è acquistata per lavoro o per
eredità. E 5 un van- « faggio inapprezzabile il possedere fin da
principio quanto occorre per « vivere, sia anche solo e senza famiglia,
comodamente ed in vera im.1L « pendenza, c 1 o è se iiz a 1 avocar e ;
quèsto stato rende huomn esente ed « immune dalla privazione e quindi
dalla servitù universale, sorte caie ninne dei mortali. Colui soltanto che dal
destino fu favorito in questo « modo è veramente nato uomo libero,
giacché soltanto egli è vwr j.arix, « padrone del suo tempo e delle sue
facoltà e può dire ogni mattina ; il « giorno è mio. Per questa ragione
la differenza tra colui che hn mille ai a scudi d’entrata e
colui clie ne La centomila- è molto minore di quella « che corre tra il
primo e colui che non La nulla. La fortuna ereditari si « acquista un
sommo valore, quando cade in mano ad un uomo il quale, « dotato di
capacità intellettuali d’ordine elevato, segue tendenze in- « compatibili
col lavoro pel pane quotidiano. Tale uomo ricevette da! « destino
un doppio corredo e può vivere pel suo genio; ma egli coni¬ ti pensa
cento volte il debito contratto verso- V umanità, effettuando cosa « che
nessun altro potrebbe effettuare, e producendo qualcosa pel bene « ed
anzi per V onore comuni, TTn altro in questa condizione privile- « gìata
con tendenze filantropi eh e saprà meritarsi la gratitudine d elee l’umanità.
D’altra parte sarà un pigro spregevole colui che si tro¬ te va in
possesso d’ una fortuna ereditaria e non cerca in nessun modo, «
neppure acquistando a fondo qualche scienza, di rendersi utile all’umanità,
» a Questo ora- è riservato al più alto grado di perfezione iute
Ilei- ft tuale che noi al solito chiamiamo genio; il genio solo si occupa
escili- sivamente dell’esistenza e della natura delle cose, per poi
esprimere a i suoi concetti profondi, secondo la propria inclinazione,
per mezzo <* dell’arte, della poesia e della filosofia. Pei uno
spirito di questo ge- « nere il commercio non interrotto con sé stesso,
co’ suoi pensieri e colle « sue opere è un bisogno urgente. Ad esso è
cara la. solitudine, e l’ozio è il suo bene maggiore; il resto non gli è
indispensabile, anzi talvolta gli è gravoso. Di tal uomo soltanto possiamo dire
con ragione che « abbia in sé stesso il suo punto di gravità. Cosi si
spiega perchè queste « persone tanto rare, anche se hanno il miglior
carattere del mondo, « non mostrano per gli amici, per la famiglia e pel
bene comune quella a -simpatia ardente ed illimitata, di cui dispongono
tanti altri; giacche « dopo tutto possono consolarsi d’ogin cosa finché
hanno sé stessi* In « loro vive un elemento d'isolazione tanto più attivo
quanto meno gli «altri possano dar loro soddisfazione; questi altri
uomini, essi non li « considerano interamente come loro pan; e dal
momento che corniti- « ciano a vedere che tutto a loro è eterogeneo,
prendono l’abitudine di « camminare in mezzo agli nomi ni, come se questi
fossero esseri da loro « diversi; nei loro pensieri ne parlano come di
terze persone, dicendo: « essi, loro , e mai noi. « Tln uomo munito di
questa ricchezza interiore non chiede al mondo esterno nulla, all* infuori d'un
dono negativo, cioè la libertà di svilappare e di migliorare le sue facoltà
intellettuali, di godere la sua « ricchezza interiore, vale a dire di essere
interamente a sé in ogni gioì « no. in ogni ora e durante tutta la sua vita.
Quando un uomo è desti- « nato a lasciare l’impronta del suo intelletto
all’intera razza umana, « egli non può conoscere che una sola gioia, cioè
quella di vedere le « sue facolt-a riconosciute e di trovarsi in grado di
compiere l’opera e sua; oppure un rammarico e cioè d J esserne impedito.
Ogni altra, cosa « è insignificante ; e intatti troviamo clic in tutti i
tempi le menti più *; elevate abbiano pregiato sopra ogni altra cosa E
ozio, ed il valore di « quest'ozio equivale appunto al valore deli-uomo
stesso. Volentieri Schopenhauer cita questa massima di Mienstone: la
libertà è un cordiale più fortificante del Tokay, Pieno dei più
cupi presentimenti egli si portò con fretta in Germania, (tra zi e alla sua energia e alla
siili diffidenza d ogni prò Fessio- nej riuscì a salvare la maggior parte
della propria sostanza. Sua in mire non volle prendere consiglio,, e
quando venne la catastrofe finale essa ed Adele rimasero quasi senza un
centesimo, Questo incidente dimostra die Schopenhauer non era
filosofo (/truche e poco pratico; egli certamente non avrebbe inciampalo,
guardando cri ammirando le stelle ; al genio egli univa il senso pratico,
una combina¬ zione molto rara, la cui origine egli faceva risalire a suo
padre nego¬ ziante. Ed è questa qualità che fa di Schopenhauer il vero
filosofo pei bisogni d’ogrii giorno, lasciando da parte il -suo
pessimismo. Egli aveva vissuto nel mondo e non era uno di quegli studiosi
che vivono rinchiusi nel loro studio ; egli conosceva i bisogni e le richieste
del mondo i suoi aforismi ed assiomi non sono troppo elevati per essere
messi in pratica s oltreché sono esposti in linguaggio chiaro ed
intelligibile ed esprimono spesso le percezioni d’ogni mente che
pensa. Though man a tlilnkmg being is ci e fine d, Few
use thè great prerogative oi minti; How few thiiik jusUy oì thè
tliiriking few; II ow manv n e ver inmk, who think they do.
Sfortunata incute il loro numero è infinito ed a loro non occorre
nè filosofo, nè poeta, uè artista; ginstinti sono per loro nella vita una
guida sufficiente. Mario Casotti. Keywords: volere, sì che Socrate si
tramuti in Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” die
welt as will –volere – filosofia fascista -- la volonta di potere, un invento della
sorella di Nietzsche che piaceva a Hitler ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Casotti” – The Swimming-Pool Library.
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