Tuesday, April 2, 2024

GRICE E LUCREZIO: L'ORTO ROMANO -- L'IMPLICATURA CONVERSAZIONALE DELL'ALMA FIGLIA DI GIOVE -- ROMA -- FILOSOFIA ITALIANA -- LUIGI SPERANZA

 

Grice e Lucrezio: l'orto romano -- l'implicatura conversazionale dell'alma figlia di Giove – Roma == filosofia italiana – Luigi Speranza (Pompei). Filosofo italiano. Grice: “By far the most important concept in Lucrezio’s philosoophy is that of clinamen that Strawson translates as the ‘swerve.’ It was saved from extinction by an Italian – as the novel tells you!” Grice: “While Strawson reads it in Latin, I prefer the version in the vulgar!” – Grice: “And by the vulgar I mean Marchetti!” Grice: “It’s amazing how well Marchetti interprets Lucezio – there is a little treatise on Epicureanism in the Lucrezio by Marchetti which is interesting. A real continuity in Italian philosophy!” -- possibly the most important Italian philosopher. Seguace dell'epicureismo. Della sua vita ci è ignoto quasi tutto: egli non compare mai sulla scena politica romana, né sembra esistere negli scritti dei contemporanei, in cui non viene mai citato, eccezion fatta per la lettera di Cicerone ad Quintum fratrem II 9, contenuta nella sezione Ad familiares, in cui il celebre oratore accenna all'edizione, forse postuma, del poema di Lucrezio, che egli starebbe curando. Ma in scrittori romani successivi egli viene spesso citato: ne parlano Seneca, Frontone, Marco Aurelio, Quintiliano, Ovidio, Vitruvio, Plinio il Vecchio, senza tuttavia fornire nuove informazioni sulla vita. Questo però dimostra che non si tratta di un personaggio inventato. Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo Chronicon o Temporum liber, di cinque secoli dopo, in cui, ispirandosi ad alcuni dubbi passi di Svetonio, ci dice che sarebbe nato  morto suicida. Tale dato non concorda tuttavia con quanto affermato da Elio Donato, maestro di Girolamo stesso, secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando indossò la toga virile, nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e Pompeo. Questo dato ha fatto propendere a credere che Lucrezio mori  nel 55 a.C., all'età di quarantatré anni. Queste vengono comunemente considerate le uniche notizie biografiche tramandate direttamente dall'antichità.  Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia taluni hanno creduto essere Ercolano, per la presenza di un Giardino Epicureo in quest'ultima città, in particolare, dall'analisi di numerose epigrafi risalenti all'epoca dell'autore latino, risulta evidente un'ingente presenza del cognome Carus nell'antico territorio campano, secondo la critica recente la suddetta indagine prova fermamente (nei limiti del probabile) le origini campane di Lucrezio. Neppure la sua militanza politica sembra essere ricostruibile: il desiderio di pace accennato prima non sembra affatto ricordare il drammatico rancore dell'aristocratico, per altro solitamente stoico, che vede sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma il desiderio dell'"amico" epicureo, che vede nella pace e nel benessere di tutti la possibilità di fare accoliti e viver serenamente. È tuttavia rilevante il fatto che la sua opera De rerum natura sia dedicata a Memmio, fine letterato e appassionato di cultura greca, ma anche e soprattutto membro di spicco degli optimates.  Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare alla fine del proemio della sua opera una "placida pace" per i Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo in Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata da un secolo di guerre civili e lotte intestine. La scarsità delle fonti sulla sua vita ha portato molti a interrogarsi persino sulla stessa esistenza del filosofo, a volte considerato solo uno pseudonimo sotto il quale si celava un anonimo filosofo per alcuni un amico epicureo di Cicerone, Tito Pomponio Attico, che si suicidò, o persino lo stesso Cicerone.  Secondo lo storico Luciano Canfora, è possibile ricostruire una scarna biografia di Lucrezio: nacque ad Ercolano, dove aveva una villa la famiglia nobiliare di un possibile parente, Marco Lucrezio Frontone)  appartenente quasi sicuramente all'antica famiglia nobile dei Lucretii (qualcuno ne fa invece un liberto della stessa famiglia). Studiò l'epicureismo proprio ad Ercolano, dove si trovava un centro della "filosofia del giardino", diretta da  Filodemo di Gadara, allora ospite nella villa di Lucio Calpurnio Pisone, il ricco suocero di Cesare (la cosiddetta "villa dei papiri").  Avrebbe sofferto di sbalzi d'umore, chiamati oggi disturbo bipolare, ma non sarebbe stato pazzo, ma di questo umore alterno risentì il suo lavoro. In disaccordo con le guerre civili, avrebbe lasciato Roma e non sarebbe morto suicida ma avrebbe viaggiato ad Atene, nei luoghi del maestro Epicuro, e oltre, essendo forse il suo nome conosciuto da Diogene di Enoanda, quindi quasi in Asia minore, nelle cui famose incisioni sotto il portico della sua casa si ricorda un certo "Caro" (nome poco diffuso), romano, e sapiente epicureo.  Non si sa se il poema fosse diffuso nell'oriente, quindi è possibile che Lucrezio si fosse davvero recato in Grecia. Lucrezio, spinto da una delusione d'amore, si sarebbe allontanato lasciando incompiuto il suo poema, affidato forse a Cicerone stesso (che difatti non parla effettivamente di suicidio ma afferma: «Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis» ("le poesie di Lucrezio, come tu mi scrivi, sono dotate di molti lumi di talento, e tuttavia di molta arte"), ma, forse, senza impazzire e morire (che fosse suicidandosi o perché assassinato), esagerazione della fonte di Girolamo o di qualche altro avversario di Lucrezio, e sarebbe stato forse volutamente confuso dallo stesso Girolamo con Lucullo, onde screditare l'epicureismo.  Il destinatario dell'opera, Gaio Memmio, caduto in disgrazia ed espulso dal Senato per condotta immorale, andò ad Atene, causando una nuova delusione a Lucrezio, che, tornato a Roma, sarebbe morto.  La notizia di un "filtro d'amore" velenoso somministratogli da una donna di facili costumi, amante gelosa di Lucrezio, viene riportata anche da Svetonio nei confronti di Caligola e della moglie Milonia Cesonia; in questo caso è apparsa una semplice diceria, e, data l'ispirazione svetoniana (dal perduto De poetis) del passo di Girolamo su Lucrezio, anche lì sembra essere una spiegazione semplicistica, dovuta alla poca conoscenza dei disturbi psichici che si aveva all'epoca (anche per Caligola si parlò, difatti, come per Lucrezio, di epilessia e malattie fisiche misteriose che l'avrebbero fatto impazzire improvvisamente, come, nel caso di studiosi moderni, l'avvelenamento da piombo, oltre che dei detti "filtri").  Se Lucrezio soffrì di un disagio psichico, che lo avrebbe spinto a cercare sollievo nella filosofia, non fu a causa di un veleno, e se il suicidio ci fu (il che potrebbe spiegare l'abbandono improvviso del poema), la causa potrebbe essere stata di natura politica — come sarà più tardi il caso di Catone Uticense —, ovverosia la rovina del suo protettore Memmio e della sua cerchia culturale. Virgilio, che lo rispettava anche se era passato dall'epicureismo, abbracciato in gioventù, alle teorie pitagoriche, parla di lui nelle Georgiche e nelle Bucoliche, definendolo "felix" (ossia "prediletto dalla dea Fortuna") e non "folle". Secondo Guido Della Valle, la V ecloga, che parla della morte di un personaggio chiamato Dafni (a volte identificato con Cesare, a volte con Flacco, il fratello di Virgilio), potrebbe riferirsi invece alla morte dello stesso Lucrezio, definita "immatura e innaturale", cioè avvenuta per cause traumatiche. Il movente politico e morale del gesto potrebbe essere la causa del silenzio attorno ad esso e del fiorire di aneddoti per giustificarlo, dato che non si poteva cancellare la grandezza filosofica di Lucrezio, con una sorta di damnatio memoriae di solito riservata ai nemici politici.  Essi erano spesso vittime delle liste di proscrizione dei vincitori, come quella di Marco Antonio che colpirà Cicerone, e molti si toglievano la vita, in quanto morte onorevole per i costumi romani; Virgilio e Orazio, estimatori di Lucrezio, facevano parte della corte di Augusto, e dovevano quindi allinearsi alla linea culturale dettata dall'imperatore, assertore dell'antica moralità e diffusore della leggenda di Cesare (per cui venivano cancellate le espressioni scomode di dissenso), e dal suo amico Mecenate, in cui l'epicureismo, se non sfumato come in Orazio appuntocosì come ogni opera che non fosse celebrativa del princeps e della grandezza di Roma non trovava spazio, per cui Lucrezio verrà ricordato solo come grande poeta, tralasciandone l'aspetto filosofico.  Secondo Della Valle, quindi, Lucrezio si sarebbe tolto la vita come gesto di protesta contro la classe politica in ascesa, o perché condannato a morte da essa. Lucrezio, per il periodo in cui è vissuto, personaggio scomodo: gli ideali epicurei di cui era profondamente intriso corrodevano le basi del potere di una Roma alla vigilia della congiura di Catilina. In un'epoca di tensioni repubblicane, infatti, isolarsi dalla realtà politica nell'hortus epicureo significa sottrarsi ai negotia politici e uscire di conseguenza anche dalla sfera d'influenza del potere. Le più forti correnti stoiche, ostili all'epicureismo, avevano permeato la classe dirigente romana in quanto più conformi alla tradizione guerriera dell'Urbe. L'epicureismo era invece presente anche attraverso il citato Filodemo e altri in Campania, dove Virgilio avrebbe approfondito la sua conoscenza dell'epicureismo. Orazio non lo nomina, ma è evidente che lo conosce, e ideologicamente gli è più vicino di altri. La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi profezie apocalittiche, visioni quasi allucinate, critiche e ambigue espressioni (Grice), che accompagnano il poema. Alcuni teologi come San Girolamo ed altri, hanno dato di lui l'immagine di un ateo psicotico in preda alle forze del male. Appoggiandosi alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante o di problemi di ordine psichico. In realtà l'ipotizzata pazzia di Lucrezio appare oggi più plausibilmente un tentativo di mistificazione per screditare il poeta, così come la presunta morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia chi lo segue. L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica credenza che il poeta fosse sempre un invasato; elemento quest'ultimo da collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni. Comunque altri scrittori cristiani come Arnobio e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non si fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di Girolamo si fondava su illazioni di Svetonio, peraltro di difficile verifica. Potrebbe anche esserci stata una confusione dovuta all'abbreviazione “Luc.,” impiegata indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico, generale e cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito a causa di un filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione “Luc.” potrebbe così aver permesso lo scambio dei due personaggi. A causa dell'impossibilità di ricostruire i momenti salienti della sua vita, dunque, il progetto filosofico che egli volle esprimere è ricostruibile interamente solo dalla sua opera, considerata tra le più vigorose d'ogni età. Bisogna ora individuare le motivazioni che spinsero Lucrezio a scrivere il De rerum natura, che fondamentalmente sono due. La prima è una ragione etico-filosofica, in quanto Lucrezio, affascinato dalla filosofia epicurea, desiderava invitare il lettore alla pratica di tale filosofia, incitandolo a liberarsi dall'angoscia della morte e degli dèi. La seconda motivazione invece è di carattere storico. Lucrezio era conscio che la situazione politica a Roma peggiorasse di giorno in giorno: Roma era quadro ormai di continui scontri bellici e conseguenti dissidi; giustappunto egli, con un evidente positivismo, voleva incoraggiare il cittadino-lettore romano a non perdere la fiducia verso un successivo miglioramento della situazione. Lucrezio si proponeva di rivoluzionare il cammino di Roma, riportandolo all'epicureismo che era stato declinato in favore dello stoicismo. La prima cosa da distruggere era la convinzione provvidenzialistica stoica e più propriamente romana. Non c'era un dovere romano di civilizzare "l'orbe terrifero e de le acque", come farà dire Virgilio alla Sibilla Cumana in un colloquio con Enea. Non c'è una ragione seminale universale responsabile della vita nel cosmo, destinata a deflagrare per poi ricominciare un nuovo, identico, ciclo esistenziale, come voleva la fisica stoica, ma un mondo che non è unico nell'universo, peraltro infinito, essendo uno dei tanti possibili. Non c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma, essa è una Grande fra le Grandi, ed un giorno perirà nel suo tempo. La religione, considerata come Instrumentum regni, deve essere non distrutta, ma integrata nel contesto del viver civile come utile ma falsa. Egli afferma fin dal libro I del De rerum natura. Tanto male poté suggerire la religione. Ma anche tu forse un giorno, vinto dai terribili detti dei vati, forse cercherai di staccarti da noi. Davvero, infatti, quante favole sanno inventare, tali da poter sconvolgere le norme della vita e turbare ogni tuo benessere con vani timori! Giustamente, poiché se gli uomini vedessero la sicura fine dei loro travagli, in qualche modo potrebbero contrastare le superstizioni e insieme le minacce dei vati... Queste tenebre, dunque, e questo terrore dell'animo occorre che non i raggi del sole né i dardi lucenti del giorno disperdano, bensì la realtà naturale e la scienza... E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla, allora già più agevolmente di qui potremo scoprire l'oggetto delle nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza, e in qual modo ciascuna si compia senza opera alcuna di dèi. Lucrezio colpiva direttamente la credenza negli dèi latini sostenendo che non c'è preghiera che schiuda le fauci di una tempesta, giacché essa è regolata da leggi fisiche e gli dèi, seppur esistenti e anche loro composti da atomi così sottili che ne assicurano l'immortalità, non si curano del mondo né lo reggono; ma la religione deve essere inglobata nella scoperta e nello studio della natura, che rasserena l'animo e fa comprendere la vera natura delle cose: infatti l'unico principio divino che regge il mondo è la Divina Voluptas, Venere: il piacere, la vita stessa intesa come animazione regge l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo sfacelo che sta portando Roma alla fine: Marte, ovvero la Guerra. Proprio per questo, egli elogia Atene, creatrice di quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza Epicuro, sole invitto della conoscenza rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi un poeta rasserenatore delle tempeste umane e proprio per questo si sente profondamente affine ai poeti delle origini, il cui luogo principe è in Empedocle (secondo infatti per elogi solo a Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli non è portatore di una verità divina fra le umane genti, ma di una verità affatto umana, universale e per tutti, che attecchirà ben presto per la salvezza di Roma.[31] Epicuro è comunque, per Lucrezio, il più grande uomo mai esistito, come risulta dai tre inni a lui dedicati (chiamati anche "trionfi" o "elogi"):  «E dunque trionfò la vivida forza del suo animo. E si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo. E percorse con il cuore e la mente l'immenso universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo. Il De rerum natura e un poema didascalico in esametri, di genere scientifico-filosofico, suddiviso in sei libri (raccolti in diadi), comprendente un totale di 7415 versi, che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie: dagli atomi si passa al mondo umano per arrivare ai fenomeni cosmici. Riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura del poema Περὶ φύσεως di Empedocle (anche un'opera di Epicuro aveva il medesimo titolo). Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie interne che corrisponderebbero ad un gusto alessandrino. L'opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade contiene un inno ad Epicuro, mentre il secondo e il terzo libro (in quest'ultimo è presente anche un'esposizione della sua estetica) si aprono entrambi con un inno alla scienza. Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria. Il destinatario e i destinatari Il dedicatario dell'opera è la Memmi clara propago (I 42), ovvero il rampollo della famiglia dei Memmi, che solitamente si identifica con Gaio Memmio. Più in generale, si può dire che il destinatario che l'autore si prefigge di conquistare è il giovane aperto ad ogni esperienza, che un giorno prenderà il posto dei politici e attuerà quella rivoluzione propugnata con tanto fervore da Lucrezio. Ma, almeno con Memmio, egli fallì: da adulto divenne un dissoluto, fraintendendo il significato di piacere catastematico epicureo, e fu allontanato dal Senato probri causa, cioè per immoralità. Riparò quindi in Grecia, dove scrisse poesie licenziose e dove ce lo menziona anche Cicerone (nelle Ad Familiares), intenzionato a distruggere la casa e il giardino in cui proprio Epicuro risiedette, per costruirsi un palazzo, suscitando lo sdegno degli epicurei che fecero istanza a Cicerone stesso di intervenire per impedirglielo, senza che però Cicerone ci riuscisse. In un simile progetto Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in Livio Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra loro quanto meno vari: l'egestas linguae (povertà della lingua), lo vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e tecnicistiche con l'arcaismo, ancora che proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei fondatori del lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio comprendere l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della poesia. Discendendo più in profondità nelle anguste gole del poema, si notano anche altri problemi cui dovette far fronte: primo fra tutti, come tradurre parole di pregnanza filosofica in latino, che ancora non aveva termini confacenti. Finché poté, egli evitò la semplice translitterazione (ad es. "Atomus" per Ατομος) e preferì invece usare altri termini presenti già nella sua lingua magari dandogli altra accezione oppure (come mostrato anche sopra) creando neologismi. Ed è proprio grazie all'arcaismo che Lucrezio riesce a rendere possibile tutto questo: infatti era proprio dello stile arcaico il neologismo "munificenza" ed anche un certo uso (convulso a detta di antichi e moderni) delle figure di suono quali allitterazioni, consonanze, assonanze e omoteleuti. Molto importante è anche il fatto che Lucrezio non si limitò a trasmettere il messaggio di Epicuro con un arido scritto filosofico, ma lo fece attraverso un poema che, a differenza del rigoroso linguaggio razionale della filosofia, parla per squarci imaginifici. Sul piano teorico l'opera di Lucrezio si caratterizza come una puntualizzazione di quella epicurea con alcune esplicazioni che nel suo referente greco non erano abbastanza chiare. Il concetto di parenklisis che Lucrezio tradurrà con clinamen mancava di definizione chiara. Nella Lettera ad Erodoto Epicuro poneva infatti la parenklisis ma poi parla piuttosto di una deviazione per urto. Il celebre passaggio del libro II del De rerum natura dice:  «Perciò è sempre più necessario che i corpi deviino un poco; ma non più del minimo, affinché non ci sembri di poter immaginare movimenti obliqui che la manifesta realtà smentisce. Infatti è evidente, a portata della nostra vista, che i corpi gravi in se stessi non possono spostarsi di sghembo quando precipitano dall’alto, come è facile constatare. Ma chi può scorgere che essi non compiono affatto alcuna deviazione dalla linea retta del loro percorso? Lucrezio precisa poi ulteriormente le modalità del clinamen aggiungendo:  «Infine, se ogni moto è legato sempre ad altri e quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine certo, se i germi primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche inizio di movimento che infranga le leggi del fato così che da tempo infinito causa non sussegua a causa, donde ha origine sulla terra per i viventi questo libero arbitrio, donde proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati, in virtù della quale procediamo dove il piacere ci guida, e deviamo il nostro percorso non in un momento esatto, né in un punto preciso dello spazio, ma quando lo decide la mente? Infatti senza alcun dubbio a ciascuno un proprio volere suggerisce l’inizio di questi moti che da esso si irradiano nelle membra]»  Per quanto riguarda la sfera del vivente Lucrezio la collega direttamente agli atomi nel loro processo creativo, scrivendo:  «Così è difficile rescindere da tutto il corpo le nature dell'animo e dell'anima, senza che tutto si dissolva. Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall’origine, si producono insieme fornite d’una vita di eguale destino: ed è chiaro che ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra, le facoltà del corpo e dell’anima separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente comuni spira dall’una e dall’altra quel senso acceso in noi attraverso gli organi. Lucrezio riprende in maniera radicale la tesi già di Epicuro. La religione è la causa dei mali dell'uomo e della sua ignoranza. Egli ritiene che la religione offuschi la ragione impedendo all'uomo di realizzarsi degnamente e, soprattutto, di poter accedere alla felicità, da raggiungere attraverso la liberazione dalla paura della morte. Il poema ha come argomenti principali la lacerante antinomia fra ratio e religio, l'epicureismo e il progresso. La ratio è vista da Lucrezio come quella chiarità folgorante della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità», è il discorso razionale sulla natura del mondo e dell'uomo, quindi la dottrina epicurea, mentre la religio è ottundimento gnoseologico e cieca ignoranza, che lo stesso Lucrezio denomina spesso con il termine "superstitio". Indica l'insieme di credenze e dunque di comportamenti umani "superstiziosi" nei confronti degli dèi e della loro potenza. Poiché la religio non si basa sulla ratio essa è falsa e pericolosa. Afferma che sono evidenti le nefaste conseguenze della religione e adduce come esempio il caso di Ifigenia, dicendo poi che il mito è una rappresentazione falsata della realtà, come nell'Evemerismo. La religione è perciò la causa principale dell'ignoranza e dell'infelicità degli uomini. Lucrezio riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione atomistica e la "parenklisis" (che egli ribattezza clinamen), la liberazione dalla paura della morte, la spiegazione dei fenomeni naturali in termini meramente fisici e biologici. Egli opera un completamento di essa in senso naturalistico ed esistenzialistico, introducendo un elemento di pessimismo, assente in Epicuro, probabilmente da attribuirsi a una personalità malinconica. Da un punto di vista ontologico, secondo Lucrezio, tutte le specie viventi (animali e vegetali) sono state "partorite" dalla Terra grazie al calore e all'umidità originari. Ma egli avanza anche un nuovo criterio evoluzionistico: le specie così prodotte sono infatti mutate nel corso del tempo, perché quelle malformate si sono estinte, mentre quelle dotate degli organi necessari alla conservazione della vita sono riuscite a riprodursi. Tale concezione atea, materialista, antiprovvidenzialista e storica della natura sarà ereditata e rielaborata da molti pensatori materialisti dell'età moderna, in particolare gli illuministi Diderot, d'Holbach e La Mettrie, anch'essi atei dichiarati e a loro volta divulgatori dell'ateismo; Lucrezio sarà inoltre seguito da Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi. Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di tecniche, che sono trasposizioni della natura. Però, il progresso non è positivo a priori, ma solo finché libera l'uomo dall'oppressione. Se è invece fonte di degradazione morale, lo condanna duramente. Lucrezio introduce nel III libro del De rerum natura una chiarificazione che nel mondo latino era stata trascurata generando non poche confusioni, circa il concetto di “animus” in rapporto a quello di “anima” «Vi sono dunque calore e aria vitale nella sostanza stessa del corpo, che abbandona i nostri arti morenti. Perciò, trovata quale sia la natura dell'animo e dell'anima quasi una parte dell'uomo -, rigetta il nome di armonia, recato ai musicisti già dall'alto Elicona, o che essi hanno forse tratto d'altrove e trasferito a una cosa che prima non aveva un suo nome. Tu ascolta le mie parole. Ora affermo che l'anima e l'animo sono tenuti Avvinti tra loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il capo, per così dire, è il pensiero a dominare tutto il corpo: quello che noi denominiamo animo e mente e che ha stabile sede nella zona centrale del petto. Qui palpitano infatti l'angoscia e il timore, qui intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque la mente, l’animo. La restante parte dell’anima, diffusa per tutto il corpo, obbedisce e si muove al volere e all’impulso della mente. Questa da sé sola prende conoscenza, e da sé gioisce, quando nessuna cosa stimola l’anima e il corpo. Lucrezio riprende il concetto ellenico di anima come "soffio vitale che vivifica ed anima il corpo, ciò che i greci chiamavano psyché. Questo soffio pervade tutto il corpo in ogni sua parte e lo abbandona solo “con l'ultimo respiro". L'"animus" invece è identificabile col "noùs" ellenico, traducibile in latino con mens. Dunque animus e mens paiono essere o la stessa cosa o due elementi coniugati dell'unità mentale. L'indicazione della “zona centrale del petto” come sede fa pensare al concetto di “cuore”, ricorrente ancora oggi nel linguaggio comune per indicare la sensibilità umana, centro dell'emozione e del sentimento. Parrebbe allora che l'animus sia insieme e conoscenza e emozione, mentre l'anima è soffio vitale. L'angoscia esistenziale Il De rerum natura è ricchissimo di elementi tipici dell'esistenzialismo moderno, riscontrabile specialmente in Giacomo Leopardi, che dell'opera di Lucrezio era un profondo conoscitore, anche se in realtà non è noto il lasso di tempo in cui Leopardi lesse Lucrezio. Questi elementi di angoscia hanno indotto alcuni studiosi a sottolineare il pessimismo di fondo che si opporrebbe alla volontà di rinnovare il mondo a partire dalla filosofia epicurea; in altre parole, in Lucrezio ci sarebbero due spinte contrapposte; l'una dominata dalla razionalità e fiduciosa nel riscatto dell'uomo, l'altra ossessionata dalla fragilità intrinseca degli esseri viventi e dal loro destino di dolore e morte. Altri studiosi, però ritengono che l'insistenza di Lucrezio sugli aspetti dolorosi della condizione umana non sia altro che una strategia di propaganda, per fare emergere più fortemente la funzione salvifica della ratio epicurea. S'intende, ciechi alla dottrina di Epicuro.  Sul luogo di nascita: anche se c'è chi afferma fosse nato a Roma, si ritiene quasi all'unanimità che fosse originario della Campania: di Napoli, di Ercolano, o, secondo recenti studi epigrafici, di Pompei, dove il nomen e il cognomen Tito e Lucrezio sono attestati, e la gens Lucretia aveva delle ville cfr: Biografia di Lucrezio; o perlomeno vi avesse abitato a lungo cfr. Enrico Borla, Ennio Foppiani, Bricolage per un naufragio. Alla deriva nella notte del mondo, cfr. anche la Lucrezio Caro, Tito su Enciclopedia Treccani  Sulla data di nascita: molti optano per il 98 a.C. o secondo altri 96 a.C.  Secondo alcune fonti: Lucretius testimonia vitae  Luciano Canfora, Vita di Lucrezio, Sellerio,  o secondo altri 53 a.C., cfr. Paolo Di Sacco, M. Serio, "Odi et amoStoria e testi della letteratura latina"  1 "L'età arcaica e la repubblica", Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Sezione 2, Modulo. Testimonianze su Lucrezio  Canfora. Lucrezio, De rerum natura, Lucrezio, De rerum natura, Enrico Fichera, I "templa serena" e il pessimismo di Lucrezio: echi lucreziani nella letteratura, Roma, Bonanno edizioni, G. Lippold, Testo per Arndt-Bruckmann, Griech. u. röm. Porträts, Monaco. Enciclopedia dell'arte antica  Cfr. Gerlo, Benedetto Coccia, Il mondo classico nell'immaginario contemporaneo  Nel romanzo epistolare di Tiziano Colombi, Il segreto di Cicerone, Palermo, Sellerio, Nomi romani: glossario  Canfora, Cicerone, Ep. ad Quintum fratrem, II 9.  SLucrezio  Canfora, Classici: Lucrezio e il De rerum natura  Aldo Oliviero, Il suicidio di Lucrezio, su lafrontieraalta.com. Ettore Stampini, Il suicidio di Lucrezio, Messina, Tipografia D'Amico, La risposta di Virgilio a Lucrezio  Guido Della Valle (Napoli), pedagogista e docente universitario, autore di Tito Lucrezio Caro e l'epicureismo campano, Napoli, Accademia Pontaniana, Lucrezio in Enciclopedia Italiana  Lucrezio: informazioni biografiche  ibidem  La natura delle cose, Milano, Rizzoli, Eneide, libro VI.  La natura delle cose, cit. supra81.  Lucrezio, La natura delle cose,  La natura delle cose. Il De rerum natura di Lucrezio  Introduzione a Lucrezio accesso= Memmio su Enciclopedia Italiana  Lo stile di Lucrezio  C. Craca, Le possibilità della poesia. Lucrezio e la madre frigia in «De rerum natura» IBari, Edipuglia, Epicuro, Opere, E. Bignone, Laterza Lucrezio, La natura delle cose, Biagio Conte, Milano, Rizzoli,  La natura delle cose, cit. supra271.  De rerum natura, Diego Fusaro, Tito Lucrezio Caro, su filosofico.net. e rerum natura, VTasso segue Lucrezio stilisticamente, non ideologicamente: vedasi la famosa similitudine del proemio del libro IV, ripresa nel proemio della Gerusalemme liberate, La natura delle cose, cit. supra,  De rerum natura, Mario Pazzaglia, Antologia della letteratura italiana.  Lucrezio, introduzione Edizioni De rerum natura, (Brixiae), Thoma Fer(r)ando auctore, De rerum natura libri sex nuper emendati, Venetiis, apud Aldum, In Carum Lucretium poetam commentarij a Joanne Baptista Pio editi, Bononiae, in ergasterio Hieronymi Baptistae de Benedictis, De rerum natura libri sex a Dionysio Lambino emendati atque restituti & commentariis illustrati, Parisiis, in Gulielmi Rovillij aedibus, De rerum natura libri VI, Patavii, excudebat Josephus Cominus, De rerum natura libri sex, Revisione del testo, commento e studi introduttivi di Carlo Giussani, Torino, E. Loescher  (importante edizione critica, tuttora fondamentale). De rerum natura, Edizione critica con introduzione e versione Enrico Flores, 3 Napoli, Bibliopolis, Traduzioni italiane Della natura delle cose libri sei tradotti da Alessandro Marchetti, Londra, per G. Pickard. La natura, libri VI tradotti da Mario Rapisardi, Milano, G. Brigola, 1880. Della natura, Armando Fellin, Torino, POMBA. Della natura, Versione, introduzione e note di Enzio Cetrangolo, Firenze, Sansoni, La natura delle cose, Introduzione di Gian Biagio Conte, Traduzione di Luca Canali, Testo latino e commento Ivano Dionigi, Milano, Rizzoli, 1990. La natura, Introduzione, testo criticamente riveduto, traduzione e commento di Francesco Giancotti, Milano, Garzanti (Per la  specifica sul De rerum natura si rimanda a tale voce)  V.E. Alfieri, Lucrezio, Firenze, Le Monnier, A. Bartalucci, Lucrezio e la retorica, in: Studi classici in onore di Quintino Cataudella, Catania, Edigraf, M. Bollack, La raison de Lucrece. 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Refs.: Lucretius, in The Stanford Encyclopaedia.  Alma figlia di Giove, inclita madre  Del gran germe d'Enea, Venere bella,  Degli uomini piacere e degli Dei:   Tu che sotto i girevoli e lucenti  Segni del cielo il mar profondo, e tutta  D’ animai d'ogni specie orni la terra,   Che per se fora un vasto orror soUngo :   Te Dea , fnggono i venti: al primo arrivo  Tuo svaniscon le nubi: a te germoglia  Erbe e fiori odorosi il suolo indnstre :   Tu rassereni i giorni foschi, e rendi  Col dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo,  E splender fai di maggior lume il ciclo.  Qualor deposto il freddo ispido manto  L'anno ringiovanisce, « la soave  Aura feconda di Favonio spira,,   Tosto tra fronde e fronde i vaghi augelli. Feriti il cor da' tuoi pungenti dardi ,   Cantan festosi il tuo ritorno, o Diva;   Liete scorron saltando i grassi paschi  Le fiere , e gonfi di nuor' acqae i fìami  Varcano a nuoto e i rapidi torrenti:   Tal da' teneri tuoi rezzi lascivi  Dolcemente allettato ogni animale  Desioso ti segue ovunque il gnidi.   In somma tu per mari e monti e fiumi,  Pe'boschi ombrosi e per gli aperti campi,  Di piacevole amore i petti accendi,   E cosi fai che si conservi '1 mondo.   Or se tu sol della Natura il freno  Reggi a tua voglia , e senza te non vede  Del di la luce desiata e bella,   Nè lieta e amabil fassi alcuna cosa:   Te , Dea, te bramo per compagna all'opra,  In cui di scriver tento in nuovi carmi  Di Natura i segreti e le cagioni  Al gran Memmo Gemello a te si caro ,  In ogni tempo, e d’ogni laude ornato.   Tu dunque , o Diva , ogni mio detto aspergi  D’eterna grazia, e fa’ cessare intanto  E per mare e per terra il fiero Marte,   Tu, che sola puoi farlo : egli sovente  D’ amorosa ferita il cor trafitto  Umil si posa nel divin tuo grembo.   Or mentr’ ei pasce il desioso sguardo  Di tua beltà, ch'ogni beltade avanza,   E che l’anima sua da te sol pende,   Deh ! porgi a lui , vezzosa Dea , deh ! porgi  A lui soavi preghi , e fa'ch’ ei renda  Al popol suo la desiata pace.   Che se la patria nostra è da nemiche  Armi abitata, io più seguir non posso con animo quieto il preso stile,  nè può di Memmo il generoso figlio aS   l^egar sé stesso alla comaa salate.   Tu, gran prole di Memmo, ora mi porgi  Grate ed attente orecchie, e ti prepara,  Lungi da te cacciando ogni altra cura,   Alle vere ragioni , e non volere  I miei doni sprezzar pria che gl’ intenda. Io narrerotti in che maniera il cielo con moto alterno ognnr si volga c giri j  Degli Dei la natura, e delle cose  Gli alti principi , e come nasca il tutto ;  Come poi -si nutrichi, e come cresca,   Ed in che finalmente ei si risolva :   £ ciò da noi nell’avvenir dirassi primo corpo, materia, o primo seme, o corpo genitale , essendo quello  Onde prima si forma ogni altro corpo:   Che d'uopo é pur che’n somma eterna pace  Yivan gli Dei per lor natura , e lungi  Stian dal governo delle cose umane ,   Scevri d' ogni dolor, d’ogni periglio,  biechi sol di lor stessi, e di lor fuori di nulla bisognosi, e che nè metto  Nostro gli alletti, o colpa accenda ad ira.   Giacca l’ umana vita oppressa e stanca  Sotto religìon grave e severa.   Che mostrando dal ciel l’altero capo  Spaventevole in vista e minacciante ne soprasta. Un iiom d’Atene il primo e, che d’ergerle incontra ebbe ardimento  Gli occhi ancor che mortali, e le s’oppose.  Questi non paventò nè eie! tonante  Nè tremoto che ’l mondo empia d’ orrore ,  Nè fama degli Dei, nè fulmin torto j  Ma qual acciar su dura alpina cote quanto s’agita più tanto più splende. Tal dell’animo suo mai sempre invitto  Nelle difficoltà crebbe il desio   a    Di spezzar pria d'ogni altro i saldi chiostri,  E r ampie porte di Natura aprirne.   Cosi vins' egli , e con l' eccelsa mente  Varcando oltre a' confin del nostro mondo, e bastante a capir spazio infinito. Quindi sicuramente egli n’ insegna  Gid che nasca o non nasca, ed in qual modo  Ciò che racchiude l' Universo in seno  Ha poter limitato , e tcrmin certo :   E la religion co’pié calcata,   L' alta vittoria sua c’ erge alle stelle. Nè creder già che scelerate ed empie sian le cose eh’ io parlo. Anzi sovente  L' altrui religion ne’ tempi^antichi  Cose produsse scelerate ed empie.   Questa il fior degli eroi scelti per duci  Deir oste argiva in Aalide indusse  Di Diana a macchiar l' ara innocente  Col sangue d' Ifigenia , allor che cinto di bianca fascia il bel virgineo crine vid’ella a se davanti in mesto volto  Il padre, e alni vicini i sacerdoti  Celar 1’ aspra bipenne , e '1 popol tutto  Stillar per gli occhi in larga vena il pianto  Sol per pietà di lei , che muta e mesta  Teneva a terra le ginocchia inchine. Nè giovi punto all’innocente e casta povera verginella in tempo tale ,   Ch’ a nome della patria il prence avesse  All’ esercito greco un re donato ;   Che tolta dalle man del suo consorte  Fu condotta all’ aitar tutta tremante:   Non perchè terminato il sacrifizio,  legata fosse col soave nodo d’un illustre imeneo. Ma per cadere  Nel tempo stesso delle proprie nozze  A* piè del genitore ostia dolente per dar felice e fortunato evento  All' armata navale. Error si grave  Persuader la religion poteo. Tu stesso dall’orribili minacce de’ poeti atterrito, a i detti nostri di negar tenterai la fe dovuta. Ed oh, quanti potrei fìngerti anch'io  Sogni e chimere, a sovvertir bastanti  Del viver tuo la pace, e col timóre  Il sereno turbar della tua mente.   Ed a ragion, che se prescritto il fine vedesse l'uomo alle miserie sue. Ben resister potrebbe alle minacce  Delle religioni, e de' poeti.   Ma come mai resister può, s' ei teme  Dopo la morte aspri tormenti eterni.  Perchè dell' alma è a lui 1' essenza ignota:  S' ella sia nata, od a chi nasce infusa, E se morendo il corpo anch' ella muoia? Se le tenebre dense , e se le vaste  Paludi vegga del tremendo Inferno,   O s' entri ad informare altri animali  Per ^divino voler, siccome il nostro  Ennio cantò , che pria d' ogn' altro colse  In riva d'Elicona eterni allori.   Onde intrecciossi una ghirlanda al crine FRA L’ITALICA GENTI illustre c chiara?  Bench' ci ne' dotti versi affermi ancora  Che sulle sponde d' Acheronte s' erge  Un tempio sacro a gl' infernali Dei ,   Ove non 1' alme o i corpi nostri stanno.   Ma certi simulacri in ammirande  Guise pallidi in volto, e quivi narra d’aver visto l'imagine d’Omero  Piangere amaramente, e di Natura  Raccontargli i segreti e le cagioni.   Dunque non pnr de’più sublimi effetti Cercar le cause, e dichiarar conviensi  Della luna e del sole i morimenti.  Ma come possan generarsi in terra tutte le cose, e con ragion sagace principalmente investigar dell' alma,   £ dell'animo uman l’occulta essenza,   E ciò che sia quel, che vegliando infermi,  £ sepolti nel sonno, in guisa n'empie d’alto terror , che di veder presente  Parne , e d’udir chi già per morte in nude ossa ò converso, e poca terra asconde e so ben io qual malagevol’ opra   Sia r illustrar de’ Greci in toschi carmi  L’ oscure invenzioni, e quanto spesso  Nuove parole converrammi usare, non per la povertà della mia lingua ch’alia greca non cede , e più d’ ogn’ altra piena è di proprie e di leggiadre vocij ma per la novità di quei concetti  Ch’esprimer tento, e che nuli’ altro espresse.  Pur nondimcn la tua virtude ò tale,  e lo sperato mio dolce conforto  Della nostr’amistà, eh’ ognor mi sprona  A soffrir volentieri ogni fatica,   E m’induce a vegliar le notti intere,  sol per veder con quai parole io possa  Portare innanzi alla tua mente un lume,  Ond’ ella vegga ogni cagione occulta.   Or si vano terror , si cieche tenebre   Schiarir bisogna, e via cacciar dall’ animo nn co’ be’ rai del sol, non già co’ lucidi dardi del giorno a saettar poc’ abili fuorché 1’ ombre notturne e i sogni pallidi ,  Ma col mirar della Natura , e intendere  D’occulte cause e la velata imagine.  Tu, se di conseguir ciò brami, ascoltami. Sappi , che nulla per diyin volere  Pad dal nalla crearsi, onde il timore,  che qaind'il cor d'ogni mortale ingombra ,  Vano è del tutto, e se tu vedi ognora  Formarsi molte cose in terra e ’n cielo,  nè d'esse intendi le cagioni, e pensi  Perciò che Dio le faccia , erri e deliri.   Sia dunque mio principio il dimostrarti,  Che nulla mai si può crear dal nulla.  Quindi assai meglio intenderemo il resto  £ come possa generarsi il lutto  Senz'opra degli Dei. Or se dal nnlla-  Si creasser le cose, esse di seme  Non avrian d'uopo, e si vedrian produrre  Uomini ed animai nel seti dell' acque, nel grembo della terra uccelli e pesci, e nel vano dell’aria armenti e greggi;   Pe' luoghi culli, e per gl' inculti il parto  D'ogni fera selvaggia incerto fora;   Nè sempre ne darian gl'istessi frutti  Gli alberi , ma diversi ; anzi ciascuno  D' ogni specie a produrgli allo sarebbe.  Poiché come potrian da certa madre nascer le cose, ove assegnati i propri semi non fosser da ^Natura a tutte 1  Ma or perché ciascuna è da principi certi creala , indi ha il natale ed esce  Lieta a godere i dolci rai del giorno,   ov'è la sua materia e -i-vorpi primi:   E quindi nascer d'ogni cosa il tutto  Non può, perchè fra loro alcune certe cose hall l'interna facoltà distinta.   Inoltre ond' è che primavera adorna sempre è d’ erlie e di fior? che di mature  Biade all' estiv' arsura ondeggia il campo? e che sol quando Febo occupa i segni  O di Libra o di Scorpio, allor la vite  Suda il dolce liquor che inebria i sensi? Se non perché a'ior tempi alcuni certi  Semi in un concorrendo, atti a produrre  Son ciò che nasce, alJor che le stagioni  Opportune il richieggono, e la terra  «I Di rigor genital piena c di succo ,   Puote all’ aure inalzar sicuramente  Le molli erbette e l’altre cose tenere i che se pur generate esser dal nulla  Potessero, apparir dovrian repente  In contrarie stagioni e spazio incerto ,   Non vi essendo alcun seme , che impedito  Dall' Union feconda esser potesse  O per ghiaccio o per sol ne' tempi avversi.  Né per crescer le cose avrian mestiere di spazio alcuno in cui si unisca il seme,  i' elle fosser del nulla atte a nutrirsi. Ma nati appena i pargoletti infanti  Diverrebbero adulti , e in un momento  Si vedrebber le piante inverso il cielo  Erger da terra le robuste braccia.   Il che mai non succede. Anzi ogni cosa cresce, come conviensi , a poco a poco,   E crescendo, conserva e rende eterna  La propria specie. Or tu confessa adunque  Che della sua materia , e del suo seme  Nasce, si nutre e divien grande il tutto.   S’arroge a ciò, che non daria la terra il dovuto alimento ai lieti parti. Se non cadesse a fecondarle il seno  Dal del 1' umida pioggia, e senza cibo propagar non potrebber gli animali  La propria specie, e conservar la vita,   Ond' è ben verisimile, che molte  Cose molti fra lor corpi comuni  Àbbian, come le voci han gli elementij  Anzi, che sia senza principio alcuna.   In somma ond' è che non forma Natura uomini tanto grandi e si robusti, che potesser co’ piè del mar profondo varcar l’ acque sonanti e con la mano sveller dall’imolor l’alte montagne, e viver molt’ etadi , e molti secoli? L. is known only for his long poem De rerum natura in which he sets out the doctrines of the Garden. As the only substantial systematic work of the Garden to survive from antiquity it is a work of considerable significance. Unfortunately, it is difficult to judge how accurate an account of the school’s teaching as there is little with which to compare it. However, the Garden tended towards conservatism in doctrinal matters and so it isunlikely Lurezio strayed far from orthodoxy. The first two books of the poem are mainly concerned with espounding atomism, the middle two are concerned with human nature and knowledge, and the last to analyse a number of natural phenomena.  Tito Lucrezio Caro. Lucrezio. Luigi Speranza, "Grice, Lucrezio, e la natura delle cose," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Luigi Speranza, “Grice e Lucrezio: implicatura atomica” – “implicatura e composizionalita” – “implicatura elementare” – “implicatura simplex” “implicatura simplice” “implicatura complessa”, “alma figlia di Giove” --. Lucrezio.

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